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Università degli Studi di Padova Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari Corso di laurea triennale in Storia Relatore Prof. Sara Bin Laureando Alberto Fabris n° matr.1053650/STO Il confine tra Siria e Iraq Dagli accordi di Sykes-Picot alla nuova geografia dello Stato Islamico Anno Accademico 2014/2015

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Università degli Studi di Padova

Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’AntichitàDipartimento di Studi Linguistici e Letterari

Corso di laurea triennale in Storia

RelatoreProf. Sara Bin

LaureandoAlberto Fabris

n° matr.1053650/STO

Il confine tra Siria e IraqDagli accordi di Sykes-Picot alla nuova geografia dello Stato Islamico

Anno Accademico 2014/2015

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Indice generale

Introduzione......................................................................................................5

1. Il confine.........................................................................................................11

1.1 Cos'è il confine..................................................................................11

1.2 Come si costruisce il confine.............................................................13

1.3 Confini artificiali, naturali e “assenti”..................................................14

1.4 Oltre il confine...................................................................................16

1.5 Le relazioni di potere nella creazione di territorialità.........................18

2. Gli accordi di Sykes-Picot..............................................................................21

2.1 Le promesse non mantenute.............................................................21

2.2 L'accordo segreto..............................................................................22

2.3 Chi abita Siria ed Iraq?......................................................................27

2.4 L'epoca dei mandati..........................................................................29

2.5 Dal secondo dopoguerra ad oggi......................................................31

3. Cos'è il califfato..............................................................................................35

3.1 Morte del profeta e storia del califfato...............................................36

3.2 I risvolti politici delle diatribe teologiche............................................38

3.3 La nascita del Califfato......................................................................39

3.3.1 Uno stato fondamentalista salafita...........................................42

3.4 La struttura del Califfato....................................................................44

3.5 La legittimità del Califfato..................................................................46

3.6 Le strategie comunicative.................................................................47

3.7 L'eredità del Califfato.........................................................................48

4. La geografia del Califfato...............................................................................51

4.1 Le trasgressioni della territorialità......................................................51

4.2 La fine di Sykes-Picot........................................................................53

4.3 Dar al-Islam.......................................................................................54

4.4 Dar al-Harb........................................................................................55

4.5 La jihad globale.................................................................................58

4.6 La geografia araba............................................................................59

4.7 L'alternativa allo Stato Islamico.........................................................60

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4.8 Identificarsi, non identificarsi, identificarsi contro..............................63

Conclusione.......................................................................................................65

Bibliografia.........................................................................................................69

Sitografia............................................................................................................71

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Introduzione

Se ciò che noi riteniamo fisso, irremovibile, stabile, se ciò che banalmente

crediamo ormai assodato, quasi naturale, venisse messo in dubbio, venisse

obiettato, messo in discussione e, ancora di più, cancellato, cosa

succederebbe? Come reagiremmo?

I confini, lo sappiamo, sono una creazione umana. Assolvono a diverse

funzioni, tra cui definire, dividere, distinguere: questo è mio, quello è tuo, di qua

vi è l’uno, di là vi è l’altro.

Soffermandoci brevemente a riflettere, deduciamo come essi siano costruzioni

della società, invenzioni artificiali; in alcuni casi sono talmente antichi o radicati

nelle nostre convinzioni, nelle nostre visioni del mondo e dei luoghi che ci

circondano, che non possiamo fare a meno di considerarli “naturali”,

storicamente eterni, fatalmente inevitabili.

L'argomento di studio al centro di questo lavoro di tesi ruota attorno al

significato di confine, ai valori che gli attribuiamo, ai rapporti di potere che lo

creano e che esso stesso crea, alla sua natura artificiale e al suo peso politico e

geografico.

Nello specifico, ciò che si discuterà nelle pagine seguenti è la costruzione, il

radicamento e il dissolvimento del confine tra Siria ed Iraq da parte degli attori e

gruppi politici e sociali che si sono susseguiti nell'arco di cento anni, dai primi

anni del XX secolo fino ai giorni nostri.

Dunque, specificando meglio gli estremi cronologici, intendo indagare il periodo

che va dall'imposizione del confine da parte delle potenze europee francese ed

inglese per mezzo degli accordi di Sykes-Picot del 1916, alla sua cancellazione

materiale e simbolica da parte del Califfato Islamico nel 2014.

Le riflessioni legate a questo lavoro si articolano in quattro capitoli.

Nel primo capitolo introduco il concetto di confine: cos'è e come viene definito,

come si costruisce, le differenze tra cosiddetti confini naturali e artificiali, le

relazioni di potere che esso instaura. Tutto ciò sottolineando come il confine che

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noi conosciamo non sia l'unica soluzione attuata nel tempo e nello spazio per

creare ordine sulla terra.

Il secondo capitolo entra nello specifico della questione del confine tra Siria e

Iraq. In questo capitolo ripercorro i passaggi della costruzione del confine tra i

due stati, soffermandomi sulle promesse fatte e su quanto stabilito

ufficiosamente tra gli attori in gioco (Gran Bretagna, Francia, autorità arabe) e

successivamente, in maniera ufficiale, dagli accordi di Sykes-Picot e dai trattati

di pace, dimostrando come il nuovo ordinamento mediorientale sia stato

imposto dalle potenze occidentali senza badare, ma anzi andando contro al

volere di chi viveva quei luoghi. Negli ultimi paragrafi riassumo brevemente

alcuni successivi accadimenti della storia di Siria e Iraq.

Possiamo definire il terzo capitolo come descrittivo e propedeutico al capitolo

quarto. Infatti in questa terza parte spiego cosa sia il califfato, come e perché

esso sia nato, ripercorrendo brevemente la sua storia. Successivamente tratto

dello Stato Islamico, il nuovo Califfato; l'analisi procede nella descrizione delle

sue origini, dei suoi obiettivi, delle modalità con cui agisce, del consenso o

dissenso che esso trova nel pubblico musulmano.

Infine il quarto capitolo definisce quale sia la nuova geografia dello Stato

Islamico, cioè quale nuovo ordinamento, andato a sostituire quello precedente

creato dalle potenze occidentali, sia stato imposto tra Siria e Iraq. Tento inoltre

di spiegare le motivazioni di tale imposizione e soprattutto il perché di un

ordinamento siffatto.

La volontà di avvicinarmi a questa ricerca è coerente ad un più ampio interesse

personale, maturato già durante gli studi nella scuola secondaria di secondo

grado, per il mondo musulmano, in particolare nella sua declinazione

mediorientale, e per i relativi conflitti, rivoluzioni e guerre degli ultimi decenni.

La questione del Califfato, divenuta attuale e nota da un paio d'anni, ma con

radici ben più lontane nel tempo, ha dunque colpito nel profondo non solo gli

animi e le coscienze occidentali, ma ha anche acceso la fiamma della curiosità

scientifica in chi scrive. L’interesse e lo studio delle origini e dello sviluppo del

fenomeno hanno trovato naturale collegamento quando, durante il corso di

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geografia culturale tenuto dalla professoressa Bin, si sono affrontati i temi della

costruzione dei luoghi, del sense of place e quindi del significato che

attribuiamo loro, del legame tra luogo ed identità, del confine come espressione

delle strutture di potere della società.

Da qui nasce l’idea di affrontare queste tematiche all’interno della cornice

mediorientale.

Quello che qui propongo, quindi, è un lavoro che porta come esempio un caso

significativo relativo ad un’area geografica che ad oggi è in una fase di

instabilità e trasformazione; una situazione che sta tuttora dispiegandosi e le cui

conseguenze non sono ancora chiare e prevedibili.

Troppo spesso l’analisi delle situazioni presenti non è affidata alla storia, alla

filosofia, alle scienze sociali, bensì alla cronaca, al giornalismo.

Il filosofo tedesco Georg Friedrich Hegel, nella sua prefazione ai “Lineamenti di

filosofia del diritto”, afferma che “la nottola di Minerva comincia il suo volo

soltanto sul fare del crepuscolo”1. La filosofia, cioè, giunge alla piena

comprensione di una condizione storica solo quando questa ha avuto fine, si è

conclusa. Per la storia il processo è identico: il lavoro della ragione, il lavoro di

analisi, inizia quando la realtà si è ormai formata, quando si è ultimata. La

storia, come la filosofia secondo Hegel, giunge al calar del sole, quando il

giorno è concluso. La storia necessita di tempo, necessita che i fatti si

sedimentino, si quietino: prima che la storiografia possa aprire il libro della

realtà, c’è bisogno che un po’ di polvere degli anni si sia accumulata sulla

copertina. Nel nostro libro, di polvere, ancora non vi è traccia poiché è tuttora in

fase di scrittura. Questo, forse, è l’ostacolo più grande che si pone nel mio

lavoro.

Non si può dire che non vi sia un’ampia bibliografia, poiché il risalto mediatico

che la creazione del Califfato ha avuto e il conseguente interesse nato tra la

popolazione occidentale per cercare di capire e comprendere, ha fatto versare i

proverbiali fiumi d’inchiostro. Tuttavia, frequentemente, essa non riesce a

scendere nel profondo e si dimostra ripetitiva; questo per varie ragioni, tra cui lo

1 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, p. 17.

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scopo fondamentalmente didattico per cui nasce, cioè dare un’infarinatura

generale sullo Stato Islamico al lettore medio e, in secondo luogo, la difficoltà,

dovuta alla particolare e pericolosa situazione dell’area, di reperire altre

informazioni che non siano quelle filtrate e rese pubbliche dallo stesso Califfato.

La bibliografia dunque, nella maggior parte dei casi fornita da autori provenienti

dal mondo giornalistico per i motivi di cui sopra, è spesso superficiale e

difficilmente scende nei particolari riguardo al tema che si vuole qui affrontare,

cioè la visione del confine siriano-iracheno da parte dei fondamentalisti islamici

dello Stato Islamico.

D’altra parte, l’obiettivo di questo lavoro non è quello di sopperire alle

mancanze bibliografiche, né dare un’interpretazione storiografica ante litteram,

poiché, come già detto, oltre ad essere presuntuoso, sarebbe qui fuori luogo e

fuori tempo.

Lo scopo, semmai, è quello di descrivere il confine come strumento di potere

nell'organizzazione dello spazio e metterne in luce la sua precarietà, portando

all’analisi un esempio concreto.

L'insieme di eventi storici che hanno caratterizzato e caratterizzano l'area in

esame, in particolare l'imposizione di un preciso ordinamento e il suo

successivo dissolvimento, sono utili alla comprensione di alcune questioni

geografiche, quali appunto i legami tra identità e territorio, le relazioni di potere

tra i vari attori, la contestazione e rivendicazione di un luogo, ecc.

Ecco dunque che dei precisi accadimenti storici diventano oggetto di un'analisi

geografica.

D’altronde, come dicevano gli antichi, historiae oculus geographia, la geografia

è l’occhio della storia: non possiamo parlare a fondo dell’una senza considerare

l’altra. Sono discipline gemelle, con il cuore legato, e frequentemente si

possono vicendevolmente aiutare, come in questo caso.

A livello bibliografico sono ritornate utili le opere utilizzate durante i tre anni di

studio del corso di laurea.

Innanzitutto le riflessioni proposte dal professor Pase nel suo Linee sulla terra

del 2011, soprattutto nella prima sezione del volume.

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In secondo luogo i testi del corso di geografia culturale, in particolare Luoghi,

culture e globalizzazione, l'opera miscellanea a cura di Doreen Massey e Pat

Jess. Infine il testo del professor Saccone, I percorsi dell'Islam, per le tematiche

riguardanti l'Islam, come la geografia musulmana.

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Capitolo 1

Il confine

Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle

persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile.

Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori

avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato,

avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore!

Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!”

(J.-J. Rousseau, Origine della disuguaglianza, p. 72)

1.1 Cos'è il confine

La questione principale di questo capitolo può essere riassunta nella domanda:

che cos’è il confine? Le risposte offerte dai vocabolari sono spesso simili e

definiscono i confini come curve che separano organismi politici o proprietà. In

particolare, il confine è “limite di una regione geografica o di uno stato; zona di

transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e

cominciano quelle differenzianti: confine naturale, quello che s’identifica, più o

meno, con linee prestabilite dalla natura, quali coste, crinali di montagna, fiumi,

ecc.; confine politico, quello stabilito per convenzione tra governi, che separa

due organismi politici mediante una linea di confine la quale, quando è

possibile, è costituita da una fascia disabitata con funzioni di isolamento: il

confine tra l’Europa e l’Asia, tra la Francia e la Spagna; varcare il confine”2.

Il Sabatini Coletti definisce il confine come “linea di delimitazione di due

proprietà, territori, possedimenti” e lo affianca al termine “limite”.

Infine secondo il dizionario Zanichelli: “il confine è la linea che circoscrive una

proprietà immobiliare o il territorio di uno Stato o di una regione”. Anche qui

2 Tratto dal vocabolario Treccani - http://www.treccani.it/vocabolario/confine/ (consultato per l'ultima volta in data 01/10/15)

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“limite” è indicato come sinonimo.

In tutte le definizioni, dunque, il confine è limite, pone fine ad un'area, ne segna

il suo termine. E in tutte le definizioni è linea di demarcazione, divide e

distingue, poiché segnando la fine di un'area allo stesso tempo indica il

principio di un'altra.

I confini nascono inizialmente ad una scala più grande, cioè nel piccolo, nel

locale, per fissare i limiti della proprietà, di ciò che è mio e di ciò che è di altri. È

qui che ha origine la proprietà privata e, con essa, i dibattiti sulla sua effettiva

legittimità che ci accompagnano fino ad oggi.

Un confine permette agli uomini di vivere in uno spazio dai contorni definiti e

quindi di comprendere la realtà. Un mondo senza confini è un mondo

sterminato, illimitato, che spaventa e ci rende insicuri. Non sappiamo cosa ci sia

all'orizzonte, abbiamo paura dell'ignoto. Un confine ci riporta alla serenità,

rassicurandoci del fatto che esso sta lì, immobile, ancorato a terra, a

proteggerci, a segnalare dove finisce la nostra casa e dove ha inizio l'infinito.

Dall'altra parte, però, il confine è il luogo dei dissidi, è il luogo dell'incontro-

scontro tra realtà diverse, rese tali dalla sua stessa creazione. Separa chi è

all'interno e chi è all'esterno, escluso.

Per parlare di confine nella sua declinazione di limite tra stati, cioè nel

significato che a noi interessa maggiormente in queste pagine, bisogna

attendere la nascita degli stati stessi. È con la fine del medioevo che si osserva

un lento ridursi della molteplicità politico-territoriale in favore di una sempre

maggiore unità, che avrà culmine nella formazione di veri e propri stati

nazionali. Con la nascita degli stati i confini diventano fondamentali: sono

principio d’ordine, sono parte dello stato stesso; acquistano un valore enorme

poiché regolano i rapporti con gli altri stati, con le altre entità.

Come ci insegna Pase3, è questo il momento in cui i confini assumono tre

caratteristiche che troviamo ancora oggi. In primo luogo l’unicità perché come la

giurisdizione dello stato è unica, così dev’essere anche il confine; una pluralità

di limiti creerebbe ambiguità, zone franche, caos.

3 Pase, Linee sulla terra, p. 84.

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In secondo luogo la visibilità: nel momento dell’eventuale accordo tra stati o

comunque del consolidamento e del radicarsi di un confine, esso dev’essere

trasportabile e trasportato sulle carte e sul territorio stesso. Cippi, fossati, reti,

dogane e tutti quegli elementi che accompagnano i confini come stazioni di

controllo sanitario, di polizia, di merci, sono elementi che servono a disciplinare

sia le relazioni tra gli stati, sia tra lo stato e i suoi abitanti.

Infine la linearità, poiché è la linea che definisce il territorio dominato dallo stato,

la sua estensione spaziale. Solo la geometria assoluta della linea può annullare

completamente le incertezze e i margini di ambiguità.

1.2 Come si costruisce il confine

Ma come si costruisce un confine? Secondo Zanini4, il processo di creazione di

un confine si articola in tre fasi: occupazione dello spazio, misurazione e

conferma dello spazio.

L'occupazione dello spazio è necessaria in quanto il confine è strettamente

legato alla spazialità. Perché si possa effettivamente dichiarare che un pezzo di

terra ci appartiene, bisogna localizzarlo, bisogna dargli concretezza. Per

vantare un qualche diritto, insomma, bisogna calpestare la terra, metterci dentro

i piedi, per così dire. L'occupazione è il primo atto da compiere per poter

tracciare un confine. Operazione che può essere pacifica e relativamente rapida

se nessuno ha ancora avanzato pretese sull'area, ma che può invece portare a

violenti conflitti e rivendicazioni se già un gruppo sociale abita o dà significato al

luogo5.

Il secondo momento nella creazione del confine è la misurazione: una volta

occupato uno spazio, bisogna misurarlo. Come altrimenti stabilirne la

grandezza e la forma? La misura permette di dare evidenza al terreno

occupato. Essa può essere compiuta in diverse modalità: la più frequente, e

quella a cui siamo maggiormente abituati, è la misurazione “razionale”, cioè

quella operata dando il numero di metri, chilometri, piedi, iarde, ecc. che conta il

4 Zanini, Significati del confine, p. 29.5 Massey – Jess, Luoghi, culture e globalizzazione, p. 97.

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perimetro del nostro territorio. Ma la misura può avvenire anche “ad occhio”,

cioè stabilendola in base all'orizzonte del nostro sguardo. O ancora attraverso

altri mezzi sensoriali come l'udito o utilizzando indicazioni temporali, ad

esempio un'area ampia quattordici ore di cammino.

Infine, il terzo passo è la conferma dello spazio, momento culminante e

determinante nella creazione del confine. Occupazione e misurazione dello

spazio sono azioni preliminari e fondamentali, ma non rendono tangibile la

presenza di un limite. Per riuscire in questo bisogna appunto confermare lo

spazio, cioè porre un segno, sia esso un solco, un cippo, un muro, una pietra,

una linea di alberi, ecc., che dichiari che qualcuno ha occupato quello spazio,

potendo quindi vantare dei diritti su di esso.

Nel mondo latino questo segno era appunto un solco. La fondazione di una città

romana aveva inizio con il disegno del suo perimetro, il pomerium, attraverso un

aratro. Il sito di fondazione non era casuale, ma era rivelato dall'augure, dopo

un'attenta osservazione degli auspici, cioè dei segnali divini quali per esempio il

volo degli uccelli. Tracciare il limite, dunque, non era un'operazione prettamente

topografica, aveva anche un significato religioso, spirituale: oltre che tra città e

campagna, il solco determinava la separazione tra un luogo sacro e un luogo

profano. Non è un caso che Remo sia ucciso dal fratello Romolo nel momento

in cui oltrepassa il confine, schernendone il valore.

Il confine, nel momento in cui viene creato, ha sempre valore, ieri come oggi.

1.3 Confini artificiali, naturali e “assenti”

È dunque chiaro come i confini non siano elementi naturali, nati con e nel

territorio, ma costruzioni dell’uomo, della società6. Sono effettivamente linee

tracciate dalla società per servire a determinati scopi. Esiste una comune e

diffusa differenziazione tra confini naturali e confini artificiali: mentre questi

ultimi sarebbero evidenti costruzioni umane ex nihilo, per così dire, i limiti

naturali sarebbero invece quei confini posti su ben identificati elementi naturali,

6 Massey – Jess, Luoghi, culture e globalizzazione, p. 57.

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quali possono essere fiumi, catene montuose, mari, laghi, ecc.

Questo però non ci deve confondere; fiumi, montagne, mari, non sono nati

come elementi di frontiera, non è un loro significato intrinseco, non fa parte

della loro intima natura essere confine. Tant’è vero che così come un fiume può

essere usato come limite tra uno stato ed un altro, allo stesso modo può essere

collegamento tra due rive o, ancora, nucleo fondante attorno al quale si

sviluppa una città; così come una catena montuosa può essere utilizzata come

frontiera, allo stesso modo può essere parte di uno stesso stato e anzi, linea

centrale attorno alla quale questo si estende. Il nostro Paese ne è un esempio:

le Alpi sono sicuramente un confine naturale e fungono da frontiera, ma gli

Appennini si estendono al contrario su quasi tutta la penisola, tanto da essere

chiamati la spina dorsale dell’Italia. La distinzione tra confine artificiale e

naturale può essere funzionale alla comprensione della storia del singolo

confine, dell'analisi del supporto terrestre su cui poggia, ma fuorviante poiché

tutti i confini sono artificiali, cioè creati dall’uomo.

I confini sono tali perché noi li creiamo, siamo noi che affidiamo loro il compito

di dividere, e nel momento stesso in cui disegniamo tale linea immaginaria, ne

cogliamo tutta la potenza.

Il confine, sulla carta, è linea, ma a volte, nei luoghi più impervi, desertici, di

difficile penetrazione, diventa complesso segnarlo materialmente. In questi casi

l'invisibilità stabilisce il termine del confine in quanto tale. L'immagine si sfoca e

la linea diviene fascia, i cui margini non sono più definiti. Il fronte diventa

mobile, rompe le catene che lo tengono ben saldo al pavimento della terra e si

sfalda.

Questa zona sfrangiata è terra di nessuno, “dove molte volte tutto si confonde,

si mescola”7. La norma che solitamente regola i confini definiti decade e si

ritorna ad una sorta di caos originario. Ciò non impedisce che sia possibile

viverci, anzi, molti attori vivono e si muovono in questi luoghi: alcuni da prima

che venisse assegnata a questi ultimi la funzione di confine; si pensi alle

popolazioni nomadi dei deserti, come gli imohag, cioè gli “uomini liberi”,

7 Zanini, Significati del confine, p. 15.

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comunemente definiti in arabo tuareg che significa “abbandonati da dio”, in

continuo spostamento all'interno di queste larghe frontiere sfilacciate.

Altre volte, invece, queste terre, proprio per la loro caratteristica di non

appartenere ad alcuno, di essere limbo terrestre, diventano rifugio per coloro

che vengono rifiutati o allontanati dalle vicine comunità, per gli emarginati. Si

noti come il termine emarginato, derivi da margine; significa allontanato dal

centro, messo ai margini. Ma quindi se non vi fosse margine, vi sarebbe

emarginazione?

1.4 Oltre il confine

Ci si potrebbe chiedere quali altre possibilità esistano se non quella del confine

come noi occidentali lo conosciamo e intendiamo. Sicuramente la nostra non è

l'unica opzione. Basti osservare come i vari attori che compongono la società

prima dell'avvento degli stati nazione abbiano certamente un'area geografica di

azione, una dimensione spaziale con dei limiti, ma tali limiti non siano sempre

lineari, stabili, cartograficamente definibili8. Spesso, infatti, le aree di influenza

delle varie entità pre-statali (città, feudi, signorie, centri ecclesiastici, …) si

sovrappongono, si mescolano, si intrecciano, dando origine ad una convivenza

di più diritti e ordinamenti. Ma ancora, spostandoci nello spazio invece che nel

tempo, vediamo come nelle società tradizionali africane la rappresentazione

dello spazio si basi sulla centralità, sacralità e unicità di alcuni luoghi, di alcuni

centri, che disegnano una geografia topocentrica9; altro esempio è la

concezione dello spazio tra gli aborigeni australiani: gli aborigeni non vantano

diritti di proprietà fondiaria, non possiedono il territorio, ma anzi, sono loro stessi

che affermano di essere proprietà della terra10. È una concezione dello spazio in

cui i ruoli si invertono, in cui non vi è più confine, poiché non vi è più diritto di

segnare la terra.

Insomma, la creazione del confine attuale è quindi una scelta arbitraria operata

8 Pase, Linee sulla terra, p. 78.9 Pase, Linee sulla terra, p. 129.10 Anati, Realtà esistenziale e realtà del sogno nella società aborigena dell'Australia.

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dall'uomo occidentale ed esportata in tutto il mondo. Possiamo spingerci un po'

oltre ed affermare provocatoriamente che il confine, per noi così

imprescindibile, univoco, irrimediabilmente inevitabile, non è che una casualità

storica.

Tracciare un confine significa creare un dentro e un fuori. Significa che esistono

cose che stanno al di qua, all'interno, e altre che stanno al di là, all'esterno.

Questa constatazione, che può apparire banale, in realtà comporta una serie di

riflessioni importanti. Innanzitutto il fatto che due luoghi che prima erano uniti,

senza soluzione di continuità, ora sono separati da logiche umane; le relazioni

ora vengono controllate, rallentate, alterate, bloccate.

In secondo luogo la distinzione tra un interno ed un esterno, tra un noi ed un

loro, ci riporta alle riflessioni di Edward Said ed in particolare al suo saggio

Orientalismo (1978). Said afferma che nel corso dei secoli l'Occidente ha

sempre determinato l'Oriente in base a narrazioni parziali, a supposizioni

dettate dal fascino, dalla superstizione, dall'esotismo, dalla fantasia e dall'arte.

In sostanza, tutti i territori ad est dell'Europa, le cui differenze, la cui unicità e

particolarità sono schiacciate e calpestate nell'univocità del contenitore

semantico “Oriente”, non sono mai stati oggetto di uno studio profondo ed

obiettivo, ma sono il risultato di una serie di miti. Per Said queste immagini

influenzarono ed influenzano certamente il modo in cui gli occidentali vedono

l'Oriente, ma modellano anche il modo in cui gli occidentali vedono se stessi: la

tesi che emerge dal saggio è quindi il fatto che la descrizione di un altro e di un

altrove serve a modellare per opposizione la propria identità. Ecco quindi come

per esempio i deserti orientali vengano immaginati come luoghi di spiritualità e

riflessione, contrariamente ad una civiltà occidentale secolarizzata e frenetica;

oppure come le rovine e gli edifici abbandonati nei luoghi desolati siano simbolo

di un Oriente incapace di ottenere un grado di sviluppo e civilizzazione pari a

quello occidentale. In definitiva, i vizi e le mancanze orientali definiscono le virtù

e i punti di forza occidentali, e viceversa.

Le tesi di Said possono essere portate anche al nostro discorso più generale:

possiamo quindi affermare che tracciare un confine creando una dialettica

17

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interno-esterno, contribuisca a definire la nostra identità e il nostro senso di

luogo sia in quanto inseriti in un determinato territorio, sia in quanto esclusi

dagli altri.

Disegnare una linea sulla carta, trasportarla sulla terra e stabilire che quella è

confine, non è un'azione neutra, è un'azione arbitraria, politica. Come afferma

Massey, “tracciare un confine vuol dire esercitare un potere”11. Certo, può

capitare che dei confini siano eretti a protezione dei più deboli, ma nella

maggior parte dei casi, sono fissati dai più forti per se stessi, per definire le loro

posizioni di vantaggio.

Raramente la linea disegnata sulla terra è una linea discussa tra i vari attori

sociali, mediata, ottenuta cercando di andare incontro alle esigenze e alle

richieste di ciascuno. Più spesso è un'imposizione calata dall'alto, che non ha

orecchio per chi non ha voce. Tant'è che, soprattutto a livello locale, sono

all'ordine del giorno le dimostrazioni di dissenso, più o meno pacifiche, nei

confronti di quei confini, di quei limiti, di quelle interpretazioni della territorialità

che non trovano margine di consenso in chi attribuisce loro diverso significato.

1.5 Le relazioni di potere nella creazione di territorialità

Come ci ricordano Massey e Jess, “le identità dei luoghi sono un prodotto della

azioni sociali e del modo in cui le persone se ne danno una

rappresentazione”12. Da ciò ne deriva che l'interpretazione che viene data ad un

certo luogo difficilmente riuscirà ad accogliere e riflettere le rappresentazioni di

tutti.

Per questo capita che le autorità, le istituzioni incaricate di creare territorialità, di

reificare i significati che diamo al territorio, si siedano attorno ad un tavolo

assieme agli altri attori e cerchino una soluzione che possa andare incontro alle

volontà di tutti o comunque possa essere una soluzione mediata.

Idealmente questa è la via migliore, sia dal punto di vista “umano”, poiché ha

come obiettivo il benessere comune e la creazione di una serena società di

11 Massey – Jess, Luoghi, culture e globalizzazione, p. 58.12 Massey – Jess, Luoghi, culture e globalizzazione, p. 98.

18

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persone all'interno di un unico territorio, sia dal punto di vista “strategico”,

poiché con lungimiranza previene, o almeno riduce, la possibilità di nascita di

tensioni tra gruppi, di problemi di non riconoscimento, di contestazioni e via

dicendo.

Nella realtà dei fatti questo accade molto raramente.

Il problema sta nel fatto che, come abbiamo già detto, creare territorialità, dare

significato ad un luogo o, nel nostro caso, disegnare un confine, sono azioni di

forza, sono atti di potere. Chi vanta il presunto diritto di disegnare linee sulla

terra è l'attore più forte. Per questo motivo la scelta di cercare una mediazione,

di negoziare un significato che vada bene a molti oppure, al contrario, agire in

base ai soli propri desideri e necessità, dipende solamente da esso.

Qui entrano in gioco gli interessi dell'attore forte: sedersi ad un tavolo e trattare

vuol dire perdere qualcosa; sedersi significa dover cedere una parte, anche se

piccola, di ciò che pretendiamo sia nostro, significa dover rinunciare a qualche

pezzo delle proprie volontà. Perché farlo, dunque, quando si può

semplicemente imporre la propria decisione, il proprio significato di luogo agli

altri?

L'unico rischio derivante da tale imposizione, lo abbiamo detto, è dover

scontrarsi con il rifiuto, la contestazione, nel peggiore dei casi il non

riconoscimento. Ma questa eventualità è facilmente risolvibile avendo il

monopolio della forza, detenendo l'autorità, avendo il consenso.

Risulta quindi evidente come nella quasi totalità dei casi la territorialità che si

crea tenda a riflettere il volere del più forte, a discapito di altre interpretazioni, di

altre volontà.

Questo è esattamente ciò che è successo in Medio Oriente ed in particolare

nella definizione del confine tra Siria ed Iraq.

19

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Capitolo 2

Gli accordi di Sykes-Picot

2.1 Le promesse non mantenute

Nel corso della prima guerra mondiale, conclusasi con la vittoria delle potenze

dell'Intesa, in cambio dell'aiuto a sconfiggere l'Impero Ottomano, l'alto

commissario britannico in Egitto, Henry McMahon, promise all'allora sharif di La

Mecca Hussein, la collaborazione del proprio governo alla costruzione di un

grande regno arabo indipendente che avrebbe dovuto comprendere la penisola

arabica, la Mesopotamia e la Siria.

In una lettera risalente al 24 ottobre 1915 ed indirizzata allo stesso Hussein,

McMahon scrive che “la Gran Bretagna è pronta a riconoscere e sostenere

l'indipendenza degli Arabi entro tutti i confini richiesti dallo Sceriffo della

Mecca”13.

Subito dopo questa dichiarazione, tra il novembre 1915 e il maggio 1916, Gran

Bretagna e Francia conclusero in segreto gli accordi di Sykes-Picot, i cui punti

erano evidentemente in contrasto con quanto promesso da McMahon. Gli

accordi verranno resi noti solo nel 191714.

Accadde quindi che, quando nel 1918 il figlio dello sharif Hussein Faysal

dichiarò la nascita del Regno Arabo di Siria, comprendente buona parte della

Mesopotamia, i francesi intervennero sconfiggendo la resistenza nazionalistica

e imponendo invece il loro dominio sul territorio.

La successiva conferenza di Sanremo e il trattato di Sèvres del 1920 definirono

il controllo mandatario da parte della Francia su Libano e Siria, e da parte della

Gran Bretagna su Iraq, Transgiordania e Palestina, coerentemente agli accordi

13 http://www.petiteplaisance.it/ebooks/ci/ci_3023/ci_3023.pdf(consultato per l'ultima volta in data 26/09/15)

14 http://www.herodote.net/almanach-ID-959.php(consultato per l'ultima volta in data 26/09/15)

21

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di Sykes-Picot. L'accordo con lo sharif fu quindi completamente trascurato.

Significativo anche il fatto che il governo statunitense istituisse nel 1919 una

commissione d'inchiesta, la Commissione King-Crane, con il compito di

sondare l'opinione del popolo arabo riguardo ad un'eventuale politica

mandataria occidentale. La commissione concluse riportando il parere

favorevole per un'indipendenza libera da ogni mandato franco-inglese della

stragrande maggioranza della popolazione15. Anche qui, il rapporto fu

semplicemente ignorato dalle grandi potenze.

Ancora, il Trattato di Sèvres, nella sezione III, agli articoli 62-64, annuncia la

creazione di uno stato indipendente curdo, la cui definizione è compito di una

particolare commissione internazionale appositamente creata16.

Anche questo impegno fu cancellato dal successivo Trattato di Losanna (1923)

che definì i confini della neonata Repubblica di Turchia senza tenere conto del

promesso Kurdistan.

Questi episodi sono la manifestazione dell'evidente volontà da parte

dell'Occidente, in particolare Francia e Regno Unito, di ottenere un controllo più

o meno diretto sull'area mediorientale, senza badare al volere e alle necessità

dei popoli autoctoni.

L'accordo di Sykes-Picot ne è un esempio cristallino, un elemento cruciale del

nostro discorso.

2.2 L'accordo segreto

Ancor prima di accordarsi definitivamente con la Francia, il 16 dicembre 1915, il

baronetto Mark Sykes17 si incontrò al numero 10 di Downing Street, da oltre tre

secoli residenza del primo ministro britannico e sede del governo reale, con una

serie di alte cariche britanniche, tra cui il primo ministro Herbert Henry Asquith,

15 http://www.hri.org/docs/king-crane/syria-claims.html#french(consultato per l'ultima volta in data 26/09/15)

16 http://wwi.lib.byu.edu/index.php/Section_I,_Articles_1_-_260(consultato per l'ultima volta in data 26/09/15)

17 Mark Sykes (1879-1919) nasce a Londra da una famiglia di conservatori e grandi proprietariterrieri. Eredita la carica di baronetto e partecipa alla guerra boera in Sudafrica. Diventaparlamentare e si indirizza alla carriera diplomatica.

22

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il segretario di stato alla guerra Horatio Herbert Kitchener, l'allora ministro delle

munizioni Lloyd George e Arthur Balfour, ex-primo ministro del partito

conservatore e in quel frangente Primo Lord dell'Ammiragliato del Regno Unito.

Il motivo dell'incontro era cercare una soluzione riguardo al futuro dell'Impero

Ottomano, una questione che rischiava di far traballare l'alleanza con la vicina

Francia, anch'essa interessata al Medio Oriente.

Sir Mark Sykes, aiutandosi con una carta dei territori del Vicino Oriente, disse:

“Mi piacerebbe tracciare una linea dalla «e» di Acre (San Giovanni d'Acri NdA)

all'ultima «k» di Kirkuk”18.

Questa frase racchiude in sé l'essenza di tutto il nostro discorso riguardo

all'imposizione occidentale di un ordinamento altrettanto occidentale ai popoli

arabi. Analizziamola brevemente, poiché tali parole sono ricche di significati.

Anzitutto egli disse: “Mi piacerebbe” (originale “I should like”). Il verbo coniugato

alla prima persona esprime il desiderio di Sykes, ma non tiene conto

dell'eventuale desiderio della regione araba interessata dalla “linea sulla

sabbia”. L'effettiva validità o meno dei desideri del baronetto venne discussa

esclusivamente all'interno del gabinetto britannico e, successivamente, di quello

francese. Coloro che subiranno l'accordo non verranno mai presi in

considerazione nel processo decisionale.

In secondo luogo Sykes parla di “tracciare […] dalla «e» di Acre all'ultima «k» di

Kirkuk” (originale “to draw […] from the «e» in Acre to the last «k» in Kirkuk”)

quasi avesse una matita in mano (e forse ce l'aveva davvero) e potesse

dividere la terra a suo piacimento, senza badare a chi e cosa il segno

incontrava lungo il suo cammino. Ancora una volta è chiaro chi sia l'attore forte

del gioco e ancora una volta emerge la volontà occidentale, in questo caso

britannica, di prendere decisioni senza considerare i bisogni e le necessità dei

popoli in questione.

Infine si definisce una “linea” (originale “a line”), emblema della concezione

geografica occidentale, netta divisione geometrica tra interno-esterno. Nella

nostra geografia solo la linea ci ripara dalle ambiguità perché essa può

18 Barr, A Line in the Sand, p. 12.

23

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annullare le incertezze o ha la presunzione di annullarle.

Una frase pronunciata quindi con leggerezza quella di Sykes, ma che

rappresenta ciò che egli stesso definì una “politica molto pratica”19, rivolta agli

interessi più concreti.

Ottenuto il benestare dal gabinetto inglese, Sykes si incontrò in più occasioni

con François Georges-Picot20, diplomatico francese, per definire i termini

dell'accordo.

La linea immaginata da Sir Mark Sykes fu idealmente mantenuta: i territori a

nord della linea furono assegnati alla protezione francese, quelli a sud a quella

britannica. Nei rispettivi territori, Francia e Gran Bretagna avrebbero potuto

esercitare a proprio piacimento un controllo diretto o indiretto21.

Il progetto iniziale di Sykes in Medio Oriente non rimase immune da

cambiamenti ed entrambe le parti dovettero arrivare a dei compromessi. Per la

Palestina, ad esempio, non riuscendo a trovarsi una soluzione, si decise in

comune disaccordo22 di renderla una zona sotto il controllo internazionale; la

Società delle Nazioni decise poi di affidarne il mandato alla Gran Bretagna.

I negoziati furono comunque conclusi e l'accordo fu definitivamente firmato il 16

maggio 1916.

Il sogno del grande regno arabo indipendente promesso da McMahon (si veda il

paragrafo 2.1) sfumò al momento della firma. Lo stesso Picot, quando qualche

mese prima aveva saputo della promessa fatta a sua insaputa ad Hussein da

parte degli inglesi, si era dimostrato sbalordito e si era espresso con tali parole:

“Promettere un grande stato agli arabi significa ingannarli. Uno stato del genere

non si realizzerà mai. Non è possibile trasformare una miriade di tribù in un

19 Barr, A Line in the Sand, p. 12.20 François Georges-Picot (1870-1951) nasce a Parigi, figlio di un eminente avvocato.

Intraprese la carriera di diplomatico lavorando spesso in Africa settentrionale e in MedioOriente.

21 http://avalon.law.yale.edu/20th_century/sykes.asp (consultato per l'ultima volta in data 26/09/15)Cioè con la possibilità di imporre direttamente propri governanti o invece lasciare il potere a degli autoctoni, ma con precise direttive e obblighi.

22 In comune disaccordo poiché in realtà nessuna delle due parti riconosceva i propri interessiall'interno del compromesso. Picot riteneva fosse una soluzione instabile, che avrebbeprodotto conflitti nel futuro. Sykes, da parte sua, aveva paura che non possedere laPalestina potesse creare una falla nello schema di difesa coloniale.

24

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tutt'uno che possa funzionare”23.

La figura 1 mostra la divisione delle zone di influenza tra gli stati: in blu i territori

sotto il controllo francese, in rosso quelli inglesi. Il colore più scuro indica un

controllo diretto, quello più chiaro un controllo indiretto. I porti di Haifa e San

Giovanni d'Acri divennero parte dei domini inglesi, ma fu permesso alla Francia

di transitare e commerciare liberamente all'interno di essi.

Possiamo notare come la divisione dei territori e, in maniera minore, le attuali

divisioni tra stati, in grigio nella figura 1, rispettino la volontà di Sykes, cioè

siano orientate da sud-ovest verso nord-est, seguendo un'ideale linea da Acri a

Kirkuk.

23 Barr, A Line in the Sand, p. 28.

25

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(fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/b/bb/Sykes-Picot.svg/1000px-Sykes-Picot.svg.png)ultima consultazione 26/09/15

Fig. 1 - L'accordo di Sykes-Picot

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2.3 Chi abita Siria ed Iraq?

Un elemento fondamentale per cercare di comprendere la portata del

cambiamento imposto dagli accordi di Sykes-Picot nelle relazioni e nelle logiche

territoriali, è l'analisi degli attori che vivono questi luoghi cioè quali sono e da chi

sono formati quei gruppi che instaurano una rete di rapporti in questo contesto.

L'area mesopotamica è un mosaico di gruppi culturali e linguistici con differenti

credo religiosi, le cui vite e storie sono però strettamente intrecciate fra loro.

La Siria ha attualmente una popolazione di oltre 17 milioni di persone, il 90,3%

di origine araba, il restante 9,7% diviso tra curdi, turchi, armeni e altre

minoranze24.

L'Iraq a sua volta conta circa 37 milioni di abitanti, tre quarti dei quali arabi, un

20% circa di curdi e la restante parte formata da turcomanni e assiri.

Oltre a queste divisioni di tipo etnico, vi sono anche delle differenze di ambito

religioso tra i vari gruppi. In Siria la quasi totalità degli abitanti è musulmana:

74% appartiene al gruppo sunnita e 13% a quello sciita (duodecimani, alawiti,

ismailiti); vi sono tuttavia anche cristiani ortodossi, nestoriani e cattolici, e una

piccola percentuale di drusi ed ebrei.

Anche in Iraq la situazione è variegata: vi è sempre una maggioranza, in questo

caso quasi assoluta, di musulmani, con un 60% di popolazione sciita e un 35%

di popolazione sunnita. I primi, gli sciiti, abitano la zona sud-orientale del Paese,

i sunniti invece sono rappresentati ad occidente dal gruppo arabo e a

settentrione da quello curdo. Tra gli arabi e i curdi vi sono anche comunità

cristiane. Si contano poi anche minoranze di altri gruppi religiosi, come gli

yazidi, gli indù, i buddisti, gli ebrei, ecc.

Le figure 2 e 3 mostrano chiaramente il quadro etnico-religioso dell'area.

Quadro che non si limita a Siria ed Iraq, qui presi in considerazione, ma anche

agli stati limitrofi.

In figura 2 vediamo come la Siria sia in gran parte abitata dal gruppo arabo

24 I dati elencati e quelli seguenti sono presi dal sito: https://www.cia.gov/library/publications/resources/the-world-factbook/ (consultato per l'ultima volta in data 26/09/15)

27

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28

(fonte: http://www.rivistaeuropae.eu/esteri/sicurezza-2/evoluzioni-e-scenari-della-guerra-civile-siriana/)ultima consultazione 26/09/15

Fig. 2 - Divisioni etnico-religiose in Siria

(fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/iraq_res-d1f1d7b7-ac1e-11e2-9d1b-00271042e8d9_(Atlante-Geopolitico)/)ultima consultazione 26/09/15

Fig. 3 - Divisioni etnico-religiose in Iraq

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sunnita (indicato in giallo). Gruppi di significativa rilevanza sono quello curdo a

settentrione che si estende anche nei territori di Turchia e Iraq e parti di

Armenia e Iran (in grigio); quello degli sciiti alawiti sulla costa occidentale (in

verde); infine quello dei drusi al confine con la Giordania (in viola).

Nella figura 3 sono rappresentati i tre principali gruppi iracheni, quello arabo

sunnita (giallo) che occupa la parte centro-occidentale del Paese; quello arabo

sciita (verde) a sud-est; quello curdo (viola) a settentrione.

I dati sopracitati e le carte sono riferiti a stime recenti, del 2014. Possiamo

tuttavia immaginare come un secolo fa il variegato contesto etnico-religiose non

fosse molto diverso da quello attuale.

Diventa quindi evidente come gli accordi di Sykes-Picot e l'imposizione di un

ordinamento straniero ed estraneo, siano andati a modificare secondo logiche

eteronormate un mondo che era già ordinato da relazioni e dinamiche proprie.

I nuovi confini hanno posto barriere, hanno interrotto la precedente continuità

territoriale, separando individui appartenenti agli stessi gruppi. Comprensibile

quindi il senso di non appartenenza a un ordinamento che ci si è visti calare

dall'alto, che non si può definire proprio, che non si sente personale.

L'appartenenza territoriale deriva dal proprio sentire, dalla sfera dei sentimenti,

dal significato che viene attribuito a un determinato luogo, significato che

permette di identificarsi in esso. Nel momento in cui il luogo, come lo

conosciamo, scompare perché viene cambiato l'ordinamento della territorialità,

scompare di conseguenza anche il senso di appartenenza, poiché legato per

definizione al luogo e all'ordinamento stesso.

2.4 L'epoca dei mandati

Al termine della Grande Guerra, Regno Unito e Francia ottennero dalla Società

delle Nazioni il mandato25 su Iraq e Siria. Entrambi i mandati erano di tipo A;

25 Il mandato era un sistema adottato dalla Società delle Nazioni attraverso il quale alcuniterritori persi dagli stati sconfitti durante la prima guerra mondiale venivano affidati ai paesivincitori (in particolare Francia e Regno Unito), che mantenevano tuttavia degli obblighi neiconfronti degli abitanti dei territori e della Società delle Nazioni stessa.

29

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questo tipo di mandato era applicato a quei territori che potevano essere

riconosciuti come indipendenti, dato il loro livello di sviluppo, ma non ancora del

tutto autonomi e quindi bisognosi di un temporaneo affidamento fiduciario ad

una potenza mandataria.

Il mandato britannico in Iraq durò dodici anni, fino al 1932. Già due anni prima,

nel 1930, il governo inglese aveva concluso un trattato con il primo ministro

iracheno filo-britannico Nuri al-Sa'id. Il trattato anglo-iracheno prevedeva che al

termine del periodo mandatario ci fosse il riconoscimento dell'Iraq come stato

indipendente e il suo ingresso all'interno della Società delle Nazioni. Gli articoli

del trattato, tuttavia, concedevano al Regno Unito molteplici vantaggi

commerciali e militari, tra cui la possibilità di installare basi militari, muovere

liberamente le proprie truppe all'interno dello stato e sfruttare i giacimenti

petroliferi26. Il Regno d'Iraq nacque quindi monco, minacciato da

un'indipendenza e una sovranità solamente di facciata.

Per quanto riguarda il mandato francese in Siria, il governo di Parigi decise di

dividere la regione in sei stati: lo stato di Aleppo, lo stato di Damasco, il Gebel

Druso, lo stato Alawita, il Sangiaccato di Alessandretta e il Grande Libano.

L'occupazione francese e la stessa divisione del territorio non erano gradite alla

popolazione, tanto che solo attorno al 1923 la Francia riuscì a sedare

definitivamente rivolte e insurrezioni.

Da questi sei stati avranno origine gli attuali Libano (erede del Grande Libano) e

la Repubblica di Siria (dall'unione degli stati di Aleppo, Damasco, Gebel Druso,

Alawita), mentre il Sangiaccato di Alessandretta verrà successivamente

incorporato alla Turchia.

Un primo trattato di indipendenza venne annunciato nel 1934, ma altro non era

che il tentativo di imporre un'indipendenza fasulla, poiché la Francia si arrogava

una serie di privilegi e diritti (alcuni territori rimanevano al governo di Parigi che

manteneva inoltre piena libertà militare all'interno del Paese) che avrebbe

minato alla base la sovranità siriana. Tale trattato infatti fece scoppiare una

serie di rivolte popolari che convinsero il governo di Parigi a ritrattare le

26 http://www.gpo.gov/fdsys/pkg/CREC-2008-07-09/pdf/CREC-2008-07-09-pt1-PgH6315.pdf (consultato per l'ultima volta in data 26/09/15)

30

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condizioni27. La Francia avrebbe ridotto le ingerenze negli affari siriani, nonché il

numero di basi e truppe nella regione; in cambio la Siria si impegnava a

rimanere alleata della Francia e a permetterle l'utilizzo dello spazio aereo e di

due basi militari all'interno del territorio nazionale.

Il trattato fu concluso, ma la contemporanea minaccia crescente del nazismo e

di Adolf Hitler convinsero il governo francese a esitare (il controllo della Siria era

strategico nell'ipotesi di un eventuale nuovo conflitto mondiale), senza

sottoscrivere l'indipendenza siriana, che fu definitivamente approvata solo a

guerra conclusa, nel 1944.

Dopo la seconda guerra mondiale siamo dunque di fronte a Siria e Iraq quali

stati indipendenti, nonostante le loro rispettive potenze mandatarie abbiano

mantenuto privilegi e diritti sul territorio come la presenza di basi militari e la

possibilità di utilizzo di spazio aereo o porti navali.

2.5 Dal secondo dopo guerra ad oggi

Dal secondo dopo guerra ai primi anni '70 del Novecento, Siria ed Iraq

dovettero affrontare un susseguirsi di colpi di stato28 e rivolgimenti che minarono

la stabilità politica dei due paesi.

In Siria, nel 1970, il ministro della difesa Hazif al-Assad riuscì con un golpe

incruento a scalzare l'allora presidente Nur al-Din al-Atassi e a diventare leader

della Repubblica, instaurando un dominio autoritario. Hazif, esponente del

partito Ba'th29, operò una rapida epurazione degli oppositori e riuscì a portare

una definitiva stabilità politica in Siria al prezzo di un uso repressivo delle forze

27 Boroli – Boroli, Il Milione, p. 236.28 In Siria: nel marzo 1949 il colonnello Husni az-Zaim rovescia il governo legittimo; nell'agosto

1949 si verifica un altro golpe militare per mano del colonnello Sami al-Hinnawi; neldicembre 1949 fa seguito un altro colpo di stato per mano di Adib ash-Shishakli; nelnovembre 1951 Shishakli elimina gli oppositori interni; nel febbraio 1954 il colonnello Faisalal-Atasi prende il controllo del paese; nel 1961 un colpo di stato reinstaura la RepubblicaAraba di Siria dopo l'esperimento della Repubblica Araba Unita; nel marzo 1963 il partitoBa'th prende il potere. In Iraq: nel 1958 il generale Abd al-Karim Qasim ottiene con un colpodi stato il governo di Baghdad; nel 1963 un nuovo golpe organizzato dal partito Ba'throvesciò Qasim, portando al governo ʿAbd al-Salām ʿārif.

29 Il partito Ba'th Arabo Socialista è un partito nato in Siria nel 1947 e diffusosi in vari paesiarabi. Ideologicamente di sinistra, crede nel panarabismo e nel nazionalismo arabo.

31

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armate.

Il regime di Hazif durò fino alla sua morte avvenuta nel 2000, anno in cui gli

successe il figlio e attuale presidente della Siria, Bashar al-Assad.

Per quanto riguarda l'Iraq, nel 1968 un golpe portò alla presidenza il sunnita

Ahmad Hasan al-Bakr, leader della fazione irachena del partito Ba'th. Il suo

governo durò fino al 1979, cioè fino a quando egli non si ritirò lasciando il posto

all'allora vice-presidente, Saddam Hussein.

Costui instaurò un regime dittatoriale che ancora durava nei primi anni 2000,

quando scoppiò la seconda guerra del golfo30.

Questo conflitto, noto anche come Guerra d'Iraq, vide gli Stati Uniti assieme alla

cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, una serie di nazioni che supportavano gli

Stati Uniti di George W. Bush, contrapporsi all'Iraq all'interno della guerra

globale al terrorismo avviata dopo gli attentati dell'11 settembre 2001.

Il conflitto si sviluppò nel territorio iracheno nel 2003 e fu presentato come una

guerra preventiva31, come “l'eliminazione di una potenza che, presumibilmente,

sosteneva il terrorismo e, ancor più specificamente, la distruzione del presunto

arsenale iracheno di armi di distruzione di massa, in particolare testate

chimiche e batteriologiche”32.

Nel giro di poche settimane dall'inizio dell'attacco, gli Stati Uniti eliminarono le

resistenze e occuparono il Paese. Tuttavia il successo si trasformò rapidamente

in uno stallo: sciiti e curdi avevano sostenuto la liberazione dal regime di

Saddam, ma gli Stati Uniti non si dimostrarono in grado di venire incontro ai

bisogni della popolazione civile e di dare un nuovo ordinamento e un efficace

apparato governativo. Il crescente risentimento nazionalista nei confronti degli

invasori esplose ed entro pochi mesi “iniziò anche una resistenza militare,

animata soprattutto dai sunniti, che si estese trascinando il paese nella violenza

30 La seconda guerra del golfo è successiva alla prima guerra combattuta tra 1990 e 1991. Laprima guerra del golfo aveva visto confrontarsi Iraq e una coalizione guidata dagli Stati Unitiche aveva lo scopo di liberare il Kuwait invaso da Saddam Hussein.

31 Con “guerra preventiva” si intende una guerra dichiarata contro uno Stato poiché si presumeche esso stia portando, porterà o potrebbe portare avanti azioni economiche, politiche,militari contrarie agli interessi dello Stato dichiarante guerra.

32 Black, Le guerre nel mondo contemporaneo, p. 198.

32

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e nel caos”33 e causando una guerra civile e settaria che attirò combattenti

islamisti da tutto il mondo arabo.

È in questo contesto che diventa sempre più protagonista il gruppo islamista

sunnita dello Stato Islamico.

Nel capitolo 3 verrà ricostruita l'identità storica dell'antica forma di governo del

califfato e il recente processo di occupazione territoriale del califfato nero di Abu

Bakr al-Baghdadi.

33 Romero, Storia internazionale dell'età contemporanea, p. 123.

33

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Capitolo 3

Cos'è il califfato

Il califfato34 è la forma di governo che si instaurò nei territori islamici dopo la

morte del profeta Maometto nel 632.

Il califfo (da khalifa35, cioè vicario, reggente) prendeva il posto di quest'ultimo

come guida politica, amministrativa, militare della umma (la comunità

musulmana) e non, come spesso viene detto erroneamente, come guida

spirituale, religiosa o nuovo profeta.

In altre parole, il prestigio e l'autorità derivanti da tale carica, avevano

certamente dei risvolti nell'ambito religioso e spirituale, ma ufficialmente il califfo

era una guida prettamente civile, il cui compito era quello di proteggere e

difendere l'Islam o la comunità islamica di sua competenza. Questo era

coerente con il credo musulmano di indirizzo sunnita, secondo cui tutte le

creature sono uguali di fronte ad Allah e non vi può essere un individuo che

emerga e si ponga come capo religioso, come invece accade nel mondo

cristiano o anche solo in quello musulmano sciita36.

La carica di califfo, inoltre, e di conseguenza il califfato stesso, non trova

anticipazione o riferimento nelle sacre scritture islamiche, né nel Corano, né

negli Hadith, tradizioni sulla vita del profeta. Fu infatti un'invenzione originale

istituita dai compagni di Maometto per risolvere le questioni emerse appena

dopo la sua morte.

34 Quando scritto con la maiuscola ("Califfato"), si fa riferimento allo Stato Islamico.35 Per semplificazione, nella trascrizione di tutti i termini arabi sono stati omessi i segni

diacritici.36 Saccone, I percorsi dell'Islam, p. 144.

35

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3.1 Morte del profeta e storia del califfato

Maometto morì nel 632 senza figli maschi e senza aver mai dato indicazioni

riguardo la sua successione. La sua morte fu accolta dai vicini più stretti e da

tutta la umma con grande sgomento e angoscia; secondo la tradizione vi erano

molti che non volevano credere all'effettiva scomparsa del profeta. Lo stesso

Omar, futuro secondo califfo, pare spiegò alla folla l'assenza di Maometto

affermando che il profeta era andato a colloquiare temporaneamente con Allah,

così come aveva fatto Mosè sul Sinai, e che sarebbe prima o poi tornato37.

Nei giorni successivi riuscì ad emergere ed imporsi con forza come successore

alla guida della umma Abu Bakr, fedele amico di Maometto e candidato del

partito “elettivo”, ovvero il partito di coloro che ritenevano bisognasse eleggere il

successore tra chi aveva più autorità e autorevolezza all'interno della comunità.

A scontrarsi con costoro erano il partito medinese, presto messo a tacere,

convinto che il successore dovesse uscire dalla città che aveva accolto il

profeta, e il partito “legittimista”, espressione della famiglia di Maometto, il cui

candidato era Alì, cugino e genero del profeta.

Abu Bakr, primo califfo della storia dell'Islam, governò con energia per due anni,

fino al 634, riportando all'ordine le tribù arabe ribellatesi dopo la morte di

Maometto. Dopo di lui divenne califfo Omar, ancora una volta espressione del

partito elettivo, che allargò i confini dell'Islam oltre il mondo arabo. Nel 644 fu la

volta di Uthman, terzo califfo eletto, che fece redigere una versione definitiva

del Corano. Morto assassinato nel 656, gli succedette finalmente da Alì che

divenne quindi quarto califfo.

I primi quattro califfi sono detti al-rashidun, ovvero califfi “ben guidati”.

Alì assunse la guida della comunità in un clima di forte tensione, tanto che

pochi mesi dopo dovette affrontare una rivolta guidata dal governatore della

Siria, Mu'awiya, rivolta che sfociò in una vera e propria battaglia a Siffin, nel

657, da cui poi uscirà vittorioso Mu'awiya.

Mu'awiya, appartenente alla famiglia degli omayyadi, fu definitivamente

37 Saccone, I percorsi dell'Islam, p. 143.

36

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riconosciuto come califfo alla morte di Alì, nel 661. Spostò la capitale a

Damasco, in Siria, e diede inizio ad un califfato dinastico, quello che diventerà

noto come califfato omayyade.

I califfi omayyadi si susseguirono fino al 749, quando il governo della umma

passò ad un'altra dinastia, quella abbaside che spostò nuovamente la capitale,

da Damasco a Baghdad.

Con il califfato abbaside si ebbe un progressivo smantellamento dell'unità

politica: nel corso del X secolo venne perso l'Egitto, conquistato dai Fatimidi,

una dinastia sciita. Anche al-Andalus e Maghreb si staccarono dal califfato: nel

primo caso a causa dell'influenza di Abd al-Rahman, unico membro della

famiglia omayyade che riuscì a sopravvivere alla strage operata durante il

cambio di dinastia e fuggire da Damasco verso occidente; nel secondo caso a

causa dell'incredibile resistenza berbera.

Infine, con il trascorrere del tempo, buona parte dell'attuale Iran, della Siria e

della Mesopotamia ottennero de facto autonomia e indipendenza.

La dinastia abbaside di Baghdad ebbe termine con l'invasione mongola del

1258, ma il califfato trovò continuità in Egitto, rifondato da un membro della

famiglia fuggito dall'ex-capitale.

37

(fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Age_of_Caliphs.png)ultima consultazione 01/10/2015

Fig. 4 - Mappa dell'espansione del califfato (622-750)

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Quando nel 1517 il sultano ottomano conquisterà Il Cairo, otterrà anche il titolo

di califfo, ancora prestigioso, ma ormai vuoto di concreti significati.

Con il definitivo crollo dell'Impero Ottomano e la conseguente nascita della

Repubblica di Turchia, il califfato fu abolito nel 1924 per mano di Mustafa Kemal

ed i suoi poteri furono trasferiti alla Grande Assemblea Nazionale della Turchia,

il parlamento della neonata repubblica.

3.2 I risvolti politici delle diatribe teologiche

Fu dopo la morte di Maometto che iniziò a definirsi effettivamente un “credo”

islamico, una certa teologia che ebbe modo di formarsi attraverso numerose

discussioni, dibattiti e influenze da parte di molteplici correnti spirituali.

Una delle questioni centrali delle diatribe teologiche che si sviluppò attorno al

VIII-IX secolo fu il rapporto tra fede e opere compiute al fine della salvezza.

Tra le posizioni più importanti vi era quella sostenuta dai kharijiti. I kharijiti

(“coloro che sono usciti”) sono gli appartenenti alla setta islamica nata durante

la battaglia di Siffin tra Alì e Mu'awiya dal distaccamento di coloro che non

riconoscevano la validità di un arbitrato, frutto di un accordo tra i due rivali, per

definire la questione del califfato.

Secondo i kharijiti “le buone opere non possono disgiungersi dalla fede”38.

Inoltre, colui che si macchia di un peccato particolarmente grave, non deve più

essere considerato credente, ma, anzi, può essere perseguitato e punito. Dal

punto di vista politico, la tesi kharijita si traduceva nella possibilità, se non nel

dovere, di deporre il califfo riconosciuto peccatore.

Opposta a questa posizione era quella della scuola murji'ita. Il termine murji'ita

deriva da irja' che significa “proroga”. I sostenitori di tale scuola, infatti,

sostenevano che nessun uomo potesse giudicare le opere e la fede altrui, né

tanto meno stabilire chi fosse peccatore e chi pio, poiché tale giudizio poteva

appartenere solo a Dio. Solamente chi apostatasse pubblicamente era da

considerare fuori dalla umma. Di conseguenza nessuno aveva il diritto di

38 Saccone, I percorsi dell'Islam, p. 167.

38

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deporre un califfo, a cui invece bisognava garantire pieno sostegno e

legittimazione.

Questa fu in effetti la tendenza che si affermò nel corso dei secoli successivi,

cioè quella di astenere il giudizio sull'intima religiosità di ciascuno, lasciandolo

invece alla sua coscienza e a Dio.

L'imporsi di questa posizione fece sorgere molte critiche che denunciavano

l'incoraggiamento di atteggiamenti lassisti e noncuranti riguardo al

comportamento dei califfi, ma ebbe il merito di porre fine o perlomeno attenuare

le infinite discussioni che nascevano in seguito ad ogni azione del califfo,

garantendo quindi una maggiore unità religiosa.

3.3 La nascita del Califfato

Mustafa Kemal Atatürk, letteralmente il “Padre dei Turchi”, abolì il califfato nel

1924, coerentemente alla sua volontà di laicizzazione dello stato.

Da questo momento il califfato rimarrà un sogno, un obiettivo, una questione in

sospeso. Il desiderio di un nuovo stato islamico che possa riscattare i popoli

arabi nei confronti di un Occidente in costante arricchimento economico rimarrà

un fattore sempre presente in molte coscienze musulmane. Numerosi sono stati

i tentativi di far risorgere un califfato e prima dello Stato Islamico “hanno tentato

l'edificazione di uno stato jihadista Hamas nella Striscia di Gaza, i taleban39 del

mullah Omar in Afghanistan, gli shabaab40 somali nella regione di Mogadiscio e

il presidente autocrate Omar al-Bashir in Sudan”41.

Ma è solo novant'anni dopo che esso si riaffaccia concretamente nel mondo

islamico: il 29 giugno 2014 Abu Bakr al-Baghdadi dichiara la rifondazione del

califfato e si auto-proclama califfo dello “Stato Islamico dell'Iraq e del Levante”.

Abu Bakr al-Baghdadi, al secolo Ibrahim al-Badri, nasce nel nord dell'Iraq, nei

39 In italiano "talebani". Dal Vocabolario Treccani: "Denominazione degli studenti coranici,componenti della consorteria islamica estremistica che ha governato l’Afghanistan alla finedel XX secolo, e che successivamente hanno condotto, come strategia politica e ideologica,azioni di terrorismo e guerriglia".

40 Al-Shabaab ("i Giovani") è un gruppo islamista attivo in Somalia.41 Molinari, Il Califfato del terrore, p. 12.

39

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pressi di Samarra, nel 197142 e, secondo una biografia pubblicata in un sito

jihadista ora rimosso, egli sarebbe in possesso di un dottorato di ricerca in Studi

Islamici, conseguito all'università di Baghdad43.

Lo stato da lui fondato, oltre che con la sigla ISIL (Islamic State of Iraq and the

Levant), è conosciuto con altri acronimi (IS, ISIS), i cui significati saranno

nuovamente discussi nel prossimo capitolo, poiché importanti alla

comprensione della geografia del Califfato. Per chiarezza li accenneremo con

un breve excursus storico dell'organizzazione. Nonostante sia proprio attorno al

2014 che lo Stato Islamico acquista notorietà, le sue basi sono poste già nei

primi anni del nuovo millennio, quando un gruppo di jihadisti44 diventa

protagonista nella guerriglia che si sviluppa in Iraq durante e dopo la seconda

guerra del Golfo (2003-2011). Il 12 ottobre del 2006 Abu Omar al-Baghdadi45 dà

una brusca accelerazione agli obiettivi e alle pretese del gruppo, dichiarandosi

comandante dello Stato Islamico dell'Iraq (ISI), stato che riunirebbe sei

governatorati dell'Iraq (Baghdad, al-Anbar, Diyala, Kirkuk, Salah al-Din,

Ninawa)46.

42 Chulov, Abu Bakr al-Baghdadi emerges from shadows to rally Islamist followers.43 Lister, ISIS: the first terror group to build an Islamic state?.44 Con il termine "jihadisti" si intende coloro che propugnano attivamente la jihad nella sua

accezione di guerra santa contro gli infedeli.45 Abu Omar al-Baghdadi (1947-2010) è stato un terrorista iracheno e leader dello Stato

Islamico dell'Iraq.46 Roggio, The Rump Islamic Emirate of Iraq.

40

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Con l'avvento della primavera araba47 e lo scoppio delle sommosse popolari

nella vicina Siria48, lo Stato Islamico in Iraq ebbe modo di inserirsi nel conflitto

gettando rapidamente le basi di un controllo territoriale approfittando della

debolezza e dell'impegno su più fronti del governo di Bashar al-Assad,

presidente della Repubblica Araba di Siria.

La possibilità da parte dell'ISI di inserirsi all'interno del conflitto siriano fu

favorita in particolare dalla presenza di altre fazioni islamiste, come Jabhat al-

47 Con l'espressione "primavera araba" si fa riferimento all'ondata di proteste e disordini chehanno attraversato alcuni paesi arabi nel corso del 2011.

48 Lo scoppio delle proteste in Siria all'interno del contesto della primavera araba avevainizialmente lo scopo di portare alle dimissioni il presidente Bashar al-Assad e liberalizzare ilregime. Dal marzo 2011 le proteste si sono trasformate in veri e propri scontri armati tra lafazione governativa e quella ribelle, entrambe sostenute più o meno direttamente da varieforze internazionali.

41

(fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b2/Iraq%2C_administrative_divisions_-_de_-_monochrome.svg)

ultima consultazione 01/10/2015

Fig. 5 - I sei governatorati iracheni facenti parte dell'ISI

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Nusra, che già lottavano contro le forze governative siriane.

Il consolidarsi di tale influenza in Siria, portò Abu Bakr al-Baghdadi, subentrato

ad Abu Omar al-Baghdadi come comandante poiché questi era rimasto ucciso

durante un'incursione statunitense49, a proclamare nell'aprile del 2013 la nascita

dello “Stato Islamico dell'Iraq e Siria” (ISIS) tradotto anche come “Stato Islamico

dell'Iraq e del Levante” (ISIL)50.

È infine nel 2014, con la proclamazione del Califfato, che si diffonde

definitivamente la toponomastica più conosciuta, cioè Stato Islamico (IS),

omettendo indicazioni geografiche.

Lo scopo di Abu Bakr al-Baghdadi è appunto quello di creare uno stato

fondamentalista salafita nei territori che un tempo appartenevano al califfato nei

periodi di massima estensione (si veda il paragrafo 3.1). Non solo, una volta

raggiunto tale obiettivo, la conquista dovrà allargarsi verso l'occidente cristiano,

identificato simbolicamente con Roma nella retorica terroristica cioè in

quell'insieme di slogan, motti, immagini e immaginari che le organizzazioni

terroristiche contribuiscono a diffondere all'interno della propria propaganda,

fino a coinvolgere il mondo intero51.

3.3.1 Uno stato fondamentalista salafita

Innanzitutto parliamo appunto di uno stato, quindi di un'organizzazione che,

differentemente da altre come Al-Qaida, al-Shabaab o Boko Haram ha il

controllo totale di un territorio definito. È uno stato che funziona con le sue forze

di polizia, i suoi tribunali basati sulla più rigida applicazione della Shari'a, il suo

sistema fiscale. Questa è la novità più importante del nuovo Califfato, ciò che lo

rende diverso dai suddetti gruppi e organizzazioni che operano invece tramite

guerriglia e isolati attacchi terroristici, senza avere il controllo diretto di un

particolare territorio.

49 L'incursione ebbe luogo il 18 aprile 2010 a Tikrit, in Iraq, per mano di forze specialistatunitensi ed irachene nell'obiettivo di eliminare un leader dello jihadismo internazionale.

50 Black, The Islamic State: is it Isis, Isil – or possibly Daesh?.51 RQuotidiano, Iraq, il califfo integralista al-Baghdadi: “Conquisteremo Roma e il mondo

intero”.

42

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Ciò comporta anche che quella che si combatte contro il Califfato sia un nuovo

tipo di guerra. Lo Stato Islamico, infatti, adotta un nuovo paradigma di guerra

dove sono presenti elementi della guerriglia, dell'attentato terroristico, dove a

scontrarsi sono il Califfato, supportato da una serie caotica e cangiante di

gruppi minori, e un insieme di fazioni e forze che non si possono sempre

individuare in uno o più stati. È vero anche che in questo conflitto troviamo

elementi tipici della guerra convenzionale: trincee (nel Kurdistan per

esempio)52,53, eserciti regolari ben organizzati e gerarchicamente strutturati54.

La sfida lanciata all'Occidente e a chi non riconosce l'autorità del califfo è

diversa quindi dal passato, sebbene ne riprenda qualche tratto. È una minaccia

che fa largo uso del potere mediatico, utilizzato parallelamente all'attacco

armato. L'ISIS non si nasconde, anzi, si mostra in tutta la sua feroce teatralità: a

differenza di Osama bin Laden55, precedente incarnazione del nemico da

combattere e dell'estremismo religioso islamico nel nostro immaginario

collettivo, Abu Bakr al-Baghdadi non cerca rifugio. Bin Laden alternava visibilità,

data dai molteplici video girati56,57 in cui si dilungava in monologhi, e latitanza;

per anni è fuggito celandosi tra i monti dell'Hindu Kush, per anni è stato

cacciato dalle forze occidentali nel corso della lotta al terrorismo. Abu Bakr,

invece, si comporta esattamente nella maniera opposta: di lui e della sua

biografia si sa poco e, oltre al video della proclamazione del Califfato e qualche

rarissima foto (di dubbia autenticità), non ci sono altre sue immagini. Tuttavia

sappiamo benissimo dov'è: “tutti sanno che è a Mossul o a Raqqa

(rispettivamente Iraq e Siria NdA), ci sfida ad andarlo a catturare”58.

Ma torniamo al punto centrale: quello di Abu Bakr al-Baghdadi è uno stato

fondamentalista. Il fondamentalismo nasce in ambito cristiano protestante, ma

ad oggi il termine è utilizzato in senso lato per indicare l'atteggiamento rigido,

52 Thompson, U.S. Military Plan For Looming ISIS Offensive Takes Shape.53 Compasso, Nel Kurdistan siriano liberato dall'IS.54 Molinari, Il Califfato del terrore, p. 90.55 Osama bin Muhammad bin Awad bin Laden è stato un terrorista saudita, fondatore e leader

di Al-Qaida.56 https://www.youtube.com/watch?v=KiKyWJRRjnU (consultato per l'ultima volta il 26/09/2015)57 https://www.youtube.com/watch?v=dqQwnqjA-6w (consultato per l'ultima volta il 26/09/2015)58 Quirico, Il grande califfato, p. 35.

43

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dogmatico e acritico verso testi e teorie di tutte le religioni. Allo stesso modo si

parla di integralismo o radicalismo. Secondo Saccone59 bisognerebbe parlare di

“estremismo religioso” per due motivi.

Innanzitutto tale espressione sarebbe più neutra e quindi più rispettosa

dell'opinione pubblica musulmana, “infastidita e offesa dalla pervicace tendenza

dei media euro-americani a identificare l'Islam con movimenti minoritari e

violenti”.

In secondo luogo ci aiuterebbe a tenere a mente che l'estremismo religioso è

un fenomeno comune alle varie confessioni, non certo caratteristica esclusiva

dell'Islam.

Infine parliamo di uno stato salafita. La salafiyya, da salaf (“antichi”), è la

corrente di pensiero islamica che vuole rifarsi agli antichi, alla prima comunità

musulmana, modello di virtù e simbolo di un Islam puro. Oggi, parlare di

movimento salafita, significa parlare di movimenti che vogliono tornare ad una

lettura letterale e rigida del Corano e delle fonti islamiche, rigettando le

interpretazioni più libere, frutto di contaminazioni e cambiamenti avvenuti nel

corso dei secoli. Potrebbe sorprendere come anche gli islamici modernisti di

inizio Novecento, coloro che cercavano una modernizzazione dell'Islam tramite

il dialogo con l'Occidente, si definissero salafiti e si richiamassero anch'essi alla

prima comunità degli antichi. L'aspetto “passatista”60 è comune ad entrambi i

tentativi di rivoluzionare l'ambiente musulmano poiché comune è l'intento di far

risorgere l'Islam e riportarlo ai fasti delle origini. Sono diverse le strategie e i

metodi utilizzati.

3.4 La struttura del Califfato

Abu Bakr al-Baghdadi è il vertice di una piramide gerarchica ben definita e ben

strutturata. Il califfo, infatti, nonostante la propaganda lo presenti

mediaticamente come leader unico e assoluto, non è solo nel suo feroce

impegno, ma è accompagnato da una serie di sotto-ufficiali, funzionari e

59 Saccone, I percorsi dell'Islam, p. 448.60 Saccone, I percorsi dell'Islam, p. 414.

44

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delegati che prendono decisioni legate a determinati ambiti o, comunque,

aiutano il loro leader a prenderle.

In particolare, Abu Bakr al-Baghdadi è affiancato da una sorta di gabinetto di

consiglieri, un ristretto circolo di collaboratori tra cui si contano i capi militari,

quelli delle polizie religiose maschili e femminili, i responsabili della raccolta

delle tasse e via dicendo.

Lo Stato Islamico, lo approfondiremo nel prossimo capitolo, non ha intenzione

di mantenere le attuali divisioni statali e amministrative, anche se, in questa

fase di trasformazione e insicurezza, la strategia perseguita prevede due figure

di responsabili territoriali, uno in Iraq e uno in Siria, legati quindi agli attuali stati

nazionali. Costoro, che sono anche i vice del califfo, comandano a loro volta

ventiquattro governatori, rispettivamente dodici in Iraq e dodici in Siria.61

L'albero di comando continua poi con ulteriori comitati di ordine locale,

sottoposti ai suddetti governatori, che pongono in esecuzione i decreti e le leggi

emanate da Abu Bakr. In questa struttura gerarchica, buona parte delle cariche

e dei ruoli importanti è in mano a ex militari iracheni “che garantiscono all'ISIS

esperienza tecnica, militare e di sicurezza”62.

Infine il Consiglio della Shari'a, suprema autorità religiosa, composto da sei

membri dall'identità segreta, a cui spetta l'interpretazione delle legge islamica e

quindi la voce ultima sull'amministrazione della giustizia.

Al di là di questa struttura ben definita, vi sono infine alcune figure investite

personalmente da Abu Bakr al-Baghdadi di ruoli particolari, come Abdul

Rahman al-Afari, responsabile dei rapporti con le famiglie dei jihadisti caduti,

Abu Mohammad al-Adnani, portavoce ufficiale dello Stato Islamico e Abdullah

Ahmad al-Mishhadani, che coordina gli alloggi per i volontari stranieri63.

61 Belardelli, Anatomia del califfato: al-Baghdadi, 2 vice, 24 governatori e un comitato religioso.Ecco come funziona l'Isis.

62 Molinari, Il Califfato del terrore, p. 70.63 Taylor, Charting the murky leadership structure of the Islamic State.

45

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3.5 La legittimità del Califfato

Nonostante Abu Bakr al-Baghdadi si dichiari califfo di uno Stato Islamico e

leader di tutti i musulmani che rispondo al suo Islam puro64, la sua carica e i

suoi annunci non trovano condivisione e appoggio tra la maggior parte delle più

importanti istituzioni islamiche.

Il Califfato, secondo buona parte del mondo musulmano, così come presentato

da Abu Bakr, non può trovare legittimazione e ogni dichiarazione effettuata

dall'autonominatosi califfo non ha alcun valore a livello assoluto.

L'Organizzazione della Cooperazione Islamica (OCI)65 raduna 57 paesi e

mantiene una delegazione permanente al Consiglio di Sicurezza dell'ONU; il

suo obiettivo è la salvaguardia degli interessi e lo sviluppo del mondo

musulmano. Il suo segretario ha affermato che quelli commessi dallo Stato

Islamico sono crimini intollerabili e che “le atrocità commesse e le pratiche in

atto non hanno nulla a che vedere con l'Islam, con i suoi principi di tolleranza e

convivenza”66.

Anche il Gran Mufti d'Egitto Shawki Allam, massima autorità religiosa egiziana,

si è espresso in maniera negativa nei confronti della legittimità dello Stato

Islamico. Esso “viola tutti i principi dell'Islam” e “rappresenta un pericolo per

l'Islam e per i musulmani del mondo”67. Della stessa opinione il Gran Mufti

saudita, che definisce il nuovo Califfato come il nemico numero uno dell'Islam68.

La stessa Lega Araba ha denunciato più volte i crimini contro l'umanità

commessi dall'IS e ha creato una coalizione per combatterne la minaccia69.

Ferme dichiarazioni di condanna sono arrivate anche da molte altre istituzioni e

alte figure del mondo musulmano come il Muslim Council of Great Britain, il

Muslim Public Affairs Council, l'Islamic Society of North America, Mehmet

64 Abu Bakr al-Baghdadi afferma di aver stabilito il suo Califfato per riportare l'Islam deviato delpresente alla purezza del passato.

65 L'Organizzazione della Cooperazione Islamica è la seconda più grande organizzazioneintergovernativa dopo l'ONU, comprendendo 57 stati distribuiti in 4 continenti. Fu fondata aRabat, in Marocco, il 25 settembre 1969. L'organizzazione è la voce del mondo musulmano.

66 Radio Vaticana, Organizzazione dei Paesi Islamici difende i cristiani di Mosul.67 Zoja, Il gran muftì d'Egitto: "Violati tutti i principi dell'Islam".68 Al Arabiya News, "ISIS is enemy No. 1 of Islam" says Saudi grand mufti.69 Corriere della Sera, Lega Araba, "tutti uniti contro l'ISIS".

46

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Gormez, presidente degli affari religiosi turchi e da centinaia di imam sunniti e

sciiti di tutto il mondo.

I media occidentali, potente veicolo di idee e formatori di cultura, danno poca

visibilità a queste posizioni che rappresentano la maggior parte del mondo

musulmano.

Spesso, infatti, l'eliminazione o la scarsa visibilità di questa parte consistente di

opinione del mondo musulmano, contribuisce a far emergere l'idea di un Islam

violento, di un Islam del terrore, la cui immagine più spettacolare è appunto lo

Stato Islamico.

Insidioso, pericoloso e ancora più diffuso è il pensiero che l'Islam abbia due

facce: un volto pacifico e un volto feroce. Il nuovo Califfato, così come le altre

organizzazioni terroristiche sorte nell'ambito musulmano, sarebbe quindi una

delle forme dell'Islam, quella violenta. Essendo respinta dalle più autorevoli

autorità islamiche nonché dalla maggior parte dei fedeli, il nuovo Califfato è

qualcosa di diverso dall'Islam in quanto ne viola tutti i principi.

Dare più risalto alle posizioni del mondo musulmano, mostrare come i terroristi

di qualsiasi organizzazione non rappresentino una religione, ma siano

espressione di interpretazioni ed idee molto personali, aiuterebbe forse a

combattere il fondamentalismo, ma ancora di più aiuterebbe a combattere

ignoranza e sospetto, diffidenza e odio. Riuscire ad instaurare e pubblicizzare il

dialogo con le autorità sopracitate può essere dunque un primo passo nella

conoscenza delle reciproche diversità, nella comprensione reale dell'altro.

3.6 Le strategie comunicative

L'obiettivo del Califfato è quello di islamizzare la modernità, anziché

modernizzare l'Islam. Da qui assistiamo all'emanazione e all'attuazione di alcuni

decreti e orientamenti da parte del Califfato che appaiono decisamente

anacronistici, dalla proibizione della visione di partite di calcio all'ascolto e

produzione di musica, dall'abolizione della ginnastica scolastica alla furia

iconoclasta. Atteggiamenti che, oltre ad apparire irragionevoli, derivano da

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interpretazioni molto arbitrarie e forzate della legge islamica o, quando non è

possibile trovare legami con essa, sono motivati dalla volontà di rifuggire le

decadenze occidentali.

Nonostante ciò, a differenza dei talebani con cui si potrebbero trovare alcune

somiglianze, lo Stato Islamico non disdegna l'utilizzo dei social media, anzi, ne

ha fatto un pilastro della propria strategia comunicativa e propagandistica.

Il Califfato utilizza supporti come Youtube, Twitter, Facebook inserendo foto,

video, post, commenti e molto altro. Durante eventi di portata mondiale, come i

mondiali di calcio in Brasile del 2014, lo Stato Islamico utilizzava hashtag70

come #Brazil2014, #ENG, #France, #WC201471, al fine di comparire nei risultati

di ricerca di chi inserisse tali etichette e di aumentare esponenzialmente il

proprio bacino di visibilità.

L'utilizzo di questi social network permette di raggiungere milioni di persone, le

cui coscienze possono quindi essere indirizzate, convinte, plagiate dall'abile

propaganda islamista. In questo modo si reclutano volontari da tutto il mondo e

“si moltiplicano i lupi solitari, singoli individui che scelgono di diventare

protagonisti della jihad lanciandosi in attacchi personali, non coordinati con altri,

e dunque molto difficili da prevenire”72.

Internet diventa quindi la piazza dove reclutare e diffondere un messaggio

fortemente ideologico. Un messaggio ideologico teatralizzato attraverso

l'utilizzo di video professionali, a tratti “hollywoodiani”, e rivolto al mondo intero,

utilizzando l'inglese, se non già parlato, sottotitolato, come lingua veicolare.

3.7 L'eredità del Califfato

Possiamo dunque affermare che il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi non eredita

il ruolo, la funzione, l'autorità dei califfati del passato.

70 Da Garzanti Linguistica: "parola o frase preceduta dal simbolo cancelletto (#), che permettedi contrassegnare i messaggi con una parola chiave utile a classificarli, rendendolifacilmente reperibili agli utenti interessati all’argomento".

71 Milmo, Iraq crisis exclusive: Isis jihadists using World Cup and Premier League hashtags topromote extremist propaganda on Twitter.

72 Molinari, Il Califfato del terrore, p. 141.

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Il califfato radunava sotto di sé l'intera umma, l'intero mondo musulmano, ed era

elemento di unità che oltrepassava le barriere etniche.

Nonostante negli ultimi secoli di vita il suo potere effettivo fosse praticamente

nullo, la figura del califfo aveva ancora autorità e forte valore simbolico. Il

Califfato attuale, quello nero di al-Baghdadi, poggia parte del suo consenso

sulla nostalgica affezione all'idea di califfato. Per alcuni musulmani, più che

l'effettiva esistenza di un califfato, ciò che importa è l'insieme di valori e ideali

che esso porta con sé. Ideali che evocano gloria, fratellanza, pace tra

musulmani, che evocano libertà dal giogo occidentale.

I seguaci dello Stato Islamico non rincorrono questi stessi valori, non hanno

questo obiettivo, i fatti lo dimostrano. Il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi del

califfato porta solo il nome.

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Capitolo 4

La geografia del Califfato

Gli accordi di Sykes-Picot (16 maggio 1916) imposero un certo ordinamento

della territorialità73 in Medio Oriente. Questo ordinamento, accettato per qualche

decennio, nel 2014 è stato messo in discussione dallo Stato Islamico. Gli

appartenenti a tale gruppo non solo non lo ritengono legittimo, cioè non lo

riconoscono politicamente e socialmente, ma ne hanno già dichiarato il

decadimento, in favore di un nuovo ordinamento, una nuova geografia islamica.

Intendiamo per geografia la forma territoriale dell'agire sociale secondo quanto

definito da Turco74.

4.1 Le trasgressioni alla territorialità

Pase ci insegna che l'istituzionalizzazione di comportamenti territoriali porta alla

creazione di “orizzonti stabili di relazione verso le altre società e tra i membri al

suo interno”75. Tali orizzonti stabili di relazione possono essere chiamati

“ordinamenti della territorialità”. Essi possono tuttavia essere violati attraverso

diversi tipi di trasgressioni76. In particolare Pase distingue quattro tipi di

trasgressione.

In primo luogo la "circolazione di uomini e cose o di comunicazione di

73 Per Raffestin la territorialità è l'insieme delle relazioni esistenziali e/o produttive che un attoreinstaura con il territorio e che gli permettono di relazionarsi con altri attori; Raffestin, Per unageografia del potere.

74 Turco sostiene che la geografia è forma territoriale dell'agire sociale. L'agire socialedell'uomo, nel corso della storia, ha sempre avuto come obiettivo rifuggire gli aspettideterministici della natura, cercando di raggiungere una certa autonomia. Questa autonomiapermette all'uomo di liberarsi da relazioni deterministiche, in favore di una maggiore libertà discelta e azione; si vengono ora a creare, dunque, relazioni non più deterministiche, maaleatorie. Lo scarto tra ciò che verrà attuato e ciò che rimarrà allo stato potenziale vienedefinito da Turco "complessità" e va a costituire l'elemento centrale di ogni sistema sociale eterritoriale. Turco, Verso una teoria geografica della complessità.

75 Pase, Linee sulla terra, p. 47.76 Pase, Linee sulla terra, p. 63.

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informazione che l'ordinamento vieta"77; quando cioè il limite definito da un

confine viene oltrepassato nell'illegalità, violando la norma imposta

dall'ordinamento. Contrabbando di merci, migrazioni clandestine e passaggio di

informazioni indesiderate sono trasgressioni diffusissime, storicamente note e

ancor oggi presenti nei nostri ordinamenti della territorialità. Se trasgressioni di

questo tipo si possono in parte considerare fisiologiche del nostro sistema

geografico e politico, è chiaro che nel momento in cui raggiungono importanti

dimensioni quantitative diventano un netto segnale dell'inadeguatezza

dell'ordinamento in questione o dell'inefficacia degli attori che lo impongono.

Un secondo tipo di trasgressione è quello che porta ad un “cambiamento di

forma o di tracciato del confine tra interno ed esterno”78; cioè quando muta

l'assetto dell'ordinamento: un limite viene spostato, dei muri che delimitavano

un confine vengono abbattuti, il tracciato di una frontiera viene modificato, ecc..

Un terzo tipo è legato al “cambiamento delle regole di accesso a un campo

definito da un sistema di limiti”79. La norma cambia: ciò che prima era escluso

ora può essere incluso, ciò che prima poteva accedere ora è escluso. Questo

cambiamento delle regole può essere dovuto a precedenti infrazioni alle quali

non si riusciva a porre fine o da necessità sorte dopo l'istituzione di tale

ordinamento.

Infine, l'ultimo tipo di trasgressione è “l'annuncio di un cambiamento di

ordinamento”80. È la trasgressione più radicale, più drastica, poiché è un

cambiamento che si pone a monte, all'origine del problema: un ordinamento

non viene più riconosciuto tale dagli attori che lo vivono e al suo posto viene

imposto un altro ordinamento. Un nuovo “interno” - ciò che sta dentro – ed un

nuovo “esterno” - ciò che sta fuori – vengono creati e possono differire

completamente da quelli precedenti.

Questo ultimo tipo di trasgressione è quello che ci interessa di più ai fini del

nostro discorso, poiché è la trasgressione avvenuta per mano

77 Ibidem.78 Ibidem.79 Ibidem.80 Ibidem.

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dell'autoproclamatosi Stato Islamico lungo il confine siriano-iracheno nel corso

del 2014.

4.2 La fine di Sykes-Picot

Nel luglio 2014, dopo la proclamazione della nascita del Califfato da parte di

Abu Bakr al-Baghdadi, venne pubblicato su Youtube un video intitolato La fine

di Sykes-Picot in cui un militante cileno81 annunciava l'annientamento del

confine tra Siria ed Iraq deciso dagli accordi franco-britannici del 1916.

Secondo Napoleoni, affidare l'annuncio ad un cileno è una strategia

comunicativa per rendere “un'immagine dello Stato Islamico tanto cosmopolita

quanto reale, un'organizzazione dotata di un raggio d'azione globale”82.

Malgrado l'account del video sia stato immediatamente bloccato e reso

indisponibile l'indirizzo internet collegato, il video è ancora recuperabile e

visibile83. Dal video si possono recuperare le immagini che mostrano la

rimozione dei cumuli di terra che segnavano il confine tra Siria ed Iraq

attraverso l'azione di spianamento di un bulldozer, la manifestazione di gioia tra

i presenti e le frasi soddisfatte quali “abbiamo cancellato Sykes-Picot”.

Il vecchio ordinamento territoriale, quello imposto nel 1916 con i trattati di

Sykes-Picot e materialmente tangibile nei reticolati, nei cippi posti nel bel mezzo

dei deserti mediorientali, perde di valore e acquista senso e legittimità quello

imposto dal Califfato.

Nello stesso video, sottotitolato in inglese, si ascoltano frasi di una certa

eloquenza. Durante il viaggio verso il confine un militante siriano afferma:

“vengo dalla Siria e ho 28 anni. Questa è la prima volta che entro in Iraq senza

passaporto”; lo stesso concetto viene ripetuto da un suo compagno: “vengo

dalla Tunisia e questa è la prima volta che entro in Iraq senza utilizzare un

passaporto, un visto o qualsiasi altra cosa”. La scena si conclude con il militante

81 Il militante si presenta come Abu Safiyya, ma il suo vero nome è stato scoperto essereBastian Alexis Sanchez.

82 Napoleoni, ISIS lo stato del terrore, p. 54.83 https://www.youtube.com/watch?v=TxX_THjtXOw (consultato per l'ultima volta il 26/09/2015)

53

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siriano che ripete: “ora siamo uno stato, lo Stato Islamico, con il Califfo, Principe

dei Fedeli, Abu Bakr al-Baghdadi”.

Sono poche frasi, ma dense di significati. Innanzitutto la novità di poter passare

da uno stato all'altro senza la documentazione prima richiesta. L'ordinamento

precedente è stato abbattuto, almeno in quell'area ha perso di significato.

Persone e cose il cui passaggio era presidiato e sorvegliato, possono ora

attraversare il confine senza particolari problemi e controlli. È la prima volta che

ciò accade negli ultimi cento anni.

In secondo luogo l'esplicitazione della trasgressione di cui si parlava sopra,

quella più radicale, cioè il cambiamento di ordinamento: ora vi è lo Stato

Islamico. Non ci sono più Siria, Iraq e i confini sorti dalle ceneri dell'Impero

Ottomano, ma c'è un nuovo unico stato, lo stato del Califfo.

La costituzione di un nuovo ordinamento territoriale non si conclude con il

dissolvimento del confine siriano-iracheno ma, secondo quanto riferito da un

portavoce dello Stato Islamico, procederà con l'abbattimento dei confini in

Giordania, Libano e Iraq84.

4.3 Dar al-Islam

La geografia che Abu Bakr al-Baghdadi vuole imporre è una geografia nuova.

Nuova non solo perché diversa da quella attuale - anche se ormai dovremmo

dire “precedente” poiché le conquiste territoriali del Califfato non sono semplici

progetti, ma realtà tangibili -, che prevedeva degli stati mediorientali divisi da

confini ben definiti ideati nei primi decenni del XX secolo.

Nuova soprattutto perché completamente diversa da quella a cui ci aveva

abituato la cartografia del Novecento. Lo Stato Islamico, infatti, non divide tra

stati nazionali, non pone i confini che noi poniamo, non ragiona con le nostre

logiche. Esso, lo dice la denominazione stessa, è un unico stato, lo Stato. Uno

stato la cui discriminante è il suo essere islamico. È l'Islam dunque, che pone il

confine: dove c'è l'Islam c'è (o ci dovrebbe essere) lo Stato Islamico.

84 Internazionale, Lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante proclama il califfato.

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In questo caso la geografia è serva della religione: si trasforma in semplice

rappresentazione cartografica di un ordine verso l'interno e verso l'esterno che

è già stabilito dalla religione. La geografia diventa un mezzo attraverso il quale

mostrare e rendere esplicita la distinzione di fede, attraverso il quale la religione

si può dispiegare concretamente sulla terra. Se si volesse trovare un confine in

questa concezione dello spazio, esso ricalcherebbe il confine della umma. La

comunità religiosa dei musulmani forma il popolo, forma la nazione. Tutto ciò

che si interpone, che tenta di alterare lo spazio in altri modi, di distinguere

diversamente, è errato, poiché umano.

Allah stesso, infatti, parla di una dar al-Islam, una casa dell'Islam dove possono

vivere solamente i musulmani e, con qualche limitazione, i dhimmi, le genti del

libro (Ahl al-Kitab) cioè i cristiani e gli ebrei.

Come accennato nel precedente capitolo (si veda capitolo 3), l'attuale struttura

del Califfato prevede un responsabile per i territori iracheni ed un responsabile

per quelli siriani. Questi sono tuttavia incarichi idealmente transitori, poiché

transitorio, secondo Abu Bakr, è il pensare ancora a Siria ed Iraq come stati

permanenti.

L'indirizzo è quello della creazione di una nuova concezione di geografia, dove

lo spazio esiste in funzione di Dio e dove l'appartenenza ad uno stato, il vincolo

nazionale, di cittadinanza, è sostituito completamente dal vincolo religioso.

Sarà dunque uno Stato Islamico sicuramente composito, poiché formato da

molteplici gruppi socio-culturali, con diverse lingue, storie, consuetudini, ma

unito sotto la bandiera nera di Abu Bakr al-Baghdadi.

4.4 Dar al-Harb

Si è detto che la dar al-Islam è la dimora della umma e che l'unico legame

vincolante al suo interno, nonché l'unico legittimo, è quello religioso. Questo è il

concetto fondante nella creazione della nuova geografia islamista dell'ISIS che

definisce ciò che sta “dentro”. Ma come viene definito ciò che sta fuori? Quale

considerazione ha la dar al-Islam per ciò che è esterno al suo confine?

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Ciò che non è casa dell'Islam è dar al-Harb, casa della guerra, spazio di

conflitto. Alcuni studiosi, del presente e del passato, affermano che esso è

spazio di conflitto, del disordine poiché deve ancora giungervi la parola di Allah

e l'Islam deve ancora porre le sue basi; le genti che abitano questi luoghi di

innocente ignoranza si combattono poiché non conoscono la verità e la via per

la pace. Si può qui osservare come l'Islam abbia il compito di costruire ordine

dal caos, di costituire una situazione normale, in cui cioè possa essere

applicata una norma.

Altri islamologhi85, invece, affermano che è spazio di conflitto poiché è spazio

esterno alla umma e quindi considerato “come potenzialmente ostile e come

spazio di conquista”86.

É proprio questo il punto su cui la retorica dello Stato Islamico insiste. I

miscredenti, i pagani, gli infedeli devono immediatamente convertirsi all'unica

vera religione, altrimenti saranno passati a fil di lama.

Importante è sottolineare come Abu Bakr al-Baghdadi e i suoi adepti non esitino

a colpire e a considerare ostili anche cristiani ed ebrei, cioè coloro che lo stesso

Corano suggerisce di trattare con un certo riguardo87.

Molinari riporta ciò che Dabiq, rivista dello Stato Islamico, annunciava:

“Prenderemo Roma, spezzeremo le sue croci, renderemo schiave le sue

donne, e se non saremo noi a farlo, ci riusciranno i nostri figli o i nostri nipoti,

vendendo sui mercati degli schiavi i figli di Roma”88.

L'obiettivo del Califfato, quindi, è chiaro: occupare i luoghi appartenuti nel

passato all'Islam ed invadere i principali luoghi della cristianità, di cui Roma è

simbolo.

Nella figura 6, la carta rappresenta i territori obiettivo della conquista islamista,

85 Il termine "islamisti", soprattutto a causa del suo utilizzo giornalistico, è entrato nell'usocorrente per indicare gli estremisti religiosi islamici. Si è dunque scelto di utilizzare il piùneutro termine "islamologhi" per indicare studiosi e ricercatori della cultura islamica.

86 Saccone, I percorsi dell'Islam, p. 30.87 "Coloro che credono, i Giudei, i Sabei o i Nazareni e chiunque creda in Allah e nell'Ultimo

Giorno e compia il bene, non avranno niente da temere e non saranno afflitti" (Corano V, 69);"I credenti sono tutti fratelli: mettete dunque pace tra i vostri fratelli, e temete Iddio, e chissàche Egli abbia pietà di voi" (Corano XLIX, 10).In generale ebrei e cristiani, in quanto in possesso di rivelazioni riconosciute dall'Islam comeprecedenti al Corano, godono di una considerazione del tutto particolare.

88 Molinari, Il califfato del terrore, p. 19.

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secondo i progetti dell'organizzazione. Essi comprendono l'intera Africa

settentrionale e parte di quella equatoriale, tutto il Medio Oriente con

Afghanistan e Pakistan e, ancora più ad est, le vecchie repubbliche sovietiche

dell'Asia centrale (Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan,

Tagikistan). Sono poi segnati alcuni territori di Cina, Russia, India e altri stati.

Il progetto di conquista di Abu Bakr al-Baghdadi non si limita ad Africa e Asia,

giunge nel cuore dell'Europa, scuotendo le nostre coscienze e accendendo le

nostre paure. Se fosse una minaccia confinata ad altri continenti non la

sentiremmo nostra, poiché rimarrebbe relegata ad un altrove che, in quanto

tale, non è qui89. Sarebbero circostanze che considereremmo certamente

terribili, ma legate ad altri, circostanze legate in maniera esclusiva a terre dove

regna il caos e l'instabilità politica, in contrapposizione al nostro democratico e

civile Occidente90. Garantiremmo il nostro dissenso a tali barbarie e la nostra

solidarietà alle genti vittime di esse, ma ci dimenticheremmo presto di tutto ciò,

convinti che crisi del genere riguardino solo gli altri, sicuri all'interno della

89 Aime - Papotti, L'altro e l'altrove.90 Said, Orientalismo.

57

(fonte: www.ilsole24ore.com)ultima consultazione 29/09/2015

Fig. 6 - I territori obiettivo dell'ISIS

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“Fortezza Europa”91, o meglio, della “Fortezza Occidente”. Tuttavia non è così,

la bandiera del terrore colora di nero anche la Spagna e i Balcani e la sua

propaganda colpisce Roma, l'Italia, il resto dell'Europa e dell'Occidente, e mai

come oggi la sentiamo così vicina.

4.5 La jihad globale

Siamo di fronte a quella che viene spesso definita jihad globale, cioè la lotta

armata per l'espansione dell'Islam in tutto il mondo. Jihad viene spesso tradotto

in “guerra santa”, ma il suo significato letterale e profondo è quello di “sforzo”,

uno sforzo volto a vivere attivamente la propria fede. Il musulmano pio ha il

compito di fare il possibile per aumentare la qualità e la quantità, per usare dei

termini economici, del proprio servizio a Dio. Non per forza, come si è soliti

pensare, tale sforzo deve essere rivolto verso l'esterno. Anzi, spesso si

distingue tra una “piccola jihad”, forse la più famosa al pubblico occidentale,

cioè lo sforzo militare, la guerra santa di cui si scriveva prima, e una “grande

jihad”, la più importante, “quella che ciascun credente è chiamato a combattere

all'interno di se stesso per sconfiggere quanto lo distrae dal suo Signore”92.

Abu Bakr e i suoi seguaci sembrano intenzionati a portare avanti e fino in fondo

una jihad fatta con le armi contro chi non si piega al volere del Califfo,

imponendo l'Islam teoricamente in tutto il mondo.

La jihad dello Stato Islamico è un mezzo attraverso il quale portare la propria

concezione di mondo in tutto il globo, annullando le geografie nazionali, le

logiche politiche e creando la umma mondiale.

91 Con l'espressione "Fortezza Europa" s'intende quell'immagine di Europa, o meglio, diUnione Europea, che, antiteticamente ai valori di libertà di movimento che propugna al suointerno, dimostra una tendenza a chiudersi in se stessa innalzando un sistema di barriereintorno a sé.

92 Saccone, I percorsi dell'Islam, p. 289.

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4.6 La geografia araba

Importante ai fini propagandistici ed efficace per capire le idee che guidano gli

islamisti dell'ISIS è osservare come essi utilizzino con attenzione la

terminologia e le definizioni.

Abu Bakr al-Baghdadi evoca la rinascita di al-Sham, territorio che

comprenderebbe in modo approssimativo gli attuali stati di Siria, Libano, Iraq,

Giordania, Israele, Palestina. Nella denominazione originale araba, prima di

passare alla più semplice definizione di Stato Islamico, l'organizzazione si

definiva al-Dawla al-Islamiyya fi al-ʿIraq wa l-Sham, dove appunto si parlava di

Stato Islamico di Iraq e al-Sham. Questo ha creato numerose difficoltà di

traduzione ai media e agli stessi governi del mondo non arabo. Come già scritto

nel precedente capitolo (si veda il capitolo 3), si è optato per l'acronimo "ISIS"

dove le ultime due lettere sono le iniziali di Iraq e Siria. Così facendo, tuttavia, si

perdono alcuni territori rivendicati nella denominazione in lingua araba, come la

Giordania, il Libano, la Palestina.

Soprattutto dai governi statunitense e britannico e in generale negli ambienti

anglofoni, si è utilizzato "ISIL", parlando di Iraq e di un più generico Levante,

che non ha alcuna connotazione territoriale, ma si costituisce come

rappresentazione eterocentrata di un altrove dai confini non ben definiti. Il

problema, lo stesso per quelle poche testate giornalistiche che per breve tempo

hanno mantenuto “Iraq e al-Sham” senza tradurre quest'ultima espressione, è

far capire al pubblico cosa si intenda a livello geografico; in altre parole, il

territorio di al-Sham ha una collocazione precisa ma spesso ignota a noi

occidentali, tanto che per molti il termine rimane sconosciuto. Trovare

un'espressione che sia familiare al pubblico europeo e statunitense e che sia

geograficamente corrispondente diventa un'impresa che necessariamente deve

andare incontro ad un certo grado di approssimazione.

È qui che si mostra in tutta la sua grandezza la differenza di visione tra il

Califfato e il resto del mondo. Il Califfato e buona parte del mondo arabo utilizza

termini come al-Sham, Hegiaz, al-Andalus.

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L'Occidente invece rappresenta questi territori attraverso quei confini e quegli

stati che sono l'esito di un processo di territorializzazione e di un ordinamento

territoriale propri dell'Occidente. Processi e ordinamenti che sono stati

caratterizzati da relazioni asimmetriche, con un Occidente, attore forte, che

spesso ne ha stabilito arbitrariamente l'esistenza e le modalità di esistenza,

senza badare ai bisogni degli altri.

Ecco quindi che noi ci riferiamo a Sykes-Picot, parliamo di Siria e non di al

Sham, di Arabia Saudita e non di Hegiaz, di Spagna e non di Andalus.

Da qui l'incomunicabilità tra i due mondi, tra le due geografie. Le difficoltà di

mediare con le parole derivano dal fatto che esse hanno significati ben più

profondi: nominare un luogo, cioè dargli un nome, è un primo atto di

territorializzazione, rappresenta una prima modalità di uso, produzione e

trasformazione del territorio93. La costruzione linguistica di un territorio è il

passo iniziale verso il suo controllo e, oltre a contenere e trasmettere

informazioni su di esso, è espressione della cultura che nomina.

4.7 L'alternativa allo Stato Islamico

La geografia mediorientale è una geografia imposta dall'Occidente. Per di più è

una geografia imposta su un mondo che è un mosaico di gruppi socio-culturali,

religioni, lingue e consuetudini. La complessità culturale e l'eterogeneità sociale

diventano elementi che spesso ostacolano o quantomeno pongono difficoltà

alla costruzione di una solida unità nazionale sui confini imposti dopo gli accordi

di Sykes-Picot. Anche per questo lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi

trova consenso e spazio d'azione. Egli infatti parla con un altro linguaggio,

riporta in vita territori e geografie che riaccendono sentimenti di appartenenza e

identità nei cuori arabi. Inoltre allarga il proprio consenso sociale ponendo come

base di riconoscimento non il gruppo sociale o la cittadinanza, ma la religione

islamica, che unisce arabi, persiani, turchi, kurdi e via dicendo.

A rimetterci sono le minoranze religiose (cristiani, ebrei, musulmani sciiti).

93 Turco, Verso una teoria geografica della complessità.

60

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Il giornalista Robin Wright affermava nel 2013 che in Medio Oriente94 “una

mappatura differente sarebbe un elemento di svolta strategica praticamente per

tutti, capace potenzialmente di riconfigurare alleanze, le sfide legate alla

sicurezza, i commerci e i flussi di energia per gran parte del mondo”95.

La figura 7 immagina un nuovo tipo di suddivisione amministrativa all'interno

dello scacchiere mediorientale. Dai cinque stati attuali (Libia, Siria, Iraq, Arabia

Saudita e Yemen) si arriverebbe a quattordici nuove entità territoriali. In

particolare, rimpiccolendo la scala sull'area di nostro interesse, avremmo una

Siria divisa in tre: una zona di influenza alawita, cioè abitata dagli appartenenti

a tale gruppo sciita, di cui fa parte anche l'attuale leader siriano Bashar al-

Assad; una seconda zona denominata Kurdistan, abitata quindi dalla

popolazione kurda, che si allarga fino all'Iraq settentrionale; infine il “Sunnistan”,

94 La stessa espressione "Medio Oriente" rispecchia una certa logica eterocentrata e quindinon esente dalle critiche di cui sopra. L'origine della definizione risale alla divisione delmondo asiatico operata dalla Gran Bretagna durante il suo dominio coloniale: “VicinoOriente” per i territori ottomani, dal Marocco alla Turchia; “Medio Oriente” per i territori dallaPersia all'India; “Lontano Oriente” per tutto ciò che si estendeva ancora più a est.

95 Wright, Imagining a Remapped Middle East.

61

(fonte: Limes - Le maschere del Califfo)

Fig. 7 - La nuova ipotetica divisione del Medio Oriente

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cioè lo stato dei musulmani sunniti che scende ad occupare buona parte

dell'attuale Iraq rimanendo distinto dallo “Sciistan” che probabilmente si

fonderebbe coi territori iraniani.

Se confrontassimo tale carta con una carta delle aree occupate dallo Stato

Islamico, potremmo osservare che è proprio nella zona del cosiddetto

“Sunnistan” che esso ha costruito buona parte del suo dominio. Si potrebbe

discutere sulla ragionevolezza di tale divisione, cercando di capire se l'analisi di

Wright sia effettivamente valida e se ri-cartografare il Medio Oriente possa

essere effettivamente un'alternativa plausibile per combattere e annientare la

minaccia del Califfato e del terrorismo in generale, trovando quindi una via per

la pace e la stabilità. La carta pensata da Wright cerca di conciliare le necessità

di autonomia di ciascun gruppo, evitando di creare nazioni eterogenee e

cercando invece di dividere i territori in base a discriminanti etnico-religiose.

Pare quindi essere una divisione più mediata rispetto agli attuali stati nazionali

imposti nel passato, un ridisegnare la terra tentando di riconoscere i vari bisogni

di ognuno.

Ma quella attuata agli inizi del XX secolo da Francia e Gran Bretagna e questa

proposta da Wright rimangono comunque soluzioni eterocentrate, soluzioni

imposte/proposte ad un Medio Oriente visto come incapace di scegliersi il

meglio per sé. Anche qui ritorna il ragionamento di Said su come tendiamo a

costruire l'altro in contrapposizione a ciò che noi pensiamo di essere: ci

identifichiamo in un Occidente civile, democratico, politicamente stabile, per

sottolineare e creare l'alterità di un Medio Oriente incapace di auto-dirigersi.

Non contenti di questo, ci sentiamo incaricati di una missione pedagogica che

riveli agli altri la corretta via all'autodeterminazione.

Tornando alle riflessioni di Wright, dividere e distinguere questi gruppi etnico-

religiosi è la strada più adeguata? Tale divisione non lascia fuori o spezza gli

equilibri di altri gruppi, di altri elementi che non sono stati presi in

considerazione? Ancora più a monte, una divisione per stati nazionali alla

maniera occidentale, con un'area definita e confini ben delineati, è la soluzione

migliore per quei popoli?

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Sono domande a cui non è facile dare risposta. Ma a volte, più che nelle

risposte, l'importanza sta nelle domande stesse. Porsi tali questioni significa

avere la volontà di andare a fondo della problematica, significa aver compreso

che una logica territoriale e un ordinamento che possa funzionare non possono

nascere dal tavolo di uno studio, ma devono essere l'esito di un progetto

condiviso anche da chi lo deve vivere, altrimenti “l'ordinamento della territorialità

sarà costruito e determinato dall'attore dominante, spesso con un semplice

processo di riproduzione automatica”96. L'ordinamento deve invece nascere

attraverso la discussione, il dibattito costruttivo tra i vari attori che su quel

territorio muoveranno le loro relazioni sociali. Solo così si potrà raggiungere una

maggiormente condivisa identità territoriale, una più efficace capacità di

riconoscersi nel proprio ordinamento territoriale.

4.8 Identificarsi, non identificarsi, identificarsi contro

Identificarsi con un luogo significa avere “la sensazione di appartenere a quel

luogo”97. In questo contesto entrano in gioco i sentimenti personali che vanno a

costituire il sense of place, il senso del luogo, cioè il modo in cui esso viene da

noi sentito e pensato.

È facile immaginare, perché probabilmente parte dell'esperienza personale di

ciascuno, come un luogo possa anche essere percepito come irrilevante ai fini

del proprio senso di sé, oppure come ognuno possa costruire la propria identità

mettendosi in contrapposizione ad un determinato luogo.

In questi ultimi casi non ci sentiremo parte di tale luogo, non ci identificheremo

con esso e con l'ordinamento che esso porta con sé o, anzi, ci identificheremo

contro.

Questa eventualità è frequente in quei contesti in cui l'ordinamento è stato

imposto: difficile identificarsi in un luogo che non si sente proprio, che ci si è

visti calare dall'alto.

Questo è proprio quello che è accaduto nel nostro caso di studio, in Siria, in

96 Pase, Linee sulla terra, p. 55.97 Massey – Jess, Luoghi, culture e globalizzazione, p. 67.

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Iraq e più in generale in Medio Oriente.

Ed è in queste situazioni che gli attori che non si riconoscono parte del territorio

possono cercare di mantenere attive “opzioni diverse, connessioni

alternative”98, ovvero le trasgressioni di cui si parlava all'inizio di questo capitolo.

La trasgressione operata dallo Stato Islamico, cioè il dichiarato decadimento del

confine nazionale tra Siria ed Iraq e la conseguente formazione di un nuovo

ordinamento con la creazione del Califfato, trova legittimità e consenso tra i suoi

sostenitori anche a causa del sentimento di opposizione e non

rappresentazione nei confronti del precedente confine.

Ora, non è detto che si sia arrivati ad un punto definitivo da cui non si potrà più

trasgredire: il flusso delle trasformazioni, infatti, è proprio ciò che dà linfa alle

trasgressioni.

Ogni volta che si pone un nuovo limite, un nuovo ordinamento, si crea una serie

di nuove possibili trasgressioni: “La trasgressione anzi appare connaturata con

l'idea stessa di limite”99.

98 Pase, Linee sulla terra, p. 62.99 Ibidem.

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Conclusione

Abbiamo provato ad ipotizzare i fattori di spinta che hanno condotto lo Stato

Islamico a cercare di eliminare il confine nazionale tra Siria e Iraq, trasgredendo

e abolendo l'ordinamento stabilito dagli accordi di Sykes-Picot nel 1916, e ad

imporre un nuovo ordine territoriale, la cui norma si riassume nella totale

sottomissione al Califfato islamico.

Il primo capitolo ci ha introdotto alla comprensione del confine non solo in

quanto linea di demarcazione e divisione tra un interno-esterno, bensì come

luogo frutto di relazioni di potere ed esso stesso creatore di relazioni.

Nel secondo capitolo abbiamo osservato nello specifico il confine tra Siria e Iraq

nei momenti immediatamente precedenti alla sua creazione, o meglio, alla

creazione di quello che poi, in seguito ad altre minori trasformazioni, diventerà

l'attuale limite nazionale. Si è quindi analizzato il volere delle due parti, quella

occidentale e quello araba, prima di creare l'ordinamento, le trattative che sono

state portate avanti in segreto tra Gran Bretagna e Francia ed infine

l'ufficializzazione dell'effettiva imposizione occidentale, legittimata

dall'affidamento mandatario da parte della Società delle Nazioni.

Già a questo punto la relazione di potere asimmetrica è divenuta evidente.

Con il terzo capitolo siamo entrati nel cuore del Califfato islamico,

conoscendone le origini, la storia, il credo, gli obiettivi, l'organizzazione ed

infine, nel quarto capitolo, abbiamo analizzato che tipo di ordinamento ha

imposto lo Stato Islamico e per quale motivo.

Il Califfato ha dunque concretamente elaborato e attuato una strategia di

controllo del territorio che si basa sul riconoscimento di una generale e

particolare identità musulmana. Generale perché riconosce come parte della

umma ogni musulmano, indipendentemente dal gruppo etnico di riferimento

(arabo, persiano, kurdo, …); ma allo stesso tempo particolare perché non viene

considerato musulmano ogni islamico che si dichiari tale, ma solo colui che si

sottomette ad Abu Bakr al-Baghdadi.

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La creazione di questo nuovo stato ci pone di fronte a due riflessioni.

Innanzitutto dobbiamo tentare di mettere da parte il nostro etnocentrismo, cioè

cercare di superare i nostri preconcetti e le nostre categorie: la nostra idea di

Stato è quella occidentale dello Stato-nazione, cioè di un'entità che esercita

sovranità su un territorio definito da confini lineari, all'interno del quale vive un

popolo che condivide lingua, cultura, storia, ecc.; lo Stato Islamico non

rappresenta questa idea: ha certamente delle caratteristiche e delle peculiarità

che lo accomunano al paradigma statale occidentale, ma esso fonda la propria

sovranità su un territorio in continua ideale espansione, senza confini, e su un

popolo che non deve condividere altro se non il credo in un unico dio, “Il Dio”

(Allah), e il messaggio del suo profeta Muhammad.

Nonostante non sia totalmente assimilabile al nostro modello di Stato, non

significa che la sua concretezza geografica e politica non abbia consistenza.

Questo ci porta alla seconda considerazione.

Lo Stato Islamico è una realtà geografica in evoluzione e ad oggi, settembre

2015, ufficialmente in vita da più di un anno: possiamo quindi affermare che

purtroppo non si è rivelata una minaccia facilmente risolvibile, anzi. Il Califfato si

è rapidamente concretizzato sullo scacchiere internazionale e non è detto che

in un futuro, prossimo o remoto che sia, non saremo costretti a confrontarci con

esso in altri termini che non siano quelli militari.

A questo punto verrebbe da domandarsi quali siano le nostre responsabilità;

quali siano, se ci sono, le responsabilità dell'Occidente nella nascita di questa

nuova minaccia salafita e quali siano le mancanze nell'affrontarla.

Sicuramente, ad un primo esame, non ne usciremmo indenni. Al di là del

passato da dominatori (abbiamo visto nel secondo capitolo le vicende storiche

che legano Iraq e Siria a Regno Unito e Francia), anche gli accadimenti recenti

hanno visto un Occidente (questa volta Stati Uniti in primis) dimostrare

un'endemica volontà di ingerenza negli affari del Medio Oriente.

Certo, si potrà obiettare che la sua frequente instabilità politica sia stata e sia

una minaccia che ha reso necessari tali interventi. Essi, tuttavia, non si sono

mai rivelati determinanti nel risolvimento delle problematiche, anzi, spesso

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hanno contribuito a rendere il quadro ancora più caotico ed instabile.

Con tali precedenti diventa più arduo il compito di affrontare lo Stato Islamico,

diventa più aspro il dibattito su come farlo e diventa più fragile la credibilità

occidentale.

A ciò si aggiunga che l'imprevedibile dinamicità politica del Califfato, il suo

essere in perpetuo divenire e in costante evoluzione, rendono necessario un

continuo aggiornamento delle osservazioni e delle riflessioni su di esso, anche

di quelle proposte in questo lavoro.

Riprendendo quanto affermato nell'introduzione al presente studio, dovremo

quindi aspettare il quietarsi degli eventi per avere un giudizio storico scevro di

eventualità e barcollanti ipotesi.

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Sitografia

Tutti i siti internet sono stati visitati per l'ultima volta in data 26 settembre 2015.

La sitografia è in ordine alfabetico per cognome dell'autore delle pubblicazioni.

Per le pubblicazioni che non segnalavano l'autore si è scelto di inserire il link in

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