il concetto di causa nella filosofia antica

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1 La causalità antica NB: per studiare questa prima parte della dispensa è necessario leggere anche i testi che sono raccolti nel documento “Testi Presocratici”, documento che si trova sullo stesso sito da cui si scarica questa dispensa a) La storia della filosofia antica vista attraverso la tematica della causalità. Questo corso è dedicato ad una tematica filosofica fondamentale, la causalità antica. Ma è anche un corso che, attraverso la tematica scelta, mira anche a presentare una sorta di storia della filosofia antica ragionata. Ora, per introdurre la storia della filosofia antica vista attraverso la tematica della causalità, occorre innanzitutto fare una sorta di presentazione generale sulla causalità. b) che cos’è la causa? Noi moderni, anche sulla scia delle critiche che sono state fatte al concetto di causa dal celebre filosofo Hume, siamo abituati a pensare alla causa come a qualche cosa (un individuo (es. Socrate spinge Platone)), o a uno stato di cose (es.: il calore del sole, causa dello scioglimento del burro) che fa qualche cosa, in senso attivo, cioè che produce un effetto. Ma questo è solo uno dei concetti di causa che emergono nell’antichità, quello che grosso modo corrisponde alla causa efficiente di aristotelica memoria, e che è stato definitivamente adottato dallo stoicismo (che ha ritenuto che la causa sia costituita da un corpo che introduce in un altro corpo una proprietà). Nell’antichità la riflessione sulle cause risulta essere più ampia, nel senso che solo un gruppo ristretto di “cause” può essere trattato in senso vicino a quello moderno. Di fatto il termine greco aitīa o āition (aggettivo che significa ‘responsabile’, ‘autore’ di qualcosa), che noi traduciamo con causa”, significa, è una formula equivalente ad un’altra formula, dioti, che significa “perché?”. Questa formula viene utilizzata da Aristotele e prima di lui, da Platone, e possiamo sostantivizzarla dicendo “il perché”. Come ho detto, queste due espressioni sono equivalenti: x è causa (aitia) di y se e solo se x fornisce il perché (dioti) di y. Alla domanda “perché y?”, si risponde dicendo “perché x”. La risposta, cioè, il “perché”, fornisce la spiegazione causale di y. Esempio: “Perché la statua fonde?” “Perché è fatta di bronzo”. Questo ‘perché’ fornisce la spiegazione causale di quel perché. Ora, quando si parla di causa nel senso del “perché”, risulta chiaro che non coinvolgiamo solo il concetto di “causa” in senso moderno (qualcosa che attivamente fa qualche cosa), ma anche quello di “spiegazione” e di “ragione” (e questo anche nella nostra lingua di tutti i giorni). In questo caso, si presentano due problemi che manifestano chiaramente una sorta di décalage tra la nostra nozione di causa (qualcosa di attivo che fa qualche cosa, in una relazione causa-effetto), e il “perché” (in risposta alla domanda “perché?” Si tratta del because inglese e del parce que francese, mentre in italiano non abbiamo un corrispondente).

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il concetto di causa negli antichi

Transcript of il concetto di causa nella filosofia antica

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La causalità antica

NB: per studiare questa prima parte della dispensa è necessario leggere anche i

testi che sono raccolti nel documento “Testi Presocratici”, documento che si

trova sullo stesso sito da cui si scarica questa dispensa

a) La storia della filosofia antica vista attraverso la tematica della causalità.

Questo corso è dedicato ad una tematica filosofica fondamentale, la causalità antica.

Ma è anche un corso che, attraverso la tematica scelta, mira anche a presentare una

sorta di storia della filosofia antica ragionata.

Ora, per introdurre la storia della filosofia antica vista attraverso la tematica della

causalità, occorre innanzitutto fare una sorta di presentazione generale sulla causalità.

b) che cos’è la causa?

Noi moderni, anche sulla scia delle critiche che sono state fatte al concetto di causa

dal celebre filosofo Hume, siamo abituati a pensare alla causa come a qualche cosa

(un individuo (es. Socrate spinge Platone)), o a uno stato di cose (es.: il calore del

sole, causa dello scioglimento del burro) che fa qualche cosa, in senso attivo, cioè che

produce un effetto.

Ma questo è solo uno dei concetti di causa che emergono nell’antichità, quello che

grosso modo corrisponde alla causa efficiente di aristotelica memoria, e che è stato

definitivamente adottato dallo stoicismo (che ha ritenuto che la causa sia costituita da

un corpo che introduce in un altro corpo una proprietà).

Nell’antichità la riflessione sulle cause risulta essere più ampia, nel senso che solo un

gruppo ristretto di “cause” può essere trattato in senso vicino a quello moderno. Di

fatto il termine greco aitīa o āition (aggettivo che significa ‘responsabile’, ‘autore’ di

qualcosa), che noi traduciamo con “causa”, significa, è una formula equivalente ad

un’altra formula, dioti, che significa “perché?”. Questa formula viene utilizzata da

Aristotele e prima di lui, da Platone, e possiamo sostantivizzarla dicendo “il perché”.

Come ho detto, queste due espressioni sono equivalenti:

x è causa (aitia) di y se e solo se x fornisce il perché (dioti) di y.

Alla domanda “perché y?”, si risponde dicendo “perché x”. La risposta, cioè, il

“perché”, fornisce la spiegazione causale di y.

Esempio:

“Perché la statua fonde?” “Perché è fatta di bronzo”. Questo ‘perché’ fornisce la

spiegazione causale di quel perché.

Ora, quando si parla di causa nel senso del “perché”, risulta chiaro che non

coinvolgiamo solo il concetto di “causa” in senso moderno (qualcosa che attivamente

fa qualche cosa), ma anche quello di “spiegazione” e di “ragione” (e questo anche

nella nostra lingua di tutti i giorni). In questo caso, si presentano due problemi che

manifestano chiaramente una sorta di décalage tra la nostra nozione di causa

(qualcosa di attivo che fa qualche cosa, in una relazione causa-effetto), e il “perché”

(in risposta alla domanda “perché?” Si tratta del because inglese e del parce que

francese, mentre in italiano non abbiamo un corrispondente).

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1) il “perché” può essere utilizzato per introdurre la spiegazione di qualche cosa: ma

“causa” e “spiegazione” non si riferiscono alle stesse cose, perché la spiegazione è più

ampia.

Vediamo due esempi che possono chiarire quello che sto dicendo:

i) esempio tratto dalle verità matematiche:

22 è minore di 3

2

perché

2 è minore di 3.

In questo caso, la relazione causa/effetto non sembra adattarsi alle scienze astratte

come le matematiche: in compenso, la spiegazione funziona. In effetti, il fatto che due

alla seconda è un numero più piccolo di tre alla seconda si spiega con il fatto che due

è un numero più piccolo di tre (ma non si può propriamente dire che “2 è minore di 3”

causi come effetto “22 è minore di 3

2”).

ii) esempio tratto dall’esperienza quotidiana:

“nevica”. Perché? “è inverno”.

Qui “è inverno” spiega il fatto che nevica. In questo caso, dare una spiegazione

significa citare un contesto in cui questo fenomeno risulta normale. Ma non possiamo

dire che l’inverno causa direttamente la neve.

2) altro problema: il “perché” implica una spiegazione in forma di proposizione.

Se io dico y perché x

sto dicendo: il fatto che nevica avviene perché è inverno.

“nevica” e “è inverno” sono due proposizioni.

Se io invece dico

x è causa di y

riempio x e y con due nomi (o due nominalizzazioni):

per esempio: l’inquinamento è causa del riscaldamento terrestre.

Quindi, da un punto di vista linguistico, non c’è un’esatta corrispondenza tra “causa”

e “perché”. I due termini sono strettamente collegati ma vogliono dire cose diverse.

Per questo si parla di equivalenza.

Dal punto di vista delle scienze esatte (e in generale, della conoscenza), laddove si usa

un concetto di causa, non entra in gioco una causalità attiva, ma una spiegazione.

c) parlare di causalità nel mondo antico significa dunque parlare di quei tentativi,

esplicitazioni, tematizzazioni, che si occupano del “perché?” delle cose. A questo tipo

di domanda si connettono altri tipi di domande, che sono tutte accomunate dal fatto

che esse richiedono spiegazioni, ragioni, cause.

Perché le cose accadono?

Cosa fa sì che un evento si produca in un particolare tempo?

Quali sono i costituenti ultimi delle cose?

Ci sono cose come le leggi naturali?

In che modo le persone sono responsabili di ciò che fanno?

ecc.

Si tratta di questioni che appunto richiedono spiegazioni, ragioni e cause, e che sono

fondamentali sia per le scienze (fisica, chimica, biologia) sia per la metafisica che per

l’etica.

Da qui la scelta degli autori di cui ci occuperemo.

i) i Presocratici, chiamati così dai moderni in modo scorretto, ma chiamati da Socrate

in poi “filosofi della natura”. Essi sono i primi che tentano di trovare delle spiegazioni

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‘scientifiche’ (vedremo in che senso) di fenomeni fisici.

ii) Platone, il primo a tematizzare filosoficamente la “questione della causalità” e a

proporre spiegazioni alternative a quelle dei “filosofi della natura”, da lui ritenute

insoddisfacenti perché poco sicure (mi riferisco al Fedone, che avete come testo

dell’esame, ma anche al Timeo).

iii) Aristotele, il primo a proporre una teoria completa delle cause (che per lui sono

quattro), e che applicherà il modello causale-esplicativo a tutte le discipline di cui si

occupa: scienza “dura” (geometria, aritmetica, astronomia, logica), metafisica, fisica,

etica.

iv) Infine abbiamo gli stoici, che propongono una teoria assai raffinata e oramai

moderna delle cause. Ci limiteremo però, nel caso degli stoici, a vedere le

conseguenze etiche della loro teoria. E’ per questo che ho scelto come testo il De fato

di Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.). Aristotelico convinto, egli denuncia

una teoria delle cause evidentemente stoica (anche se gli stoici non vengono mai

nominati), che secondo lui (come secondo altri) conduce al determinismo etico, e

quindi alla mancanza di libertà nell’azione.

Nel caso di i) i Presocratici e di iv) gli stoici, la situazione è complicata dal fatto che

per questi filosofi non ossediamo opere ma solo frammenti e testimonianze, riportate

da fonti spesso polemiche, che quindi riportano le tesi filosofiche non

necessariamente fedelmente.

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I filosofi della natura e la causa materiale

Bibliografia supplementare:

J. Barnes, The Presocratic Philosophers, London 19822

G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, Les philosophes présocratiques, tr. français

de H.A. De Weck sous la direction de D.J. O’Meara, Fribourg 1995, pp. 1-75

J. Barnes, Les penseurs préplatoniciens, in M. Canto-Sperber (a cura di),

Philosophie grecque, Paris 1997, pp. 3-88

R.J. Hankinson, Cause and Explanation in Ancient Greek Thought, Oxford 998,

pp. 7-50

A. Laks, “Philosophes présocratiques”: Remarques sur la construction d’une

catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks e C. Louguet (a cura di),

Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?, Lille 2002, pp. 17-38

G. Reale (a cura di), I presocratici, traduzione integrale delle testimonianze e

frammenti della raccolta di H. Diels e W. Kranz, Bompiani 2006 (da cui sono tratti i

frammenti che si trovano nel dossier “Testi presocratici”).

La filosofia presocratica nasce all’inizio del VI secolo a.C., nel maggio 585 a.C., anno

dell’eclissi predetta, o almeno vista, da Talete, primo filosofo ‘presocratico’. Essa

nacque prima nelle colonie greche dell’Asia Minore (attuale Turchia) e della Magna

Grecia (Campania, Calabria, Sicilia) che nella madrepatria, Atene, dove arrivò, pare,

solo con Anassagora.

Chiamare questi filosofi “Presocratici” è fuorviante. Innanzitutto perché molti di loro

sono contemporanei di Socrate. In secondo luogo, perché è molto complicato stabilire

in che cosa sono pre-rispetto a Socrate dal punto di vista del contenuto filosofico. Si

dice ad esempio (Aristotele lo dice) che Socrate ha rotto con i filosofi precedenti

perché non si è occupato di filosofia della natura ma di etica. Ma se diamo retta al

Fedone (passo che considereremo), vedremo che Socrate si è occupato di filosofia

della natura. Quando era giovane, però. Dopo la ripudia.

Il testo base, quasi un vangelo, che si consulta e si menziona dimenticandosi spesso

che si tratta di una raccolta di frammenti fatta per gli studenti, è H. Diels-W. Kranz,

Die Fragmente der Vorsokratiker, Griechisch und Deutch, 3 voll.Weidemann, Berlin

1951-19526, (prima traduzione italiana integrale I Presocratici, a cura di G. Reale,

Milano, Bompiani 2006). Il testo, cioè, è stato fatto da Hermann Diels, esimio

filologo del XIX secolo, e completato da Walther Kranz. Normalmente ci si riferisce a

quest’opera con la sigla DK, che adotterò anch’io.

Dei filosofi presocratici non è rimasto nulla di scritto. Numerosi frammenti sono

giunti fino a noi sottoforma di citazioni (ottimisticamente parlando, perché non

sempre è facile stabilire con esattezza se si tratta davvero di citazioni, o ad esempio di

parafrasi). Essi si trovano presso autori posteriori, a partire da Platone fino a

Simplicio (VI secolo dopo Cristo), ma a volte anche in autori bizantini. Le citazioni

spesso soffrono dell’atteggiamento di base delle fonti che le riportano: per esempio,

Platone è ironico e li tratta da stupidelli (vedremo nel Fedone).

Tra le fonti, ricordiamo Platone (V-IV a.C.), Aristotele (IV a.C.), Simplicio (VI d.C.),

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ma ce ne sono altri (il più famoso è Diogene Laerzio (II-III d.C.) che ha scritto un

celebre testo Vite e dottrine dei più celebri filosofi.

Come dicevo, tutti questi autori hanno delle pecche nel riportare i contenuti della

filosofia ‘presocratica’.

Noi ci dedicheremo alle pecche di Aristotele, perché leggeremo i “Presocratici” (che è

meglio chiamare “filosofi della natura”, physikoi) attraverso i suoi occhiali.

Considereremo infatti alcune parti (anche se non solo) del libro Alpha della

Metafisica. Aristotele trasmette pochissime citazioni dirette, però il valore della sua

testimonianza sui predecessori (compresi Socrate e Platone) è notevole: in molte delle

sue opere (Metafisica, Fisica, De caelo, ecc.), infatti, presenta le opinioni dei

predecessori in riassunti critici, a testimonianza di uno sviluppo storico-filosofico

articolato. Un esempio classico si trova nel libro Alpha della sua Metafisica: in questo

libro, Aristotele definisce la filosofia come conoscenza delle quattro cause. A partire

da tale concezione, la filosofia precedente è vista giustamente come una progressiva

scoperta di queste quattro cause (materiale, formale, agente e finale), che verranno

codificate e sistematizzate da Aristotele stesso. In partica, Aristotele si comporta

come uno storico della filosofia speculativo, che presenta cioè le opinioni precedenti

come adombramenti della sua filosofia.

I Milesi

Secondo Aristotele, l’iniziatore della filosofia naturalista fu Talete di Mileto

(Aristotele, Metafisica Alpha, 983b20). Il nome di Talete è collegato, come ho detto,

all’eclissi solare del 585 a. C.

Ma che cos’è la filosofia naturalista (termine nostro, in quanto Aristotele parla più che

altro di filosofi materialisti)?

Il passo che più chiarisce la posizione di Aristotele si trova in Metafisica Alpha,

983b6-271 (= testo che si trova nel dossier “Testi presocratici” tratto da Diels-Kranz,

pubblicato sul sito in cui trova questa dispensa, p. 167).

Dividiamo il passo in parti ed esaminiamole.

983b6-11: “La maggior parte di coloro per primi filosofarono … fossero solo quelli materiali

(meglio: “che rientrano nella specie materiale”) … ciò di cui tutti gli esseri sono

costituiti (meglio: “ciò a partire da cui tutti gli esseri esistono”) … pur nel tramutarsi

delle sue affezioni”.

Qui ci sono una quantità di concetti, che costituiranno il vocabolario filosofico

successivo, che conviene fermarsi ad analizzarli.

Innanzitutto riguardiamo la sequenza di derivazioni di tutti gli enti (o esseri):

- Ciò a partire da cui gli enti esistono

- Ciò a partire da cui gli enti si generano

1 Ricordo che questo modo di riferirsi ad Aristotele, universalmente adottato, ha a che fare con

l’edizione critica di Aristotele (5 volumi) fatta da I. Bekker e pubblicata negli anni 1831-1836 a

Berlino. La notazione è costituita dal numero di pagina, dalle lettere a o b che corrispondono alle

colonne, e dalla riga dell’edizione di Bekker. 983b7-27 significa dunque: pagina 983 dell’edizione,

colonna b, righe 7-27.

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- Ciò in cui essi si distruggono (si corrompono, si risolvono).

I primi due “a partire da cui” mostrano chiaramente che i predecessori pensavano alla

materia come a un principio (che, appunto, significa: ciò a partire da cui qualcosa è, o

diviene), oppure come a una causa prima (vedi appena prima, 983a25);

- Ciò in cui si risolvono: qui Aristotele parla della materia come di elemento di

base (stoicheion) in cui tutte le cose si risolvono quando si corrompono.

La materia, per quasi tutti i predecessori, è la sostanza (ousia), sostrato che permane

identico attraverso i mutamenti, che vengono visti da Aristotele come le affezioni che

vanno e vengono. Qui Aristotele parla di ousia nel senso di “sostrato permanente”

(che è appunto uno dei significati di “sostanza” individuati da Socrate). La corruzione

di fatto è un’acquisizione e una perdita di affezioni: il sostrato permane (in esso si

risolvono tutte le cose quando si corrompono).

La materia è quindi vista dai predecessori come sostanza (nel senso di “sostrato”

permanente), principio (ciò da cui le cose derivano), elemento (componente di base,

immanente, in cui le cose si risolvono una volta perse le loro affezioni). Ma anche

come causa, che spiega perché il nostro mondo è fatto come è fatto (questo anche se

il termine “causa” (aitia) non viene in questo passo espressamente menzionato).

Qualche riga dopo, Aristotele parla anche di natura (physis), cioè di sostrato

fondamentale naturale, dalla quale derivano tutte le cose, mentre essa continua ad

esistere immutata (983b17-19). E’ dubbio che i predecessori avessero consapevolezza

di trattare la natura secondo i termini che Aristotele impone loro. In questo senso si

tratta di una storia della filosofia anacronistica o speculativa: Aristotele considera le

dottrine dei suoi predecessori alla luce di concetti sviluppatisi in modo sistematico

solo con Platone e soprattutto con lui.

Tuttavia, continua Aristotele, i predecessori non sono tutti d’accordo circa il numero e

le specie del principio materiale. E qui inizia la carrellata degli autori che hanno

individuato il principio e la causa prima nella materia.

Talete acqua

Anassimene e Diogene di Apollonia aria

Ippaso di Metaponto e Eraclito di Efeso fuoco

Empedocle i quattro elementi: acqua, aria, fuoco, a cui aggiunge la terra

Anassagora di Clazomene principi infiniti (cioè, tutto deriva da tutto).

Interessante l’osservazione che Aristotele fa a proposito di Talete, e che

approfondiremo:

983b22-25 (= testo che si trova nel dossier “Testi presocratici” tratto da Diels-Kranz,

pubblicato sul sito in cui trova questa dispensa, p. 167):

“desumendo … delle cose umide”.

Talete viene considerato in assoluto il primo filosofo occidentale. Ciò che rende

filosofica la sua affermazione sull’acqua è appunto il fatto che egli l’abbia trattata

come un principio (o causa prima) da cui tutte le cose si generano. Questa

conclusione—ci dice Aristotele—è basata sull’osservazione empirica: Talete ha

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probabilmente (e non “indubbiamente”, come traduce Reale) constatato che il

nutrimento di tutte le cose è umido, e che il caldo si genera dall’umido e vive

nell’umido. In pratica l’umido, se non l’acqua, è il principio e la causa della nascita e

crescita delle cose, perché è ciò a partire da cui le cose nascono (Aristotele fa

l’esempio anche dei semi, che hanno natura umida), crescono, e esistono.

Talete

Le due tesi che gli sono attribuite, e per le quali va famoso, sono le seguenti:

(1) il magnete ha un’anima

(2) ogni cosa è acqua.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, le tue tesi sono filosofiche e

fondative della filosofia occidentale. Entrambe sono sostenute da considerazioni

semplici ma razionali.

A titolo esemplificativo, considereremo la tesi 2), quella che afferma che tutto è

acqua. In effetti, secondo l’interpretazione di Aristotele, Talete è il primo ad aver

individuato la causa del mondo fisico, che si identifica con un certo tipo di materia,

l’acqua.

Ogni cosa è acqua:

testi:

A 12 DK (Aristotele, Metafisica Alpha, 983b20-22);

A 14 DK (Aristotele, de caelo 294a28-31).

A 12 DK (Aristotele, Metafisica Alpha, 983b20-22 = testo che si trova nel dossier

“Testi presocratici” tratto da Diels-Kranz, pubblicato sul sito in cui trova questa

dispensa, p. 167):

«Talete... dice che quel principio [il principio materiale] è l’acqua (per questo afferma

anche che la terra galleggia sull’acqua».

Qui abbiamo due osservazioni concernenti l’acqua, di cui la seconda sembrerebbe

dipendente dalla prima (per questo la terra galleggia sull’acqua):

a) il principio materiale di ogni cosa è acqua;

b) la terra galleggia sull’acqua.

Secondo questo argomento, quindi, la terra galleggia sull’acqua perché il principio

materiale di ogni cosa è l’acqua.

Partiamo da b) la terra galleggia sull’acqua.

Ci sono due capitoli dell’opera di Aristotele De caelo consacrati alla posizione e alla

forma della terra. Nella sua usuale considerazione dei filosofi precedenti, riprende

Talete (che alla domanda “perché la terra è immobile?” sembra rispondere: “perché

galleggia sull’acqua), affermando

A 14 DK (Aristotele, de caelo 294a28-31= testo che si trova nel dossier “Testi

presocratici” tratto da Diels-Kranz, pubblicato sul sito in cui trova questa dispensa, p.

169)2:

«Altri affermano che la terra giace sull’acqua. Questo appunto è il racconto

2 I presocratici, a cura di G. Reale (vedi sopra, bibliografia supplementare).

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antichissimo che abbiamo avuto per tradizione, e dicono sia opera di Talete di Mileto;

sicché la terra starebbe sull’acqua come un legno o qualcosa di simile (anche perché

nessuna di queste cose poggia per natura sull’aria, ma <semmai> sull’acqua».

Qui, l’affermazione secondo cui la terra galleggia sull’acqua (b)), è presentata in

maniera indipendente da a) (che dice che il principio materiale di ogni cosa è l’acqua),

ed è corredata da un altro argomento (nessuna di queste cose poggia per natura

sull’aria).

Abbiamo quindi in A 14:

i) i pezzi di terra non poggiano per natura sull’aria3

ii) quindi: la terra galleggia sull’acqua.

La critica di Aristotele a questo argomento («come se lo stesso discorso che riguarda

la terra non si potesse fare anche per l’acqua che sostiene la terra: neanche l’acqua ha,

infatti, natura tale da restare sospesa, ma è posta su qualcos’altro») ricorda il filosofo

indiano di Locke, che sosteneva che la terra sta sulla schiena di un elefante, l’elefante

su una tartaruga, e la tartaruga su «qualcosa, che però non sa cosa sia»4.

In realtà, l’argomento di Talete è di rilevanza filosofica, innanzitutto perché troviamo

qui un primo esempio di un tratto caratteristico del pensiero presocratico:

un’illustrazione analogica (la terra starebbe sull’acqua come un legno sta sull’acqua:

galleggiando).

Inoltre, Talete offre la prima risposta non-mitologica a un problema genuinamente

filosofico. Il problema è il seguente: quando noi lasciamo cadere dei pezzi di terra nel

vuoto (o li lanciamo verso l’alto), essi tendono a cadere verso il basso (e più sono

grossi, più cadono rapidamente), mentre è evidente che la Terra è in quiete (e per

Aristotele, è evidente che essa sia nello spazio). A questo paradosso, Talete risponde

negando che la terra sia nello spazio, e sostenendo che essa galleggia sull’acqua: i

suoi successori, notando l’infelicità della sua proposta, proporranno altre soluzioni.

Passiamo ora ad a) il principio materiale di ogni cosa è acqua (A 12).

Il passo in questione pone problemi di interpretazione, dovuti all’anacronistica

maniera di esprimersi di Aristotele: è difficile infatti che Talete usi la formula

‘principio materiale’, che è certamente più tarda. Probabilmente Talete ha detto una

frase del tipo:

a*) ogni cosa è (= proviene, deriva) dall’acqua.

Al di là delle questioni che ci dobbiamo porre (L’interpretazione di Aristotele è

corretta? Talete sarebbe quindi un ‘monista materialista? Se invece Aristotele ha torto,

che cosa ha inteso dire Talete con a*)?), tentiamo di rispondere alla questione

seguente: perché Talete ha presentato questa ipotesi, e ciò che da essa consegue,

ossia:

c) c’è una singola materia da cui ogni cosa è (= proviene, deriva), l’acqua?

Non troviamo nessuna esplicita risposta in Talete, ma possiamo escogitarne

facilmente una. C) offre l’ipotesi più semplice e economica per descrivere la

costituzione del mondo. Adottandola, Talete si comporta da proto-scienziato: la adotta

grazie alla sua estrema semplicità.

Ma perché l’acqua?

Aristotele, in A 12 DK (Metafisica Alpha, 983b20-22 = testo che si trova nel dossier

3 Nel senso che, se la terra non poggiasse sull’acqua (come pezzi di legno), precipiterebbe)

4 Il riferimento a Locke si trova in J. Barnes, The Presocratic cit., p. 10.

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“Testi presocratici” tratto da Diels-Kranz, pubblicato sul sito in cui trova questa

dispensa, p. 167) fornisce degli argomenti che mostrano che l’acqua è essenziale in

vari modi per l’esistenza delle creature viventi:

«desumendo indubbiamente (isos, che tradurrei piuttosto con ‘forse’, perché si tratta

di congettura) questa sua convinzione dalla constatazione (dal vedere, oran) che il

nutrimento di tutte le cose è umido...è il principio della natura delle cose umide».

Argomenti di Aristotele:

- il nutrimento di tutte le cose è umido

- il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido

- tutti i semi di tutte le cose hanno una natura umida

- ora, l’acqua è il principio della natura delle cose umide

- conlusione: ciò da cui tutte le cose si generano è il principio di tutto.

Questi argomenti si prestano a un’interpretazione forte o a un’interpretazione debole.

Interpretazione forte: l’acqua è il principio da cui tutte le cose si generano, in maniera

tale che si assisterebbe qui a un’identificazione del principio e delle cose da esso

generate. Resta però il problema di spiegare la derivazione delle cose (per esempio,

del magnete) dall’acqua.

Interpretazione debole: l’acqua è il principio da cui le cose provengono nel senso che

esse hanno bisogno di acqua per esistere.

In ogni caso, gli argomenti di Aristotele sono chiaramente congetturali (cf. quell’isos,

che vuol dire forse). Altri argomenti sono stati aggiunti da altri autori, per esempio

Teofrasto.

Ma al di là delle congetture, la teoria metafisica completa di Talete sembra

comprensibile: le creature viventi sono molte di più di quelle che crediamo; l’acqua è

evidentemente necessaria per la loro esistenza; l’acqua non è facilmente generabile a

partire da un’altra materia; quindi l’acqua dev’essere il costituente di base del mondo.

Ora, siccome Talete adotta c) come ipotesi (vi è un solo costituente di base del

mondo), concluderemo che

a*) ogni cosa è (= proviene, deriva) dall’acqua.

Talete merita il suo posto d’onore come iniziatore della filosofia della natura: egli

infatti offre punti di vista ragionati su soggetti astratti e filosofici.

Anassimandro

Anassimandro, concittadino di Talete (entrambi di Mileto, in Asia Minore, l’attuale

Turchia) fu, secondo una tradizione antica discepolo e successore di Talete. Di sicuro

ne fu influenzato. Secondo una fonte antica (Temistio, 12 A7 DK), Anassimandro:

«fu il primo greco che conosciamo ad aver scritto un discorso (logos) sulla natura

(peri physeos)».

Di questo trattato (il primo di una lunga serie: molti presocratici hanno scritto un

trattato sulla natura) sopravvivono una dozzina di parole (un solo frammento,

riportato da Simplicio 12 B1 DK): ma autori dell’antichità tardiva l’hanno letto e ci

forniscono preziose informazioni. Da quello che dicono gli autori, è chiaro che

Anassimandro si è interessato della scienza della natura in senso molto ampio: della

cosmogonia (o descrizione dell’origine dell’universo), della terra e dei corpi celesti,

dello sviluppo degli organismi viventi, dei fenomeni naturali di ogni tipo (astronomia,

metereologia, biologia), della geografia (pare che abbia disegnato una mappa del

mondo, che fu adottata con poche modifiche da molti filosofi e scienziati successivi

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(Anassimene, Senofane, Eraclito, Empedocle, Anassagora, gli Atomisti). Insomma

per lui la natura comprendeva ogni oggetto di esperienza e ogni argomento di ricerca

razionale (eccetto ovviamente i prodotti artificiali umani); e un trattato sulla natura

doveva comprendere ogni scienza e ogni argomento filosofico.

Molte delle teorie di Anassimandro presentano un misto di audacia, fantasia e

ragionamento. Qui considereremo due esempi della sua speculazione scientifica, e il

solo frammento suo che ci è stato tramandato, in cui è questione del fondamento

dell’universo.

La terra sta in quiete al centro dell’universo:

Testo:

12 A 26 DK (Aristotele de caelo 295b11-16= testo che si trova nel dossier “Testi

presocratici” tratto da Diels-Kranz, pubblicato sul sito in cui trova questa dispensa, p.

196).

Anassimandro ha inventato una teoria astronomica curiosa. La terra sta ferma al

centro dell’universo. Intorno ad essa si trovano dei tubi circolari ripieni di fuoco e

perforati. Il fuoco che si trova all’interno di questi tubi si mostra attraverso i fori: gli

astri, la luna e il sole non sono che aperture nei tubi celesti. Le eclissi di luna e di sole

si producono per otturazione dei rispettivi fori. Il carattere più importante di tale

sistema è la simmetria: al di là dei fenomeni celesti, che sembrano essere irregolari, si

nasconde una regolarità precisa. Inoltre, la simmetria permette di risolvere il problema

dell’immobilità della terra, già affrontato, come abbiamo visto, da Talete. Quello che

però è interessante è che Anassimandro affronta il problema non empiricamente, ma

attraverso considerazioni di carattere logico.

«Ci sono poi alcuni…sta ferma grazie al suo equilibrio (omoiotes, meglio traducibile

con ‘somiglianza’, nel senso di ‘indifferenza’)…non può essere mosso (mallon

outhen…prosekei, che va tradotto con: ‘non si muove più in alto che in basso…’, nel

senso di non ha più ragione di andare verso l’alto di quanta ne abbia di andare verso

il basso)…necessariamente ferma ».

Commento:

pensiamo al famoso esempio dell’asino di Giovanni Buridano (XIV secolo): un asino

che si trova a metà strada tra due mangiatoie piene di fieno, morirebbe di fame,

poiché, non avendo nessuna ragione di dirigersi verso quella mangiatoia piuttosto che

verso questa, sarebbe totalmente incapace di muoversi.

La terra di Anassimandro, che si trova esattamente al centro di un universo

simmetrico, non ha nessuna ragione di dirigersi in un senso piuttosto che in un altro,

in alto piuttosto che in basso, verso questa parte piuttosto che verso quell’altra. Di

conseguenza, la terra non si muove, e questo per ragioni di ordine logico.

In effetti, la morte dell’asino e il riposo della terra si spiegano in funzione di un

principio che i moderni associano a Leibnitz, e che si chiama il Principio di ragion

sufficiente. Secondo questo principio, che si ritroverà più tardi in Parmenide,

se non vi è alcuna ragione per cui si produca X piuttosto che Y, e se non è possibile

che X e Y si producano nello stesso tempo, allora né X né Y si produrranno.

Servendosi di questo principio, Anassimandro ha risolto un problema inquietante; ha

basato la sua soluzione su un ragionamento astratto, integrandola in un sistema

11

astronomico complesso.

Al di là di queste considerazioni, bisogna dire che Anassimandro si allinea con coloro

che, basandosi su un’osservazione, pensano che la terra sia immobile. Le varie teorie

presentate dai presocratici hanno dei limiti e non sono veramente convincenti (si pensi

per esempio a quella di Senofane di Colofone, che dice che il limite inferiore della

terra si estende all’infinito), e in questo senso anche la teoria di Anassimandro non è

del tutto convincente: in effetti sembra sconfessata dall’osservazione che mostra che

un pezzo di terra lasciato a se stesso nel vuoto cade verso il basso, anche se non ha

nessuna ragione per farlo. In questo senso, non risulta essere una teoria che ‘salva i

fenomeni’ (così come è difficile credere che l’asino di Buridano non si avventi su una

mangiatoia qualsiasi, o su tutt’e due, prima di morire di fame).

Queste teorie, però, vogliono sostenere e spiegare un’opinione assolutamente comune,

basata anche lei su un fenomeno osservabile. Possiamo richiamare quello che

Aristotele dice per Talete, e cioè che la terra sembra trovarsi nello spazio e rimanere

ferma.

La terra sembra trovarsi nello spazio: noi vediamo la nostra terra (più o meno come

un disco piatto) e in alto lo spazio, l’aria; per questo Talete e Senofane hanno

proposto delle soluzioni che riguardano ‘il basso’ della terra (acqua per Talete, radici

all’infinito verso il basso per Senofane).

La terra sembra in quiete: in effetti, quando noi ci troviamo sulla terra, non abbiamo

nessuna delle sensazioni normalmente associate al movimento: non vediamo le onde

del mare muoversi, il nostro stomaco ci assicura che stiamo fermi. Per questo tutti, e

Anassimandro in maniera molto raffinata, cercano soluzioni che spieghino la quiete

della terra. Come disse il grande Tolomeo (autore di un trattato di astronomia) : “è

assolutamente chiaro dai fenomeni stessi che la terra è in quiete” (syntaxis I.7). Un

solo autore antico, un tal Niceta di Siracusa, secondo una testimonianza di Cicerone

(50 A 1 DK), ha proposto (sebbene in modo ingenuo) un’astronomia in cui la terra si

muove su se stessa, mentre tutto il resto sta fermo, spiegando anche che, con questa

teoria, si giustificano gli stessi effetti che si giustificano ammettendo che la terra stia

ferma e il resto in movimento.

Ci vorrà molto tempo (Copernico e Galileo) per demolire l’opinione dei più.

L’infinito:

Testi: 12 A 9 DK+ 12 B 1 DK (Simplicio, Commentario alla Fisica, 24, 13-23, (=

testi che si trovano nel dossier “Testi presocratici” tratto da Diels-Kranz, pubblicato

sul sito in cui trova questa dispensa, pp. 181-83 e 197):

«Tra quanti dicono...al di là di essi».

Commento:

Come si può notare, Simplicio (che a sua volta cita Teofrasto, allievo di Aristotele e

autore dello scritto, a noi non pervenuto, sulle Opinioni dei fisici) adotta la

terminologia introdotta da Aristotele (anche perché sta commentando la sua Fisica)5.

La testimonianza di Simplicio può essere distinta in sei sezioni:

(i) (A 9, p. 181) Anassimandro ha detto che l’apeiron (infinito-indefinito) è sia

principio che elemento delle cose che esistono;

(ii) (A 9, pp. 181-183) adotta per primo il termine ‘principio’;

5 Si vedano i termini utilizzati quali “principio”, “elemento”, “natura”, “sostrato”.

12

(iii) (A 9, p. 183) egli dice che tale principio non si identifica né con l’acqua, né

con gli altri dei cosiddetti elementi, ma è una certa natura infinita/indefinita,

da cui traggono origine tutti i cieli e i mondi in questo passo è questione

della creazione del cosmo

(iv) (B 1, p. 197) e ciò da cui gli esseri hanno origine (o si generano, ghenesis),

sono anche quelle in cui avviene la loro distruzione (phthora), secondo

necessità (importante! La traduzione italiana non è corretta; sostituirla

con «e dalle cose da cui gli esseri hanno origine, in esse hanno anche la

dissoluzione secondo necessità») in questo passo è questione dei

cambiamenti che avvengono nel cosmo, in particolare nel nostro mondo

(v) (B 1, p. 197: citazione diretta): «essi pagano infatti vicendevolmente la

pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo» ‘infatti’

sembra connettere (v) a (iv): si pone il problema di capire se (iv) sia da

attribuire ad Anassimandro, a Teofrasto oppure a Simplicio

(vi) (ritorno a A 9, p. 183) Anassimandro dice tali cose in termini molto poetici

questa osservazione ci permette di attribuire (v) ad Anassimandro

(vii) (A 9, p. 183 tr. it.) ed è chiaro che, vedendo la reciproca trasformazione dei

quattro elementi, considerò impossibile porre uno di essi come sostrato

(upokeimenon)6, ma pensò a qualcosa al di là di essi chi parla qui? Si

pensa che sia il commento di Simplicio all’estratto di Teofrasto.

(i), (ii), (iii), (vii):

Cosa significa apeiron?

All’inizio del passaggio citato, troviamo la questione del principio dell’universo. E’

Anassimandro che introduce il concetto chiave di arché, principio. Egli dichiara che il

primo principio o elemento delle cose, l’originario che origina l’universo, è apeiron,

illimitato. Il termine suggerisce sia una mancanza di limiti in senso spaziale e

temporale, sia una mancanza di qualità: possiamo quindi immaginare che, per

Anassimandro, il punto di inizio universale fosse una materia illimitata

(spazialmente), eterna (temporalmente), e qualitativamente indeterminata. E perché

mai congetturare un così strano inizio per il nostro mondo? Perché una natura diversa

da quella degli elementi? Perché infinita/indefinita?

Il nostro testo suggerisce il seguente argomento, che possiamo estrarre da (vii), che

però, come abbiamo detto, sembra essere il commento di Simplicio (in tal caso, è

Simplicio a prestare ad Anassimandro l’argomento per la sua teoria). L’argomento è il

seguente:

1) ogni cosiddetto ‘elemento’ (materiale) può cambiare in uno (o più)

altro ‘elemento’ (materiale)7

2) se un ‘elemento’ (materiale) E1 può cambiare in un altro ‘elemento’

(materiale) E2, allora né E

1 né E

2 soggiacciono (= sono sostrato) a ogni

cambiamento

3) se S è elemento8 materiale di tutte le cose, allora S soggiace ( = è

sostrato) a ogni cambiamento

4) l’elemento materiale di ogni cosa non si identifica con alcuno dei

cosiddetti ‘elementi’ materiali.

6 Come abbiamo visto, si tratta di uno dei significati di “sostanza”.

7 Usiamo le virgolette perché Simplicio parla di ‘cosiddetti’ elementi.

8 Qui non si mettono più le virgolette perché si parla del vero elemento materiale.

13

Elementi materiali: i cambiamenti che osserviamo quotidianamente sono supportati

dagli ‘elementi’ (i cosiddetti elementi). Noi osserviamo modificazioni di terra, aria,

acqua, fuoco, che quindi sono i candidati per la costituzione delle cose. Questi

candidati sono rifiutati dalla nostra argomentazione.

Per Anassimandro, come per Talete, non c’è che un solo principio, è la regola

dell’economia che lo ordina. Ora, tale principio non può identificarsi con nessuna

delle ‘materie’ del mondo visibile, poiché esse sono tutte sullo stesso piano, se si

osservano le trasformazioni del mondo: un albero cresce dalla terra e trae da essa il

proprio nutrimento, poi muore e ritorna terra; la pioggia cade dall’aria, poi,

evaporando per effetto del sole, torna all’aria...Nessuna di queste materie possiede

l’originarietà del principio, nessuna può costituire l’elemento di base, il sostrato dei

cambiamenti. E’ necessario quindi che questo principio sia una natura a parte, non

qualificata (cioè, che non abbia alcuna delle qualità che riscontriamo nel mondo).

Continuazione della lettura del passo di Simplicio (A 9 DK, p. 183):

«Egli (Anassimandro) inoltre fa derivare la generazione...eterno».

L’elemento o principio è quindi concepito da Anassimandro come un sostrato

indifferenziato, che non si trasforma (come l’acqua di Talete) ma produce

cambiamento attraverso la separazione di contrari, qualità come caldo/freddo,

secco/umido. Il principio illimitato/indefinito genera l’universo (e i cambiamenti del

nostro mondo) sotto l’influenza di un movimento eterno. Anassimandro ipotizza il

movimento eterno per spiegare cose come la produzione della molteplicità dei mondi,

la ciclicità della natura, ecc. Quindi, in un certo senso, aveva già capito la necessità

del dinamismo interno del principio per spiegare le trasformazioni.

Il movimento produce tutti i cieli e i mondi, e non cessa mai, non rinuncia mai al suo

lavoro produttivo. Tale movimento ha quindi bisogno di un principio come materia

delle sue produzioni: in tal caso, questo principio dev’essere infinito, cioè una fonte

inesauribile. Per delle ragioni oscure (infatti, non si capisce come si generino e si

separino in contrari, che sono qualità che provengono dall’inqualificato), dal principio

provengono prima i cieli e gli “elementi” del mondo; poi le cose e le entità a noi

familiari del nostro mondo, in cui il movimento eterno resta eternamente efficace,

producendo il risultato descritto dalla frase “poetica” di Anassimandro, un ciclo

regolare di eventi ordinati nel tempo.

(iv), (v) e (vi): la frase di Anassimandro.

Nonostante Simplicio, soprattutto nella prima parte del nostro testo, continui a

sottolineare che Anassimandro ‘dichiara’, ‘afferma’, ‘dice’, si può attribuire ad

Anassimandro in persona solo una frase, la frase che Simplicio trova poetica (vi):

(v) «essi pagano infatti vicendevolmente la pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo

l’ordine del tempo».

Per spiegare la frase di Anassimandro, bisogna riferirsi a ciò che Simplicio dice

immediatamente prima in (iv): siamo in un contesto di generazione e distruzione degli

enti secondo necessità. L’ ‘infatti’ di (v) (citazione diretta di Anassimandro), connette

(v) a (iv) (le cose da cui gli esseri hanno origine è anche ciò in cui avviene la loro

distruzione).

Una possibile interpretazione della frase di Anassimandro è la seguente. La frase

poetica si riferisce probabilmente agli avvenimenti del nostro mondo: “secondo

l’ordine del tempo”, cioè, regolarmente, gli esseri (le cose che vengono all’esistenza),

14

regolano vicendevolmente i loro conti (la pena e il riscatto): nel mondo si verificano

delle ingiustizie, ma ogni ingiustizia è seguita da un indennizzo. Ma di quali esseri si

tratta? Di quali ingiustizie? Gli esseri, o cose che esistono, si identificano a ciò a

partire da cui altri esseri sono generati. Tali esseri sono forse quelli naturali, gli alberi,

i cavalli, la pioggia, la neve...Come ho detto prima, l’albero si genera dalla terra e ad

essa ritorna, la pioggia proviene dall’aria e ad essa ritorna, ecc., con un processo

regolare di generazione e distruzione. Gli esseri che generano e annientano gli esseri

naturali sono delle specie di materie, la terra o il legno, l’aria e l’acqua, l’umido e il

secco, il caldo e il freddo. Quando l’albero cresce, c’è una ingiustizia del legno contro

la terra, nel senso che il legno ruba della sostanza alla terra. Una volta morto e

putrefatto l’albero, il legno indennizza la terra. Qualunque generazione e qualunque

distruzione, accadono in modo simile, nello stesso tempo conformandosi alle

regolarità determinate del tempo.

Anassimene

Anassimene, allievo di Anassimandro e terzo e ultimo dei milesi, viene generalmente

presentato come un pallido riflesso del suo maestro. La sua opera avrebbe preso la

stessa forma e adottato lo stesso scopo di quella di Anassimandro; inoltre, nella

maggior parte dei casi, sembrerebbe che Anassimene si sia limitato a modificare le

teorie del suo predecessore, senza veramente elaborarle.

Quello che voglio dire risulterà dalle due maggiori innovazioni di Anassimene:

1) elimina la purezza metafisica del principio di Anassimandro, facendo di esso un

principio materiale, l’aria;

2) accetta la teoria secondo cui la terra si trova in riposo, ma non per il principio di

ragion sufficiente, bensì perché sospesa nell’aria.

Tuttavia molti studiosi dissentono con quest’interpretazione poco lusinghiera di

Anassimene.

Prima di tutto, le due principali correzioni alla teoria di Anassimandro sono dei

miglioramenti. Egli per esempio, studiando assiduamente l’astronomia, deve aver

colto l’insostenibilità scientifica dell’argomento di Anassimandro sulla stabilità della

terra. Né, come vedremo, il ricorso all’aria come principio segna un semplice ritorno

alla primitività di tipo taletiano. Inoltre, Diogene Laerzio (Vite dei filosofi II, 3, 13 A

1 DK) dice che Anassimene «ha scritto in uno stile ionico, semplice e spoglio», che

quindi si opporrebbe ai termini “poetici” di Anassimandro (secondo la testimonianza

di Simplicio vista in precedenza). Anassimene ha forse notato che lo stile poetico del

suo maestro mascherava e rendeva vago un percorso naturalistico e scientifico, e ha

cercato di rendere più chiaro ciò che in Anassagora era appunto presentato in modo

poetico e oscuro. La teoria di Anassimene ha il merito di aver rimpiazzato

l’indeterminatezza del suo maestro (sia per quel che riguarda il principio di tutte le

cose, sia per quel che riguarda il processo cosmogonico, piuttosto misterioso) con una

materia chiara e intellegibile, e con un paio di processi fisici familiari e comprensibili.

Anche le fonti antiche presentano Anassimene come più rigoroso, più sistematico e

più scientifico rispetto al suo maestro. Teofrasto dedica un libro intero alle teorie di

Anassimene (Diogene Laerzio V. 42). In seguito, fu considerato il più importante, o

significativo, tra i milesi (vedi Simplicio 59 A 41 DK).

15

1) l’aria:

testi:

13 A 7 DK (Ippolito, Confutazione di tutte le eresie I, VII, 3)

13 B 1 DK (Plutarco)

13 B 2 DK (Aezio, 13, 4)

Anche Anassimene ritiene che il principio di tutte le cose sia unico, ed anch’egli

ritiene che sia infinito. Egli però identifica questo principio con l’aria, spiegando

inoltre in che maniera, a partire dall’aria, le altre cose potevano essere generate. In

questo senso corregge la dottrina del suo predecessore, in cui il passaggio

dall’apeiron al mondo e alle cose era, come abbiamo visto, alquanto oscuro.

13 A 7 DK (Ippolito9, Confutazione di tutte le eresie I, VII, 3 = testo che si trova nel

dossier “Testi presocratici” tratto da Diels-Kranz, pubblicato sul sito in cui trova

questa dispensa, p. 203):

«Anassimene...il caldo e il freddo».

(1) Anassimene ha detto che il principio è aria infinita (apeiron).

Come Talete e Anassimandro, anche Anassimene è presentato come pensatore che

accetta come assioma fondamentale della cosmologia che

(a) esiste una singola materia che è principio materiale di ogni cosa.

Il contesto di queste osservazioni è sempre aristotelico, nella misura in cui le fonti che

abbiamo considerato si esprimono nei confronti dei milesi con una terminologia

aristotelica, e avendo presente la fisica aristotelica. Quindi, risulta oltremodo

interessante considerare la dottrina di questi tre pensatori alla luce appunto

dell’interpretazione aristotelica, che condiziona tutte le fonti che riportano la dottrina

dei Milesi.

L’assioma fondamentale della cosmologia, così come è formulato, è aristotelico.

Infatti, Aristotele sostiene che i Milesi hanno individuato il principio (o la causa)

materiale. E’ vero che arché, come abbiamo visto, è un termine che fu utilizzato in un

contesto filosofico da Anassimandro (che ne è l’inventore, secondo Teofrasto). Ma il

senso di arché come ‘principio esplicativo’ (cioè, come origine e direzione che spiega

come le cose si sono generate) è probabilmente più tardo.

La hule (termine greco che viene tradotto con ‘materia’) è probabilmente

un’invenzione aristotelica. Al di là di questo punto linguistico, è interessante

sottolineare che Aristotele, nella Fisica (195a19) utilizza come sinonimo di hule

(materia) l’espressione ‘ciò a partire da cui’. Spesso esprime la proposizione

X è hule di Y

con la proposizione

X è ciò à partire da cui Y (è, o proviene, o deriva).

9 Ippolito era un teologo romano del III secolo d.C., che attaccò le eresie sostenendo che erano solo

dottrine pagane mascherate. Per questo è una fonte preziosa, dal momento che presenta queste dottrine,

molte delle quali attribuibili ai filosofi della natura.

16

Per esempio, se si dice

la terra è hule dell’uomo

si può rendere questa frase con

la terra è ciò a partire da cui l’uomo (è, o proviene, o deriva).

La formula ‘ciò a partire da cui’ (‘to ex hou’) era sicuramente una formula non-

tecnica in uso nel linguaggio dei Milesi: e si può congetturare che Aristotele abbia

attribuito ai milesi una proposizione della forma

(b) ogni cosa è (o deriva, o proviene) da X.

Trovando quindi nei Milesi delle proposizioni di tipo (b), Aristotele le ha dunque

interpretate attraverso (a).

Ora, come Aristotele stesso ha mostrato, la formula ‘ciò a partire da una cosa (to ek

tinos) è ambigua (cfr. Metafisica Delta 24, 1023a26; cf. 1022a22-35), cioè ha molti

sensi.

Dire che

Y proviene da X

significa per lo meno cinque cose, di cui almeno una è attribuita da Aristotele ai

presocratici:

X è la materia di cui Y è fatta (es: una statua è dal bronzo).

I commentatori moderni aggiungono un sesto modo, pertinente ai presocratici:

X è la materia a partire da cui è fatta Y (es: la carta è fatta dagli stracci).

In un’ottica a aristotelica, i Milesi hanno certamente a che fare con questi due

significati, anche se l’ultimo è stato aggiunto dai commentatori moderni. Ora, qual è

la differenza tra i due? Questa: io posso dire che la carta su cui scrivo è fatta a partire

da stracci, ma non è di stracci (infatti non sto scrivendo sugli stracci); posso dire che

il vino che sto bevendo è fatto a partire da acini d’una, ma non è di acini d’uva

(infatti, non sto bevendo acini d’uva) e così via.

Si tratta di un problema che ci si era già posti con Talete, e che inizia a chiarirsi: il

‘principio materiale’ è una materia originaria da cui provengono, con processi più o

meno misteriosi, i mondi e gli enti naturali, o è il costituente ultimo di cui sono fatte

tutte le cose?

Aristotele sembra aver sostenuto il significato

X è la materia di cui Y è fatta (es: una statua è dal bronzo).

e attribuito ai milesi delle teorie concernenti i costituenti ultimi, cioè la materia

sottostante delle cose naturali presenti. La posizione di Aristotele nei confronti dei

Milesi sembra convincente. Una linea interpretativa comunque interessante è la

seguente: di fatto i Milesi hanno sostenuto tutti e due i significati visti, dal momento

che, almeno in alcuni casi, la distinzione tra i due significati sembra illusoria:

17

dopotutto, se la mia tavola è fatta a partire dal legno, è fatta di legno; se la mia torta è

fatta a partire da farina, uova, latte, essa è fatta di farina, uova, latte.

Dalla tesi secondo cui i Milesi si sono occupati del principio materiale come

costituente ultimo delle cose deriva che i primi filosofi hanno visto i processi naturali

(generazione e corruzione) non come delle trasformazioni, ma come delle alterazioni

di uno stesso elemento. Ciò non era molto chiaro in Talete, si mostra più chiaramente

in Anassimandro (che vedeva la generazione dei mondi e delle entità del nostro

mondo come dovuta ai contrari), e si vede ancor più chiaramente e semplicemente in

Anassimene (13 A 7, p. 203, punti (2) e (3)):

(2) e (3) «e l’aspetto dell’aria è questo... così i contrari essenziali per la generazione

sono il caldo e il freddo».

Questo è un tentativo destinato a precisare il processo cosmogonico e a rendere un po’

più esatte le teorie di Anassimandro. In effetti, fare appello a un movimento eterno,

come aveva fatto Anassimandro, non spiegava nulla: di che tipo di movimento si

tratta? Di un movimento che modifica il principio, ma in quale maniera? Anassimene,

invece, parte dall’ipotesi di un’uniformità dell’aria, che in questo stato è

assolutamente invisibile, incoglibile. Secondo lui, poi, il movimento è un movimento

che comprime e che dilata, e che modifica il principio rendendolo più spesso o più

sottile. Diventando sottile, l’aria diventa fuoco, poi, condensandosi, diviene vento;

diventando più spessa, l’aria diviene nuvole, acqua, terra, pietra, via via che la

compressione aumenta: «così, i contrari essenziali per la generazione sono il caldo e il

freddo». Non è chiaro come il caldo e il freddo, che rendono visibili l’aria, e che sono

i principali responsabili della generazione (ghenesis) si producano.

Ci viene in aiuto Plutarco (13 B 1 DK, testo che si trova nel dossier “Testi

presocratici” tratto da Diels-Kranz, pubblicato sul sito in cui trova questa dispensa p.

211), che spiega che:

«come pensava il vecchio Anassimene...per rarefazione»10

.

Quindi, anche il caldo e il freddo sono prodotti dall’eterno movimento dell’aria, che

produce compressione (freddo) e dilatazione (caldo).

Ancora una volta, ci si trova di fronte a un caso di economia estrema: solo due

operazioni, o addirittura un’operazione che comporta due aspetti. Ancora una volta,

viene presentata una teoria basata sull’esperienza: noi vediamo infatti ogni mattina,

presso il fiume, l’acqua che evapora e che, con un processo di rarefazione, diviene

aria.

Per un’interpretazione un pò diversa dei motivi che hanno condotto Anassimene a

pensare all’aria come principio, interessante è il frammento 2:

13 B 2 DK (Aezio, 13, testo che si trova nel dossier “Testi presocratici” tratto da

Diels-Kranz, pubblicato sul sito in cui trova questa dispensa pp. 211-13):

«Anassimene...“come la nostra anima...tengono unito il mondo”».

A partire da queste parole si potrebbe sostenere che Anassimene abbia ipotizzato il

suo principio basandosi sulla considerazione dell’essere vivente, che appunto vive

finché ha respiro, cioè inspira e espira aria. Come l’aria è essenziale per la vita

10

Si noti che questo passo di Plutarco è considerato da DK un frammento, mentre sembra piuttosto una

parafrasi.

18

dell’uomo, così lo dev’essere per le cose e il cosmo intero. Quello che mi pare

interessante in questo passo è che qui si inizia a intravedere un concetto di anima

(psyché) un po’ diversa da quella che avevamo reperito in Talete (vedi teoria del

magnete): in Anassimene, la psyché inizia a essere un soffio, aria quasi incorporea

(sappiamo infatti che nel suo stato iniziale, essa non è in alcun modo percettibile),

qualcosa forse di vicino all’anima come sostanza intellegibile.

L’uso dell’analogia

Anassimene amava molto le analogie, e, come abbiamo visto, ne usa una per

argomentare sull’anima: il passo 13 B 2 (quello sull’anima, pp. 211-213) può infatti

essere interpretato nella maniera seguente:

a è F e anche G

b è F

quindi: b è G.

L’argomento sarebbe il seguente:

a) gli uomini contengono un’anima-aria, e quest’aria ci conserva vivi

b) l’universo è un intero che contiene aria

c) dunque: l’aria dell’universo conserva l’universo in vita.

Questo argomento (che si configura come una debole induzione) dovrebbe

‘dimostrare’ che l’aria ha più ragione di essere il primo principio materiale rispetto

agli altri ‘materiali’. Bisogna però dire che, in questo passo, Anassimene non fa un

uso chiaro dell’argomento per analogia: mancano infatti le particelle logiche,

inferenziali. La sua teoria, però, può essere basata sull’argomento per analogia.

19

Intermezzo (la causa efficiente)

Riprendiamo ora il testo di Metafisica Alpha, in particolare la continuazione del passo

in cui Aristotele parlava di Talete come iniziatore della filosofia:

Metafisica Alpha, 984a16-27 (p. 19 Reale):

“In base a questi ragionamenti…il principio del movimento”.

Qui Aristotele attribuisce ai primi pensatori anche la scoperta del “principio del

movimento”, diventato celebre come “causa efficiente”. Infatti la materia non può

mutare da sola.

Successivamente Aristotele afferma, per la verità un po’ ingiustamente, che “coloro

che sostennero che il sostrato è uno solo” non si resero conto della difficoltà, cosa non

vera almeno per Anassimandro e Anassimene. Tutti e due, infatti, hanno parlato di

mutamento come di qualcosa di provocato dall’alternarsi dei contrari, punto che, tra

l’altro, costituirà uno dei capisaldi della dottrina aristotelica).

I due, poi, pensano a un principio dinamico: Anassimandro parla del movimento

eterno dell’apeiron (anche se non lo specifica in nessun modo, almeno a giudicare ciò

che possediamo della sua dottrina), mentre Anassimene è più dettagliato poiché parla

di condensazione-rarefazione dell’aria, che produce caldo-freddo, e da lì tutte le cose

del mondo.

Come che sia, Aristotele ritiene che il problema sia stato risolto dai pluralisti, cioè da

coloro che hanno postulato l’esistenza di più elementi/principi materiali. Il riferimento

è a Eraclito, che identifica il primo elemento delle cose con il fuoco, che è un

principio dinamico; oppure a Empedocle, che arriva alla teoria dei quattro elementi

(terra, acqua, aria, fuoco), dotati di qualità e movimenti contrari (Aristotele farà sua

questa dottrina):

terra: fredda/movimento verso il basso (tende naturalmente a posizionarsi al centro

dell’universo);

acqua: fredda/movimento verso il basso (tende naturalmente a posizionarsi sopra la

terra);

aria: calda/movimento verso l’alto (si pone sopra l’acqua);

fuoco: caldissimo/movimento verso l’alto (si pone all’estremo del mondo sublunare, il

nostro).

Essi sono i componenti ultimi delle cose, e costituiranno la base della fisica

aristotelica.

Metafisica Alpha, 984b5-8 (p. 20 trad. Reale):

“Coloro che ammettono più principi…natura contraria”.

Finalmente, con Anassagora, arriviamo a scoprire una causa davvero importantissima,

la causa finale:

Metafisica Alpha, 984b8-22 (p. 21 trad. Reale):

“Dopo questi pensatori…Perciò colui che…agli esseri in movimento”.

Avremo modo di tornare sulla causa finale. Per ora possiamo dire che essa si specifica

come principio intelligente che, come tale, è causa dell’ordine e della bellezza

20

dell’universo.

Anassagora

Anassagora, nato a Clazomene (Asia minore), ha vissuto ad Atene, e fu amico intimo

di Pericle. Fu accusato di empietà, sia per ragioni politiche, sia perché egli ha detto,

irreligiosamente, che:

59 A 1 DK (DL II.6-15), p. 1001 tr. it.

«Il sole è una massa infuocata, più grande anche del Peloponneso»,

laddove il Sole era sempre stato considerato una divinità.

Anassagora ha approfondito lo studio della natura, a cui ha affiancato altri interessi

intellettuali: per esempio, ha fatto un commento ai poemi omerici. I dettagli della sua

opera non sono stati tramandati. Di fatto, egli ha attirato l’attenzione dei filosofi

successivi a causa di due idee più astratte (metafisiche).

L’intelletto.

(a) la prima idea riguarda il ruolo dell’intelligenza (nous) nell’universo:

Simplicio (Commentario alla Fisica, 156, 13-22), 59 B 12 DK, (testo che si trova nel

dossier “Testi presocratici” tratto da Diels-Kranz, pubblicato sul sito in cui trova

questa dispensa, p. 1077):

«tutte le altre cose...il moto rotatorio».

Consideriamo prima di tutto la natura e l’efficacia dell’intelletto o intelligenza. Esso

è concepito come una sostanza molto sottile, molto pura, e comunque materiale (come

si è potuto notare, l’idea di un’entità puramente immateriale non si è ancora fatta

strada). Poiché è di natura molto sottile, può infiltrarsi in tutte le cose. Inoltre,

l’intelletto è onnisciente: esso non è nient’altro che la facoltà di pensare, concepire,

sapere. Poiché si insinua dappertutto, l’intelletto può pensare dappertutto, nulla sfugge

alla sua conoscenza.

Per finire, l’intelletto è potente, efficace. Le cose “che hanno un’anima” (cioè i

viventi)—uomini, animali, probabilmente anche le piante (insomma, gli esseri naturali

che hanno in sé principio di cambiamento e movimento)—sono dominati

dall’intelletto. Anassagora non vuol dire che tutti i nostri atti sono dominati dalla

ragione piuttosto che dalla passione: egli piuttosto vuol dire che tutti i nostri atti,

anche quelli appassionati, ricevono la loro forma dall’intelletto. Per esempio: se,

spinto da un desiderio a cui non posso resistere, mi precipito su di una caraffa, non ne

consegue che il mio intelletto si sia ritirato: al contrario, non mi sarei precipitato sulla

caraffa se il mio intelletto non mi avesse assicurato che la caraffa mi offre la

possibilità di placare la mia sete. E’ in tal senso che l’intelletto ‘domina’ le cose

viventi: interviene con una sorta di ‘finalismo’ che permette la realizzazione di atti

con degli scopi precisi. E’ questa la funzione dell’intelligenza, che penetra tutte le

cose, che sa tutto, e che dunque può dominare e regolare tutto.

Qual è l’importanza che l’introduzione dell’intelletto riveste? Si potrebbe prima di

tutto credere che Anassagora abbia seguito lo stesso cammino dei filosofi più evoluti

(come per esempio Empedocle, che ha dato il ruolo che Anassagora attribuisce

all’intelligenza, ad Amore e Contesa). Aristotele, tuttavia pensa che Anassagora abbia

fatto progressi:

21

Aristotele, (Metafisica Alpha, 984b15-18), 59 A 58 DK, (p. 1041 “Testi

Presocratici”.:

«Colui che disse...parla alla ventura».

Aristotele ripete ciò che dice Socrate nel Fedone, 97C:

«se le cose stanno così, l’intelletto ordina tutte le cose e dispone ciascuna nella

migliore maniera possibile».

Aristotele, seguendo Platone, comincia quindi ad attribuire ad Anassagora la

concezione di un finalismo cosmico. Nella misura in cui il mondo è dominato

dall’intelletto, dev’essere ben ordinato, ordinato in vista di fini. La scienza, quindi,

deve mirare a spiegazioni teleologiche (telos vuol dire fine in greco), del tipo: “questo

fenomeno si produce perché è bene che si produca”.

Aristotele e Socrate si compiacciono del fatto che Anassagora ha riconosciuto

l’esistenza di una finalità cosmica. Ma, i due—a loro stesso dire—rimangono poi

delusi: delusi perché, malgrado il modo solenne in cui viene introdotto, l’intelletto di

Anassagora è materiale, e di fatto non viene più invocato per spiegare i fenomeni

fisici (Anassagora si accontenterà ancora una volta di una causalità meccanicista).

Però, a discolpa di Anassagora, possiamo dire che nessun finalismo traspare nei suoi

frammenti giunti fino a noi (si tratta di un’invenzione platonica e aristotelica). Sta

però di fatto che Anassagora segna un cambiamento nella fisica, rispetto ad

Empedocle. Infatti, sostituisce a delle potenze impersonali (come Amore e Odio, che

possono essere ricondotte alle potenze naturali di attrazione e repulsione) una potenza

personale, difficilmente riconducibile a una forza fisica. Questo rappresenta un

problema, perché le forze di cui ci si serve in fisica devono essere delle forze fisiche.

Si tratta forse di una regressione di Anassagora rispetto a Empedocle?

La materia.

(b) la seconda innovazione di Anassagora ha a che fare con la concezione della

materia.

Ci sono parecchi frammenti che trattano di questa concezione della materia,

frammenti la cui interpretazione è delicata. Le grandi linee di questa concezione

possono essere ricavate dai seguenti testi:

1) Simplicio (Commento alla Fisica, 155, 26-30), 59 B 1 DK, p. 1069 “Testi

Presocratici”:

«Tutte le cose...che per grandezza»11

.

2) Simplicio (Commento alla Fisica, 164, 23-24), 59 B 11 DK, p. 1077 “Testi

Presocratici”:

«In tutto...intelligenza».

3) Simplicio (Commento alla Fisica, 164, 26-34), 59 B 6 DK, p. 1073 “Testi

Presocratici”:

«E poiché (non: “e se”, come traduce il nostro testo!) ...le cose sono insieme».

In questi testi, troviamo sostanzialmente tre tesi principali.

1T: la prima tesi fa riferimento allo stato di cose ‘all’inizio’ (‘tutte le cose erano

insieme...’), cioè, prima che l’Intelletto compisse il suo lavoro cosmogonico. In

questo momento “tutte le cose erano insieme”, tutto era in tutto, tutto partecipava a

una porzione di tutto.

2T: la seconda tesi ci riconduce al tempo presente: anche dopo la rivoluzione

cosmogonica operata dall’intelletto, che ha fatto sì che le cose si siano separate

reciprocamente per costituire un mondo ordinato, nondimeno tutte le cose restano

insieme, tutto partecipando a una porzione (parte, in greco moira) di tutto.

11

« anche il piccolo era infatti infinito » va messo tra parentesi, e fatto seguire da un punto e virgola.

22

3T: la terza tesi constata che, in questa mescolanza di materia, “il minimo (nel senso

del più piccolo) non esiste”: cioè, si può sempre trovare una cosa più piccola della

cosa più piccola che si è trovata.

Quindi:

1/ all’inizio, ogni cosa partecipava a una porzione di ogni cosa;

2/ adesso, ogni cosa partecipa a una porzione di ogni cosa;

3/ per ogni cosa di qualunque grandezza, esiste una cosa più piccola.

Bisogna a questo punto cercare di stabilire il senso esatto di queste tre tesi. Ma già

possiamo dedurre da queste tesi due conseguenze importanti. Prima di tutto,

Anassagora non sottoscrive alcuna forma di atomismo, non credeva, cioè, che le cose

fossero costituite da piccoli pezzi elementari. E’ la tesi 3/ che impone in modo assai

evidente questa prima conseguenza. D’altronde, Anassagora ha adottato una posizione

particolare a proposito delle cose che vediamo, di cui nessuna è pura.

Simplicio (Commento alla fisica, 157, 3-4), ultime righe di 59 B 12, p. 1079 “Testi

Presocratici”.

“L’Intelligenza, dunque, …in misura maggiore”.

Prendiamo un esempio. Questo anello, diciamo, è fatto d’oro. Anassagora invece

dire: assolutamente no, è fatto d’oro, d’argento, di legno, di sangue, di ossa, ecc. ecc.

In questo caso, diremo, che l’anello è d’oro non in quanto è fatto d’oro, ma in quanto

la più grande parte percepibile è d’oro.

Per interpretare le tre tesi, bisogna tenere salda l’idea che le ‘cose’ di cui parla

Anassagora, sono tipi di materia ( e questo anche se, tra le cose che Anassagora ha

riconosciuto come ‘materie’, si trovano anche cose che metteremmo sotto altre

categorie). Possiamo quindi riformulare le tre tesi nel seguente modo.

Partiamo da 2/, che spiega come sono le cose ora:

2*/ adesso, ogni pezzo di qualunque materia (abbiamo fatto l’esempio dell’anello

d’oro), contiene una porzione di ogni altro tipo di materia.

Perché accettare questa tesi?

Un argomento che deriva da Anassagora (anche se non si trova nei suoi frammenti),

parte dalla considerazione del fenomeno del cambiamento:

Simplicio (Commento alla Fisica, 460, 11-19), 59 A 45 DK, p. 1031-33 “Testi

Presocratici”:

“Notando, dunque …(mettere un punto e virgola dopo ‘e dalla pietra nuovamente il

fuoco’)…anche corna […]. Per questo…corteccia e frutto”.

Anassagora ha quindi osservato che materie numerose e diverse risultano dallo

stesso alimento (dal pane, per esempio, derivano cose diverse come carni, ossa, vene,

nervi…ovviamente qui egli descrive il fenomeno della crescita di un bambino, che

avviene grazie all’alimentazione). E ha generalizzato questa osservazione sostenendo

che ogni specie di materia può (e deve) risultare da ogni altra specie di materia. Ora,

se qualcosa deriva da qualche cosa, ne consegue che questa prima cosa, prima

d’essere prodotta, si trovava in quella da cui proviene.

Si noti che questa inferenza si fonda su un principio eleatico12

, nella misura in cui se

l’osso del braccio del bambino non si trovava prima nel pane, non sarebbe poi

apparso.

L’osservazione generalizzata implica quindi la tesi 2*/.

Possiamo ora formulare la tesi 1/ nel modo seguente:

12

“Solo ciò che esiste, esiste; ciò che non esiste non esiste (in nessun modo”.

23

1*/ all’inizio, ogni pezzo di qualunque materia conteneva una porzione di ogni altro

tipo di materia.

Questa tesi, a differenza della precedente, non si presta all’osservazione diretta. Ora,

secondo Anassagora

Sesto (Contro i matematici, VII, 140), 59 B 21a DK, p. 1085 “Testi Presocratici”:

“i fenomeni rendono visibile l’invisibile”.

Noi comprendiamo le cose non percettibili solo per analogia con le cose che

percepiamo. Sulla base di questo principio, noi possiamo passare da 2*/ (osservazione

diretta) a 1*/, ciò che non è (più) direttamente osservabile.

Sulla base di queste due tesi, cerchiamo ora di capire la tesi 3. Lo facciamo con

l’aiuto di un esperimento mentale.

Supponiamo di avere un secchio pieno d’acqua salata. Con un qualunque mezzo,

separiamo il sale dall’acqua, ottenendo diciamo 50 grammi di sale. Resta dell’acqua

nel secchio: ora, secondo la tesi 2*/ (che dice che, qualunque ‘pezzo’ di materia

contiene una porzione di qualunque altra materia), quest’acqua deve, anch’essa,

essere salata. Cerchiamo quindi ancora una volta di separare il sale. Otterremo ancora

25 grammi di sale. Resta dell’acqua nel secchio: secondo la tesi 2*/ quest’acqua è

salata….Questo processo può ripetersi all’infinito: si può sempre—almeno in teoria—

recuperare del sale. Ovviamente, la quantità di sale recuperato diviene sempre più

piccola. Possiamo quindi constatare che:

3*/ ogni oggetto che partecipa a una porzione di una certa materia, partecipa anche a

una porzione più piccola di questa stessa materia.

Questa tesi è una versione più precisa di 3/.

In questo modo, 3*/ deriva da 2*/.

Invece, a partire dal frammento 6 (vedi supra, 3), Anassagora sembra derivare 2*/

da 3*/. Poiché infatti il più piccolo non può essere nulla, tutte le cose sono insieme e

nulla può essere separato.

Il testo del frammento 6 dice, infatti: poiché il minimo (cioè, il più piccolo) non può

esistere (3/), allora anche ora tutte le cose sono insieme (2/).

Nella versione più raffinata:

poiché

3*/ ogni oggetto che partecipa a una porzione di una certa materia, partecipa anche

a una porzione più piccola di questa stessa materia

allora

2*/ adesso, ogni pezzo di qualunque materia contiene una porzione di ogni altro tipo

di materia.

Esempio: poiché in un anello d’oro (che sappiamo essere fatto non solo di oro, ma

di tutte le altre materie) troveremo sempre una porzione (anche se via via più piccola)

di sangue, di terra, di acqua, di pane...ne consegue che questo anello contiene una

porzione di ogni altro tipo di materia.

Va detto che la teoria anassagorea della materia ha suscitato più ammirazione che

accordo dei filosofi successivi. Ma essa è fondata su osservazioni empiriche e

sviluppata secondo principi razionali: sarà difficile farla cadere.

24

Gli atomisti

Democrito, originario di Abdera (in Grecia, nell’odierna Tracia), ebbe il suo periodo

di maturità nella seconda metà del V secolo. Diogene Laerzio (IX, 45) enumera una

lista dei suoi libri, tra cui il Piccolo sistema del mondo (pare che Leucippo abbia

scritto il Grande sistema del mondo). Degli scritti di Democrito, sono sopravvissuti

circa trecento frammenti, che però hanno quasi tutti a che fare con la filosofia morale.

Sulla teoria dell’atomismo propriamente detta, cioè sulla parte più geniale del

pensiero di Democrito, dobbiamo accontentarci dei resoconti, e delle critiche, di

Aristotele e di altri autori più tardi. Possiamo aggiungere che Democrito è stato più

fortunato del suo maestro e concittadino Leucippo. In effetti, è Leucippo che ha

inventato l’atomismo: della sua opera, tuttavia, noi leggiamo solo qualche frase;

inoltre, le nostre fonti lo menzionano molto raramente, spesso nella formula

«Leucippo e Democrito hanno detto...». Ragion per cui, risulta impossibile separare la

dottrina di Leucippo da quella di Democrito, la cui fama ha certamente eclissato

quella del suo maestro.

Le grandi linee della teoria atomista si trovano in un frammento di un saggio di

Aristotele su Democrito, che si trova in Simplicio:

Simplicio (Commento al De caelo, 294, 33-295, 10) 68 A 37 DK, p. 1219 “Testi

Presocratici”:

«Democrito afferma...però da esse non si genera una sola natura».

Un’infinità di piccole sostanze, solide e indivisibili, diverse per forma e grandezza,

vagano qua e là in un vuoto infinito ed eterno; il loro movimento, possiamo dire, è

determinato da una necessità assolutamente meccanica, (a causa delle loro

dissomiglianze e differenze di figura e grandezza, che determinano il loro peso). Di

quando in quando, e assolutamente per caso, si spintonano l’un l’altro, si urtano, si

incastrano, formando così degli agglomerati: in questo modo i corpi, visibili ai sensi,

vengono ‘generati’. Anche qui possiamo vedere che viene accolta la critica eleatica

alla generazione e alla corruzione: non c’è né nascita né morte, ma solo

agglomerazione e separazione di elementi eterni, i cosiddetti atomi (che però, nel

passo in analisi, non vengono chiamati così, ma “cosa”, “elemento solido”, “essere”).

I corpi visibili, dunque, non sono delle ‘nature’, ma solo degli agglomerati: una folla

di individui che non costituiscono quindi delle unità vere e proprie (l’unità è solo

quella degli atomi, che però sono delle vere e proprie unità di tipo eleatico, eterne,

omogenee, completamente piene).

Nella realtà, ci dice Aristotele (citato da Simplicio), esistono solo questi “elementi

compatti” e il “vuoto” (chiamato anche “nulla” e “infinito”). Se le cose stanno così, è

necessario allora spiegare tutto ciò che si produce nel mondo con l’aiuto di questi

elementi e delle loro qualità. Democrito, da buon physikos, ha cercato di spiegare tutto

con l’aiuto di atomi e vuoto:

Dionigi d’Alessandria (presso Eusebio, Preparazione evangelica XIV, 27, 4) 68 B

118 DK, p. 1383 “Testi Presocratici”:

«Come si narra, Democrito stesso sosteneva di preferire la scoperta di un solo

ragionamento in grado di spiegare le cause, piuttosto che diventare sovrano dei

persiani ».

Per desiderio di trovare il ‘perché’ delle cose, Democrito ha per esempio proposto

25

una teoria atomista della percezione e dei sensi, e che ha sviluppato nei dettagli:

Teofrasto (Sui sensi, 65) 68 A 135 DK, p. 1287 “Testi Presocratici”:

«per ciò che riguarda l’acido (non l’acuto, come traduce il nostro testo!!)...ruvide e

spigolose».

La spiegazione non è propriamente convincente: infatti Democrito cerca di spiegare

le qualità su base propriamente quantitativa (la figura atomica, che spiega appunto le

cosiddette ‘qualità secondarie’ come dolce, aspro, salato, ecc.); va però sottolineato il

desiderio ardente e indefesso di spiegare i fenomeni.

La teoria atomista, così come Democrito l’ha concepita, solleva degli interrogativi:

perché gli atomi? Come e perché il vuoto?

Gli atomi.

La prima questione è la seguente: perché ipotizzare l’esistenza degli atomi, che non

sono percettibili? Perché Democrito non ha seguito il precetto di Anassagora che,

come abbiamo visto, diceva che «i fenomeni rendono visibile l’invisibile»? Questo

precetto, come abbiamo visto, si spiega con la necessità di utilizzare il mondo

fenomenico (visibile e percettibile) come ‘criterio’ esplicativo (è per questo che,

secondo Anassagora, possiamo concepire il mondo com’era, sulla base della nostra

percezione del mondo attuale...). Si dice che Democrito abbia lodato la formula di

Anassagora, il che permetterebbe di supporre che anche la sua teoria si appoggia su

base empirica, e che sono proprio le osservazioni sui fenomeni che hanno condotto

Democrito agli atomi.

Ma, a dire la verità, la teoria verso cui Democrito è stato condotto sembra invece

contraddire pienamente i fenomeni, e tutto ciò di cui i sensi ci danno garanzia. In

effetti, l’atteggiamento di Democrito nei confronti dei sensi è ambivalente: da un lato

accetta la loro testimonianza quanto a fenomeni quali la molteplicità e il movimento;

ma dall’altra li considera come profondamente ingannatori:

Plutarco (Contro Colote, Moralia 1111a) 68 A 57 DK, p. 1233 “Testi Presocratici”:

«quando <gli atomi> si avvicinano...Secondo Democrito, tuttavia (questo ‘tuttavia’,

essenziale, non è tradotto nella nostra traduzione italiana), tutte le cose sono formate

da quelle che egli chiama ‘forme atomiche’, e non c’è altro principio (il greco dice,

piuttosto: ‘e non esiste altro’)».

Secondo l’atomismo, gli uomini, le piante, così come la folla nelle strade, non

hanno alcuna natura. Per dirla tutta, secondo le parole di Plutarco, ‘non esistono’:

esistono solo le ‘forme invisibili’. Il mondo democriteo, quindi, non è certamente

quello che descrivono i nostri sensi.

Rispetto, dunque, al metodo proposto da Anassagora (rendere visibile l’invisibile

attraverso ciò che possiamo osservare), abbiamo invece un universo, quello

democriteo, che di fatto è totalmente differente dal mondo visibile, ed è totalmente

invisibile e impercettibile. Anche questa, come si può facilmente riconoscere, è una

idea eleatica, accolta dagli atomisti.

Democrito era consapevole di tale difficoltà:

Galeno (Sulla medicina empirica XV, 8) 68 B 125 DK, p. 1385 “Testi Presocratici”

«Anche Democrito...e poi mi respingi sprezzantemente!».

26

La critica ai sensi è severa: Democrito, avvicinandosi in questo senso al sofista

Protagora, ci dice che tutte le qualità non sono che convenzione (cioè, dipendono

dall’individuo senziente, possiamo dire), mentre verità sono solo atomi e vuoto.

Tuttavia il passo dice qualcosa di complesso: da una parte, si sostiene che una

teoria, per essere affidabile, deve fondarsi sulla percezione (‘trai le tue credenze da

me’, dice la sensazione al pensiero); dall’altra, sebbene fondata sulla percezione, la

teoria atomista ci dice che la percezione è completamente ingannatrice (‘e poi mi

respingi sprezzantemente?’).

Dal canto suo, Aristotele pensava che «Democrito sembra essere stato convinto da

argomenti appropriati e scientifici» (GC I, 2, 316a13-14). Aristotele parafrasa questi

argomenti:

Aristotele (GC 1, 2, 316a 24-29), 68 A 48 b, p. 1227 “Testi Presocratici”:

«Se un corpo fosse completamente divisibile...lo si divida...se non parvenza».

Per comprendere l’argomento di Democrito, prendiamo un plum cake di circa 20

centimetri. Supponiamo che esso possa essere tagliato a fette completamente (cioè, in

tutte le sue parti, e non in una parte sì e in un’altra no), cioè che non vi siano atomi di

dolce. Altrimenti detto, supponiamo che vi siano un’infinità di punti lungo il cake, e

che, almeno in teoria, si possa tagliare il cake in ciascuno di questi punti. Se il cake

può essere tagliato, possiamo supporre senza contraddizione né impossibilità che esso

sia stato tagliato. Dopo essere stata così tagliato, cosa ci rimarrà? Un’infinità di fette,

forse, molto molto sottili? No: non vedremo alcuna fetta, dal momento che, qualunque

fetta anche di uno spessore minimo, dimostrerebbe che il cake non è stato tagliato

ovunque. Ma, se noi non vediamo nessuna fetta, non vedremo assolutamente nulla;

bisognerà allora concludere che il cake o è costituito di punti geometrici, totalmente

immateriali (e allora dovremmo assurdamente concludere che le grandezze si

costituiscono a partire da punti totalmente privi di grandezza); oppure da nulla

(perché a furia di dividere arrivi al niente), il che è evidentemente impossibile.

Bisognerà così concludere che il supposto taglio non può compiersi, e che bisogna

allora postulare degli atomi di cake. Infatti, se non è possibile che una cosa sia tagliata

ovunque, bisogna allora che essa sia costituita di parti insecabili, cioè di atomi.

Questo argomento richiama ovviamente quelli di Zenone di Elea (discepolo di

Parmenide), e certamente Democrito è stato influenzato dalle antinomie zenoniane a

proposito dell’infinito. Quello che però è interessante è il carattere dell’argomento:

esso non dipende in nessun caso dall’osservazione né dall’esperienza, è un argomento

a priori. Rispetto quindi al metodo di Anassagora, quello di Democrito è tutto

diverso: si tratta di un metodo che non è basato sull’osservazione.

Il vuoto.

Melisso, sostenitore della teoria parmenidea, ha negato la possibilità dell’esistenza

del vuoto: infatti, ciò che è vuoto non esiste—come quindi credere all’esistenza di ciò

che non esiste? Per rispondere a tale questione, le scelte non sono molte: bisognerà

affermare o che il vuoto non si identifica al non-esistente, oppure che il non-esistente

esiste. Ora, la seconda possibilità dovrebbe essere esclusa per ragioni logiche (parlare

di esistenza del non-esistente è infatti una contraddizione). Invece, è proprio questa

seconda possibilità quella scelta dagli atomisti, che avevano bisogno del vuoto per

farvi muovere gli atomi:

Aristotele (Metafisica A 4, 985b4-9), 67 A 6 DK, pp. 1161-63 “Testi presocratici:

«Leucippo, invece, e il suo seguace Democrito...più realtà del vuoto».

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Quindi: due sono gli elementi (cioè, le realtà ultime, come abbiamo visto all’inizio

del corso)) dell’universo: gli atomi e il vuoto. Glia atomi = essere; il vuoto = non-

essere. Per questo motivo, Leucippo e Democrito sostengono che l’essere non è più

(essere) del non-essere, cioè: ciò che è non è più di ciò che non è!

La testimonianza di Aristotele è confermata da altri testi, in cui viene presentata una

formula accuratamente concisa di Democrito:

«l’ente non è più che il niente (= non-ente)» (Plutarco (Contro Colote, Moralia

1109 a) 68 B 156 DK, p. 1397 “Testi presocratici”).

E’ vero, come diceva Melisso, che il vuoto si identifica al non-essere; ma, a

differenza di quello che diceva Melisso, il non-ente è.

Essere e non-essere.

«Ciò che non è, è», «ciò che non esiste, esiste»: le proposizioni centrali

dell’argomento di Democrito sul vuoto sembrano essere contraddittorie. Ma in che

modo Democrito avrebbe potuto sostenere questa tesi? Mostrando che la

contraddizione è solo apparente. Una dimostrazione di questo tipo poteva essere fatta

solo a una condizione: Democrito avrebbe dovuto affermare che la parola ‘essere’ o

‘esistere’ è ambigua, che il vuoto ‘esiste’ e ‘non esiste’, ‘è’ e ‘non è’, secondo due

significati differenti dei termini ‘essere’ ed ‘esistere’ (insomma, Democrito avrebbe

dovuto affermare che il verbo greco einai, che si traduce con ‘essere’ o ‘esistere’, è

ambiguo, come dirà anche Aristotele in Metafisica Gamma).

Sappiamo che Democrito si è interessato all’ambiguità dei termini; d’altro canto, è

cosa nota che il termine ‘esistere’ è ambiguo, dal momento che esso vuol dire

‘esistere realmente’ (io, hic et nunc) o ‘sussistere’ (come quando noi diciamo che il

passato ‘esiste’: non vogliamo con ciò affermare che il passato esiste qui e ora; ma

che esso c’è, ha comunque una sorta di esistenza, per esempio nella mia memoria.

Altro esempio: i numeri ci sono, esistono, ma non in modo concreto e reale, come

queste mele qui sul tavolo).

Quando quindi Democrito dice «il vuoto non esiste», egli dovrebbe voler dire che il

vuoto non è una cosa concreta, reale, che può, secondo la definizione aristotelica,

agire o patire. Quando invece afferma che «il vuoto esiste», dovrebbe voler dire che ci

sono delle cose reali e concrete, separate le une dalle altre, tra le quali non può

interporsi nessun’altra cosa reale (e queste ‘separazioni’ sarebbero il vuoto).

Questo sarebbe il modo di difendere la teoria di Democrito.

Bisogna però ammettere che l’interesse di Democrito per l’ambiguità si colloca in

un contesto molto lontano dalla sua teoria fisica (Democrito infatti ha sostenuto una

teoria secondo la quale il linguaggio è pura convenzione). Inoltre, in nessun

frammento e in nessuna testimonianza si suggerisce che Democrito abbia individuato

l’ambiguità del verbo essere. E comunque, anche se avesse individuato tale ambiguità,

essa non sarebbe sufficiente per provare l’esistenza del vuoto. In effetti, il concetto di

vuoto scappa da ogni lato, è difficile afferrarne la natura: è una specie di ‘concetto

negativo’, di cui quindi è difficile affermare l’esistenza, qualunque essa sia.

Resta che la teoria atomista è sicuramente la teoria più raffinata, originale, e più

corrispondente al vero (si pensi all’atomismo contemporaneo) che è stata prodotta

nell’antichità. Tuttavia, i due problemi che abbiamo sollevato sono piuttosto seri e

rendono la teoria poco solida.

Da una parte, infatti, il metodo proposto da Democrito, cioè il ragionamento a

priori, pretende di spiegare i fenomeni nel momento stesso in cui denuncia la

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percezione come ingannatrice.

Dall’altra, per ciò che riguarda la concezione del vuoto, troviamo una contraddizione

logica—tra essere e non-essere—che sarebbe stata risolvibile se Democrito avesse

individuato l’ambiguità del verbo ‘essere’, cosa che non risulta abbia fatto.