Il Comunista in Camicia Nera - Arrigo Petacco

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txt Arrigo Petacco IL COMUNISTA IN CAMICIA NERA Nicola Bombacci, tra Lenin e Mussolini ARNOLDO MONDADORI Diversi in tutto: uno violento, l'altro mite; uno donnaiolo, l'altro monogamo; uno fondatore del Partito fascista, l'altro fondatore del Partito comunista... Benito Mussolini e Nicola Bombacci, entrambi romagnoli, maestri elementari, oratori carismatici idolatrati dalle masse e simboli viventi di due opposte rivoluzioni, condussero due vite parallele, ma non si odiarono mai. La loro amicizia, nata sui banchi di scuola, superò ostacoli e avversità, e si sublimò a Dongo, il 28 aprile 1945, davanti ai mitra spianati dei partigiani. Nell'intreccio dei loro destini c'è mezzo secolo di storia italiana. Ma, mentre di Mussolini sappiamo ormai quasi tutto, il suo amico-nemico Nicola Bombacci, personaggio scomodo per la destra quanto per la sinistra, finora è rimasto nell'ombra. Nella lista dei cadaveri provenienti da Dongo, pubblicata dai giornali la sera stessa dell'esposizione a piazzale Loreto, viene definito semplicemente "supertraditore". Ma chi era Bombacci? Chi aveva "supertradito" per meritare la morte? Amico del Duce, ma anche di Lenin, sostenitore della Rivoluzione di Ottobre (fu lui a far apporre sulla bandiera rossa la falce e il martello) e leader dell'antifascismo, fu al centro di un misterioso intrigo internazionale. Con l'appoggio di Mosca e, forse, con il tacito assenso di Mussolini, cercò di unificare le "due rivoluzioni" per individuare la mitica terza via. Il suo disegno, però, fallì: Bombacci, deluso dalla svolta stalinista, fu espulso dal partito, oltraggiato e diffamato da fascisti e comunisti. Tuttavia, non rinunciò mai al suo sogno ingenuo e romantico di riportare il Duce alle tendenze politiche giovanili. Un sogno che si illuse di poter realizzare nel crepuscolo di Salò dove, divenuto suo consigliere e collaboratore, lo affiancò nel disperato tentativo di trasformare in socialista l'effimera Repubblica sociale italiana. Con Il comunista in camicia nera Arrigo Petacco ci offre una biografia intrigante e provocatoria e ci svela un aspetto interessante e inedito dell'età fascista. In sovraccoperta: Bombacci, Barracu, Zerbino, Pavolini e Casalinuovo, in un fotogramma tratto dal cortometraggio girato durante la loro fucilazione a Dongo e conservato negli archivi del PDS. Page 1

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Biografia di Nicola Bombacci

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtArrigo Petacco

IL COMUNISTA IN CAMICIA NERANicola Bombacci, tra Lenin e Mussolini

ARNOLDO MONDADORI

Diversi in tutto: uno violento, l'altro mite; uno donnaiolo, l'altro monogamo; uno fondatore del Partito fascista, l'altro fondatore del Partito comunista... Benito Mussolini eNicola Bombacci, entrambi romagnoli, maestri elementari, oratori carismatici idolatrati dalle masse e simboli viventi di due opposte rivoluzioni, condussero due vite parallele, ma non si odiarono mai. La loro amicizia, nata sui banchi di scuola, superò ostacoli e avversità, e si sublimò a Dongo, il 28 aprile 1945, davanti ai mitra spianati dei partigiani. Nell'intreccio dei loro destini c'è mezzo secolo di storia italiana. Ma, mentre di Mussolini sappiamo ormai quasi tutto, il suo amico-nemico Nicola Bombacci, personaggio scomodo per la destra quanto per la sinistra, finora è rimasto nell'ombra. Nella lista dei cadaveri provenienti da Dongo, pubblicata dai giornali la sera stessa dell'esposizione a piazzale Loreto, viene definito semplicemente "supertraditore". Ma chi era Bombacci? Chi aveva "supertradito" per meritare la morte? Amico del Duce, ma anche di Lenin, sostenitore della Rivoluzione di Ottobre (fu lui a far apporre sulla bandiera rossa la falce e il martello) e leader dell'antifascismo, fu al centro di un misterioso intrigo internazionale. Con l'appoggio di Mosca e, forse, con il tacito assenso di Mussolini, cercòdi unificare le "due rivoluzioni" per individuare la mitica terza via. Il suo disegno, però, fallì: Bombacci, deluso dalla svolta stalinista, fu espulso dal partito, oltraggiato e diffamato da fascisti e comunisti. Tuttavia, non rinunciò mai al suo sogno ingenuo e romantico di riportare il Duce alle tendenze politiche giovanili. Un sogno che si illuse di poter realizzare nel crepuscolo di Salò dove, divenuto suo consigliere e collaboratore, lo affiancò nel disperato tentativo di trasformare in socialista l'effimera Repubblica sociale italiana. Con Il comunista in camicia nera Arrigo Petacco ci offre una biografia intrigante e provocatoria e ci svela un aspetto interessante e inedito dell'età fascista.In sovraccoperta:Bombacci, Barracu, Zerbino, Pavolini e Casalinuovo, in un fotogramma tratto dal cortometraggio girato durante la loro fucilazione a Dongo e conservato negli archivi del PDS.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtArrigo Petacco, nato nel 1929 a Castelnuovo Magra (La Spezia), vive abitualmente fra Roma e Portovenere. Giornalista, inviato speciale, ha collaborato al "Corriere della Sera",a "Grazia", "Epoca", "Panorama", al "Tempo", al "Resto del Carlino". È stato inoltre direttore di "Storia Illustrata" e della "Nazione". Ha sceneggiato alcuni film e realizzato numerosi programmi televisivi di successo. Fra i suoi numerosi libri ricordiamo: L'anarchico che venne dall'America, Joe Petrosino, Il Prefetto di ferro, Dal Gran Consiglio al Gran Sasso (con Sergio Zavoli), Pavolini, l'ultima raffica di Salò, I ragazzi del '44, Dear Benito, caro Winston, La regina del Sud, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra 1940-1945.

Dello stesso autoreNella collezione Le ScieIl Prefetto di ferroLa regina del SudLa principessa del NordLa Signora della VandeaLa nostra guerra 1940-1945Nella collezione OscarI ragazzi del '44Le battaglie navali del Mediterraneo nella seconda guerra mondialeDear Benito, caro WinstonISBN 88-04-40305-5(c) 1996 Arnoldo Mondadori Editore S.p A., Milano

I edizione febbraio 1996

INDICE 3 I Il supertraditore 9 II "Chi non lavora non mangia" 16 III Nicolino, Benito e la rivoluzione 26 IV Il Kaiser di Modena 31 V Il Lenin di Romagna 41 VI L'uomo di Mosca 51 VII Il rivoluzionario del temperino 62 VIII Lenin si arrabbia 72 IX Missione segreta a Roma 82 X Il patto con il diavolo 89 XI Intermezzo: Mussolini dittatore per forza 103 XII L'ignoto benefattore

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txt 115 XIII Chi inventò l'autarchia? 125 XIV Una "Pravda" all'italiana 138 XV Repubblica fascista o repubblica socialista? 148 XVI "Su fratelli, su compagni..." 157 XVII Sua eminenza Nicola Bombacci 166 XVIII La socializzazione 176 XIX "Giramondo" uno e trino 188 XX Mine sociali in Val Padana 200 XXI Una repubblica che nessuno vuole 214 XXII "Chissà cosa diranno di noi due..." 223 Bibliografia 225 Ringraziamenti 227 Indice dei nomi

IL COMUNISTA IN CAMICIA NERAL'importante è non finire.

I IL SUPERTRADITORE "

In Italia c'era un solo socialista capace di fa-re la rivoluzione: Benito Mussolini. Ebbene, voi lo avete perduto e non siete stati capaci di ricuperarlo."Lenin a Bombacci (1922)"Guardate la troia!" urlò qualcuno con voce sguaiata. "Andava in giro senza mutande." La gonna blu della ragazza appesa a testa in giù al traliccio del distributore AGIP in piazzale Loreto era scivolata verso il basso scoprendo le gambe e il pube. La folla rumoreggiò: si levarono sghignazzate, battute oscene e alte grida isteriche. Soltanto un prete, don Pollarolo, ebbe un moto di compassione di fronte a quella scena penosa in tanto orrore e, preso uno sgabello, si industriò per legare la gonna con un pezzo di spago e coprire le parti intime del povero cadavere vilipeso.Mentre qualcuno ironizzava sull'atto pietoso compiuto dal sacerdote (la pietà era veramente morta la mattina di domenica 29 aprile 1945), i partigiani del colonnello Valerio continuavano ad attaccare al traliccio i corpi arrivati nella notte da Dongo a bordodi un camion della Tìnto -Stamperia Ambrogio Pessina. Si era giunti alla macabra decisione di appenderne alcuni per i piedi, anziché lasciarli per terra, per consentire alla folla una migliore visione, ma anche per evitare il bestiale accanimento contro di essi. Infatti i facinorosi, in maggioranza donne, avevano subito preso di mira a calci e sputi il

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtpiù riconoscibile nel mucchio, per via della grossa testa pelata.Allora la civiltà delle immagini era ancora di là da venire, e, salvo il volto a tutti familiaredi Mussolini, le sembianze degli altri gerarchi, anche famosi, erano praticamente ignote al grande pubblico. Di conseguenza, l'identificazione dei

diciotto cadaveri si rivelò subito alquanto difficile. Per appagare la morbosa curiosità dei presenti, un tale si improvvisò cicerone:"Questa è Claretta Petacci, la ganza del Duce..." annunciò indicando l'unico corpo femminile con la gonna annodata fra le cosce. "Questo è Pavolini, il capo delle Brigate nere..." continuò fra le salve di fischi. "Quest'altro è Starace, segretario del Partito fascista... Questo è Zerbino, il ministro degli Interni...""Chi è quello con la barba?" chiese qualcuno indicando la salma di un uomo dalla folta barba biondastra striata di grigio che indossava uno spiegazzato doppiopetto blu e calzava stivaletti neri lucidissimi."È Teruzzi" fu la risposta."Teruzzi chi?""Teruzzi, quello che era ministro delle Colonie...""No, no" intervenne un partigiano "Teruzzi non era a Dongo. Mi dicono che l'hanno fucilato l'altra sera, in Piemonte..."Infatti non era Teruzzi. Il barbuto Attilio Teruzzi, ex ministro dell'Africa italiana e luogotenente della Milizia, non faceva parte della colonna dei gerarchi fuggiaschi catturati a Dongo. Tuttavia, in quei giorni di grande confusione, anche lui risultò fucilato,e per ben quattro volte in quattro località diverse. Ma sempre per errore, a causa della barba: quattro ignari fascisti barbuti erano stati scambiati per lui e giustiziati seduta stante. Il fortunato Teruzzi, invece, sopravvisse e ricomparve in circolazione dopo che erano state celebrate svariate messe in suo suffragio.Chi era dunque l'uomo barbuto penzolante in piazzale Loreto? Il mistero fu chiarito - anche se solo in parte -quando i giornali della sera pubblicarono i nomi dei diciotto cadaveri. Il lungo elenco, stampato in neretto su tutte le prime pagine, riportava i nomi dei giustiziati con accanto la qualifica politica che motivava la condanna a morte emanatadal Comitato di liberazione nazionale Alta

Italia. Soltanto per il misterioso uomo barbuto era stata fatta un'eccezione. Luigi Longo, l'esponente comunista del CLNAI che aveva redatto personalmente la lista, aveva ritenuto più che sufficiente scrivere: "Nicola Bombacci, supertraditore".Ma chi era Nicola Bombacci? E chi aveva "supertradi-to" per meritare di essere appeso per i piedi accanto a Benito Mussolini?

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtPoco più di un mese prima, il 15 marzo 1945, quando la guerra era ancora in corso e gli Alleati stazionavano davanti alla linea Gotica, Nicola Bombacci era ricomparso in pubblico uscendo da un tunnel di oblio durato vent'anni. L'avvenimento, per certi aspetti incredibile, si era verificato a Genova nella centralissima piazza De Ferrari, affollata come ai tempi d'oro del regime. Il palco imbandierato era circondato da oltre trentamila persone, studenti, passanti, curiosi, ma soprattutto migliaia di operai in tuta blu che erano stati fatti uscire appositamente dalle fabbriche. C'erano anche molti fascisti in uniforme, ma disarmati, e persino alcuni tedeschi. L'atmosfera era tesa, ma non cupa, e c'era nell'aria molta curiosità. Curiosità per il personaggio, che solo gli operai più anziani ricordavano essere stato un leader dei lavoratori nell'Italia prefascista, ma in particolare per le tante piccole novità che erano emerse durante i preparativi. Per esempio, i giornali locali, "Il Secolo XIX" e "Il Lavoro", nell'annunciare la manifestazione avevano riesumato un lessico d'altri tempi demonizzato dai fascisti, calcando specialmente sulla parola "comizio", termine bandito per il suo significato democratico e sostituito con il piùmilitaresco "adunata".Va subito detto che il comizio di Nicola Bombacci ebbe successo, se non altro, per questenovità. Non va neppure dimenticato il particolare momento storico che viveva l'Italia. Prostrato da cinque anni di guerra, il paese era diviso in due e occupato da eserciti stranieri. La parte centro-meridionale, il cosiddetto Regno del Sud, era amministrata da un governo senza poteri (i veri padroni erano gli

Alleati) che sotto la guida del maresciallo Badoglio progettava di riportare l'Italia allo statu quo ante, ossia a una monarchia liberale e conservatrice niente affatto diversa da quella dell'età prefascista.Nel Nord, interamente occupato dai tedeschi, era sorta una repubblica dai poteri e dai confini incerti che non figurava neppure sulle carte geografiche. Mussolini, che ne era diventato il capo sorretto dalle baionette tedesche, aveva voluto chiamarla Repubblica sociale italiana (e non Repubblica fascista italiana come avrebbe desiderato Hitler) perché, deluso dal "tradimento" del re e della borghesia che si era arricchita alle sue spalle, era ritornato, nella capitale artificiale di Salò, agli antichi ardori rivoluzionari che avevano animato la sua gioventù. Infatti il "manifesto di Verona", ossia la provvisoria carta costitutiva della RSI ispirata da Mussolini con la collaborazione di Bombacci, prometteva molte riforme di stampo socialista.Come è ovvio, si trattava di un programma velleitario difficilmente realizzabile, sia perché la repubblica era sconvolta dalla guerra civile, sia perché, oltre ai tedeschi, anche molti gerarchi fascisti non vedevano di buon occhio le resipiscenze socialiste di Benito Mussolini. E, ciò nonostante, proprio in quegli ultimi mesi, quando tutto ormai sembrava crollare, il governo della RSI aveva rilanciato il piano di socializzazione delle imprese. In

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtuna frenetica corsa contro il tempo, erano state indette nelle fabbriche libere elezioni (era la prima volta che ciò accadeva in Italia) per la formazione dei consigli di gestione. Molteaziende, tra cui la FIAT, la Montecatini, la Marcili, la Mondadori, erano state in qualche modo socializzate e i rappresentanti dei lavoratori erano stati chiamati a far parte della direzione delle imprese. Questa "rivoluzione socialista" aveva rimesso in gioco Nicola Bombacci, antico compagno di lotta di Mussolini, che aveva aderito alla RSI (ma non al Partito fascista repubblicano) illudendosi di poter finalmente realizzare gli ideali cui aveva dedicato la vita intera.

Per tutte queste ragioni, il pomeriggio del 15 marzo 1945 c'era molta curiosità fra la folla che gremiva piazza De Ferrari. Bombacci, infatti, aveva deciso di cominciare da Genova, in quanto tappa più significativa, la sua serie di "comizi" nelle principali città industriali del Nord. L'oratore, che non aveva perduto nei vent'anni di silenzio forzato la sua eloquenza irruenta che affascinava le masse, esordì con una parola proibita di grande effetto: "Compagni!". Poi aveva così proseguito: "Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l'amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre...".Bombacci parlò per oltre un'ora davanti a una piazza silenziosa e perplessa che andava lentamente animandosi. Rievocò il suo passato di socialista e di comunista ("Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, credevo che il bolscevismo fosse all'avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell'inganno...") e spiegò i motivi della sua adesione alla Repubblica sociale ("Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent'anni è stato ostacolato dalla borghesia chepoi lo ha tradito... Ma ora il Duce si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario...").Mentre le autorità presenti si guardavano di sottecchi un po' allarmate per quel linguaggiocui nessuno era più abituato, un operaio metallurgico chiese di salire sul palco. Si chiamava Carretta e voleva pubblicamente testimoniare della sua drammatica esperienza di comunista esule in Unione Sovietica. Probabilmente questo intervento fu ritenuto una trovata propagandistica, ma in verità era la sincera testimonianza di una realtà sovietica che negli anni avvenire sarà ostinatamente negata.Riawicinatosi ai microfoni, Nicola Bombacci, dopo al-

cune esortazioni d'obbligo all'unità nazionale e alla difesa della patria, sottolineò

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtl'eccezionale importanza della costituzione dei consigli di gestione nelle fabbriche ("conquiste che comunque vada non devono andare perdute") e della socializzazione in atto ("presto tutte le fabbriche saranno socializzate e sarà anche esaminato il problema della terra e della casa perché tutti i lavoratori devono avere la loro terra e la loro casa..."). Concluse poi con l'ardita affermazione che la RSI fosse "l'unico Stato esistente autenticamente socialista con la sola possibile eccezione della Russia sovietica...".Oggi è difficile immaginare con quale stato d'animo i genovesi abbiano ascoltato il disperato canto del cigno del vecchio tribuno. In tempi così pericolosi poteva essere imprudente persino svelare i propri sentimenti. Forse andò esattamente come scrisse al termine del suo resoconto il cronista del "Lavoro": "L'uditorio, che non aveva manifestato agli inizi un'attenzione eccessiva alle parole dell'oratore, lo ha poi seguito con vivo interesse. Alla fine del discorso non sono state poche le approvazioni".Quarantacinque giorni prima di essere appeso per i piedi al traliccio di piazzale Loreto, Nicola Bombacci visse a Genova il suo ultimo momento di gloria. La sera stessa scrisse aMussolini, esagerando, del suo "trionfo". Lo ringraziò per avergli consentito quel salutare"bagno di folla" e lo informò pateticamente di avere ritrovato "il giovanile entusiasmo deinostri vecchi tempi".

II"CHI NON LAVORA NON MANGIA""Me ne frego di Bombacci / e del sol dell'avvenir..." cantavano gli squadristi del '20 e del '21. E ancora: "Con la barba di Bombacci / faremo spazzolini: per lucidar le scarpe / di Benito Mussolini...".Durante la lunga e violenta vigilia della marcia su Roma pochi tra i più popolari leader dell'antifascismo, o forse nessuno, ebbero l'onore di essere chiamati per nome nelle canzonacce dei manganellatoli in camicia nera. Nicola Bombacci invece lo ebbe, e anche abbondantemente, perché era allora il nemico più temuto e più odiato dai fascisti. Era infatti il campione della sinistra: i suoi lo idolatravano con la stessa passione con cui, dall'altra parte, veniva idolatrato il suo diretto avversario, Benito Mussolini.Nella lotta politica il dualismo è un fenomeno abbastanza comune poiché nell'immaginario collettivo la personalità carismatica del leader fa certamente più presa dell'astratta ideologia che nel suo nome si semplifica e si riassume. La "coppia" Mussolini-Bombacci si distingue tuttavia dalle molte altre almeno per due particolarità. La prima è che i due uomini, che avevano militato fianco a fianco nelle file socialiste, non si odiarono mai. Diventati avversari, si scambiarono dai palchi dei rispettivi comizi contumelie incredibili per galvanizzare gli ascoltatori, ma sul piano umano non smisero mai di essere amici e di rispettarsi a vicenda. "Anche quando condusse la battaglia estrema contro il fascismo" ricorderà Mussolini nel 1934 conversando con Yvon de Begnac "Bombacci non cessò di

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essermi amico. Non si è diviso insieme il pane della scienza per poi diventare l'uno all'altro Caino..."La seconda particolarità è che, mentre per tante famose coppie di avversari la storia ha riservato una collocazione di rilievo sia al vincitore sia allo sconfitto, per Mussolini e Bombacci si è registrata una sconcertante anomalia. Nicola Bombacci, il "Lenin di Romagna", il "nemico numero uno della borghesia", il "Messia socialista", e tralasciamo le tante altre iperboliche definizioni di cui fu gratificato dalle masse, è stato infatti pressoché dimenticato. Contro di lui la storiografia nazionale antifascista ha adottato, più o meno consapevolmente, quella tecnica stalinista che consisteva nel cancellare dalla storia i personaggi imbarazzanti. È noto infatti, tanto per fare un esempio, che soltanto di recente milioni di russi sono venuti a sapere dell'esistenza di Lev Trotzkij: dopo essere stato fatto uccidere da Stalin, era stato eliminato persino dalle enciclopedie e dalle fotografie che lo ritraevano al fianco di Lenin. Nei riguardi di Bombacci non si è giunti a questi estremi: ci si è limitati a ignorarlo o a liquidarlo con qualche battuta ironica. "Sembrerebbe" ha scritto Enzo Schiuma "che di lui si parli solo per non parlarne."Dal 1945 in poi nessuno, per decenni, ha provato la curiosità di scoprire chi fosse il misterioso personaggio che Luigi Longo, dopo averlo fatto appendere per i piedi in piazzale Loreto, definì supertraditore. Eppure questo gravissimo insulto, che era stato risparmiato persino a Mussolini, qualche antenna avrebbe dovuto farla vibrare... Soltanto più tardi, durante le convulsioni rivoluzionarie postsessantottesche, il nome dell'uomo che si era illuso di poter sposare il comunismo con il fascismo è riemerso confusamente nei conciliaboli catacombali delle frange estremistiche, dì destra soprattutto, ma anche di sinistra. E Bombacci è stato scelto come punto di riferimento da chi cercava, e continua acercare, il mitico Eldorado della terza via. In anni più recenti sono stati dedicati al personaggio due saggi di alto livello che mi sono

stati molto utili nelle ricerche per questo libro: del primo è autore uno straniero, un docente belga che insegna all'Istituto universitario europeo di Firenze, il professor Serge Noiret, mentre il secondo è stato scritto da Guglielmo Salotti, un giovane storico italiano della scuola di Renzo De Felice.All'epoca in cui Nicola Bombacci conquistò le piazze d'Italia diventandone uno dei maggiori idoli, la civiltà delle immagini, come si è già detto, non era ancora nata, e un oratore che voleva impressionare la folla che lo ascoltava a distanza doveva ricorrere a

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtuna mimica e a una gestualità che la televisione ha reso obsolete. Oggi, per esempio, non possiamo non sorridere rivedendo zoomati sul piccolo schermo i primi piani di Mussoliniquando parlava alle folle "oceaniche". Condizionati come siamo dalle regole di compostezza che la televisione impone, i gesti teatrali del Duce, le sue smorfie, i suoi silenzi studiati, i suoi slogan a effetto, ora gridati, ora modulati in diversi toni, ci appaiono ridicoli. A quell'epoca, invece, tali accorgimenti erano indispensabili per galvanizzare un pubblico meno smaliziato e più disponibile al mito.Come Mussolini, Bombacci sapeva usare questi stratagemmi e, in più, aveva un look particolare che si rivelò molto importante per il suo successo tra le folle inquiete del primo dopoguerra. "Bombacci è un asceta" scrissero di lui. "Ne ha anche l'aspetto: barba e zazzera biondastre e incolte, un volto magro, gli zigomi sporgenti, i malinconici occhi turchini e una voce lenta e velata dalle nebbie iperboree..."La barba suggestiva "e tale da fare invidia agli apostoli di Dùrer" gli conferiva un'apparenza "leonina" e minacciosa che non rispecchiava affatto il suo mite carattere. Egli era infatti un sentimentale che solo sui palchi dei comizi riusciva a trasformarsi in uninfuocato rivoluzionario. Comunque sia, quella barba cespugliosa, derisa nelle canzonacce degli squadristi, era la sua caratteristica che

più colpiva gli osservatori, anche se non mancava di suscitare qualche ironico commento."Bombacci" annoterà Mussolini "deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d'occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella del Cristo." E in altri momenti più arroventati dalla polemica lo stesso Duce si lascerà scappare anche questa battutaccia: "Troppo pelo per un coglione solo".Bombacci non era un socialista dottrinario come allora andava di moda nell'ala massimalista del partito e, per distinguersi dai "dottor sottili" alla Gramsci o alla Bordiga,esagerava nell'ammettere la propria pochezza intellettuale. "Forse avrò letto qualche libretto in meno di loro" confessava "ma ho partecipato di più alla vita... Io vado ad ascoltare i professori, però tiro le conclusioni per conto mio." In queste espressioni volutamente naif, comprensibili anche dal più incolto degli ascoltatori, si celava il segretodella popolarità. Insomma, Bombacci usava un linguaggio elementare ed era abilissimo nel riassumere in una frase a effetto le attese e le speranze delle masse: "Chi non lavora non mangia", "Dobbiamo fare come in Russia", "Tutto il potere ai Soviet" erano alcuni dei suoi slogan che scatenavano entusiasmi e frenesie collettive. Egli era abile anche nellascelta dei simboli di più facile presa. Fu lui, per esempio, nel 1919, a imporre il simbolo sovietico sulle bandiere rosse dei socialisti italiani. D'altra parte, la falce e il martello (cuii riformisti vollero aggiungere un libro per guadagnare audience anche tra gli intellettuali...) chiarivano persino agli analfabeti l'importanza dell'unione di operai e contadini.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtQuesto irsuto personaggio dal cuore tenero e dal temperamento allegro, che la Chiesa e laborghesia degli anni Venti considerarono il nemico pubblico numero uno, nei primi anni della sua vita sembrava destinato a diventare prete. Nicola Bombacci era nato il 24 ottobre 1879 in una famiglia cattolicissima di Civitella di Romagna in provincia di Forlì (a pochi chilometri da Predappio dove quattro anni dopo sarebbe nato Benito Mussolini). Da più genera-

zioni la sua famiglia coltivava un podere della parrocchia. Il padre Antonio, che esercitava il mestiere di birocciaio, aveva servito nell'esercito pontificio e, dopo l'annessione della Romagna al Regno d'Italia, non aveva esitato a disertare - passando alcuni anni alla macchia - per non sottostare agli "usurpatori piemontesi". Nicola era il secondogenito di sei fratelli: Ruffillo, Virgilio, Angelica, Santa e Giuseppa. Due delle tre bambine morirono piccolissime; Santa visse prima in Svizzera e poi a Roma fino al 1954.Ruffillo scomparve poco più che ventenne, mentre Virgilio fu il più longevo e morì a Meldola, in provincia di Forlì, nel 1963.Nicola crebbe dunque in un ambiente profondamente religioso e rispettoso delle regole e dei ritmi della vita cristiana. Ogni sera la famiglia recitava il rosario, e tale consuetudine durò per numerosi anni. La madre, Paola Gau-denzi, era cugina di don Nicola Ghini, parroco di Civitella (e quindi proprietario del podere in cui i Bom-bacci lavoravano), il quale battezzò Nicola il giorno stesso della sua nascita. La presenza del parroco al momento del parto e la scelta del nome del nascituro testimoniano lo stretto legame affettivo che don Nicola aveva con i suoi mezzadri.Appena raggiunta l'età, il ragazzo frequentò la scuola parrocchiale, prima a Civitella e poia Meldola dove la famiglia si trasferì nel 1886. La decisione di andare ad abitare a Meldola fu dovuta al fatto che don Nicola Ghini, morendo, aveva lasciato in eredità alla cugina una casa in via Cavour. Inoltre, poiché erano mancati anche i nonni, la famiglia aveva abbandonato il lavoro della terra. Da quel momento, il padre Antonio si dedicò esclusivamente al mestiere di birocciaio, attività molto diffusa nella valle del Bidente. Se dunque i Bombacci cambiarono vita, non per questo cambiarono costumi: nel 1895, a sedici anni, Nicola entrò nel seminario di Forlì dove rimase cinque anni rivelandosi un allievo studioso dalla "condotta irreprensibile" e dove, oltre alla possibilità di formarsi una buona cultura

letteraria, ebbe modo di apprezzare i valori cristiani che erano del resto assai simili a quelli del socialismo evangelico che gli "apostoli laici" come Camillo Prampolini andavano allora predicando per le campagne. Se insistiamo su questi aspetti dell'adolescenza del futuro tribuno, è per sottolineare quanto l'insegnamento religioso

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtcontribuì a definire il suo pensiero politico. In seguito, durante gli anni ruggenti del socialismo rivoluzionario, Bombacci affermerà di essere stato avviato al seminario a causa dell'inclinazione del padre per la parrocchia, la religione, il papato. E sosterrà di avere gettato la tonaca alle ortiche dopo "avere lottato onestamente e civilmente per la sua idea contro genitori, parenti e superiori". Ma è probabile che mentisse, forse per difendersi dall'amico-nemico Mussolini che non perdeva occasione per canzonarlo definendolo "ex seminarista".Nicola Bombacci lasciò il seminario il 16 giugno 1900. Il padre era morto già da tre anni,e quindi è difficile interpretare questa decisione come una tardiva ribellione a un'imposizione paterna. Pare che non ci sia stata neppure la classica crisi che coglie i giovani seminaristi al momento di pronunciare i voti. Si trattò semplicemente di "motivi di salute", così affermano i documenti, così sosteneva il fratello Virgilio divenuto nel frattempo capofamiglia. Del resto risulta che Bombacci soffrisse in quegli anni di disturbipolmonari per i quali fu anche dichiarato inabile al servizio militare. Un'ulteriore prova che non ci fu una rottura con la Chiesa da parte del giovane la troviamo nel fatto che il "venerabile Rettore" del seminario gli rilasciò in più occasioni certificati di buona condotta. D'altra parte, Bombacci conserverà poi stretti legami di amicizia con molti suoi compagni di studi diventati in seguito sacerdoti.Anche la sua scelta successiva rivela che egli non aveva comunque rinunciato a dedicarsi all'apostolato o, come lui preferiva dire, al "sacerdozio laico". Nell'autunno del 1900, pur avendo già frequentato in seminario la terza liceo, si iscrisse infatti come libero allievo al collegio Giosuè

Carducci di Forlimpopoli per ottenere il diploma magistrale. Una decisione significativa per chi si proponeva di consacrare la propria vita all'emancipazione del popolo.Quella Regia scuola magistrale era stata fondata da poco ed era diretta da Vilfredo Carducci, fratello di Giosuè. Vilfredo era massone come il fratello e aveva accettato la direzione dell'istituto dopo avere ottenuto dal sindaco mazziniano l'abolizione dell'insegnamento religioso. Fra i trenta allievi interni di quella scuola dichiaratamente laica, stava allora concludendo i suoi studi da maestro il diciassettenne Benito Mussolini. I destini dei due futuri rivoluzionari cominciavano a incrociarsi.

III

NICOLINO, BENItO E LA RIVOLUZIONEAll'inizio del secolo la Romagna era la regione italiana in cui più facilmente si sarebbe potuta accendere la scintilla rivoluzionaria. Già sul finire dell'Ottocento le miserrime condizioni di vita della classe lavoratrice e le infervorate predicazioni anarchiche del

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtprincipe russo Michail Baku-nin, unite al temperamento sanguigno e passionale dei romagnoli, avevano dato luogo a una miscela esplosiva che aveva provocato i primi, confusi fuochi di ribellione.Defluita l'ondata anarchica, grazie soprattutto alla conversione al socialismo di Andrea Costa, il Partito socialista, fondato a Genova nel 1892 da Filippo Turati e da Camillo Prampolini, aveva subito attecchito nella regione acquistando adepti in modo particolare negli strati più umili del movimento contadino. All'epoca, infatti, i lavoratori delle campagne, che rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione, erano divisi, se vogliamo usare le categorie marxiste, in due sottoclassi: i mezzadri e i braccianti. I primi, oppressi da patti agrari iniqui (erano a loro completo carico la vangatura e la mietitura, e dovevano dividere a metà col padrone tutte le altre spese, nonché il raccolto), si ritrovavano costretti a rivalersi sui braccianti, che si trovavano di conseguenza in una condizione di disoccupazione endemica e conducevano una vita grama e senza prospettive.All'inizio del secolo i braccianti con le loro fratellanze erano passati in massa al Partito socialista, mentre i mezzadri erano rimasti fedeli ai repubblicani, egemoni nella

regione. Spesso dimentichi di avere un nemico comune contro cui battersi, i "gialli" repubblicani e i "rossi" socialisti si scontravano fra loro in una disperata guerra dei poveriche sfociava sovente in episodi sanguinosi. A poco era servita, per placare gli animi, la decisione dei due partiti di unire le fratellanze dei braccianti e quelle dei mezzadri in un'unica Camera del lavoro.È in questo clima arroventato dalle tensioni politiche che il giovane Bombacci raggiunse la maturità e, seguendo l'impulso del suo animo, si schierò subito dalla parte dei più deboli. Nel 1903, mentre era ancora studente al collegio Carducci, si iscrisse al Partito socialista. L'anno dopo si diplomò e nel 1905 sposò Erissena Focaccia, una maestrina disoccupata conosciuta a Forlì. Erissena aveva diciannove anni, lui ventisei. Le nozze vennero celebrate cristianamente all'abbazia di San Mercurio di Forlì da don Carlo Gaudenzi, coetaneo di Nicola e suo compagno di studi in seminario. L'anno successivo venne alla luce Raoul, che, d'accordo con la moglie, Bombacci decise di non battezzare.Il ripudio del battesimo per il figlio segnò, secondo quanto sostiene la pronipote Annamaria, l'inizio della nuova vita di Nicola Bombacci. Probabilmente non è vero, e la scelta maturò più lentamente. Egli infatti non volle mai dare al suo gesto un significato antireligioso e cercò anche di spiegare le ragioni per cui, socialista e cristiano, aveva voluto sposarsi in chiesa pur proponendosi di riservare ai figli un'educazione laica: "Dovranno essere loro, da adulti, a decidere della loro vita. Poi potranno anche scegliere il seminario o il romitaggio...".Il giovane maestro ottenne il primo incarico a Cadelbosco di sopra in provincia di Reggio

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtEmilia, chiamatovi dal sindaco socialista. A quell'epoca erano i sindaci a nominare gli insegnanti delle scuole comunali e naturalmente li sceglievano fra quelli della loro area politica. Questo spiega perché, durante il suo apprendistato didattico e socialista, Bombacci ebbe più volte occasione di insegnare nelle

stesse scuole dove aveva insegnato o insegnava il suo "collega" Mussolini. Così a Gualtieri e a Baricella in Emilia, così a Tolmezzo e a Villa Santina in Carnia, e in altre località.A Cadelbosco, Nicola ebbe modo di ascoltare e conoscere Camillo Prampolini, il quale gli affidò incarichi politici. Cominciò così la sua doppia attività di maestro e di organizzatore socialista. Scriveva su "La Giustizia", il giornale diretto da Prampolini, e partecipava attivamente alla vita politica di Cadelbosco, dove fondò anche un "asilo laico" che affidò alla gestione della moglie Erissena. Nel comune emiliano egli entrò per la prima volta in diretta polemica con le organizzazioni cattoliche e con il clero locale: questo accadde dopo uno scontro vivace con il parroco il quale, preoccupato per la sua propaganda socialista, lo osteggiò con tutte le armi disponibili, compresa la calunnia. Giunse persino a organizzare delle catene umane per impedire l'ingresso dei bambini nell'asilo laico di Erissena.Gli echi di questa lontana battaglia, che non deve avere avuto per nulla il carattere umoristico di quella combattuta da Peppone contro Don Camillo nelle stesse contrade, si ritrovano nelle pagine della "Giustizia". Accusato negli ambienti cattolici di comportamento disonesto e di insolvenza, Bombacci ribatte sdegnato con un articolo intitolato Odio ai preti, nel quale si scaglia contro "i luridi avversari" di Cadelbosco, i quali "non sapendo come ferire la mia povera persona, hanno tentato di farmi apparire disonesto perché ho dei debiti. Io risponderò che la loro bassa insinuazione non è che un insulto alla miseria. Tengo la fronte alta perché non ho mai negato un centesimo ai miei creditori: non solo, ma ho limitato il pane alla mia famiglia per compiere fino all'ultimo ilmio dovere di galantuomo...". I debiti, comunque, lo perseguiteranno per tutta la vita.La carriera di maestro di Nicola Bombacci fu interrotta bruscamente nel 1909 da un incidente clamoroso. Mentre insegnava a Monticelli, in provincia di Piacenza, fu pub-

blicamente redarguito dal consiglio scolastico perché "colpevole di propaganda anticlericale-socialista, antimilitarista" e invitato perentoriamente a compiere l'opera sua "con quel santo e patriottico apostolato che rende gli italiani forti, intemerati e laboriosi nella vita nazionale". Bombacci respinse l'accusa. Protestò, ricorse in appello e, infine, si rivolse all'opinione pubblica. La Camera del lavoro di Piacenza sposò la sua causa e seguirono una serie di manifestazioni di piazza che contribuirono a far aumentare la

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtpopolarità che egli aveva già conquistato negli ambienti socialisti.Dopo questo episodio, Nicola Bombacci, che forse non amava più il suo mestiere ingrato e mal pagato, decise di abbandonare l'insegnamento. A lasciare la scuola fu certamente incoraggiato dalla proposta che gli venne dal partito di assumere la carica di segretario della Camera del lavoro di Piacenza. Il posto era stato reso vacante da Pulvio Zocchi, un sindacalista rivoluzionario allora assai popolare, che ritroveremo molto più tardi fra i "socialisti" della Repubblica di Salò.Con la fine dell'anno scolastico si concludeva così la prima fase della vita di Bombacci. D'ora in poi si sarebbe interamente consacrato all'attività politica e sindacale. Dopo una fattiva esperienza a Piacenza e a Crema, nel 1910 l'ex maestro fu invitato dal partito ad assumere la segreteria della Camera del lavoro di Cesena e la direzione de "Il Cuneo", un settimanale socialista. Accettò con entusiasmo: finalmente poteva tornare nella sua terra.Nel 1910 anche l'ex maestro Benito Mussolini tornava a casa. Le sue vicende di quell'ultimo decennio erano state molto più burrascose di quelle del collega. Nel 1902 erafuggito in Svizzera per evitare il servizio di leva in obbedienza alle sue convinzioni antimilitariste. Nella Confederazione elvetica aveva fatto la fame dormendo letteralmente"sotto i ponti". Aveva lavorato come manovale, ma aveva trovato anche il modo di seguire a Losanna dei cor-

si di studi tenuti da Vilfredo Pareto. La politica, comunque, non l'aveva mai abbandonata e ben presto si era fatto un nome nei circoli dove si riunivano i molti esuli europei che vivevano in Svizzera. La testa rasa, la barba trascurata, gli occhi fiammeggianti, Mussolini si era subito rivelato un oratore irruento e violentemente dissacratore di tutti i valori borghesi. E il tempo della sua clamorosa sfida al Padre Eterno durante un dibattito sull'esistenza dell'Ente supremo ("Dio, se veramente esisti, ti concedo due minuti per fulminarmi!").Malgrado l'aspetto selvatico, o forse proprio per questo, Mussolini aveva successo con le donne. Erano presenti allora in Svizzera molte rivoluzionarie russe - quasi tutte di estrazione aristocratica - che, vuoi per il classico fascino slavo, vuoi per la liberalità di costumi, esercitavano un'attrazione particolare sugli esuli italiani provenienti da un mondo dalle idee ristrette e timorate. Fra queste emergevano Anna Kuliscioff, compagna prima di Andrea Costa e poi di Filippo Turati, e Angelica Balabanoff, che era stata amante di Lenin e che si innamorò di Mussolini. Fu proprio grazie ad Angelica che il giovane Benito potè inserirsi nei circoli socialisti internazionali e incontrare fra gli altri l'allora misconosciuto Lenin. Del quale, più tardi, ricorderà: "Era un uomo sentimentale. Come me, amava molto la musica...". In Svizzera Mussolini aveva anche imparato a suonare il violino, che portava sempre con sé per usarlo nei momenti di relax.Ma Mussolini non era tagliato per la vita del fuoriuscito. La Romagna gli mancava, e

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtinfatti, alla prima occasione (un'amnistia per i disertori), tornò in patria, svolse regolarmente il servizio militare nel corpo dei bersaglieri e riprese la sua affannosa ricerca di un "posto fisso" come maestro elementare. Non ebbe molta fortuna. Al pari di Bombacci, dovunque capitava provocava incidenti e tafferugli per le sue prese di posizione estremiste. Ma, come Bombacci, nel 1910 visse anche lui un anno decisivo.Qualche tempo prima, abbandonato il mestiere di mae-

stro, il "professor" Mussolini (pretendeva di essere chiamato così dopo che aveva seguito un corso presso l'università di Bologna per l'insegnamento del francese e del tedesco) aveva accettato l'invito di Cesare Battisti a trasferirsi a Trento. Persino nella sonnolenta provincia asburgica di cui Battisti era il massimo esponente socialista, non mancò di provocare clamore e sensazione. Ecco come riassume egli stesso il suo movimentato soggiorno nel Trentino:Diedi la mia collaborazione al "Popolo", il quotidiano socialista diretto da Cesare Battisti.Le violente polemiche che ebbi a sostenere con i clericali diedero luogo a molti incidenti e piccoli processi terminati con lievissime condanne, che ho espiato. La mia azione tra le masse operaie, che guidai in alcune agitazioni fortunate (falegnami e terrazzieri) e in altresfortunate (ricamatrici), la mia propaganda orale e la mia opera di giornalista avevano risvegliato l'ambiente. A mezza estate esordii come redattore capo del "Popolo". Questo fatto eccitò i clericali e i nazionalisti. Cominciarono le trame segrete per ottenere il mio sfratto. Io continuavo a battagliare violentemente, mi sottoponevo a un lavoro sfibrante qual è quello di dirigere una Camera del lavoro e compilare da solo un quotidiano sia pure di formato modesto, e un settimanale. Vegliavo tutte le notti. Ebbi anche diverse relazioni col sesso gentile. Ma non faccio nomi...Mussolini non esagera in questa rievocazione. In quei mesi di permanenza a Trento trovò anche il modo di collaborare con varie riviste italiane, in particolare con "La Voce" di Giuseppe Prezzoline Ma il miglior colpo che mise a segno fu l'idea di scrivere e di pubblicare a puntate sul "Popolo" un romanzo pornografico e fortemente anticlericale chefece salire alle stelle la tiratura del quotidiano. Si tratta di Claudia Particella. L'amante delcardinale, ispiratogli da una vicenda veramente accaduta nel Trentino del XVII secolo.La frenetica attività di Mussolini scrittore e agitatore politico fu bruscamente interrotta nell'ottobre del 1909. Le autorità austriache, influenzate dagli ambienti religiosi e dallo stesso De Gasperi che era allora il capo del movi-

mento cattolico nel Trentino asburgico, decretarono infatti la sua espulsione dall'impero come "ospite indesiderabile". Tornato a casa, egli non troncò la sua collaborazione al "Popolo": lasciare a metà il romanzo che appassionava migliaia di lettori sarebbe stato un

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdisastro economico per il giornale di Cesare Battisti. Il quale, per indurre l'autore a continuare, gli aumentò il compenso da 15 a 25 lire la puntata.Dopo l'espulsione, Mussolini era tornato ad abitare col padre Alessandro. L'ex fabbro, rimasto vedovo, aveva aperto un'osteria in via Giove Tonante, a Forlì, e viveva insieme a una sua vecchia amante che aveva una figlia diciannovenne di nome Rachele. La madre faceva la cuoca, Rachele la cameriera. Anche Benito si era adattato a servire ai clienti piadine e lambrusco. I due giovani si innamorarono fra i tavoli di quell'osteria e iniziarono così la loro convivenza.Un quadro singolare, ma veritiero delle condizioni precarie in cui Mussolini si era venutoa trovare dopo il suo ritorno a casa, lo si può desumere da questo curioso scambio di lettere fra lui e l'amico Cesare Battisti. Scriveva Mussolini il 10 febbraio 1910:Caro direttore, come avrai visto dal ritaglio di giornale che ti ho mandato, mio padre trovasi colpito da paralisi all'ospedale. Per installarcelo abbiamo dovuto vuotare la casa. Bisogna anticipare l'importo di un mese di degenza: 3 lire al giorno. La mia crisi finanziaria è acutizzata dal mio faux ménage iniziato a gennaio.. Puoi pensare che io non ho scritto Claudia Particella per i begli occhi delle Claudie trentine attuali, né del resto per speculare sul "Popolo". Verbis brevis, io ti chiedo 200 lire. Non spaventarti, amico mio. Leva da quella somma le 65 lire che ti devo e le 20 che mi consegnasti a Verona. Rimangono 115. Converrai che romanziere non deprezzò mai a tal punto la sua prosa narrativa. Senti: per il 16 corrente ho uno di quegli impegni che torcono il collo. Mandami almeno 65 lire. Le altre me le darai quando vorrai. Più che una ricompensa, mi farai un piacere e te ne sarò grato. Ad ogni modo scrivimi subito qualcosa. Spero che nonfarai il sordo, ma ricordati che troncherò il romanzo. Absit iniuria verbis e ciao.

La risposta di Battisti giunse pochi giorni dopo:Carissimo, spero che i denari spediti non appena potei ti saranno giunti in tempo. L'appendice è ora esaurita e vi è urgenza che tu mi mandi alcune puntate. Stabiliscimi poiper il tempo quando desideri il residuo importo. Saluti cordialissimi. Tuo Cesare Battisti. RS.: L'appendice è letta con molta avidità. I compensi finanziari sono scarsi, ma rischi di avere un monumento in piazza del Duomo. Ti par poco?A Mussolini non parve poco il compenso. Per qualche tempo cominciò addirittura a credere che la sua vera vocazione fosse quella dello scrittore. Scrisse infatti un altro romanzo d'appendice ispirato dalla tragedia di Mayer-ling, destinato però a restare inedito. La sua vera vocazione era la politica e questa non lo aveva dimenticato...In contemporanea con la chiamata di Bombacci a Cesena, il partito nominò Mussolini

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtsegretario della federazione di Forlì e direttore del periodico "La lotta di classe". Forlì e Cesena erano allora le roccaforti del socialismo romagnolo in una regione egemonizzata dai repubblicani. Le due città erano anche in concorrenza fra loro per il primato politico, ma Benito e "Nicolino", come veniva chiamato Bombacci per via della sua corporatura minuta, non polemizzarono mai. Svolsero insieme un notevole lavoro di propaganda e di riorganizzazione del partito; scrissero l'uno sul giornale dell'altro e si invitarono reciprocamente per delle conferenze nelle rispettive città. Sebbene "La lotta di classe", grazie all'impulso mussoliniano, fosse diventato ben presto il foglio più diffuso della Romagna conquistando un posto di rilievo nella stampa nazionale (in seguito assorbirà anche "Il Cuneo" di Cesena), Bombacci non mostrò mai invidia nei confronti del più giovane "rivale", ma piuttosto una sincera ammirazione.D'altra parte, Mussolini, sia per la sua attività giornalistica sia per il suo movimentato curriculum di agitatore internazionale, non poteva non impressionare favorevolmente l'exseminarista. Diversi in tutto: uno sacrilego,

l'altro evangelico, uno donnaiolo infaticabile, l'altro monogamo puritano, uno violento, l'altro mite, Mussolini e Bombacci si attraevano a vicenda come due cariche opposte. L'influenza di Mussolini contribuì al cambiamento già in corso nel pensiero di Bombacci e a sospingerlo verso la radicalizzazione politica. Accomunati nel ripudio del parlamentarismo, del riformismo, della democrazia borghese e della collaborazione fra le classi, i tribuni di Forlì e di Cesena sognavano un partito di duri e puri fortemente elitarioe ostile a quei pateracchi necessari, allora come oggi, solo a chi mira a comporre una qualsiasi maggioranza parlamentare.Di questa risoluta intransigenza non facevano mistero: "La storia" scriveva Mussolini sulla "Lotta di classe" "non è che un succedersi di sopraffazioni di minoranze sulla maggioranza". "Bisogna impedire" ribadiva Bombacci sul "Cuneo" "le alleanze con ogni fazione della borghesia... È necessario camminare da soli se non si vuole perdere di mira l'obiettivo principale, il socialismo." "E giunto il tempo" concludevano entrambi "di dire chiaro e forte che il socialismo non è democrazia."Quando nel 1911, alla vigilia della guerra di Libia, il socialista Bissolati ruppe il fronte delle opposizioni e partecipò alle consultazioni per la formazione del nuovo governo Giolitti, fu da Forlì e da Cesena che si levarono le più alte grida. Mussolini si ribellò al punto di dichiarare autonoma la sua federazione, Bombacci, più cauto e più rispettoso della gerarchia di quanto non lo fosse il suo impetuoso amico, si limitò a far votare degli ordini del giorno che chiedevano l'espulsione dal partito del "traditore".Oltre che sul piano politico, l'amicizia fra Nicolino e Benito si rafforzò sempre più anche a livello personale esprimendosi soprattutto in occasione di circostanze dolorose. Quandomorì Alessandro Mussolini, Bombacci scrisse all'amico:

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So per dolorose esperienze che certe profonde ferite non si rimarginano neppure con l'affetto dei veri amici, tuttavia è un bisogno del cuore a cui nessuno di noi sa sottrarsi, quello di unire il proprio cordoglio a quello dell'amico nell'ora della disgrazia. Gradisci quindi le più sentite condoglianze mie e quelle dei compagni di Cesena che ti vogliono bene.Nell'estate del 1911 Angelica Balabanoff venne in visita in Romagna per una serie di conferenze e anche per rivedere il suo "Benitochka", come lei chiamava l'uomo che avevaamato durante l'esilio in Svizzera. A quell'epoca, la Balabanoff e la Kuliscioff erano le first lady del socialismo italiano; di conseguenza i comizi di Angelica nei vari centri dellaRomagna suscitarono grande interesse e curiosità. Un pomeriggio di domenica, a Villafranca, la Balabanoff, Mussolini e Bombacci parlarono in piazza in occasione dell'inaugurazione della Casa del popolo. Dopo il comizio i "rossi" e i "gialli" vennero alle mani e un repubblicano rimase ferito. Alla sera, per rappresaglia, un certo numero di repubblicani armati assaltò alcune carrozzelle con a bordo i reduci della manifestazione. In una di queste si trovava Mussolini. Intervennero i carabinieri e ci fu uno scontro a fuoco. Mussolini ne uscì indenne; tuttavia l'affronto contro il loro "Duce", come già cominciavano a chiamarlo, infiammò gli animi dei socialisti romagnoli. Bombacci scrissesul "Cuneo" un articolo violentissimo contro gli attentatori che avevano osato colpire "un'anima cosciente e coerente di socialista, mente coltissima e forte tempra di combattente...".Alla fine di quell'anno, quando Mussolini, insieme al repubblicano Pietro Nenni, fu imprigionato nel carcere di Forlì a seguito degli incidenti da loro provocati per protestare contro la spedizione militare in Libia, fu ancora Bombacci, a organizzare collette a favoredelle famiglie dei prigionieri e la campagna di stampa per ottenere la liberazione di Mussolini.

IVIL KAISER DI MODENACaro Bombacci, ho saputo che sei andato a costituirti per scontare quattro mesi di carcere. Hai fatto benissimo. Ciò ti darà pure il tempo per dedicarti allo studio. Coraggio e avanti! Io pure sento la nostalgia del carcere e quasi quasi ti invidio... Se hai bisogno di qualcosa scrivimi pure. Saluti. Affettuosamente, Mussolini.P.S.: Caro Nicolino, molto bene quello che mi dici, non bisogna chiedere grazie e nemmeno accettarle. Quanto ai libri, io credo che tu possa farti mandare la nuova edizione delle opere di Marx, Engels, Lassalle (pagamento a rate) e ne avrai più che abbastanza per quattro mesi. Ciao.Era il 25 maggio del 1914, e questa è probabilmente l'ultima delle tante lettere che

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtMussolini e Bombacci si scambiarono prima che l'intervento dell'Italia nella Grande guerra dividesse i loro destini. Entrambi avevano compiuto un importante passo avanti nella loro carriera politica. Nel 1912, dopo il trionfo dei massimalisti al congresso socialista di Reggio Emilia, Mussolini, "uomo nuovo" del socialismo italiano, era stato nominato direttore dell'"Avanti!" ed era andato ad abitare a Milano con Rachele e la figliaEdda. Inutile aggiungere che, dopo avere imposto al partito una svolta radicale, aveva rilanciato con i suoi infuocati articoli il quotidiano socialista tanto da fargli raggiungere una diffusione eccezionale: da trentaquattromila a centomila copie in pochi mesi.Anche Bombacci aveva lasciato Cesena. Il partito lo aveva nominato fiduciario unico della federazione di Modena, nonché segretario della Camera del lavoro e direttore del periodico "Il Domani". Nella città emiliana egli si

era trasferito col figlioletto Raoul e la moglie Erissena, la quale, dopo la morte precoce diuna figlia dal nome altisonante di Fathima Idea Libertà, aveva dato alla luce un'altra bimba cui era stato imposto un nome meno impegnativo, Gea.A Modena, Bombacci mise mano rapidamente a tutte le leve del potere nel partito e nel sindacato. Diventò anche membro del consiglio nazionale della CGIL e capo della cosiddetta opposizione mussoliniana che mirava a ridurre l'autonomia del sindacato per trasformarlo in "cinghia di trasmissione" del partito. Grazie alla sua posizione di potere (il "Kaiser di Modena", lo definiva scherzosamente Mussolini), Bombacci si rivelava insomma il principale sostenitore della politica mussoliniana che si proponeva di trasformare il partito in uno strumento capace di controllare sia la CGIL sia il gruppo parlamentare socialista (ancora "inquinato" dalla presenza dei riformisti), in vista della rivoluzione che pareva molto vicina...Ma per significare quanto era stretto il rapporto fra i due uomini basterà ricordare ciò chescrisse Bombacci sul "Domani" quando Mussolini assunse la direzione dell'"Avanti!":La direzione del partito ha nominato all'unanimità il Prof. Benito Mussolini, una coscienza diritta, un'anima adamantina, un intransigente di concezione, una mente quadradi socialista e di pensatore. Pubblicista brillante, valoroso, caustico, Benito Mussolini terrà alta la bandiera del socialismo marxistico fra tanta demoralizzazione di principi e di metodi. A lui rivolgiamo il nostro fraterno, entusiastico saluto-Fu la prima guerra mondiale, scatenata dagli imperi centrali nell'agosto del 1914 a dividere i destini dei due uomini che fino ad allora avevano operato in perfetta sintonia. Durante quell'estate, comea volte accade, la storia si era messa a correre molto in fretta e, di conseguenza, quando alla fine di ottobre uscì dal carcere, Bombacci venne a trovarsi di fronte a una situazione del tutto nuova. Il continente ormai era in fiamme e la guerra, con i suoi im-

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtmancabili rigurgiti nazionalisti, aveva mandato in frantumi la Seconda Internazionale. Dimentichi delle loro utopie su un'Europa senza frontiere unita nella pace e nel lavoro, i partiti socialisti dei paesi belligeranti avevano preso posizione all'ombra delle rispettive bandiere nazionali. Per gli altri si trattava di scegliere da che parte stare.Già nell'estate il Partito socialista italiano si era dichiarato per la neutralità assoluta, una linea politica che lo stesso Mussolini aveva contribuito a definire. Pacifista per temperamento e per convinzioni, Bombacci non esitò ad adeguarvisi. Di conseguenza, egli fu non poco sconcertato quando Mussolini, dalle pagine dell'"Avanti!", andò lentamente allineandosi sulle posizioni interventiste. D'altra parte, la tesi sostenuta dal suo amico e maitre à penser, secondo la quale una guerra vittoriosa avrebbe affrettato la rivoluzione, lo lasciava piuttosto perplesso. Egli era semmai del parere - come osserverà nei suoi scritti - che solo una guerra perduta avrebbe potuto partorire la rivoluzione proletaria. Non certamente una vittoria.Il "caso" Mussolini scoppiò clamorosamente nei primi mesi del 1915, alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia. Il voltafaccia del direttore dell'"Avanti!", che ora si dichiarava apertamente interventista^ dilaniò il partito. Furono pronunciate parole grosse e furono mosse contro di lui accuse pesanti di corruzione e altro. Molti intellettuali socialisti sostennero la sua posizione politica, ma la base, influenzata dai massimalisti, glisi schierò contro reclamando la sua espulsione. E, tuttavia, la separazione fu lacerante e traumatica: l'"uomo nuovo", il "duce" dei lavoratori, il giornalista che in pochi mesi aveva moltiplicato i lettori del quotidiano del partito non poteva tramutarsi di colpo in un traditore rinnegato. Alla fine, comunque, dopo un dibattito infuocato fu decretata la sua espulsione. "Voi mi odiate perché mi amate ancora!" gridò Mussolini agli ex compagni milanesi uscendo per l'ultima volta dalla sezione del partito.Come si comportò Nicola Bombacci di fronte al "tradì-

mento" del suo amico? Purtroppo, sui rapporti intercorsi fra loro in tale frangente non ci sono giunte notizie. Neppure Serge Noiret, che è il più attento studioso del personaggio in quel periodo storico, è riuscito a trovarne. Probabilmente, Bombacci non difese Mussolini, ma neppure inveì contro di lui: si limitò a osservare un lungo, imbarazzato silenzio. Infatti, sul "Domani", il periodico da lui diretto, le accuse, peraltro violente, contro l'interventismo guerrafondaio sono sempre generiche, mai personalizzate. Il nome di Mussolini, insomma, non vi compare mai, anche se questi, attraverso "Il Popolo d'Italia", il nuovo giornale da lui fondato (e definito orgogliosamente "quotidiano socialista", come si leggeva sotto la testata) non mancava di offrire occasioni di polemica.Quel nome "dimenticato" ricomparirà sul "Domani" soltanto nel 1917 per riferire che "il caporale dei bersaglieri" Benito Mussolini era stato ferito dalle schegge di una bomba a mano. Seguivano gli auguri personali e sinceri, "al di sopra delle fazioni", da parte del

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdirettore a un "compagno che ha optato per l'interventismo "attivo" e ha pagato in prima persona andando al fronte a difendere le sue idee".Nei mesi convulsi che seguirono l'intervento italiano nel conflitto mondiale, il Kaiser di Modena diventò per forza di cose il contraltare di Mussolini e l'anima neutralista del socialismo italiano. Il carisma che esercitava sulle masse e la sua violenza verbale contro la guerra, il governo e la corona, gli procurarono arresti e condanne, ma anche una popolarità in tutto il paese che nessun leader socialista aveva mai raggiunto prima di lui.Di aspetto piacevole, vagamente ieratico, con la bella barba bionda e la chioma fluente, lavoce gradevole e tonante, Nicola Bombacci affascinava le masse e soprattutto le donne, che lo idolatravano. In quegli anni di guerra visse momenti magici e assaporò bagni di folla entusiasmanti che contribuirono a rafforzare le sue velleità rivoluzionarie e a fargli credere di essere veramente alla vigilia della palingenesi sociale. Si diceva che fosse molto amato

dalle donne: è infatti in questo periodo che la biografia del barbuto rivoluzionario registral'unica parentesi sentimentale in un'esistenza integerrima dedicata interamente alla famiglia e all'azione politica.La ragazza si chiamava Anna Ligabue ed era una modenese di diciassette anni, operaia presso la Manifattura tabacchi. Della sua storia d'amore col trentottenne tribuno si sa assai poco, e quel poco emerge dai rapporti di polizia. Attivista politica e impegnata nel sindacato, Anna era stata arrestata in seguito a una delle tante dimostrazioni contro la guerra. Processata e condannata a otto mesi di carcere, risulta dai verbali che la giovane venne trasferita nelle prigioni di Firenze per essere "allontanata dal suo amante Nicola Bombacci". Risulta ancora che, durante una perquisizione nella sua casa, erano state "trovate le lettere d'amore che lui le scriveva", e che la loro relazione era "notoria". Niente di più. Durante la sua detenzione, Anna diventò l'eroina dei pacifisti. "Il Domani" ricordava tutti i giorni il suo sacrificio e pubblicava le lettere che lei inviava dal carcere. Il 29 luglio 1917, quando Anna venne liberata, Bombacci organizzò a Firenze una grandemanifestazione popolare in suo onore alla quale presero parte tutti i membri della direzione del partito e tutti i deputati socialisti al Parlamento.Malata di tisi, Anna però non sopravvisse a lungo. Morì infatti nel 1918, e Bombacci la pianse scrivendo sul "Domani" un articolo toccante dedicato alla memoria della giovane compagna che si era spenta "nel fiore della gioventù, della bellezza e dell'intelligenza".

V IL LENIN DI ROMAGNA"Bisogna fare come in Russia!" Il 1917 non era ancora finito e la parola d'ordine lanciata da Bombacci già risuonava dalle officine alle campagne, dalle grandi città ai più sperduti villaggi. Ancora oggi sembra incredibile la rapidità con cui gli echi degli avvenimenti

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtrussi si diffusero nel paese. Malgrado gli scarsi mezzi d'informazione e il rigore della censura di guerra (ma forse fu proprio la censura ad alimentare la fantasia), in Italia non si parlava d'altro. I borghesi tremavano, mentre le masse operaie e contadine intravedevano radiosi orizzonti. In un paese lontano si stava realizzando il sogno cui tutti i derelitti anelavano da sempre: un messia chiamato Lenin (tutti allora lo pronunciavano alla francese, con l'accento sulla "i") aveva compiuto il miracolo tanto atteso di unire in un unico blocco gli operai, i contadini e i soldati.In mancanza di informazioni precise, si lavorava di fantasia: tutto ciò che si favoleggiava sulla Russia bolscevica veniva accettato acriticamente come oro colato (un fenomeno chedurerà molto a lungo, anche quando la censura sarà abolita...), mentre quello che sembrava contrario a essa era bollato come provocazione antipopolare. "Bolscevismo" diventò una parola magica e la terminologia russa entrò prepotentemente nel politichese nostrano. "Bolscevichi" si dichiaravano orgogliosamente i massimalisti che dominavano il Partito socialista. "Menscevichi" erano definiti i riformisti che osavano avanzare dei dubbi sulla validità di certi metodi adottati dai rivoluzionari russi. In

breve, il culto per Lenin superò ogni limite e Nicola Bom-bacci ne diventò il supremo sacerdote.Quell'anno il Kaiser di Modena aveva compiuto un eccezionale passo avanti nella carriera politica. In primavera era stato chiamato a Roma per ricoprire la carica di co-segretario del partito al fianco di Costantino Lazzari, e alla fine dell'anno, dopo l'arresto di Lazzari per attività sovversiva, ne era diventato di fatto (ufficialmente lo sarà soltanto dal 1919) il segretario generale unico. Conserverà l'incarico fino al 1920 e sarà ilprincipale protagonista della "stagione rivoluzionaria" italiana anche se, per ragioni di cuidiremo, il suo nome è stato praticamente cancellato dalla storia del movimento operaio.Nonostante l'oscurità che ancora avviluppava gli avvenimenti russi, il segretario del PSI non aveva esitato un istante a schierarsi anima e corpo per la Rivoluzione d'Ottobre e a scegliere "Vladimiro Hlic Lenin" come modello. Si è già detto che Bombacci mancava di spirito critico: mistico e passionale, facile agli entusiasmi, era animato dalla fede più che dalla dottrina (Mussolini diceva di lui che si era formato sul Cuore di De Amicis piuttostoche sul Capitale di Marx). Già allora rivelava quelle carenze che in seguito gli impediranno di dominare gli avvenimenti che egli stesso riusciva a mettere in moto. Fu infatti più l'entusiasmo che la sua rudimentale analisi della situazione italiana a convincerlo di essersi venuto a trovare nelle medesime condizioni in cui si era trovato Lenin alla vigilia dell'assalto al palazzo d'Inverno. Tuttavia, a ben vedere non si sbagliavadi molto: sia pure a grandi linee in quel momento si poteva effettivamente intravedere una certa analogia fra la situazione russa e quella italiana. Infatti come la Russia, in quell'ultimo scorcio del 1917, l'Italia pareva sull'orlo dell'abisso: dopo la disfatta di

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtCaporetto l'esercito era in sfacelo, dilagavano le diserzioni e interi reparti si ammutinavano senza che le spietate decimazioni sommarie e i plotoni d'esecuzione riuscissero a ristabilire la disciplina. Nel contempo, il governo traballava sot-

to l'urto dell'opposizione, mentre la campagna disfattista dilaniava il paese fra scioperi politici e dimostrazioni di piazza che reclamavano la pace a ogni costo.A infiammare l'animo di Bombacci in quei drammatici giorni deve avere contribuito, oltre all'analogia più o meno forzata con la crisi russa, anche la sua constatazione (o presunzione) di essere in perfetta sintonia con il grande rivoluzionario. Non era forse vero che, già nel 1914, egli aveva "anticipato" Lenin profetizzando, in polemica con Mussolini, che non la vittoria ma la guerra perduta avrebbe favorito la rivoluzione? Convinto a seguire l'esempio sovietico, nel luglio del 1917, Bombacci aveva convocato a Firenze una riunione segreta di pochi massimalisti (fra i quali Amadeo Bordiga, Egidio Gennari e Antonio Gramsci) nel corso della quale era stata auspicata la soluzione rivoluzionaria della guerra come Lenin insegnava e come poi avrebbe messo in pratica il successivo 7 novembre a Pietroburgo. Vale la pena aggiungere che la riunione di Firenze segna la nascita della "frazione" che darà vita più tardi al Partito comunista.Ma in Italia era veramente giunto il momento di "fare come in Russia"? Gli storici sono ancora divisi sull'esistenza o meno di una condizione prerivoluzionaria. D'altra parte la situazione era molto complessa e un'analisi risulta difficile se non impossibile. In quegli anni molti fattori entrarono in gioco annullandosi l'un l'altro. Tanto per cominciare, a differenza della Russia l'Italia vinse la guerra e la vittoria rafforzò la corona e ridiede slancio al nazionalismo patriottico. Nel contempo, il Partito socialista, che non era la "punta di diamante" teorizzata da Lenin, ma un groviglio di correnti in perpetuo conflitto fra loro, non seppe approfittare del momento: riuscirà soltanto ad allarmare la borghesia con il suo estremismo parolaio e ad allontanare quelle masse scontente di combattenti checon una politica più intelligente avrebbe invece potuto arruolare nelle sue file. E, per finire, Bombacci non era Lenin...

Ma tutto questo era ancora di là da venire quando il segretario del PSI, felice di essere giàindicato dalle masse come il "Lenin di Romagna", si mise all'opera per bolscevizzare il partito. A imitazione di Lenin - ma non dimentichiamo che questo progetto lo aveva già condiviso con Mussolini - egli si proponeva di trasformare il PSI in uno strumento rivoluzionario, fortemente gerarchizzato e centralizzato, capace di dominare l'intera sinistra senza lasciare spazio all'opposizione "menscevica", ossia alla corrente riformista di Filippo Turati. Per far questo, in nome dell'internazionalismo proletario in cui credeva in buona fede, Bombacci acconsentì che alcuni "consiglieri" < bolscevichi inviati da

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtLenin si inserissero clandestinamente negli organi dirigenti del partito. Usando falsi nomiitaliani o nascondendosi sotto misteriosi pseudonimi, costoro seguiranno le vicende del socialismo italiano fin sotto il fascismo partecipando alle riunioni più delicate e scrivendosull'"Avanti!", per indicare ai compagni italiani la "linea" da seguire.Incoraggiato da Bordiga, Gennari e Gramsci (il quale andava affermando in quei giorni che il PSI doveva assolutamente "defecare" Turati dalle proprie file), Bombacci smantellò a una a una le posizioni di potere che i riformisti mantenevano ancora. Tuttavia, egli non riuscì ugualmente a impadronirsi del partito: troppe erano le anime del socialismo italiano, e anche fra i massimalisti non tutti erano disposti ad appiattirsi sulla linea leninista. Fu in quei giorni convulsi dell'immediato dopoguerra, quando i primi fuochi della "rivoluzione mondiale" promessa da Lenin stavano accendendosi qua e là per l'Europa (in Austria, in Germania, in Ungheria), che Bombacci cominciò a intravedere la necessità di fondare un nuovo partito più agile del pachidermico PSI, più rivoluzionario e più sensibile alle direttive della centrale moscovita. D'altra parte, la sua fiducia nell'operato del governo bolscevico era totale. Non ammetteva critiche e respingeva con sdegno anche le riserve che venivano avanzate circa gli eccessi rivo-

luzionari che si registravano in Russia. "Se il socialismo si consoliderà" scriveva sull'"Avanti!" "vedremo poi se vi furono atti riprovevoli. Ora bisogna aiutare Lenin con tutte le nostre forze. I socialisti che non difendono i Commissari del Popolo sono dei traditori..." Continuando a scambiare il bolscevismo con l'internazionalismo operaio, Bombacci si stava trasformando nel più fedele, docile e cieco sostenitore della politica sovietica.Anche se la storiografia oggi lo ignora, durante tutto il "biennio rosso" (1919-1920) Nicola Bombacci fu il capo carismatico, la guida, il messia delle plebi italiane. Meglio di ogni altro egli ascoltava il polso delle masse e si muoveva in sincronia con esse. Maree difolla seguivano trepidanti i suoi discorsi infuocati che, pur essendo sovente sconnessi e privi di profondità ideologica, non mancavano mai di colpire al cuore l'uditorio. Il suo successo, che ingelosiva Mussolini ma, soprattutto, Giacinto Menotti Serrati, l'altro leader massimalista che gli contendeva il primato, raggiunse livelli mai registrati. Sui palchi dei comizi Bombacci era ineguagliabile: la barba al vento, la voce tonante, gli slogan a effetto, tutto contribuiva a renderlo popolare. Egli sapeva evitare gli argomenti ostici e combinava con abilità frasi semplici e dirette, di rapida comprensione, che scatenavano applausi. Non si nascondeva mai dietro ambigue perifrasi, parlava sempre chiaro e la sua foga oratoria lo spingeva spesso a sconfinare nell'illegalità, come quando, durante la campagna elettorale del 1919, invitò il pubblico di Ravenna a "tagliarmi la testa se, perdio, entro un mese non costringerò il re a fare le valigie!". Da tempo aveva preso l'abitudine di concludere i suoi discorsi gridando "tutto il potere ai Soviet" e

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtripetendo lo slogan che Lenin aveva ripreso dalle parole di san Paolo: "Chi non lavora non mangia".Il 16 novembre del 1919, Nicola Bombacci venne eletto per la prima volta deputato nella circoscrizione di Bologna. Sotto la sua guida, il partito ottenne un risultato cla-

moroso, circa il 35 per cento dei suffragi, un vero record. Il suo successo personale fu ancora più grande: raccolse infatti oltre centomila voti. "Il re dei preferiti" scrisse "Il Resto del Carlino" "è Nicola Bombacci, egli supera circa del doppio tutti gli altri compagni di lista."All'apertura della Camera, il leader vittorioso si presentò a Montecitorio alla testa del suopiccolo esercito di deputati. Avevano tutti un garofano rosso all'occhiello. Erano centocinquantasei (di cui sessanta riformisti) e formavano il più grosso gruppo parlamentare mai entrato alla Camera. I colpi di scena non si fecero attendere: quel giorno stesso, quando, seguendo la tradizione, il sovrano rivolse il saluto ai nuovi deputati, Bombacci diede fuoco alle polveri. Appena Vittorio Emanuele IH prese posto sul suo scranno, lui e i suoi centocinquantacinque compagni balzarono in piedi gridando all'unisono "Viva il socialismo", quindi abbandonarono l'aula fra lo sconcerto generale. Al re non restò che pronunciare il suo nervoso discorso, inframmezzato da papere e balbettii, nell'aula semivuota.Oggi si può sorridere di questa spettacolare trovata demagogica compiuta quando il "momento magico" della rivoluzione, se mai c'era stato, era ormai trascorso. Servì infatti soltanto a ricompattare la maggioranza, ad allarmare la borghesia e ad alimentare la reazione. Tuttavia destò echi clamorosi e il suo effetto fu grande. Bombacci, in quel momento, era completamente prigioniero del sogno rivoluzionario. Il 13 dicembre, pronunciando il suo primo discorso alla Camera, non fece mistero delle sue intenzioni. "La rivoluzione è una necessità storica" dichiarò. "Il Parlamento è un relitto del passato ed è nostro dovere dargli gli ultimi colpi di piccone..." Poi, dopo avere domandato il riconoscimento de facto della rivoluzione russa ("per rompere l'accerchiamento dei paesi capitalisti"), presentò uno sconcertante emendamento in cui chiedeva la costituzione in Italia dei "consigli operai", ossia i soviet. Ciò stava a significare che, secondo Bombacci, il Parla-

mento avrebbe dovuto votare l'immediata cessazione delle sue stesse funzioni...A suggerire quell'emendamento - ricalcato pari pari dalla Costituzione russa - era stato Vladimir Degot, il "consigliere" sovietico che faceva da tramite fra Lenin e Bombacci. Come si è già detto, nella direzione del PSI si erano infiltrati alcuni agenti bolscevichi: non tutti però facevano capo a Lenin e, per giunta, costoro avevano a cuore gli interessi

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdi Mosca e non quelli dell'internazionalismo operaio (in seguito, infatti, non esiteranno a intrattenere rapporti segreti anche con gli ambienti fascisti).Fra questi consiglieri, oltre a Degot, i più importanti erano Mosè Vodovosov, che sotto lo pseudonimo di "Ing" scriveva sull'"Avanti!", Vladimir Sukhomlin, che si firmava "Junior", Theodor Liubanschj, alias "Nicolini", che era il consigliere personale di Giacinto Menotti Serrati, nonché la giovane Elena Sokolovskaia, una bolscevica di fede sicura che Bombacci aveva chiamato a sostituire la "menscevica" Angelica Balabanoff come traduttrice della corrispondenza che intercorreva fra lui e Lenin.Subito dopo il successo elettorale, Bombacci aveva inviato a Lenin un dettagliato rapporto in cui si autoglorifi-cava in maniera esagerata. Secondo lui, l'Italia era giunta alla vigilia rivoluzionaria e la sinistra disponeva di "tre capi": lui naturalmente, Egidio Gennari, che era un suo fedele alleato, e Giacinto Menotti Serrati che però "è assai meno ottimista degli altri due" e non sostiene "l'immediata costituzione dei soviet...".Ma Lenin non leggeva soltanto i rapporti entusiastici del suo "omonimo" di Romagna. Leggeva con maggiore attenzione ciò che gli riferiva periodicamente il suo agente Vladimir Degot. Guglielmo Salotti riporta alcuni brani dei giudizi espressi a Lenin dal suo agente a Roma, che ci appaiono piuttosto centrati. "Bombacci" scriveva Degot "gode molta popolarità, è un romantico dominato dagli stati d'animo, anche se è indubbiamente un devoto rivoluzionario. Quando sarà necessario egli si schiererà

all'avanguardia del proletariato avanzante, e con questo annienterà la borghesia. Ma gli manca quella fredda analisi marxista di cui dispongono i nostri compagni russi..."Giacinto Menotti Serrati era invece, per Degot, "un carrierista, un politicante che sta seduto su due sedie e si accorda secondo necessità ora con la sinistra, ora con i riformisti.Ricordando l'ottima opinione che aveva di lui la Balabanova, stento a credere ai miei occhi...". Nel suo rapporto, Vladimir Degot accenna anche a Egidio Gennari ("senza dubbio un marxista geniale anche se manca di spirito d'iniziativa") e finisce elogiando il giovane e poco noto Antonio Gramsci "che comprende le situazioni più profondamente degli altri compagni, che ha capito più chiaramente la rivoluzione russa, ma che non può influire sulle masse...".Quando nella primavera del 1920 il PSI, che aveva aderito al Comintern (la Terza Internazionale comunista) quindici giorni dopo la sua fondazione, si riunì a Bologna per il congresso, Vladimir Degot vi partecipò nella veste di capo della delegazione di questo nuovo organismo. Il Comintern si proponeva di sostituire la Seconda Internazionale socialista e a esso i partiti aderenti - che dovevano cambiare il nome da socialista in comunista e vi erano rappresentati in misura paritaria - dovevano ufficialmente obbedienza al di sopra dei rispettivi interessi nazionali. In realtà, il Comintern si rivelerà ben presto una centrale di potere smisurato e interamente controllato da Mosca. Con la

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtscusa di preparare la rivoluzione mondiale, consentirà al governo sovietico di inserirsi nella vita politica delle altre nazioni e di utilizzare i partiti "fratelli" disposti a servire lo Stato sovietico anche a discapito dei rispettivi paesi.Al congresso di Bologna le più grandi ovazioni furono riservate ai delegati del Cominterni quali, per la verità, non portarono all'assemblea il solito generico saluto d'occasione, bensì un messaggio preciso e perentorio secondo lo stile della Terza Internazionale che aveva preso subito piede. Diceva il testo redatto da Degot e letto da Bombacci:

L'armata russa degli operai e dei contadini vi saluta. Essa aspetta il vostro aiuto, voi avetecompiuto un passo gigantesco entrando nel Comintern, ma dovete fare di più. Dovete buttar fuori dal vostro partito tutti i riformisti e proclamare comunista il vostro partito, in modo che la classe operaia veda chiaramente che voi avete rotto definitivamente ogni rapporto con la Seconda Internazionale...I delegati riformisti, smarriti e perplessi, ascoltarono sgomenti quella sorta di ukase moscovita, ma anche una parte della maggioranza massimalista non nascose le proprie perplessità. Serrati, per esempio, che era direttore dell'"Avanti!", si rifiutò di pubblicare iltesto del messaggio sul quotidiano del partito. Comportandosi da "comune menscevico", come riferirà Degot, egli respinse la proposta sovietica per motivi di ordine pratico e sentimentale. D'altra parte, cacciare dal partito i riformisti e proclamarsi comunisti avrebbe significato consentire a costoro di portarsi via anche un nome glorioso - quello disocialisti - nel culto del quale intere generazioni di lavoratori erano cresciute.Il dibattito che ne seguì fu aspro e lacerante, finché non si giunse a un compromesso. "Se non il nome" concluse alfine Bombacci "cambiamo il simbolo." E di comune accordo il congresso approvò 1'"importazione" dalla Russia sovietica del nuovo stemma: falce e martello incrociati fra due spighe di grano. Il compromesso salvò anche l'unità del partitoe i riformisti non furono espulsi. Lo scontro decisivo veniva rinviato a Livorno l'anno successivo. Bombacci tuttavia si prese una piccola rivincita imponendo la modifica della formula rituale che concludeva le direttive di partito da "saluti fraterni" a "saluti comunisti". Da parte loro, i suoi avversari gli riservarono un'amara sorpresa. Nel 1917, quando era ancora un feroce antiparlamentarista, Bombacci aveva imposto una modifica allo statuto del partito decretando l'incompatibilità fra l'incarico di deputato e quello di membro della direzione. Serrati non

mancò di approfittarne e chiese che Bombacci fosse il primo a dare il buon esempio: o segretario o deputato.Nel frattempo, però, dopo il suo ingresso trionfale a Montecitorio, l'infuocato antiparlamentarista aveva cambiato idea. In primo luogo perché lo stipendio da

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtparlamentare gli aveva finalmente consentito di liberare la sua famiglia dall'endemica miseria in cui era stata costretta a vivere fino ad allora. Ma questa non era l'unica ragione.A Bombacci la qualifica di onorevole piaceva molto. Gli attribuiva prestigio, gli consentiva di affrontare gli avversari a un livello più alto, nonché di controllare in maniera diretta il suo gruppo parlamentare e le manovre politiche della maggioranza. Allafine, il bisogno e l'ambizione ebbero la meglio, e Bombacci, sia pure a malincuore, optò per la medaglietta da deputato. A sostituirlo nella carica di segretario fu chiamato Egidio Gennari, il suo alleato più fedele; tuttavia per Bombacci iniziava quel giorno la fase discendente.

VI L'UOMO DI MOSCADurante la prima guerra mondiale, mentre in Russia divampava la rivoluzione, era sorto aCopenaghen il cosiddetto Istituto della pace la cui vera funzione era quella di raccogliere finanziamenti occulti per il partito bolscevico. Lo aveva fondato un misterioso ebreo di origine russa, ma legato ai servizi segreti tedeschi, chiamato semplicemente "Parvus", il quale, anche se la storia ufficiale del PCUS lo ignorerà, svolse un ruolo fondamentale peril trionfo della Rivoluzione di Ottobre. Amico intimo di Lenin, suo compagno di lotta e dideportazione in Siberia, Parvus, il cui vero nome era Alexander Israel Helphand, dopo una rocambolesca evasione aveva trovato rifugio in Germania dove si era arricchito. Scoppiata la guerra, l'ex rivoluzionario era diventato l'uomo di punta dei servizi segreti tedeschi interessati a sfruttare i contatti che egli aveva mantenuto con i suoi vecchi compagni e, in particolare, con Lenin. In quel momento, infatti, bolscevichi e tedeschi avevano un comune obiettivo: la caduta dello zar e il conseguente ritiro della Russia dal conflitto. Per la Germania era una questione di sopravvivenza, per Lenin l'unica possibilità di conquistare il potere. Parvus svolse il suo compito con grande abilità e riuscì a favorire, nel contempo, sia i vecchi compagni sia i nuovi padroni. Fu lui, infatti, aorganizzare il famoso treno blindato che trasferì Lenin dalla Svizzera in Russia attraversola Germania, e fu ancora lui a sovvenzionare con fondi tedeschi la sua azione rivoluzionaria. Grazie alle enormi somme raccolte dall'Istituto della

pace, i bolscevichi acquistarono alcune tipografie, aprirono una quarantina di giornali e garantirono lo stipendio a migliaia di rivoluzionari di professione, compresi Lenin, Trotzkij e Stalin, sino alla vittoria finale.Terminata la guerra, l'Istituto della pace era sopravvissuto e si era trasformato nella centrale della diplomazia segreta sovietica. Attraverso quell'innocua facciata, il governo comunista, che non era ancora stato riconosciuto ufficialmente dalla comunità internazionale, poteva aprire canali occulti con i governi di altri paesi e con i capitalisti privati per contrattare scambi e stabilire accordi commerciali. La Russia infatti era alla

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtfame e aveva un disperato bisogno di rifornirsi in Occidente.Nel marzo del 1920 fu per raggiungere questo misterioso istituto che Nicola Bombacci compì il primo viaggio all'estero della sua vita. Come sia maturata tale "missione segreta"non è ancora del tutto chiaro, almeno per quanto riguarda le intenzioni. L'iniziativa pare sia partita da Francesco Saverio Nitti, che era allora il capo del governo italiano. Consapevole che gli ambienti economici e industriali erano interessati alla ripresa degli scambi con la Russia, Nitti era tuttavia bloccato dal fatto che ogni iniziativa diplomatica avrebbe violato il cosiddetto cordone sanitario, ossia l'embargo che gli stati occidentali avevano imposto al "paese del socialismo". Probabilmente l'idea di utilizzare il leader socialista per una missione ufficiosa fu suggerita a Nitri dalla scoperta che l'Inghilterra, grazie ai buoni uffici del partito laburista, aveva già aperto un canale segreto con Mosca tramite l'istituto di Copenaghen. Ma Nitti era stato incoraggiato in questo senso anche dagli agenti bolscevichi di Roma, che sapevano quanto Mosca fosse interessata a riallacciare i rapporti con l'Ansaldo e con la Fiat. Anzi, forse furono proprio costoro i registi della "missione Copenaghen". Grazie alla loro influenza, essi potevano infatti garantire al governo italiano un periodo di "pace sindacale" e offrire al PSI la possibilità di autofinanziarsi affidando alla Lega delle cooperative

l'export-import con l'Unione Sovietica. Le cooperative rosse, come già si chiamavano perdistinguerle da quelle bianche, cattoliche, erano infatti legate al partito da una lucrosa "cinghia di trasmissione".Comunque siano andate le cose, il 20 marzo 1920 Bom-bacci e il presidente della Lega delle cooperative Angiolo Cabrini partirono per la Danimarca con speciali passaporti. Erano accompagnati dall'agente sovietico Mosè Vodo-vosov. Bombacci aveva accettato quel delicato incarico convinto che avesse un carattere essenzialmente politico. Da buon idealista, le questioni economiche non lo interessavano ("sono cose da fureria" diceva). Egli voleva approfittare di quel primo contatto con alti dirigenti sovietici per intrattenersi sulla "rivoluzione italiana". Allo scopo si era portato appresso un suo dettagliato studio per la costituzione dei soviet in Italia, che intendeva sottoporre alla loro approvazione.Ad attendere la delegazione italiana nella capitale danese c'erano effettivamente due personaggi di primo piano: il commissario del popolo agli Affari esteri, Maksim Litvinov,e il commissario del popolo al Commercio, Leo-nid Krasin. L'incontro risultò fruttuoso per il governo italiano (Nitti definirà il lavoro di Bombacci "buono e utile perché onesto") e anche per la Lega delle cooperative che ottenne, se non il monopolio, una posizione di rilievo in tutte le future transazioni economiche. Per il Lenin di Romagna fu invece una inaspettata doccia fredda. Con il glaciale realismo dei bolscevichi, Litvinov respinse, mal celando la sua ironia, il progetto rivoluzionario del compagno italiano e gli spiegò con chiarezza la situazione: la politica sovietica doveva tendere a favorire

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtesclusivamente i propri interessi nazionali poiché la Russia aveva urgente bisogno di accordarsi con i governi occidentali e i partiti fratelli dovevano aiutarla. Di conseguenza, Bombacci era vivamente pregato di calmare e disciplinare le masse italiane per favorire tale progetto... Era un'antici-

pazione della teoria del socialismo in un solo paese che gli storici attribuiranno più tardi aStalin.La delusione provata da Bombacci dovette essere grande. Egli era giunto a Copenaghen convinto di ricevere delle anticipazioni sui progetti bolscevichi per la rivoluzione mondiale e si era invece trovato di fronte a due gelidi funzionari pronti a sacrificare ogni ideale pur di entrare in contatto con i governi capitalisti. Ma questa sua delusione non la confessò subito, bensì molti anni dopo, nel 1942, quando dirigeva il mensile "La Verità", una rivista redatta da ex comunisti cui Mussolini aveva garantito finanziamenti e libertà di diffusione. Scriveva infatti Bombacci ricordando la sua missione a Copenaghen di ventidue anni prima:La mia memoria e più ancora la mia anima di sincero idealista non hanno dimenticato quell'incontro glaciale condito di sarcasmo e d'ironia. La sintesi del pensiero di Litvinov fu questa: Mosca deve riprendere i suoi commerci, i suoi rapporti economici e politici con gli Stati capitalisti; questo è il problema urgente della Russia sovietica, non altro. Chimi legge e chi ricorda le battaglie politiche in Italia di quell'epoca può comprendere la mia amara sorpresa. Ritornato a Milano, dovendo parlare ad un convegno, non seppi tacere il mio stato d'animo e fui accusato dai più accesi di avere lasciato in Danimarca i miei propositi rivoluzionari. In realtà ho poi constatato che quella doccia fredda aveva operato in modo profondo e salutare nel mio spirito troppo nutrito di idealismo.Tuttavia la beffa di Copenaghen non ebbe su Bombacci la profonda influenza che questa tardiva confessione farebbe supporre. La sua fedeltà alla Terza Internazionale e la sua convinzione che Mosca restava il perno del movimento rivoluzionario non vacillarono: egli continuò infatti a ubbidire alle disposizioni del Comintern trasformandosi rapidamente da incendiario in pompiere. La "svolta" di Bombacci non mancò di suscitare diffidenza negli ambienti più estremisti del partito e approvazione in quelli governativi. Anche i bolscevichi dovettero apprezzare il suo repentino allineamento: d'ora in poi, infatti, Bombacci

diventerà a tutti gli effetti "l'uomo di Mosca", tanto che i sovietici continueranno a difenderlo anche quando entrerà in rotta di collisione con lo stesso Partito comunista.Se Nitti, favorendo la missione a Copenaghen, aveva messo in conto anche l'eventuale ammorbidimento del tribuno romagnolo, poteva dirsi soddisfatto. Ora, nei sempre più

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtaffollati comizi, Bombacci aveva abbandonato la retorica rivoluzionaria e l'esaltazione del "paradiso dei soviet". Pur restando convinto che la Russia fosse "la spina dorsale del corpo comunista", preferiva versare lacrime nel descrivere la miseria e la sofferenza del popolo russo. La sua azione subdolamente moderatrice, benché condita di parole infuocate, si manifestò anche durante il biennio rosso e la straziante lotta per la difesa dei consigli di fabbrica (le sue più amate creature!). Lo sciopero generale e la conseguente occupazione delle industrie facevano infatti parte di una strategia rivoluzionaria che ora non rispondeva più alle esigenze di Mosca. E Bombacci, da docile strumento, provvide a gettare acqua sul fuoco: "Se voi" dirà agli operai di Torino "vi muovete per difendere le commissioni di fabbrica, avete ragione; ma se vi muovete per fare il comunismo in Italia, avete torto, perché questa è una deliberazione che non è di vostra competenza, ma deve essere concordata con l'Internazionale...".L'improvviso voltafaccia procurò a Bombacci, oltre alla diffidenza dei suoi (in particolaredi Bordiga e di Gramsci), anche l'ironia degli avversari. Sul "Resto del Carlino", Mario Missiroli lo definì "un carabiniere in borghese" e poi, per spiegarsi meglio, aggiunse: "Quando il simpatico Bombacci predica alle folle inquiete la necessità della rivoluzione, avvertendo però che i tempi non sono maturi, non collabora anche lui all'ordine pubblico?".Ma il più pungente fu il suo amico Benito Mussolini.Il 23 marzo 1919 l'ex direttore dell'"Avanti!", e ora direttore del "socialista" "Popolo d'Italia", aveva creato a Milano il movimento dei Fasci italiani di combattimento.

Fra i soci fondatori - ottocentocinquanta in tutto; ex interventisti, ex socialisti, ex anarchici, ex repubblicani, ex sindacalisti - ritroviamo antichi compagni di lotta dei due ex maestri romagnoli, come Leandro Arpinati, Edmondo Rossoni e Pietro Nenni (il qualepoi negherà per tutta la vita questa adesione onde evitare comprensibili speculazioni politiche). In realtà, tale movimento, che sarà poi demonizzato dalla storiografia marxista, non era affatto di destra. Il programma fascista del 1919, con il quale il movimento si presentò alle elezioni di novembre, può essere definito senza esitazioni "socialista" o, quanto meno, "di sinistra". Oltre a rivendicare Fiume e la Dalmazia, chiedeva infatti il suffragio universale, l'instaurazione della repubblica, l'abolizione della coscrizione obbligatoria, la giornata lavorativa di otto ore, la partecipazione dei lavoratoriagli utili delle imprese, i consigli di fabbrica, le libertà civili e politiche, la parità dei sessinonché il sequestro dei profitti di guerra e una maggiore equità fiscale.Dopo il catastrofico risultato elettorale della sua lista (poche migliaia di voti e nessun eletto), Mussolini, certamente ingelosito dal trionfo di Nicolino, aveva cominciato a punzecchiarlo dalle colonne del "Popolo d'Italia". "Questa vittoria è troppo grande per lui" aveva scritto "e certamente lo sommergerà." E ancora: "I selvaggi del nuovo gruppo

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtparlamentare socialista (selvaggi per modo di dire, poiché Nicolino, il capintesta, è una bestia assolutamente innocua che appartiene alla specie degli eterni malati che seppelliscono i sani) si sono un po' troppo compromessi, hanno gridato troppo "Viva Lenin!" e "Viva la Russia!" agitando dinnanzi alle masse il programma del comunismo immediato... Ora se il massimalismo italiano non pagherà la sua cambiale col popolino, saranno pasticci...".Buon conoscitore dell'uomo e attento osservatore politico, Mussolini era stato il primo a rilevare la trasformazione che si era verificata nell'animo di Bombacci dopo l'amara esperienza di Copenaghen. E così la commentò:

"Bisogna legittimamente supporre che il cittadino Litvinov abbia smontato gli entusiasmi del cittadino Bombacci in maniera tanto irreparabile da fargli preferire la strada del ritorno verso questa putrida Italia borghese alla strada che conduce verso il sublime paradiso dei soviet".Nel paradiso dei soviet, Bombacci si recò poco tempo dopo a capo di una cospicua delegazione socialista che doveva partecipare al secondo congresso della Terza Internazionale. Anche questa volta Francesco Saverio Nitti agevolò i rappresentanti italiani in partenza ("La miglior propaganda anticomunista" diceva "è mandarli a controllare de visu..."), fornì loro i preziosi passaporti e mise loro a disposizione due vagoni ferroviari. Raggiungere Mosca in quei giorni era molto complicato per via della guerra civile ancora in corso, del conflitto russo-polacco e degli sbarramenti doganali del cordone sanitario. La delegazione, che lasciò Milano il 25 maggio 1920, giunse infatti a Mosca il 15 giugno.I delegati italiani che mettevano per la prima volta piede in Russia erano diciassette, fra i quali Serrati, D'Aragona, l'anarchico Borghi, il segretario della Gioventù socialista Luigi Polano, altri esponenti massimalisti e riformisti, nonché esperti della Lega delle cooperative. A questi si aggiunse Amadeo Bordiga, ma a sue spese. Lo spirito con cui i socialisti italiani partirono alla volta del loro "paradiso" lo descriverà molto più tardi Alfonso Leonetti che faceva parte della comitiva:Il Governo ci aveva messo a disposizione persino un vagone speciale che fornì divertentemateriale alla satira politica... I nostri compagni - uomini molto previdenti e saggi - pensarono che, prima di recare aiuto agli affamati russi, dovessero provvedere a se stessi e riempirono il loro vagone di provviste alimentari. Per precauzione, fecero anche una buona scorta di candele: non poteva darsi che in Russia venisse a mancare anche la luce?La delegazione italiana fu accolta a Mosca con le consuete coreografie trionfali e Bombacci fu il più festeggiato, perché era il più noto ma anche perché i bolscevichi, per-

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtfettamente a conoscenza della rivalità fra Serrati e Bombacci, avevano già deciso di puntare su quest'ultimo. Serrati fu infatti trattato come un personaggio di secondo piano, mentre Bombacci fu l'unico ad avere l'onore di essere ricevuto in privato da Lenin.Purtroppo non esiste una documentazione storica corretta sul soggiorno sovietico di Bombacci che si protrasse sino al tardo settembre. Per le note ragioni, la storiografia comunista sorvola sul ruolo essenziale da lui svolto in quella occasione, limitandosi a mettere in luce gli aspetti che possono sminuirlo, se non ridicolizzarlo. Allo stesso tempo,per altre note ragioni, neanche i riformisti potevano essere teneri con lui, poiché egli in quel momento era il loro più pericoloso nemico. Per esempio, Angelica Balaba-noff, che faceva da interprete ai delegati italiani, nelle sue memorie sostiene malignamente che Lenin, pur disprezzando Nicola Bombacci per la sua scarsa cultura, lo scelse perché era "il più ubbidiente". La rivoluzionaria russa non risparmia al suo nemico neppure il sarcasmo: ""Abbreviate la traduzione di questo imbecille barbuto", mi scriveva Lenin nei suoi bigliettini nel momento in cui mi accingevo a tradurre i suoi discorsi al congresso...".E ancora:Bombacci era affascinante, la sua barba e la sua chioma brillavano come dorate al sole. Alla tribuna si abbandonava a una mimica impressionante, fatta di grandi gesti, di movimenti a tutto corpo e si sporgeva talvolta dall'appoggio della tribuna come se volesseprecipitarsi nel vuoto. Aveva sempre un gran successo e non era necessario tradurre le sue parole...Le accoglienze trionfali, l'elettrizzante atmosfera rivoluzionaria che si respirava al congresso, nonché gli incontri personali ad altissimo livello (fu ospite di Trotzkij, di Bucharin, di Kamenev, di Zinov'ev e di tanti altri personaggi) avevano restituito a Bombacci l'entusiasmo perduto a Copenaghen. La sua fiducia nella rivoluzione mondiale,rafforzata dalla presenza di centinaia di delegazioni provenienti da tutti gli angoli della Terra, tornò a essere

cieca e assoluta. Come cieca e assoluta continuava a rimanere la sua fedeltà alla "centrale" moscovita. A tutto ciò vanno aggiunte la sua proverbiale vanità, nonché una certa dose di opportunismo. Bombacci, che veniva presentato da Lenin - comunque questi la pensasse in cuor suo -come "il più autorevole e benemerito compagno italiano", non aveva infatti tardato a capire di avere vinto a Mosca la sua lotta con Serrati e di essere ormai il leader prescelto / per il nuovo partito che doveva nascere. A Mosca egli stabilì anche un solido rapporto d'amicizia con Gregorij Zi-noVev, presidente del Comintern, una delle menti più lucide del bolscevismo. Zinov'ev, che gli resterà alleato anche quando sarà espulso dal partito, giocò sicuramente un ruolo importante nell'opera di convincimento iniziata da Lenin per spingere il delegato italiano ad appiattirsi completamente sulla linea sovietica. Al congresso infatti (dove parlò tre volte e fu eletto

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtin alcune importanti commissioni) Bombacci, a differenza di Serrati e dei riformisti, accettò acriticamente le tesi imposte da Lenin, ossia i famosi ventuno punti, che tutti i partiti comunisti avrebbero dovuto accettare come se fossero il Verbo. Bombacci approvò, senza discutere, anche l'ultima tesi, la più impegnativa, che prevedeva l'espulsione dei riformisti e il cambiamento del nome del partito (proprio quel ventunesimo punto, sei mesi dopo, a Livorno, avrebbe spaccato il PSI). Votarono invece contro, Serrati, i riformisti e la maggioranza dei massimalisti.Bombacci venne così a trovarsi sulla stessa linea di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci i quali erano già molto apprezzati da Lenin, ma avevano ancora una scarsa influenza nel partito. Ne conseguì che, come osserva Serge Noiret, già nell'estate del 1920 Mosca guardava a Bombacci, Bordiga e Gramsci come ai futuri fondatori del Partito comunista italiano. Qualunque cosa si pensasse del livello intellettuale di Bombacci passava dunque in seconda linea. Lenin era bene informato sulla situazione italiana, conosceva la vasta popolarità di cui Bombacci godeva

fra le masse e nel partito, e si rendeva conto di non poter fare a meno di lui. Fu così che, "utile idiota" o no, Bom-bacci rientrò in Italia con lo scettro del potere in tasca. E anche con qualcos'altro: prima di partire, Lenin gli aveva consegnato "denaro, oro e platino da utilizzare per la propaganda".

VIIIL RIVOLUZIONARIO DEL TEMPERINO"Prendi questa. Fagli vedere di cosa sei capace..." lo incitò sottovoce Umberto Terracini mettendogli fra le mani piccole, quasi femminee, una grossa rivoltella a tamburo.Bombacci impugnò goffamente la pistola. "Era la prima volta" confesserà più tardi "che toccavo un'arma." Ma aveva il sangue al cervello: le ingiurie che gli erano state vomitate addosso dall'oratore lo avevano mandato in bestia. Con la pistola in pugno, si sporse dal loggione del teatro dove avevano preso posto i capi della "frazione" comunista e la puntò contro il delegato Vincenzo Vacirca che era rimasto come paralizzato sul palco con il braccio ancora levato in un gesto accusatorio."Questo non è un temperino!" gridò Bombacci. "Ora lo vedrai" e sembrò che stesse prendendo la mira.In quei giorni ne erario accadute di tutti i colori nella sala del teatro Goldoni di Livorno dove era in corso il diciassettesimo congresso del PSI. Ma alle armi non era ancora stato fatto ricorso... La platea rumoreggiò, molti si levarono in piedi urlando, mentre il tavolo della presidenza veniva abbandonato: qualcuno vi si nascose sotto, altri fuggirono. Soltanto Vacirca rimase immobile, con gli occhi puntati verso l'arma che Bombacci brandiva minaccioso.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtPer fortuna, il colpo non partì. Bombacci fu disarmato, la sala si acquietò e lo sbigottito oratore potè riprendere il suo discorso, non prima però delle scuse ufficiali pretese dalla frazione comunista come condizione per continuare i lavori.

Il "caso" del temperino segnò uno dei momenti più penosi del congresso socialista che iniziò a Livorno il 15 gennaio 1921 e si concluse sei giorni dopo con la scissione del PSI e la nascita del Partito comunista. Ma si verificarono anche molti altri episodi niente affatto esaltanti. Fuori dal mito, infatti, il congresso di Livorno registrò il livello culturalepiù basso di tutta la storia del PSI. Alla povertà ideologica della stragrande maggioranza dei congressisti (cui facevano riscontro le astrazioni settarie di pochi dottrinari) deve aggiungersi la generale mancanza di analisi critica e di senso di responsabilità. Mentre in tutto il paese si spegnevano gli ultimi fuochi del biennio rosso e la reazione fascista stava inesorabilmente montando, il più grande partito di massa si avvitava su se stesso dilaniandosi fra schiamazzi, veleni, lotte di correnti e rancori personali: più che un congresso quello di Livorno fu una confusa baraonda. I gruppi che si fronteggiavano erano tre: i massimalisti di Serrati, ossia la maggioranza (circa centomila voti), i riformisti di Turati (quindicimila voti) e i comunisti (circa sessantamila voti), i quali, secondo quanto riferì a Lenin l'osservatore del Comintern, Jules-Humbert Drozsono una pattuglia ristretta e disparata. Essa riunisce il gruppo anti-parlamentare di Bordiga, quello dell'"Ordine Nuovo" di Torino, più alcuni deputati massimalisti guidati da Bombacci... Le sessioni del congresso furono burrascose, violente, passionali, profondamente deludenti. Il rappresentante dell'Internazionale Kabakciev fu fischiato e insultato, il suo discorso interrotto da grida ostili: i partigiani di Serrati hanno persino lanciato dei piccioni dalla galleria mentre stava parlando... Insomma mi è più sembrato diessere al circo che a un congresso socialista-Nicola Bombacci era arrivato al congresso avvilito e con le ossa rotte. Malgrado la sua indiscussa popolarità, malgrado l'appoggio anche economico dell'URSS, il leader dall'oratoria affascinante ma dalle scarse capacità organizzative non era riuscito a impadronirsi del partito, ora interamente dominato dagli uomini di Serrati. Pur aven-

do garantito ai russi di porsi alla guida del PSI dopo aver cacciato quei "quattro gatti" di riformisti, si era ritrovato isolato con poco più di una dozzina di deputati. Di conseguenza, era stato costretto ad aggregarsi alla pattuglia di Bordiga, il quale peraltro, al contrario di lui, snobbava le masse ed era deciso a creare a tutti i costi un partito

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtminoritario fortemente ideologicizzato.Ma più della mancanza di spirito organizzativo, era stata l'assenza di spirito... battagliero a sfavorire il Lenin di Romagna. Noi sappiamo che Bombacci era un uomo di temperamento mite: "Nicolino è incapace di fare del male a una mosca" ripeteva spesso, con ironia, Benito Mussolini per esorcizzare la sua immagine di focoso rivoluzionario. E,tuttavia, la sua mimica da comiziante e la sua irruenza oratoria lo avevano trasformato nell'immaginario collettivo in un intrepido uomo d'azione, il simbolo stesso della rivoluzione. Di conseguenza, quando, nell'ottobre del 1920, Bombacci subì a Bologna la prima aggressione squadrista e, invece di reagire, invocò l'aiuto dei carabinieri per poi rincasare sotto scorta fra due ali di fascisti urlanti, il suo mito cominciò a vacillare. L'irsuto tribuno dall'"aspetto leonino" si era rivelato timido come un coniglio impaurito.Quel primo "incidente" poteva comunque essere superato con un po' di scaltrezza. Ma Bombacci, oltre che mite, era anche ingenuo. Dimentico, o forse inconsapevole, della parte di duro che la storia di quegli ultimi anni gli aveva assegnato, ammise quasi piagnucolando la propria codardia. Si giustificò attribuendola al suo temperamento non violento e alla sua debole costituzione e infine si lasciò sfuggire una frase che lo mise in ridicolo. "Ciò che mi capita è veramente curioso" dichiarò con candore a un giornalista del "Resto del Carlino". "Io, il più mite di tutti i socialisti italiani, circondato e odiato come una belva! E dire che non ho neppure il coraggio di aprire un temperino..."A quell'epoca, il paese era in fermento, le difficoltà del dopoguerra avevano esacerbato gli animi, il moderatismo

era considerato vigliaccheria, mentre le istituzioni che si richiamavano alla vecchia Italia liberale annaspavano incapaci di controllare gli avvenimenti. Nel contempo il fascismo, che, appena sorto, esaltava il combattentismo e opponeva violenza alla violenza, aveva ridato fiato alla destra soffocata nel biennio rosso. Ora si stava dimostrando che il gesto poteva avere il sopravvento sulla parola e i muscoli sulle idee. C'era insomma in giro una gran voglia di un uomo forte o, come allora si usava dire da ambo le parti, di un duce capace di prendere in pugno la situazione e di mettere a posto le cose.Tutto questo, Bombacci, diversamente da Mussolini, non lo aveva capito, e continuava a predicare la rivoluzione sovrapponendo la retorica massimalista dei suoi comizi ai comportamenti personali tutt'altro che battaglieri. Dopo l'incidente di Bologna, il "rivoluzionario del temperino", come già lo definivano i settimanali umoristici, non riuscìa riscattarsi: seguitò infatti a parlare in un modo e a comportarsi in maniera opposta. Un episodio ancora più grave si registrò sempre a Bologna il 21 novembre, quando i fascisti di Leandro Arpinati (un ex compagno di Bombacci, anche lui nativo di Civitella di Romagna) assaltarono palazzo d'Accursio per impedire l'investitura dell'amministrazione socialista che aveva vinto le elezioni. Gli incidenti scoppiarono dopo che Bombacci

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtaveva pronunciato uno dei suoi infuocati discorsi; seguì uno scontro a fuoco nel quale perirono un fascista e una decina di socialisti. Ma Bombacci nel frattempo era scomparso.Di questa sua precipitosa fuga, in compagnia dei deputati Marabini e Graziadei, esistono varie versioni, tutte umilianti. Secondo un testimone: "i tre, invece di rimanere a Bolognaa organizzare la risposta operaia, si recarono a pranzo a Castel San Pietro usando un'auto dei pompieri in un momento in cui tutti i mezzi erano impegnati per il trasporto dei feriti...". Secondo un altro: "Il maggior responsabile che aveva acceso nei cuori tanta fiamma d'odio - l'on. Bombacci - usci-

va di soppiatto da una latrina dove si era rifugiato ai primi colpi...".Se un uomo il coraggio non ce l'ha, certamente non può darselo. Bombacci di coraggio fisico non ne aveva affatto, la sua forza era esclusivamente verbale. Nei duelli oratori annientava facilmente gli avversari, ma ora che i fascisti erano passati ai fatti, ossia al manganello, si ritrovava spiazzato. Ben presto, una violenta campagna orchestrata dai fascisti contro la "barbuta femminuccia travestita da leone", il "rivoluzionario di cartapesta", lo "scorbutico leone agli ordini della moglie" incrinò l'immagine del messia rivoluzionario, soprattutto nel Bolognese. Alla fine dell'anno, Bombacci decise di lasciarela città per trasferirsi definitivamente a Roma con la famiglia. Nel maggio successivo, in occasione delle elezioni politiche anticipate, sceglierà di candidarsi nella circoscrizione diTrieste.All'inizio del congresso di Livorno, Bombacci era comunque il personaggio più in vista del Partito socialista. Gli occhi di tutti i commentatori politici erano puntati a lui e a lui personalmente furono indirizzati l'augurio caloroso di Lenin e i saluti delle delegazioni straniere presenti in sala. Egli era ancora l'uomo-chiave del partito, specialmente per il suo prestigio internazionale e per il sostegno aperto che la Russia sovietica gli tributava. Tuttavia, appena iniziati i lavori, Bombacci si trovò ben presto relegato sul banco degli accusati. In primo luogo, i delegati massimalisti gli rinfacciarono la "colpa" di avere manifestato simpatia per l'impresa fiumana e per D'Annunzio. Ma era una colpa? Ispiratoda Lenin, che aveva intravisto nell'iniziativa dannunziana un "rivoluzionarismo" che poteva essere sfruttato dalla sinistra (d'altra parte, molti socialisti figuravano fra i legionari fiumani), Bombacci aveva preso contatti con la Reggenza del Quarnaro tramite il comandante Giulietti, dirigente della potente Federazione italiana lavoratori del mare. A chi lo

criticava aveva risposto: "Non discuto i ribelli, osservo la realtà, la ribellione". D'altra parte, in quel periodo, mentre il fascismo sotto la spinta dei Grandi, dei Farinacci e dei Balbo, appoggiati dagli agrari, stava spostandosi sempre più a destra, D'Annunzio

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtpreferiva tendere alla conquista del potere appoggiandosi alle nuove forze della sinistra. Qualche tempo dopo, il Vate verserà la somma di duemila lire al Comitato pro-Russia ricevendo in risposta da Bombacci il seguente telegramma: "Grazie a nome dei compagnirussi che eroicamente lottano, soffrono, muoiono, trionfano, amano ideale. Che esempio voce del Poeta svegli gli italiani cuori e l'intelletto dal colpevole torpore".A differenza dei compagni accecati da un ottuso settarismo, Bombacci continuava, e continuerà, a seguire speranzoso quel tenue filo rosso che attraversava tutti i movimenti ribellistici. Come Mussolini, di cui non aveva dimenticato la lezione, era pronto a ogni tipo di alleanza tattica con tutte le forze sovversive, dai dannunziani agli anarchici e anche ai fascisti "di sinistra". Il congresso però frustrò questo suo ambizioso progetto definendo "ripugnante un accordo con i gruppi che facevano capo a D'Annunzio e a Mussolini". Una presa di posizione stolida che finirà per spingere i ribelli dannunziani frale braccia accoglienti dei fascisti.La seconda sconfitta di Bombacci a Livorno fu più umiliante della prima. I massimalisti di Serrati lo accusarono senza perifrasi di codardia e di avere causato con i suoi discorsi rivoluzionari, ma senza costrutto, il clima deleterio che aveva portato all'assalto di palazzo d'Accursio e creato la generale atmosfera di violenza che ancora regnava in tutto il paese. Gli attacchi contro di lui furono talmente duri che, quando il delegato Vacirca lo sbeffeggiò chiamandolo "rivoluzionario del temperino", Bombacci mise mano alla pistola.Il 21 gennaio, la frazione comunista proclamò la scissione. I delegati comunisti abbandonarono il teatro Goldoni

cantando l'Internazionale, invano ammoniti da Filippo Turati che, in quell'occasione, pronunciò uno dei suoi discorsi più belli. "Un giorno, compagni" profetizzò il leader riformista "vi accorgerete che avete sbagliato. E poiché siete onesti, ritornerete ... solo nelsocialismo democratico c'è l'avvenire."Gli scissionisti, riuniti nel teatro San Marco, fondarono quello che, in obbedienza agli ordini del Comintern, assunse il nome ufficiale di Partito Comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale comunista. Anche se non viene quasi mai ricordato per attribuire ogni merito a Gramsci, nel nuovo partito i massimalisti di sinistra, guidati da Bombacci, erano in maggioranza. Il comitato centrale fu così composto: sette massimalisti (Bombacci, Belloni, Gennari, Misiano, Marabini, Repossi e Polano); sette astensionisti antiparlamentari (Bordiga, Grieco, Parodi, Sessa, Tarsia e Fortichiari) e due "ordinovisti" (Gramsci e Terracini). Bombacci rimase anche a capo del gruppo parlamentare comunistacui avevano aderito diciassette dei centocinquantasei deputati del PSI.Questa scissione, dolorosa per Bombacci e per gli altri massimalisti che speravano di portarsi dietro l'intero partito, fu catastrofica per il movimento operaio sottoposto in quel

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtmomento all'offensiva fascista, soprattutto nella regione emiliana. Bombacci uscì stanco econfuso da quella baraonda in cui il settarismo aveva preso il sopravvento sulla ragione. Egli aveva infatti rotto con la tradizione socialista ed era entrato in un partito che non era il suo, che non aveva contatto con le masse e che era guidato da "dottor sottili" prigionieridi un sogno elitario e di un assoluto intellettualismo che lui non riusciva neppure a comprendere. Per giunta, la campagna derisoria nei suoi confronti aveva compromesso lasua carriera. Di conseguenza, fin dai primi giorni Bombacci si rivelò un comunista atipico. Snobbato dai suoi dotti compagni, emarginato nel partito di cui era stato il principale fondatore, diventerà ben presto un dissidente. Preferirà servire la

Russia sovietica - che non gli negò mai il suo appoggio - e seguire quel filo rosso che ancora intravedeva nel fascismo, nella speranza di potere un giorno congiungere le due rivoluzioni.Da parte sua, subito dopo la nascita il nuovo PCD'I. si comportò come una scheggia impazzita: tutti i suoi sforzi parevano concentrati nella lotta contro i socialisti. I dirigenti, ignorando gli ammonimenti di Bombacci, si rifiutavano di "contaminarsi" con le altre forze politiche della sinistra, e del pericolo fascista, ormai incombente, non si parlò neppure per un istante durante le prime riunioni del comitato centrale. Fu anche respinto con sdegno il patto di pacificazione offerto da Mussolini nel luglio del 1921. Insomma, il nuovo partito viveva in un suo mondo onirico, lontano mille miglia dalla realtà del momento. "In quegli anni" scriverà l'ex comunista Angelo Tasca "il partito era politicamente assente nella lotta contro il fascismo." "D. PCd'i" annoterà da parte sua Claudio Natoli "si ostinava a identificare nel PSI il nemico da battere, nella convinzione che, quanto più rapida fosse stata la sua caduta, tanto più facilmente i lavoratori avrebbero accolto il programma comunista e offerto al partito gli strumenti necessari per condurre le lotte decisive."La scissione comunista fece aumentare il caos che già regnava nel PSI. Molte sezioni si sfasciarono, nelle altre si registrarono risse per la spartizione dei mobili e dei fondi, nonché liti giudiziarie, contestazioni e altre miserie. Numerosi simpatizzanti si dispersero. Il primo ad avvertire le conseguenze della scissione fu naturalmente Mussolini, che più da vicino di ogni altro seguiva le convulsioni socialiste. Sul "Popolo d'Italia" del 22 gennaio non mancò infatti di sottolineare che "la scissione di Livorno all'interno di un partito, che doveva regalare il paradiso al proletariato italiano, segna la fine di una illusione. Sarà molto difficile che il nuovo partito, a parte l'imbottitura dei crani proletari a base di Russia e di Lenin, vada a collocarsi

su posizioni insurrezionali. State tranquilli" concludeva Mussolini lanciando l'ultima

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtfreccia avvelenata contro il suo amico di gioventù: "Non vedremo mai Bombacci sulle barricate!".Malgrado le aggressioni subite dai fascisti (da parte, in realtà, solo delle squadre emilianedi Grandi e di Farinacci che ancora non obbedivano ciecamente al Duce), Bombacci mantenne un atteggiamento amichevole con Mussolini, atteggiamento che gli sarà più volte rinfacciato da Gramsci e da Bordiga. In tutti quegli anni, lui non si unì mai al coro di coloro che attaccavano violentemente l'ex direttore dell'"Avanti!". Non rispose neppurealle ironiche frecciate che assai spesso l'amico gli lanciava dalle colonne del "Popolo d'Italia". Forse intercorrevano fra loro anche rapporti epistolari. Mussolini, per esempio, gli inviò un telegramma scherzoso quando Erissena diede alla luce, nel '22, il terzo figlio al quale Bombacci aveva imposto il nome di Vladimiro. Da parte sua, quando nel maggiodel '21 Mussolini fu eletto per la prima volta deputato con altri trentaquattro camerati, Bombacci gli aveva invece inviato un affettuoso messaggio augurale. Fatto questo abbastanza singolare, visto che entrambi uscivano da una campagna elettorale nella qualenon si erano risparmiati colpi. Sembra anche certo che tra i due ci siano stati dei contatti in occasione della proposta del patto di pacificazione offerto da Mussolini ai partiti di sinistra.Di questo patto che avrebbe forse potuto modificare il corso della storia, si è parlato molto poco e, quando se ne è parlato, lo si è deriso. Invece fu un'iniziativa importante e molto significativa che Mussolini intraprese nel luglio del 1921 in contrasto con i ras dell'Emilia e della Toscana e della destra del partito. Per valutarla è necessario ricollocarla nel suo contesto storico. Malgrado la violenza e le aggressioni, il movimento fascista non aveva ancora una definitiva coloritura politica. Mentre i ras toscoemiliani erano totalmente asserviti alla "reazione agraria", il fascismo primigenio, ossia quello milanese controllato da

Mussolini, era ancora percorso da molte venature socialiste. Mussolini, insomma, non aveva rinunciato all'idea di riunirsi agli antichi compagni che "lo odiavano perché l'amavano ancora". Dopo lunghe trattative segrete, alle quali forse partecipò anche Bombacci, Mussolini poteva annunciare il 2 luglio sul "Popolo d'Italia" che il patto era stato firmato nello studio dell'onorevole Enrico De Nicola, futuro primo presidente della Repubblica. Avevano firmato, per i fascisti: Mussolini, De Vecchi, Giuriati, Rossi, Pasella, Polverelli e Sansanelli; per i socialisti: Bacci, Zannerini, Musatti e Morgari (tutti membri della direzione del PSI); per la CGIL: Baldesi, Galli e Caporali, nonché De Nicola in qualità di presidente della Camera.Quel patto purtroppo non andò a buon fine a causa della reazione delle ali estreme dei due partiti. Vi si opposero soprattutto i fascisti emiliani, riuniti in congresso a Bologna. Essi votarono un ordine del giorno nel quale si dichiaravano "sostenitori della lotta

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtarmata e violenta da condurre contro le associazioni di sinistra fino al loro completo annientamento".La ribellione dei ras indispettì Mussolini che annunciò le sue dimissioni dalla commissione esecutiva dei Fasci di combattimento. Poi scrisse sul "Popolo d'Italia" un durissimo articolo contro Grandi, Farinacci e gli altri "asserviti agli agrari" minacciando di abbandonare al suo destino il movimento che aveva fondato.Il fascismo può dividersi, scomporsi, frantumarsi. Se sarà necessario vibrare martellate potenti per accelerare la sua rovina, mi adatterò alla ingrata bisogna. Il fascismo che non è più liberazione, ma tirannia, non più salvaguardia della nazione, ma difesa degli interessi privati e delle caste più opache, sorde, miserabili che esistano in Italia; il fascismo che assume questa fisionomia, sarà ancora fascismo, ma non è quello per cui in anni tristi affrontammo in pochi le collere e il piombo delle masse, non è più il fascismo quale fu concepito da me...Nicola Bombacci dovette sentirsi solidale leggendo questa prosa esaltante del suo antico compagno di lotta.

Certamente in quei giorni egli si mise in contatto con lui e, secondo Renzo De Felice, lo avrebbe avvicinato proprio a Bologna per proporgli, in sostituzione di questo accordo, unnuovo patto con i comunisti per affrontare insieme i massimalisti. A ogni buon conto, le dimissioni di Mussolini rientrarono. Egli accettò con una certa disinvoltura un compromesso più o meno onorevole che relegava il patto negli archivi. D'altra parte, Mussolini, a differenza del più passionale Bombacci, non aveva alcuna intenzione di abbandonare il suo partito. Il fascismo era la sua unica vera casa e si rendeva conto che lasciarlo sarebbe equivalso alla sua fine politica. Come accadrà a Bombacci...

VIIILENIN SI ARRABBIA"In Italia, compagni" disse Lenin rivolto alla nostra delegazione in visita al Cremlino, ma,guardando negli occhi Nicola Bombacci, l'unico volto fra i presenti che gli era familiare, "in Italia" ripetè "c'era un solo socialista capace di guidare il popolo alla rivoluzione: Mussolini!" A questo punto osservò una pausa, come se stesse frugando nella memoria, poi aggiunse: "Io l'ho conosciuto in Svizzera molti anni fa. Me lo presentò la Balabanova...". Poi con un tono nuovamente severo sbottò in un'invettiva: "Ebbene, voi lo avete perduto e non siete stati capaci di ricuperarlo!".A Mosca era l'11 novembre 1922, corrispondente al nostro 31 ottobre. Tre giorni prima c'era stata la marcia su Roma e l'avvenimento aveva vivamente impressionato Lenin che aveva chiesto informazioni e dettagli ai suoi agenti in Italia. I segni della malattia, che lo avrebbe portato alla morte un paio d'anni dopo, erano già evidenti sul volto pallido di

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtVladimir Lenin, e tuttavia egli aveva voluto ricevere i capi della chiassosa e litigiosa delegazione italiana. I rappresentanti del Partito comunista e del Partito socialista massimalista di Serrati (i riformisti di Turati e Matteotti avevano costituito un terzo partito socialista, il PSU, che non aderiva al Comintern) erano giunti nella capitale russa per partecipare ai lavori del quarto congresso dell'Internazionale che aveva avuto inizio il9 novembre, quinto anniversario della gloriosa rivoluzione d'Ottobre.A questo punto, chi ha dimestichezza con la cabala e at-

tribuisce ai numeri significato magico, avrà di che sbizzarrirsi con alcune sconcertanti coincidenze. Secondo il calendario russo, allora ancora in vigore, il 9 novembre corrispondeva al 28 ottobre del calendario gregoriano adottato nel resto dell'Europa. Da ciò consegue che il 28 ottobre era un giorno fausto per Lenin quanto per Mussolini. Infatti, il primo aveva conquistato il potere il 28 ottobre 1917 assaltando il palazzo d'Inverno, mentre il secondo aveva fatto altrettanto il 28 ottobre 1922 organizzando la marcia su Roma. Fu una coincidenza? Probabilmente sì, anche se non è da escludere che Mussolini, notoriamente superstizioso, abbia scelto quella data per scaramanzia. Stimava Lenin e, anche se era solito vantarsi affermando che "lui conosceva me assai meglio di quanto io conoscessi lui", certo non aveva dimenticato la data d'inizio di una rivoluzione che aveva studiato a fondo per ricavarne giudizi e insegnamenti.Ma, mettendo da parte la scaramanzia, si potrebbe avanzare anche un'ipotesi più realistica: la consapevolezza che tutti i capi dei partiti che avrebbero potuto ostacolare la "marcia" sarebbero andati a Mosca a festeggiare l'anniversario della rivoluzione d'Ottobrepotrebbe infatti avere indotto Mussolini ad approfittare della loro assenza.Coincidenze a parte, è assai singolare il fatto che i capi della sinistra siano stati tanto ingenui da farsi cogliere di sorpresa dal colpo di mano fascista. Certo non possiamo immaginare cosa sarebbe potuto accadere se, in occasione della marcia su Roma, i dirigenti comunisti e socialisti si fossero trovati al loro posto. Probabilmente si sarebbero limitati a qualche sterile schiamazzo, visto che la situazione era quella che era: la classe operaia era disorientata, il PSI diviso in tre tronconi in lotta fra loro, la CGIL in preda a una crisi tanto profonda da non avere neanche lo scatto d'orgoglio di proclamare lo sciopero generale. Tuttavia, la loro presenza in Italia avrebbe potuto in qualche modo rappresentare un deterrente. Invece non fu così. Ignari di quanto stava maturando nel paese, Gramsci, Bordiga e

Terracini, snobbando le paure di Bombacci che invocava l'unità di tutte le sinistre per far fronte alla minaccia fascista, teorizzavano in quei giorni la prossima costituzione di un governo operaio. E proprio per discutere questo astratto progetto nonché per contestare

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtl'allarmismo di Bombacci essi erano partiti per Mosca alla vigilia della marcia su Roma. Della delegazione facevano parte: per i comunisti, Bombacci, Bordiga, Gramsci, Arcuno, Azzario, D'Onofrio, Giulianini, Graziadei, Gorelli, Germanetto, Gennari, Longo, Lunedei, Marabini, Natangelo, Presutti, Peluso, Scoccimarro, Tasca e Tresso; per i socialisti, Serrati, Romita, Maffi, Garruccio e Tonetti.La notizia della marcia su Roma colse dunque i delegati moscoviti di sorpresa. La loro reazione fu molto singolare. Nessuno pensò di abbandonare i lavori del congresso e di precipitarsi in Italia. E, tranne Bombacci, che tuonò contro l'incoscienza e l'irresponsabilità che regnavano nella direzione del PCd'I - dalla quale era stato escluso -, tutti sembrarono quasi contenti, come se Mussolini avesse levato loro le castagne dal fuoco. Sui resoconti di quel congresso si legge infatti che Gramsci e Bordiga salutarono con favore l'avvenimento in quanto, ora che il fascismo aveva finalmente infranto l'organizzazione socialista, la classe operaia sarebbe stata ereditata... dal Partito comunista. In virtù di ciò - sempre secondo quanto risulta dai verbali - il partito avrebbe potuto affrontare la nuova situazione "poiché le masse popolari sono pronte a rovesciare non soltanto il fascismo, ma anche il sistema capitalista per instaurare la dittatura del proletariato...". Sembra incredibile che le menti più sottili della sinistra italiana ragionassero in maniera tanto irresponsabile, ma così fu. D'altra parte, nel tentativo di osannare a tutti i costi l'intelligenza e la lungimiranza di Gramsci e dei suoi compagni, una certa storiografia ha spesso sorvolato su queste drammatiche vicende, dimenticando di ricordare che a quell'epoca molti dei nostri sopra valutati rivoluzionari vivevano al di fuori della realtà.

La sconcertante e anche trionfalistica reazione dei delegati italiani agli avvenimenti romani non convinse tuttavia i russi: Trotzkij scrisse che "il Partito comunista italiano non si rende conto della portata del pericolo fascista e si pasce di illusioni rivoluzionarie". Lenin, come abbiamo visto, fu ancora più duro. Ricorderà Bombacci molti anni dopo:Quando lanciò contro di noi la sua invettiva, nell'accento di Lenin c'era del compatimentoe della commiserazione. D'altra parte, i rivoluzionari russi avevano tutti i diritti - bisogna riconoscerlo - di guardare con compassione ai sedicenti rivoluzionari italiani che non volevano fare la rivoluzione e che tutta la loro attività rivoluzionaria era consistita nell'impedire a Turati, Treves, Modigliani e Prampolini di andare al governo e di realizzare il massimo delle riforme allora consentite...Fino a quel momento infatti il Partito comunista era stato politicamente assente nella lottacontro il fascismo. Anzi, in un certo senso ne aveva favorito il trionfo. Accecati dal settarismo e cullandosi nell'illusione di poter effettivamente ereditare le masse socialiste allo sbando, i suoi dirigenti avevano scelto una politica isolazionista e suicida. Rifiutando

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txttutte le proposte di opposizione unitaria, onde evitare ogni possibile "contaminazione", Bordiga, Gramsci, Terracini e anche Palmiro Togliatti avevano rapidamente trasformato ilpartito in una sorta di ordine monastico, sradicato dalla realtà e sottoposto a una disciplina rigorosissima. Tutto dipendeva dal centro, l'ubbidienza doveva essere assoluta, agli iscritti era vietata qualsiasi iniziativa personale e il loro credo era rappresentato dai ventuno punti di Lenin. I deputati, addirittura, potevano intervenire nei dibattiti parlamentari solo per leggere delle prolisse dichiarazioni preparate dal comitato centrale.Anche se ciò non apparve immediatamente, Nicola Bombacci non aveva tardato a capire che il partito da lui fondato non era il "suo" partito. Troppo diversa era la sua mentalità daquella dei "dottor sottile" che lo circondavano. Le loro elucubrazioni ideologiche lo mettevano a disa-

gio. I rapporti trionfalistici che regolarmente inviavano a Mosca lo allarmavano. Non molto ferrato nella dottrina, ma ricco di esperienza, egli aveva avvertito per primo la pericolosità del movimento fascista e, conoscendo assai bene Mussolini, non condividevaaffatto i giudizi negativi né lo scherno di cui i suoi compagni lo gratificavano. Ma invanoaveva cercato di metterli in guardia. Tetragoni e intransigenti, si erano ostinatamente rifiutati di modificare la linea. Inoltre, pur continuando a sfruttare la sua immagine (agli occhi della gente Bombacci era ancora il comunista più popolare e l'uomo-simbolo dell'opposizione al fascismo), lo avevano a poco a poco isolato fino a privarlo di ogni potere e persino dei mezzi di sostentamento.Avvilito, sfiduciato, convinto che il partito avesse imboccato una strada senza ritorno, il 13 agosto 1922, dopo il fallimento dello "sciopero legalitario" che aveva frantumato il sindacato confederale e segnato il trionfo del sindacato "nazionale", Bombacci si era deciso a rompere gli indugi. Se non lo ascoltavano a Roma, certo lo avrebbero ascoltato aMosca dove il suo prestigio era ancora inalterato.Secondo le severe regole imposte dal partito, la sua iniziativa fu di una gravità eccezionale: non era consentito a nessuno scavalcare la direzione per rivolgersi direttamente alla centrale moscovita. Lui lo fece ugualmente e, dopo avere preavvertito Lenin con un messaggio personale, indirizzò a Zinov'ev, presidente del Comintern, una lunghissima lettera "da comunista e da amico" in cui illustrava la reale situazione italiana e la sua personale. Questa lettera, che più tardi avrà l'effetto di una bomba ai vertici del PCd'i, era pervasa, come osserva Serge Noiret, da una grande tristezza. Era l'accorata confessione di un uomo che vedeva crollare tutte le sue speranze e che si sentiva prigioniero in un partito che agiva "coscientemente contro tutti gli interessi reali del proletariato"."Sono ventidue anni che milito nel movimento operaio" scrive Bombacci a Zinov'ev "e mai come oggi mi so-

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no trovato in una condizione di spirito tanto depressa." Segue un'analisi che adesso, alla luce della storia, appare lucida, realistica e quasi profetica. La situazione italiana, chiarisce subito Bombacci, è l'opposto di quella che emerge dagli insensati rapporti che ilpartito invia al Comin-tern. Nell'insieme è fortemente peggiorata. Dopo il fallimento dello sciopero legalitario "tutte le conquiste sindacali del dopoguerra sono state sbaragliate". Ma, a differenza di quanto sperano Gramsci e Bordiga, "a ereditare le fortune della CGIL e del PSI saranno i fascisti". Tutto ciò accade "per colpa nostra: distrutti moralmente dalle nostre campagne diffamatorie, i dirigenti politici e sindacali hanno perduta la fiducia della massa che ora si volgerà impetuosamente verso i sindacati nazionali. Abbiamo così, almeno per un certo tempo, lavorato per il nemico di classe...".Di fronte a questa situazione, continua Bombacci, il partito si chiude a riccio mentre, secondo lui, dovrebbe favorire l'ipotesi "entrista", ossia prendere in considerazione la possibilità di entrare nelle organizzazioni fasciste per condizionarle dall'interno costringendo i dirigenti a farsi carico dei problemi degli operai e dei contadini. A questo punto, Bombacci accenna anche a un'altra ipotesi, assai più azzardata, che in seguito si evolverà nel suo pensiero fino a fargli elaborare il progetto di unire le "due rivoluzioni". Il movimento fascista, spiega a Zinov'ev, "ha molte anime; dispone sì di circa trecentomila armati, ma deve tenere conto anche dei settecentomila lavoratori che si sono già iscritti nei suoi sindacati...". E seguita sottolineando che la borghesia "e persino Vittorio Emanuele" non sono troppo entusiasti dell'avanzata fascista poiché, aggiunge, "lafisionomia del movimento non è ancora ben definita...", parole che possono essere interpretate come un invito a non chiudere tutte le porte al fascismo.Passando a parlare del partito, Bombacci informa il presidente del Comintern che, dal congresso di Livorno di poco più di un anno prima, è andata perduta la metà de-

gli iscritti. La causa di questa emorragia, a suo parere, va ricercata nell'incapacità dei dirigenti del partito, "tutti pervasi da una struttura mentale astratta e teorica che non tiene alcun conto della realtà". Per loro, continua spassionatamente Bombacci, "tutto è fascismo: lo Stato, la Chiesa, la borghesia, la democrazia, i socialisti...". Di conseguenza "il fatto di vedere nemici dovunque, di non volere sfruttare le nuove situazioni e di respingere ogni alleanza per l'assurda paura di trasgredire i principi di intransigenza, costituisce un imperdonabile errore politico". Per sottolineare gli effetti nefasti di tale intransigenza, Bombacci prosegue rivelando a Zinov'ev che la direzione ha giudicato "eretica" la sua proposta di aderire al fronte unico dei partiti democratici che lui giudicava essere invece la sola arma ancora disponibile per fermare l'avanzata fascista. E ironizza poi sul fatto che il partito si è rifiutato di aderire "anche all'organizzazione delle

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtsquadre armate socialiste e anarchiche degli Arditi del popolo" preferendo dar vita a uno sparuto e autonomo manipolo di Arditi rossi malgrado fosse chiara l'inutilità di "avere delle squadre armate di puri comunisti quando poi questi sono dieci contro mille. Bisognava armare l'intero proletariato e non la ventesima parte dei pochi comunisti iscritti al partito...".Avviandosi verso la conclusione della lunga lettera, Bombacci affronta infine il suo caso personale. "Ritornato dalla Russia, iniziato il lavoro per la costituzione del partito" scrive "mi sono visto a poco a poco, senza giustificazione, allontanato da ogni responsabilità". Tutto ciò è in contrasto con la sua posizione pubblica di "fondatore del partito e di principale protagonista della lotta rivoluzionaria in difesa del bolscevismo...". Egli prosegue lamentando che "ancora oggi il partito mi fa apparire agli occhi dell'opinione pubblica come uno dei massimi dirigenti mentre in realtà mi tiene all'oscuro di ogni decisione". Dopo avere definito questo atteggiamento "un tentativo di assassinio politico", cita come esempio il fallimento dello sciopero legalitario "di cui sono stato informato dai

giornali, mentre si è invece fatto credere che fosse tutta opera mia". Insomma, continua Bombacci, "io mi trovo nella condizione tragica di dovere assumere la responsabilità di tutte le bestialità commesse dalla direzione anche se non sono mai stato interpellato". E sichiede: "Posso chiarire pubblicamente questa situazione? No, sia perché potrebbe sembrare un atto di viltà e sia perché la disciplina di partito me lo impedisce".Dopo aver ricordato che i fascisti lo hanno condannato a morte perché lo "considerano il vero ispiratore dello sciopero", Bombacci si sofferma angosciato sulla sua difficile situazione familiare: "Io ho famiglia: una moglie e tre figli che non posso lasciare alla mercé dei vandali fascisti. Sono povero, senza la possibilità di mezzi di difesa e di vita. Ionon chiedo e non voglio denaro, io chiedo di lavorare, di scrivere [la sua principale fonte di reddito era rappresentata da una collaborazione con la "Pravda", che però da qualche tempo era stata interrotta] e di ottenere ogni mese quel tanto che mi è indispensabile per mantenere la mia famiglia". L'angosciata lettera di Nicola Bombacci si conclude con questa frase accorata: "Io rifuggo da ogni idea di scissione, ma non posso lasciarmi pugnalare in silenzio tanto più quando vedo che la tattica balorda degli attuali dirigenti porta alla sicura morte del partito".Questa lettera-denuncia, che segnò la definitiva rottura di Bombacci con il suo partito (anche se, per le ragioni che diremo, essa sarà ufficializzata più tardi), fu scritta il 13 agosto 1922, ossia quando era in preparazione il quarto congresso del Comintern e mancavano poco più di due mesi alla marcia su Roma. Perciò è importante sottolinearne la data: da allora gli avvenimenti precipitarono. Salvo i "destri" Angelo Tasca e Antonio Graziadei, la direzione condannò il "ribelle" con parole di fuoco. Il più esasperato era

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtGramsci, che non poteva concepire come quell'"elemento squalificato" osasse contraddirlo e persino ironizzare sulla sua analisi della situazione italiana. Spalleggiato da Bordiga, Terracini e Togliatti, in un primo tempo chiese

la sua espulsione ma poi, impaurito dai consensi che Bombacci aveva ricevuto a Mosca e dal credito di cui ancora godeva negli ambienti bolscevichi, si limitò a inviargli una lettera di rampogna in cui, fra l'altro, gli ricordava quanto fosse "inammissibile la libertà di azione e di pensiero nelle file del partito".A Mosca, la lettera di Bombacci trovò effettivamente un'ottima accoglienza. Essa rispecchiava infatti l'idea che i dirigenti bolscevichi si erano fatti della reale situazione italiana. Per questa ragione, il 3 settembre Gramsci fu convocato dal Comintern e fu ricevuto da Zinov'ev il quale, come riferì lo stesso Gramsci "aveva sul tavolo la lettera di Bombacci, che non fu letta, ma della quale ci parlò dicendo che Bombacci spiega la necessità per i comunisti di entrare nei sindacati fascisti...". Dal tono usato da Gramsci si desume che egli intendeva ironizzare sulla ipotesi entrista di Bombacci considerandola un'assurdità, se non un tradimento. In realtà i capi del Comintern l'avevano presa molto sul serio. Oggi, infatti, sappiamo che furono esercitate pressioni affinché i lavoratori comunisti fossero invitati a entrare nei sindacati nazionali a dispetto delle tesi di Gramsci,secondo il quale l'eredità del rei sarebbe stata raccolta dal PCd'i. E non è da escludere cheLenin, quando accusò i delegati italiani di non essere stati capaci di recuperare Mussolini,si riferisse proprio a questo.Consapevolmente o no, Nicola Bombacci (di cui Gramsci aveva pubblicamente condannato i "deplorevoli rapporti di cordialità" che ancora manteneva con Benito Mussolini) con la sua lettera e il successivo intervento al congresso del Comintern aveva suggerito ai russi l'idea di non demonizzare a priori la rivoluzione fascista. D'altra parte, il fascismo, come Bombacci sosteneva, non aveva ancora una fisionomia ben definita. Al tempo stesso, Lenin non mancava di ricordare che "ogni movimento rivoluzionario va osservato con interesse...". Insomma, nei giorni in cui le squadracce scorrazzavano per le vie di Roma (la prima casa devastata dagli squadristi emiliani fu

proprio quella di Bombacci in via Cassiodoro), a Mosca, dietro lo schermo delle pubbliche manifestazioni antifasciste, qualcuno ancora pensava che Mussolini potesse essere "ricuperato".Come si è detto, l'annuncio della marcia su Roma, che aveva scaricato una doccia fredda sopra gli ignari delegati italiani, confermò clamorosamente le profezie di Bombacci. La presa di potere da parte di Mussolini e la manifesta incapacità di reazione rivelata dalle organizzazioni operaie mettevano definitivamente a nudo gli errori e le insensatezze dei

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdirigenti del PCd'i i quali, ostinatamente chiusi dentro il loro partito blindato, non avevano mai capito quanto stava accadendo intorno a loro. La conferma delle tesi sostenute da Bombacci comportò per lui due conseguenze contraddittorie. Da un lato egline uscì rafforzato nel ruolo di uomo di fiducia di Mosca. Dall'altro, considerando che per un comunista è sempre stata una grave colpa "avere ragione prima del partito", la sua vitaall'interno del PCd'I. diventò ancora più difficile. Da quel momento, infatti, egli sarà sottoposto alle angherie e alle umiliazioni tipiche della tradizione comunista: calunnie, diffamazioni, insinuazioni, sospetti e così via, che continueranno fino a quando, pur non essendogli mai venuta meno la protezione di Mosca, sarà espulso dal partito.

IX MISSIONE SEGRETA A ROMALa consuetudine di demonizzare o liquidare il compagno che non rispettava la linea ha sempre caratterizzato in negativo la storia del comunismo. Nei partiti comunisti, come in alcune sette segrete, agli adepti non era consentito dimettersi liberamente; potevano soltanto essere cacciati "per indegnità politica e morale", come recitava la formula in uso in Italia. Da quel momento, i reprobi, schiacciati sotto il peso delle calunnie più infamanti, si ritrovavano ghettizzati in una società che continuava a guardarli con sospetto. Ciò era certamente utile per mantenere la segretezza e la compattezza di un gruppo clandestino, ma diventava immorale se applicato in un partito politico. Per isolarel'ex compagno e per dar corpo alle accuse che gli si muovevano, tutti i mezzi erano buoni. Si rivangava il suo passato per rintracciare delle ombre. Si trasformavano in provedi tradimento i più squallidi pettegolezzi. Si ricorreva alla falsificazione dei documenti e a trucchi plateali. Per esempio, quando Amadeo Bordiga, l'uomo che aveva fondato con Nicola Bombacci il PCd'i, fu anch'egli espulso per deviazionismo dal partito mentre languiva in un carcere fascista, si ricorse a un singolare stratagemma per diffamarlo. Qualche tempo dopo, quando i compagni di base ancora commentavano la clamorosa espulsione, sull'"Unità" clandestina apparve la foto di un matrimonio. L'immagine riproduceva una sposa in bianco e uno sposo in camicia nera che uscivano dalla chiesa salutati da. due schiere di fascisti che facevano loro arco levando in

alto i pugnali. La didascalia della foto recitava: "Napoli, il matrimonio della figlia di Bordiga". Non una parola di più, ma era più che sufficiente per mettere in cattiva luce l'excompagno. Molti anni dopo, chi scrive ebbe occasione di incontrare Bordiga e di chiedergli ragione di quella fotografia. Il vecchio ingegnere napoletano scosse la testa rassegnato: "Volevano sputtanarmi" mormorò. "Far capire che me la intendevo coi fascisti." Poi aggiunse con un sorriso amaro: "Ma il fatto è che io non ho mai avuto una figlia".Ho ricordato queste cose per far capire quanto sia difficile scrivere la biografia di un

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtuomo che è stato a lungo demonizzato dagli ex compagni: le calunnie e le menzogne di cui è stato fatto segno, a furia di essere ripetute, hanno finito per diventare delle verità o per confondersi con la verità. La damnatio metnoriae ha dunque segnato il destino di Nicola Bombacci e ha proiettato nella tradizione comunista l'immagine di un vecchio, barbuto trombone dalle idee bislacche e dalla morale elastica. In realtà, l'uomo non doveva essere tanto bislacco se Zinov'ev e lo stesso Lenin gli affidarono, come vedremo, un compito delicatissimo e se il presidente del Comintern continuò a servirsi di lui per incarichi di diplomazia segreta, seguitando a proteggerlo anche dopo che il partito lo aveva allontanato.Uno degli episodi più misteriosi della vita di Bombacci è quello della sua precipitosa partenza da Mosca pochi giorni dopo la marcia su Roma. Egli fu infatti l'unico delegato arientrare in Italia; gli altri rimarranno per precauzione in Russia fino alla primavera inoltrata del 1923. Perché Bombacci se ne andò in maniera così rapida pur rendendosi conto dei rischi cui andava incontro? Era accaduto questo: il giorno 13 novembre egli aveva pronunciato il suo intervento al congresso del Comintern e poi, dopo un colloquio segreto con Zinov'ev, era partito alla volta di Roma senza neppure attendere la conclusione dei lavori. Considerati i tempi e le difficoltà doganali per attraver-

sare il cordone sanitario, Bombacci deve avere utilizzato mezzi speciali. Infatti, il giorno dopo era già a Roma. Ma quale fine aveva?A differenza di quanto andava proclamando nelle piazze d'Italia per farsi applaudire dallaborghesia, Mussolini non era un nemico viscerale della Russia di Lenin. Per lui, i comunisti italiani erano una cosa, ossia il nemico in casa, e i bolscevichi russi un'altra. Egli aveva capito prima di tutti che la rivoluzione russa era un fenomeno essenzialmente nazionale e che coloro che l'avevano provocata e condotta si servivano dell'internazionalismo operaio strumentalizzandolo. Per questo motivo, da politico spregiudicato, se perseguitava i comunisti italiani per ragioni di politica interna, sul pianointernazionale era contrario al blocco economico della Russia e favorevole a trattative fra governi per aprire al nostro paese i mercati sovietici. Va anche detto che era stato in cuor suo affascinato dalla rivoluzione russa e dal sistema dittatoriale del partito unico imposto da Lenin e da Trotzkij. Appena conquistato il potere, Mussolini manifestò subito i suoi propositi. Con una decisione rapida quanto inattesa convocò a palazzo Chigi il delegato commerciale sovietico Vaclav Vorovskij. Era il 7 novembre 1922. Vorovskij, che lavorava da due anni a Roma in stretto contatto con Bombacci, si precipitò emozionato all'appuntamento e non mancò di sorprendersi della cordiale accoglienza, assai diversa da

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtquella a cui l'avevano abituato i precedenti governanti. Mussolini, dopo un breve preambolo sulla comunanza di interessi tra Italia e Russia, rivelò allo sbigottito Vorovskijla sua intenzione di attribuire un riconoscimento diplomatico ufficiale alla missione sovietica. Vorovskij sulle prime non credette alle proprie orecchie. Dopo la marcia su Roma e l'offensiva fascista contro i comunisti italiani, egli si attendeva di essere sfrattato dal paese. Invece...Ancora attonito, il delegato sovietico si fece ripetere la proposta, poi corse a telegrafare a Mosca la sorprendente notizia. Lenin e Zinov'ev, che certamente non erano infe-

riori a Mussolini quanto a spregiudicatezza, colsero la palla al balzo. Per questa ragione decisero di inviare subito a Roma Nicola Bombacci. Il suo "pedigree" era più che rassicurante: era amico personale di Mussolini; da anni, grazie ai suoi incontri a Copenaghen con Litvinov e Kra-sin, si occupava dei rapporti Italia-Russia, per giunta... confidava persino nella possibilità di unire le "due rivoluzioni".Una settimana dopo Nicola Bombacci arrivava dunque a Roma. Trovò la casa distrutta dai fascisti e la famiglia rifugiata da un amico, ma la cosa non lo allarmò più di tanto: alleaggressioni era abituato. D'altra parte, non ne aveva neanche mai incolpato Mussolini, ben sapendo che a quell'epoca la ciurmaglia fascista non ubbidiva soltanto a lui. Si soffermò poco in casa e, alla moglie impaurita che lo supplicava di non uscire perché le strade erano ancora piene di squadristi, rispose enigmaticamente: "E perché mai i fascisti dovrebbero uccidermi?".Alle undici del mattino, fra la sorpresa generale dei deputati fascisti, Bombacci faceva ingresso a Montecitorio. Fu il primo deputato "sovversivo" a presentarsi nell'aula dopo il 28 ottobre. A differenza di tutti gli altri dirigenti comunisti non fu arrestato, e questo accadde, secondo alcuni storici, perché ebbe "un trattamento di favore da parte di Mussolini". Tale ipotesi potrebbe corrispondere alla realtà. Pochi giorni prima, a Mosca, idelegati italiani, lui compreso, avevano firmato un manifesto di condanna contro il "colpodi mano fascista". Di conseguenza, Mussolini aveva ordinato di arrestarli alla prima occasione, e infatti ciò avverrà al loro ritorno in Italia. Perché il solo Bombacci fu lasciato a piede libero? Sappiamo che il suo arrivo nel paese non era sfuggito alla polizia.Riferisce un verbale:L'on. Bombacci è comparso stamane alla Camera dei Deputati in compagnia del figlio Raoul. Viene riferito che si trova in Italia da due giorni. Quando Bombacci si è rassicurato circa la situazione del Regno, ha proseguito per Roma prendendo provvisoriamente

alloggio in casa di un amico. Bombacci si è accorciato la barba conservandola in forma

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtmeno ieratica...Pochi giorni dopo, probabilmente grazie all'interessamento dello stesso Bombacci, come ipotizza anche Serge Noiret, giungeva a Roma il commissario del popolo al Commercio sovietico Leonid Krasin per essere ricevuto da Mussolini. I due si incontrarono il 5 dicembre: fecero il punto sulle varie possibilità di scambi economici, ma parlarono sicuramente anche di politica. Mussolini era curioso di sapere cosa stava accadendo in Russia, mentre Krasin era propenso ad ammorbidire la linea del governo rivoluzionario per favorire lo sviluppo dei commerci. È quindi molto probabile che Krasin abbia confermato al Duce l'importanza che i sovietici attribuivano all'azione di Bombacci.Nei mesi convulsi che seguirono la marcia su Roma, fra arresti di compagni e aggressionipersonali (la sua barba, anche se "meno ieratica", provocava gli squadristi che cercarono più volte di tagliargliela), Bombacci proseguì l'attività politica sotto il controllo occhiuto della polizia. Compì varie missioni all'estero: andò ripetutamente a Berlino dove aveva sede il Comitato pro-Russia, di cui era dirigente e dal quale deriverà in seguito il Soccorso rosso, l'organizzazione clandestina comunista; e si recò alcune volte anche in Russia dove ebbe contatti ad alto livello, in particolare con Zinov'ev, ormai diventato suo amico. Di solito si faceva accompagnare dal figlio sedicenne Raoul che poi frequenterà per alcuni anni una scuola agraria russa.A causa dell'arresto di Bordiga, Berti, Longo e altri dirigenti, nonché dell'assenza di Terracini e di Gramsci, che risiedevano in Russia, il Partito comunista era coordinato da Palmiro Togliatti, un giovane funzionario scampato alla prigione, che teneva aggiornata Mosca sugli avvenimenti italiani. Ed è proprio attraverso un rapporto di

Togliatti ai sovietici che possiamo curiosare nel privato di Nicola Bombacci di cui si è sempre saputo poco.Dopo il suo rientro a Roma dal congresso del Comin-tern, Bombacci aveva trovato, oltre alla casa devastata, la moglie in uno stato di salute non buono: pochi mesi prima, durante un parto prematuro, aveva dato alla luce Vladimiro che era dovuto restare in ospedale. Lecondizioni economiche di Bombacci non erano mai state floride, ma ora erano molto peggiorate. Durante la sua assenza, Eris-sena aveva dovuto contrarre debiti per cinquemila lire per provvedere alle spese del parto e alla riparazione dei danni che avevano avuto in casa. Egli aveva perciò chiesto aiuto al partito "poiché dai parenti non posso ricevere aiuto in quanto mio fratello Virgilio è stato costretto a emigrare per sfuggire alle persecuzioni fasciste, mentre come sapete non dispongo di proprietà personali". Ma ciò che preoccupava Bombacci non erano tanto i debiti passati "quanto il presente e l'avvenire. Voi sapete che io ricevo un'indennità parlamentare di mille lire al mese. Ciò rappresenta tutta la mia entrata mentre devo affrontare le seguenti uscite: cinquecento lire d'affitto, trecento lire per l'allattamento artificiale del figlio più piccolo,

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtcento lire per la scuola della mia bambina, e trecento lire per il collegio agrario del mio figlio maggiore. A ciò devono aggiungersi i vestiti e il cibo per me, per mia moglie e per imiei figli". Di conseguenza, Bombacci calcolava di avere bisogno di almeno duemiladuecento lire per vivere in economia. "Prima di andare in Russia" proseguiva "oltre al mio stipendio percepivo non meno di un migliaio di lire per gli articoli che scrivevo sulla stampa sovietica e come segretario del gruppo parlamentare. Ora non ho più nulla di tutto ciò." Egli concludeva la lettera lamentandosi di essere persino costretto a vivere lontano dalla famiglia "perché mia moglie disperata per non trovare modo di sostenere i bambini ha cercato di subaffittare quasi tutto l'appartamento ed è stata così costretta, per una combina-

zione non prevista, a dare due stanze a una famiglia di ferventi fascisti...".Sulla singolare presenza dei subinquilini fascisti in casa del "sovversivo numero uno" si malignerà molto. Per i diffidenti compagni quella presenza era "sospetta", secondo la polizia si trattava di un espediente "per garantire la tranquillità del luogo". Ma si avanzava anche l'ipotesi che Erissena avesse una relazione adulterina con il fascista che ospitava.Comunque fosse, la richiesta di aiuto finanziario avanzata da Bombacci fu respinta dal partito. Togliatti, infatti, trasmise la lettera a Mosca precisando "di non comprendere il motivo per il quale il Comintern potrebbe e dovrebbe intervenire in questioni che riguardano esclusivamente rapporti materiali tra il partito e un compagno che non ha nessun diritto di non essere considerato alla stregua di tutti gli altri...". Nella risposta personale a Bombacci, oltre a comunicare il rifiuto, Togliatti gli faceva anche la morale: "Noi vorremmo aiutarti come vorremmo aiutare tutti i compagni che ci chiedono soccorso. Esaminando però le cose da un punto di vista strettamente oggettivo, dobbiamoriconoscere e dirti con la più grande franchezza che se confrontiamo le condizioni tue conquelle di centinaia di compagni bisognosi, le tue ristrettezze, le tue necessità non sono affatto degne di essere paragonate con il vero bisogno, la vera ristrettezza e la vera necessità che ogni giorno, come dicevamo, a noi si rivelano".Se un giovane funzionario, quale era allora il ventinovenne Palmiro Togliatti, poteva rivolgersi con tale provocatorio e sprezzante sarcasmo al vecchio compagno, si può facilmente desumere a che livello fosse scesa la considerazione di cui godeva Nicola Bombacci all'interno del partito. Va anche aggiunto che la supplica fu messa agli atti per essere riesumata al momento della sua espulsione al fine di dimostrare come "il bisogno di denaro rendeva poco sicura la posizione politica di Bombacci".Già da tempo, Bombacci aveva messo al corrente il pre-

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtsidente del Comintern che la direzione del PCd'I attendeva il suo primo errore per servirsene contro di lui. Ora stava correndo questo rischio e, perciò, Zinov'ev intervenne prontamente in suo aiuto. Per garantirgli l'autonomia economica gli fece assegnare dal governo sovietico uno stipendio di seimila lire al mese, secondo i servizi segreti italiani, come collaboratore della Missione commerciale russa a Roma. In realtà, sotto questa copertura, Bombacci divenne a tutti gli effetti un agente del Comintern. Da quel momento, per circa quattro anni, opererà nella doppia veste di comunista "sfiduciato" dal proprio partito, ma stimato e apprezzato da quello bolscevico.A partire dai primi mesi del 1923 l'Italia visse una singolare stagione politica. "Me ne frego di Bombacci e del sol dell'avvenir..." cantavano gli squadristi impegnati a reprimerele ultime roccheforti operaie. Ma, nel contempo, l'uomo con la cui barba i fascisti volevano fare "spazzolini" operava segretamente al suo progetto utopistico di unire le duerivoluzioni. Se ci fosse qualcosa di concreto in questa sua sconcertante aspirazione, non lo sapremo mai. Ciò che è certo è che il sognatore Bombacci faceva comodo ad ambedue le rivoluzioni e si lasciò docilmente strumentalizzare da entrambe.In quel momento la Russia anelava soprattutto a spezzare l'assedio economico delle potenze occidentali che rappresentava l'ostacolo principale alla sua ripresa economica. Il riconoscimento diplomatico de jure dell'Italia avrebbe aperto il primo varco in questa direzione. Da parte sua, Mussolini, oltre alla volontà di intraprendere una politica estera autonoma, subiva le pressioni degli ambienti affaristici che intendevano conquistare i mercati russi anticipando Germania e Inghilterra che già operavano segretamente in questo senso. Nicola Bombacci, per la sua posizione di comunista atipico, ma soprattutto per i rapporti personali che manteneva con ambo le parti, si trovò dunque al centro di unacomplessa manovra sotter-

ranea di avvicinamento di cui ci sono noti soltanto pochi, ma significativi episodi.Il primo segnale amichevole nei confronti della Russia, Mussolini lo aveva lanciato incontrando Vorovskij e Kra-sin pochi giorni dopo la presa del potere. In seguito i contatti, sia pure in maniera non ufficiale, erano proseguiti. Mussolini aveva mandato a dire ai russi (attraverso Bom-bacci?) che lui avrebbe concesso loro il riconoscimento de jure se Mosca avesse, in cambio, interrotto ogni tipo di propaganda in Italia. E, incredibilmente, era stato subito accontentato. Infatti, il 27 febbraio il delegato sovietico Vorovskij, che operava in contatto con Bombacci, aveva assicurato a Mussolini che il governo russo, desideroso di favorire i "nazionalismi rivoluzionari" secondo gli insegnamenti di Lenin, "non ha intenzione di occuparsi di qualsiasi propaganda ostile alleistituzioni del Regno d'Italia".A questo punto, non sarà difficile immaginare lo sconforto in cui piombarono i comunistiitaliani i quali, proprio in quei giorni, subivano una violenta repressione. Ma si era

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtappena agli inizi del "deplorevole avvicinamento" fra Roma e Mosca che faceva il paio con la "deplorevole cordialità" fra Bombacci e Mussolini denunciata da Gramsci. I contatti segreti si intensificarono. A differenza degli altri dirigenti comunisti, chiusi in carcere o sottoposti a severa sorveglianza, Bombacci poteva fare liberamente la spola fra Roma e Mosca ottenendo gli indispensabili visti con sospetta facilità. Nel frattempo si eraformato a Roma un gruppo di "dissidenti" provenienti dal PSI, dalla CGIL e anche dal PCd'I, detto della Gironda dal titolo della loro rivista, che si proponevano di gettare un ponte fra il fascismo e il socialismo. "Se Mussolini è diventato filorusso" essi si chiedevano "perché noi non possiamo diventare filofascisti?" In quell'estate del 1923, la confusione era dunque massima e solo Mussolini sembrava sapersi orientare. Egli, in effetti, non aveva ancora scelto la via da seguire. Era a capo di un governo di coalizio-

ne, ma non aveva ancora rinunciato al suo progetto di trascinare con sé almeno una parte del Partito socialista. Convinto comunque che un'apertura alla Russia avrebbe favorito la sua politica e aumentato lo scompiglio nella sinistra, ritenne opportuno concedere un certo spazio di movimento a Bombacci alimentando nel contempo le speranze dei girondini che volevano costruire il mitico ponte.

X IL PATTO CON IL DIAVOLOLa Camera dei deputati era affollatissima in tutti i settori nel pomeriggio del 30 novembre1923: all'ordine del giorno c'era uno di quegli argomenti che possono determinare una svolta storica. Si doveva infatti discutere il "patto con il diavolo", come lo avevano già battezzato i cronisti, ossia la ripresa delle relazioni diplomatiche con la Russia bolscevica.In proposito, l'opinione pubblica era profondamente divisa: nell'immaginario collettivo laRussia rappresentava per gli uni il paradiso, per gli altri l'inferno. Nell'attesa del discorso del presidente del Consiglio c'erano quindi molta tensione e vivissima curiosità.Mussolini non deluse le aspettative. Governava da appena un anno, ricoprendo contemporaneamente le cariche di presidente del Consiglio, ministro degli Interni e degli Esteri, aveva a che fare con un Parlamento ancora molto variegato e tuttavia si era già guadagnato la fama di uomo spregiudicato e realista. Senza perdersi in circonlocuzioni inutili, affrontò l'argomento con il consueto piglio decisionista e se la sbrigò in pochi minuti:L'Italia ritiene che sia giunta l'ora di considerare nella loro attuale realtà i nostri rapporti con la Russia. Noi prescindiamo dalle sue condizioni interne nelle quali, come Governo, non intendiamo entrare come non ammettiamo interventi estranei nelle cose nostre, siamoquindi disposti a esaminare la possibilità di una soluzione definitiva.Seguì un brusio confuso che subito si placò quando si alzò a parlare l'onorevole Nicola Bombacci. Questo discorso, che rappresenta l'ultimo importante

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atto politico compiuto da Bombacci nelle vesti di parlamentare comunista, è stato profondamente svalutato, deformato e anche ridicolizzato dalla storiografia di sinistra. Si tratta di manipolazioni che si rifanno ai giudizi a suo tempo espressi da Palmiro Togliatti secondo il quale "Bombacci, demagogo senza principi" cominciò "a vaneggiare, di fronteall'avvicinamento all'Unione Sovietica voluto da Mussolini, parlando di due rivoluzioni che si incontrano...".Al contrario, quello del 30 novembre fu il discorso più serio, più concreto, più ricco di segnali e di significati che Bombacci abbia pronunciato in tutta la sua carriera politica. Intervenendo alla Camera egli compì anche due atti di indisciplina gravissimi per l'etica comunista gramsciana e bordighiana. Non solo si rifiutò di leggere la solita dichiarazione preparata dalla direzione del partito, ma non informò neppure i dirigenti degli argomenti che intendeva analizzare. Si comportò in questo modo non per "vanità e sventatezza", come affermeranno i suoi compagni, ma semplicemente perché era conscio di avere le spalle protette. Oggi infatti sappiamo che aveva concordato l'intervento con la Missione sovietica a Roma e che aveva ricevuto l'imprimatur da Mosca.Dopo avere manifestato apprezzamento per le parole di Mussolini, Bombacci affrontò il tema precisando che non si sarebbe "assolutamente occupato della politica dei due Stati", ma solo delle ragioni economiche "che legano e tendono a legare strettamente i due paesi". Secondo lui era assai utile per entrambi raggiungere al più presto un accordo definitivo. Tuttavia, proseguì l'oratore con l'aria di chi è a conoscenza anche dei risvolti più segreti: "non vorrei, signor presidente, che fra gli stessi componenti del suo governo vi fosse qualcuno non favorevole alla ripresa dei rapporti con la Russia...". L'insinuazionedi Bombacci suscitò nell'aula mormorii e contestazioni. Lo stesso Mussolini reagì spazientito: "Onorevole Bombacci, si risparmi le insinuazioni. Il mio governo è compatto. Siamo tutti fa-

vorevoli al trattato". Bombacci non sembrò molto impressionato da questa perentoria smentita. Evidentemente sapeva quel che diceva. "Proprio tutti, signor presidente?" ribatté con una punta di ironia. "Me lo auguro di cuore! Vuol dire che qualcuno si è convertito all'ultimo momento, compreso il collega Federzoni..."Luigi Federzoni, ministro delle Colonie ed esponente dell'Associazione nazionalista italiana, sentendosi chiamato in causa protestò indignato. Seguirono altri clamori e contestazioni. Per nulla intimidito, appena tornata la calma Bombacci riprese il filo del discorso rivelando di essere perfettamente a conoscenza non solo dei negoziati italiani, ma anche di quelli che stavano portando avanti con Mosca le altre potenze dell'Intesa, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Egli sottolineò l'interesse che tutto l'Occidente

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtnutriva per le materie prime di cui la Russia era ricca, materie prime di cui l'Italia aveva urgente bisogno per non dipendere più dai paesi anglosassoni, in particolare per quanto riguardava il petrolio. "Per tutte queste ragioni" continuò alzando il tono della voce "per difendere la nostra economia e liberarla dalla schiavitù delle grandi compagnie petrolifere, io, signor presidente, la invito a concludere al più presto il trattato con la Russia." "Per fare un trattato" lo interruppe Mussolini "bisogna essere in due!" "Anche senon posso parlare a nome della Russia" replicò Bombacci "io posso assicurarle che l'altrocontraente non aspetta che il suo invito. Suppongo che la Russia sia tanto d'accordo su questo punto da rispondere "presente!" anche domani, se lei lo desidera."Proseguendo nel suo intervento, l'oratore comunista tornò ancora ad avanzare sospetti e insinuazioni a proposito di presunti complotti all'interno del governo per impedire il trattato. "Lei sa, signor presidente," chiese a un certo punto rivolgendosi direttamente a Mussolini "che proprio la settimana scorsa a Mosca sono state presentate delle precise condizioni per concludere il trattato? Io temo che non lo sappia. Io temo che lei non venga informato

con soverchia sollecitudine. Io temo che l'Italia non abbia le mani libere per trattare!" "Lemie mani sono liberissime" replicò risentito Mussolini mostrando le palme aperte. Ma eraevidentemente imbarazzato. Infatti, le indagini da lui subito ordinate dimostrarono che il telegramma inviato da Mosca contenente le condizioni cui si riferiva Bombacci "era statonascosto sotto una pila di documenti / da chi intendeva sabotare le trattative".Nicola Bombacci parlava dunque con perfetta cognizione di causa e, man mano che proseguiva il suo intervento,l'uditorio si faceva sempre più attento. Tutti avevano capito che stava pronunciando un serio discorso a nome deirussi. Dopo avere espresso le richieste sovietiche, Bom-bacci passò a parlare degli interessi dell'Italia e dei van-taggi che il trattato avrebbe comportato per la nostra eco-nomia: l'enfasi e lo slancio con cui lo fece sorpresero gliascoltatori visto che quelle parole infiammate di amor pa-trio uscivano dalla bocca di un comunista. "OnorevoleBombacci" gridò a questo punto il deputato fascista Giun-ta "c'è una tessera pronta per lei!" "Io non ho bisogno del-la vostra tessera" replicò Bombacci "per amare il mio pae-se. Le mie opinioni non mi impediscono di desiderare ilbene della nostra patria."Egli poi affrontò il tema che più gli stava a cuore, ossia I l'incontro delle due rivoluzioni, un'espressione nuova e

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txt ( inusitata che suscitò mormorii e proteste dai banchi della

sinistra. È infatti opportuno precisare che, nel lessico so-cialcomunista, "rivoluzione" era una parola sacra e cheutilizzarla per definire anche la presa di potere da partedei fascisti equivaleva a pronunciare una bestemmia. Insomma, per la sinistra la marcia su Roma non era statauna rivoluzione, ma un colpo di Stato o caso mai una controrivoluzione. Ora invece, per la prima volta, un deputa-to comunista chiamava rivoluzionari anche i fascisti e ad-dirittura auspicava un legame più stretto fra le duerivoluzioni. Di fronte a questo auspicio, il patto con il diavolo fra Roma e Mosca diventava innocua acqua fresca.

Non si trattava più di un semplice accordo commerciale, ma addirittura della sconcertanteproposta di unificare due politiche, di fondere due ideologie...Le parole di Bombacci provocarono in ugual misura proteste e applausi dalle due ali estreme del Parlamento. Sia fra i banchi comunisti sia fra quelli fascisti scoppiarono contrasti e scontri verbali fra chi applaudiva e chi fischiava, mentre l'aula ribolliva di commenti e considerazioni. Per conto di chi parlava il deputato Bombacci? "Vaneggiava", come sosterrà in seguito Palmiro Togliatti, o era stato ispirato da Mosca? L'interrogativo è destinato a restare sospeso: gli storici hanno finora trovato conferme della matrice sovietica solo per la prima parte dell'intervento di Bombacci. Per quanto riguarda l'avvicinamento delle due rivoluzioni, propendono a credere che sia stata un'iniziativa personale. Tuttavia Renzo De Felice ha rivelato che proprio in quei giorni il comunista Vittorio Ambrosino delegato del Comintern, aveva fatto pervenire al nostro ministero degli Esteri un'avance del "gabinetto Trotzkij" (ossia il gruppo di potere che si era formato attorno al fondatore dell'Armata Rossa in vista della successione a Lenin, ormai gravemente ammalato) per un'alleanza fra la Russia, la Germania e l'Italia.Come si vede, è difficile fare chiarezza. Resta il fatto che il discorso di Bombacci ebbe l'effetto di una deflagrazione e pregiudicò definitivamente la sua carriera politica. Malgrado la protezione sovietica, il suo partito non gli perdonò mai di avere riconosciuto che in Italia c'era stata una "rivoluzione fascista". Ma poiché le sue parole fecero tanto scalpore, sarà opportuno riportare integralmente la frase "incriminata". "La Russia" concluse Bombacci rivolgendosi verso i banchi fascisti "è su un piano rivoluzionario: se avete, come dite, una mentalità rivoluzionaria, non vi debbono essere per voi difficoltà per una definitiva alleanza fra i due paesi."Dopo il clamoroso intervento di Bombacci, Mussolini chiese subito la parola per rispondergli. Tuttavia evitò ac-

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curatamente di riferirsi anche in modo indiretto alle due rivoluzioni. Confermando la linea realistica di politica estera da lui propugnata, ammise la necessità di riprendere le trattative diplomatiche con la Russia. "Il problema" affermò, riscuotendo significative approvazioni anche da sinistra, "deve essere posto in questi termini di schietta e, oserei dire, brutale utilità nazionale. È utile per l'Italia, per l'economia italiana, per l'espansione italiana, per il benessere del popolo italiano, è utile il riconoscimento de jure della Repubblica russa? Io rispondo di sì."Il trattato fu naturalmente approvato con una larghissima maggioranza. Il governo di Mussolini, ossia dell'uomo che simboleggiava in Italia e in Europa la lotta al bolscevismo, era dunque il primo a riconoscere ufficialmente la Repubblica russa nata dalla rivoluzione d'Ottobre. Anche questa coincidenza è piuttosto significativa. Molti anni dopo, rievocando quel lontano episodio, Mussolini confiderà al suo biografo Yvon de Begnac:Bombacci fu uno dei fautori dell'accordo commerciale con la Russia. Il Partito comunistaitaliano non condivise il punto di vista da lui illustrato nel discorso che tenne alla Camerae lo invitò a rassegnare le dimissioni dal mandato. Non capii perché. Il trattato, in tutto e per tutto favorevole all'URSS, sembrò diventare il terreno di una discussione destinata a non avere più fine. L'avvocato Terracini, capo dei comunisti italiani, era fuori della graziadi Dio per i rapporti di cordialità intercorrenti fra me e l'ambasciatore sovietico. In quei giorni era morto Lenin, il lavoro di burocrazia del Cremlino andò a rilento. Alessandro Rykoff, successore di Lenin sul piano delle cariche statali, si era dimostrato amico dell'Italia eppure, per un attimo, le interferenze dei comunisti italiani avevano fatto arenare la firma del trattato italo-russo. Affidai al conte Manzoni il compito di rappresentare l'Italia fascista a Mosca. Bombacci -l'eterno controcorrente - ricominciò a fare la fame...Le parole pronunciate da Bombacci alla Camera furono oggetto di un infuocato dibattito anche all'interno del pcdi. Pochissimi sostennero 1'"eretico", la maggioranza definì il suo discorso "ignobile e ripugnante" e chiese la sua testa. Ma nel 1923 il Partito comunista non poteva an-

cora permettersi il lusso di espellere un militante così popolare. Il quale, per giunta, avevaricevuto vivissimi complimenti da Mosca per la sua azione parlamentare in favore dell'accordo Italia-URSS. D'altra parte, anche la base parteggiava per l'eretico. "Bombacci ha parlato per la Russia e per Lenin" si chiedevano gli operai. "Perché il partito vuole punirlo?"Il caso Bombacci rimbalzò a lungo fra Roma e Mosca. Infine il partito si limitò a punirlo

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtinvitandolo a dimettersi da deputato. Lui non ubbidì (sarà tuttavia escluso dalle liste per le elezioni della primavera del 1924). Frattanto, malgrado le proteste di Terracini che si trovava a Mosca, Bombacci era stato invitato dal Comintern nella capitale sovietica per discolparsi. Terracini chiese che egli fosse privato di ogni "autorità politica", ma il Comintern ribatté esortando il PCd'i a giudicare chiuso l'incidente e ad affidare in avvenire a Bombacci "missioni serie e responsabili".La morte di Lenin, avvenuta il 21 gennaio 1924, provocò la sospensione del "processo". Bombacci, che era a Mosca, alloggiato al famoso Hotel Lux dove erano ospitati i personaggi di riguardo, partecipò ai funerali di Lenin in prima fila, fra i massimi dirigentisovietici. Era evidente che Mosca continuava a considerarlo il suo uomo di fiducia.I contrasti proseguirono a lungo (Bombacci sarà espulso soltanto nel 1927). Rientrato a Roma, fu tenuto a distanza dal partito, ma non fu abbandonato dall'amico Zinov'ev che gli garantì un'occupazione definitiva e ufficiale presso la Missione commerciale sovietica, dove furono assunti anche una sua sorella nonché suo figlio Raoul. Amicizia con Zinov'ev a parte - d'altronde nell'ambiente bolscevico tale legame aveva un valore relativo -, era chiaro che Mosca riteneva che Bombacci avesse ancora un ruolo importante da svolgere in Italia. Ma quale? E molto difficile dirlo. Noi sappiamo soltanto che fino alla primavera del 1924, Benito Mussolini, sia pure in contrasto con i ras più duri, non aveva ancora abbandonato i suoi propositi di apertura a sinistra. Sarà il caso Matteotti a imporgli di cambiare strada.

XIINTERMEZZO: MUSSOLINI DITTATORE PER FORZAConfiderà Mussolini al giornalista Carlo Silvestri nel malinconico crepuscolo di Salò:Il più grande dramma della mia vita si produsse quando non ebbi più la forza di fare appello alla collaborazione dei socialisti e di respingere l'assalto dei falsi corporativi. I quali agivano in verità come procuratori del capitalismo, che voleva abbracciare il corporativismo per poterlo meglio soffocare. Tutto quello che accadde poi fu la conseguenza del cadavere di Matteotti che il 10 giugno 1924 fu gettato fra me e i socialisti per impedire che avvenisse quell'incontro che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla politica nazionale e forse non solo a quella nazionale.Nella villa sul lago di Garda diventata residenza del capo della Repubblica sociale, Mussolini disponeva di molto tempo libero: i suoi compiti istituzionali erano piuttosto vaghi, tanto più che l'effimero Stato, di cui Hitler lo aveva costretto ad assumere la guida,era in effetti governato dai tedeschi. Stanco, immalinconito, quasi straniato dalla drammatica realtà che lo circondava, trascorreva le giornate leggendo, scrivendo o rievocando con i rari interlocutori i tempi lontani della sua straordinaria avventura politica. Oltre a Nicola Bombacci, che in quei giorni gli era molto vicino, il confidente privilegiato al quale il Duce affidava le sue riflessioni, le sue recriminazioni e anche le

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtsue giustificazioni, era Carlo Silvestri, un altro personaggio "scomodo" che, come Bombacci, sarà cancellato dalla storia.Silvestri e Bombacci sono accomunati da un singolare

destino. Anche Silvestri, pur avendo combattuto aspramente Mussolini, se ne lasciò affascinare quando lo vide sconfitto, si illuse di poterlo restituire al socialismo e vagheggiò un altro ponte, quello che avrebbe dovuto garantire il passaggio indolore dei poteri dalla Repubblica sociale al Partito socialista.All'epoca del delitto Matteotti, Carlo Silvestri era il capo della redazione romana del "Corriere della Sera". Commentatore politico temuto e stimato, di convinzioni socialiste, nonché amico personale di Filippo Turati (condividevano lo stesso appartamento in via Campo Marzio 7), era stato il principale accusatore di Mussolini. Nello sbigottimento generale seguito all'assassinio del leader socialista, aveva avuto l'ardire di rompere il cupo silenzio che gravava sul paese scrivendo a chiare lettere sul "Corriere" che il mandante del delitto era il capo del governo in carica. "Se non foste stato voi" gli dirà Mussolini durante i loro colloqui sulle rive del Garda "nessuno allora avrebbe osato fare il mio nome quale responsabile della morte di Matteotti."La cosiddetta campagna aventiniana seguita all'uccisione del capo dell'opposizione socialista è infatti indissolubilmente legata al nome del giornalista milanese. La condusse in pratica da solo. I suoi articoli e le sue inchieste, pubblicati prima sul "Corriere" e poi sul cattolico "Popolo" (poiché anche il quotidiano di Milano ritenne a un certo momento opportuno prendere le distanze dall'irriducibile accusatore), costituiscono oggi l'unica fonte cui attingono gli storici di quel periodo.Molti, però, dimenticano o nascondono il fatto che l'autore di quella documentata denuncia in seguito si è ricreduto. Ciò è accaduto in tempi non sospetti, ossia quando Carlo Silvestri aveva tutto da guadagnare nel riconfermare la sua antica accusa a Benito Mussolini. Il suo passato eroico di antifascista (subì violente aggressioni e trascorse dieci anni fra carceri e confino) gli avrebbe infatti garantito un brillante avvenire. Invece, nel 1947, quando venne

celebrato a Roma, per la seconda volta, il processo Matteotti, il principale accusatore di Mussolini si trasformò nel suo maggior difensore. Fra lo stupore generale smontò la sua accusa spiegando dettagliatamente come e perché tutte le prove da lui raccolte a suo tempo contro Mussolini gli erano apparse false o errate. Rivolgendosi direttamente al procuratore generale Giovanni Spagnuo-lo, dichiaròIo mi rendo conto che se confermassi la mia vecchia deposizione il caso Matteotti sarebbe facilmente risolto. E i giornali del conformismo antifascista mi farebbero fare

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtuna figurona. Ma sarei onesto se consentissi che la storia del secondo semestre del 1924 possa farsi sulla base di documenti che io non mi sento più di sottoscrivere nella loro integrità? Sarei onesto se non rivelassi il mio preciso e definitivo pensiero, e cioè che l'uccisione di Matteotti ebbe in realtà moventi antiproletari e antisocialisti?La clamorosa ritrattazione di Silvestri suscitò vivacissime polemiche. La stampa di sinistra lo attaccò e lo svillaneggiò. Il più duro fu Giancarlo Pajetta che rivolse al teste accuse infamanti, definendolo sull'"Unità" "losco avventuriero" e "agente provocatore di rango". In risposta, Carlo Silvestri rilasciò questa dichiarazione:È supremamente sciocco attribuire proprio a me l'intenzione di una postuma apologia mussoliniana. Avrei rovinato la mia esistenza per non piegarmi a Mussolini e al fascismo,avrei rinunciato per vent'anni al giornalismo, avrei sopportato le prove più dure e le rinunce più gravi, per attendere di convertirmi alla fede in Mussolini dopo che con la sconfitta in guerra e la rovina del Paese - di cui certo la prima responsabilità è sua - egli si era autoseppellito ed aveva ucciso il fascismo?Una presa di posizione così decisa e così rischiosa avrebbe dovuto far riflettere. Carlo Silvestri non era un uomo qualsiasi. Il suo passato era di tutto rispetto. Giornalista famoso, aveva rinunciato alla carriera per difendere le proprie opinioni. Aveva subito gravi persecuzioni e, durante la guerra civile, si era distinto in azioni umanitarie dando vita alla cosiddetta Croce rossa Silvestri cui de-

vono la vita centinaia di partigiani e di esponenti politici antifascisti. Invece non fu creduto. D'altra parte non erano tempi favorevoli al revisionismo storico: Mussolini andava semplicemente demonizzato e Silvestri invece osava andare controcorrente... Di conseguenza, essendo inattaccabile nel suo operato, fu trattato alla stregua di un mitomane e in seguito definitivamente ignorato come si usa fare con i personaggi imbarazzanti. Morirà qualche anno dopo di crepacuore.Torniamo al delitto Matteotti o, meglio, alla cronaca nuda e cruda dell'avvenimento. Di solito, infatti, nei grandi misteri italiani - quello di Matteotti fu il primo di una lunga serieche si è protratta fino ai nostri giorni - la cronaca spicciola viene spesso trascurata e sommersa dal polverone dei commenti e delle strumentalizzazioni politiche. Sovente si costruiscono quindi castelli su fondamenta fragilissime e discutibili. Prendiamo ad esempio due casi eclatanti relativamente recenti: i delitti Montesi e Pasolini. Wilma Montesi fu trovata cadavere sulla spiaggia di Tor Vaianica e si disse che vi era stata gettata dopo essere morta nel corso di un'orgia con personaggi illustri e famosi nell'esclusiva tenuta di Capocotta. Da quella tragica vicenda sortì, come è noto, uno scandalo che fece tremare l'Italia. Ma dalla cronaca risulta che il cadavere di Wilma, sottoil modesto abitino, indossava un paio di mutandine di rigatino di cotone rammendate in

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtpiù punti, mentre nel suo stomaco furono trovate delle tracce di gelato. Possibile che le ragazze romane andassero alle orge con le mutandine di cotone rammendate dalla mamma per mangiare innocui gelati?Pier Paolo Pasolini, come è stato detto, scritto e anche narrato in un film, sarebbe stato vittima di un complotto organizzato dai fascisti. Ma dalla cronaca risulta che fu ucciso dai colpi vibratigli con un'asse raccolta da terra presso un cantiere edile. Possibile che gli organizzatori

del complotto non disponessero di un'arma meno impropria?Giacomo Matteotti, invece, fu ucciso a colpi di lima... Ma cominciamo dal principio.Il pomeriggio di domenica 10 giugno 1924, mentre passeggiava sul lungotevere Arnaldo da Brescia, Matteotti fu aggredito e caricato a forza su un'automobile. Il suo cadavere sarà ritrovato una decina di giorni dopo, sepolto sotto un palmo di terra in un bosco detto della Quartarella a pochi chilometri dalla capitale. In Italia l'impressione fu enorme. Anche se da anni l'opinione pubblica era abituata alle violenze fasciste, una cosa simile non era mai accaduta: Matteotti era di fatto il capo dell'opposizione e la sua notorietà valicava i confini del paese.Ma perché e per conto di chi era stato ucciso il leader socialista? Anche se l'opinione pubblica ha sempre considerato come mandante Benito Mussolini, in tempi successivi sono state avanzate altre ipotesi. Oltre a Mussolini e alla sua "ceka" (così era chiamata, come quella bolscevica, la polizia segreta del partito), di volta in volta furono accusati il re, le camarille di corte, imprecisati ambienti affaristici genovesi e persino una multinazionale americana interessata a delle ricerche petrolifere in Emilia. Per tutti costoro il delitto avrebbe avuto un duplice scopo: bloccare la "sterzata a sinistra" di Mussolini e impedire a Matteotti di fare una serie di rivelazioni su certi intrighi affaristiciche si svolgevano all'ombra del Viminale. Nessuno, invece, ha mai preso in esame l'ipotesi forse più realistica del delitto per errore. Analizziamola insieme.Il 6 aprile 1924 il "listone" fascista aveva stravinto le elezioni politiche conquistando 374seggi su 535. Il 30 maggio, all'inaugurazione della nuova Camera, Matteotti aveva mossoun durissimo attacco personale a Mussolini con la veemenza e il coraggio che gli erano propri. Ma non è esatto affermare, come è stato fatto, che il leader socialista si proponesse di invalidare la legislatura denunciando le violenze e i brogli che si sarebbero verificati du-

rante le elezioni. In realtà, tali violenze furono molto limitate e le operazioni elettorali si svolsero in maniera regolare. D'altra parte, con i brogli e con le violenze non si ottiene unrisultato così strepitoso. Il "listone" ebbe infatti più del 66% dei voti.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtMatteotti, comunque, non si proponeva questo, bensì intendeva, come osserva Renzo De Felice, inaugurare un nuovo modo di stare all'opposizione, "più aggressivo, più intransigente, violento addirittura...". Voleva cioè scavare un fossato insuperabile fra maggioranza e minoranza per rendere impossibili combines e accordi sottobanco. Egli, infatti, non ignorava che Mussolini aveva in mente di imbarcare nel governo almeno una parte dell'area socialista. Come non ignorava che molti suoi compagni e, in particolare, i dirigenti della CGIL non erano insensibili alle avance dell'ex socialista di Predappio. Matteotti, Turati, Treves e gli altri dirigenti riformisti erano invece fieri avversari della cosiddetta pacificazione e trattavano l'ex direttore rivoluzionario e massimalista dell'"Avanti!" persino con una punta di altezzoso snobismo.Il discorso di Matteotti del 30 maggio irritò profondamente Mussolini che si sentì offeso anche sul piano personale. Al termine dell'intervento non nascose la sua rabbia e lo si udì anche pronunciare frasi minacciose, come: "Cosa fa la ceka? Quell'uomo non dovrebbe più circolare...". Ma questo accadeva la sera del 30 maggio, mentre il 7 giugno, evidentemente rabbonito, Mussolini aveva rilanciato le sue lusinghe a sinistra suscitando commenti e preoccupazione fra i capi socialisti più intransigenti, ma anche fra i duri del fascismo toscano ed emiliano ostili a ogni cedimento a sinistra.Il pomeriggio di domenica 10 giugno Giacomo Matteotti fu aggredito sul lungotevere Arnaldo da Brescia da cinque energumeni fascisti i quali intendevano evidentemente rapirlo e non dargli, come si diceva allora, soltanto una lezione. I manigoldi erano ex arditi milanesi che facevano capo alla ceka guidata e finanziata da Giovanni Marinelli,

segretario amministrativo del Partito fascista. Questi i loro nomi: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo, Augusto Malacria. Gli aggressori non erano armati e viaggiavano a bordo di una Lancia di proprietà del direttore del "Corriere italiano" Filippo Filip-pelli, un personaggio molto introdotto nell'ambiente affaristico genovese. Amerigo Dumini aveva ritirato la macchina da un'autorimessa rivelando la propria identità. Per questo sarà facile identificare gli aggressori.Benché solo contro cinque, il deputato socialista si batté da leone. Aveva trentanove anni e una buona preparazione atletica. Sferrò pugni, calci, chiese gridando aiuto e, prima di essere ficcato a forza dentro la macchina, ebbe anche l'accortezza di gettare dal finestrino il tesserino di deputato. Anche a bordo dell'auto Matteotti continuò a lottare. Un colpo più violento degli altri gli provocò una lesione polmonare e un getto di sangue gli uscì dalla bocca, ma lui non si arrese. Spinto a forza sotto il sedile posteriore della vettura giunse persino a mordere i polpacci degli aggressori che gli stavano sopra. A questo punto, uno dei quattro impugnò una lima dimenticata sul cruscotto da un meccanico e colpì con rabbia alla cieca...Dopo l'assassinio, che evidentemente non avevano intenzione di compiere considerata la

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtsequenza dei fatti, i criminali vagarono per ore senza meta nel disperato tentativo di occultare quel delitto che avevano abbondantemente "firmato". Verso sera il cadavere fu seppellito alla meglio nel bosco della Quartarella dove sarà ritrovato dal cane di un cacciatore. Risulta che gli assassini informarono dell'accaduto il gerarca Marinelli, poi si dileguarono.Il resto è noto. L'atroce omicidio mise in crisi il regime. Mussolini, terrorizzato da quel morto che, a suo dire, "i nemici gli avevano gettato fra i piedi", ebbe un attacco d'ulcera che si protrasse per settimane. Pensò seriamente alle dimissioni. Anche alcuni ministri, fascisti e liberali, abbandonarono il governo. Seguirono mesi molto confusi: mentre correvano voci incontrollate di un possibile colpo

di Stato, i deputati dell'opposizione decisero di non partecipare più ai lavori della Camerae si ritirarono simbolicamente sull'Aventino come aveva fatto la plebe romana. Ma non erano più i tempi di Menenio Agrippa e l'abbandono dell'aula favorirà i fascisti. A Montecitorio, infatti, rimasero soltanto i diciannove deputati comunisti i quali, per la verità, non sembravano troppo addolorati per l'uccisione del "pellegrino del nulla", come Gramsci aveva definito Matteotti nel necrologio apparso sull'"Unità".Non essendosi verificata la reazione popolare inizialmente temuta - la CGIL non proclamò neppure questa volta lo sciopero generale -, le acque lentamente si calmarono. Mussolini, che aveva ricevuto una valanga di telegrammi di solidarietà, conservati ancoratutti all'Archivio di Stato con le autorevolissime firme, era ancora incerto. A spingerlo a rompere ogni indugio fu il cosiddetto "pronunciamento dei consoli": i capi della milizia andarono da lui minacciando l'insurrezione nelle province nel caso lui avesse rinunciato al mandato. Roberto Farinacci già si stava scaldando ai bordi del campo per prendere il suo posto, mentre, da parte sua, Italo Balbo proponeva sbrigativamente la fucilazione dei responsabili.Fu per questo che Mussolini scelse la linea dura. Il 3 gennaio 1925 pronunciava alla Camera un discorso spregiudicato nel quale si assumeva la responsabilità politica, moralee storica di quanto era accaduto. "Se il fascismo è un'associazione a delinquere" dichiarò "io sono il capo di questa associazione a delinquere!" Da quel momento l'Italia cambiava rotta: finiva la democrazia, iniziava la dittatura e la sinistra aveva il suo martire da collocare sugli altari... Nessuno sembrò incuriosirsi per quel piccolo particolare di cronaca che invece, a mio parere, fa ancora traballare l'intera impalcatura dell'affaire: l'arma usata dagli assassini. Possibile che il capo del governo (o il re o i gruppi finanziari o la multinazionale americana), proponendosi di fare ammazzare il capo dell'opposizione,non disponesse di killer meno rozzi, dotati di armi più efficaci

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdi una lima arrugginita? Ma tant'è: forse faceva comodo a tutti ignorare quel piccolo particolare...Da allora in poi, la tradizione antifascista riconoscerà in Mussolini il mandante del delittobasandosi sugli autorevoli articoli di Carlo Silvestri (il quale, nel frattempo, era stato nominato segretario del Comitato delle opposizioni aventiniane presieduto da Alcide De Gasperi: questo per dimostrare a quale livello politico operava il controverso personaggio). In realtà, dopo il delitto gli interrogativi durarono a lungo e i dubbi tormentarono molte coscienze. Se Mussolini intendeva aprire ai socialisti, ci si chiedeva, perché avrebbe fatto uccidere il loro leader? E se si proponeva il contrario, quale vantaggio gliene sarebbe derivato? Anche Renzo De Felice conviene autorevolmente che l'uccisione di Matteotti non giovava comunque a Mussolini "sia che egli volesse aprire a sinistra, sia che pensasse a svolte radicali. Nell'uno caso o nell'altro non avrebbe ottenuto alcun vantaggio".Mussolini, tuttavia, pensava effettivamente di costituire un governo aperto a sinistra. Dai suoi appunti autografi si può anche ricavare la "rosa" dei canditati da lui prescelti. Al liberale Giovanni Amendola doveva andare l'Educazione nazionale; al socialista Ludovico D'Aragona, leader della CGIL, il Lavoro; a Bruno Buozzi, segretario della FIOM, "un ministero tecnico". Fra parentesi si legge anche il nome di Baldesi, altro sindacalista socialista. La Sanità sarebbe dovuta andare al medico socialista Giulio Casalini. Quanto alle Finanze e al Tesoro, Mussolini indicava Ivanoe Bonomi, se avesse deciso di unificare i due ministeri; altrimenti sarebbero andati il Tesoro a Bonomi e le Finanze a Emilio Caldara, ex sindaco socialista di Milano. A Rinaldo Rigola, un sindacalista cieco, popolarissimo, sarebbe spettato un ministero senza portafoglio. Numerosi socialisti figuravano anche fra i candidati sottosegretari: Argentina Altobelli, organizzatrice delle lavoratrici dei campi, all'Agricoltura; Ettore Reina all'Istruzione popolare; Felice Quaglino, capo del sinda-

cato muratori, al Lavoro italiano all'estero; Ludovico Calda, sindacalista di Genova, alle Organizzazioni portuali. Fra gli appunti mussoliniani si legge anche il nome di Giuseppe Canepa, direttore del "Lavoro" di Genova, seguito da un punto interrogativo.Mussolini dittatore per forza? Questo si dovrebbe desumere leggendo con occhi innocentisti gli avvenimenti di quei giorni. Di tale parere era, per esempio, Italo Balbo, allora capo della Milizia. Proprio nello stesso periodo, in un incontro-scontro che ebbe a Montecitorio con Carlo Silvestri, il ras di Ferrara gli fece questa sconcertante dichiarazione: "Il discorso del 7 giugno esclude in maniera assoluta che Mussolini sia responsabile del delitto". Poi, dopo avere confermato che era effettivamente in preparazione un grande governo con parecchi ministri socialisti, Balbo aggiunse: "Ora ti sbalordirò, ma Mussolini era molto timoroso nell'imboccare la strada dell'autoritarismo

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtche lo avrebbe portato inevitabilmente alla dittatura. Ora però, per conseguenza del delitto Matteotti, sarà costretto a fare il dittatore senza averne la stoffa. E saranno guai. Un dittatore" continuò Balbo "non deve avere scrupoli di nessun genere e soprattutto non deve avere paura del sangue. Se Mussolini avesse avuto la tempra del dittatore (e tanto più se si fosse sentito colpevole) non avrebbe esitato cinque minuti a mettere al muro la squadra di Dumini, nonché Marinelli e Filippelli. Tu dal suo rifiuto di accogliere la mia proposta di un giudizio sommario derivi elementi di accusa verso Mussolini, io vi vedo invece la prova della sua innocenza".Fra gli innocentisti figurava incredibilmente anche la vedova di Matteotti, Velia Ruffo, sorella del famoso baritono Titta Ruffo. La cosa è poco nota poiché, per ovvie ragioni politiche, è sempre stata tenuta nascosta. Il fatto è che la signora Matteotti non sospettò diMussolini neppure nelle ore immediatamente successive al delitto. Anzi, il 13 giugno 1924, tre giorni dopo la scomparsa del marito, si presentò alla Camera e chiese di essere accompagnata

da Mussolini. "Ci vollero e i savi e i matti" scriverà Turati ad Anna Kuliscioff "per persuaderla a rincasare. Ora però è convinta che la si osteggi per i nostri particolari interessi politici."Ma Velia Ruffo aveva solo fatto finta di arrendersi alle preghiere di Turati: quello stesso giorno, infatti, riuscì effettivamente a incontrare Mussolini con cui ebbe un lungo colloquio privato. Più tardi, Turati la vide e la "rimproverò dolcemente": la vedova gli rispose che "non aveva ritenuto di tradire il suo morto". A un rimprovero meno "dolce", mossole da Claudio Treves, Velia ribatté risentita: "Lei creda quello che vuole, ma la mia opinione è opposta alla sua e non riuscirà mai a convincermi!". In seguito, quando la donna morì lasciando in ristrettezze i figli Giancarlo, Gian Matteo e Isabella, Mussolini interverrà personalmente per fornire loro aiuto, nonché i mezzi per terminare gli studi.La campagna intrapresa contro Mussolini costò a Carlo Silvestri una serie di violente aggressioni, nonché una decina d'anni di galera e di confino nelle isole. Fu appunto peregrinando fra Ponza, Lipari e Ustica e ascoltando testimoni e protagonisti della vicenda che Silvestri cominciò a ricredersi. Poi, dopo avere accertato che le prove da lui raccolte erano risultate false, cominciò a provare dei rimorsi di coscienza. L'uomo era fatto così, la purezza del suo animo era persino sconcertante. Non tardò infatti a rivelare ai compagni di prigionia il dubbio che lo tormentava. Naturalmente fu redarguito e invitato a frenare la sua libido veritatis. "Proprio tu, il principale accusatore, hai il dovere di non manifestare delle perplessità" gli disse un giorno Carlo Rosselli, suo compagno di confino. "Se tacerai, non violerai nessuna legge morale, mentre se parlerai incrinerai di dubbiosità l'accusa esplicita contro Mussolini. Lui non ha avuto per noi scrupoli morali, noi non dobbiamo averne per lui."

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtSilvestri mantenne a lungo segreti i suoi dubbi. Il fatto che non li abbia esternati durante il Ventennio va a suo /

onore, poiché il regime lo avrebbe certamente ricompensato. Ma dopo l'8 settembre 1943,quando ormai Mussolini perdeva progressivamente potere, Silvestri pensò fosse giunto il momento di riprendere la sua inchiesta e di interrogare il principale protagonista. A spingerlo in questa direzione furono motivazioni diverse. In primo luogo fu quella voglia di verità che dovrebbe animare ogni giornalista. Ma ci furono anche altre considerazioni. Come vedremo ampiamente più avanti, in quel crogiolo di fanatici, di illusi e di disperati che era la Repubblica sociale, si era costituito anche un Raggruppamento socialista cui avevano aderito vecchi militanti politici e sindacali che si erano lasciati inspiegabilmente attrarre nel "cerchio magico" del Mussolini sconfitto. Costoro avevano rapporti anche con alcuni esponenti della Resistenza e progettavano la costruzione del mitico ponte che avrebbe consentito il passaggio indolore dalla Repubblica sociale a una repubblica socialista e democratica. Un sogno assurdo? Probabilmente sì, ma quando la storia ci porta sull'orlo dell'abisso la speranza è l'ultima a morire.Sul progettato tentativo di riavvicinare il Duce al PSI gravava come un macigno il cadavere di Matteotti. Solo scagionando Mussolini da quel lontano delitto, chissà... Probabilmente fu questa considerazione a indurre Silvestri a scoprire le sue carte. Con la collaborazione di due fascisti "morbidi" in qualche modo interessati alla costruzione del ponte, il ministro della Giustizia Piero Pisenti e il ministro dell'Educazione nazionale Carlo Alberto Biggini, chiese udienza al Duce. Gli fu subito concessa.Silvestri fu ricevuto da Mussolini a Gargnano il 2 dicembre 1943. "Voi avete avuto il torto" gli disse questi appena fu seduto davanti al suo tavolo "di non venire da me quandomandai a chiamarvi. Ma diciannove anni non contano per ristabilire le verità. Io non ho difficoltà a rispondere alle vostre domande. Anzi" aggiunse con un mezzo sorriso "vi considererò il mio giudice istruttore."Al colloquio erano presenti Nicola Bombacci e il prefet-

to Luigi Gatti, un giovane di trentadue anni - finirà anche lui a piazzale Loreto - collaboratore fidato di Bombacci e da lui scelto come segretario particolare del Duce, onde evitare le interferenze degli inaffidabili gerarchi di Salò. "Bombacci e Gatti" spiegò Mussolini "sono stati da me incaricati di accertare le fondamentali responsabilità del delitto Matteotti. Il loro lavoro è già a buon punto." E così dicendo indicò un voluminoso fascicolo legato con un nastrino tricolore, appoggiato sul suo tavolo. "Qui c'è la conferma" aggiunse "di quanto affermai nel mio discorso al Senato nell'estate del 1924: ildelitto è stato compiuto non da me, ma contro di me!"

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtDa quel giorno sino alla fine dell'aprile 1945, Carlo Silvestri ebbe svariati colloqui con Mussolini che trascrisse integralmente sui suoi taccuini - era un veloce stenografo - corredandoli di considerazioni e descrizioni d'ambiente. Più tardi pubblicherà tutto il materiale raccolto, cui aggiungerà i verbali del secondo processo Matteotti celebrato a Roma nel 1947, in un libro ormai introvabile dal lungo e significativo titolo: Matteotti, Mussolini e il dramma italiano: il delitto che ha mutato il corso della nostra storia.Naturalmente, non possiamo garantire la veridicità della "deposizione" rilasciata da Mussolini al suo giudice istruttore. E, infatti, chiaro che egli in quel momento preparava la sua difesa, se non davanti al tribunale degli uomini, certamente a quello della storia. Tuttavia la sua tesi, oltre che credibile, ci pare confermata dalle recenti revisioni storiche.Ecco, per esempio, una delle più significative dichiarazioni di Mussolini:Alle origini dell'assassinio di Matteotti vi fu un putrido ambiente di finanza equivoca, di capitalismo corrotto e corruttore, privo di ogni scrupolo, di torbido affarismo. S'era sparsa la voce che nel suo prossimo discorso alla Camera (sull'esercizio finanziario) Matteotti avrebbe prodotto documenti tali da portare alla rovina certi uomini che erano pervenuti a infiltrarsi profondamente tra le gerarchie fasciste. L'idea di catturare Matteottiper metterlo nell'alternativa o di restituire gli accennati documenti o di perdere la vita, sorse in questo sporco ambiente dove, ogni volta che riprendeva a circolare

la voce di una possibile collaborazione fra me e i socialisti, si manifestava immediata unareazione che chiamerei feroce. Il discorso del 7 giugno fece temere che io mi fossi definitivamente orientato nel senso di offrire ad alcuni socialisti la partecipazione al ministero. Da ciò forse il precipitare dei tempi, da ciò la cattura di Matteotti, già da parecchi giorni predisposta, avvenuta nel pomeriggio del 10 giugno.Silvestri rivela ancora di avere seguito da vicino le indagini sul caso portate avanti da Bombacci e da Gatti. Un giorno, dopo che Bombacci si era recato a Genova dove si era fermato qualche tempo - per parlare ai lavoratori nel disperato tentativo di "convincerli delle sincere intenzioni socialiste di Mussolini", ma anche perché era convinto che si trovasse a Genova la chiave del mistero Matteotti -, Silvestri raccolse da lui la seguente dichiarazione: "Purtroppo gli imputati non ci sono più. Dopo essere stati manutengoli dei fascisti e dei tedeschi, ora saranno al servizio degli inglesi o meglio ancora degli americani. Comunque ci sono i nomi. Ma sino a quando Mussolini non mi autorizza, io non te li posso ripetere".Quei nomi erano contenuti nel fascicolo legato col nastrino tricolore. Questo dossier, che è stato visto da molti testimoni, faceva parte del bagaglio che Mussolini portò con sé quando, il 25 aprile 1945, iniziò quella fuga che si sarebbe tragicamente conclusa a Dongo. Da allora è scomparso, come sono scomparsi tanti altri carteggi in cui il Duce custodiva altri segreti scottanti.

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XIIL'IGNOTO BENEFATTORE"E se scrivessimo a Mussolini?" si azzardò a domandare Erissena al marito che guardava nel vuoto con occhi sgomenti. "Forse lui ci aiuterebbe..."All'inizio del 1930, la situazione economica della famiglia Bombacci era notevolmente peggiorata. A ciò si era aggiunta una terribile disgrazia: il piccolo Vladimiro, di otto anni,si era fratturato le vertebre cervicali e necessitava di cure delicate e costose che l'ex deputato comunista, oberato di debiti e tallonato dai creditori, non poteva assolutamente permettersi. La figlia Gea, allora giovinetta, ricorda ancora quei giorni disperati."Io non posso. Non me la sento..." borbottò Bombacci evitando lo sguardo angosciato della moglie. "Ma tu sì" aggiunse. "Tu puoi farlo: ti lascio libera, come madre."Non sappiamo cosa scrisse Erissena a Mussolini, poiché negli archivi, peraltro molto ordinati, della segreteria particolare del Duce, non c'è traccia della sua lettera. Tuttavia, tre giorni dopo, un agente della "presidenziale" bussava alla porta dell'appartamento di via Cassiodoro dove abitavano i Bombacci. L'apparizione del milite destò una certa apprensione: poliziotti o carabinieri non recavano mai buone notizie in quella casa. L'agente comunque si limitò a consegnare un plico a Erissena, poi si allontanò senza fornire spiegazioni. La busta portava l'intestazione della presidenza del consiglio dei ministri e conteneva il biglietto di uno scompartimento riservato del wagon-lit per Bologna e la prenotazione di una delle tre camere di

prima classe di cui allora disponeva la clinica Rizzoli del professor Putti. Nient'altro: neppure un rigo d'accompagnamento. Ma dall'intestazione della busta i Bombacci non faticarono a indovinare chi fosse il benefattore.Erano trascorsi sei anni da quando l'assassinio di Giacomo Matteotti aveva impresso una drastica svolta alla storia d'Italia. Ora il paese era sottoposto a un regime dittatoriale; la stampa era stata imbavagliata, l'opposizione liquidata e i suoi principali esponenti erano in carcere, all'estero o ritirati a vita privata. Benito Mussolini, diventato ormai il Duce, governava applaudito e indisturbato; non aveva più rivali neppure all'interno del partito. Da parte loro, gli italiani si erano docilmente adeguati alla nuova situazione e, per la verità, dopo anni di disordini e di convulsioni rivoluzionarie quella calma piatta, anche seimposta con la forza, a ben pochi tornava sgradita.Di Nicola Bombacci negli anni che vanno dal 1924 al 1930 sappiamo poco. La stampa, infatti, lo ignora, mentre i rapporti di polizia, basati come al solito su voci e dicerie raccolte dagli informatori prezzolati, sono vaghi, imprecisi, spesso inaffidabili. Egli vienedi volta in volta indicato come agente al servizio dei sovietici, ma anche come infiltrato della polizia fascista nell'ambasciata russa. Probabilmente non era né l'uno, né l'altro, ma

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtveniva semplicemente usato come comodo trait d'union da entrambe le parti.Dopo il delitto Matteotti, benché completamente isolato dal suo partito, Bombacci aveva continuato a godere della protezione sovietica e anche di quella indiretta di Mussolini. L'uccisione del leader socialista non aveva infatti minimamente turbato gli idilliaci rapporti che Mosca manteneva con Roma. Appena una settimana dopo l'uccisione di Matteotti - caso abbastanza sconcertante che non mancò di inorridire la sinistra italiana -, l'ambasciata sovietica a Roma aveva offerto un ricevimento in onore di Benito Mussolini al quale, unico italiano "non fascista" fra i presenti, aveva partecipato anche Nicola Bombacci.

Nel frattempo, la posizione dell'ex deputato comunista si era ulteriormente rafforzata all'interno dell'ambasciata sovietica. Il nuovo ambasciatore, Lev Kamenev, era infatti legatissimo al presidente del Comintern Gregorij Zi-noVev: li chiamavano i "dioscuri di Leningrado" ed erano, con Trotzkij e Bucharin, i principali candidati alla successione di Lenin. Qualche anno dopo, Stalin li farà fucilare entrambi.La presenza di Kamenev a Roma testimonia quale importanza attribuissero i sovietici ai rapporti con l'Italia fascista. Grazie alla protezione della coppia Zinov'ev-Ka-menev, in quegli anni Nicola Bombacci fu sicuramente al centro di importanti iniziative di diplomazia segreta. E infatti curioso notare che, mentre gli altri capi comunisti erano ricercati o incarcerati, lui era lasciato libero di fare la spola fra Roma e Mosca. Ufficialmente si occupava di export-import e trattava per conto dei russi importanti operazioni commerciali. Un rapporto dell'ambasciata italiana a Mosca riferisce che, nell'occasione di una spedizione di grano russo, Bombacci disse al delegato italiano: "Riferisca all'onorevole Mussolini che per la mia patria egli avrà il grano migliore alle migliori condizioni".Successivamente, sempre con l'appoggio sovietico, Bombacci fondò a Roma una Società anonima italo-russa per gli scambi commerciali che ben presto oscurò tutte le altre società private che avevano rapporti con l'URSS. Ma ciò che è più curioso, e anche sospetto, è che l'ex deputato comunista ottenne dalle autorità fasciste persino il permesso di pubblicare una rivista sovvenzionata da Mosca nell'ordine di diecimila lire al mese. Si intitolava semplicemente "L'Italo-russa" e si proponeva, come dichiarava lo stesso Bombacci nell'articolo di apertura, "di illustrare le ricchezze dell'URSS e le sue audaci innovazioni politiche, economiche e culturali per dimostrare agli italiani che l'Italia risolverà i suoi problemi e la sua dura crisi economica solo quando avrà compresa la necessità di un'unione solida e fraterna con la Russia soviettista". La

rivista si proponeva anche di incoraggiare l'emigrazione italiana in Crimea dove già

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtesisteva una colonia di agricoltori pugliesi ora accomunati nel kolchoz Sacco e Vanzetti.Salvo un "incidente" di cui diremo, in quegli anni Bombacci non fu nemmeno sfiorato dall'ondata repressiva abbattutasi sugli altri leader dei partiti comunista e socialista: era trattato come un elemento non pericoloso, la polizia lo sorvegliava discretamente, come risulta dagli archivi del ministero dell'Interno, ma non ricevette neppure mai un'ammonizione, che era il provvedimento più blando contro i sovversivi. L'impunità di cui godeva alimentò naturalmente i sospetti sulla sua persona e diede adito anche a qualche leggenda. Si raccontava, per esempio, che Mussolini stesso avesse cancellato il suo nome dalla lista dei sovversivi candidati al confino affermando: "Con questo me la vedo io".L'incidente di cui si diceva accadde verso la fine del 1925 quando, per la seconda volta, la sua casa fu invasa dai fascisti e data alle fiamme. Questo episodio è piuttosto misterioso. Poiché nell'abitazione di Bombacci aveva sede anche la direzione della Società anonima italo-russa, non è da escludere che gli squadristi siano stati assoldati da uomini d'affari desiderosi di eliminare l'intermediario attraverso il quale dovevano passare per trattare i loro commerci con la Russia. La società di Bombacci, infatti, si comportava come gli export-import del PCI di recente memoria: chi voleva commerciare con l'URSS doveva versare una tangente. Ignoriamo dove finissero quei fondi neri. Non certo in tasca di Bombacci il quale anche in quel periodo particolarmente fruttuoso, non modificò di molto il suo modesto tenore di vita.Nonostante la "scomunica" seguita al suo famoso discorso sulle due rivoluzioni, Bombacci era ancora ufficialmente un militante comunista. Solo nel 1928, contravvenendo alle disposizioni del Comintern, la direzione del pci decise la sua espulsione ufficiale. La notizia venne

pubblicata sull'"Unità" clandestina e motivata con la consueta formula di "indegnità politica e morale". La sua espulsione non ebbe tuttavia conseguenze negative, l'ambasciata sovietica infatti gli riconfermò la fiducia e gli affidò altri incarichi, compresoquello di distribuire in Italia film e documentari russi. Bombacci continuò insomma a essere al centro di tutti i contatti, anche delicati, che intercorrevano fra il governo di Mosca e quello di Roma. Fu lui, per esempio, a organizzare l'incontro fra Kamenev e Mussolini. Più tardi, fu ancora incaricato di occuparsi della visita a Roma del commissario del popolo agli Esteri, Maksim Litvinov, suo vecchio amico, e del conseguente colloquio ufficiale con il Duce.Solo agli inizi del 1930 i rapporti di Bombacci con l'ambasciata sovietica andarono gradatamente allentandosi. Ciò è certamente dovuto al fatto che in Russia le cose stavano cambiando. Dopo avere eliminato Trotzkij e Bucha-rin, Stalin decise di liquidare anche i dioscuri di Leningrado che fino a quel momento erano stati suoi alleati. Kamenev venne

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtrichiamato a Mosca e inviato a dirigere una cooperativa oltre gli Urali con il suo amico Zinov'ev (saranno fucilati più tardi, nel 1936).Per Bombacci, rimasto senza i suoi autorevoli protettori, fu la fine di un ciclo politico e anche l'inizio di una difficile crisi economica. Privato fin dal 1924 dell'indennità parlamentare, l'ex deputato aveva ricavato i suoi mezzi di sostentamento dall'attività prestata al servizio dei russi. Ora era disoccupato, senza prospettive e, per giunta, con un figlio malato e un altro un po' scapestrato che si era riempito di debiti.Raoul Bombacci nel 1930 aveva ventisei anni. Dopo aver vissuto a lungo in Russia primacome studente e poi come impiegato in una cooperativa agricola, era rientrato in Italia nel1925 per adempiere al servizio militare. Era rimpatriato in compagnia della "sedicente moglie", così risulta dai verbali, Claudia Blagusina, nata a Mosca nel 1905, di professione attrice. I due risultavano sposati a

Kaslra, nelle vicinanze di Mosca, il 27 luglio 1924, ma si trattava di un matrimonio di comodo. Appena arrivata in Italia, infatti, come usano fare anche oggi molte ragazze dell'Est, Claudia si era separata dal marito dichiarando di aver contratto le nozze col preciso scopo di espatriare. Di lei si sono perdute le tracce: l'ultima nota informativa che la riguarda è del 1927 e da essa risulta che la Blagusina lavorava come cantante in un locale di Riccione.Terminato il servizio di leva, Raoul aveva trovato lavoro all'ufficio stampa dell'ambasciata sovietica con uno stipendio di mille lire al mese. Più tardi, grazie alla sua conoscenza della lingua russa, era stato incaricato di occuparsi degli scambi commerciali per conto della Società anonima italo-russa diretta dal padre. Seguiva particolarmente l'importazione di pellicce, carne e legname. Guadagnava bene, tanto che aveva messo su casa per conto proprio e si era fidanzato con una ragazza romana che più tardi avrebbe sposato. Ma evidentemente spendeva oltre le sue possibilità. Infatti, quando quell'attività commerciale fu interrotta, Raoul si ritrovò con un debito di diciassettemila lire. Fu lui il primo dei Bombacci a ricorrere alla generosità di Benito Mussolini. Gli scrisse, all'insaputa del padre, il 18 agosto 1929. La lettera non è smaccatamente supplichevole come quelle che di solito riceveva Mussolini. Il giovane, dopo avere ricordato "la bontà ela troppa sensibilità del genitore, il quale è ora triste, deperito e assai debole perché gli è ritornato quel male ai polmoni che si credeva guarito da tanti anni" (la frase è sottolineatacon la matita rossa da Mussolini), prosegue spiegando che è proprio per non dargli altri dolori che "oso rivolgermi a Lei come a un secondo padre". Gli chiede infine un breve colloquio per potergli esporre i suoi problemi e così conclude: "Mio babbo non sa nulla e quindi non sa nemmeno che le scrivo. Passata la bufera gli dirò quale mano mi trasse a salvamento. Ma se Lei ritenesse opportuno non ascoltarmi, la prego almeno di non parlare ad altri di questa mia lettera. Gradisca, eccellenza,

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i miei ossequi e il mio saluto romano...". Segue una nota a matita rossa di Mussolini: "Non ho difficoltà a riceverlo. Anche a Villa Torlonia. Informarmi".Non sappiamo come e dove si svolse il colloquio. Negli archivi della segreteria del Duce si trovano soltanto dei rapporti sul conto del giovane Raoul che, evidentemente, Mussolini chiese dopo l'incontro. Al quale incontro non fa mai cenno neanche Nicola Bombacci nelle sue lettere successive. Resta il fatto che pochi mesi dopo Raoul fu assunto all'Istituto dell'esportazione con uno stipendio di mille lire al mese.Intanto Bombacci seguitava a fare la fame. I rapporti di polizia riferiscono del suo continuo peregrinare nelle anticamere dei vari ministri romagnoli di cui a quell'epoca il governo era gremito. Bombacci, tuttavia, non era ancora entrato nella fase di avvicinamento politico al fascismo, la sua crisi era esclusivamente economica: aveva un disperato bisogno di denaro e di un'occupazione qualsiasi. A prestargli i primi aiuti furono i suoi antichi compagni di lotta come Edmondo Rossoni, diventato il capo del sindacalismo fascista, Leandro Arpinati, l'ex anarchico diventato sottosegretario agli Interni, e il ministro degli Esteri Dino Grandi.Il primo a intervenire in suo favore direttamente presso Mussolini fu proprio Grandi. Ecco cosa scriveva in un promemoria "per S.E. il Capo del Governo" in data 18 maggio 1931:In seguito all'autorizzazione avuta dal Duce ho ricevuto l'ex deputato Nicola Bombacci. Egli mi ha fatto una lunga, veramente impressionante odissea delle sue disgrazie familiari. Mi ha dichiarato la sua riconoscenza al Duce che gli ha permesso di fare accogliere il suo figlio malato nell'Istituto Rizzoli di Bologna. Appare fisicamente deperito e denutrito. Ha confessato di essere nell'impossibilità materiale di nutrire i proprifigli, che hanno fame. È scoppiato in pianto dirotto. Mi ha detto: "Il governo sovietico miha ancora proposto di lavorare per l'ambasciata russa, ma io ho declinato l'invito perché so troppo bene quello che vorrebbero da me quei signori. Se non fossi tisico, farei l'operaio. Non è possibile darmi da lavorare in qualche modo?".

Mussolini deve essersi molto rattristato per le condizioni in cui si era ridotto il suo antico compagno. Probabilmente non lo immaginava neppure, e ciò si deduce dalle sottolineature e dai punti esclamativi che corredano le note informative curate dal suo segretario particolare Alessandro Chiavolini. Fra l'altro si legge:Bombacci è sommerso dai debiti: deve 2000 lire al padrone di casa, 740 al sarto, 8000 alla Banca del Lavoro, 713 all'ufficio imposte, 1000 a un certo Mai che gli ha pignorato i mobili, 6000 ai vari bottegai del quartiere. In totale deve ai suoi creditori la somma di 60.000 lire.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtIn calce a ogni nota si scorge la sigla "M" del Duce e l'ordine: "Provvedere".I debiti di Bombacci furono infatti saldati attraverso TINA e giustificati come compensi vari per consulenze e collaborazioni inesistenti. Ma la protezione di Mussolini non finisce qui. Verso la fine del 1931, Nicola Bombacci venne chiamato a dirigere l'ICE, l'Istituto internazionale di cinematografia educativa, un organismo della Società delle Nazioni che non solo aveva sede a Roma, ma precisamente in una dépendance di villa Torlonia, ossia a pochi passi dall'abitazione del Duce. La sistemazione di Bombacci presso un'organizzazione internazionale - dove peraltro guadagnava millecinquecento lireal mese - fu resa necessaria dal fatto che molti dirigenti di enti o istituti nazionali, "pur sapendo di fare cosa gradita al Capo", esitavano ad assumere l'ex pericoloso sovversivo ilcui nome faceva ancora molta impressione.Bombacci si fece finalmente vivo con Mussolini il 29 dicembre 1931, poco tempo dopo che questi aveva perduto l'amato fratello Arnaldo. La lettera è intestata all'Istituto elioterapico A. Codivilla di Cortina d'Ampezzo dove, nel frattempo, era stato trasferito il piccolo Vladimiro. La prosa è asciutta, sofferta e dignitosa:Eccellenza, qui vicino al mio caro piccolo figliolo trovo il coraggio di esprimervi i sentimenti di gratitudine e di viva e devota simpatia. Più volte, specie in questi ultimi giorni, per il vostro grande

dolore, io avrei voluto dirvi come fossi sinceramente accanto a voi nel pianto per la perdita del vostro caro fratello. Ma non ho osato. Rompo oggi il silenzio che dura da molti anni perché mi pesa come un atto di vigliaccheria. Io voglio che sappiate, non più attraverso altre persone, siano pure esse della mia famiglia, tutta la profonda gratitudine per quanto avete fatto e fate per salvare il mio caro figlio dalla morte e per ridare alla miafamiglia un po' di tranquillità. Io non posso soffocare nel silenzio i sentimenti che mi nascono spontanei nel cuore quando constato che voi elevandovi nobilmente sopra le contingenze attuali che distanziano noi così profondamente, avete saputo ricordare nell'ora durissima del dolore il vecchio amico di un giorno e offrirmi l'aiuto necessario. La semplicità e la grandezza di questo atto è ben scolpita nel mio cuore e il tempo non potrà mai cancellarla.Abbiamo pubblicato questa lettera perché dimostra che, anche se Bombacci e Mussolini si erano scambiati segnali e messaggi indiretti, il loro rapporto personale era interrotto evidentemente da molti anni.Mussolini aveva sempre avuto un debole per l'irruento, fantasioso e candido rivoluzionario romagnolo. Provava per lui una sorta di bonaria e paterna tolleranza che quasi tendeva a giustificare i lati negativi del suo comportamento. Bombacci, come si è già detto, era di un'ingenuità quasi infantile, si entusiasmava facilmente e altrettanto facilmente tendeva a gloriarsi del minimo vantaggio ottenuto mettendo così in imbarazzo

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtchi lo aveva aiutato ma avrebbe desiderato rimanere nell'ombra. Si comportò in questo modo anche quando scoprì di godere della protezione di Mussolini. L'ostentazione della sua "alta amicizia" anche di fronte ai fascisti sollevò svariati commenti sgradevoli nell'ambiente romano. Molti ritenevano il suo comportamento pregiudizievole e provocatorio. Mussolini era regolarmente informato delle reazioni alle "vanterie del famigerato ex onorevole il cui passato dovrebbe consigliargli un contegno più riservato", ma non doveva prenderle molto sul serio. Anzi, a leggere le sue annotazioni, spesso ironiche, pare di vederlo scuotere la testa divertito e sconsolato come un padre bonario di fronte agli eccessi

di un figlio esuberante. Alcuni anni dopo, quando Bom-bacci, tramite Costanzo Ciano, chiederà al Duce di essere iscritto al partito, questi annoterà con la solita matita rossa: "Esprimere apprezzamento per il sentimento che lo ispira. Ricordargli però che, almeno per ora, la sua barba di cui perdura il ricordo nelle canzoni della Rivoluzione, rappresentaun ostacolo al rilascio della tessera del PNF. Manifestare comunque il mio personale gradimento".L'avvicinamento al fascismo di Nicola Bombacci fu molto graduale. Anche se la ritrovataamicizia di Mussolini certamente influì sulla sua evoluzione politica, non poco contribuirono le realizzazioni del regime che, scrisse, "sorpassano ogni postulato e programma del socialismo". Il sogno di unificare le due rivoluzioni era rimasto immutato nel suo animo ed era rafforzato dalla frequentazione di Rossoni, di Arpinati e degli altri fascisti di sinistra. Molti infatti ancora non avevano rinunciato al programma sociale che aveva caratterizzato, nel 1919, la nascita del cosiddetto fascio primigenio. Costoro rappresentavano quella linea rossa che continuò a muoversi all'interno del partito, fra alti e bassi, fino a riesplodere negli anni difficili della Repubblica sociale.D'altra parte, le realizzazioni del regime in quegli anni erano state veramente sorprendenti. La costituzione dell'INPS che riformava il sistema pensionistico, la liquidazione della mafia a opera di Cesare Mori, il leggendario Prefetto di ferro, la riorganizzazione del sistema scolastico, le opere per l'assistenza della maternità e dell'infanzia non potevano non colpire favorevolmente chi aveva a cuore il benessere sociale. Grande impressione suscitò soprattutto in Bombacci l'approvazione della Carta del lavoro che affidava alle corporazioni, definite "organizzazioni unitarie delle forze produttive", il compito di coordinare e disciplinare tutti gli aspetti della produzione. Per lui infatti il sistema corporativo poteva rappresentare l'auspicata terza via fra le durezze del sistema sovietico e le ingiustizie di quello capitalista. Il divieto di sciopero e

di serrata, nonché le note misure repressive adottate dal regime non lo turbavano più di

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txttanto. Anche se nei suoi conversari con gli ex socialisti, gli ex comunisti e gli ex anarchici che continuava a frequentare, non mancava di criticarli sostenendo che il fascismo aveva tutto da guadagnare sviluppando la collaborazione con altre forze, in cuorsuo non ne era affatto scandalizzato. "Le rivoluzioni non si fanno con i confetti" diceva. Giustificava i metodi fascisti con la stessa "logica rivoluzionaria" da lui un tempo utilizzata per giustificare quelli bolscevichi. Persisteva insomma nel suo animo quel rivoluzionario del temperino, minaccioso a parole, ma incapace di fare del male a una mosca il quale, come osserva Serge Noiret, dopo essere stato profondamente influenzato da Lenin ora si andava identificando nel mito mussoliniano.Va tuttavia ricordato che l'avvicinamento progressivo di Bombacci al fascismo non fu un caso eccezionale. All'inizio degli anni Trenta le realizzazioni del regime misero in crisi più di una coscienza socialista. Se i fascisti non seppero approfittarne e sbarrarono invecela strada agli esponenti del prefascismo attestandosi sulla trincea del "largo ai giovani", questo fu indubbiamente un grave, fatale errore. Come ammette Giano Accame, lucido ideologo di destra, si trattò infatti di un'occasione mancata sulla quale converrebbe oggi riflettere per ricavare qualche utile avvertimento per il futuro. L'evoluzione politica di Bombacci deve essere infatti collocata in un contesto che inizia con il tentativo collaborazionista di Rinaldo Rigola e del gruppo di sindacalisti che avevano approvato pubblicamente la Carta del lavoro e raggiunse il suo livello più alto in quel famoso, ma assai poco ricordato, "appello ai fratelli in camicia nera" lanciato dalla direzione del PCI disposto a collaborare col PNF sulla base del programma fascista del 1919.In quegli anni molti personaggi, anche mitici, del socialismo d'antan, come Massarenti, Caldara, Romita, D'Aragona, Bentivoglio, Bonomi, assunsero posizioni di cauto

fiancheggiamento rivelando anche delle disponibilità. Ma le loro avance si infransero contro il rifiuto stolido e sprezzante della nuova classe dirigente. Persino a Mussolini fu impossibile superare l'opposizione dei fascisti intransigenti, soprattutto tra i giovani.Nel contempo, tuttavia, nei circoli fascisti più impegnati continuava a essere alimentata un'attenzione interessata per gli sviluppi della società sovietica cui ci si sentiva vicini, se non altro per il comune disprezzo verso il parlamentarismo e verso le grandi potenze economiche ribattezzate mussolinianamente "demoplutocrazie". I segnali in questo senso non mancavano. Su "L'Universale", Berto Ricci, pur battendosi contro il reinserimento dei vecchi re-venants, indicava traguardi di sinistra. Renzo Bertoni pubblicava Il trionfo del fascismo nell'URSS con in copertina uno Stalin che salutava... romanamente. Da parte sua, l'emergente Alessandro Pavolini salutava il successo dei comunisti in URSS e quello dei nazisti alle recenti elezioni tedesche, scrivendo: "Chi in un modo o nell'altro marcia verso l'avvenire ci interessa, perché sarà un elemento di questo mondo nuovo che ci vedrà in primo piano. Tutto il resto rimarrà indietro". E ancora: "Folle rivoluzionarie,

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdisciplinate e ardenti, colmano le piazze e gli stadi di Roma, di Mosca e di Berlino. Camicie nere, bluse sovietiche e camicie brune. Fasci littori, stelle rosse e croci uncinate. E milioni di volti e di gridi. E tre anime collettive...".Bombacci non fu dunque un isolato. Come riconosce Giano Accame, si spinse più avanti in un disegno che anche altri, per quanto in forme diverse, stavano meditando, proprio perché il fascismo sembrava, in quel momento, l'unica via attraverso la quale era possibile introdurre elementi di socialismo reale nella società italiana.

XIIICHI INVENTÒ L'AUTARCHIA? \ .

Scrive nel 1936 Nicola Bombacci per motivare politicamente il suo avvicinamento al fascismo:È in atto una grandiosa rivoluzione sociale. È l'ora della collettività. I diritti dello Stato, della classe, dei popoli, dell'umanità sono all'ordine del giorno. L'attenzione del mondo è rivolta su due uomini, a meditare, a divulgare, a combattere la loro dottrina: Mussolini e Lenin. Soviet e Stato fascista corporativo. Roma e Mosca. Molto abbiamo da rettificare, nulla da farci perdonare, perché oggi come ieri ci muove lo stesso ideale: il trionfo del lavoro. Per tale trionfo lottiamo da trentacinque anni. Il socialismo di Andrea Costa ci portò con entusiasmo e con assoluta dedizione nella lotta; il comunismo di Lenin ci staccò dal Partito Socialista divenuto una vaga accademia disordinata di inconcludenti e soprattutto di incapaci a realizzare le promesse fatte alle classi operaie e contadine. Oggi la storia ci pone dinnanzi agli occhi l'esperimento di Mussolini. Non è più soltanto una dottrina, è un ordine nuovo che si lancia audacemente sulla via maestra della giustizia sociale...Il brano è tratto dall'articolo di apertura, firmato "Noi", apparso sul primo numero di "La Verità", la rivista "comunista" che Bombacci era stato autorizzato a fondare grazie al placet (e al finanziamento) del ministero della Cultura popolare. Vale la pena di notare che il titolo della pubblicazione corrisponde alla traduzione letterale di pravda. Serge Noiret e Guglielmo Salotti convengono che è alla luce di questa dichiarazione che va letta la sua progressiva conversione. In effetti, l'avvicinamento al fascismo di Bombacci edi molti altri esponenti antifascisti non va interpretato come una sorta di folgorazione sulla via di Damasco o, più

volgarmente, come un cambio di casacca dettato da basse motivazioni opportunistiche. Sitrattò invece di uno sviluppo lineare e coerente dell'ideologia socialista favorita dalle vaste aperture sociali che il fascismo degli anni Trenta ancora consentiva. La gratitudine personale che Bombacci nutriva nei confronti di Mussolini passa dunque in secondo

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtpiano. Egli ora non era più soltanto grato all'amico che, al di là delle divergenze politiche,lo aveva aiutato in un momento di grande difficoltà, ma riconosceva e apprezzava la dottrina totalitaria e corporativa che il Duce aveva imposto all'Italia "proletaria e fascista".D'altra parte, come si è già detto, le realizzazioni sociali del regime avevano spinto molti antifascisti a porsi "il problema", ha scritto Renzo De Felice, "di operare lealmente all'interno del regime con gli strumenti che esso offriva". È, per esempio, significativo rileggere ciò che annotava allora, nel suo esilio parigino, il socialista Lelio Basso, futuro segretario del PSI nel dopoguerra:Bisogna avere una volta per tutte il coraggio di riconoscere che le antitesi Fascismo-Antifascismo, Dittatura-Democrazia, non hanno più fortuna in Italia. Bisogna convincersi una volta per tutte che il fascismo è una realtà di fatto della quale si deve tenere conto, e che non i problemi di vent'anni fa ma quelli che il fascismo lascia oggi aperti possono essere la matrice da cui scaturiranno le soluzioni di domani. Diversamentesi è dei sopravvissuti. Le sconfitte della socialdemocrazia su quasi tutti i fronti di Europa,l'involuzione del comunismo, ci permettono di liberarci dai pesi morti, dalle formule, dai luoghi comuni per iniziare veramente un lavoro nuovo con animo realistico e spregiudicato, totalmente sgombro da nostalgie e da soluzioni già pronte. Occorre ritrovare Marx sotto le incrostazioni pseudomarxiste di lunghi decenni parlamentari e democratici. Vi è questo ansioso desiderio dei socialisti, che credono ancora nell'avvenire, di riprendere contatto con le vaste masse della gioventù ben più concretamente che non attraverso una sterile propaganda clandestina...Questo scritto di Lelio Basso rappresenta tuttavia soltanto la punta dell'iceberg delle incertezze, delle polemiche e della confusione in cui era venuta a trovarsi l'oppo-

sizione antifascista di fronte alla nuova realtà italiana. Anche la direzione clandestina del PCI - ormai appiattito sulla nuova linea imposta da Stalin dopo l'espulsione dei dirigenti più scomodi e imbarazzanti, come Bordiga, Tasca e lo stesso Bombacci (Gramsci era in carcere) - non nascondeva di essere in difficoltà sulla scelta della via da seguire. Da parte sua, il Comintern perseverava nella propria politica ambigua. Per esempio, negli stessi giorni in cui l'antifascismo si poneva il classico interrogativo "che fare?" di fronte alla realtà italiana, fu proprio Bombacci a diffondere la notizia, probabilmente suggeritagli dall'ambasciata russa, che "il Comintern intendeva non spendere più un soldo per la propaganda comunista in Italia sia perché si è vista l'inutilità di tale spesa e sia perché la Russia non vuole guastarsi con l'Italia della quale avrà bisogno quanto prima nel campo

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdiplomatico internazionale". Sembrava insomma, come osserva Guglielmo Salotti, di essere ritornati alle polemiche seguite al discorso "eretico" pronunciato da Bombacci alla Camera dieci anni prima, con la differenza che ora non esistevano più divergenze di sortafra gli interessi del Comintern e quelli del governo sovietico.E in questa atmosfera confusa che Nicola Bombacci giunge alla determinazione di schierarsi. Ma non lo fa con una pubblica abiura, bensì con una lettera personale e riservata inviata direttamente a Mussolini. Vergata a mano, scritta su carta intestata dell'iCE, l'organismo della Società delle Nazioni di cui è "ispettore" per l'Italia, la lettera di Bombacci porta la data del 17 novembre 1933.Duce, compio questo atto con tutta coscienza e al di fuori del sentimento di gratitudine che mi lega a voi. La mia decisione è dettata dalla sicura e sincera convinzione che mi sono venuto formando, esaminando obbiettivamente i fatti storici più salienti di questo ultimo ventennio: guerra mondiale, rivoluzione russa, rivoluzione fascista, fallimento delle socialdemocrazie al potere. Oggi sento di poter affermare, scrivere e sostenere in contraddittorio, ovunque e con sicurezza, che voi siete l'interprete felice e fedele di un ordine nuovo, politico ed economico che nasce e si sviluppa col decadere

del capitalismo e con la morte della socialdemocrazia. Voi avete primo e solo intuita questa verità. In vero l'intuizione delle grandi ore storiche, dei cicli rivoluzionari, è dono che la natura riserba in ogni secolo all'uomo prescelto per farlo poi maestro e duce degli altri che, come me, anche quando non mancano del senso della passione politica e dei requisiti richiesti per una dedizione completa all'ideale, possono soltanto abbracciare, diffondere, realizzare l'idea vista dal genio dell'uomo eletto. Tale è il rapporto che io riconosco fra voi e noi. So che solo oggi 1933, XII del regime io vedo questa verità, ma la vedo in pieno e sinceramente. Forse il mio spirito legato profondamente al mio passatoha atteso, per manifestarsi, che la via da voi tracciata superasse i confini e l'idea divenisseuniversale. Io non cerco di indagare nella mia psiche, so soltanto che sento prepotente il bisogno, il dovere di dirvi che sarò orgoglioso di unirmi, se a voi piace, a coloro che già marciano al vostro fianco. Sento che nella Corporazione, sotto la vostra guida, sotto la guida dello Stato fascista totalitario, è soltanto possibile trovare in questa fase storica quell'armonia necessaria al progresso civile e al benessere della società. La mia decisioneè ponderata, ferma e cosciente. Il vostro ultimo grande discorso [si riferisce a quello sulloStato corporativo] ha soltanto fatto scattare il mio sentimento che mi ha suggerito questo mezzo per non tacere più a voi il mio pensiero e la mia volontà. Sono da oggi a vostra disposizione, felice di servire la causa.Mussolini ritenne opportuno non fare pubblicità alcuna alla lettera del suo antico compagno, ma certamente la gradì. Anche se non se ne hanno prove, si sa che iniziò fra i due una sorta di collaborazione segreta che si può rilevare, sia pure in maniera vaga, dalle

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtinformazioni di polizia conservate negli archivi. Noi non conosciamo le risposte di Mussolini alle lettere che, da quel momento in poi, Bombacci gli inviò in occasione di particolari avvenimenti politici, ma queste sicuramente ci furono, sia pure in forma indiretta. Bombacci, infatti, accenna sovente nei suoi scritti "alle comunicazioni che vi siete compiaciuto di darmi attraverso il vostro Segretario particolare". Ci furono anche dei contatti personali, favoriti dalla singolare vicinanza della sede dell'iCE dove Bombacci lavorava e la villa Torlonia dove risiedeva la famiglia Mussolini. D'altra parte è più che comprensibile la riservatezza imposta dal

Duce al loro rapporto. Da un lato, infatti, il repechage ufficiale dell'ex Lenin romagnolo avrebbe provocato le reazioni negative degli ambienti fascisti intransigenti, ostili a ogni apertura "a sinistra". Dall'altro, forse tornava utile a Mussolini disporre di un collaboratore segreto in vista degli sviluppi che andavano assumendo in quel periodo le relazioni italo-sovietiche.Da alcuni mesi, dopo l'ascesa dei nazisti in Germania, la diplomazia europea era come unmare in tempesta. La comparsa prepotente del Terzo Reich sullo scacchiere internazionale aveva riaperto il gioco delle alleanze, mentre Roma e Mosca, dopo una lunga pausa, avevano ripreso i contatti diplomatici per addivenire a un accordo economico e politico. Le trattative italo-sovietiche durarono a lungo. Era motivo di discussione per la sua delicatezza soprattutto il punto 4 dell'accordo, secondo il quale i due paesi si impegnavano ad appoggiarsi reciprocamente nelle organizzazioni internazionali, garantivano la "non-ostilità" e proponevano l'avvio di una "collaborazione politica permanente". Il trattato fu poi modificato e firmato, dopo una serie di contatti di Mussolini con l'ambasciatore russo Potémkin e il commissario agli Esteri Litvinov. A questo punto si pone la domanda: è possibile che, come era accaduto in occasione del precedente trattato, Bom-bacci abbia svolto un ruolo segreto nei negoziati?Purtroppo - a meno che non emerga qualcosa dagli archivi sovietici ora aperti agli storici - sono possibili solo delle supposizioni. Nel 1933, Bombacci, pur essendo stato espulso dal partito, non si era ancora opposto alla politica del Comintern come farà invece nel 1936, manteneva contatti con l'ambasciata sovietica a Roma e non aveva del tutto rinunciato al suo sogno di far incontrare le due rivoluzioni. A questo progetto, cui si riferiva direttamente il controverso punto 4 del trattato in discussione, i sovietici erano favorevoli, mentre Mussolini si mostrava perplesso, ma non contrario. D'altra parte egli aveva più volte riconosciuto che "le due grandi esperienze storiche, quella

russa e quella italiana, avevano dei punti di contatto". Erano invece decisamente contrari i "poteri forti", dinastici ed economici del paese, nonché gli alti funzionari del ministero

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdegli Esteri, da sempre timorosi di deteriorare i rapporti con le potenze occidentali. Di conseguenza, tenendo conto della sua conoscenza dei personaggi e dei retroscena sovietici, non si può escludere che Bombacci sia stato usato una seconda volta come intermediario fra la diplomazia russa e quella personale del capo del governo italiano. A ciò va aggiunto che, alcuni anni dopo, in una lettera aperta indirizzata a Litvinov, Bombacci dimostrerà di essere al corrente delle trattative segrete di cui era stato oggetto il controverso punto 4 del trattato fra Italia e Unione Sovietica firmato il 2 settembre 1933. Per finire, deve essere ricordato che il giorno della firma, insieme a un telegramma di felicitazioni inviatogli da Bombacci ("Ritorna nei popoli la speranza che per voi rivoluzionario nato ed ora condottiero eletto e sincero della pace nel mondo la civiltà possa scrivere la sua più grande e umana vittoria, la pace nel lavoro per tutte le genti di buona volontà"), giunse sul tavolo di Mussolini anche questa informativa dell'ovRA, la polizia politica: "Si dice che Bombacci in questo momento è di nuovo in grande auge per il ruolo che sta prendendo la Russia nelle cose europee. Dicono che si deve alla sua operase la Russia non si buttò decisamente con la Germania e invece attese gradatamente il periodo attuale".Per quanto possa apparire singolare, considerata la sua rudimentale preparazione in campo economico, Nicola Bombacci potrebbe avere contribuito o addirittura suggerito a Mussolini anche l'idea dell'"autarchia", la nuova politica economica imposta dal regime per ridurre le importazioni e favorire la produzione nazionale dei beni di consumo. Ciò si desume da una sua lettera del 6 luglio 1934 nella quale anche lo storico Renzo De Felice individua lo spunto originario della nuova politica autarchica adottata dal Regime.

Ecco cosa scriveva, fra l'altro, Bombacci a Mussolini:Da molto tempo, rilevando la crescente ipersensibilità della politica economica e finanziaria di tutti i paesi in rapporto allo scambio delle merci fra Stato e Stato, ho maturato un'idea di facile realizzazione soprattutto perché non richiede la creazione di nuovi organismi burocratici. Un "Centro" agile e dinamico deve persuadere produttori, importatori e commercianti di trovare fra loro la via migliore, quando sia possibile, per sostituire il prodotto Estero con quello Nazionale. Questo "Centro" identificherà gli articoli e le merci che vengono importate per conoscere: a) luogo di provenienza, qualità, quantità e prezzo; b) la ditta importatrice (questo punto è importante: il commercio è in parte considerevole in mano agli ebrei che hanno più degli altri un concetto del commercio non sempre concordante con la politica economica, corporativa e nazionale). Bisogna stabilire in modo certo se l'articolo importato è voluto e ricercato dal

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtconsumatore, o serve soltanto ad una maggiore speculazione dell'importatore. Bisogna controllare se l'articolo importato è anche di produzione nazionale. Bisogna mettere in rapporto prezzo e qualità e accertarsi se, occorrendo, l'industria nazionale sia in grado di migliorare e adeguare prezzo e qualità col prodotto estero qualora venisse assicurata una maggiore richiesta dal mercato nazionale. Fatta così la base, bisogna dimostrare agli importatori e ai commercianti che aiutando il lavoro e l'industria nazionale faranno anche il loro personale interesse. Bisogna dimostrare agli industriali che migliorando il prodotto, e con l'appoggio del governo, i loro articoli saranno favoriti rispetto a quelli esteri. Bisogna dare alle categorie interessate un'educazione economica corporativa per convincerle che faranno anche il loro interesse (non si deve dimenticare che la quasi totalità dei commercianti ha nel sangue e nel cervello l'economia liberale). Bisognerà poi dire alle categorie interessate, in maniera chiara, che se verrà a mancare la loro collaborazione, lo Stato fascista corporativo dovrà ricorrere a mezzi autoritari per regolare il commercio estero in rapporto alla vita nazionale...L'idea suggerita da Bombacci fu recepita positivamente da Mussolini: lo testimoniano le sottolineature e la vistosa annotazione a matita rossa apposta trasversalmente sulla lettera "Presentarmi un piano dettagliato. M.". Bombacci si mise subito al lavoro e qualche tempo dopo inviava al Duce il suo progetto per la costituzione del Centro di educazione economica corporativa.

Stabilire in quale misura il progetto di Bombacci influì sul disegno autarchico realizzato pochi mesi dopo dal governo fascista è molto difficile, e forse anche inutile. Da tempo il miraggio dell'autosufficienza economica e industriale figurava fra i traguardi che il regime si proponeva di raggiungere, e la logica stessa del fascismo spingeva il Duce sempre più avanti sulla via dei controlli e del protezionismo. Il successo ottenuto nel 1933 con la costituzione dell'iRi per salvare le industrie più importanti in difficoltà gli aveva dimostrato che l'intervento dello Stato poteva essere utilizzato anche su una scala più ampia per giungere a una maggiore centralizzazione della vita economica. Non mancando di far rabbrividire gli industriali, in quel tempo Mussolini aveva l'abitudine di ripetere che l'organizzazione capitalistica della produzione non era più accettabile. E lo affermava con parole e con accenti che non potevano non suonare come musica alle orecchie attente di Bombacci: "Il triste fenomeno del pescecanismo non si verificherà più in Italia!". Grazie all'iRI, infatti, i tre quarti dell'industria italiana stavano finendo nelle mani dello Stato, se non nel senso dell'effettiva proprietà, certamente in quello del controllo: come vedremo, su questi principi si baserà la socializzazione propugnata da Mussolini e da Bombacci nella RSI. Ma nel 1934, Mussolini guardava ancora più avanti e andava sostenendo - guadagnandosi l'accusa di "quasi-comunista" da parte di alcuni senatori monarchici - che lo Stato doveva intervenire in ogni settore dell'economia

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtnazionale. Da allora la parola autarchia, termine ritenuto più efficace di autosufficienza, diventò di moda, quasi una formula magica che avrebbe risolto da sola i principali problemi dell'economia nazionale. Mai come in quei giorni, Nicola Bombacci deve essersi sentito così vicino al "suo" Duce. L'idea di avere in qualche modo contribuito all'istituzione del sistema autarchico doveva esaltarlo. Il suo entusiasmo per la nuova politica economica del regime lo si riscontra sia dalle lettere da lui inviate a

Mussolini, sia dai rapporti dell'OVRA che riferiscono dei "commenti positivi espressi dalnoto sovversivo".Sul finire del 1935, dopo l'inizio della campagna di Abis-sinia e le conseguenti sanzioni votate contro l'Italia dalla Società delle Nazioni (che si riveleranno inutili e favoriranno, nel contempo, il relativo successo dell'autarchia), troviamo Nicola Bombacci in prima linea a sostegno dell'impresa. Egli infatti attribuiva alla conquista dell'Etiopia un significato rivoluzionario, antischiavista e antinglese. "Noi sappiamo" scrive a Mussolini "che per i vostri variopinti nemici, la posta non è l'Abissinia, ma la vostra personalità. Le loro ire sono interessate: abbattendo la schiavitù africana, voi colpite quella più ben vastae secolare di cui essi sono i profittatori..."Bombacci si rivelava soprattutto scandalizzato dalle sanzioni economiche imposte all'Italia dalla Società delle Nazioni in obbedienza alla volontà della Francia e dell'Inghilterra. In questo, per la verità, egli era in sintonia con tutti gli italiani, fascisti e non, i quali in quell'occasione si erano stretti attorno al Duce con rinnovato slancio patriottico. Pareva infatti inammissibile e vergognoso che due paesi colonialisti come Francia e Inghilterra, i quali si erano impadroniti di mezzo mondo, osassero ora cercare di impedire all'Italia di conquistarsi il suo piccolo posto al sole.È in questa atmosfera euforica che Nicola Bombacci ritenne fosse giunto per lui il momento di "rientrare nella mischia", cosa peraltro che desiderava fare ormai da anni. Consapevole tuttavia che solo con un gesto clamoroso sarebbe riuscito a superare gli ostacoli che ancora gli frapponevano i fascisti più intransigenti, meditò un colpo ad effetto. Con l'approvazione di Costanzo Ciano, presidente della Camera, e del ministro Rossoni, coi quali aveva familiarità, decise di scrivere una lettera aperta a Maksim Litvi-nov che rappresentava l'URSS alla Società delle Nazioni. In nome della loro antica amicizia, Bombacci invitava il delegato sovietico a non appoggiare la politica capitalista e imperialista della Gran Bretagna e a difendere l'Italia isolata

come l'Italia aveva difeso la Russia quando si era trovata nelle medesime condizioni. Dopo avere insistito sulla doverosa gratitudine che il governo sovietico doveva nutrire per quello italiano, Bombacci invitava Litvinov a mettere in pratica il famoso punto 4 del

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtrecente accordo italo-sovietico. Punto, come sappiamo, che prevedeva un aiuto reciproco fra Roma e Mosca nelle organizzazioni internazionali, ma che era stato successivamente eliminato. Nella sua lettera però, Bombacci dimostra di essere a conoscenza di quanto Litvinov fosse favorevole a quella clausola e lo prega di metterla in pratica. Conclude manifestandogli "come già vi dissi l'ultima volta che siete venuto a Roma, la mia più vivasoddisfazione e più ancora il mio ardente desiderio di vedere la Russia sovietica sempre più vicina e amica dell'Italia".Prima di essere spedita, la lettera era stata mostrata da Costanzo Ciano a Mussolini il quale, per la verità, le diede poca importanza. Si limitò a sottolineare qualche riga e poi diede istruzioni al suo segretario affinché riferisse all'autore che "il Duce si compiace". Nulla di più. Evidentemente, Mussolini era consapevole dello scarso peso politico che Bombacci ormai godeva negli ambienti sovietici. Anche se arrivò a destinazione, la lettera fu infatti ignorata dal destinatario. Bombacci dovette rassegnarsi ad attendere ancora, prima di potersi lanciare in politica attiva.

XIV UNA "PRAVDA" ALL'ITALIANA"Vecchi amici, Mussolini e Bombacci" scriveva con una punta di malizia Pietro Nenni sull'"Avanti!" di Parigi nella primavera del 1936. "Mentre Mussolini dirigeva nel 1911 la "Lotta di classe" a Forlì, Bombacci dirigeva "Il Cuneo" di Cesena. Non si può negare chesi siano incuneati entrambi molto bene..." L'unico dell'incendiario terzetto di vecchi compagni romagnoli a essere rimasto dall'altra parte della barricata commentava così l'apparizione nelle edicole italiane della rivista "comunista" "La Verità".Il primo numero del mensile diretto da Nicola Bombacci era uscito il 6 aprile fra la sorpresa generale. Il barbuto tribuno scomparso dalla scena politica fin dal 1924 riappariva improvvisamente in pubblico alla guida di un periodico politico di cui nessunoriusciva a rendersi ragione. Com'è facile immaginare, seguirono commenti e interpretazioni contraddittorie. Da parte dell'opposizione antifascista la condanna fu ovviamente totale. Si trattava di una plateale provocazione fascista destinata a creare confusione a sinistra e a ingannare gli ingenui. Il commento più benevolo fu, a ben vedere, quello di Nenni che tratteggiò anche questo ritratto dell'apostata:Una selva di capelli mal pettinati. Uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Una innegabile potenza di seduzione. E, in tutto questo, un soffio di passione, di sofferenza fisica, di rivolta morale che è stata senza dubbio sincera all'origine, ma che lungo la strada è diventata un'acconciatura. Ora egli lascia cadere dalla sua penna il

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtnome di Andrea Costa e quello di Lenin invocandoli quasi come mallevadori della sua apostasia, mentre i seguaci di Costa e di Lenin sfidano da Regina Coeli, sfidano dai reclusori la tirannia...I commenti di destra furono più feroci di quelli di sinistra. Anche se era chiaro a tutti che "La Verità" non sarebbe mai potuta uscire senza l'approvazione del "vertice", i commenti degli ambienti fascisti, che l'OVRA riferiva puntualmente al Duce, erano improntati alla costernazione, alla rabbia e anche all'irrisione. Si giunse persino a ipotizzare che l'appoggio concesso all'iniziativa di Bombacci fosse una prova del progressivo decadimento intellettuale di Mussolini... La contestazione era così forte che Achille Starace, segretario del partito, si ritenne in dovere di farsene portavoce presso il Duce. Starace, l'uomo a cui Mussolini aveva dato l'ordine di "instivalare" l'Italia, era il fautore dell'obbedienza cieca e assoluta. Lo slogan mus-soliniano "credere, obbedire, combattere" era la sua legge di vita e Mussolini era il suo dio. Eppure ebbe l'ardire di scrivergli questa lettera a riprova di quanto fosse alto il livello del contrasto:Duce, da qualche giorno è in circolazione la rivista "La Verità", direttore Nicola Bombacci. Il titolo non è modesto e già Bombacci assume il ruolo di catone. Ignoro, fino a questo momento, chi siano gli altri compari. Vi è chi pensa che costoro operino quell'accostamento, o infiltrazione che sia, di cui da tempo trattano i giornali d'oltre confine. Vi è chi cerca la ragione di questo rigurgito; non la trova e fantastica al punto di pensare che il Regime abbia bisogno di riportare a galla i bassifondi del passato, chissà a quali fini. È tutta una serie di episodi che nessuno giustifica e che tutti sono convinti siano da voi ignorati. Senonché, nella rivista di Bombacci è scritto testualmente a p. 5: ... ho chiesto e ottenuto l'autorizzazione di questa pubblicazione. Sta bene non affamare, si commenta, e su questo tutti apprezziamo in sommo grado la vostra generosità; ma non stabene riportare alla ribalta emerite carogne, capaci di tutto domani come lo sono state ieri...L'uscita della "Verità" fu accolta invece positivamente presso l'opinione pubblica straniera. Sulla stampa estera, la notizia ebbe le dimensioni di uno scoop - ed effettiva-

mente di scoop si trattava considerando che in Italia non c'era libertà di stampa - e i commenti furono tutti favorevoli. Ciò stava infatti a significare che il fascismo non era unregime forcaiolo, liberticida e sfruttatore del proletariato come affermavano i suoi avversari, bensì aperto "a sinistra", verso il quale tornavano a rivolgersi gli antichi oppositori. Se Mussolini, com'è probabile, favorendo l'iniziativa di Bombacci si proponeva di diffondere all'estero un'immagine più positiva della sua "Italia proletaria e fascista", aveva raggiunto lo scopo. Il successo principale della "Verità" si registrò comunque nelle edicole: venticinquemila copie il primo numero che poi col tempo, malgrado alcune interruzioni, andranno raddoppiando. Numerosi furono anche gli

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtabbonamenti e le adesioni di personaggi illustri. Enrico De Nicola, ex presidente della Camera e futuro presidente della Repubblica, si abbonò fra i primi e scrisse a Bombacci: "Leggo sempre con vivo interesse la tua rivista, lieto di trovarvi importanti articoli tuoi, col solito stile agile e venusto, e di altri valorosi scrittori a me noti; e formulo i più cordiali voti per il suo pieno successo".Bombacci si era dato molto da fare per reclutare collaboratori negli ambienti dell'opposizione. Contattò fra gli altri Amadeo Bordiga e gli ex deputati comunisti e socialisti Marangoni, Belloni, Bisogni e altri. Costoro rimasero per molto tempo incerti se aderire o meno all'invito, poi rifiutarono. Aderirono invece numerosi altri, fra i quali i sindacalisti Walter Mocchi, Pulvio Zocchi, Arturo Labriola, Alberto Malatesta, Giovanni e Renato Bitelli. Il segretario di redazione era Angelo Scucchia, un personaggio misterioso. Scucchia era nato a La Spezia. Militante comunista, era stato condannato a seianni dal Tribunale speciale ed era stato sempre compagno di cella di Antonio Gramsci. Inseguito aveva rotto con il partito e, secondo la consuetudine comunista, ne era stato espulso per indegnità con le solite accuse infamanti. Una di queste lo indicava come spia fascista incaricata di sorvegliare Gramsci. Successivamente,

dopo un colloquio con Starace, Scucchia entrò a far parte della redazione della "Verità". Un infiltrato? Non è da escludere. Scucchia tuttavia abbandonò la rivista nel 1941 non condividendo la linea tedescofila imposta al giornale. Di lui non si è saputo più nulla.Nicola Bombacci aveva ottenuto il consenso da Mussolini a pubblicare la sua rivista dopo reiterate richieste di rientrare ufficialmente nella vita politica. Delle trattative intercorse e dell'organizzazione preliminare non c'è però alcuna traccia negli archivi. È probabile che i due ne abbiano parlato durante i loro incontri segreti a villa Torlo-nia; e sicuramente scelsero insieme il titolo a imitazione della "Pravda" sovietica. Mussolini, infatti, non si sarà lasciato sfuggire l'occasione di interferire nella redazione della rivista: la sua passione di giornalista è nota e non l'abbandonò mai. La leggenda - alimentata da Bombacci che, come sappiamo, amava vantarsi dell'importante amicizia - vuole che i duepreparassero insieme la rivista a villa Torlonia. Ciò accadde presumibilmente soltanto peri primi numeri; è certo invece che Bombacci recapitava ogni mese le bozze degli articoli a Mussolini tramite il suo segretario particolare Osvaldo Sebastiani. Il Duce leggeva i testi, li correggeva, li chiosava e spesso giungeva a riscriverli completamente.D'altra parte, la leggenda della singolare amicizia del Duce con il barbuto Nicolino che batteva con lui le campagne romagnole rassomiglia un po' troppo a una favola. Non ci sono dubbi che Mussolini avesse un debole per il vecchio compagno, ma è difficile immaginare che il capo del governo fascista al massimo del suo potere dedicasse molto del suo tempo a questioni, tutto sommato, di poca importanza. Fra i due, peraltro, non esisteva ancora quella ritrovata familiarità che si registrerà invece nel crepuscolo di Salò

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtquando l'animo del Duce era molto più predisposto alla nostalgia degli amarcord. Se i due si incontravano, i loro rapporti dovevano essere molto formali, senza concessioni alleconfidenze. Lo prova il fatto che quando

Bombacci aveva bisogno di aiuti finanziari (il suo unico reddito era rappresentato dallo stipendio versatogli dall'iCE e non gli bastava mai) si rivolgeva ai suoi protettori, in particolare a Costanzo Ciano o a Edmondo Rossoni, affinché intercedessero per lui presso Mussolini.Neanche la direzione della "Verità" migliorò il reddito di Bombacci. Nel marzo del 1937, dopo avere elencato le difficoltà finanziarie incontrate dalla sua rivista, egli scriveva a Costanzo Ciano:La mia figliola che adoro è fidanzata da più di due anni col signor Gianfranco del Guerra di Livorno, sottotenente di vascello della R. Marina. L'ultima disposizione votata dal Consiglio dei ministri per il matrimonio degli ufficiali che li libera dalla dote un tempo obbligatoria permette loro di realizzare il loro sogno: sposarsi. Ma per me questo è un pensiero terribile perché sono privo di mezzi per soddisfare le esigenze di un matrimonio come si aspetta la mia figliola. Essa sa che sono povero, ma non al punto come io sono. Io ricevo dall'iCE 2500 lire al mese. Questa è la sola entrata. È una somma rispettabilissima per una famiglia normale, per me è invece insufficiente per soddisfare agli obblighi che ho verso terzi e verso i miei familiari escludendo il vitto. Mia moglie haancora un padre di 82 anni. È figlia unica, così debbo pagare 250 lire alla famiglia in cui è a pensione. Ho il mio ultimo figlio, salvato dalla deformazione fisica per il generoso aiuto del Duce. Ha 14 anni, è intelligente, ma la spondilite è una tabe che bisogna continuare a combattere. E così fra scuola privata, medico, infermiera e medicine non bastano 400 lire al mese. Ho un altro figlio di 31 anni, sano ma sfortunato. E vedovo da quattro anni e disoccupato da due. Gli do 300 lire al mese. Devo alla Banca del Lavoro 100 lire al mese e 300 le devo alla Cooperativa dell'iCE per indumenti ecc. Pago 650 lire d'affitto. In tutto fanno 1900 lire. Restano 600 lire per gas, luce e tutto il resto. Speravo diricavare almeno 1500 lire dalla mia rivista, invece essa mi ha arrecato nuovi danni e preoccupazioni. Ho 58 anni e, se vengo a mancare, mi spaventa il solo pensiero dello stato in cui lascerò la famiglia.Anche questa volta Mussolini non rimase insensibile alla supplica. C'è infatti una nota firmata da Filippo Anfuso, allora capo della segreteria particolare del ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, con cui restituisce alla segreteria particolare di Mussolini "la ricevuta, debitamente firmata,

della somma di lire 5000, concessa dal Duce a Nicola Bom-bacci a titolo di elargizione

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtstraordinaria". Mussolini non tenne invece conto di una maligna informativa di polizia giuntagli in quegli stessi giorni nella quale, dopo avere affermato che Bombacci aveva ottenuto contributi e contratti pubblicitari per la sua rivista nella misura di circa sessantamila lire, l'informatore proseguiva: "La predetta somma è già stata spesa. Come ha potuto spendere tanto in un solo mese?". Poi aggiungeva con malizia: "Come è noto, fra qualche giorno la figlia di Bombacci si sposa e suo padre è stato largo di partecipazioni nella speranza di poter racimolare molti regali...".Pochi mesi dopo, Bombacci inviava direttamente a Mussolini una nuova supplica. Riguardava suo figlio Raoul che, a ben vedere, doveva dargli un mucchio di grattacapi. Assunto per interessamento di Mussolini all'Istituto nazionale delle esportazioni, si era licenziato 1, due anni dopo, era rimasto vedovo e si era impelagato in seguito in un'altra fallimentare impresa commerciale. Scrive Bombacci:Da allora per quanto abbia cercato non è più riuscito a sistemarsi. È mio figlio, e ciò significa che è un sovversivo. In coscienza, eglinon lo è e non lo fu mai. Io ebbi l'infelice idea nel 1924 di portarlocon me in Russia. Aveva 18 anni, era appena uscito dalla Scuola diAgricoltura di Roma e lo collocai come tecnico agricolo inun'azienda statale. Quella vita primitiva e semiselvaggia non glipiacque, tornò in Italia e voi generosamente gli deste la possibilità di impiegarsi. Nel 1931 chiese l'iscrizione al partito fascista, manon fu accettato. Ho scoperto che dal 1924 egli figura nell'elencodei sovversivi. Ora, il dottor Rossini sarebbe disposto ad assumerloall'Ente Nazionale della Moda, purché venga detta una parola dalla vostra segreteria-La parola fu evidentemente detta con particolare sollecitudine: appena due mesi dopo, Raoul scriveva dalla sede di Torino: "Duce, dal 27 agosto ho preso servizio pres

so l'Ente moda...".Nicola Bombacci aveva molti motivi per essere grato a

Benito Mussolini, ma ciò che più si impresse nel suo animo fu l'autorizzazione a pubblicare "La Verità". La considerò come una risurrezione. Sulla copertina della copia del primo numero che inviò al Duce, annotò: "Duce, mi avete dato la gioia e l'onore di riprendere il combattimento. Non lo dimenticherò mai". Manterrà la promessa.Dopo l'autorevole placet, Bombacci non aveva incontrato difficoltà a reperire i locali e gliindispensabili fondi, elargiti dal ministero della Stampa e della propaganda. Non era iscritto all'albo professionale dei giornalisti, ma il segretario del sindacato, Cajani, lo inserì d'autorità nell'elenco speciale dei pubblicisti.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtIl 6 aprile 1936, quando arriva in edicola il primo numero della "Verità", la campagna di Abissinia non è ancora terminata e, naturalmente, l'argomento è assai dibattuto. Bombacci interpreta la nostra guerra coloniale come una legittima necessità per raggiungere l'autonomia economica. Ingigantendo i "tesori" che avremmo trovato in Etiopia, scrive che "non è concepibile che nel secolo ventesimo le materie prime indispensabili alla vita moderna siano monopolio di alcuni stati". Poi, dopo avere distinto, secondo le categorie marxiste, le nazioni "proletarie" da quelle "capitalistiche", prosegue affermando che solo una rivoluzione mondiale potrebbe ristabilire l'equilibrio ma, in mancanza di essa, "è giocoforza che i vari popoli, come i vari proletariati, si difendano approfittando delle circostanze favorevoli". Secondo Bombacci, quindi, Mussolini tenta giustamente di difendere gli interessi italiani in campo internazionale. Infatti, "non si può chiedere ragionevolmente a nessun Capo di astenersi dal tutelare i lavoratori del proprio paese in attesa di una rivoluzione mondiale di là da venire...".Bombacci non perde tuttavia occasione per dimostrare che la sua conversione politica non è altro che la coerente conseguenza tratta da chi ha creduto nei valori del socialismo senza con ciò dimenticare il sentimento patriottico.

Lui non rinnega il suo passato, ma riconosce i suoi errori. Scrive:Ripetiamo che Mussolini, in circostanze così profondamente diverse, continua quell'opera di redenzione economica e spirituale del proletariato italiano che i socialisti della prima ora avevano iniziato. Noi che abbiamo, nel passato, avvalorato con la nostra fede e il nostro entusiasmo le illusioni dei lavoratori e le loro speranze di redenzione nella rivoluzione bolscevica, oggi che abbiamo la coscienza del nostro errore saremmo degli egoisti riprovevoli se rinunciassimo a fare tutto quanto sta in noi per illuminarli e portarli alla stessa fede che oggi riscalda i nostri cuori...L'apparizione della "Verità" nelle edicole si verificò -per una singolare coincidenza e non,a quanto sembra, in base a un disegno di cui peraltro ci sfuggono tutti i dettagli - in un momento politico difficilmente decifrabile. Siamo nell'estate del 1936, la guerra d'Africa è finita e, come ha annunciato Mussolini, "l'Italia ha finalmente il suo impero". A metà luglio è iniziata la guerra civile spagnola destinata a diventare il teatro dello scontro tra fascismo e comunismo. A Berlino sono in corso le Olimpiadi che contribuiranno a saldarela nascente alleanza italo-tedesca. Ebbene, è proprio in questi giorni che viene diffuso l'appello del PCI "ai fratelli in camicia nera". Il documento, che sembra sia stato redatto da Palmiro Togliatti, allora membro della segreteria del Comintern, appare sul numero di agosto dello "Stato Operaio", la rivista ideologica del partito. Da parte comunista si tratta di un gesto clamoroso di revisione storica che rinnega ogni precedente principio e non nasconde il tentativo disperato di recuperare le masse che ormai sono attratte dal fascismo. Rivolgendosi ai "fascisti della vecchia guardia" e ai "giovani fascisti",

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtnell'appello si dice testualmente: "Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori". Poi, dopo il lungo elenco e la descrizione di tutti i punti programmatici, così si conclude: "Il program-

ma fascista del 1919 non è stato realizzato! Lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma".Di tale clamoroso appello non conosciamo ancora le reali motivazioni, quindi non sappiamo se si trattò di una mossa tattica, di un tentativo di "entrismo" o di altro. Numerosi storici lo hanno ignorato o non l'hanno approfondito, mentre altri ne hanno dato interpretazioni assai vaghe. D'altra parte se ne parlò solo per brevissimo tempo: pocodopo la sua pubblicazione, infatti, in Spagna i "fratelli in camicia nera" si sarebbero scontrati, le armi in pugno, con i "fratelli in camicia rossa". Com'è ovvio, inoltre, i comunisti, in seguito, lo avrebbero volentieri cancellato dalla storia. Resta comunque il fatto che non fu il frutto del colpo di testa di un funzionario fantasioso: era un documentodi ventitré pagine e venne pubblicato sullo "Stato Operaio", la rivista ideologica del PCI, che si stampava a Parigi con rimprimatur di Mosca.In quei giorni - forse per un'altra coincidenza - i fascisti ritornarono a discutere del famoso "programma del '19": i "diciannovisti", così erano chiamati i fondatori del movimento, non si erano tutti imborghesiti e spesso ancora non avevano perduto la speranza di riportare in auge i principi rivoluzionari e antiborghesi della "prima ora". Come riferisce Salotti, alcuni posero in relazione la nascita della "Verità" con la maretta diciannovista che si era levata all'interno del partito e con le voci che davano per imminente una conversione a sinistra. In effetti, in quel periodo tra i dirigenti del PNF spiccava in particolare la figura di Edmondo Rossoni, membro del Gran Consiglio e ministro dell'Agricoltura, unico fascista "di sinistra" rimasto al vertice del partito. Rossoni, ex sindacalista rivoluzionario e "padre" del sindacalismo nazionale di cui aveva a lungo retto le sorti, era, come è noto, amico e protettore di Bombacci e non aveva mai nascosto il suo orientamento politico: ancora nei primi mesi del 1937 sconcerterà un uditorio composto da magnati della finanza esprimendo "concetti e principi di pura marcacomu-

nista". Nel 1936 le voci che circolavano all'interno del partito davano Rossoni come candidato alla sostituzione dell'integralista Starace alla segreteria del PNF. Non è quindi

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtda escludere che la lettera risentita contro Bombacci e i suoi protettori, scritta da Starace a Mussolini, possa essere interpretata come un siluro lanciato dal segretario in carica contro il suo concorrente e la conseguente apertura a sinistra. Comunque sia, gli ostacoli posti alla "Verità" nei suoi primi mesi di vita - sospensione della pubblicazione, congelamento dei fondi e così via -furono certamente dovuti alle polemiche scoppiate all'interno del partito.Nel 1937 il mensile diretto da Bombacci tornò regolarmente nelle edicole. Siccome confermò il buon successo di vendite, fu presa in considerazione l'idea - mai realizzata - di trasformarlo in quindicinale (d'altra parte Bombacci sperava addirittura di farne un quotidiano). Nel contempo, la stessa rivista ottenne l'autorizzazione a essere distribuita anche fuori dell'Italia attraverso i consolati e i Fasci italiani all'estero. Le polemiche contro di essa tuttavia non si placarono. I nemici di Bombacci non si rassegnavano e temevano la sua concorrenza, paventando addirittura che Mussolini potesse concedergli incarichi di maggiore importanza. Ciò dimostra quanto dovesse essere considerato forte illegame che univa i due uomini. La tensione raggiunse un tale livello che Mussolini affrontò il "caso Bombacci" in una delle rare riunioni del Gran Consiglio agli inizi del 1939. Il Duce, rivolto a tutti i presenti, ma gettando occhiate in direzione di Starace, invitò a parlare chi aveva intenzione di contrastare la pubblicazione della "Verità" da lui più volte autorizzata. Nessuno fiatò. "Bene" concluse Mussolini. "A tale pubblicazione penso io. E basta!" Da quel momento, Bombacci non ebbe più problemi, anche se non conseguì, come si è già detto, per via della sua "barba" l'agognata iscrizione al partito.Mentre il paese si avviava verso la guerra, "La Verità" seguiva le vicende politiche cercando penosamente di

mettere in risalto gli aspetti sociali dell'impresa. Una grande occasione fu offerta a Bombacci nel luglio del 1939 dal decreto governativo che aboliva il latifondo in Sicilia. Infatti egli non mancò di esaltare questo fondamentale provvedimento, "che i socialisti non ebbero mai il coraggio di imporre ai pavidi governanti del passato", aggiungendo chein tale esemplare riforma ritrovava il "vecchio rivoluzionario" Mussolini che ora stava portando il paese verso il socialismo nazionale.Da tempo "La Verità" seguiva una linea socialnazionale in critica aperta col bolscevismo sovietico e favorevole all'alleanza con la Germania nazista. Cambiò rotta, sia pure con qualche perplessità, quando nell'agosto dello stesso anno, fra la sorpresa generale (compresa quella di Mussolini), Hitler e Stalin firmarono il famoso patto che avrebbe condotto all'aggressione della Polonia e alla spartizione del paese fra Germania e URSS. Nel numero di settembre, infatti, sotto il titolo emblematico Italia, Germania e Russia all'avanguardia del rinnovamento mondiale, Bombacci riprendeva i temi a lui cari relativialla fratellanza fra le nazioni proletarie e ribadiva che l'URSS non avrebbe mai potuto

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtaccettare l'innaturale alleanza coi paesi capitalisti che avevano cercato al suo nascere di strangolarla col cordone sanitario. Spiegava infatti: "Nazismo e Fascismo vuol dire sì maggior spazio e maggior pane per i loro popoli pigiati e affamati dalla speculazione egemonica della plutocrazia franco-inglese, ma vuol dire altresì una maggiore giustizia sociale per tutti gli Stati proletari".Frattanto era scoppiata la seconda guerra mondiale. Mussolini, del tutto assorbito dai problemi inerenti al conflitto, non aveva più tempo di seguire le vicende di Bombacci chechiedeva insistentemente di essere utilizzato per la propaganda fra gli operai. In una lettera del 10 aprile 1941 questi gli aveva anche comunicato che il marito della figlia, tenente di vascello Gianfranco del Guerra, imbarcato sull'incrociatore Fiume, era caduto nella battaglia di capo Matapan. Ed era ancora tornato a chiedere con insisten-

za la tessera del partito perché intendeva "partecipare coi diritti e i doveri di un qualsiasi camerata alla battaglia che ho scelto con tanto entusiasmo e tanta assoluta dedizione". La parentesi "russofila" della "Verità" si concluse nel giugno 1941 dopo l'aggressione tedesca alla Russia, subito seguita dall'intervento italiano. A questa notizia Bom-bacci sembrò tirare un sospiro di sollievo. Dopo avere chiesto scusa per 1'"impulso umano" chegli aveva per un momento fatto credere che il lupo si fosse trasformato in agnello, tornò ascagliarsi contro bolscevismo e plutocrazia, ora uniti in un "abbraccio mortale". Secondo Bombac-ci, l'adesione di Mosca al patto di amicizia con la Germania nascondeva un inganno, lo stesso che allora, a suo parere, si nascondeva dietro la diabolica alleanza dellaRussia con i paesi capitalistici. E per confermare le sue tesi non mancava di rispolverare un brano significativo della prosa di Lenin:Noi stringeremo rapporti perfino con le potenze capitaliste. Stringeremo con loro dei pattidando loro la completa sicurezza al fine di nascondere il nostro lavoro segreto dentro i loro stessi confini. Quando li avremo minati al punto che i loro governi non rappresentinopiù altro se non la loro apparenza esteriore, essi saranno costretti, fidando in noi e sul nostro appoggio, a lasciarsi trascinare in avventure dove noi li abbandoneremo, allo scopo di fondare sulle loro rovine la nostra potenza. Il nostro scopo deve essere sempre quello di predominare sul mondo intero.Nei mesi successivi, mentre si registrano su tutti i fronti i nostri rovesci militari, "La Verità" perde a poco a poco di mordente, evita i grandi problemi di attualità e i suoi collaboratori si dedicano a temi ideologici o di politica internazionale. L'ultimo numero esce nel luglio del 1943, pochi giorni prima della caduta del fascismo. Il mese precedente, per rassicurare gli alleati occidentali, Stalin aveva sciolto il Comintern e tuttoquello che restava della Terza Internazionale. Lo aveva fatto per dimostrare ufficialmente che Mosca non voleva più essere il centro del movimento comunista internazionale.

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"Inganno!" grida Bombacci, che il Comintern lo conosce bene. "L'URSS continuerà a essere il centro del comunismo internazionale, anche se ora è giunta a negarlo per ragionitattiche. Inghilterra e America un giorno se ne accorgeranno". Conclude il suo ultimo articolo con un malinconico appello agli italiani affinché combattano uniti contro la minaccia "di un'egemonia perfida e plutocratica della gente di razza giudaica e di lingua inglese".

XVREPUBBLICA FASCISTA O REPUBBLICA SOCIALISTA?"Verranno i giorni amari e il duce, allora, porterà il suo governo nei pressi di Venezia..." così profetizzava Nostra-damus quattrocento anni prima di quell'autunno del 1943 quando Mussolini, liberato dai tedeschi dopo quarantacinque amari giorni di prigionia, scelse Salò, sulle sponde del lago di Garda, quale capitale della sua effimera repubblica. Ma, per chi ci crede, le coincidenze sconcertanti non finiscono qui. A Salò, destinata a diventare la tomba del fascismo, ventotto anni prima, il 23 marzo 1915, un gruppo di alpini in addestramento aveva cantato per la prima volta il motivo che, riadattato in seguito, avrebbe dato origine a Giovinezza (musica di Giuseppe Blanc, parole di SalvatorGotta), scelta più tardi come inno ufficiale del fascismo stesso. C'è da aggiungere un'altrasinistra coincidenza: in quei giorni il neosegretario del partito Alessandro Pavolini, reduce da Roma dove si era precipitato dopo l'8 settembre per riaprire la federazione, riferì al Duce di averla trovata già aperta grazie all'iniziativa di un oscuro camerata. "Come si chiama?" aveva chiesto Mussolini incuriosito. "Dongo" era stata la risposta. Fabrizio del Dongo è inoltre lo pseudonimo stendhaliano usato da Mussolini per alcuni suoi scritti sui giornali della RSI.Auspici a parte, se fu a Dongo che Mussolini venne ucciso il 28 aprile 1945, il "Duce" era già morto ventuno mesi prima, il 25 luglio 1943. Il suo mito, più che per il disastroso risultato delle vicende belliche, era crollato all'interno di un'autoambulanza. Lui stesso, d'altra parte, aveva sotto-

scritto la propria abdicazione con la lettera d'auguri inviata al maresciallo Badoglio chiamato dal re a sostituirlo al vertice del governo. Su questi fatti, ampiamente discussi, tuttavia si fa spesso una certa confusione.Il 25 luglio segna una precisa linea di demarcazione nella storia del fascismo e nelle biografie degli uomini che lo hanno vissuto. Ancora oggi si continuano a distinguere i fascisti in due categorie: quelli di prima del 25 luglio, spesso giustificati, e quelli di dopo tale data, sempre condannati. D'altra parte, quel giorno - dopo il "ribaltone" del Gran Consiglio e l'arresto di Mussolini - suonò l'ora della verità: molte fedi già vacillanti

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtcrollarono del tutto, mentre altre si rinvigorirono, vuoi per rabbia, vuoi per personale senso dell'onore. Il 25 luglio fornì anche l'opportunità di abbandonare una nave che stava affondando. Cominciò infatti il passaggio in massa all'antifascismo e molte future carriere politiche si decisero in quelle ore. I fascisti di prima ebbero modo di mimetizzarsi e di ricostruirsi una discutibile verginità politica, quelli di dopo favorirono involontariamente gli ex camerati assumendosi tutte le responsabilità storiche del regime.Per la verità, come è ormai chiaro alla luce della storia, anche Mussolini avrebbe voluto concludere la sua avventura politica il 25 luglio 1943. Dopo lo sbarco alleato in Sicilia, tutti avevano capito - e Mussolini prima degli altri -che la partita era perduta, ma nessunoaveva osato fare nulla di concreto. Ci si limitava a tramare: tramavano i gerarchi, tramavano i generali, tramava la casa reale, ma senza alcun risultato. L'unica iniziativa degna di questo nome la prese lo stesso Mussolini convocando il Gran Consiglio del fascismo per la sera del 24 luglio. Il Gran Consiglio era l'organo supremo del regime e la facoltà di convocarlo spettava al suo presidente, ossia a Mussolini, il quale non esitò ad avvalersene pur sapendo che la maggioranza dei componenti gli era ormai ostile. Egli era anche a conoscenza che questa maggioranza avrebbe votato l'ordine del giorno che Dino Grandi aveva presentato contro di lui. Ep-

pure consentì la votazione. Quale altro dittatore, desideroso di rimanere al potere, si sarebbe comportato così? Ma non è tutto: il giorno seguente, se solo avesse voluto, Mussolini avrebbe potuto fare arrestare i "traditori" (i tedeschi non aspettavano che un suo cenno), invece non fece una piega. Alle 17 di domenica 25 luglio si recò all'appuntamento con il re a villa Savoia in borghese e senza scorta, come gli era stato richiesto. Si lasciò docilmente arrestare dai carabinieri e portar via all'interno di un'autoambulanza senza dimostrare neppure disappunto.Se poi qualcuno ancora dubitasse della volontà del Duce di essere messo da parte, può leggere quanto egli scrisse quella sera stessa a Pietro Badoglio dopo avere appreso che era stato chiamato a sostituirlo: "Faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il Maresciallo Badoglio si accinge per ordine di S.M. il Re del quale durante 21 anni sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l'Italia. Mussolini". "Finalmente!" pare di udirlo mormorare con sollievo leggendo queste parole. "Finalmente!" Mussolini, infatti, da mesi non ne poteva più. La sorte si era accanita contro di lui in quegli ultimi anni. Dal 10 giugno 1940, quando aveva trascinato l'Italia nella guerra, tutto gli era andato storto. Inutilmente aveva atteso, come lui stesso ammise, "una sola giornata di sole". Ma non l'aveva mai avuta: solo sconfitte, distruzioni, rovine e tanto odio attorno alla sua persona. A questo si aggiungano i lancinanti dolori che si pensava gli fossero provocati dalla sua famosa ulcera (che invece dall'autopsia risulterà inesistente), ma che in realtà erano esclusivamente di origine psicosomatica.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtMussolini, insomma, voleva essere "tradito". Sperava di essere messo da parte e aveva già progettato di ritirarsi con la famiglia alla Rocca delle Caminate a vivere da pensionato. Ma il destino aveva deciso altrimenti. Invece che alla Rocca, per quarantacinque giorni lo fecero girovagare fra Ponza, La Maddalena e Campo Imperatoresul Gran Sasso. Prigioniero modello, non diede mai nessun proble-

ma ai suoi sorveglianti. L'8 settembre accolse l'annuncio dell'armistizio senza particolari commenti e continuò la partita a scopa che stava giocando con il maresciallo Antichi, il capo della scorta. Solo nel pomeriggio del 12 sembrò ravvivarsi in volto quando scorse alcuni alianti planare attorno all'albergo."Chi sono?" chiese."Sono tedeschi, Duce" gridò un carabiniere."Ci mancavano anche loro!" esclamò. E non era un'esclamazione di gioia.Al maggiore Harald Mors, comandante dei paracadutisti che Hitler aveva mandato a liberarlo, Mussolini non nascose le sue intenzioni: "Voglio rientrare nel seno della mia famiglia" gli disse in tedesco. Alla Rocca delle Caminate, appunto. Ma il destino, nella persona del capitano delle ss Otto Skorzeny, ancora una volta aveva deciso altrimenti: "Il Fùhrer vi attende a Monaco, Duce. Un aereo speciale è già pronto a Pratica di Mare".Altro che Rocca delle Caminate! Ingobbito, avvolto in un cappotto nero, con un feltro dello stesso colore calato fin sugli occhi, Mussolini il giorno dopo era a Monaco, atteso a braccia aperte da Hitler. Il quale non nascose la propria delusione quando scoprì che il suo amico non era più il Duce che aveva tanto ammirato, ma un vinto: un uomo avvilito che non desiderava neppure vendicarsi di chi l'aveva tradito. Durante il loro primo colloquio, ancora sotto lo choc della prigionia, Mussolini ribadì a Hitler la sua intenzione di ritirarsi a vita privata: era il solo modo, a suo parere, per evitare una guerra civile in Italia. L'altro lo interruppe con un gesto di stizza e una tagliente esclamazione: "Quatsch!", sciocchezze! Per Hitler il Duce non era un capo di governo qualsiasi che poteva dare le dimissioni. I dittatori non si dimettono. I dittatori si battono. Se il Duce si fosse ritirato, tutto il mondo avrebbe capito che non credeva più nella vittoria tedesca. E questo, lui, non poteva permetterlo. Hitler fu molto duro e molto chiaro: in Italia esisteva ancora la possibilità di

creare un governo provvisorio fascista, ma sarebbe stato soltanto un espediente propagandistico privo di valore se il Duce non fosse stato alla sua testa. Quindi, niente Duce, niente governo. L'Italia aveva tradito e sarebbe stata punita duramente. Da Napoli fino al Po, e addirittura alle Alpi, sarebbero state applicate "misure di durezza barbarica che avrebbero indotto gli italiani a invidiare il destino dei polacchi".

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtHitler non scherzava quando minacciava di fare dell'Italia una terra bruciata, e Mussolini lo capì. Capì anche quale atroce sorte avrebbero avuto le centinaia di migliaia di soldati italiani che i tedeschi avevano cominciato a deportare in Germania. Per questa ragione, per evitare alla sua patria altre e più dolorose sciagure, accettò di ritornare in qualche modo sulla breccia e di dare vita alla Repubblica di Salò. Gliene va dato atto.A proposito di questa repubblica, egli ebbe con Hitler un altro vivace scambio di idee. Per il tedesco non c'erano dubbi: doveva chiamarsi Repubblica fascista italiana. Mussolini, invece, avrebbe preferito Repubblica socialista italiana, ma di quell'aggettivo che puzzava di marxismo il dittatore nazista non volle neppure sentire parlare. Alla fine siaccordarono su Repubblica sociale italiana.Anche se, prima ancora della proclamazione della repubblica, Alessandro Pavolini era stato autorizzato dai tedeschi a creare il nuovo Partito fascista repubblicano, Mussolini sene dichiarò fin dall'inizio estraneo. "Il fascismo è ormai superato" aveva detto a Hitler perdifendere la sua tesi circa il nuovo nome da dare alla nascente repubblica. "Per riconquistare gli italiani, occorre tornare alle origini." Già da tempo, infatti, dopo il tradimento del re e della borghesia, Mussolini si era visibilmente trasformato e sempre più spesso ritornava con la mente al ricordo delle sue prime esperienze politiche di socialista repubblicano e rivoluzionario.Per la verità, Mussolini aveva manifestato molto prima del 25 luglio una certa propensione a riprendere i motivi

sociali del fascismo rivendicati nel famoso programma del 1919. Guglielmo Salotti ha rivelato che già nel 1941 egli aveva chiamato a rapporto i suoi collaboratori per dir loro che "alla fine della guerra bisognerà premiare la fedeltà dei lavoratori facendoli partecipare alla gestione delle imprese e alla ripartizione degli utili". E li invitò a studiare il problema. Ora, a maggior ragione, il tradimento della borghesia lo spingeva a dare vita a una politica più avanzata. Nel suo primo appello agli italiani trasmesso da Monaco il 18settembre, non aveva infatti esitato ad affermare che il suo governo avrebbe assunto un carattere, se non socialista, sociale. E aveva ribadito la necessità "di annientare le plutocrazie parassitarie per fare del lavoro, finalmente, il soggetto dell'economia e il fondamento infrangibile dello Stato". "Torneremo alle origini" aveva aggiunto "non per distruggere quello che abbiamo fatto, ma per purificare quello che non era puro."Sia pure ridotta a "sociale", la parola "socialista", fino ad allora considerata una bestemmia, cominciava a tornare di moda. Già dai primi giorni, Mussolini cominciò a battere sulla socializzazione delle imprese, un tema che, come vedremo, lo assorbirà più di ogni altro problema di quel momento peraltro assai difficile. La cosiddetta linea rossa, che, fra alti e bassi, non era mai stata definitivamente interrotta, tornava ora a profilarsi all'interno del fascismo con lo stesso Mussolini come suo massimo sostenitore. Non

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtriuscirà, tuttavia, a sopraffare la linea nera degli intransigenti, come Pavolini, Farinacci, Ricci e Mezzasoma, sostenitori del partito totalitario, che godevano dell'appoggio incondizionato degli occupanti tedeschi.Mussolini rientrò in Italia il 25 settembre 1943. Scese a Forlì da un aereo tedesco e, sempre scortato dai nazisti, raggiunse la sua amata Rocca delle Caminate, una proprietà che gli era stata donata molti anni prima dagli abitanti di Ravenna che l'avevano acquistata pagando una lira prò capite. Il Mussolini che riappariva ai pochi fedeli che lo attendevano era un Mussolini diverso. Scomparsa la grinta

guerriera, abbandonati gli orpelli e i pennacchi, si presentava ai loro occhi soltanto un vecchio stanco, avvolto in una stazzonata uniforme senza gradi e senza distintivi.Dopo pochi giorni di riposo, iniziò per Mussolini quello che lui stesso chiamerà il suo calvario. Dovendo formare un governo, cercò, per quanto possibile, di recuperare i collaboratori più fidati e possibilmente orientati "a sinistra". Ma molti non risposero al suo appello. Si rifece vivo, invece, Leandro Arpinati, ex sottosegretario agli Interni, che nel 1933 era stato espulso dal partito per essersi opposto all'obbligatorietà della tessera per gli impieghi pubblici e per la sua manifesta tolleranza verso i "sovversivi".Tanti anni prima, quando Mussolini dirigeva "La lotta di classe" e Bombacci "Il Cuneo", Arpinati, allora oscuro anarchico di Civitella di Romagna, si era risentito per l'ironia che idue "maestri" socialisti facevano sul movimento anarchico. E si era precipitato nelle loro redazioni "per metterli a posto e riporre le loro ossa in un canestro". Invece era nata una fraterna amicizia. Più tardi, Arpinati aveva seguito Mussolini nella sua avventura politica,abbandonando Bombacci al proprio destino. Per Mussolini, il ferroviere Arpinati era persino andato più volte in galera. Nel 1921 aveva anche sventato una congiura di Grandivolta a scalzarlo. Nel 1924, infine, aveva mobilitato il fascismo bolognese per serrare i ranghi attorno a Mussolini risolvendo così la situazione di crisi che si era creata nel paesedopo l'assassinio di Matteotti.Quando Mussolini lo convocò, Arpinati accettò di presentarsi al colloquio, pur premettendo che sarebbe stato penoso per entrambi. L'ex ferroviere, che si era da tempo ritirato nella sua fattoria di Malacappa, deluso dagli uomini e dalla politica, giunse alla Rocca delle Caminate accompagnato da Vittorio Mussolini. "Vieni, Leandro, vieni" gli disse il Duce con tono affettuoso, tendendogli le mani. Poi allontanò il figlio e chiuse la porta: "Noi dobbiamo parlare del nostro passato" spiegò.L'incontro durò oltre un'ora e mezza. Sicuramente rie-

vocarono i vecchi tempi (come tutti gli anziani, Mussolini aveva ormai preso l'abitudine di parlare del tempo passato), sicuramente parlarono dei vecchi compagni, di Bom-bacci

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtche si era riavvicinato al Duce e di Nenni che, dopo avere fondato con Arpinati nel 1919 iFasci di combattimento di Bologna, si era invece definitivamente votato al socialismo. Ma, quando giunsero al presente, l'atmosfera si incupì. Pare che Mussolini abbia offerto all'antico compagno il ministero degli Interni e, forse, anche la presidenza del consiglio. Ma non se ne fece nulla. Arpinati ripartì per Malacappa deciso a continuare la sua vita di agricoltore. La politica non gli interessava più.Nei mesi trascorsi sul Garda, Mussolini penserà spesso al suo antico compagno di lotta, ombra di Napoleone che pensa a Murat nella malinconia di Sant'Elena. Di Arpinati parlò spesso anche con Bombacci. Una volta gli disse: "Se il vostro amico Arpinati non fosse stato così cocciuto forse molte cose non si verificherebbero ora". Dopo una pausa aggiunse: "Certamente il carattere è una cosa positiva, a condizione però, come mi fece osservare un giorno Bissolati, di non averne troppo". Poi concluse con un sospiro: "Del resto, per ciò che riguarda Arpinati, la colpa è mia. Se non ci fossimo incontrati nella redazione della "Lotta di classe", sarebbe probabilmente rimasto un bravo e innocente anarchico. Si era trasformato in un cattivo fascista e ora è diventato liberale in ritardo di cinquantanni. Mi dicono che trami con i partigiani. Non so se spera in qualcosa, ma se è così non ha capito nulla".Arpinati fu ucciso dai partigiani il 24 aprile 1945. Ma probabilmente la notizia non giunse mai a Mussolini.Fin dai primi giorni della costituzione del governo alla Rocca delle Caminate, si registrò una netta separazione tra fascisti duri e fascisti concilianti che rifletteva esattamente la situazione in cui si trovava la base del partito. Scossi dagli ultimi avvenimenti, in particolare dal tracollo seguito all'8 settembre, numerosi fascisti, anche di grado elevato, andavano infatti predicando la necessità di una

riconciliazione generale per la salvezza della patria e auspicavano una assoluta fratellanzatra italiani, senza distinzioni ideologiche. A questo appello all'embrassons nous risposero in molti, come testimoniano anche alcuni significativi episodi. A Pisa, per esempio, il federale fascista impedì ai tedeschi di fucilare un gruppo di ribelli. A Venezia, il federale Eugenio Montesi, dopo avere liberato dalle carceri ebrei e antifascisti, convocò in piazza un'adunata popolare nel corso della quale fu concessa la parola anche all'avvocato Gianquinto, futuro senatore del PCI. Da Firenze si alzò autorevole la voce del filosofo Giovanni Gentile, presidente dell'Accademia d'Italia, che invitava alla concordia. Altrove si parlò di libere elezioni e della formazione di un fronte unico nazionale nel quale tutti gli italiani dovevano ritrovarsi per ricostruire insieme la patria. A Milano, il cieco di guerra e medaglia d'oro Carlo Borsani propose addirittura l'abolizione dell'aggettivo "fascista". A Ferrara, il federale Igino Ghisellini cercò di accordarsi con gli antifascisti, ma il patto durerà soltanto pochi giorni a causa della dura opposizione dei comunisti i

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtquali, come spesso capita in queste situazioni, si erano ritrovati in un certo senso al fianco dei fascisti intransigenti. Fatti del genere, d'altronde, si verificano in tutte le -guerre civili. Gli estremisti decisi alla lotta vedono come principale nemico il cosiddetto ventre molle, ossia i moderati. I quali sono sempre i primi a cadere. Così è stato ^ per Igino Ghisellini che fu ucciso pochi giorni dopo l'episodio di Ferrara, non si sa ancora se dai fascisti o dai comunisti. Così per Giovanni Gentile e per molti altri fascisti moderati. Sarà un caso, ma i famosi GAP, che agivano clandestinamente nelle città, non prendevano mai di mira i duri come Farinacci o Pavolini.Mussolini era, a ben vedere, il capo del fascismo moderato, che tendeva a trasformarsi per consentire la riunificazione di tutti gli italiani. A differenza degli intransigenti, egli non reclamava vendetta. In occasione della prima riunione del governo alla Rocca delle Caminate, non na-

scose infatti i suoi propositi di tolleranza. "Non è mia intenzione" disse "prendere provvedimenti contro coloro che, in un momento di aberrazione infantile, hanno pensato che un governo militare fosse più indicato a restaurare la libertà, né contro quanti, essendo sempre stati antifascisti, tali idee hanno manifestato anche dopo il 25 luglio...". Egli sperava insomma che il nuovo fascismo, libero finalmente dal "compromesso monarchico del 1922", potesse veramente costruire qualcosa fondandosi sulla collaborazione dei vecchi fascisti "di sinistra" messi in disparte e dei vecchi esponenti socialisti che avevano mostrato negli anni precedenti una certa volontà di partecipazione. Anche se non abbandonerà più questo suo sogno, Mussolini non ebbe tuttavia la forza di realizzarlo concretamente. I tedeschi non glielo avrebbero mai permesso e, di conseguenza, quei fascisti che consideravano vigliaccheria ogni tentativo di riconciliazione nazionale poterono contrastarlo.Il primo a reagire contro il paventato embrassons nous fu il segretario del PFR Alessandro Pavolini, il più duro dei duri. Recita la sua prima circolare:In materia di politica interna e di rapporti con gli avversari ed ex avversari è per lo meno inutile che si continui a fare eco, qua e là, alle prese di posizione conciliatrici verificatesi in alcune province (Venezia, Livorno, Bologna, Savona, Ferrara, Verona, Milano) fin dai primi giorni. Noi siamo contrari alle manifestazioni pietistiche e pusillanimi. Si illude chicerca di lanciare un ponte fra fascismo e antifascismo. Ormai i ponti alle nostre spalle sono bruciati.Gli fa eco più tardi Fernando Mezzasoma, nuovo minr-stro della Cultura popolare: "È fatto divieto ai giornali di pubblicare appelli per la pacificazione e per la fraternizza-zionedegli italiani. Dopo 45 giorni di avvelenamento della pubblica opinione, di scandali, di predicazioni d'odio e di caccia all'uomo, certe manifestazioni pietistiche rivelano solo viltà e tiepidezza".

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtFra gridi di guerra e appelli alla pacificazione, cominciava così la breve e contraddittoria avventura della Repubblica sociale.

XVI "SU FRATELLI, SU COMPAGNI..."L'uso dell'aggettivo "sociale", rimbalzato dal primo discorso di Mussolini sulle pagine deigiornali della neonata repubblica, era da molti considerato un trucco, uno specchietto per le allodole. D'altra parte, la situazione era quella che era: l'Italia squassata dai bombardamenti e dalla crisi economica era divisa in due. Il Sud era in mano alleata, il Centro-Nord totalmente in mano ai tedeschi che lo consideravano un territorio occupato sottoposto alle loro leggi di guerra. Cosa mai poteva realizzare di "sociale" una repubblica artificiale che si reggeva di fatto sulle baionette germaniche? Poche speranze concedevano anche i gerarchi chiamati a governarla: erano in maggioranza fascisti toscani dell'ala dura, come Pavolini, Ricci, Buffarini -Guidi, Tamburini, tanto che già la neorepubblica era stata ribattezzata "Granducato di Toscana". Erano tutti uomini che alla sola parola "socialismo" inorridivano.Vista dalle montagne dove già operavano le prime formazioni partigiane, la repubblica aveva dunque l'aspetto di un fortilizio assediato, in cui dominavano l'odio e il desiderio divendetta. Ma era un'immagine non corrispondente al vero: il neofascismo non fu solo questo. Ci furono anche gli altri, i fascisti onesti, i romantici, i veri socialisti che ora, dopo il tradimento della monarchia e la rottura col mondo borghese, tornavano a simpatizzare per questo nuovo Mussolini, scalzato dal piedistallo dove lo aveva collocatola retorica del regime, convinti di aver ritrovato il vecchio socialista rivoluzionario di un tempo. Spinti da

moti dell'animo difficilmente decifrabili, aderirono alla repubblica personaggi illustri e talvolta imprevedibili. Ma tutti erano certamente in buona fede, visto che si trattava di una scelta che sarebbe potuta costare loro anche la vita. Si pensi a Concetto Pettinato, giornalista liberale, che lascia il suo comodo rifugio svizzero per gettarsi nella mischia alla direzione della "Stampa". Lo imitarono altri giornalisti di fama, fra i quali Luigi Barzini, Marco Ramperti, Bruno Spampanato, Mirko Giobbe, Cesco Tomaselli, Ather Capelli, Giorgio Pini, Piero Caporilli, Paolo Fabbri, Ugo Manunta, Barna Occhini, Rino Alessi, Mario Rivoire, Ermanno Amicucci, Giulio Cesco Bagnino. Aderiscono in massa anche gli esponenti del mondo della cultura: Giovanni Gentile, Ugo Ojetti, Pericle Ducati, Giovanni Spadolini, Giuseppe Maranini, Guelfo Civinini, Ardengo Soffici, Giuseppe Villaroel, Guido Manacorda, Giotto Dainelli, Cipriano Efisio Oppo, Marino Moretti, Filippo Tommaso Marinetti. Le premesse parevano a tutti lusinghiere. Si annunciava l'elezione di un'assemblea costituente e, nell'attesa, si applicavano le prime

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtriforme democratiche sulle quali, benché informali, erano tutti d'accordo. Si plaudiva soprattutto alla disposizione che aboliva il saluto al Duce, tanto caro a Starace, e anche all'altra che disponeva di fare sparire dagli uffici pubblici i ritratti di persone viventi, compreso quello del Duce. Venivano anche annullati tutti i privilegi riservati sul lavoro agli squadristi e agli "antemarcia". Ora le carriere erano aperte a tutti, compresi i non iscritti: "Hoc erat in votis" commentava Pettinato.Superate le ultime remore, anche la parola "socialismo" viene ora scritta a chiare lettere. Il "Corriere della Sera" la usa come titolo di un editoriale e la definisce "parola ricca di fascino e di promesse". Fulvio Balisti, l'eroe di Bir el-Gobi, attacca la proprietà privata e si richiama alla dannunziana Carta del Carnaro per sottolineare che essa "non è il dominio della persona sulla cosa, bensì un'utile funzione sociale". Il direttore dell'"Arena" di Verona, preso dall'entusiasmo, intitola un editoriale Su Fratelli, su

compagni... Nell'atto che istituisce il sindacato unico, fra l'altro, si legge: "Alcuni fra i maggiori capitalisti hanno cooperato all'organizzazione della disfatta, ecco perché il partito deve essere soprattutto un partito dei lavoratori, un partito proletario, animatore diun nuovo ciclo sociale senza più remore plutocratiche". Da parte sua, Mussolini conferma: "Lo Stato sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola".Abbiamo lasciato Nicola Bombacci a Roma dopo la chiusura della "Verità". Supponiamo,anche se non ne abbiamo prove, che la caduta verticale del regime il 25 luglio 1943 lo abbia colto di sorpresa. Durante i quarantacinque giorni di Badoglio, nessuno si occupò di lui e la polizia lo ignorò. Evidentemente, la sua attività pubblicistica svolta attraverso "La Verità" non era giudicata compromettente. Secondo sua figlia Gea, egli se ne rimase tranquillo a Roma in attesa di eventi. Ciò che è certo è che non tentò minimamente di avvicinarsi al nuovo governo, magari rivendicando, come fecero in molti, le antiche persecuzioni fasciste. I suoi fascicoli di polizia, dal 25 luglio al 7 settembre, risultano vuoti. Sotto quest'ultima data è tuttavia registrato un brano quasi incomprensibile di una conversazione telefonica fra lui e il vecchio comandante Giulietti, capo della un tempo potente Federazione italiana lavoratori del mare:Giulietti: Bisogna organizzare il sindacato dei produttori.Bombacci: Lo prenderemo come bandiera. Altrimenti si va al bolscevismo. È quello che avrebbe dovuto fare Mussolini, se non si fosse messo a disposizione di quelli che ora lo hanno tradito.Dopo l'armistizio e il ritorno in auge di Mussolini, Nicola Bombacci ritrovò di colpo il suo ingenuo entusiasmo che la parentesi badogliana aveva alquanto sopito. Quel magico aggettivo "sociale" inserito nel nome della nuova repubblica fu da lui interpretato come un segnale lanciatogli da Mussolini. Un richiamo che il passionale Bombacci non poteva certamente ignorare. Mussolini non era più

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il Duce del fascismo, ma il vecchio compagno d'un tempo che, messi da parte gli orpelli ei fasti del regime, sembrava avere riassunto una dimensione umana. E Bombacci già fantasticava su tutte le cose che sarebbe stato possibile realizzare ora che il Duce si era deciso a ritornare alle origini. La drammatica situazione bellica, l'Italia divisa in due campi, la presenza degli eserciti stranieri sul territorio nazionale non lo preoccupavano più di tanto. Forse non era in una situazione analoga anche la Russia del 1917 quando Lenin prese il potere? Inguaribile ottimista, l'invecchiato tribuno - aveva 64 anni - ringiovanì di colpo e si accinse a intraprendere la nuova avventura.Bombacci maturò la decisione di aderire alla Repubblica sociale (non al Partito fascista repubblicano al quale non si iscrisse mai) subito dopo avere ascoltato il discorso pronunciato da Mussolini a Monaco. Nei giorni seguenti | egli si sarebbe precipitato alla Rocca delle Caminate, così I almeno affermano alcuni storici; ma il fatto non è certo. L'11 ottobre, comunque, egli scrisse a Mussolini:Duce, come già scrissi su "Verità" nel novembre scorso - avendo avuto una prima sensazione di ciò che massoneria, plutocrazia e monarchia stavano tramando contro di voi - sono oggi più di ieri totalmente con voi. Il lurido tradimento re-Badoglio che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l'Italia, vi ha però liberato di tutti i compromessi pluto-monarchici del '22. Oggi la strada è libera e a mio giudizio si può percorrere sino al traguardo socialista. Pregiudiziale: la vittoria delle armi. Ma per assicurare la vittoria bisogna avere l'adesione della massa operaia. Come? Con fatti decisivi e radicali nel settore economico-produttivo e sindacale. Al ministro Buffarini Guidi ho accennato una mia idea. Volete? Sempre ai vostri ordini con lo stesso affetto di trent'anni fa.Frattanto il nuovo governo della repubblica, in obbedienza alle disposizioni tedesche di abbandonare Roma perché troppo vicina alla prima linea, si era trasferito al Nord col suo seguito di burocrati recalcitranti, ma ben decisi a non perdere la scrivania, lo stipendio e la sostanziosa "indennità di trasferta in residenza disagiata". Lungo

le strade del Garda, intasate da convogli carichi di masserizie e scartoffie, era tutto un viavai concitato di austeri funzionari in doppiopetto gessato e di folcloristici personaggi che sfoggiavano le uniformi più fantasiose: giacche a vento, caschi coloniali, tanto orbace, stivaloni, pugnali, distintivi con aquile e simboli di ogni tipo. Si rifecero vivi anche gli squadristi più violenti, che il regime imborghesito aveva messo da parte, i quali si mescolarono ai reduci dei battaglioni "M", ai "votati alla morte", ai giovanissimi volontari, agli sbandati e agli avventurieri per riaprire le caserme, riorganizzare i comandie distribuire gradi e stipendi.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtIn questo marasma nacque quella che sarà impropriamente chiamata "Repubblica di Salò". Salò, infatti, non ne era la capitale, ma solo la sede dei ministeri degli Esteri e della Cultura popolare, nonché dell'agenzia di stampa Stefani, che perciò, accanto alla data, indicava il luogo "Salò" su tutti i dispacci che diramava ai giornali. Fu per tale ragione che gli italiani si convinsero che la piccola cittadina lacustre fosse la capitale della repubblica. La quale repubblica, invece, non avrà mai una capitale. Gli organi principali del piccolo Stato erano sparsi un po' dovunque: il ministero degli Interni e la segreteria del partito a Ma-derno, la presidenza del consiglio dei ministri a Bogliaco, la residenza del Duce a villa Feltrinelli di Gargnano, il suo quartier generale a villa Orsoline, sempre di Gargnano. Gli altri ministeri avevano sede invece a Venezia, Brescia,Verona, Padova, Cremona e Milano.Nicola Bombacci non era comunque della partita. Restò a Roma, forse in attesa di una chiamata ufficiale di Mussolini che giunse solo molto più tardi. D'altra parte egli non era libero di muoversi: aveva una moglie, il figlio Vladimiro ancora bisognoso di cure, la figlia Gea con la piccola Rossella, rimasta orfana del padre caduto a capo Matapan. Aspettando che gli trovassero una sistemazione adeguata, si fermò nella capitale fino al dicembre 1943. Nel frattempo si mantenne comunque in stretto

contatto epistolare con Mussolini che stava preparando un congresso dal quale sarebbe dovuto sortire un manifesto programmatico destinato a ratificare il ritorno alle origini repubblicane e "di sinistra" del movimento fascista. Attorno a questo programma, che diventerà poi noto come "I diciotto punti di Verona", lavorarono in molti, anche se Mussolini se ne assumerà poi la paternità. Il professor Manlio Sargenti, che redasse la stesura finale, ha dichiarato all'autore che "il manifesto ebbe contributi diversi". E fra i coautori si fanno i nomi di Tarchi, Biggi-ni, Galanti e Bombacci. Ma probabilmente fu quest'ultimo a fornire il contributo essenziale. Angelo Tarchi, allora ministro dell'Economia corporativa, ha ammesso nel dopoguerra che fu Bombacci a pretendere, con l'approvazione di Mussolini, che l'ambigua formula "collaborazione sociale" fosse sostituita con il termine "socializzazione". Ma gli apporti al manifesto di Bombacci non silimitarono a semplici variazioni lessicali. All'archivio centrale dello Stato è ancora conservata la copia di una sua proposta inviata a Mussolini (si tratta dell'"idea" a cui accenna nella lettera dell'11 ottobre) suddivisa in quattordici punti, dal titolo Basi di intesa, che per molti aspetti è simile al manifesto. Se ne può quindi dedurre, quasi con la certezza di essere vicini alla verità, che la bozza inviata da Bombacci a Mussolini fu alla base dei diciotto punti di Verona.Il manifesto fu approvato al termine di una tumultuosa assemblea che si svolse a Verona il 14 novembre. Quel giorno, nell'ampia sala di Castel vecchio erano riuniti centinaia di delegati delle organizzazioni del partito dell'Italia centrosettentrionale. Mussolini era

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtassente; presiedette i lavori il segretario del PFR Alessandro Pavolini. Il testo del programma, riveduto e corretto, come si è detto, da Mussolini e da altri, subì un'ultima censura da parte dell'ambasciatore tedesco Rahn ("Sono stato costretto" riferirà questi al Fùhrer, "ad attenuare le originarie tendenze accentuatamente socialiste"), ma restò comunque molto

orientato a sinistra. Fra l'altro in esso si proponeva "la gestione diretta delle imprese da parte delle maestranze e un decreto legge per cui tutta la proprietà edilizia destinata all'affitto viene senz'altro espropriata e pagata in titoli di Stato". Ma vediamone gli articoli principali.1) Sia convocata la Costituente, potere sovrano di origine popolare, che dichiari la decadenza della monarchia, condanni solennemente l'ultimo re traditore e fuggiasco, proclami la repubblica sociale e ne nomini il capo.2) La Costituente sia composta anche dai rappresentanti delle province invase e dei combattenti ...3) La Costituente repubblicana dovrà assicurare al cittadino (soldato, lavoratore, contribuente) il diritto di controllo e di responsabilità critica sugli atti della pubblica amministrazione.Nei capitoli successivi si indicano i diritti civili dei cittadini (nessuno può essere arrestatoe trattenuto per più di sette giorni senza un ordine delle autorità giudiziarie) e il sistema elettorale (si vota per eleggere i rappresentanti alla Camera, "ma i ministri li nominerà il capo dello Stato"). La tessera del partito non viene più richiesta per ottenere nessun genere di impiego. La religione dello Stato resta quella cattolica, ma è ammesso ogni altro culto che non sia in contrasto con le leggi. Coloro che appartengono alla razza ebraica vengono, tuttavia, considerati stranieri ("durante questa guerra essi appartengono a nazionalità nemica"). Ma ecco gli articoli che più stanno a cuore a Nicola Bom-bacci:

9) Base della Repubblica sociale e suo oggetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale in ogni sua manifestazione.10) La proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio individuale, integrazione della personalità umana, è garantita dallo Stato. Essa non deve però diventare disintegratrice della personalità fisica e morale di altri uomini, attraverso lo sfruttamento del loro lavoro.11) Nell'economia nazionale tutto ciò che per dimensioni e funzioni esce dall'interesse singolo per entrare nell'interesse collettivo appartiene alla sfera d'azione che è propria dello Stato.

Ecco il fondamentale articolo 12:In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente -attraverso una conoscenza diretta della gestione -

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtall'equa ripartizione degli utili tra il fondo riserva, il frutto al capitale azionario, la partecipazione agli utili stessi da parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali commissioni di fabbrica, in altre sostituendo i consigli di amministrazione con i consigli di gestione.Il manifesto tocca il suo culmine rivoluzionario nell'articolo 16 in cui si parla di un sindacato unico da cui il capitale in quanto tale è escluso. Poi si affermano il diritto alla proprietà della casa e le facoltà di espropriare i terreni incolti e di istituire cooperative.Considerata la particolare situazione in cui si trovava il paese, il congresso di Verona e il relativo manifesto non contribuirono certamente a chiarire le varie posizioni che si erano consolidate all'interno della RSI. Resta il fatto che da quel momento la questione sociale e il socialismo non furono più ritenuti dei tabù. Si cominciò a parlare senza timore di socializzazione delle grandi imprese, tanto che molti importanti industriali nascosero le loro preoccupazioni. Persino il vicino governo svizzero manifestò una certa apprensione per quanto stava accadendo al di là delle Alpi. Intanto, negli ambienti meno beceri del fascismo repubblicano, come scriverà Giovanni Dolfin, segretario particolare del Duce, "ci fu quasi una corsa all'accaparramento del bene originario che abbiamo smarrito, allontanandoci dai postulati rivoluzionari del 1919, per seguire le lusinghe borghesi".Tornò di moda anche Giuseppe Mazzini. Il ricordo del padre della Repubblica romana del1849, che aveva fatto votare la costituzione quando i francesi di Oudinot erano già alle porte della capitale poiché "quella Carta doveva comunque sopravvivere", non mancò di impressionare i congressisti di Verona. Non si stava forse vivendo una situazione analoga?

Commentando il manifesto di Verona, Giorgio Pini, uno degli uomini più vicini a Mussolini, essendo stato per vent'anni redattore capo del "Popolo d'Italia" di cui il Du-ce aveva mantenuto la direzione, scriverà alcuni giorni dopo sul "Resto del Carlino":Si tratta di attuare nello stesso tempo la riscossa esterna e la rivoluzione sociale interna. C'è chi si spaventa davanti a una simile duplice incombenza, ma a torto: si ricordi che le maggiori rivoluzioni - da quella francese a quella russa - furono contemporaneamente impegnate all'interno e all'esterno. Ma se anche, per estrema ipotesi, lo straniero dovesse prevalere, questo manifesto rimarrebbe sempre, insieme alle decisioni della Costituente, quale indelebile atto di volontà di una nazione che non cede alla prepotenza, anzi anticipale direttive ideali per la futura riscossa.

XVIISUA EMINENZA NICOLA BOMBACCIParlando con il giornalista svizzero Paul Gentizon, il Duce disse: "Vedo nella Repubblicasociale il coronamento (sic) mente in buona fede, a spingerlo nel ritorno alle origini forse

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtnon fu solo una crisi di coscienza, ma anche il desiderio di fare un dispetto alla borghesia dalla quale si sentiva tradito. Infatti, se fosse riuscito ad attuare le sue riforme, che chiamava scherzosamente "mine sociali", il governo del re difficilmente avrebbe potuto poi sopprimerle senza incontrare l'opposizione operaia. Si trattava di un sogno, naturalmente. Mussolini inoltre non poteva immaginare che non il re, ma i comunisti, fedeli alla regola che "le riforme giuste sono solo quelle che facciamo noi", avrebbero provveduto a demolire o a ridicolizzare quel poco di buono che la RSI era riuscita a realizzare.Di mine sociali si parlò comunque molto in quei mesi nell'entourage mussoliniano di villaOrsoline. La socializzazione era diventata il chiodo fisso di Mussolini il quale, ostacolatodai gerarchi intransigenti e guardato con sospetto dai tedeschi, aveva riunito attorno a sé un gruppo eterogeneo di collaboratori provenienti dall'antifascismo, ma affascinati dal suo carisma residuo. Alberto Giovannini, un giornalista fascista, intelligente e spiritoso, racconta che un giorno un gerarca che tornava da una visita fatta a Mussolini gli disse: "Quando arrivi a villa Orsoline non capisci se sei nell'anticamera del capo della repubblica o in quella del direttore dell'"Avanti!" del 1913...".

Abbandonato dai fedelissimi di un tempo, Mussolini si era ritrovato vicino molti vecchi avversari: il filosofo Giovanni Gentile, bersagliato per un decennio dal fascismo ufficiale,che morirà per lui a Firenze; il vituperato Ugo Ojetti, l'antico firmatario del manifesto degli intellettuali antifascisti del 1924; Concetto Pettinato, diventato il giornalista più brillante della repubblica; il senatore Rolandi Ricci, vecchio giolittiano che nel Ventennio, al Senato, aveva creato parecchi grattacapi ai fascisti e che era diventato nel crepuscolo di Salò l'opinionista più ascoltato del "Corriere della Sera". E poi ancora Carlo Silvestri, l'uomo che aveva fatto scoppiare il caso Matteotti; il filosofo Edmondo Cione, allievo di Croce reduce dal confino e ora deciso a fondare un partito socialista repubblicano; i collaboratori "comunisti" della "Verità" Walter Mocchi, Sigfrido Barghini, Angelo Scucchia. E, per finire, Nicola Bom-bacci.Come si è detto, pur collaborando attivamente alla preparazione del manifesto, Bombacciera rimasto a Roma, sia per la sua particolare situazione familiare sia perché neanche le drammatiche vicende degli ultimi mesi avevano contribuito a vanificare del tutto l'ostilitàche ancora si nutriva nei suoi confronti in alcuni ambienti fascisti. La chiamata che attendeva gli sarebbe giunta soltanto il 5 dicembre 1943. Nella lettera Sigfrido Barghini, segretario del ministro degli Interni Buffarini Guidi, gli scriveva:... Proprio questa notte, dopo un lungo colloquio tra me e l'eccellenza Buffarini, questi hastabilito di darti un incarico in seno alla nostra Amministrazione, riguardante il famoso

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txt(per noi) problema della casa. Tuo compito sarebbe di studiare la soluzione migliore per fornire gratuitamente una abitazione ai lavoratori ed in primo luogo a quelli con numerosa prole. Come vedi, si tratta di un incarico squisitamente sociale. Per questo studio credo ti potranno essere assegnate lire 6000 mensili. Potrebbe andarti bene? Senza farti illusioni, ti dirò inoltre che sto facendo del mio meglio per farti ricevere dal Duce, con il quale anche Mocchi ha avuto un'accoglienza amichevole...

Prima ancora di trasferirsi al Nord, Nicola Bombacci si mise al lavoro per preparare uno studio sulla casa, ma si occupò anche di altri problemi relativi alla progettata socializzazione delle imprese. Secondo le tesi da lui espresse in quell'occasione, le aziende non sarebbero dovute essere di proprietà individuale, ma collettiva, dei sindacati e dello Stato, mentre le società anonime si sarebbero dovute trasformare in cooperative con la partecipazione alla gestione e al reddito di tutti coloro che erano coinvolti nella produzione.Ma per qualche ragione che non conosciamo, Bombacci non si decideva a partire. A spingerlo in maniera definitiva fu probabilmente una lettera di Walter Mocchi del 15 dicembre. Mocchi, che lavorava con Mezzasoma al ministero della Cultura popolare, gli scriveva fra l'altro:Qui non si tratta di interessi personali, per cui l'andare può apparire un profittamento: si tratta dell'interesse della Causa per cui ogni sacrificio, anche di orgoglio, è sacrosanto. Bisogna rendersi conto che anche in politica valgono le leggi meccaniche. Nessun peso, acui si applicano delle forze, si muove cervelloticamente come gli pare: si muove sulla risultante delle forze e non sopra una delle componenti, e, peggio ancora, di una forza assente. Qui si sono precipitati tutti gli antichi elementi e naturalmente tirano a una restaurazione pura e semplice del passato, pur accettando a parole i diciotto punti. Venire qui era ed è ancora un dovere, appunto per applicare la propria forza di convinzione, che varrà quel che varrà, ma sempre di più che se si è assenti. Io ti ho sempre detto che è un'illusione attendere di essere chiamati. Nei primi giorni ogni arrivo era accolto con gioia, ora assai meno ed intanto i nuovi interessi si creano, si associano e fanno ostacolo ai ritardatari e a chi manca. Io intanto lavoro in rapporti che forse Mezzasoma legge, ed anche più su; ma certo si sarebbe più efficaci se, oltre a Nicoletti ed io, ci fossi anche tu.In questa lettera i rimproveri che Mocchi muove al "compagno" Bombacci non sono neppure tanto velati. Muoviti alla svelta, sembra dirgli: chi vuole va, chi non vuole aspetta. Importante mi pare anche che sottolinei l'esigenza di fare fronte comune contro coloro che accetta-

no solo "a parole i diciotto punti" e che sono evidentemente forti e potenti. Ma perché

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtBombacci tergiversò così a lungo? Certo non fu per paura di compromettersi, poiché a Roma aveva già preso pubblicamente posizione a favore della RSI. Forse si trattò di una questione di orgoglio, di quell'orgoglio che, secondo quanto scrive Mocchi, doveva essere sacrificato alla causa. Bombacci, insomma, sperava di essere chiamato personalmente da Mussolini. Invece Mussolini non lo chiamò... Tuttavia, appena giunto adestinazione, Bombacci ricevette una telefonata di Dolfin, segretario particolare del Duce, il quale gli dava a nome suo il benvenuto e gli fissava un appuntamento a villa Feltrinelli per il 26 gennaio. Purtroppo non abbiamo una cronaca di quell'incontro fra i due ex rivoluzionari romagnoli. Fu certamente molto commovente: Bombacci era un ruvido sentimentale e l'altro, da qualche tempo, era molto sensibile agli amarcord. Prova essenziale della ritrovata cordialità di un tempo è rappresentata dal fatto che Mussolini autorizzò l'ospite a ridargli del tu, privilegio fino ad allora riservato a non più di quattro ocinque persone.La famiglia Bombacci si stabilì in una villetta di campagna a Caino sul Garda, poco lontano da Maderno, dove ha lasciato un ottimo ricordo. Alcuni testimoni sopravvissuti sottolineano il carattere allegro e gioviale di Bombacci nonché la sua azione umanitaria svolta per sottrarre numerosi abitanti del luogo alla cattura da parte dei tedeschi.Diventato funzionario del ministero degli Interni con incarichi non ben precisati, ogni mattina Bombacci si recava a Maderno con un'auto di servizio messa a sua disposizione. Per adempiere meglio al suo ruolo ufficiale, indossava abitualmente abiti scuri da burocrate. Un quadro dell'ambiente in cui operava ce lo offre Giorgio Pini, allora sottosegretario agli Interni, in un suo libro di memorie:Quasi ogni giorno ebbi rapporti con Nicola Bombacci il quale aveva un recapito al Ministero nello stesso piano del mio ufficio. Lo avevo visto con la sua grande barba bionda e il suo cappello a

larghe tese, solo venticinque anni prima, a Bologna, quando il fascismo stava sorgendo e lui, Bombacci, esponente del comunismo postbellico, appariva a noi come l'arcidiavolo bolscevico, oggetto della più assoluta e clamorosa avversione da parte degli squadristi. Iopure avevo cantato il ritornello Me ne frego di Bombacci e del sol dell'avvenire. Ora invece era lui stesso che, entrando talvolta di buon umore nella mia stanza, intonava scherzosamente la canzone che lo riguardava così da vicino.Veniva per saggiare i miei umori, per scambiare impressioni o per darmi informazioni e magari consigli, perché si considerava un esperto manovratore, mentre, nonostante le movimentate esperienze di una ormai lunga vita politica, era uomo candido e di eccezionale ingenuità. Era anche un buono e un ottimista e, appunto per ciò, talvolta si lasciava andare a rumorose recriminazioni di caratteristico stile tribunizio romagnolo; mapiù spesso aveva l'umore socievole e, sorridendo, pareva sempre che ammiccasse, come

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtuno che la sa lunga, per via di una palpebra che gli stava abbassata sull'occhio. Mi confidava i suoi propositi e ci sollecitavamo a vicenda ad agire per lo stesso fine, cioè perindurre Mussolini al famoso colpo di timone da ambedue ugualmente auspicato.A tali conversazioni, che ben poco avevano di segreto, generalmente assistevano i miei collaboratori bolognesi e, talvolta, quando capitava in sede, l'ingegner Costantini, modenese, dell'intendenza ministeriale. Così nel cuore del Granducato di Toscana buffariniano, si era inserito un gruppo emiliano-romagnolo discretamente autonomo.Bombacci andava spesso da Mussolini: gli bastava farsi annunciare da una telefonata. Conversando con me divagava nei ricordi e spesso raccontava dei suoi lontani soggiorni in Russia, e dei suoi incontri al Cremlino, un'altra volta come ospite di Lenin già ammalato nella sua villetta presso Mosca, un'altra volta ancora ai funerali dello stesso Lenin, in testa alla rappresentanza comunista italiana. Poi indugiava sulla sua esperienza del bolscevismo. Insisteva di avere constatato lassù il completo annichilimento della personalità umana nella schiavitù delle leggi collettivistiche di quel regime totalitario e antidemocratico che, osservato da vicino nella sua cruda realtà, lo aveva indotto ad abbandonare il comunismo pur restando socialista. Però concludeva sempre che anche il fascismo repubblicano doveva abbandonare ogni residuo metodo autoritario.Egli non era iscritto al partito, ma, pur senza avere in sé nulla di misterioso, poteva dirsi in un certo senso l'eminenza grigia della Repubblica alla cui legislazione sociale collaborava. Ambiva molto ritrovarsi ancora fra le folle operaie che sapeva dominare con la sua

oratoria anche in momenti tanto difficili. Egli ottenne infatti alcuni autentici, clamorosi successi: memorabile fu un suo comizio in piazza De Ferrari a Genova...Un altro simpatico ritratto di Bombacci ce lo offre Alberto Giovannini, direttore allora di un settimanale della RSI e in seguito di molti altri giornali di cui l'ultimo è stato "Il Secolo d'Italia".L'uomo del suo cuore era Nicola Bombacci. Mussolini gli voleva bene da tanti anni, daglianni dell'adolescenza trascorsa insieme alla Scuola Normale di Forlimpopoli. Il vecchio agitatore si era buttato nell'ultima tragica battaglia con lo stesso entusiasmo con cui si era buttato nella prima. Contro il partito, contro la polizia, contro gli stessi tedeschi, ogni tanto si levava Bombacci. Anzi, Sua Eccellenza Bombacci, come comunemente lo chiamavano. Nessuno sapeva perché gli fosse stato conferito quel titolo di eccellenza: neppure Mussolini. Solo un usciere fornì una spiegazione: Perché è stato membro del Comintern. E forse fu l'unica plausibile, tanto è vero che, abolito il titolo, cominciarono achiamarlo Signor ministro.Praticamente, Bombacci fu il solo che riuscì a riportare le folle attorno alla Repubblica: ilvecchio tribuno della plebe conservava certe doti dell'antico oratore. Credeva di essere

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtl'apostolo della socializzazione, e in fondo adorava Mussolini anche se lo chiamava scherzosamente la causa di tutte le mie disgrazie. Disgrazie iniziate nel 1923... Ma ora Nicolino, così il Duce lo chiamava, aveva ripreso la sua battaglia e girava malandato, povero, spesso con una punta di fame, di città in città a spezzare, come diceva lui, il pane rivoluzionario della socializzazione.Me ne frego di Bombacci e del sol dell'avvenir... Eccomi quii esclamava ridendo quando doveva parlare ai fascisti. Compagni.... gridava quando parlava agli operai. E gli operai lo ascoltavano, lo seguivano, talvolta si commuovevano alla sua parola, anche se poi, in sede di elezione di fabbrica, designavano Greta Garbo o Henry Ford a membri del consiglio di gestione...Con questo accenno, venato di sarcasmo, alla nota attrice e al magnate delle automobili, Alberto Giovannini intendeva riferirsi al punto dolente della socializzazione. Una sorta dispina nel fianco di Bombacci che sarà la causa principale del fallimento dell'esperimento socialista tentato dal governo della RSI.Il decreto per la socializzazione delle imprese e la con-

seguente creazione dei comitati di gestione di fabbrica non avevano mancato di preoccupare l'opposizione antifascista e, in particolare, il PCI, tradizionalmente sensibile a tutto quanto poteva interessare il mondo del lavoro. Non c'è dubbio infatti che, se l'esperimento fosse stato coronato dal successo, la RSI ne avrebbe ricavato un risultato positivo di immagine. D'altra parte, la concessione ai lavoratori di eleggere "liberamente e senza distinzione di colore politico" i propri delegati era un fatto senza precedenti nella storia sindacale. Ciò non avrebbe potuto non impressionare favorevolmente la classe operaia e attribuire un indubbio merito al fascismo repubblicano. Bisognava dunque bloccare sul nascere questa importante riforma. Ma come? A parte la situazione contingente, che non consentiva all'opposizione antifascista di esprimersi alla luce del sole, restava il fatto che quella riforma pareva proprio "copiata" dal programma dei socialisti e dei comunisti. Contrastarla solo perché a propugnarla era un governo fascista sarebbe stato imbarazzante e contraddittorio: meglio scegliere un'altra strada. Questa fu indicata da un ignoto dirigente comunista che evidentemente conosceva il fatto suo. "Ridicolizziamola" disse in una delle tante riunioni clandestine che si svolsero in quei giorni. "L'unica arma a nostra disposizione" aggiunse "è l'arma del ridicolo." Di lì a poco,in quasi tutte le fabbriche dove operavano gli attivisti del PCI, si diffuse di bocca in bocca una singolare parola d'ordine. Bisognava partecipare tutti compatti alle elezioni deiconsigli di gestione ma, nel segreto dell'urna, si doveva votare per i compagni di lavoro divenuti per qualche motivo zimbelli di tutti o per personaggi fantasiosi. La beffa riuscì in molte aziende rivelando, se ce ne fosse stato ancora bisogno, il disincanto della classe operaia e l'isolamento del governo della RSI. In varie fabbriche risultarono effettivamente

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtvotati come "delegati" Greta Garbo, Henry Ford, il senatore Agnelli, Vittorio Valletta, Alida Valli, Fosco Giachetti, ma anche tanti poveracci che svolgevano i più umili mestieri.

Dopo il suo arrivo al Nord, a Bombacci non era stato affidato alcun incarico specifico. Solo agli inizi del 1945 corse la voce - mai confermata dai fatti - che Mussolini intendesse affidargli il ministero dell'Economia o la segreteria generale della Confederazione unica del lavoro. In effetti è ancora oggi difficile definire la posizione di Nicola Bombacci all'interno della RSI. Disponeva di un ufficio a Maderno nella sede del ministero degli Interni, ma non era alle dipendenze del ministro Buffarini Guidi e non svolgeva funzioni particolari. I suoi incarichi erano soltanto ufficiosi: in effetti era il consigliere più ascoltato di Mussolini, tutti lo sapevano, e per questo le sue parole o i suoisuggerimenti venivano spesso interpretati come espressione del pensiero o dei desideri di Mussolini. La scherzosa definizione di "eminenza grigia della Repubblica" che gli attribuisce Giorgio Pini non è del tutto ingiustificata. E questo anche se, a ben vedere, i poteri di Mussolini erano allora alquanto limitati (egli stesso confiderà a un collaboratore:"I tedeschi mi trattano come fossi il borgomastro di Gargnano"). La frequentazione di Mussolini da parte di Bombacci era comunque molto intensa. Si può anzi affermare che si trattasse di una routine quotidiana priva di tutte quelle formalità protocollari cui si dovevano adeguare gli altri visitatori. Risulta infatti dalle agende del capo della RSI che in tutto il periodo Bombacci fu ricevuto "ufficialmente" dal Duce soltanto quattro volte, mentre sappiamo che entrava e usciva quando voleva. Insomma, era diventato l'ombra di Mussolini e gli sarebbe stato al fianco sino alla fine tragica della loro avventura.Proprio per questa ufficiosità dei suoi incarichi, come osserva Guglielmo Salotti, è ora estremamente difficile ricostruire la biografia di Bombacci per il periodo della RSI. Nei verbali, nei rapporti, nelle memorie egli non appare quasi mai in forma ufficiale accanto aMussolini, perché era così abituale la sua presenza accanto al Duce che si riteneva superfluo registrarla. In effetti il vecchio Bombacci svolse un'attività instancabile, dedicandosi ai gravi prò-

blemi del momento. Egli non si occupò mai della guerra civile vera e propria e delle questioni di carattere militare (se lo fece, fu solo per salvare qualche antifascista o qualche partigiano dal plotone di esecuzione). Si impegnò invece in ambito sociale, sperònel successo della sua socializzazione e si adoperò soprattutto, come vedremo, nel disperato tentativo di ricondurre Mussolini alle sue antiche origini socialiste.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtXVIIILA SOCIALIZZAZIONE"Vedete" disse Mussolini ad Amicucci "se io promettessi a ogni italiano delle monete d'oro, nessuno mi crederebbe. Se le facessi versare nelle loro mani, le prenderebbero, ma sarebbero intimamente convinti della loro falsità. Se poi venisse un esperto a dir loro che esse sono di puro metallo prezioso, allora penserebbero che l'oro non vale più nulla... Questa purtroppo è la situazione." Oltre a Ermanno Amicucci, direttore del "Corriere della Sera", ad ascoltare l'amaro sfogo di Mussolini c'era anche l'immancabile Bombacci. Il quale intervenne con tono rassicurante: "Dopo la socializzazione non sarà più così. Gli operai capiranno. Da Badoglio e dal re non potranno mai aspettarsi una simile riforma. Capiranno, vedrai. E saranno con te". Inguaribile ottimista, Bombacci era davvero convinto che la socializzazione delle imprese avrebbe convogliato il consenso popolare a favore della repubblica.La svolta sociale del fascismo era stata consacrata il 12 febbraio 1944 dalla promulgazione della legge della socializzazione di cui Mussolini aveva affidato la preparazione al ministro dell'Economia corporativa Angelo Tarchi, un ingegnere fiorentino con grande esperienza manageriale. Tarchi, come si è già detto, avrebbe preferito definirla eufemisticamente Carta della collaborazione sociale, ma Mussolini e Bombacci avevano insistito per usare il termine più radicale e significativo di "socializzazione". I due, infatti, erano ormai prigionieri del loro tardivo sogno rivoluzionario. In seguito, commentando il decreto della

socializzazione con Ugo Manunta, ex sindacalista e vicedirettore del "Corriere della Sera", Mussolini gli dirà: "Per quanto riguarda la parola che vi sta a cuore, "socialismo", essa potrà liberamente circolare, ma a un patto: che essa non serva a far passare merce di contrabbando e non indulga a nostalgie marxiste. Parliamo un linguaggio socialista nostro, cioè fascista".Il testo definitivo del decreto legislativo approvato dal governo viene reso pubblico e accompagnato da una relazione in cui sono evidenziati i criteri informatori e le finalità della socializzazione. La quale, come si precisa nella relazione stessa, servirà a "creare il presupposto di un ordine nuovo che dia ai popoli la possibilità di costruire il loro domani e di conquistare il loro posto sul piano internazionale europeo dopo la vittoria dell'Asse". Questo auspicio piuttosto irrealistico (visto che la "vittoria dell'Asse" è quanto meno improbabile) farà fantasticare i più ingenui sostenitori della socializzazione e vagheggiarela costituzione di una Unione delle repubbliche socialiste europee (URSE) da contrapporre addirittura all'URSS...Anche se non si perde in questi voli pindarici e non nasconde il proprio scetticismo, Mussolini nutre in cuor suo la speranza che la socializzazione gli restituisca davanti

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtall'opinione pubblica quella patente di socialista che non ha mai drasticamente abiurato. Egli, d'altronde, durante il Ventennio ha fatto spesso saltuariamente ricorso al fascismo delle origini per sferrare generici attacchi alla borghesia e alla classe industriale. Tattico, possibilista, attento a fiutare gli umori popolari, ha saputo di volta in volta sintonizzarsi con le esigenze politiche del momento. La carta socialista che gioca ora è dunque l'ultimache ha. Ciò che lo preoccupa è che si possa pensare che la sua svolta a sinistra sia semplicemente una vendetta contro la borghesia. Confiderà a Ugo Manunta:Dicono che faccia la socializzazione per dispetto. Ma non è vero: la faccio ora perché questo è il solo momento possibile per farla. La socializzazione viene a maturazione al tempo giusto. Sta per scoc-

care l'ora delle grandi conclusioni e noi dobbiamo prepararci a un'opera di ricostruzione che non sarà possibile senza il consenso delle masse. Ciò che la guerra ha distrutto potrà essere riedificato solo su basi nuove e questa opera immane non potrà essere portata a termine dall'iniziativa privata.Ma in cosa consiste la socializzazione? Almeno sulla carta, il decreto può essere definito senza esitazioni un provvedimento rivoluzionario. Esso impone infatti una drastica trasformazione della struttura dell'industria e dell'economia rispetto a quella in funzione durante il Ventennio. Si deve aggiungere che il decreto non pecca neppure di improvvisazione o di avventatezza: ha infatti dietro di sé la ventennale esperienza del corporativismo e le enunciazioni della Carta del lavoro che, già nel 1926, prevedeva l'intervento dello Stato nella produzione economica indicando le forme nelle quali tale intervento poteva essere attuato.Almeno sulla carta, come si diceva, le norme sancite dal decreto appaiono realistiche, ponderate e niente affatto utopistiche, come è stato detto da chi intendeva ridicolizzarle. Almeno sulla carta... Tutto però diventa vago e velleitario se si considerano le particolari circostanze storiche in cui la socializzazione viene promulgata. Ossia in uno Stato fatiscente, con un governo privo di poteri e con il territorio occupato militarmente da un "alleato" decisamente ostile a riforme socialisteggianti. Infatti, appena venuto a conoscenza del decreto, l'ambasciatore Rahn, che si considera un Reichsprotektor in terrad'occupazione, reagisce immediatamente. Quel decreto proprio non gli va giù, ma poiché risulta essere "opera del Duce" non osa prendere posizione prima di chiedere lumi a Berlino. La risposta che ne riceve lo lascia allibito: il Fùhrer, sempre tollerante con il suo amico Mussolini, gli manda infatti a dire che "le riforme economico-sociali adottate dal Duce non interessano alla Germania, anche se si prevede che tali misure non otterranno un grande successo...".Il placet tedesco consente alla socializzazione di inizia-

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re il suo tortuoso cammino. Il decreto reso pubblico comprende quarantasei articoli. Riassumendo, vi si stabilisce che la gestione delle imprese pubbliche e private è socializzata e vengono indicati gli organi esecutivi, tra i quali il più importante è il consiglio di gestione. Negli organi di amministrazione delle società per azioni entrano glioperai, i tecnici, gli impiegati e i dirigenti. Alle assemblee possono partecipare i lavoratori con un numero di voti pari a quelli della proprietà; l'assemblea nomina un consiglio di amministrazione formato per metà dagli azionisti e per metà dai lavoratori; il consiglio di gestione ha la facoltà di deliberare su tutte le questioni inerenti la vita dell'azienda e lo svolgimento della produzione fino a quella della ripartizione degli utili; il comitato di gestione entra in funzione anche nelle industrie private e l'imprenditore deve consultarlo almeno una volta al mese per "sottoporgli le questioni relative alla vita produttiva". Il decreto stabilisce ancora che i lavoratori chiamati a far parte del consiglio di gestione delle imprese socializzate, private o pubbliche, vengano eletti con votazione segreta da tutti i dipendenti dell'azienda e che il capo dell'impresa sia personalmente responsabile di fronte allo Stato. Viene infine ribadito che le imprese impegnate nei settori-base per l'indipendenza politica ed economica del Paese, nonché le imprese fornitrici di materie prime, di energia e di servizi indispensabili possano passare di proprietà dello Stato. Vengono inoltre precisate le nomine del sindacato, dei commissari di governo e i termini deU'amministrazione del capitale delle imprese divenute di proprietà dello Stato, i compiti dell'Istituto di gestione e di finanziamento, le modalità delpassaggio di queste proprietà allo Stato nonché l'assegnazione degli utili ai lavoratori. Riguardo a quest'ultimo punto, come spiega Guglielmo Salotti, si intendeva rispondere alle prevedibili critiche che sarebbero state avanzate soprattutto sull'esiguità della quota degli utili da assegnare a ogni lavoratore, con l'affermazione secondo cui all'interno delle imprese socializ-

zate si sarebbe reso necessario un costante controllo per prevenire qualsiasi tentativo di sottrazione degli utili.Mentre la stampa fascista esaltò la svolta sociale fantasticando sui vantaggi che ne avrebbe tratto la classe lavoratrice, all'interno della RSI già si delineava il fronte sotterraneo degli oppositori: i fascisti di Farinacci e Pavolini, i grandi industriali e soprattutto i tedeschi. Questi ultimi infatti, malgrado l'invito di Hitler a soprassedere, nonsi erano rassegnati all'evento. In particolare il generale Leyers, comandante del RUK, l'organo che sovraintende alla produzione industriale italiana alle dirette dipendenze del ministro degli Armamenti del Reich, Albert Speer. "Leyers e Rahn" annota il segretario particolare del Duce, Giovanni Dolfin, "ostacolano con ogni intrigo la socializzazione scaraventandoci contro industriali e operai". Poi, prendendosela anche con gli italiani che

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtnon collaborano, Dolfin aggiunge con tono disperato: "Purtroppo siamo un pugno di liberti comandati a governare un popolo di schiavi".La socializzazione, come si è già detto, allarmò anche gli svizzeri. La Confederazione elvetica non aveva riconosciuto la Repubblica sociale e non aveva con essa rapporti diplomatici, ma non mancò di far conoscere al governo repubblicano, tramite rappresentanti ufficiosi, il vivo senso di sgomento che aveva diffuso quel decreto di stampo "sovietico" fra le società elvetiche che avevano interessi nelle industrie dell'Italia del Nord. D'altra parte, la preoccupazione dei capitalisti svizzeri non era affatto esagerata.Forse vale la pena di sottolineare che, dopo quanto era accaduto in URSS, la RSI era il primo governo europeo a decretare la socializzazione delle imprese.Anche gli industriali italiani videro la socializzazione come il fumo negli occhi, ma preferirono fingere di accettarla per limitarne i danni. D'altra parte i manager delle imprese scorgevano nel decreto anche l'opportunità di aumentare il loro potere. Questo forse spiega la dichiarazione fatta in proposito da Vittorio Valletta, direttore gè-

nerale della FIAT, secondo il quale "La legge del Duce sulla socializzazione incontrerà l'approvazione di tutti coloro che, al di sopra degli interessi privatistici, vedono nel programma sociale del fascismo non solo la salvaguardia per una ordinata convivenza fracapitale e lavoro, ma anche la possibilità di affermare la personalità e l'iniziativa dell'individuo".Al decreto non furono naturalmente risparmiate le critiche oneste di sindacalisti e di economisti che ne colsero le lacune e le contraddizioni. A essi risponderà più tardi il professor Manlio Sargenti, allora capo di gabinetto del ministro Tarchi e autore, con altri, della legge in questione:Questa legge sulla socializzazione oggi la chiameremmo legge quadro, ossia un programma legislativo da completare e definire. La legge era certamente lacunosa ed erronea data la fretta con cui era nata. Noi incominciammo a lavorarci il 1° gennaio, in una decina di giorni dovemmo mettere giù la dichiarazione del 13 gennaio e poi in un mese il decreto legge del 12 febbraio. Alcune parti vennero lasciate incomplete o imprecise di proposito: bisognava vedere come si sarebbero messe le cose nella pratica, per effetto delle reazioni tedesche, e di quelle degli industriali. La novità era grossa, per la prima volta in Italia un governo parlava di cogestione. Dovevamo dire il meno possibile, per non fornire le armi ai nostri avversari e giocare di sorpresa: molti ministri videro il testo del decreto solo quando si riunirono per approvarlo. Di amici sicuri ne avevamo solo due: Mussolini e il ministro delle Finanze Pellegrini. Ricordo che Mussolini, quando Tarchi gli fece leggere le bozze, disse: È l'idea che volevo realizzare nel '19.La risposta operaia alla legge sulla socializzazione non tardò a farsi sentire. Furono gli

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtscioperi del marzo del '44. "Scioperi a carattere apparentemente economico" come riferisce il questore di Torino "ma in effetti politico, di concerto con il movimento partigiano." L'azione sindacale era promossa dai comitati di agitazione comunisti, ma nonne furono estranei gli Alleati. Da tempo infatti Radio Londra invitava gli operai dell'Italiadel Nord a scioperare e a sabotare la produzione bellica, facendo intendere che solo tali azioni avrebbero potuto evitare la ripresa dei

bombardamenti aerei. A ben vedere, quindi, questi scioperi non erano ufficialmente diretti contro la socializzazione, che, fra l'altro, era ancora di là da venire.Fra il 1° e il 7 marzo, una serie di scioperi a catena si registrò nelle principali città. Il tempo di astensione dal lavoro variava dai quindici minuti ai quattro giorni. A Torino e a Milano si fermarono per un giorno anche i servizi pubblici. Molte fabbriche furono occupate dai tedeschi, si ebbero tafferugli e numerosi arresti. Anche se sarà ingigantita dalla propaganda (Radio Londra paragonerà quegli scioperi a "una grande battaglia vittoriosa"), la manifestazione operaia fu un episodio eroico senza precedenti: fu infatti laprima volta che i lavoratori osarono incrociare le braccia davanti ai mitra spianati dei fascisti e dei tedeschi. Quanti operai risposero all'appello dei comitati di agitazione è difficile dirlo: il balletto delle cifre è contraddittorio. Certamente superarono il mezzo milione. Lo sciopero fallì soltanto a Genova (circa settecento scioperanti in tutto), ma va detto che in quella città si era scioperato già il mese precedente e la repressione era stata durissima.Mussolini e Bombacci seguirono questi avvenimenti delusi e amareggiati. I due comunque si buttarono nella mischia come se rivivessero le grandi battaglie sindacali della loro giovinezza. Solo che questa volta erano dall'altra parte. In quei giorni venne distribuito nelle fabbriche un volantino scritto da Mussolini (ma probabilmente preparato a quattro mani com'era ormai loro consuetudine) che non nascondeva la loro amarezza:Una minoranza di fanatici in buona fede si muove e si agita in mezzo a voi e mentre crede di essere al servizio di grandi ideali di umana giustizia, serve in realtà una sola causa: quella dei nemici del nostro paese. Gli emissari del nemico vogliono la guerra civile in Italia. Siate un po' scaltri operai, operaie, tecnici e impiegati, sappiate leggere negli occhi dei falsi amici che vi vogliono mandare allo sbaraglio!Poi, gradatamente, lo sciopero si esaurì, ma il colpo alla socializzazione fu duro. I sindacalisti fascisti che meglio

degli altri sapevano tastare il polso della classe operaia, non si fecero più soverchie illusioni. Uno di questi si rivolse direttamente a Mussolini: "La massa ripudia di ricevere alcunché da noi" gli scrisse con franchezza. "La massa ragiona, anzi, sragiona in modo

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtassai strano. Addossa al Fascismo il tracollo sui campi di battaglia, la distruzione delle città, i lutti, e attende il compagno Togliatti, attende la creazione del paese di Bengodi... Insomma i lavoratori considerano la socializzazione uno specchietto per le allodole, e si tengono lontani da noi e dallo specchietto...".A rendersi conto per primi del fallimento dell'iniziativa furono i tedeschi che subito ne approfittarono per aumentare gli ostacoli contro la realizzazione del progetto nel quale, tranne Mussolini, Bombacci, Tarchi e pochi altri, forse non credeva più nessuno. L'ambasciatore Rahn impose infatti al governo della RSI di rinviare la legge di attuazione. Da parte sua, il generale Leyers, che quel decreto non aveva mai visto di buonocchio, diramò alle aziende più importanti che facevano capo al RUK la seguente circolare riservata:Dispongo che mi venga comunicato se in seguito alla pubblicazione del decreto sulla socializzazione sia stato effettuato nelle vostre aziende qualche tentativo di applicazione della nuova legge, oppure si sia giunti a qualche concreta realizzazione anche parziale. Incaso di risposta affermativa, dispongo che mi vengano forniti i dati relativi, segnalandomiil nome delle persone che si siano fatte iniziatrici o abbiano partecipato ai fatti. Con l'occasione tengo a sottolineare esplicitamente che la legge sulla socializzazione non è attualmente in vigore. L'articolo 46 contempla che essa possa entrare in vigore nel giornofissato da un successivo decreto del Duce. Se in futuro si notassero delle tendenze alla socializzazione nelle vostre aziende comunicatemelo senza indugio e con tutti i dettagli.Le disposizioni autoritarie del capo del RUK indispettirono Mussolini che si sfogò con Bombacci e con Dolfin. "Che i tedeschi mi lascino fare il socialista" sbottò "almeno quanto lo ha fatto Giolitti quando statalizzò d'un colpo il complesso delle ferrovie italianein mano ai privati." Ma

erano proteste che lasciavano il tempo che trovavano. Per tutto il 1944 di socializzazione non si parlò più. La "carta", che aveva indubbiamente una sua importanza storica, sembrava destinata a rimanere una semplice testimonianza politica senza effetti pratici. Soltanto nel febbraio 1945, quando tutto ormai sembrava crollare attorno a loro, Mussolini e Bombacci rilanciarono la socializzazione nel disperato tentativo di disseminare nella valle padana le loro famose mine sociali. Ma le cose non andarono meglio: Bombacci, ormai uscito dall'ombra, si gettò a testa bassa nell'impresa. Confidando ingenuamente nel suo antico carisma di agitatore, l'ex Lenin di Romagna affrontò le maestranze di tutte le più importanti fabbriche del Nord, da Verona a Milano aTorino a Genova. I suoi comizi incontrarono quasi sempre un grande successo di pubblico, ma gli operai erano spinti dalla curiosità piuttosto che da un effettivo interesse per la socializzazione. Quell'uomo barbuto dalla voce tonante, che si rivolgeva agli operaichiamandoli compagni, che definiva Mussolini un vero socialista e prometteva ora ciò

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtche il fascismo non era riuscito a realizzare nei precedenti vent'anni, appariva agli occhi di chi lo ascoltava come un fenomeno folcloristico. I lavoratori lo applaudivano, spesso anche si commuovevano per la sincerità delle sue espressioni, ma poi, nel segreto delle urne, votavano, come si è detto, per Greta Garbo o per Henry Ford...In pratica, la socializzazione prese piede solo in alcune industrie che contavano meno, peresempio quelle editoriali, come la Mondadori, la Garzanti, il "Corriere della Sera" e "La Stampa" di Torino. Alla FIAT, malgrado i fascisti esercitassero pesanti pressioni su Vittorio Valletta, le cose si mossero a rilento per via dell'opposizione operaia. Il 7 marzo 1945 i giornali si limitarono ad annunciare che "nel campo della socializzazione Torino è ancora all'inizio del programma: finora solo "La Stampa" è stata socializzata e non completamente. Sono invece ancora in corso le socializzazioni per la FIAT, la Venchi Unica e la "Gazzetta

del Popolo"". I tentativi più seri sarebbero stati fatti in Lombardia quando ormai la RSI aveva le ore contate. Il 7 aprile 1945 gli operai della Dalmine votarono per il consiglio di gestione. Si trattò questa volta di elezioni vere che diedero i seguenti risultati: elettori 3253; votanti 2272; schede valide 1765; schede nulle 957; astenuti 531.

XIX "GIRAMONDO" UNO E TRINOComunque si voglia interpretare l'improvviso ritorno di fiamma socialista manifestato dalMussolini di Salò (per dispetto, velleitarismo, resipiscenza?), esso cominciò a manifestarsi in forme più concrete soltanto dopo l'entrata in scena - in scena, si fa per dire, visto che entrambi rimasero a lungo nell'ombra - di Nicola Bombacci e di Carlo Silvestri. I due comparvero nell'anticamera del Duce a villa Or-soline di Gargnano, tra la fine del 1943 e l'inizio del 1944.Da quei giorni il comunista Bombacci e il socialista riformista Silvestri furono i più assidui frequentatori di Mussolini il quale, come si è già avuto occasione di ricordare, disponeva di molto tempo libero. La sua attività ufficiale era infatti ridotta ai minimi termini: partecipava di malavoglia ai rari consigli dei ministri, rifuggiva i cerimoniali e gli impegni di protocollo ed evitava per quanto possibile gli incontri, di solito sgradevoli,con le autorità d'occupazione germaniche. Preferiva restare solo, immerso nella lettura dei giornali (anche Claretta, relegata nella vicina villa Fiordaliso, aveva poche occasioni di vederlo), oppure conversare e commentare i fatti del giorno con i suoi interlocutori preferiti. Quanto a Silvestri e a Bombacci, di solito Mussolini li riceveva separatamente: il primo chiedeva in forma ufficiale di essere ricevuto, e infatti le sue quarantasette visite sono tutte registrate nelle agende del capo della RSI, mentre il secondo, come si è già detto, poteva entrare quando voleva nella stanza del Duce. Di conseguenza, capitava spesso che i tre si soffermassero a

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parlare. D'altra parte, Bombacci e Silvestri si conoscevano fin dagli anni Venti e, ritrovandosi insieme a Salò, avevano rinsaldato la loro antica amicizia. Tutte le volte che si incontravano si abbracciavano fraternamente.Purtroppo non siamo in grado di sapere di che cosa confabulassero questi tre personaggi durante i loro crepuscolari colloqui sulle rive del lago. Altri testimoni non erano presenti, Mussolini e Bombacci non hanno avuto il tempo di scrivere le loro memorie, mentre Carlo Silvestri, l'unico sopravvissuto, ha dovuto in seguito, per forza di cose, limitarsi a fornire delle versioni "ufficiali" dei suoi incontri con il Duce. Infatti quando, nell'immediato dopoguerra, la corte d'Assise di Roma riesaminò il caso Matteotti, la clamorosa ritrattazione di Carlo Silvestri scatenò contro di lui le ire della sinistra. Di conseguenza, proprio per arginare la valanga denigratoria che gli crollava addosso e per respingere le accuse di "venduto, traditore, manutengolo di Mussolini" che gli si levavano contro, Silvestri cercò, nella deposizione e negli scritti successivi, di presentare i colloqui con Mussolini come interviste asettiche, se non addirittura come interrogatori giudiziari. In realtà, le cose erano andate in maniera diversa. Fra Mussolini e Silvestri era sorto fin dai primi incontri un rapporto confidenziale e amichevole che andava ben al di là di quanto riguardava il caso Matteotti. Ma confessare di essere stato "intimo" di Mussolini non era assolutamente consigliabile nei caldi anni del dopoguerra-Questa premessa era necessaria prima di affrontare il caso Giramondo, un giallo giornalistico cheappassionò i lettori del "Corriere della Sera" e che gli storici non hanno ancora chiarito. Il12 marzo 1944, subito dopo la conclusione degli scioperi, il quotidiano pubblicava il primo di una serie di dodici articoli che si sarebbe conclusa il successivo 23 maggio. Il titolo della serie era Analisi anatomica del fallito sciopero, ma la recente manifestazione sindacale era solo un pretesto che consentiva all'ignoto autore, il quale si nascondeva sotto lo pseudonimo di Giramondo, di affrontare

la storia degli ultimi vent'anni. La curiosità dei lettori fu soprattutto suscitata dalla spregiudicatezza e dalla libertà, del tutto inconsuete in periodo di censura, con cui venivano trattati argomenti anche delicati. I temi e le tesi sviluppate dall'articolista erano spesso sorprendenti: ora polemizzava con il CLN clandestino, distinguendo però fra antifascisti "onesti", in "buona fede" e "meritevoli di rispetto", e antifascisti "asserviti allostraniero"; ora esaltava le origini socialiste del fascismo; ora avanzava ipotesi di compromesso storico tra fascismo e socialismo e tesseva le lodi della socializzazione promessa dalla RSi. Non risparmiava recriminazioni e revisioni storiche, né si tratteneva dal riconoscere gli errori compiuti dal regime, mentre lanciava messaggi trasversali di non facile interpretazione apparentemente diretti a qualcuno di sua conoscenza.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtMa chi era Giramondo? L'interrogativo rimbalzava dai caffè agli uffici politici, ai comandi tedeschi. Nessuno però riuscirà mai a scoprirlo anche se tutti erano allora convinti che fosse Mussolini. D'altra parte, solo il Duce poteva permettersi di scrivere quegli articoli "eretici" e di obbligare il direttore del "Corriere" a pubblicarli in prima pagina. Ma il dubbio rimase: Alberto Giovannini, per esempio, era convinto che si trattasse del Duce, mentre Giorgio Pini che, essendo stato per vent'anni redattore capo del"Popolo d'Italia", conosceva profondamente la prosa mussoliniana era di parere opposto eavanzava l'ipotesi che si trattasse di Bombacci. Altri ancora indicheranno Carlo Silvestri. Probabilmente avevano ragione tutti quanti: ci siamo infatti persuasi, e cercheremo di dimostrarlo, che Giramondo era uno e trino... quegli articoli, insomma, erano scritti a sei mani da Mussolini, Bombacci e Silvestri durante i loro incontri sulle rive del lago di Garda.Per quanto possa sembrare strano, neppure Ermanno Amicucci, direttore del "Corriere della Sera", conosceva la vera identità di Giramondo. Lo confessa lui stesso in una lettera, che inviò al podestà di Milano, Piero Parini dopo la pubblicazione del primo articolo. Eccone il testo:

Ho ricevuto per tuo tramite l'articolo firmato Giramondo che ho pubblicato nel numero didomenica mattina: Analisi anatomica del fallito sciopero, ecc. L'autore mandandomelo miaveva scritto: Esso deve andare d'obbligo assoluto per direttissima disposizione del Duce nel giornale recante la data di domenica 12 marzo e mi annunciava che quello era il primo di tre o quattro articoli sull'argomento. Oggi ricevo il secondo articolo di questa serie con una letterina in cui mi si dice che: come conseguenza di nuove direttive gli articoli di questa prima serie anziché quattro potranno essere anche sei o sette. La stessa persona poi mi annuncia una seconda serie di articoli che dovrebbero andare sotto il titoloDoveri e problemi dell'ora. A proposito della prima serie di articoli, l'autore mi dice che èstato disposto che la pubblicazione avvenga con la maggior rapidità e regolarità possibili,cioè con prevalenza assoluta sulle altre collaborazioni. Ora io devo fare una osservazione di carattere generale, ed è questa: che io non posso ospitare nel più breve tempo possibileuna ventina di articoli di questo genere senza alterare completamente la fisionomia del "Corriere", a scapito quindi dell'autorità, del prestigio e della diffusione del giornale. Io non posso rinunciare ad altre collaborazioni politiche di grande importanza e di grande risonanza, che hanno incontrato il favore del pubblico e hanno giovato, lo dico senza ombra di esagerazione, enormemente alla causa della Repubblica sociale italiana e a Mussolini. Intendo dire gli articoli di Rolandi Ricci, di Soffici, di Morelli, senza parlare dei miei. Ho poi in corso una serie di Rolandi Ricci e non posso interromperla per far posto esclusivamente agli articoli di Giramondo. Inoltre gli articoli di Giramondo sono eccessivamente lunghi; mi occupano più di tre colonne e mi obbligano a sopprimere

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtanche l'elzeviro.* Se io dovrò pubblicare gli articoli di Giramondo, bisognerà che lo scrittore si riduca a una colonna e mezza al massimo. Insisto tuttavia sulla necessità di diradare questa collaborazione e di farla apparire come una collaborazione saltuaria e occasionale e non come una collaborazione prevalente su tutte le altre. Poi, siccome io sono il direttore e anche il responsabile del giornale, desidero conoscere il nome dell'articolista poiché non mi pare giusto che io debba assumermi la responsabilità di articoli di cui ignoro il nome dell'autore. D'altra parte io continuo a rimanere della mia opinione che questi articoli possono essere utili se sono firmati; se viceversa sono anonimi o firmati con uno pseudonimo, non hanno alcuna autorità e non possono portare il giovamento che se ne aspetta. Per scendere ai particolari, devo poi farti presente che l'articolo pubblicato domenica mattinaOccorre tenere presente che all'epoca il giornale era formato da un solo foglio, ossia due pagine, per un totale di diciotto colonne compresa la pubblicità.

porta un inciso riguardante Filippo Turati il quale viene definito degno e fiero italiano anche negli anni dal 1926 al 1932 quando fu fuoriuscito a Parigi. Io ho corretto questo inciso attenuandolo. L'autore mi scrive che non desidera modificazioni al testo, e aggiunge che Filippo Turati si poteva proclamare degno e fiero italiano anche se queste qualità si appaiavano a quelle di fuoriuscito. Anzi, aggiunge lo scrittore, proprio per questo. E mi annunzia: non è impossibile che tocchi un giorno al "Corriere della Sera" ospitare un articolo sul tema Un italiano a Parigi. L'italiano cui si allude è appunto Filippo Turati. Ora m'è parso stonato l'inciso che ho attenuato e mi pare stonatissimo pubblicare sul "Corriere" un articolo esaltativo di Filippo Turati. Ti dico fin d'ora che nonlo pubblicherei. Nel secondo articolo che ho ricevuto oggi, Giramondo parla di Ivanoe Bonomi in questi termini: Candido, galantuomo, esperto tecnico del Governo per essere stato Presidente del Consiglio due volte e ministro in diversi dicasteri dove ha lasciato buona traccia e continua a parlarne qualificandolo l'onesto Bonomi. Ora io personalmenteconosco da molti anni Ivanoe Bonomi e lo reputo anch'io un onesto e un galantuomo. Tuttavia non ritengo sia il caso che il "Corriere della Sera" lo proclami così apertamente poiché Bonomi è pur sempre un antifascista ed io penso che sarebbe un errore denigrarlo o comunque parlare male di lui a freddo, ma considero sia altrettanto un errore dargli senza ragione queste patenti le quali potrebbero fra l'altro urtare la suscettibilità dei fascisti e il pubblico del "Corriere" che è un pubblico non di socialisti o di proletari. Per concludere, ti prego di fare presente a chi di dovere queste mie osservazioni. Io penso chela serie di articoli di Giramondo potrebbe andare benissimo per un giornale come la "Sera" che vuole avere un carattere più spiccatamente operaio, o magari per la "Stampa" di Torino che ha assunto una tendenza più apertamente a sinistra. Non credo che ospitare questa serie di articoli sul "Corriere della Sera" giovi al "Corriere" e alla causa. In questi

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtsei mesi ho dimostrato coi fatti di fare del "Corriere" un giornale perfettamente in linea e rispondente alle necessità del Regime nel quadro delle tradizioni del "Corriere" e delle esigenze delle sue novecentomila copie di diffusione. Sento che continuare su questa strada è nell'interesse del fascismo e della Repubblica sociale. Penso che trasformare radicalmente l'indirizzo del giornale possa, anziché giovare, profondamente nuocere alla causa.Non possiamo sapere se i contributi dell'ignoto giornalista nuocessero effettivamente alla "causa", ma per quanto riguarda la diffusione del giornale Ermanno Amicucci si sbagliava. Gli articoli di Giramondo fecero impennare le vendite e aumentare anche il prestigio del quotidiano

poiché tutti i lettori si erano convinti che fossero del Duce. Da parte sua, il direttore del "Corriere della Sera" non si arrese subito. Prima si rivolse al ministro della Cultura Mezzasoma, notoriamente ostile, come Pavolini e Farinacci, a ogni accenno di apertura a sinistra e critico severo dei parti giornalistici di Giramondo. Successivamente ricorse allostesso Mussolini, il quale invece autorizzò ufficialmente la pubblicazione fornendo ad Amicucci quella copertura politica di cui soprattutto aveva bisogno. Ma l'identità di Giramondo gli rimase oscura.Questo mistero giornalistico che appassionò i lettori del "Corriere" in quella tetra primavera del '44 è stato vagliato in seguito dagli storici, se non per individuare l'autore, almeno per capire lo scopo che egli si proponeva. E sembra ormai chiaro che lo scopo eralanciare dei segnali di pacificazione a una parte dell'antifascismo, in particolare ai socialisti, nella speranza di consentire la sopravvivenza a quel fascismo di sinistra cui Mussolini ormai si richiamava. In seguito, infatti, questi segnali saranno recepiti e, come vedremo, daranno vita a un effimero movimento socialista repubblicano dalle grandi aspettative, ma dalle basi non solide.Quanto a Giramondo - pseudonimo che non si attaglia a Mussolini, considerando che il mondo lo girò assai poco -, esso nascondeva i tre vecchi socialisti che si erano ritrovati altramonto della loro vita sulle sponde del lago di Garda. L'estensore era sicuramente il Duce, anche se l'esame stilistico degli articoli rivela tratti di prosa confusa e prolissa che contrastano con la tradizionale chiarezza della scrittura mussoliniana. Ma che fosse lui l'estensore lo conferma anche il fatto che nell'aprile del '44 la pubblicazione fu sospesa per una settimana in coincidenza con la sua visita alle truppe italiane che si stavano addestrando in Germania.Probabilmente Mussolini redigeva gli articoli assemblando testi propri e contributi di Silvestri e di Bombacci. Per esempio, quando Giramondo accenna alla "nostra im-

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtmutata passionaccia giornalistica", è certamente Mussolini che parla in quanto quella "passionaccia" la coltivò sempre. Sono sicuramente di Silvestri, invece, i riferimenti elogiativi a Filippo Turati del quale era stato amico personale e devoto estimatore; così come è senza dubbio Bombacci l'autore di questo brano: "È la ragione per cui Lenin, Trotzkij e Stalin non hanno mai preso sul serio i comunisti italiani; è la ragione per cui Lenin, ad una delegazione di socialisti italiani da lui ricevuta al Cremlino, rivolse questa invettiva: "In Italia c'era un solo socialista capace di guidare il popolo alla rivoluzione: Mussolini! Voi l'avete perduto e non siete stati capaci di ricuperarlo"". A quell'epoca, infatti, l'episodio era noto soltanto a Bombacci e Mussolini deve essersi sentito orgoglioso nel rivelarlo.È invece attribuibile a Carlo Silvestri questo brano elogiativo dei leader riformisti Turati e Treves che Mussolini non amava affatto. Scrive Giramondo:Mussolini fu onorato (sì, onorato) di succedere nella direzione dell'"Avanti!" a Claudio Treves, il quale gli aveva trasmessa ancora immacolata quella bandiera che impugnata dalnuovo direttore guidò la classe lavoratrice milanese alla conquista del Comune... Sciogliamo una riserva e, come italiani, siamo lieti di additare proprio noi l'esempio di Turati, di Treves (e in verità di molti altri) che fuoriusciti a Parigi dimostrarono per il denaro "collaborazionista" del "Deuxième Bureau" lo stesso ribrezzo che avrebbero mostrato per la scabbia...Questi riconoscimenti e queste patenti di galantomismo distribuite a noti esponenti dell'antifascismo possono essere definiti senza timore rivoluzionari. Va, infatti, considerato il momento storico in cui gli articoli vedevano la luce, un momento in cui la guerra civile insanguinava le nostre contrade, un momento in cui gli antifascisti venivanodeportati o passati per le armi. Ciò basterà a spiegare lo sconcerto, la sorpresa e l'impressione che i pezzi di Giramondo suscitarono nei lettori e negli ambienti politici della Repubblica sociale.

Ma le citazioni sbalorditive non finiscono qui. Scrive Giramondo riferendosi agli antifascisti: "Ve ne sono molti che hanno pagato di persona palesando doti di coraggio e di energia, di tenacia, di fierezza, di dignità che possono essere additati ad esempio e a rampogna a moltissimi fascisti che dal fascismo avevano avuto tutto quello che non meritavano...". Riferendosi invece a quei tre "ex italiani" che svolgevano la propaganda attraverso Radio Londra, Giramondo si sfoga: "Vergognatevi! Con voi non polemizziamo. Se non vi mettiamo a nudo è per rispetto ai vostri parenti rimasti in Italia...". Uno sfogo, questo, che conferma la differenza che esisteva tra fascismo, nazismo e comunismo. In Germania e in Russia, infatti, i parenti dei "traditori" non venivano rispettati, ma fucilati... Giramondo invece continua: "Rincresce far sapere al mondo che vi sono degli italiani così bassamente vili come qualcuno dei

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtradio-commentatori della "Voce di Londra" e della "Voce dell'America". Additarli pubblicamente al disprezzo potrebbe significare mettere in una cattiva posizione dei familiari (già c'è stato un cenno in proposito) che non è giusto scontino i loro peccati".Non mancano naturalmente i ripetuti riferimenti alla socializzazione il cui decreto era stato pubblicato proprio in quei giorni. Scrive Giramondo:L'argomento è così di suggestivo interesse che meriterà a tempo debito una particolare trattazione, ma come premessa si può affermare che vi è una coerenza strategica di Mussolini alla quale si deve il programma rivoluzionario della socializzazione che, se non fosse sopravvenuta la guerra, sarebbe stato compiuto tra il 1939 e il 1940 (diciamo questo per chi parla scioccamente di improvvisazione). Ma esso era già chiaro nella mente di Mussolini quella mattina alle otto di un drammatico giorno dell'ottobre 1920, durante l'occupazione delle fabbriche, in cui egli inopinatamente si presentò nella camera di Bruno Buozzi, allora segretario di quella FIOM che aveva promosso l'occupazione stessa, e gli disse: "Se voi siete decisi a fare la rivoluzione, io sarò al vostro fianco e vi darò l'appoggio delle forze che mi seguono". Ma non se ne fece nulla perché alla direzione del PSI v'erano dei rivoluzionari di... burro cotto.

Oltre a lusingare i socialisti riformisti, Giramondo non manca di lanciare segnali anche indirezione dell'URSS (in quel momento, infatti, sia a Salò sia a Berlino si vagheggiava una pace separata con Mosca) e sottolinea con una punta di fierezza che l'Italia è stato il primo paese, dopo la Russia, a promulgare un decreto così sostanziale sulla socializzazione.Nei suoi dodici articoli insomma, Giramondo compie un ampio giro panoramico passando dai grandi temi internazionali a quelli nazionali e personali. Le sue frecciate o le sue lusinghe sono spesso dirette a personaggi non facilmente identificabili. Con alcuni è aspro, con altri bonario, come per esempio con Luigi Einaudi, il quale "riprendendo a scrivere sul "Corriere" del 22 agosto del 1943 [ossia nel periodo badogliano] credette di poter riallacciarsi all'ultimo suo articolo pubblicato su questo stesso giornale il 29 ottobre1925 e, come fosse un monaco in un monastero, esordì con quell'Heri dicebamus che nonha giovato ad accrescerne il credito, del resto meritato, nel campo della sua specifica competenza...".Risolto il mistero dell'identità di Giramondo, resta da chiedersi quale scopo si prefiggevano di raggiungere i tre autori con quella dozzina di articoli estemporanei. Di ipotesi ne sono state avanzate molte - vuota propaganda, demagogia, espressione di risentimento, ricerca di un alibi -, ma la più credibile è quella di un disperato tentativo di agganciare i socialisti al carro barcollante della RSI. Tuttavia rimaniamo personalmente convinti che Giramondo, uno e trino, avesse le idee piuttosto confuse. D'altra parte non bisogna dimenticare che, in quel particolare momento, la RSI era come una nave alla

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtderiva in un mare in tempesta. Ogni approdo, anche il più stravagante, poteva di conseguenza essere scambiato per una possibile ancora di salvezza. Comunque fosse, Giramondo si inserì, riaccendendolo, nel dibattito fra moderati e intransigenti che con i suoi alti e bassi non si era mai spento all'interno del movimento fascista.

Fin dagli albori, la Repubblica sociale era apparsa agli occhi degli osservatori più attenti come una sorta di ultima spiaggia dominata da fascisti fanatici e intransigenti assetati soltanto di vendetta e votati al bagno di sangue, all'olocausto finale, alla bella morte e infervorati da tutto quel ciarpame letterario e romantico che il regime aveva mitizzato. I moderati erano stati ridotti al silenzio. Ma in seguito si erano fatte risentire anche le loro voci. Voci di uomini che avevano seguito Mussolini nella sua ultima avventura, non con propositi di vendetta ma per fedeltà all'uomo o per un personale senso dell'onore. Giramondo riaccese pertanto polemiche violentissime fra i fascisti "spuri", favorevoli a portare avanti un programma sociale in un clima di concordia, ignorando l'antitesi fascismo-antifascismo; e i fascisti "puri e duri", come Pavolini, Farinacci, Mezzasoma, che, forti dell'appoggio dei tedeschi, ripudiavano qualsiasi tentativo di democratizzazionee di socializzazione.In questo conflitto, Mussolini non aveva mai preso ufficialmente posizione, limitandosi prosaicamente a tenere il piede in due scarpe. Ora, tuttavia, sotto le vesti di Giramondo dava il suo appoggio ai revisionisti intimiditi. Dopo i clamorosi articoli di Giramondo si registrarono infatti altri casi giornalistici che smossero le acque pantanose della RSI. Il primo fu quello del filosofo Giovanni Gentile, presidente dell'Accademia d'Italia, che pubblicò un appello sul "Corriere della Sera" in cui sosteneva l'utilità della libertà di critica nei confronti delle decisioni del governo e del partito, nonché la necessità di affidarsi a uomini e a metodi diversi da quelli del passato. Al filosofo -che trovò vasti consensi, compreso quello del poeta americano Ezra Pound, che aveva aderito alla RSI - rispose il direttore dell'"Arena" di Verona, Giuseppe Castelletti, col suo famoso articolo che iniziava con le parole dell'inno socialista Su fratelli, su compagni... Subito dopo seguìun altro appello alla tolleranza (Scongelare! Rapporto a Pavolini) pubblicato da Giorgio Pini sul "Resto del Carlino" che fé-

ce molto clamore, fu ripreso da numerosi giornali e riversò sull'autore le critiche feroci degli intransigenti.Ma il caso giornalistico più importante ebbe per protagonista Concetto Pettinato, il giornalista rientrato volontariamente dal suo rifugio svizzero per assumere la direzione della "Stampa". Pettinato, definito da Mussolini "la mente più lucida del giornalismo repubblicano", il 21 giugno 1944 pubblica sul giornale torinese il celebre fondo Se ci sei

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtbatti un colpo. Si tratta, come scrive Silvio Bertoldi, forse dell'unico esempio di libera critica durante il periodo di Salò. Pettinato chiede perentoriamente a Mussolini di uscire finalmente allo scoperto e di dimostrare che sia lui sia il suo governo esistono, che sono una realtà politica e non un ectoplasma.Per questo suo intervento "eretico" Pettinato rischia la galera: Pavolini, Farinacci, Mezzasoma e gli altri integralisti chiedono addirittura la sua testa. Anche Mussolini lo critica, ma forse solo per opportunismo politico. Pettinato sarà comunque deferito alla direzione del partito e severamente biasimato.Anche il direttore della "Stampa" appartiene alla corrente di coloro che vorrebbero capiree discutere le ragioni degli avversari per salvare il salvabile. La pensano come lui, oltre a Pini, Gentile e Castelletti, il ministro dell'Educazione nazionale Carlo Alberto Biggini, il podestà di Milano Piero Parini (che reclama addirittura la pluralità dei partiti), Fulvio Balisti, Ugo Manunta, il capo ufficio stampa della Muti Gastone Gorrieri, il cieco di guerra Carlo Borsani, Mirko Giobbe, il questore di Milano Alberto Bettini e altri personaggi che ricoprono incarichi importanti nel partito e nel governo. Sono tutti uominiche chiedono, fra l'altro, un comportamento più fermo e indipendente riguardo ai tedeschie la prova che esista veramente uno Stato e un governo i cui "atti si vedano".L'esistenza di questo gruppo politico autonomo dentro la RSI viene riconosciuta anche dalla stampa estera, che non manca di segnalare la sua tendenza:

a favorire una unione di forze patriottiche all'infuori delle ideologie di partito cui non sarebbe estraneo lo stesso Mussolini il quale risulta legato da rapporti amichevoli con alcuni dei suoi compagni del tempo pre-fascista, fra i quali un ex componente dell'Internazionale comunista [Bombacci], un socialista il quale, malgrado vent'anni d'esilio sotto il fascismo, non ha disdetto la sua amicizia per lui [Silvestri], nonché molti sindacalisti che sono più sindacalisti che fascisti...

XX MINE SOCIALI IN VAL PADANANell'estate del '44, Nicola Bombacci vive la sua ora di notorietà. Gli uscieri lo chiamano Eccellenza e lui se ne compiace. Da tempo ha abbandonato il look rivoluzionario, la barba incolta e la chioma scarmigliata, il cappellaccio nero e il fiocco alla Lavallière. Oraindossa abiti scuri o doppio-petti gessati da burocrate conservatore, porta i capelli all'umbertina e la barba corta ben pettinata. Ogni mattina un'auto di servizio va a prenderlo a Gaino dove lo riporta alla sera. Non è diventato ricco, ma i creditori non gli danno più la caccia. Lo stipendio è discreto e gli consente di vivere senza preoccupazioni finanziarie. I figli Raoul e Vladimiro sono rimasti nell'Italia libera (ma lui preferisce definirla occupata), ossia a Roma. Praticamente non ha una vita mondana: trascorre in

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtcasa le serate con la moglie Erissena e la figlia Gea, tenendo sulle ginocchia la nipoti-na Rossella (è stato lui a scegliere quel nome poiché deriva dal suo colore preferito...). In casa Bombacci è vietato parlare di politica perché lui ha deciso così. Questa consuetudine, in seguito, ostacolerà non poco il lavoro dei biografi poiché i ricordi dei familiari si riveleranno piuttosto scarsi. In pubblico, Bombacci è un uomo socievole e spiritoso. A chi gli chiede perché si è accorciato la barba, risponde: "Per fare quei famosi spazzolini...". Ai gerarchi che gli chiedono scherzosamente: "Comunista?", ribatte sorridendo: "Se volete".La guerra ha ormai registrato la svolta decisiva: gli Alleati sono sbarcati in Normandia, l'Armata Rossa ha ini-

ziato la sua marcia verso Berlino, la linea Gotica segna il confine meridionale della Repubblica e la guerra civile si è particolarmente inasprita. Ma Bombacci resta irresponsabilmente ottimista. E convinto che la Germania, anche se non riuscirà più a vincere la guerra, saprà comunque concluderla in maniera positiva. Malgrado la socializzazione segni il passo fra mille ostacoli, si dice sicuro che la sua realizzazione restituirà al paese la pace sociale. Il 19 agosto 1944, presentato come "l'uomo che venticinque anni orsono fu un apostolo del verbo leninista", ha pubblicato sul "Corriere" l'articolo Dove va la Russia? in cui, pur riconoscendo gli enormi sforzi compiuti per trasformare il paese in una potenza industriale, ne critica il risultato perché non ha portatotangibili miglioramenti alle condizioni dei lavoratori. "Sarà Roma e non Mosca" conclude"che darà all'Europa e al mondo la nuova epoca: quella del trionfo del lavoro." In un altroarticolo, dopo avere ribadito la necessità di "sradicare dalla coscienza dei lavoratori la triste menzogna che Mussolini è nemico del lavoro", afferma che "bisogna dare la prova concreta che le riforme radicali del campo economico accompagnano l'azione delle armi".Nelle sue apparizioni in pubblico Nicola Bombacci interpreta ormai con disinvoltura il ruolo di consigliere personale del Duce. Per la verità, negli organigrammi del regime non è mai esistita una simile qualifica: il Duce non ha bisogno di consigli. Ma tant'è: considerata la sua evidente familiarità con il capo della Repubblica sociale, nessuno osa contestargli quel titolo arbitrario. Lo stesso Mussolini, quando i gerarchi più maligni gli riferiscono delle vanterie dell'ex sovversivo, non fa commenti e si limita a sorridere bonariamente. Chi tace acconsente. Il debole che ha sempre nutrito nei confronti di Nicolino ora si è trasformato in un forte sentimento di amicizia. Se Bombacci non è il suoconsigliere, certamente è il suo confidente preferito. Trascorrono insieme lunghi pomeriggi, le sere no, perché entrambi si coricano molto presto. Di cosa par-

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtleranno? Chissà: probabilmente gli amarcord dei due vecchi rivoluzionari romagnoli hanno il sopravvento sugli avvenimenti della triste realtà.Dicono che la vecchiaia inizi quando le recriminazioni prendono il posto dei sogni: per Mussolini la vecchiaia era iniziata il 25 luglio 1943. Nella penombra dello studio di villa Feltrinelli, i due vecchi rievocavano certamente i momenti salienti delle loro esistenze parallele. Bombacci si era da tempo convinto che, se non ci fosse stato il delitto Matteotti, la storia d'Italia sarebbe stata diversa. I "se", come è noto, sono l'ultimo rifugio dei disperati, e nelle conversazioni di Bombacci e Mussolini i "se" abbondavano. "Se si riuscisse a dimostrare che tu non c'entri col delitto Matteotti" potrebbe avere osservato Bombacci "forse potresti riprendere coi socialisti il discorso interrotto il 10 giugno 1924..." L'osservazione è del tutto immaginaria, ma qualcosa di simile deve essere stata affermata in uno di quei colloqui. Infatti, dopo varie perplessità e tergiversazioni, Mussolini affidò effettivamente a Bombacci il compito di riaprire, se così si può dire, l'inchiesta sul caso Matteotti.A favorire questa decisione aveva contribuito anche un avvenimento imprevisto. Nell'estate del '44 erano state ritrovate in un magazzino della Stazione centrale di Milano alcune casse contenenti gli archivi della Segreteria particolare del Duce. La loro storia è abbastanza curiosa. Il 26 luglio 1943, appena nominato capo del governo, il maresciallo Badoglio aveva spedito i carabinieri a palazzo Venezia con l'ordine di requisire gli archividella segreteria del Duce dove, come si può bene immaginare, erano contenuti tutti i segreti del regime. Dopo il sequestro, gli uomini di Badoglio avevano provveduto a eseguire una rapida suddivisione delle carte e a far sparire tutti i fascicoli dei "rilievi a carico" che riguardavano la casa reale e gli alti gradi militari, Badoglio compreso, naturalmente. Di questi fascicoli, purtroppo, si è perduta ogni traccia; probabilmente furono bruciati. Il resto era stato invece imballato in nume-

rose casse e spedito per ferrovia. La destinazione era probabilmente la Svizzera, ma, essendo sopravvenuto nel frattempo l'8 settembre, nel marasma dei giorni che seguirono le preziose casse erano state abbandonate nella stazione milanese. Il successivo casuale ritrovamento aveva molto rallegrato Mussolini: quelle carte contenevano la storia vera degli ultimi vent'anni e lui non si era mai rassegnato alla loro perdita. Inoltre, essendo stata la sua caduta rapida e verticale, egli non aveva neppure avuto il tempo di far sparire i fascicoli più importanti che lo riguardavano personalmente. Subito dopo il ritrovamento, quelle preziose casse erano state trasferite, per espresso ordine del Duce, a villa Orsoline, dove i suoi incaricati riorganizzarono l'archivio.In questo archivio messo a sua disposizione, Bombacci trovò documenti importanti, nonché l'indicazione di varie piste da seguire. Mussolini, che sulle prime si era rivelato scettico, ora seguiva interessato le sue ricerche e concesse a Bombacci di avvalersi della

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtcollaborazione di un giovane intelligente, il prefetto Luigi Gatti. Questi, divenuto in seguito segretario particolare di Mussolini, sarà catturato e fucilato a Dongo dopo essere stato privato - non si sa da chi - del famoso fascicolo legato col nastrino tricolore che si è detto contenesse la verità sul delitto Matteotti.A Bombacci e a Gatti si unì, dopo qualche tempo, nella ricerca anche Carlo Silvestri, entrato ormai a far parte dell'entourage "socialista" di Mussolini. Silvestri e Mussolini si conoscevano da moltissimo tempo. Da giovani erano stati amici, poi il loro rapporto si era interrotto a causa della campagna giornalistica scatenata da Silvestri dopo l'assassinio del leader socialista. In seguito, come si è già accennato, dopo avere scontato anni di prigione e di confino, Silvestri si era rifatto vivo con il Duce verso la metà degli anni Trenta. L'ex giornalista aveva già dato vita a una sua Croce Rossa privata che cercava, per quanto possibile, di aiutare gli antifascisti imprigionati. Silvestri inviava i suoi appellial capo della polizia Arturo Bocchini,

di cui era amico, e questi interveniva presso Mussolini per avere il suo placet. E un vero peccato che si sappia poco dell'attività di questa singolare Croce Rossa cui centinaia di antifascisti devono molto. Purtroppo, l'opera meritoria di Carlo Silvestri fu demonizzata ecancellata dalla storia. Sappiamo comunque che fu di aiuto anche ad Antonio Gramsci. Quando il leader comunista, detenuto nel carcere di Turi, si ammalò gravemente, Silvestri, tramite Bocchini, si rivolse al Duce e questi ordinò che il prigioniero fosse trasferito prima in una clinica di Formia e successivamente nella casa di cura pariolina "Quisisana" dove, qualche tempo dopo, morì.Mentre maturava il suo ripensamento sul delitto Matteotti, Silvestri scrisse spesso a Mussolini. Tutte le sue lettere sono conservate tra i fascicoli della Segreteria particolare del Duce, ora custodita presso l'archivio centrale dello Stato. È una corrispondenza che rivela un'antica confidenza. "Vi saluto" annota Silvestri nel 1938 "ricordando l'abbraccio fraterno che ci scambiammo quando, alla stazione di Milano, solo, vi avevo accompagnato alla tradotta che riconduceva verso il fronte il caporal maggiore dei bersaglieri Benito Mussolini." E due anni dopo: "Ah, perché il destino volle allontanarmi da voi, io che ero nato per combattere e osare al vostro fianco". E nel 1941, dopo la mortedel figlio del Duce: "Io ve lo giuro sul nome di Bruno, io sono spiritualmente vicino a voisenza riserve...".A ben vedere, queste lettere potrebbero essere interpretate come un tentativo opportunistico di rientrare nelle grazie del potente. Ma come si spiega allora che, dopo i quarantacinque giorni di Badoglio nel corso dei quali Silvestri rifiutò la direzione della "Stampa" offertagli da Agnelli, il giornalista abbia continuato a scrivere a Mussolini anche quando era caduto in disgrazia? C'è per esempio una lettera datata 9 settembre 1943 che comincia così: "A Benito Mussolini (dove si trova). Debbo dirvi delle cose che

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txta nessun altro io direi...". E qualche mese dopo:

"C'è da lavorare per l'Italia di domani, per la repubblica socialista. Io sono pronto...".Strano personaggio questo Silvestri. Per lui, come per Bombacci e per gli altri antifascistiche si riunirono intorno al Mussolini sconfitto di Salò, la spiegazione del loro comportamento si nasconde negli arcani dell'animo umano. Non furono degli opportunisti: forse si lasciarono semplicemente imprigionare dal fascino che colpì quanti entrarono nel "cerchio magico" dell'ex maestro di Pre-dappio.Bombacci e Silvestri lavorarono spesso gomito a gomito fra le scartoffie di villa Orsoline. Quasi per magia, una singolare coincidenza li fece incontrare sulla stessa pista che avrebbe dovuto condurre alla revisione del caso Matteotti. Da parte sua, Mussolini seguiva con impegno il loro lavoro di ricerca e si prestava a subire interrogatori e contestazioni. Per la verità, l'interesse del Duce andò aumentando man mano che si delineò nella sua mente il disegno di agganciare i socialisti e costruire con loro il famoso "ponte". Ma immaginare che, da dietro le quinte, abbia manovrato lui l'operazione approfittando dell'ingenuo entusiasmo dei due uomini è forse eccessivo.Per consentire al lettore di trarre le sue deduzioni sull'intricato affaire Matteotti, è però opportuno riportare alcuni brani della deposizione di Carlo Silvestri al secondo processo celebrato a Roma nel 1947.Presidente: Risponde al vero che Mussolini fece vedere al teste dei foglietti di carta nei quali Marinelli* si assumeva la responsabilità dell'uccisione di Matteotti?Avvocato Manassero: Per l'esattezza si trattava di fogli di carta igienica...Silvestri: Forse. Io non li ho letti. Non li ho visti. Me ne parlò Mussolini. Marinelli era stato colpito da paralisi in carcere. Quando* Giovanni Marinelli, già amministratore del partito e capo della ceka, era stato fucilato aVerona l'8 gennaio 1944 insieme a Ciano, De Bono e altri due "traditori" del 25 luglio.-

si rivolse a Mussolini era già un uomo finito. Nel foglietto, o nei foglietti, fra altre cose chiedeva scusa per il delitto Matteotti e, rivolgendosi a Mussolini in punto di morte, chiariva il suo desiderio di confessare il rimorso che attanagliava la sua coscienza.Presidente: Un'altra domanda. Lei ha detto che nel 1945 Mussolini diede a Bombacci l'incarico di fare un'inchiesta sul delitto.Silvestri: Non è esatto. Non nel 1945, molto tempo prima. Da anni si svolgeva l'inchiesta per iniziativa di Bombacci e non di Mussolini.Presidente: È possibile che lui, che aveva tutti i mezzi per sapere tutto, aspettasse tanti anni?Silvestri: La domanda gliel'ho fatta anch'io. Sarei stato un "giudice istruttore" bestia se

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtnon l'avessi fatta. Io mi limito a dire: improvvisamente salta fuori una circostanza per cui uno comincia a sospettare, a intravedere una pista. Insomma ci fu un sipario che per un attimo si levò: da quell'attimo può essere stata originata la nuova indagine.Dai banchi degli avvocati si rumoreggia.Silvestri: Signor Presidente, non comprendo il sarcasmo di quei signori: è forse la prima volta che i mandanti di un delitto si scoprono dopo vent'anni? Io comunque insistei moltosu quella domanda e Mussolini mi disse che per merito di Bombacci erano scaturite delle risultanze nuove, le quali avevano permesso di individuare delle piste al termine delle quali doveva trovarsi la verità. Piste che, sono parole di Mussolini, "conducevano in quei torbidi ambienti della speculazione finanziaria e del capitalismo deteriore nei quali aveva avuto origine il delitto".Successivamente, Carlo Silvestri fece pervenire alla corte questa dichiarazione:Nel marzo del 1945 l'ex segretario generale del PCI Nicola Bombacci ebbe a confidarmi quanto segue: "Ho sempre avuto l'assillo di riuscire a provare la più completa estraneità di Mussolini nel delitto Matteotti attraverso la scoperta delle vere origini del delitto. Accertare la verità divenne per me un'idea fissa. Se insistetti per poter lavorare non lontano da Mussolini, con un incarico che mi dimostrasse la sua fiducia, fu per crearmi una specie di protezione che giovasse alla libertà dei miei movimenti tali da suscitare sovente allarmi nei capi e negli organi del partito. Se riuscissi nel mio compito sarei lieto di concludere così la mia vita. Se il proletariato italiano si dovesse convincere, come io ora sono convinto, che Mussolini non volle l'uccisione di Matteotti e che, al contrario, il suo più bel sogno si sarebbe realizzato quando gli fosse riuscito di por-

tare i socialisti al governo, forse il dopoguerra potrebbe vedere ancora una conciliazione tra l'antico socialista, rimasto sempre tale nell'anima, e i lavoratori delle officine e dei campi".Sempre nell'estate del '44, Nicola Bombacci fu protagonista con Mussolini di un misterioso episodio di cui non si conoscono i particolari. Pietro Carradori, un agente della"presidenziale", il corpo speciale della PS che scortava il presidente del consiglio, che fu per anni l'ombra del Duce, ha rivelato recentemente che i due personaggi si sarebbero incontrati segretamente con alcuni agenti britannici. L'incontro avrebbe avuto luogo nelladisabitata villa Travaglia, situata nelle vicinanze di Porto Ceresio, sulla sponda italiana del lago di Lugano. Racconta Carradori:Partiti in macchina da Gargnano siamo arrivati a Porto Ceresio dopo le 23. La villa si trovava oltre l'abitato, su una curva dal lato del lago. Quando siamo arrivati la casa era buia e non c'erano auto davanti all'ingresso. Gli inglesi, però, erano già dentro. Probabilmente erano arrivati dalla Svizzera su un'imbarcazione approdando direttamente nella darsena interna. Appena giunti, Mussolini e Bombacci sono entrati nella villa. Io e

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtl'autista Cesarotti siamo rimasti in attesa davanti al cancello. Non abbiamo visto con chi si sono incontrati e con chi hanno parlato. Verso le due del mattino sono tornati. Erano silenziosi e imbronciati e noi li abbiamo riportati a Gargnano dove siamo giunti circa tre ore dopo. Come ho fatto a sapere che i loro interlocutori erano inglesi? Semplice, l'ho capito dalle poche battute che si sono scambiate lungo il viaggio di ritorno. Bombacci ha detto: Questi inglesi sono sempre gente ambigua. E Mussolini: È vero. Sono fatti così. Poi ho afferrato altre frasi smozzicate: È difficile strappargli qualcosa. Non vogliono mollare nulla.Alcuni storici hanno messo in dubbio la veridicità di questo racconto. Non si spiegano, infatti, che cosa Mussolini sperasse di ottenere dagli inglesi visto che, già dall'anno primaa Casablanca, gli Alleati avevano imposto all'Italia la resa senza condizioni. Ma Pietro Carradori è una persona seria. L'ex attendente di Mussolini, che ora è un lucido ottantenne dalla memoria di ferro, non ha certo bisogno di lavorare di fantasia: ha vissutoper anni accanto al Duce, ne ha conosciuto tutti i segreti, soprattutto

quelli privati e sentimentali che interesserebbero molto di più i rotocalchi dell'episodio di Porto Ceresio. E allora? Probabilmente si trattò del primo tentativo dell'Intelligence Service di recuperare quel prezioso carteggio Mussolini-Churchill di cui ancora si favoleggia. D'altra parte, se si fosse trattato di cercare una soluzione del conflitto, Mussolini avrebbe dovuto farsi accompagnare da un militare autorevole come il maresciallo Graziani e non da un amico personale privo di qualsiasi qualifica.Bombacci seguiva Mussolini anche in occasione di ispezioni o di visite ufficiali. Una volta, mentre si recavano a Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano, dove si stavano addestrando dei reparti di Camicie nere, la loro auto fu attaccata da un caccia nemico. "Improvvisamente" racconta Pietro Carradori "abbiamo sentito il rombo di un aereo e il crepitare delle mitragliatrici. Cesarotti ha subito bloccato la vettura e io ho spalancato la portiera posteriore e ho preso Mussolini trascinandolo quasi di peso sotto il portico di unacasa vicina. Bombacci si salvò con le sue gambe..." Pur avendo quattro anni più di Mussolini, il sessantacinquen-ne Bombacci era assai più agile e giovanile di lui.All'inizio dell'autunno Bombacci chiese a Mussolini di affidargli il compito di parlare agli operai. "Sono certo che mi ascolteranno e che mi seguiranno" affermò con ingenuo candore. Ottenuto il permesso, parlò per la prima volta a Salò e ottenne effettivamente unbuon successo che lo invogliò a proseguire. In seguito tenne, infatti, altre conferenze a Brescia, Como, Venezia, Busto Arsizio, Verona e Pavia. Senza dubbio egli fu l'unico capace di richiamare le folle negli anni della Repubblica sociale. Sicuramente la molla principale di questo richiamo era rappresentata dalla curiosità che suscitava il personaggio, il quale non solo non rinnegava il proprio passato, ma da esso traeva lo spunto per valorizzare la socializzazione promessa da Mussolini. Non va tuttavia

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtsottovalutata la sua capacità di affascinare il pubblico: chi ha assistito alle sue conferenze ricorda la sua accattivante oratoria di con-

sumato comiziante e la sua abilità nello stabilire un contatto immediato con gli ascoltatori. Lo stesso partito, che diffidò sempre di quello che considerava, quanto meno, un intruso, finì per riconoscere le sue qualità di propagandista efficace; e infatti fu proprio Pavolini a decidere di programmare le sue conferenze nei principali centri industriali del Nord."La prestante figura eretta" scrivevano i giornali "sorridente, il viso incorniciato dalla ormai tradizionale barbetta, Bombacci risponde agli applausi levando la destra in alto, romanamente." Agli operai egli parlava del fallimento del comunismo in Russia, soprattutto a causa delle deviazioni staliniane. "A Lenin" spiegava "successe il georgiano Stalin, uomo personalmente repulsivo, bieco, di atavica ferocia, bramoso di strapotere che iniziò coartando tutti i lavoratori dell'URSS ad una orrenda schiavitù." Rievocando lesue esperienze personali, Bombacci non mancava mai di ricordare la sua antica amicizia con Mussolini, "un vero socialista nato dal popolo lavoratore che non ha mai rinnegato il suo passato". Il Duce, secondo Bombacci, dopo essere stato tradito dal re e dalla borghesia, "come il Salvatore, ha ripreso sulle spalle la croce della responsabilità tremenda per iniziare il riscatto della Patria". Naturalmente, il tasto più battuto dall'oratore era quello della socializzazione e dei vantaggi che ne sarebbero derivati al popolo lavoratore. Ma attenzione, osservava Bombacci, non si può avere tutto subito: "Socializzazione è altruismo, è dignità di lavoro, è dirittura morale e politica del lavoratore. Se sarete egoisti" ammoniva "sarete peggio dei vostri padroni".Dopo ogni comizio, imbaldanzito dal successo, Bombacci riferiva per lettera a Mussolini le sue impressioni e le sue considerazioni, forse un po' troppo esaltate. "Ho parlato" gli scrisse da Verona "un'ora e mezza in un teatro gremitissimo ed entusiasta. Ho esposto l'importanza storica e sociale della socializzazione e ho toccato anche il tasto del combattimento. Alla fine la platea, composta nella

maggior parte da operai, è scattata in piedi gridando: Vogliamo combattere per l'Italia, la repubblica, la socializzazione." Sempre da Verona, Bombacci raccontava a Mussolini di avere "visitato la Mondadori, già socializzata. Ho parlato con gli operai che fanno parte del consiglio di gestione che ho trovato pieni di entusiasmo e compresi di questa loro missione. Mi hanno detto che gli utili di questi primi sei mesi ammontano a circa 3 milioni. Ciò naturalmente aumenta il loro interesse...".Ma il programma di socializzazione rimane in gran parte inattuato per gli ostacoli frapposti dalla destra del partito e soprattutto dal responsabile del dipartimento

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtArmamenti e Produzione bellica dell'amministrazione militare in Italia, generale Leyers. Soltanto nel gennaio 1945, forse per incoraggiare il Partito socialista repubblicano cui aveva dato surrettiziamente vita, Mussolini tornò a impegnarsi di persona per l'applicazione del decreto. Dopo avere rimproverato Leyers e minacciato Rahn di rivolgersi al Fùhrer in persona, ottenne finalmente via libera. Forse, sentendo ormai avvicinarsi la fine, i tedeschi decisero di lasciarlo fare. Mussolini e Bombacci accarezzavano il sogno di far trovare agli angloamericani e ai monarchici un Norditalia socialista. Si illudevano, con ciò, di spingere gli operai a difendere, nei confronti degli occupanti, le conquiste sociali raggiunte con la RSI. "Seminare la Valle Padana di mine sociali" fu l'ultima parola d'ordine lanciata da Mussolini. E Bombacci vi si adeguò ciecamente. Mentre in molte aziende, con una disperata corsa contro il tempo, riprendevail processo di socializzazione, Nicola Bombacci correva di città in città a "spezzare il pane rivoluzionario della socializzazione". Il suo canto del cigno lo pronunciò a Genova il 15 marzo 1945 davanti a una folla enorme, e francamente sconcertante, che era riuscito a richiamare in piazza De Ferrari.Nel dopoguerra, della socializzazione mussoliniana sopravvissero per un breve periodo soltanto i consigli di gestione. Quella importante conquista sindacale ereditata

dalla RSI fu infatti difesa a lungo dai socialisti, in particolare da Rodolfo Morandi, mentre era avversata, sia pure per opposte ragioni, dagli industriali e dai comunisti. I primi non gradivano infatti interferenze nella gestione delle loro aziende e i secondi temevano che la partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali potesse "inquinare" la linea rivoluzionaria allora seguita dal partito. Di conseguenza, alla fine i consigli di gestione furono liquidati: i padroni riebbero i loro autonomi consigli d'amministrazione e gli operai le loro commissioni interne di rappresentanza.

XXI UNA REPUBBLICA CHE NESSUNO VUOLEIl 16 dicembre 1944, Benito Mussolini parlò per l'ultima volta agli italiani dai microfoni del teatro Lirico di Milano. Aveva deciso di riapparire in pubblico, uscendo per qualche giorno dal suo eremo di Gargnano, perché rincuorato dalle buone notizie che giungevano dai fronti di guerra. Nelle Ardenne Hitler aveva vibrato il suo ultimo colpo di coda: con un'improvvisa controffensiva i tedeschi avevano messo in serie difficoltà l'esercito alleatoseminando scompiglio in prima linea e nelle retrovie. Ne era seguita una confusa ritirata, che aveva anche assunto gli aspetti di una rotta, nel corso della quale il comandante supremo nemico, il generale Eisenhower, aveva addirittura rischiato di essere fatto prigioniero. L'effetto Ardenne aveva influito anche sul fronte italiano. Nell'alta Lunigianae in Garfagnana, soldati tedeschi e bersaglieri italiani della divisione Italia erano giunti a

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtminacciare la riconquista di Lucca.Quella vittoria militare era comunque limitata: infatti la controffensiva germanica si spegnerà poche settimane dopo di fronte alla preponderante superiorità delle forze avversarie. Tuttavia era stata sufficiente a galvanizzare i disperati di Salò, pronti ormai adaggrapparsi anche al più tenue filo di speranza.Prima di raggiungere Milano Mussolini, accompagnato da Bombacci, aveva voluto spingersi fino agli avamposti della linea Gotica per intrattenersi con i bersaglieri accampati fra le nevi delle Alpi Apuane. La visita al fronte ave-

va avuto su di lui un effetto tonificante. L'entusiasmo di quei ragazzi gli aveva fatto tornare il sorriso sulle labbra. Aveva consumato il rancio con loro e, a dispetto della sua ulcera, aveva sgranocchiato commosso un pezzo di cioccolato americano, "bottino di guerra" di un giovane bersagliere. Poi, dopo avere pernottato ad Aulla, era rientrato alla base a tappe forzate per sfuggire ai mitragliamenti dei caccia nemici ormai padroni del cielo.Il 6, 7 e l'8 dicembre, Milano donò a Mussolini i suoi ultimi giorni più belli. Un assembramento enorme - cinquantamila persone, forse più - lo accolse festoso e commosso. Non si registrarono incidenti né attentati, come se la guerra civile si fosse momentaneamente placata. Mussolini, che viaggiava su una macchina scoperta, praticamente senza scorta, si immerse felice in quel salutare bagno di folla che gli ricordava i tempi lontani del suo fulgore. Questo fenomeno collettivo è ancora oggi inspiegabile, soprattutto se si considera che pochi mesi dopo la stessa folla milanese si comporterà in maniera diversa a piazzale Loreto... Ma così fu. I più sorpresi di tutti furono gli stessi fascisti, abituati da tempo a celebrare in solitudine i loro lugubri riti. Il carisma di Mussolini, evidentemente, sopravviveva ai lutti e alle tragedie.Il discorso del Lirico fu uno dei più belli della sua carriera politica. Mussolini ritrovò la verve di un tempo e fu di volta in volta veemente, grintoso, drammatico e patetico. Ma ciò che più conta, lanciò anche un segnale significativo all'opposizione antifascista. Questo brano del suo discorso merita di essere riportato integralmente perché rappresentail primo pilone di quel mitico ponte che egli intendeva gettare verso i socialisti.A un dato momento della evoluzione storica italiana può essere feconda di risultati - accanto al partito unico e cioè responsabile della direzione globale dello Stato - la presenza di altri gruppi che, come dice l'articolo 3 del Manifesto di Verona, esercitino il diritto di controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione. Gruppi che - partendo dall'accettazione leale, integrale

e senza riserve del trinomio Italia, Repubblica, Socializzazione, abbiano la responsabilità

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdi esaminare i provvedimenti del governo e degli enti locali, di controllare i metodi di applicazione dei provvedimenti stessi e le persone che sono investite di cariche pubblichee che devono rispondere al cittadino del loro operato.Mussolini parlò di "gruppi", non di "partiti", ma il significato non cambia. Le sue parole suonavano infatti come un invito all'opposizione a farsi avanti e a organizzarsi, sia pure nei limiti consentiti dalla dittatura. La sua clamorosa avance non mancò di sconcertare i fascisti intransigenti. Farinacci la definì una prova di "decadimento intellettuale", mentre Pavolini si affrettò a inviare alle federazioni una circolare in cui ricordava che il partito fascista "resta il partito unico" e vietava rigorosamente agli iscritti di aderire ad altri raggruppamenti.L'apertura di Mussolini alle opposizioni non sorprese invece un gruppo di socialisti e sindacalisti che da tempo erano impegnati nell'operazione ponte. Costoro erano guidati dal filosofo napoletano Edmondo Cione, che si era avvicinato al socialismo durante gli anni di confino trascorsi accanto a Carlo Silvestri, Lelio Basso e altri futuri leader del PSI. Come se avessero atteso quel segnale convenuto, qualche giorno dopo, Cione e altri suoi compagni inviarono a Mussolini questa lettera:A Benito Mussolini, Capo della Repubblica sociale italiana.Prendendo spunto dalle precedenti trattative e dal vostro discorso al Lirico, i sottoscritti, nell'intento di vedere effettivamente realizzato il programma espresso con le parole Italia,Repubblica, Socializzazione, intendono costituirsi in un Raggruppamento nazionale, repubblicano, socialista per risvegliare il senso della fierezza italiana, opporsi a qualunque restaurazione monarchica e capitalistica, promuovere con un'azione costante lasocializzazione ed esercitare un'opera continua di critica e di controllo sull'azione di governo e di amministrazione. Chiedono pertanto l'autorizzazione del caso e il permesso di pubblicare un quotidiano.A questo punto, il lettore si sarà già reso conto che ci troviamo di fronte a una situazione piuttosto singolare. In un paese occupato dai tedeschi e sconvolto dalla guerra

civile, dove fascisti e antifascisti si battono a sangue sulle montagne e nelle città, un fantomatico gruppo socialista si rivolge al dittatore per chiedere il permesso di organizzarsi e di fare liberamente... opposizione.Siamo dunque alla follia? Non ancora, ma siamo certamente al "si salvi chi può". La fine della guerra si avvicinava e tutti, tranne i fanatici votati alla bella morte, attendevano sgomenti il bagno di sangue finale. Di conseguenza, come in un formicaio impazzito, nell'agonizzante repubblica protagonisti e gregari si dibattevano nel disperato tentativo ditrovare una scialuppa di salvataggio. I progetti si accavallavano e le vie d'uscita più fantasiose si sovrapponevano nella confusione generale. Fra queste, la più accessibile sembrava quella suggerita da Nicola Bombacci e da Carlo Silvestri, che Mussolini aveva

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdeciso di seguire. Si trattava, come sappiamo, del progetto di consegnare la repubblica "socializzata" al Partito socialista allo scopo di evitare il bagno di sangue e salvare le riforme sociali attuate dalla repubblica stessa.L'apertura ai socialisti, annunciata da Mussolini nel discorso del Lirico, segna dunque l'inizio ufficiale di questa complessa operazione. In realtà, le trattative erano iniziate molti mesi prima lungo due piste diverse, quella militare e quella politica. Per la prima, Carlo Silvestri aveva scelto come interlocutore Corrado Bonfantini, giovane e combattivosocialista da lui conosciuto negli anni di confino. Bonfantini, che in quel momento comandava le brigate partigiane Matteotti, era venuto a trovarsi in una situazione delicataper via della "guerra" che gli facevano Luigi Longo e Ferruccio Parri, ossia il capo dei partigiani comunisti e quello delle formazioni di Giustizia e Libertà che dipendevano dal Partito d'azione. All'epoca, infatti, pur godendo ancora di ampio consenso nell'opinione pubblica, il PSI già rivelava quelle caratteristiche negative che l'avrebbero ben presto trasformato in un partito subalterno del PCI, al quale era peraltro legato da un patto di unità d'azione vincolante e condizionante. In conseguen-

za di questa situazione, i capi socialisti (molti dei quali non nascondevano l'intenzione di fondersi con il partito fratello) avevano perseguito una politica appiattita sulla linea comunista rinunciando a priori alla possibilità di qualsiasi scelta autonoma. Essi, per esempio, non avevano partecipato alla Resistenza con un'organizzazione militare propria ritenendo sufficiente limitarsi ad affiancare quella del pci. Infatti, soltanto nell'estate del 1944 Corrado Bonfantini, obbedendo più a un impulso dell'animo che a una direttiva di partito, aveva frettolosamente formate le brigate Matteotti chiamando a raccolta i partigiani socialisti che militavano in altre formazioni. L'iniziativa autonoma del giovane comandante non era piaciuta al comando del Corpo volontari della libertà (CVL), dominato da Longo e da Pani, i quali per qualche tempo avevano addirittura finto di ignorare l'esistenza delle Matteotti e in seguito avevano ostacolato il loro equipaggiamento. Bonfantini si era inoltre molto risentito quando, in occasione dell'invio a Roma di una missione partigiana incaricata di trattare con gli Alleati, il CVL aveva vietato la presenza di rappresentanti socialisti.Questa premessa era necessaria per spiegare le motivazioni politiche, ma anche psicologiche, che portarono Bonfantini ad aderire all'operazione ponte. Avvicinato da Carlo Silvestri e contagiato, forse, dal suo ingenuo idealismo, egli andò infatti maturandonella mente un teorema politico secondo il quale i socialisti "per evitare di essere stritolatifra i monarchici e il PCI" dovevano risparmiare le forze, organizzarsi in maniera autonoma e quindi mettersi alla testa di un "Fronte di ricostruzione aperto a tutti i proletari, ma anche a quelle forze nazionali repubblicane che auspicavano la liberazione del paese da tutti gli invasori e desideravano instaurare una Repubblica socialista che

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txttenesse conto anche degli elementi di socialismo insiti nei programmi del governo della RSI". In parole più semplici, Bonfantini immaginava di potere ereditare da Mussolini, a nome del PSi, una repubblica socialista in grado di

sopravvivere, e capace di rendersi autonoma rispetto al Regno del Sud.Questo programma, come si può notare, doveva anche allora apparire di difficile realizzazione, considerata l'atmosfera incrudelita dalla guerra civile. Tuttavia Bonfantini lo perseguì a lungo. Ebbe numerosi contatti con Graziani e col ministro Biggini e con alcuni comandanti delle formazioni militari fasciste, in particolare con Junio Valerio Borghese, comandante della Decima Mas, e con alcuni esponenti della Muti. Verso la finedel '44 il comandante delle Matteotti si incontrò segretamente anche con Mussolini accompagnato da Silvestri e da Bombacci. Cosa si dissero non si è mai saputo. Nel dopoguerra, Bonfantini, che era stato praticamente esautorato dopo un duro scontro con Sandro Pertini giunto al Nord come rappresentante del PSI, smentì, per ragioni di sopravvivenza politica, questo compromettente colloquio. Ma non diceva il vero. Infatti l'operazione ponte andò avanti e si giunse persino a progettare - e ad attuare in parte - la costituzione di una "colonna mista" composta da partigiani socialisti, da militi della Muti e della Decima Mas, la quale, come scrisse Bonfantini, avrebbe avuto il compito di assumere il controllo militare per "evitare lo scatenamento di una guerra civile totale che, in buona sostanza, avrebbe rafforzato il nemico di classe e i concorrenti più diretti del partito socialista".Risulta dai documenti che Bonfantini e Borghese si sarebbero addirittura scambiati degli uomini per creare le prime pattuglie miste sperimentali. D'altra parte, il comandante della Decima Mas non era iscritto al Partito fascista e impartiva ordini a un piccolo ma agguerrito esercito "privato" che godeva di completa autonomia rispetto al governo della repubblica. Anche la brigata fascista Ettore Muti era autonoma e svolgeva, per così dire, funzioni di polizia ausiliaria. Questo forse spiega perché il comandante delle Matteotti avrebbe trattato soltanto con tali formazioni. Purtroppo, venire a capo di questa situazione è

praticamente impossibile poiché gli storici non dispongono della documentazione necessaria per fare chiarezza. Ciò che è certo è che i "congiurati" parteciparono a molte infuocate riunioni in cui, secondo quanto scrissero i giornali del Sud, i convenuti progettavano di "fare piazza pulita dei gerarchi più facinorosi, quali Farinacci e Pavolini, e quindi di proclamare una repubblica socialista...".In quegli ultimi giorni di Salò, inoltre, si registrò a Milano un tentativo di ribellione della Decima Mas che si placò soltanto dopo un lungo colloquio del principe Borghese con

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtNicola Bombacci inviato espressamente da Mussolini a parlamentare con i ribelli.Della colonna mista progettata da Bonfantini si trovano tracce anche in molti promemoriainviati al Duce dal comandante della Guardia nazionale repubblicana Nunzio Luna. In uno di questi si legge, per esempio, che "nella polizia ausiliaria della RSI e nella Decima Mas, già operano nuclei importanti affiliati alle brigate Matteotti". Vengono anche indicati i nomi assunti da queste formazioni miste: Mario Greppi, Marat, Fratelli di Dio.Come sappiamo, l'operazione ponte fallì miseramente e, tuttavia, alcune formazioni mistesi adoperarono, scriverà Carlo Silvestri, "per impedire fucilazioni arbitrarie e saccheggi col pretesto della politica". Il generale Renzo Montagna, capo della polizia della RSI, ricorderà che furono proprio gli uomini di Bonfantini a consentire a lui e al ministro dellaGiustizia Piero Pisenti di salvarsi. Anche il maresciallo Graziani fu graziato dai "matteottini". Bonfantini, infatti, non ottemperò all'ordine di fucilazione impartitogli da Sandro Pertini e consegnò il maresciallo agli Alleati. Ultima conseguenza del ponte fu la resa, per molti versi ancora misteriosa, della Decima Mas. Asserragliati nella loro caserma di piazzale Fiume, a Milano, il 26 aprile i "decimini" consegnarono infatti le armi agli uomini delle Matteotti. Il loro comandante, Junio Valerio Borghese, che aveva deciso di non seguire Mussolini nella sua fuga verso la Valtellina, si consegnò personalmente a Bonfantini

e questi, dopo averlo nascosto per alcuni giorni, lo affidò ai servizi segreti alleati salvandogli così la vita.Nel frattempo, l'operazione ponte aveva fatto la sua comparsa sulla scena politica per iniziativa del professor Cione e del suo gruppo. Il 14 febbraio 1945 l'Agenzia Stefani comunicò che il Duce "ha consentito ad un gruppo di cittadini l'autorizzazione a costituire il Raggruppamento nazionalsocialista repubblicano che ha l'intento di esercitareresponsabile opera di critica sugli atti del governo". C'è un errore nella definizione del Raggruppamento: il "nazional" deve essere stato aggiunto da un redattore dell'Agenzia convinto che si trattasse di un movimento filotedesco. Ma Mussolini intervenne per correggere e subito dopo la Stefani precisò che si trattava proprio di un "Raggruppamento socialista, repubblicano e nazionale". Insomma, una cosa ben diversa.Anima del gruppo, come si è detto, era il filosofo Edmondo Cione, che era stato più voltericevuto da Mussolini e incoraggiato a proseguire nell'azione. Più tardi, si erano affiancatialtri personaggi di diversa origine politica. Vi figuravano, naturalmente, Silvestri e Bonf antini ma - non è chiaro per quale ragione - non Bombacci: secondo Manlio Sargenti, capo di gabinetto del ministro dell'Economia Tarchi, il motivo, piuttosto banale, è che Bombacci aveva l'ufficio a Maderno e i collegamenti con Milano erano quanto mai disagevoli. Assenza giustificata, insomma. Fra gli altri aderenti c'erano Pulvio Zocchi (unvecchio trombone del sindacalismo che ora si rammaricava di avere rotto i rapporti di amicizia con Mussolini nel 1904, dopo avergli dato del figlio di puttana), il giornalista

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtConcetto Pettinato, l'attivista Gabriele Vigorelli, il giovane anarchico libertario Germinale Concordia, il giornalista Ugo Manunta, il professor Dante Severgnini di Varese, il rettore dell'Università di Milano Giuseppe Menotti De Francesco, il questore diMilano Alberto Bettini, il dottor Renato Sollazzo e, ancora, Secondo Amadio, AlessandroBaj, Filippo Gallino, Alfonso Sermonti e molti altri. C'erano anche una donna, la socialista

Lia Bellora, e il giornalista fascista Gastone Gorrieri che dalla direzione della "Sera" era passato a dirigere l'ufficio stampa della Muti. Era stato proprio Gorrieri a offrire una sedeal Raggruppamento nell'elegante via Montenapoleo-ne a Milano e a garantirne una sorta di extraterritorialità. Nello stesso edificio si nascondeva anche la redazione clandestina dell'"Avanti!".Già prima del 14 febbraio 1945, quando fu annunciata ufficialmente l'esistenza del Raggruppamento, in quella sede si svolgevano riunioni infuocate in un bailamme di lingue e di ideologie diverse. Si discuteva, si litigava, ci si abbracciava. Il capo della polizia Montagna era al corrente di tutto, ma non muoveva un dito. Quando qualcuno dei "pontisti" venne arrestato dai tedeschi, come capitò a Cione e a Bonfantini, si adoperò perfarli rimettere in libertà. Oltre a Montagna, Gorrieri e Nunzio Luna, fra i "protettori" del Raggruppamento figurava anche il ministro Carlo Alberto Biggini il quale, dopo avere fraternizzato con Bonfantini, gli aveva messo a disposizione la propria auto.Intanto i dirigenti del Raggruppamento fremevano per essere ricevuti da Mussolini. Finalmente, tramite il figlio Vittorio, che fungeva da ambasciatore segreto del Duce, vennero invitati a villa Orsoline per il 14 febbraio, il giorno stesso in cui sarebbe stato dato l'annuncio ufficiale della costituzione del Raggruppamento. Della delegazione avrebbe dovuto far parte anche Pulvio Zocchi, ma Mussolini, che aveva buona memoria, lo aveva cancellato dall'elenco. Zocchi però insistette, supplicò, non si diede pace e, alla fine, il Duce accondiscese a riceverlo. La delegazione risultò quindi composta da Edmondo Cione, Renato Sollazzo e Pulvio Zocchi.L'incontro è così descritto da Alberto Giovannini: "Dopo lunghe reticenze, Mussolini riceve persino Pulvio Zocchi... È un incontro strano, rumoroso, grottesco. L'agitatore emiliano sembra avesse lasciato il Duce pochi minuti prima: Ohe! Mussolini, come stai? Ma sei tutto pelato... Dio,

come sei diventato vecchio... E Mussolini sorrideva, certo meravigliato ed anche un po' compiaciuto di queste manifestazioni...". La versione di Cione non è molto diversa:Il colloquio fu dominato dalla cordialità fra Mussolini e Zocchi i quali, dimenticando i vecchi rancori, fraternizzarono sul terreno del più acceso socialismo rivoluzionario. Il

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtcapo del fascismo tenne un linguaggio da autentico rivoluzionario, fece una requisitoria contro i tedeschi che non avevano voluto ascoltare i suoi suggerimenti di pace con la Russia e ci garantì la massima indipendenza -richiamandosi al precedente del "Lavoro"* di Genova - a sottrarre anche il futuro quotidiano del Raggruppamento al controllo del Ministero della Cultura Popolare.Nel corso di quel pittoresco colloquio, Mussolini suggerì a Cione il titolo del loro futuro quotidiano: "Italia del Popolo", un titolo che ricordava il giornale di Giuseppe Mazzini, ma che sembrava anche in contrapposizione con il mussoliniano "Popolo d'Italia", organoufficiale del PNF fino al 1943. Cione pretese anche una dichiarazione autografa di Mussolini che autorizzasse la fondazione del Partito repubblicano socialista italiano (PRSI). Il Duce lo accontentò e scrisse quanto segue:A questo partito si deve consentire: a) libertà di associazione con programma da definirsi in un congresso il quale dovrà approvare un orientamento nettamente repubblicano, socialista, nazionale; b) libertà di stampa con giornale quotidiano, inizialmente di opposizione al governo; e) libertà di pubblicazione di opere repubblicane e socialiste. Es.:Mazzini, Cattaneo, Ferrari, Antiduring, Engels, il Che fare? di Lenin, Antonio Labriola ecc.Pieno di entusiasmo, Edmondo Cione si mise al lavoro per preparare l'uscita del giornale:in pochi giorni trovò la tipografia, la carta (che era preziosissima) e i soldi, circa cinquecentomila lire offerte dall'Unione italiana pubblicità e da ignoti sottoscrittori (chissà, aiutare i "socialisti" poteva forse garantire il futuro...). Ma le difficoltà nonDurante il Ventennio il quotidiano socialista genovese era stato risparmiato dalla censura fascista.

mancavano, i fascisti intransigenti, sconcertati dalle estreme fantasie di Mussolini, cercavano di mettere il bastone fra le ruote. Farinacci, che era uscito allo scoperto con violenza, ora minacciava azioni squadristiche contro i leader del Raggruppamento. Anchei tedeschi erano in allarme: ancora non erano riusciti a digerire la socializzazione, figuriamoci la pluralità dei partiti... A nome del Fùhrer, intervenne il ministro degli Esteritedesco von Ribbentrop che intravedeva nell'operazione addirittura un "complotto laburista". Ma Mussolini lo mise a tacere.Il 28 marzo 1945 uscì il primo numero dell'"Italia del Popolo" e il successo non mancò: cinquantamila copie esaurite in poche ore. "Si verificò" racconterà Edmondo Cione "un fenomeno unico nella storia del regime, la pubblicazione di un quotidiano libero e indipendente che osò levare la propria voce sfidando i sospetti degli antifascisti che lo accusavano di opposizione addomesticata e le ire dei fascisti che non tolleravano le sue critiche."Nel primo numero, in un articolo intitolato Buona fede, Cione, dopo avere annunciato

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtche si stavano costituendo sezioni "socialiste" anche in altre città, in particolare a Reggio Emilia e a Forlì, affrontava i temi del momento con affermazioni che certamente sbigottirono i lettori. "Non siamo comparse, ma gente che ha idee proprie" scriveva Cione. "Non siamo fascisti e non abbiamo nulla in comune con loro." E quindi sferrava ilcolpo finale: "La socializzazione deve essere portata alle estreme conseguenze con la totale eliminazione della proprietà privata e dei mezzi di produzione". Esprimeva anche un invito a iscriversi al Raggruppamento: la tessera costava venti lire.Il giornale ebbe una vita tribolata. "I fascisti" annotava Cione "facevano degli allegri falò con le copie che asportavano dalle edicole: due numeri più audaci degli altri, nonostante l'indipendenza formalmente promessaci da Mussolini, furono sequestrati per suo ordine. Cominciarono anche virulenti attacchi personali culminati con la minaccia di morte che Farinacci pronunciò su Regime Fascista..."

Il 10 aprile l'uscita dell'"Italia del Popolo" venne sospesa a seguito di una violenta azione squadristica nella redazione. A guidarla era il prefetto Guglielmo Montani, padre di una medaglia d'oro, che si era ritenuto offeso da un articolo scritto da Cione e intitolato Ed egli avea del cul fatto trombetta. Montani è lo squadrista che anni prima, a Bologna, aveva schiaffeggiato Toscanini per il suo rifiuto a suonare Giovinezza. Il suo gesto fu applaudito dai fascisti e Cione si trovò costretto a chiudere bottega. La riaprirà il 22 aprile, tre giorni prima della fine della guerra. Quel giorno Mussolini, che si era già trasferito nella prefettura di Milano, mandò a chiamare Cione e gli disse che poteva riprendere le pubblicazioni. L'"Italia del Popolo" uscì infatti il 24 e il 25 aprile. Il numerodel 26, con l'invito al Comitato di liberazione nazionale ad assumere i pieni poteri, sarà bloccato dallo sciopero dei tipografi.Edmondo Cione vide per l'ultima volta Mussolini la mattina del 25 aprile. Il Duce, che forse sperava ancora nel ponte, prima di accomiatarlo gli disse: "Voglio consegnare la Repubblica a dei repubblicani e a dei socialisti e non già a dei monarchici e dei reazionari".Mussolini affidò le speranze estreme a Carlo Silvestri al quale dettò il suo ultimo messaggio indirizzato al Partito socialista. Di questo documento si parlò poco e confusamente. È giunto il momento di pubblicarlo nella sua forma integrale. Esso contiene le ultime volontà di Benito Mussolini prima della morte. È opportuno notare chefu scritto sotto dettatura da Carlo Silvestri alla presenza di Nicola Bombacci.All'Esecutivo del Partito socialista di unità proletaria.Compagni socialisti, Benito Mussolini mi ha chiamato e mi ha dettato questa dichiarazione che mi ha autorizzato a consegnarvi:Poiché la successione è aperta in conseguenza dell'invasione anglo-americana, Mussolini desidera consegnare la Repubblica Sociale ai repubblicani e non ai monarchici, la

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtsocializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi.Della sua persona non fa questione. Come contropartita chiede che l'esodo dei fascisti possa svolgersi tranquillamente: né una reazione

legale né una reazione illegale che sarebbero controproducenti.Nel proporre questa trasmissione di poteri egli si rivolge al Partito socialista, ma sarebbe lieto se l'offerta fosse accettata anche dal Partito d'azione nel quale del resto prevalgono le correnti socialiste. Non estende l'offerta al Partito comunista solo perché la tattica di questo partito esclude che nell'attuale situazione internazionale esso possa assumere in Italia atteggiamenti che sarebbero in contrasto con il riconoscimento dell' Italia come zona di influenza inglese.La consegna si potrebbe concretare nei seguenti punti:1) Per ragioni di organizzazione e di tempo il trapasso dei poteri ai socialisti ed ai partiti di sinistra potrebbe essere effettuato solo a Milano, ed eventualmente nelle città vicine nelle quali primeggia l'elemento operaio industriale.2) Affinché il Partito socialista, il Partito di azione, i repubblicani ed eventualmente altre forze di sinistra che sono fuori del CLN possano accettare la proposta, è necessario che abbiano per il domani una giustificazione di carattere contingente, ma di essenziale importanza, come la difesa e la salvaguardia degli impianti industriali e idroelettrici nonché la dichiarazione di Milano città aperta. La salvaguardia di questi impianti, premessa della ricostruzione italiana, è sempre stata in cima ai pensieri di Mussolini.3) Il Partito socialista di unità proletaria, d'accordo eventualmente con il Partito d'azione e col tacito consenso del Partito comunista, prenderebbe in consegna la città da Mussolinicon un'aliquota delle Forze armate della Repubblica che sarebbero lasciate a Milano ai fini di ordine pubblico e che ubbidirebbero unicamente al Governo provvisorio.4) Le autorità germaniche sarebbero poi subito interpellate dal Governo provvisorio circala precisa conferma dell'integrità della città e dei suoi impianti industriali. Di fronte alla dichiarazione che esse accedono alla richiesta e all'annuncio della evacuazione della città,il Governo provvisorio dovrebbe dare la garanzia che esse, come le Forze armate della Repubblica, non saranno molestate da partigiani o da altri fino a un confine da stabilirsi.A quanto sopra sono autorizzato ad aggiungere che, come contropartita, Mussolini chiede:a) Garanzia per la incolumità delle famiglie di fascisti e di fascisti isolati che resteranno nei luoghi di loro abituale domicilio, con l'obbligo di consegna delle armi nei termini stabiliti.b) Indisturbato esodo delle formazioni militari fasciste così come

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtdi quelle germaniche, nell'intento di evitare conflitti, disordini fra italiani e distruzioni di impianti da parte dei tedeschi.e) Formazioni volontarie fasciste potrebbero impegnarsi a non assumere iniziative operative contro formazioni italiane dipendenti dal CLNAI o dal governo di Roma, essendo però decise a continuare la lotta in Italia o altrove contro gli invasori.Qualora non fosse possibile la consegna rivoluzionaria al Partito socialista e alle altre forze di sinistra, i punti A e B avrebbero pieno valore anche per una trasmissione di poteriche avvenisse tra il Governo della RSI e il CLNAI. In ogni caso non è Mussolini ora che detta queste proposizioni, ma sono io - Carlo Silvestri - che riassumo il suo pensiero: eglipreferisce rendere responsabile il CLNAI piuttosto che il Governo di Roma, dell'eredità repubblicana, sociale, rivoluzionaria, anticapitalista e antimonarchica della Repubblica in quanto nel CLNAI presto o tardi dovranno prevalere ed imporsi le forze delle sinistre rivoluzionarie le quali non potranno non difendere la socializzazione e le altre radicali riforme di Mussolini, quali l'abolizione del commercio privato e la cooperazione nella produzione come sacro patrimonio dei lavoratori italiani.Compagni, chi scrive, socialista nell'animo e nelle opere, ebbe la tessera del partito come attestazione di onore nel 1924 su proposta di Filippo Turati, Claudio Treves, Camillo Prampolini e Luigi Basso "per il suo indomito coraggio nel combattimento", vi chiede di conferire d'urgenza con voi per illustrarvi le proposte di Mussolini. Firmato, Carlo Silvestri. Milano, 22 aprile 1945.Carlo Silvestri consegnò questo messaggio a Sandro Pertini e a Riccardo Lombardi, rappresentanti del PSi e del Pd'A, ma essi non vollero neppure leggerlo. La storia stava correndo molto in fretta. Non c'era più tempo per le trattative. L'incarico affidatogli da Mussolini servì, se non altro, a salvare la vita a Carlo Silvestri. Altrimenti egli avrebbe seguito il Duce sconfitto verso il suo tragico destino, e gli uomini del colonnello Valerio non lo avrebbero certamente risparmiato.

XXII"CHISSÀ COSA DIRANNO DI NOI DUE...""È buffo" osservò Nicola Bombacci abbracciando Alberto Giovannini. "Un giorno gli storici si chiederanno: ma che ci faceva accanto a lui Bombacci, il fondatore del Partito comunista?" Poi, con l'aria ammiccante per via di quella palpebra pendula, si rispose da solo: "Sai, diranno, erano romagnoli tutti e due... si volevano bene... erano stati a scuola insieme...".Nel tardo pomeriggio del 25 aprile 1945, nel cortile interno della prefettura di Milano c'erano una confusione enorme e un gran viavai di uomini, di macchine e di bagagli. Si notavano pochissime uniformi e svariati doppio petto: la borghese grisaglia aveva avuto finalmente la meglio sul grigioverde e sull'orbace. Non molte ore prima, Mussolini era tornato corrucciato dall'incontro con i capi del CLN in Arcivescovado. In seguito al

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtrifiuto a trattare da parte dei socialisti, anche il CLN aveva respinto ogni proposta di accordo. "Ci hanno tutti tradito" aveva borbottato. Poi si era rintanato nel suo studio dopoavere dato l'ordine di partenza: si doveva raggiungere Como e poi, chissà, la Valtellina, laSvizzera, il Brennero... Nessuno, neppure lui, aveva un'idea precisa della meta che dovevano prefiggersi i fuggiaschi di Salò.Bombacci era giunto a Milano il 18 aprile al seguito di Mussolini. Da mesi, infatti, questinon si muoveva senza averlo al fianco. Nel cortile era tutto uno scambio di abbracci e di saluti fra chi restava e chi andava con "lui". C'erano nell'aria molta commozione e anche tanta dispe-

razione. Bombacci passava da un gruppo all'altro facendo battute di spirito e amari commenti. Era, apparentemente, il più sereno di tutti e cercava di sollevare il morale degli altri."Vedrete che ce la caveremo" li rassicurava l'inguaribile ottimista. "Un po' di galera, il confino, l'ostracismo... Tutte cose" aggiunse ridacchiando "cui sono abituato..."Indossava una lunga giacca blu tipo finanziera e un paio di pantaloni a righe."Sembri in tight" osservò qualcuno."Ma lo sai che mi sono imborghesito" ribatté.Come unico bagaglio aveva una piccola ventiquattrore, e a Vanni Teodorani, un nipote del Duce che si meravigliava per quella valigetta, spiegò: "Ragazzo mio, io di queste coseme ne intendo. Quando si scappa bisogna essere leggeri. E di fughe ne ho fatte tante per colpa di tuo zio...".Aveva il dono dell'allegria e sapeva dire cose gravi quasi scherzando. Quando gli raccontarono del fallimento dell'incontro del Duce col CLN organizzato dal cardinale Schuster in Arcivescovado, commentò ironico: "Gli sta bene. Non doveva fidarsi di Schuster. Mai fidarsi dei pretacci...".Con Giovannini evocò invece ricordi lontani: "Una volta mi trovai in una situazione analoga accanto a Lenin a Pietroburgo. I "bianchi" del generale Nikolaj Judenic si avvicinavano e le cannonate facevano tremare i vetri... Ma adesso è peggio. Allora avevamo gli operai dalla nostra parte".Più patetico si rivelò salutando Vittorio, il figlio di Mussolini: "Dove va lui, vado io" gli disse abbracciandolo. "Seguirò tuo padre sino alla fine. Non dimenticherò mai che ha aiutato la mia famiglia quando aveva fame."Poco dopo arrivò Mussolini. Indossava la solita uniforme sbiadita, priva di gradi e di orpelli. Scambiò qualche saluto, allontanò con un gesto i molti fascisti in lacrime e andò asedersi sulla sua Alfa 1800 dai colori mimetici. L'autista Mario Salvati e l'attendente Pietro Carradori

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erano già ai loro posti. Senza parlare, Mussolini indicò con un cenno a Bombacci il posto libero accanto al suo, e questi andò a sedersi al suo fianco con la valigetta sulle ginocchia.Erano le diciannove del 25 aprile 1945. La colonna di auto si avviò lungo strade deserte esilenziose. Milano era tranquilla, i cinema e i teatri erano aperti. Non si vedeva un partigiano in giro. Sarebbero arrivati due giorni dopo. Gli Alleati una settimana più tardi.Venerdì 27 aprile alle sedici, Nicola Bombacci sedeva rannicchiato all'interno di un rudimentale autoblindo fermo a Musso, a pochi chilometri da Dongo. Dopo frenetiche trattative, i tedeschi che si erano uniti alla colonna dei gerarchi erano stati autorizzati dai partigiani a proseguire verso l'Alto Adige. All'interno di uno dei loro camion era nascostoMussolini travestito da soldato germanico. Le macchine che componevano la colonna erano scomparse: fuggiti o arrestati i loro occupanti, ora stavano scorrazzando per le vie che costeggiano il lago, cariche di partigiani chiassosi e trionfanti. Degli oltre duecento fra fascisti e loro familiari che componevano il corteo, solo diciotto erano sfuggiti alla cattura e ora si trovavano rinchiusi dentro il grosso automezzo vigilato dai partigiani coi quali, ogni tanto, si scambiavano qualche raffica.Poco tempo prima, Bombacci aveva salutato per l'ultima volta l'amico Mussolini. Prima di lasciare l'autoblindo travestito da tedesco, il Duce aveva resistito non poco. Quella mascherata gli pareva umiliante. Alessandro Zanella, che ha ricostruito ora per ora l'interatragedia di Dongo, dice che neppure Claretta era riuscita a convincerlo. Fu Bombacci chea un certo momento gli disse: "Dai, Duce, chissà che faccia faranno i tuoi nemici se riescia scamparla!".Bombacci ancora ignorava che la presenza del Duce a Dongo non era più un mistero per nessuno e che i tedeschi lo "avrebbero venduto" ai partigiani in cambio della possibilità di proseguire il viaggio verso casa.

Sull'autoblindo, oltre all'equipaggio composto da giovani fascisti viareggini, c'erano anche alcuni importanti gerarchi, fra i quali, Alessandro Pavolini, Vito Casalininovo, Francesco Barracu e Idreno Utimpergher. C'era anche la figlia naturale del Duce, Elena Curti, e il suo attendente Pietro Carradori. Claretta invece si era allontanata sperando di poter seguire Mussolini. Di tutti i presenti il più fanatico era Alessandro Pavolini, deciso più che mai a cercare la bella morte. Gli altri erano, però, meno propensi agli eroismi e, alla fine, decisero di arrendersi. Pavolini e Carradori tentarono invece la fuga sparando, ma furono più tardi feriti e catturati.Secondo Alessandro Zanella, il primo ad arrendersi fu Nicola Bombacci che si sarebbe presentato al parroco di Musso, don Enea Mainetti, dicendo: "Reverendo, mi consegno a lei. Non voglio che la mia cattura assuma un aspetto drammatico. Mi costituisco a lei e

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtnon al CLN. Io sono Nicola Bombacci...".Don Mainetti, che era anziano e ricordava bene il Lenin di Romagna, gli chiese: "Come ha fatto a passare dall'altra parte?"."Fino al 25 luglio" rispose forse Bombacci "il mio atteggiamento è stato chiaro. Potevo mirare anche a un'intesa fra i due regimi e soprattutto cercare di riaprire le porte ai fuoriusciti, cosa che del resto anche Mussolini desiderava. Ma l'8 settembre è avvenuto inme un vero capovolgimento. Mi pareva di tradire il mio paese a fare quel basso gioco delle plutocrazie..."Secondo quanto raccontò don Mainetti, Bombacci avrebbe anche rivelato la presenza di Mussolini nei camion tedeschi e favorito la sua cattura... Ma sarà vero? Tutti gli altri testimoni affermano che Bombacci fu molto riservato riguardo alla presenza del Duce. Lostesso Zanella infatti scrisse: "Non si capisce perché il buon Nicoli-no abbia voluto fare iltraditore col prete e il gentiluomo con gli altri". Non è quindi da escludere che don Mainetti

abbia un po' troppo calcato la mano per mettere in cattiva luce quel vecchio anticlericale.Più tardi, Bombacci fu prelevato dai partigiani e unito agli altri prigionieri che venivano apoco a poco radunati. Fra questi c'era anche il sedicenne Costantino, figlio del ministro dei Lavori pubblici Ruggero Romano, il quale racconterà:Tutti ostentavano indifferenza, a tal punto che Mezzasoma fece capannello e cominciò a parlare con mio padre e qualche altro. C'era anche Bombacci, alto, un po' curvo, barbetta brizzolata. Ragionavano sui possibili scenari del dopo fascismo. Bombacci sosteneva la validità della socializzazione, di un incontro tra i comunisti internazionalisti e la sinistra fascista. Più tardi fummo incolonnati due a due sotto la minaccia delle armi. Bombacci mi si avvicinò per sussurrarmi con voce da cospiratore: "Non credi che si possa scappare? E tuo padre dov'è? È già scappato?". "No, no" gli risposi "mio padre sarà dal prete, vuole affidarmi a lui." Bombacci ridacchiò: "Affidarti al prete? Ai pretacci? Stai fresco". Ridacchiò ancora: era una boutade perché anche lui si era fidato del prete.Verso sera tutti i prigionieri erano riuniti nel municipio di Dongo, divisi in varie stanze dopo essere stati identificati e interrogati. A essi si era aggiunto il capitano Pietro Calistri,un aviatore che aveva avuto la malaugurata idea di chiedere un passaggio all'autocolonna.I partigiani si erano convinti che fosse il pilota personale del Duce e non c'era verso di farcambiare loro idea. Anche Mussolini e Claretta erano nel municipio, ma in locali diversi. Solo più tardi, il comandante partigiano Pedro, alias Pier Luigi Bellini delle Stelle, esaudirà, con un gesto cavalleresco, il desiderio di Claretta di essere unita all'uomo che amava, desiderio che costerà la vita alla giovane donna.Nel municipio di Dongo, per alcune ore, Bombacci e Mussolini vennero a trovarsi in due stanze attigue, ma non si videro né, d'altra parte, si sarebbero mai più visti. Durante la

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtnotte, per motivi di sicurezza, Bombacci e alcuni altri prigionieri vennero trasferiti nella caserma della Guardia di finanza di Germasino. Con lui c'erano Pavolini,

Barracu, Casalinuovo, Utimpergher e il federale di Como Paolo Porta. A Bombacci quella compagnia evidentemente non garbava e chiese ai partigiani di essere messo da solo in una stanza. Fu accontentato."Io non sono mai stato fascista" spiegò amareggiato. "Sono soltanto un amico personale di Mussolini, gli devo molto, ha fatto ricoverare in sanatorio un mio figlio malato...""Però stavi nella Repubblica" gli obiettò un partigiano."E vero" rispose. "Forse sono stato un fesso, ma sono stato spinto a collaborare dal nuovoindirizzo sociale propugnato dal manifesto di Verona. Lo ritenevo vantaggioso per i lavoratori."A mezzogiorno del 28 aprile i prigionieri vennero gettati giù dal letto e ricondotti a Dongo con alcune macchine. Splendeva il sole dopo tanti giorni di pioggia. I prigionieri ignoravano che stavano per essere condotti davanti al plotone d'esecuzione inviato appositamente da Milano. Bombacci provò anche a fare dello spirito: "Bei posti" mormorò ammirando il paesaggio. "Peccato che non sia il momento adatto per godersi il panorama..."Quella mattina era giunto a Dongo un gruppo di partigiani della brigata Oltrepò, capeggiata da Italo Pietra, che il giorno precedente era entrata a Milano. Lo comandavanoil colonnello Valerio, alias Walter Audisio, e il suo vice Guido (Aldo Lampredi), due vecchi comunisti stretti collaboratori di Luigi Longo, comandante generale delle brigate Garibaldi e vicecomandante del Corpo volontari della libertà. Loro compito era procederealla fucilazione dei "traditori", e a questo fine avevano portato con sé dodici partigiani accuratamente selezionati guidati dal "capo-scorta" Riccardo (Alfredo Mordini).Subito dopo il loro arrivo a Dongo, il colonnello Valerio e Guido furono informati che Mussolini era stato trasferito per motivi di sicurezza in una casa colonica di Giulino di Mezzegra e chiesero di essere subito accompagnati in quella località. Pareva che avesserouna gran fretta.

Intanto, a Dongo erano tornati i prigionieri provenienti da Germasino che erano stati

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtrinchiusi con gli altri nella Sala d'oro del municipio. Erano quindici in tutto: Nicola Bombacci, Alessandro Pavolini, Vito Casalinuovo, Idreno Utimpergher, Fernando Mezzasoma, Paolo Zerbino, Augusto Liverani, Ruggero Romano, Ernesto Daquanno, Paolo Porta, Goffredo Coppola, Francesco Barracu, Mario Nudi, Luigi Gatti e Pietro Calistri. A ben vedere, meno della metà di costoro erano indicati come "traditori" (e quindi passibili di fucilazione) nell'ordinanza del CLN del 12 aprile '45, ma al momento opportuno Valerio non guarderà tanto per il sottile.Il primo pomeriggio trascorse in tutta tranquillità. I prigionieri conversarono fra loro, analizzarono le rispettive responsabilità, bevvero e fumarono molto. Tranne Pavolini, chesapeva che il suo destino era segnato, gli altri speravano ancora. Verso le diciassette ci fu un improvviso movimento nella piazza affollata: Valerio e i suoi erano tornati da Giulino di Mezzegra. "Giustizia è fatta" gridò il colonnello levando in alto il mitra. Iniziò così la leggenda che vuole sia stato Walter Audisio a uccidere Mussolini, mentre la verità non è ancora stata chiarita.Pochi minuti dopo, Valerio entrò nella Sala d'oro e lesse rapidamente ai "fucilandi", comelui li definì, la sentenza che li condannava a morte. I prigionieri l'ascoltarono sgomenti, ma reagirono con rassegnata dignità. E con dignità si comporteranno sino alla fine.Mentre i condannati venivano avviati in colonna verso il luogo dell'esecuzione, Valerio stabilì con precisione pi-gnolesca le modalità della fucilazione. Quando si accorse che il plotone era formato da dodici uomini mentre i "fucilandi" erano quindici, ordinò a tre partigiani del luogo di unirsi al gruppo. Ora, davanti ai quindici morituri allineati lungo laringhiera del lungolago, erano schierati altrettanti partigiani armati di mitra. Bombacci era il primo della fila e il suo diretto dirimpettaio era un partigiano ventiduenne della Oltrepò. Si chiamava Renato Codara,

era un operaio metallurgico di Belgioioso, in provincia di Pavia.Trascorsero i minuti. Qualche condannato chiese di parlare, ma Valerio non lo consentì. Era molto sprezzante con tutti, ma soprattutto con Bombacci. Per lui, comunista duro e puro, tradire il partito era peggio che tradire la patria. Mentre Bombacci si tormentava in silenzio la barbetta, l'aviatore Pietro Calistri si fece avanti gridando: "Lo volete capire che io non c'entro? Sono un soldato. Sono qui per errore"."Torna immediatamente al tuo posto" gli urlò Valerio. L'altro obbedì rassegnato."Fate un po' quel che vi pare" brontolò e si accese una sigaretta. Morirà fumando.Non era ancora finita: accompagnato da alcuni partigiani, giunse a piedi nudi Marcello Petacci, il fratello di Claretta, che era stato scambiato per Vittorio Mussolini. "Mi hanno preso per il figlio del Duce" gridò disperato. "Diteglielo voi chi sono." "Quello è il fratello della Petacci" risposero i condannati. "È un traditore. Non lo vogliamo con noi." Forse volevano salvarlo, forse avevano motivi di risentimento verso questo personaggio

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtche si era arricchito sfruttando la sua posizione di "cognato" di Mussolini. Valerio comunque si lasciò convincere e lo fece allontanare. Marcello Petacci morirà più tardi, crivellato di colpi mentre, tuffatosi nel lago, cercava di fuggire a nuoto.Intanto la fila dei condannati si ricompose. A questo punto giunse padre Accursio del vicino santuario della Madonna delle lacrime, che chiese il permesso di distribuire i sacramenti. Ma Valerio aveva fretta."Vi concedo tre minuti, sbrigatevi" ordinò. Padre Accursio impartì allora un'assoluzione collettiva. Tutti i morituri caddero in ginocchio, molti si fecero il segno della croce. Solo Bombacci restò in piedi, immobile, senza battere ciglio. Racconterà in seguito il partigiano Renato Codara: "Aveva un paio di pantaloni a righe e una giacca ne-

ra, lunghissima. Mi fissò un istante e mi disse, portando la mano destra al cuore: "Spara qui...". Rimasi un po' sorpreso, poi gli risposi in dialetto: "Cai sa preocupa no...". Prima che morisse l'ho udito gridare: "Viva Mussolini! Viva il socialismo!"".Pochi minuti prima delle diciotto, fra urla, strepiti e proteste si udirono gli ordini impartitida Riccardo: "Attenti!". "Dietrofront!" "Caricate." "Giù le sicure." "Puntate." "Fuoco!"Riferirà un testimone: "È un fuoco infernale, di quelli che in guerra precedono il balzo dell'assalto. Pare siano stati sparati milleduecento colpi, due caricatori da quaranta pallottole per condannato. La gente urla. Alla prima scarica molti rimangono in piedi, allaseconda cadono tutti. Bombacci è caduto di spalle, con gli occhi azzurri rivolti al cielo. Ricomincia a piovere...".Dopo la lugubre esposizione in piazzale Loreto, Nicola Bombacci sarà sepolto nel campo10, riservato ai caduti della RSI, del cimitero milanese di Musocco dove la sua famiglia ha voluto che rimanesse.

fine

BIBLIOGRAFIAAccame, Giano, Il fascismo immenso e rosso, Roma 1990.Alfassio Grimaldi, Ugoberto, La stampa di Salò, Milano 1979.

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtAlmirante, Giorgio, Autobiografia di un fucilatore, Milano 1974.Amicucci, Ermanno, 1600 giorni di Mussolini dal Gran Sasso a Dongo, Roma 1948.Anfuso, Filippo, Roma, Berlino, Salò, Milano 1950.Artieri, Giovanni, Mussolini e l'avventura repubblicana, Milano 1981.Balabanoff, Elena, Ricordi di una socialista, Roma 1946.Bandini, Franco, Le ultime 95 ore di Mussolini, Milano 1960.Bellini delle Stelle, Pier Luigi - Lazzaro, Urbano, Dongo: la fine di Mussolini, Milano 1975.Bertoldi, Silvio, Salò, Milano 1976.Bisiach, Gianni, Pertini racconta, Milano 1983.Bocca, Giorgio, La repubblica di Mussolini, Milano 1994.Bombacci, Annamaria, Nicola Bombacci, Imola 1983.Borghese, Junio Valerio, Decima flottiglia Mas dalle origini all'armistizio, Milano 1968.Borzicchi, Florido, Dongo l'ultima autoblinda, Roma 1984.Bracalini, Romano, Celebri e dannati, Milano 1985.Cavalieri, Giorgio, Ombre sul lago, Casale Monferrato 1995.Cione, Edmondo, Storia della RSI, Caserta 1948.Cordova, Ferdinando, Alle radici del malpaese, Roma 1994.Cova, Alessandro, Grazioni, un generale per il regime, Roma 1987.Deakin, Frederick, Storia della repubblica di Salò, Torino 1968.De Felice, Renzo, Mussolini. Il rivoluzionario, Torino 1965.-, Mussolini. Il fascista, Torino 1980.-, Mussolini. Il Duce, Torino 1987.De Begnac, Yvon, Palazzo Venezia, storia di un regime, Roma 1950.Dolfin, Giovanni, Con Mussolini nella tragedia, Milano 1949.Emiliani, Vittorio, Il paese di Mussolini, Torino 1984.Garibaldi, Luciano, Mussolini e il Professore, Milano 1983.Gentizon, Paul, La tragedia italiana, Venezia 1943.Giovannini, Alberto, I giorni dell'odio, Roma 1975.Lanfranchi, Ferruccio, La resa degli ottocentomila, Milano 1948.Lazzero, Ricciotti, La Decima Mas, Milano 1984.Mack Smith, Denis, Mussolini, Milano 1981.Manunta, Ugo, La caduta degli angeli, Roma 1956.Noiret, Serge, Nitti e Bombacci, in "Storia contemporanea", a. XVII,giugno 1986. -, Massimalismo e crisi dello Stato liberale, Milano 1992. -, La ripresa dellerelazioni tra Roma e Mosca, in "Storia contemporanea", a. XIX, n. 5, ottobre 1988. -, Per una biografia di Nicola Bombacci, in "Società e Storia", a. VE, n.25,1992. Pavone, Claudio, Una guerra civile, Torino 1991. Petacco, Arrigo, Pavolini, Milano 1982. Petracchi, Giorgio, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana, Bari

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txt1982. Pini, Giorgio, Itinerario tragico, Milano 1950. Pisano, Giorgio, Storia della guerra civile in Italia, Milano 1973. Salotti, Guglielmo, Giuseppe Giulietti. Il sindacato dei marittimi dal1910 al 1953, Roma 1982. -, Nicola Bombacci da Mosca a Salò, Roma 1986. Senise, Carmine, Quando ero capo della polizia (1940-1943), Roma1946. Silvestri, Carlo, Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, Milano1981. -, Mussolini, Graziani e l'antifascismo, Milano 1949. Spinosa, Antonio, Mussolini. Il fascino di un dittatore, Milano 1988. Spriano, Paolo, Storia del PCI, Torino 1967. Tasca, Angelo, I primi 10 anni del PCI, Bari 1971. Vene, Gian Franco, La condanna di Mussolini, Milano 1973.

RINGRAZIAMENTIDesidererei ringraziare l'ignoto libraio (romagnolo?) che al Cercantico di La Spezia lo scorso inverno mi offrì delle vecchie, introvabili pubblicazioni suggerendomi di scrivere questo libro. Ringrazio inoltre: il professor Serge Noiret dell'Istituto universitario europeo di Fiesole per i contributi e i consigli preziosi; Gea e Vladimiro Bombacci per avere rievocato per me ricordi familiari anche dolorosi; Marilena Dossena per le informazioni sull'attività in gran parte disconosciuta del suo compianto compagno, onorevole Corrado Bonfantini; l'avvocato Alessandro Zanella per l'amichevole collaborazione e le funzionarie dell'Archivio centrale dello Stato per la fattiva e cortese assistenza nelle mie ricerche. Un grazie particolare va infine a Marina. Lei sa perché.

INDICE DEI NOMI

Accame, Giano, 113-114Accursio, padre, 221Agnelli, Giovanni, 163,192Alessi, Rino, 149Altobelli, Argentina, 97Amadio, Secondo, 207Ambrosini, Vittorio, 86Amendola, Giovanni, 97Amicucci, Ermanno, 149,166,178-180Anfuso, Filippo, 129Antichi, Osvaldo, 141Arcuno, Ugo, 64

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtArpinati, Leandro, 46, 54, 109, 112, 144-145Audisio, Walter (colonnello "Valerio"), 3,213,219-221Azzario, Isidoro, 64Bacci, Giovanni, 60Badoglio, Pietro, 6, 139-140, 150-151,166,190,192 Bagnino, Giulio Cesco, 149 Baj, Alessandro, 207 Bakunin, Michail AleksandroviC, 16 Balabanoff, Angelica, 20,25,37-38,48,62 Balbo, Italo, 56,96,98 Baldesi, Gino, 60,97 Balisti, Fulvio, 149,186 Barghini, Sigfrido, 158 Barracu, Francesco, 217,219-220 Barzini, Luigi, 149 Basso, Lelio, 116,202Basso, Luigi, 213 Battisti, Cesare, 21-23

Begnac, Yvon de, 9,87Bellini delle Stelle, Pier Lodgi ("Pe-dro"), 218 Belloni, Ambrogio, 57,127 Bellora, Lia, 207-208 Bentivoglio, Giorgio, 113 Berti, Giuseppe, 76 Bertoldi, Silvio, 186 Bertoni, Renzo, 114 Bettini, Alberto, 186,207 Biggini, Carlo Alberto, 100,153,186,205,208 Bisogni, Sesto, 127 Bissolati Bergamaschi, Leonida, 24,145 Bitelli, Giovanni, 127 Bitelli, Renato, 127 BlaguSina, Claudia, 107-108 Blanc, Giuseppe, 138 Bocchini, Arturo, 191-192 Bombacci, Angelica, 13 Bombacci, Annamaria,17 Bombacci, Antonio, 13-14 Bombacci, Erissena, 17-18, 27, 59, 69,77-78,103,129,188 Bombacci, Fathima Idea Libertà, 27 Bombacci, Gea, 27, 69, 77, 103, 129-130,150,152,188 Bombacci, Giuseppa, 13 Bombacci, Paola, 13 Bombacci, Raoul, 17, 27,69, 75-77, 88,107-108,130,188Bombacci, Ruffilio, 13

Bombacci, Santa, 13Bombacci, Virgilio, 13-14,77

Bombacci, Vladimiro, 59, 69, 77,103,109-111,129,152,188,219 Bonaparte, Napoleone, 145 Bonfantini, Corrado, 203-208 Bonomi, Ivanoe, 97,113,180 Bordiga, Amadeo, 12,33-34,45,47,49,52-53,57,59,63-65,67,69,72-73,76,117,127 Borghese, Junio Valerio, 205-206 Borghi, Armando, 47 Borsani, Carlo, 146,186 Bucharin, Nicolaj IvanoviC, 48, 105,107 Buffarini Guidi, Guido, 148,151,158,164 Buozzi, Bruno, 97,183 Butti, professor, 104

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtCabrini, Angiolo, 43Calda, Ludovico, 98Caldara, Emilio, 97,113Calistri, Pietro, 218,220-221Canepa, Giuseppe, 97Capelli, Ather, 149Caporali, Ernesto, 60Caporilli, Piero, 149

Carducci, Giosuè, 15 .Carducci, Vilfredo, 15Carradori, Pietro, 195-196;Carretta, Paolo, 7Casalini, Giulio, 97Casalinuovo, Vito, 217,219-220Castelletti, Giuseppe, 185-186Cattaneo, Carlo, 209Cesarotti, autista, 195-196Chiavolini, Alessandro, 110Churchill, Winston L.S., 196Ciano, Costanzo, 112,123,129Ciano, Galeazzo, 129,193Cione, Edmondo, 158,202,207-211Civinini, Guelfo, 149Codara, Renato, 220-222Concordia, Germinale, 207Coppola, Goffredo, 220Costa, Andrea, 16,20,115,126

Croce, Benedetto, 158^Curri, Elena, 217

Dainelli, Giotto, 149D'Annunzio, Gabriele, 55-56Daquanno, Ernesto, 220D'Aragona, Ludovico, 47,97,113De Amicis, Edmondo, 32De Bono, Emilio, 193De Felice, Renzo, 11, 61, 86, 94, 97,116,120 De Francesco, Giuseppe Menotti, 207 De Gasperi, Alcide, 21,97 Degot, Vladimir, 37-39 Del Guerra, Gianfranco, 129,135-136 Del Guerra, Rossella, 152,188 De

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtNicola, Enrico, 60,127 De Vecchi, Cesare Maria, 60 Dolfin, Giovanni, 155,160,170,173 D'Onofrio, Edoardo, 64 Droz, Jules-Humbert, 52 Ducati, Pericle, 149 Dtimini, Amerigo, 95,98 Durer, Albrecht, 11Einaudi, Luigi, 184 Eisenhower, Dwight David, 200 Engels, Friedrich, 26,209Fabbri, Paolo, 149Farinacci, Roberto, 56, 59-60, 96,143,146,170,180,185-186,202,206,210 Federzoni, Luigi, 84 Ferrari, Giuseppe, 209 Filippelli,Filippo, 95,98 Focaccia, Erissena, v. Bombacci, Eris-sena Ford, Henry, 162-163,174 Fortichiari, Bruno, 57Galanti, Francesco, 153 Galli, Alessandro, 60 Gallino, Filippo, 207 Garbo, Greta, 162-163,174 Garruccio, Gavino, 64 Gatti, Luigi, 101-102,191,220 Gaudenzi, don Carlo, 17 Gaudenzi, Paola, v. Bombacci, Paola Gennari, Egidio, 33-34, 37-38, 40, 57, 64

Gentile, Giovanni, 146,149,158,185-186Gentilon, Paul, 157Germanetto, Giovanni, 64 >

Ghini, don Nicola, 13Ghisellini, Igino, 146 Giachetti, Fosco, 163 Gianquinto, Giovanni Batta*", 146 Giobbe, Mirko, 149,186 Giolitti, Giovanni, 24,173 Giovannini, Alberto, 157, 162* 17208,214-215 Giulianini, Aldo, 64 Giulietti, Giuseppe, 55,150 Giunta, Francesco, 85 Giuriati, Giovanni, 60 Gorelli, Aldo, 64 Gorrieri, Gastone, 186,208 Gotta, Salvatore, 138 Gramsci, Antonio, 12,33-34,38,45,49,57, 59, 63-65, 67, 69-70, 76, 80, 96,117,127,192 Grandi, Dino, 56,59-60,109,139,144 Graziadei, Antonio, 54,64,69 Graziarti,Rodolfo, 196,205-206 Grieco, Ruggero, 57 "Guido", v. Lampredi, AldoHelphand, Alexander Israel ("Par-vus"), 41 Hitler, Adolf, 6, 89,135,141-142,153,168,170,198,200,210JudeniC, Nikolaj, 215Kabakciev, Christo, 52Kamenev, pseud. di Lev Borisoviò Ro" senfeld, 48,105,107Krasin, Leonid, 43,75-76,80Kuliscioff, Anna, 20,25,99Labriola, Antonio, 209Labriola, Arturo, 127Lampredi, Aldo ("Guido"), 219

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtLassalle, Ferdinand, 26Lazzari, Costantino, 32Lenin, Nikolaj, pseud. di Vladimir VL'vt Ul'janov, 7,10, 20, 31-35, 37, 41-12, 48-50,52,55,58,62-63,65-66,70,73-

74, 80,86-88,105,113,115,126,136,151,161,182,197,209,215 Leonetti, Alfonso, 47 Leyers, Hans, 170,173,198 Ligabue, Anna, 30 Litvinov, Maksim, 43-44, 47, 75, 107,119-120,123-124 Liubanschj, Theodor ("Nicolini"), 37 Liverani, Augusto, 220 Lombardi, Riccardo, 213 Longo, Luigi, 5, 10, 64, 76, 203-204,219 Luna, Nunzio, 206,208 Lunedei, Torquato, 64

Maffi, Fabrizio, 64 . .Mainetti, don Enea, 217Malacria, Augusto, 95

Malatesta, Alberto, 127Manacorda, Guido, 149 Manassero, avvocato, 193 Manunta, Ugo, 149,167,186,207 Manzoni, Gaetano, 87 Marabini, Anselmo, 54,57,64 Marangoni, Guido, 127 Maranini, Giuseppe, 149 Marinelli, Giovanni, 94-95,98,193n Marinetti, Filippo Tommaso, 149 Marx, Karl, 26,32,116 Massarenti, Giuseppe, 113 Matteotti, Giacomo, 62, 88, 89-102,104,158,177,190-194Matteotti, Gian Matteo, 99

Matteotti, Giancarlo, 99 - 'Matteotti, Isabella, 99Matteotti, Velia, 98-99

Mazzini, Giuseppe, 155,209Mezzasoma, Fernando, 143,147,189,180,185-186,218,220Misiano, Francesco, 57Missiroli, Mario, 45Mocchi, Walter, 127,158-160Modigliani, Giuseppe, 65Montagna, Renzo, 206,208

Montani, Guglielmo, 211 Montesi, Eugenio, 146

Montesi, Wilma, 92Morandi, Rodolfo, 199

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtMordini, Alfredo ("Riccardo"), 219, 222Moretti, Marino, 149Morgari, Oddino, 60Mori, Cesare, 112More, Harald, 141Murat, Gioacchino, 145Musatti, Elio, 60Mussolini, Alessandro, 22,24Mussolini, Arnaldo, 110-111Mussolini, Benito, 3-8, 9-15,18-25, 26-29, 32-35,44-46,53-54,53,58-60,62-64,66, 70-71,74-76,79-81,82-88,89-102, 103-114, 115-124, 125-132, 134-135, 138-147,148-153,155-156, 157-158,160-162, 164-165, 166-168, 170-174,176-187,189-198, 200-213, 214-222Mussolini, Bruno, 192Mussolini, Edda, 26Mussolini, Rachele, 22,26Mussolini, Vittorio, 144,208,215,221Natangelo, Mario, 64Natoli, Claudio, 58Nenni, Pietro, 25,46,125,145"Nicolini", v. Liubanschj, TheodorNitti, Francesco Saverio, 42-43,45,47Noiret, Serge, 11, 29, 49, 66, 76,113,115 Nostradamus, 138 Nudi, Mario, 220Occhìni, Barna, 149 Ojetti, Ugo, 149,158 Oppo, Cipriano Efisio, 149 Oudinot, Nicholas-Charles-VictoiV 155Pajetta, Giancarlo, 91Pareto, Vilfredo, 20

Parini, Piero, 178-179,186 Parodi, Giovanni, 57 '

Parri, Ferruccio, 203-204"Parvus", v. Helphand, Alemadw

Israel VPasella, Umberto, 60 Pasolini, Pier Paolo, 92

Pavolini, Alessandro, 4,114,138,142-143,146-147,148,153,170,180,185-186,197,202,206,217-220 "Pedro", v. Bellini delle Stelle, PierLuigi Pellegrini, Clemente, 171 Peluso, Edmondo, 64 Peroni, Sandro, 205-206,213

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtPetacci, Claretta, 4,176,216-218,221 Petacci, Marcello, 221 Pettinato, Concetto, 149,158,186,207 Pietra, Italo, 219 Pini, Giorgio, 149, 156, 160-161, 164,178,185-186 Pisenti, Piero, 100,206 Polano, Luigi, 47,57 Pollarolo, don Franco, 3 Polverelli, Gaetano, 60 Porta, Paolo, 219-220 Potémkin, Vladimir Petrovic, 119 Pound, Ezra, 185 Poveromo, Amleto, 95 Prampolini, Camillo, 14, 16, 18, 65,213 Presutti, Enrico, 64 Prezzolini, Giuseppe, 21Quaglino, Felice, 97Rahn, Rudolph, 153,168,13& 17& MSRamperti, Marco, 149Reina, Ettore, 97Repossi, Luigi, 57Ribbentrop, Joachim von, 210"Riccardo", v. Mordini, AlfredoRicci, Berto, 114Ricci, Renato, 143,148Rigola, Rinaldo, 97,113Rivoire, Mario, 149Rolandi Ricci, Vittorio, 158,179Romano, Costantino, 218Romano, Ruggero, 218,220Romita, Giuseppe, 64,113Rosselli, Carlo, 99Rossi, Cesare, 60Rossoni, Edmondo, 46,109,112,123,129,133-134 Ruffo, Titta, 98

Ruffo, Velia, v. Matteotti, Velia Rykoff, Alessandro (Aleksej Ivanovif Rykov), 87Sacco, Nicola, 106Salotti, Guglielmo, 11, 37, 115, 117,133,164,169 Salvati, Mario, 215 Sansanelli, Nicola, 60 Sargenti, Manlio, 153,171,207 Schiuma, Enzo, 10 Schuster, Alfredo Ildefonso, 215 Scoccimarro, Mauro, 64 Scucchia, Angelo, 127-128,158 Sebastiani, Osvaldo, 128 Sermonti, Alfonso, 207 Serrati, Giacinto Menotti, 35, 37-40,47-49,52,56,62,64 Sessa, Cesare, 57 Severgnini, Dante, 207 Silvestri, Carlo, 89-92, 97-102, 158,176-178, 181-184,187,191-194, 202-207,211,213 Skorzeny, Otto, 141 Soffici, Ardengo, 149,179 Sokolovskaia, Elena, 37

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Petacco Arrigo - Il comunista in camicia nera.txtSollazzo, Renato, 207-208 Spadolini, Giovanni, 149 Spagnuolo, Giovanni, 91 Spampanato, Bruno, 149 Speer, Albert, 170 Stalin, pseud. di losif VisarionovifDzugasvili, 7, 10, 42, 44, 105, 107,114,117,135-136,182,197 Starace, Achille, 4,126,128,134,149 Sukhomlin, Vladimir, 37Tamburini, Tullio, 148Tarchi, Angelo, 153,166,171,173,207Tarsia, Ludovico, 57Tasca, Angelo, 58,64,69,117

Teodorani, Vanni, 215Terracini, Umberto, 51, 57, 64-65, 69,76,87-88 Teruzzi, Attilio, 4 Togliatti, Palmiro, 65,69,76-78,83,86,132,173 Tomaselli, Cesco, 149 Tonetti, Giovanni, 64 Toscanini, Arturo, 211 Tresso, Pietro, 64Treves, Claudio, 65,94,99,182,213 Trotzkij, pseud. di Lev DavidoviCBronstein, 10,42,48, 65, 74, 86,105,107,182 Turati, Filippo, 16, 20, 34, 52, 57, 62,65, 90,94,99,180,182,213Utimpergher, Idreno, 217,219-220Vacirca, Vincenzo, 51,56"Valerio", colonnello, v. Audisio,Walter Valletta, Vittorio, 163,170,174 Valli, Alida, 163 Vanzetti, Bartolomeo, 106 Vigorelli, Gabriele, 207 Villaroel, Giuseppe, 149 Viola, Giuseppe, 95 Vittorio Emanuele IH di Savoia, red'Italia, 36,67,140,151,154,166,197 Vodovosov, Mosè, 37,43 Volpi, Albino, 95 Vorovskij,Vaclav, 74,80Zanella, Alessandro, 216-218Zannerini, Emilio, 60Zerbino, Paolo, 4,220Zinov'ev, pseud. di Grigorij EvsetViCRadomyl'skij, 48-49, 66-70, 73-76,78,88,105,107 Zocchi, Pulvio, 19,127,207-209

fine testo

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