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IL CONTAGIO E LA COLPA: IL RACCONTO DELLE EPIDEMIE NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA Rappresentazione e interpretazione del contagio nelle opere di Albert Camus, Gesualdo Bufalino, Philip Roth e Joan London

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IL CONTAGIO E LA COLPA: IL

RACCONTO DELLE EPIDEMIE NELLA

LETTERATURA CONTEMPORANEA

Rappresentazione e interpretazione del contagio nelle opere di Albert Camus, Gesualdo Bufalino, Philip Roth e Joan London

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IL CAMPO DI RICERCA

In questi tempi un po’ particolari, oggetto della nostraricognizione vuole essere la rappresentazione delcontagio nella letteratura moderna e contemporaneadei Paesi appartenenti, dal punto di vista culturale, almondo occidentale: quei Paesi la cui popolazione, inanni recenti, ha avuto meno familiarità con l’esperienzadi epidemie terribili capaci di stravolgere il suo stile divita.

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LA CHIAVE DI LETTURA

La particolare prospettiva dalla qualecondurremo la nostra indagine sarà quella checontempla, come chiave di lettura, il rapportotra il fenomeno biologico della diffusione delleepidemie e il meccanismo psicologico che portaa collegare il contagio al concetto di naturaetica di “colpa” (una colpa che, come vedremo,è spesso connessa con una interpretazionetrascendente del contagio stesso).

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LE EPIDEMIE NELLA STORIA DELL’UMANITÀ

Le epidemie hanno sempre fatto parte dellastoria dell’umanità. Vi sono storici cheritengono anzi che molte delle svolte epocalinella storia dell’uomo abbiano avuto comeconcausa, se non come causa principale, ladiffusione di epidemie.

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Nicolas Poussin, La peste di Ashdod, 1631Parigi, Louvre

Così il Signore mandò la peste in

Israele, da quella mattina fino al

tempo fissato; da Dan a Bersabea

morirono settantamila persone del

popolo.16 E quando l'angelo ebbe

stesa la mano su Gerusalemme per

distruggerla, il Signore si pentì di

quel male e disse all'angelo che

distruggeva il popolo: «Basta; ritiraora la mano!». (Secondo Libro diSamuele, 24,15-16)

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Michiel Sweerts, La peste di Atene, 1652Los Angeles, County Museum of Art

I medici non riuscivano afronteggiare questo morbo ignotoma, anzi, morivano più degli altri, inquanto più degli altri siavvicinavano ai malati, né alcunatecnica umana veniva loro insoccorso. Dapprima, a quanto sidice, la peste incominciò in Etiopia,poi passò anche in Egitto e in Libia,e nella maggior parte della terra delre.

Ad Atene piombò improvvisamente,e dapprima contagiò gli abitanti delporto, così che gli ateniesisostennero che i Peloponnesiaciavevano gettato dei veleni neipozzi; poi raggiunse anche la cittàalta, e iniziò a ucciderne molti dipiù. (Tucidide, La guerra delPeloponneso II, 47-53)

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Trionfo della Morte, 1446 caPalermo, Palazzo Abatellis

Dico adunque che già erano gli

anni della fruttifera incarnazione del

Figliuolo di Dio al numero pervenuti

di milletrecentoquarantotto, quando

nella egregia città di Fiorenza, oltre

a ogn’altra italica bellissima,

pervenne la mortifera pestilenza: la

quale, per operazion de’ corpi

superiori o per le nostre inique

opere da giusta ira di Dio a nostra

correzione mandata sopra i mortali,

alquanti anni davanti nelle parti

orientali incominciata, quelle

d’inumerabile quantità de’ viventi

avendo private, senza ristare d’un

luogo in uno altro continuandosi,

verso l’Occidente miserabilmentes’era ampliata. (Boccaccio,Decameron)

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Cerano, San Carlo visita gli appestati, 1603Quadroni del Duomo di Milano

Per tutta adunque la striscia di

territorio percorsa dall’esercito,

s’era trovato qualche cadavere

nelle case, qualcheduno sulla

strada. Poco dopo, in questo e in

quel paese, cominciarono ad

ammalarsi, a morire, persone,

famiglie, di mali violenti, strani, con

segni sconosciuti alla più parte de’

viventi. C’era soltanto alcuni a cui

non riuscissero nuovi: que’ pochi

che potessero ricordarsi della peste

che, cinquantatré anni avanti,

aveva desolata pure una buona

parte d’Italia, e in ispecie il

milanese, dove fu chiamata, ed ètuttora, la peste di san Carlo.(Alessandro Manzoni, I promessi sposi,cap. XXXI)

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Indios colpiti dal Vaiolo, prima metà del XVI secoloBernardino de Sahgun, Codice fiorentino,Firenze, Biblioteca Laurenziana

Fra gli esempi riportati più spessodagli storici per illustrare il peso delleepidemie in alcuni degli snodiimportanti nella storia dell’umanitàc’è quello del concorso del vaiolo –portato dai colonizzatori del Nuovomondo – nello sterminio dei popoliamerindi, sprovvisti, dal punto divista immunitario, delle difesenecessarie

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William H. McNeill, La peste nella storia, 1974

Uno dei libri che meglio analizza la

frequenza e l’incidenza delle epidemie

nella storia dell’umanità, con grande

rigore scientifico e una straordinaria

messe di dati documentari, è La peste

nella storia dello storico canadese

William McNeill, pubblicato per la

prima volta nel 1974.

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Scrive McNeill a conclusione del suo saggio:

Le malattie infettive che

precedettero l’emergere del

genere umano dureranno

quanto l’umanità stessa e

rimarranno certamente, come

lo sono state finora, uno

dei parametri e degli

elementi fondamentali della

storia umana.

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Il problema è che l’uomo non ha mai imparato a guardare alleepidemie come a «uno dei parametri e degli elementifondamentali della storia umana» e ad affrontarle in manierarazionale; il loro carattere episodico ed estremamentedistruttivo, come in un certo senso è comprensibile, ci porta aconsiderarle alla stregua di un evento eccezionale e a cercare peril loro avvento non tanto una causa scientifica quanto unaspiegazione straordinaria, che pretende di avere un fondamentomorale, e magari è dettata dalla rabbia, dall’angoscia ocomunque dalla pura emotività.

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L’Aids come punizione divina e vergogna da nascondere

Per trovare un esempio che illustra allaperfezione questa tendenza, più ancora che allacronaca delle reazioni al Coronavirus ci si puòrifare all’atteggiamento della maggior partedelle persone di fronte a quella che è stata, eforse è tuttora la pandemia più grave dei nostritempi, quella dell’Aids (cosa della quale pure,ultimamente, si tende a dimenticarsi).

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Aldo De Matteis, Almanacco di attualità, 2020

Queste le dimensioni del problemacome sono rappresentate nell’ultimaedizione dell’Almanacco di Attualità:

L’Aids costituisce ancora

oggi uno dei maggiori

problemi che affliggono il

mondo: dall’inizio

dell’epidemia fino al 2013

sono state più di 78

milioni le persone

contagiate e 39 milioni i

morti. Nel 2015 sono stati

560 i morti in Italia. Il

numero di decessi per anni

continua a diminuire,

passando da 1,9 milioni

del 2004 a 940mila nel

2017.

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Siccome le modalità di trasmissione del virusdell’Aids facevano sì, soprattutto all’inizio delcontagio, nei primi anni ottanta, che ad essernecolpiti fossero soprattutto tossicodipendenti eomosessuali maschi, nell’opinione pubblica èserpeggiata per lungo tempo l’idea che il fatto diessere ammalati di Aids o sieropositivi fosse unasorta di stigma, una vergogna da nascondere.

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La letteratura – che è uno specchio fedele della realtà e,soprattutto quando è buona letteratura, ci permette dicogliere aspetti di noi stessi di cui di primo acchito non ciaccorgiamo – documenta alla perfezione la persistenza diquesti meccanismi psicologici, che crediamo non ci sianopropri, o attribuiamo esclusivamente ad epoche passate: aquella della peste raccontata nella Bibbia, a quella di Tucidide,a quella di Boccaccio o, magari, a quella della peste raccontatadal Manzoni, un autore opportunamente molto citato, inquesto periodo, fra quanti incrociano i programmi scolastici.In realtà anche in alcune delle espressioni più interessantidella letteratura contemporanea se ne trova tracciaevidente.

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Per cercare di dimostrare quanto dico e per

illustrare come quel modo di ragionare perdura

nel presente, proverò a prendere in

considerazione quattro romanzi (e un saggio)

“contemporanei”, vale a dire pubblicati dal

secondo dopoguerra in poi, per arrivare fino ai

giorni nostri: tutte opere che raccontano la vita

ai tempi del contagio.

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Testi

• Albert Camus, La peste (1947)

• Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore (1981)

• Philip Roth, Nemesis (2010)

• Joan London, The Golden Age (2014)

• Susan Sontag, Illness as a Metaphor (1977)

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Non sono questi, naturalmente, gli unici libri che tematizzanoil fenomeno del contagio. Vi sono ad esempio, Cecità di JoséSaramago (1995) o, nell’ambito della letteratura di genere,L’ombra dello scorpione di Stephen King (1978), Abisso diDean Koontz (1980) e Zona Uno di Colson Whitehead (2013).Questi sono però tutti romanzi che, a un livello di complessitàletteraria molto diverso l’uno dall’altro, sono più interessatialla rappresentazione a tinte fosche del mondo in un’otticapost-apocalittica, oppure all’analisi delle conseguenze diun’epidemia dal punto di vista politico-antropologico, che allamessa a fuoco e allo sviluppo narrativo del tema dellareazione psicologica al contagio e all’esplorazione deimeccanismi ad essa connessi.

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Albert Camus: la lotta al contagio e la logica della colpa

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Albert Camus, La peste

Il testo da cui si è quasi obbligati a

partire per sviluppare un percorso

del genere è La peste di Albert

Camus, che risale al 1947. Il

romanzo racconta un’epidemia di

peste che colpisce la città di

Orano, in Algeria nel corso degli

anni quaranta, mentre il Paese si

trova sotto il dominio francese:

isolata dal mondo attraverso un

“cordone sanitario” per evitare

che il contagio si diffonda, la città

diventa una specie di lazzaretto,

lo scenario di un teatro macabro

in cui egoismo, disperazione,

generosità, angoscia, indifferenza,

cinismo, solidarietà convivono e si

avvicendano nei comportamenti

degli abitanti.

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Il libro

Come è noto, protagonista del libro è ildottor Bernard Rieux, che rimane in cittàdopo aver fatto partire la mogliegravemente malata per la località in cuiè destinata a curarsi. Allo scoppiodell’epidemia, il medico si trova in primalinea nella cura ai malati. Dalla suaposizione privilegiata può così registrarelo sviluppo del contagio e le diversereazioni dei cittadini di fronte alla suadiffusione. Al peggiorare dellasituazione vengono spazzate via tutte lepretese dei singoli individui didominare o di «comprendere» la logicadel morbo. Solo quando tutto sembraperduto le cose comincianoinopinatamente a migliorare; non prima,però, che si registri la morte di alcuni deipersonaggi principali.

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L’interpretazione del libro insiste sull’allegoria per cui il diffondersi della pesterichiamerebbe in generale il male del mondo e in particolare il cancro politico delnazismo.

Quello che però più ci interessa qui sono le reazioni degli uomini di fronte all’epidemiacome le racconta l’autore.

A questo proposito, in maniera specifica, pare significativa la predica che una voltaacclarata la diffusione in città della peste pronuncia padre Paneloux dal pulpito dellacattedrale durante la messa della domenica.

Ora, nel libro gli abitanti di Orano vengono definiti “non particolarmente religiosi” e ilpadre, un colto gesuita, non è certo un bigotto: lo si descrive come «ugualmentelontano dal libertinaggio moderno e dall’oscurantismo dei secoli passati»; è, insomma,quello che oggi diremmo un moderato. E tuttavia, sotto la minaccia della malattia, siinnesca una sorta di infatuazione collettiva per la trascendenza che coinvolge il pretecome i cittadini; così la domenica la cattedrale, contro ogni aspettativa e ogniabitudine, si presenta traboccante di fedeli, e il padre così parla al suo uditorio:

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“Fratelli miei, voi siete nella sventura, fratelli miei,

voi lo avete meritato” […]

“Se oggi la peste vi guarda, vuol dire che il momento di

riflettere è venuto. I giusti non possono temere, ma i

malvagi hanno ragione di tremare. Nell’immenso granaio

dell’universo il flagello implacabile batterà la messe

umana sino a che la paglia sia divisa dal grano. Ci sarà

più paglia che grano, ci saranno più chiamati che eletti e

la sventura non è stata voluta da Dio. Troppo a lungo il

mondo è venuto a patti col male, troppo a lungo si è

riposato sulla misericordia divina” […]

“La mano che vi tenderà (l’angelo della peste) nessuna

potenza terrestre e nemmeno, sappiatelo bene, la vana

scienza degli uomini, potrà farvela evitare”

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Pur di accreditare un’interpretazione trascendente del flagello, il padre arriva quasiaddirittura a compiacersi del contagio:

“Molto tempo fa, i cristiani d’Abissinia vedevano nella

peste un mezzo efficace, d’origine divina, per guadagnare

l’eternità… Ai nostri spiriti più chiaroveggenti mette

soltanto in rilievo il prezioso bagliore d’eternità che

giace in fondo a ogni sofferenza”

E ancora, per concludere la predica:

“Oggi ancora, per questo tragitto di morte, d’angosce e di

clamori, ci guida verso il silenzio essenziale e verso il

principio di ogni vita. Ecco, fratelli miei, l’immensa

consolazione che volevo recarvi, sì che non siano soltanto

parole di castigo quelle che porterete via di qui, ma

anche un verbo che acquieta.”

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Il padre, prima della fine del romanzo, quando sarà ormai chiaro come il male colpiscenel mucchio, non fa distinzioni e non risponde a un disegno preciso, morirà a sua volta– come molti altri personaggi di primo piano del romanzo -, quasi per ironia deldestino.

All’atteggiamento di Paneloux fa da curioso controcanto quello di un altro personaggiodel romanzo, Jean Tarrou, che possiamo considerare una sorta di secondoprotagonista del libro dopo Bernard Rieux.

Tarrou è figlio di un giudice, avrebbe dovuto ripercorrerne le orme, ma si è allontanatodalla famiglia dopo aver visto il padre condannare a morte un uomo. Tarrou vive conprofonda frustrazione l’inevitabilità del giudizio morale, l’impossibilità di vivere senzacondannare e condannarsi, e ritiene che solo partendo dalla consapevolezza di questatendenza, di questa tara, di questa “peste interiore”, l’uomo può cercare di viveresenza fare del male ai propri simili o facendo loro meno male possibile. In questo lo sipuò considerare, in parte, una sorta di portavoce dell’autore.

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Per Camus, infatti, semplicemente, il male nelmondo esiste, per quanto ci appaia assurdo e nonspiegabile, e non c’è bisogno di ricorrere a nessunatrascendenza per giustificarlo, né serve scovare epunire dei presunti responsabili anche quando lacolpa di costoro è tutt’altro che evidente; piuttosto,si deve reagire solidaristicamente ad esso, ecombatterlo con le armi che si hanno adisposizione.

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Susan Sontag, Malattia come metafora, 1977

Mi piace qui sottolineare il fatto chequello che Camus ci suggerisceimplicitamente richiama un po’quanto, una trentina di anni dopovenne teoreticamente esplicitato dauna delle più acute e originalipensatrici americane della secondametà del Novecento, Susan Sontag,che in Malattia come metafora, nel1977, parlando in realtà del cancroche in quegli stessi anni l’avevacolpita, analizza la tendenza nelmalato a sviluppare una sorta disenso di colpa, a vedere la malattiacome un misterioso castigo.

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Il libroRiprendendo in altra chiave le ideeespresse in Contro l’interpretazione(risalente alla fine degli anni sessanta),l’autrice denuncia la pretesa diattribuire un significato alla malattiacome un tentativo di proiettare su unevento privo di significato dal punto divista etico gli attributi del propriomoralismo. Scrive Susan Sontag nelleprime pagine del suo saggio:

“La malattia non è una

metafora, e uno dei

modi più onesti di

guardare alla malattia

– e uno dei modi più

sani di essere malati –

è quello che si depura

e si difende dal

pensiero metaforico”

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Il “pensiero metaforico”, per la Sontag, è quello che conduce a unainterpretazione trascendente della malattia, a una sua giustificazione super-naturale (se non proprio sovrannaturale), che è inevitabilmente connessaall’idea della malattia come conseguenza di una colpa o come punizione; èinsomma un modo di avvalorare i più triti stereotipi irrazionali e i peggioripregiudizi.

Eppure spesso, senza che ci si renda perfettamente conto della cosa, questatendenza all’interpretazione metaforica della realtà, con tutti i pregiudizi adessa collegati, perdura e opera in noi e ci conduce a deformazioni a voltegrottesche del mondo.

Teniamo presenti questi concetti per verificare come essi risultino operantianche in opere narrative a noi più vicine cronologicamente rispetto a quella diCamus.

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Gesualdo Bufalino: il contagio e il rovesciamento della logica della colpa

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Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore

Prendiamo un altro testosignificativo: Diceria dell’untore diGesualdo Bufalino.

Il libro fu pubblicato nel 1981 altermine di una lunghissimagestazione (iniziato negli annicinquanta, poi abbandonato eripreso nel decennio precedentela sua uscita).

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Il libro

Il protagonista è un reduce della Seconda guerramondiale che, malato di tisi, viene ricoverato nelsanatorio della Rocca, sopra Palermo. Qui, fra gli altridegenti, incontra Marta, ex ballerina classica alla Scaladi Milano ed ex amante di un ufficiale tedesco durantel’occupazione nazista; per questo è stata trattata allastregua di una collaborazionista e dunque rasata a zerodai partigiani per stigmatizzarla e umiliarla dopo laLiberazione.

La figura di Marta oscilla, agli occhi del lettore e delprotagonista stesso, tra l’assoluta innocenza e la colpapiù grave, di cui la malattia sembra la giustapunizione.

Con Marta, il protagonista-narratore a un certo puntofuggirà dal sanatorio alla ricerca di una vita diversa, masolo per vedere morire la compagna ormai strematadalla tubercolosi, e per scoprire che il suo vero nome èLevi e le sue origini sono ebraiche. Questonaturalmente rimette in discussione tutta la vicendadella ragazza e, di conseguenza, la sua possibileinterpretazione.

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Ecco come racconta Marta – nella stile estremamente ricco, suggestivo e“baroccheggiante” di Bufalino – la sua colpa, e come collega il suo castigo mancato, osolo parziale, al sorgere della malattia:

“Sì, i capelli me li tosarono per questo, qualche giorno

dopo, in città. Per essere stata con lui fino alla fine. E

dissero che lui aveva fatto una cosa. […] Vivevo in una

pensione di lusso, soldi ne avevo tanti. Ma uscire divenne

un’avventura mortale, da quando […] seppi ch’erano tornati

a cercarmi, ci avevano ripensato. Allora cominciai a

fuggire […]. A volte, mentre aspettavo che il semaforo

cambiasse colore, mi bastava restare chiusa fra gomiti e

dorsi, ed ecco non sapevo che mettermi a tremare, fossero

pure innocenti gli occhi che sentivo posarsi sulla mia

zazzera scarsa, la mia spudorata flagranza. […] Infine

sputai sangue, e l’epilogo si scrisse da sé.”

L’insorgere della malattia sembra sancire la necessità quasi metafisica che Martasubisca la giusta punizione.

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Ed ecco però come il protagonista, dopo la morte della ragazza, scopre che ilcollegamento tra la malattia di Marta e la sua presunta colpa è purasuggestione, sofisticata fantasia:

…mi resi conto d’improvviso che a quel Blundo, sottocui la schedavano alla Rocca, non avevo maiveramente creduto. Fu un responso quale da un pezzotemevo, né potevo più eluderlo, quello che ilpassaporto mi offrì, pescato fra i bastoncini dirossetto e lime e fasci di dollari e Am-lire: Levi,un cognome da mormorare all’orecchio. Non midomandai fino a che punto esso quadrasse con imonconi di biografia che sapevo o credevo di saperedi lei; e quanto sinistramente quel bagliore distella gialla potesse risarcirne il testo. Non era

tempo di polizia ma di pietà.

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A differenza della sua amata, il protagonista non morirà,

ma vivrà la sua guarigione come un tradimento del

destino condiviso con tutti i suoi compagni di degenza: un

destino che certifica che il male sussiste senza colpa.

Rimane però in lui l’impressione di aver disertato: una

sorta di senso di colpa rovesciato generato dalla

malattia. Il riscatto da quella sorta di “diserzione” che la

guarigione comporta passerà per la stesura della storia

che ha come destinatario finale il lettore.

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Philip Roth: il contagio e l’interiorizzazione della logica della colpa

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Philip Roth, Nemesi

Anche uno dei maggiori narratoriamericani contemporanei, PhilipRoth – che con la questione delsenso di colpa legato all’identitàebraica ha spesso fatto i conti –ha avuto modo di confrontarsicon i risvolti psicologici delladiffusione di un’epidemia. Roth, inNemesis (romanzo del 2010),racconta la vicenda di Eugene“Bucky” Cantor, un giovanepreparatore atletico coraggioso eresponsabile che, nel 1944, aNewark, allena un gruppo diragazzini ebrei.

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Il libro

Bucky non ha potuto partire per l’Europa, dove letruppe statunitensi sono impegnate nella guerra, acausa di un difetto alla vista, e questo è per lui ungrande cruccio che nel contempo lo spinge aimpegnarsi con particolare zelo a beneficio dellacomunità di cui fa parte e lo espone al senso dicolpa in caso di fallimento.

Allo scoppio di un’epidemia di poliomielite (malattiache all’epoca mieteva moltissime vittime, specie trai giovanissimi), Bucky fa di tutto per proteggere iragazzini che gli sono stati affidati, e lo fa confermezza e razionalità.

Quando però scopre di essere diventatoinvolontario veicolo di contagio per molti dei suoiragazzi, Bucky non può fare a meno di ritenersiresponsabile di una colpa che in realtà non ha maicommesso (un senso di colpa vieppiù accresciutodal fatto che alcuni dei ragazzi moriranno), e sipunisce assurdamente rinunciando alla splendidaragazza che ama, riamato, e costringendosi a unavita strozzata, fra i disagi della disabilità che lapoliomielite ha lasciato in eredità anche a lui.

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Ecco come, all’inizio dell’epidemia, quando è ancora in assoluto controllo della situazione ed è

determinato a fare scrupolosamente il proprio dovere, Bucky Cantor parla ai suoi allievi:

“Ragazzi, - aveva detto radunandoli nel campo da gioco prima che

si disperdessero per la cena, - non voglio che vi facciate

prendere dal panico. La polio è una malattia con cui dobbiamo

convivere ogni estate. È una malattia grave, in circolazione fin

da prima che io nascessi. Il modo migliore per affrontare la

minaccia della polio è essere forti e in salute. Cercate di

lavarvi bene tutti i giorni, di mangiare correttamente, di non

farvi mancare le vostre otto ore di sonno e di bere i vostri otto

bicchieri di acqua al giorno, e di non cedere alle preoccupazioni

e alle paure […] Se qualcuno di voi sta male, ovviamente deve

dirlo ai suoi genitori e restare a casa e badare a se stesso

finché il medico non lo avrà visitato e starà di nuovo bene. Ma

se vi sentite in forma, non esiste ragione al mondo perché non

possiate essere attivi quanto vi pare per tutta l’estate”.

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Come detto, però, molti suoi ragazzi si ammalano, e Bucky si ammala a sua volta: l’epidemia, perironia della sorte, scoppia in tutta la sua virulenza proprio nell’unico momento in cui egli abbassala guardia, e – sistemati i suoi allievi nel campeggio che è meta della loro escursione – si mette adamoreggiare con Marcia.

Molto lucidamente, per bocca del suo narratore, un ex allievo di Bucky Cantor rimasto anch’eglimenomato per aver preso la polio ma, a differenza di Bucky, capace di costruirsi una vita normalee perfettamente soddisfacente, Philip Roth, con la sua scrittura affilata ed efficacissima, cosìdescrive la trappola psicologica di cui cade vittima il protagonista:

Bucky non riusciva ad accettare che l’epidemia di polio fra i

bambini di Weequahic e del campo di Indian Hill fosse stata una

tragedia. Doveva trasformare la tragedia in colpa. Doveva trovare

una necessità a quanto accaduto. C’è un’epidemia e lui ha bisogno

di trovarne la ragione. Deve chiedere perché. Perché? Perché? Che

si tratti di qualcosa di insensato, contingente, incongruo e

tragico non lo soddisfa. Cerca invece una causa più profonda,

questo martire, questo maniaco del perché, e trova il perché o in

Dio oppure in se stesso oppure, misticamente, misteriosamente,

nel loro letale fondersi nell’unico distruttore.

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Per Bucky l’imperativo è dunque “trasformare la

tragedia in colpa”, cercare un perché in una

trascendenza – magari anche sadica – a una

tragedia che, per quanto possa apparire assurda,

secondo il narratore ha invece una spiegazione

solo nei meccanismi della natura e della scienza.

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Joan London: il contagio e il superamento della logica della colpa

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Joan London, L’età d’oro

Un atteggiamento tutto diverso

rispetto a quello di Bucky Cantor

troviamo nei protagonisti di un

bel romanzo, uscito nel 2014,

opera di una scrittrice australiana,

Joan London. Il romanzo di

intitola The Golden Age (in

italiano il titolo è stato tradotto

con L’età d’oro).

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Il libro

La vicenda narrata è ambientata nel convalescenziario diGolden Age, nei pressi di Leederville, non lontano da Perth, inAustralia occidentale, dove nel 1954 sono ospitati gliadolescenti vittime di un’epidemia anche in questo caso dipoliomielite. Fra i pazienti vi è Frank Gold, un tredicenne figliodi una coppia di ebrei ungheresi emigrati in Australiadall’Europa per sfuggire alle persecuzioni naziste. I genitoriripongono in Frank tutte le speranze per un futuro migliore,per lui hanno fatto molti sacrifici, e perciò la sua malattiarisulta soprattutto per loro un colpo durissimo.

Il convalescenziario è un mondo a parte: molti dei giovaniospiti, rinchiusi in un polmone d’acciaio, non torneranno più auna vita normale, e porteranno permanentemente sul corpole conseguenze della malattia, quasi fosse un castigo divino.

Ma Frank non è tipo da arrendersi al suo destino: nel centro dirieducazione conosce Elsa, una graziosa dodicenne di cui siinnamora.

Quando Frank ed Elsa, una notte, vengono trovati nello stessoletto a scambiarsi effusioni, il severo Consiglio diamministrazione dell’ospedale, composto per lo più da bigottiche si ritengono filantropi, decide per l’espulsione dei duegiovani e il licenziamento in tronco dell’infermiera cheavrebbe dovuto sorvegliarli.

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In tutta la prima parte del romanzo, il collegamento della malattia con una volontàtrascendente è - si può dire - condiviso da tutti i personaggi del libro, siano essi igiovani malati, i loro genitori o le infermiere stesse. Elsa, ad esempio, da sola nel suoletto, completamente immobilizzata dalla poliomielite, viene colta dal narratore apensare e a pregare in questo modo:

“Dio dimmi cosa devo fare” aveva pregato nei momenti

peggiori, ma non aveva ricevuto risposta. Doveva esistere

una ragione, qualcosa che Lui voleva, per tutto quel

dolore.

E quando suo padre Jack, in vistoso imbarazzo, conduce la zia di Elsa - sua cognata - alcapezzale della figlia, questi sono i pensieri che la ragazza, avvertendo tutto il suoimpaccio e la sua difficoltà, istintivamente gli attribuisce:

Era umiliante avere una figlia che si era presa la polio.

Elsa aveva coperto di vergogna la famiglia. La gente si

teneva lontano dai parenti delle vittime della malattia.

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Anche il padre di Frank, Meyer – che già sente il peso di tutti i sacrifici dovuti all’emigrazione, e al

fatto di essersi dovuto reinventare operaio, lui che è un uomo di estrazione borghese e di

eccellente cultura mitteleuropea –, pensa alla malattia del figlio come a una sventura che gli è

piovuta addosso come una maledizione, come uno scherzo perfido giocato a tutti loro da

un’entità superiore, maligna e beffarda:

Di tutte le prove che aveva dovuto subire, questa era

stata quasi sul punto di distruggere Meyer, anche se Frank

non l’avrebbe mai saputo. Come se una maledizione li

avesse inseguiti dal vecchio mondo e non avesse ancora

finito con loro; come se avesse ancora il più crudele

degli assi nella manica. Non essere riuscito a proteggere

il figlio coronava il suo senso di fallimento, di

impotenza.

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Al cospetto di questo opprimente, cupo, senso di colpa, il fresco legame che nasce tra Frank ed Elsa diventa

occasione di rinascita, un modo per sentirsi di nuovo vivi e perfettamente padroni di sé, di non dovere

rendere conto di nulla a nessuno, di spazzare via ogni stupido, irrazionale imbarazzo nutrito nei confronti dei

«sani» per il semplice fatto di essere stati colpiti dalla malattia.

Così sono rappresentati e descritti, in pagine molto raffinate dal punto di vista letterario, i sentimenti dei due

ragazzi adottando il loro stesso punto di vista. Prendiamo prima lo sguardo di Frank, che rimane solo con Elsa la

sera in cui sua madre Ida, che in Ungheria era stata una grande pianista, accetta di esibirsi con un po’ di

riluttanza al Golden Age nell’ambito di un’iniziativa di raccolta fondi a beneficio della struttura:

Frank ed Elsa cominciarono a salire la rampa di uscita. Con i tutori alle

gambe, tenendosi per mano per mantenere l’equilibrio, attraversarono

l’atrio senza una parola e uscirono sulla veranda. Erano stanchi di stare

in mezzo agli altri. Com’era bello sedersi fianco a fianco soli, i volti

illuminati dalla luce della Fabbrica dei Reticolati, il cui pulsare era

come il battito del cuore della loro esistenza. […]Sospirarono per la

gratitudine di essere insieme. Accanto a Elsa Frank si calmava. Era un

sollievo non doversi più preoccupare di sua madre.

[…]Per un po’ rimasero in silenzio. Frank sentiva che la musica era ancora

con lui. Riascoltare quei pezzi era stato come ricongiungersi a una parte

di sé, anche se non l’avrebbe mai detto a Ida. Per la prima volta da quando

si era ammalato si sentiva forte.

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Ed ecco il punto di vista di Elsa:

Quand’è che tutto aveva iniziato a cambiare?

All’improvviso il viso di Frank le era divenuto familiare.

Non bello, non brutto, ma uguale al suo, una specie di

gemello, uno specchio. Il loro legame sembrava colmare

l’aria che li circondava. Dal momento in cui si

svegliavano, alla luce che splendeva dietro le lunghe

tende bianche dei loro dormitori separati, aspettavano solo

di riunirsi. […]

E ancora:

Stare vicini li rendeva più forti. Si fermavano a parlare

in veranda o nel prato sul retro. I loro volti avevano

preso colore. Ormai da settimane avevano cominciato a

condividere la fatica solitaria della riabilitazione, e

facevano insieme gli esercizi. La fisioterapista scozzese

lodava il loro impegno e i loro rapidi progressi.

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Dopo l’incidente della scoperta di Frank nel letto della ragazza, nessuna comprensione vienedimostrata dagli adulti per i loro sentimenti, e per l’importanza che il legame che si è creatoavrebbe nel favorire il cammino dei due ragazzi verso la guarigione e il ritorno al mondo.

Questo il racconto della severa “sentenza” emessa dal consiglio di amministrazione:

Alla fine fu deciso che dovevano andarsene tutti e due.

Quando la interrogarono Elsa non dichiarò che Frank avesse

agito contro il suo volere. Non disse neanche una parola.

Al suo arrivo aveva visto una serie di volti così vecchi e

cupi, così pieni di ipocrisia, così aggrottati per la

disapprovazione da avere le mascelle cascanti e gli occhi

bassi.

Espulsione, per i due ragazzi, vuol dire non poter completare il percorso rieducativo e averemaggiori probabilità di rimanere menomati: per i membri del Consiglio di amministrazione ècome se Frank ed Elsa avessero osato sfidare quel Dio che, dopo averli colpiti una prima volta,aveva concesso loro una seconda possibilità, e per questo meritano di essere puniti.

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La cosa interessante è che Frank dal canto suo riesce a comprendere perfettamente la logica deisuoi accusatori, a leggerne in filigrana le implicazioni e, di conseguenza, a rifiutarla recisamente.

Così ripensa a quello che gli è successo, con rammarico e con rabbia, ma anche con assolutalucidità:

Quello che gli faceva male era la mancanza di fiducia in

lui da parte del Golden Age. La mancanza d’amore. […]

Giorno e notte si portava dentro il desiderio di lei. Solo

grazie ai libri riusciva a liberarsi di quel senso di

panico, all’idea di essere stato scartato, dimenticato,

buttato fuori.[…]

E poi arriva il suo proposito espresso con forza:

Doveva cambiare il proprio destino.

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Per fortuna i genitori dei due ragazzi la pensano diversamente daiseveri membri del Consiglio di amministrazione e consentono ai proprifigli di continuare a vedersi anche al di fuori del luogo di cura.

Anche se, crescendo, il destino li separerà, Frank ed Elsa imparerannoa non crogiolarsi nell’autocommiserazione e a non restare prigionieridel senso di colpa, ma a cercare di essere padroni della propria vita,lasciandosi alle spalle la malattia; il loro affetto sarà il propellenteiniziale capace di aiutarli in questa impresa. La loro parabolaesistenziale – come quella di tutti non priva di inciampi – al di fuori delGolden Age diventa così l’emblema del rifiuto della logica che associala malattia a un destino ineluttabile e, surrettiziamente, a una colpada scontare.

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Quando anni dopo gli avvenimenti del Golden Age, alla fine del romanzo, Frank (cheormai è anziano e si è trasformato in uno scrittore affermato) incontrerà, a New York,dall’altra parte del mondo, Jack, uno dei figli di Elsa (che nel frattempo è diventata unmedico, ha sposato un suo compagno di studi e ha avuto tre figli), questi gli racconteràun episodio di alcuni anni prima che ben illustra come sua madre aveva saputo reagirealla malattia:

Cercava di salire sulle dune dopo una nuotata ed era

in difficoltà. Avanzava di tre passi e poi scivolava

indietro di due. Jack sapeva che non doveva andare

ad aiutarla, e nemmeno farle sapere che si era

accorto della sua presenza. La regola era che niente

era mai troppo per lei. Quando finalmente arrivò in

cima, Jack era per metà infuriato e per metà in

lacrime. Sua madre si sdraiò lassù e rimase immobile

per diversi minuti.

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Mi piace chiudere con questa bella immagine di tenacia

e di speranza offerta da Joan London: il male esiste, le

sventure capitano perché fanno parte di questo

mondo; ma l’uomo può utilizzare le sue capacità, la sua

intelligenza, la sua razionalità e la sua forza d’animo per

affrontarle con coraggio, senza inventarsi fantasmi che

possono solo rendere la vita più difficile di quanto già

essa non sia di per sé.