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    MARCO TRAINITO

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    Dall‟Orca alla Placenta Hatshepsut 

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    I NDICE 

    PARTE PRIMA L’ORCA E IL MARE IMMANE DEL MALE 

    PREMESSA 

    CAPITOLO 1Genesi e vicenda editoriale

    CAPITOLO 2La fabula e l‟intreccio

    CAPITOLO 3L‟iper-lingua del romanzo

    CAPITOLO 4

    Genealogia culturale e simbologia dell‟Orca 4.1. Il titolo 4.2. L‟Orca, Omero e l‟Orco 4.3. L‟Orca, Moby Dick e il Leviatano 

    CAPITOLO 5 Nota sulla prima connotazione dell‟“animale”nel passaggio da I fatti della fera a Horcynus Orca 

    CAPITOLO 6Le piume dell‟Angelo. Bufalino e il corpo-a-corpodella cultura siciliana con Horcynus Orca 

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    APPENDICE.Due gocce nel mare di Horcynus Orca: la Gela di D‟Arrigo 

    PARTE SECONDA IL METODO LAICO. IDENTITÀ APERTA E MEMORIA PLURIMADELL’OCCIDENTE IN C IMA DELLE NOBILDONNE  

    PROLOGO 

    CAPITOLO 1Hatshepsut e l‟Occidente 

    CAPITOLO 2Pitagora e il magico numero sette per tre

    CAPITOLO 3“Di metamorfosi in metamorfosi” 

    EPILOGO 

    RIFERIMENTI ICONOGRAFICI 

    R IFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 

    PREFAZIONE

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    Questo volume costituisce una riedizione, rivistae notevolmente ampliata, de  Il mare immane del male.Saggio su Horcynus Orca di Stefano D‟Arrigo, pubblica-to per la prima volta nel 2004 dalla casa editrice CerroEdizioni di Gela. I motivi che mi hanno spinto ad appron-tare una nuova edizione accresciuta del saggio sul grande

    romanzo di D‟Arrigo sono sostanzialmente due. Il primoè che la limitata tiratura de  Il mare immane del male  èandata esaurita e risulta ormai difficilmente reperibile. Ilsecondo è legato al fatto che nel marzo 2006 è uscita

     presso Rizzoli una nuova edizione del secondo e ultimoromanzo di D‟Arrigo, Cima delle nobildonn (1985), chedà forma, insieme al romanzo sull‟Orca, all‟ormai leg-gendario dittico narrativo dello scrittore siciliano. In oc-casione di questo ritorno nelle librerie, dopo oltrevent‟anni, del mirabile “romanzo della placenta”, hoscritto un saggio su di esso che ho letto a un Convegnosulla laicità e sulle radici culturali dell‟Occidente –  tenu-tosi a Piombino il 28 aprile 2006 –  cui sono stato invitatoa partecipare insieme a Giulio Giorello. In esso offro unalettura attualizzata di Cima delle nobildonne alla luce del

    recente dibattito sulle radici dell‟Europa e dell‟Occidente,e mostro come in esso D‟Arrigo ci aiuti a comprenderelaicamente  la ricca e complessa stratificazione storico-culturale della nostra identità, che alcuni fondamentalisti

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    occidentali (teocon, teodem, atei devoti e/o neoguelfi)

    vorrebbero semplificare, mutilare e tradire in nome di una presunta essenza ebraico-cristiana della nostra civiltà.Trattandosi di uno scritto che completa la mia

    analisi del “codice D‟Arrigo” intrapresa nel volumetto su Horcynus Orca, ho pensato di ripubblicare insieme i duesaggi in un unico volume, che ha un impianto e un titolodiversi rispetto al precedente.  Il mare immane del male,

    con alcune modifiche e aggiunte, costituisce ora la PrimaParte del presente volume, mentre il saggio su Cima dellenobildonne ne costituisce la Seconda Parte.

     Il Codice D‟Arrigo  –   che nel titolo, oltre ad allu-dere a Codice siciliano, la prima e ultima raccolta di versidi D‟Arrigo, riecheggia ironicamente il famigerato r o-manzo sul fasullo “codice” segreto Leonardo da Vinci –  è il mio omaggio esegetico definitivo a uno scrittore che,

     pur essendo tra i più grandi in assoluto del ‟900 europeo,è ancora incredibilmente troppo ignorato persino nellasua stessa Sicilia.

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    PARTE PRIMA

    L’ORCA E IL MARE IMMANE DEL MALE 

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     A mio padre Emanuele (1924-2008),che dopo l‟8 settembre, diciannovenne

     soldato semplice allo sbando del fu

     Regio E  sercito, percorse a piedi l‟I -

    talia da Conegliano Veneto, attraver-

     sò lo Stretto ai primi di novembre gra-

     zie a un barcaiolo e fece infine ritorno

    a Gela, da pochi mesi liberata. 

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    PREMESSA 

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     In occasione della riedizione Rizzoli di HorcynusOrca (ottobre 2003), quasi trent‟anni dopo la prima ed i-

     zione Mondadori, il noto critico letterario George Steiner

    ha scritto: «Nulla è più frustrante, per un lettore appas-

     sionato, di trovare un libro che per lui è travolgente, un

    capolavoro, e scoprire che quasi nessuno lo conosce eche non è facile persuadere gli altri a condividere il pia-

    cere che gli dà. Come può essere che un libro che lo col-

     pisce profondamente, che trasforma il suo panorama in-

    teriore, rimanga oscuro e, in larga misura, non letto? O

    che i colleghi, gli amici a cui comunica il suo entusiasmo

    rimangano scettici o addirittura rispondano in modo ne-

     gativo? Il titolo mi affascinò molto (...). Se ben ricordo,

     fu a Torino, dove davo una conferenza molti anni fa, chele enigmatiche, ossessive parole, Horcynus Orca , mi col-

     pirono per la prima volta. (...) Gli incontri con i libri che

    ci cambiano la vita, che rieducano la nostra sensibilità

     sono ambigui come le relazioni intime. Da un lato desi-

    deriamo fortemente mantenerli privati, per noi stessi.

     Dall‟altro vogliamo condividere la nostra fortuna, il no-

     stro appagamento con gli altri».1  La cosa che fa più impressione in queste parole è

    che a pronunciarle sia uno studioso straniero, il quale,

    1 Steiner 2003: 33.

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    come confessa nello stesso articolo, pur avendo una certa

    dimestichezza con la lingua italiana, può comprendere solo in piccola parte la „lin gua‟,  impervia anche per un

    lettore italiano non-siciliano, di Horcynus Orca. Ma evi-dentemente, come in questi ultimi anni hanno dovuto ar-

    rendersi a constatare i critici letterari più esigenti di

     fronte alla fortuna delle opere di Andrea Camilleri oltre i

    confini della Sicilia, la forza della letteratura risiede nel-

    la capacità dei grandi scrittori di comunicare il loromondo poetico anche al di là delle barriere linguistiche,

     posto che ci siano dei lettori disponibili a cooperare in

    una decodifica interpretativa che vada oltre la mera let-

    tera della codifica dell‟autore: «I dizionari», prosegue

    Steiner, «sono una delle mie buone abitudini e mi furono

    d‟aiuto. Ma spesso mi trovai, matita in mano, a leggere e

    rileggere la stessa pagina nello sforzo di capire; consa-

     pevole che molto di quel che c‟era scritto mi sarebbe r i-masto oscuro. Non importa. Il moto oceanico della sto-

    ria, il fanta stico potere dell‟intreccio di motivi arcaici

    mitologici e della feroce realtà della Seconda Guerra

     Mondiale, la capacità di D‟Arrigo d i dare una vita vio-

    lenta e lirica agli elementi del tempo e del paesaggio, del

    mare e della terra, mi fecero superare ogni barriera lin-

     guistica e grammaticale».2 

    2  Ibidem. Per una discussione di questo problema in relazione a Camil-leri si veda l‟interessante “Introduzione” di Antonio Buttitta (che nona caso cita Steiner) alla raccolta di saggi di autori vari che costituisce

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     Nei giorni in cui mi aggiravo, solitario e stupe-

     fatto, nei meandri di questo romanzo unico nel panoramaletterario del Novecento, ho vissuto in prima persona il

    disagio e la frustrazione del “lettore appassionato” di

    cui parla Steiner, acuiti per di più dal fatto di vivere nel-

    la terra che ha dato a Ste fano D‟Arrigo non solo i natali,

    ma anche l‟ humus  storico, antropologico, linguistico etopografico per la sua opera di una vita. Ecco perché ho

    deciso di scrivere qualcosa intorno a quest‟opera immen- sa e ancora colpevolmente poco frequentata persino da

    chi, come i siciliani, hanno il privilegio culturale e lin-

     guistico di poterla apprezzare fino in fondo (o quasi) nel-

    la sua miracolosa ricchezza espressiva.

    Quello che qui presento non è uno scritto acca-

    demico (sono già abbastanza gli studi specialistici, come

     saggi e tesi di laurea, dedicati a questo romanzo e sepolti

    nelle nicchie polverose di alcune Università), ma una sorta di diario di viaggio che sotto lo sforzo del rigore

    espositivo e dell‟accuratezza delle osservazioni „paesa g-

     gistiche‟ vuole far risuonare soprattutto l‟emozione della

    ricerca e lo stupore della scoperta. Esso, dunque, si pre-

     senta sia come una introduzione al romanzo per i non

    il volume  Il caso Camilleri. Letteratura e storia  (2004), pp. 11-17(cfr. in particolare p. 13). In uno dei saggi contenuti nel volume, “Tea-tri siciliani della storia. Da Sciascia a Camilleri” di Nino Borsellino(pp. 48-53), poi, si trovano delle interessanti osservazioni su HorcynusOrca, definito “l‟opus magnum, la massima realizzazione creativa del-la sicilianità” (cf r. in part. pp. 51-52).

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     specialisti (al fine di agevolare il lettore ignaro

    dell‟opera, ho fornito non solo tutte le informazioni dicontorno essenziali a una retta comprensione contestua-

    le, ma anche una sintesi piuttosto ampia e ricca di detta-

     gli della fabula ) sia come un tentativo di indicare alcune piste di lettura finora intentate o solo accennate da qual-

    che studioso, e in tal senso assume l‟aspetto di un vero e

     proprio saggio in cui sono avanzate ipotesi interpretative

    del tutto inedite. Entrare in quest‟opera che incute timore per la

    mole (1257 pagine nella prima edizione Mondadori del

    1975, 1082 in quella Rizzoli del 2003), per la lingua i-

    naudita in cui è scritta (per questo aspetto assimilabile

     forse solo alla Hypnerotomachia Poliphili  di FrancescoColonna, 1499, e al Finnegans Wake  di James Joyce,1939) e per la potenza visionaria e simbolica (al punto

    che un amico di D‟Arrigo come Camilleri ha potuto scr i-vere nel 2000, in occasione della prima edizione de I fattidella fera , di essere rimasto “letteralmente atterrito” già

     solo dalle cento pagine anticipate sul “Menabò” nel

    19603 ), è davvero come entrare nel labirinto del Mino-

    tauro, perché le infinite svolte narrative e gli snervanti

    indugi sintattico-espressivi non sono che una „iniziazio-

    ne‟ all‟incontro col Mostro prot agonista, che farà la sua prima apparizione esattamente nel cuore dell‟opera (po-

    co oltre l‟inizio della seconda metà) e da quel momento

    3 Cfr. Camilleri 2000.

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    accompagnerà il lettore in un viaggio di ritorno alluci-

    nante che è l‟uscita non più dal labirinto del testo, madalla vita tout-court: quella di ‟Ndrja Cambrìa, quelladella Storia, quella del Mondo, e quella dell‟Orca stessa,

    la cui morte è simbolo e correlato oggettivo del “fini-

    mondo” esistenziale, storico e cosmico annunciato dal

    romanzo. Ecco perché, alla fine del viaggio, il lettore na-

    vigato ha come l‟impressione che questo Minotauro r i-

    cordi non tanto quello del mito, quanto piuttosto quellodi Borges, cioè quell‟Asterione il quale, anziché giovani

    vittime sacrificali, aspetta nella sua casa dalle infinite

     porte l‟arrivo di un redentore, ovvero di qualcuno che lo

    liberi da se stesso e dal suo destino di morte, al punto che

    l‟ancora incredulo Teseo, dopo averlo ucciso, potrà dire

    ad Arianna le stesse parole di pietà perplessa che vor-

    rebbe pronunciare il lettore dopo essere giunto finalmen-

    te al termine di Horcynus Orca: «Il Minotauro non s‟èquasi difeso».

    4 Jorge Luis Borges, “La casa di Asterione”, in  L‟Aleph (1949), tr. it.in Borges 1984, vol. I: 821.

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    CAPITOLO 1

    GENESI E VICENDA EDITORIALE 

    È ormai consuetudine iniziare ogni discussionesu Horcynus Orca  partendo dalla genesi e dalla decenna-le vicenda editoriale di questo grande romanzo, perchéqueste, divenute ormai quasi leggendarie, non solo costi-tuiscono per molti versi un unicum nella storia della lette-ratura contemporanea, ma offrono anche una prima e in-sostituibile chiave di accesso a questo monstrum narrati-vo. 

    Stefano D‟Arrigo (Alì Marina, Messina, 1919  –  Roma, 1992), laureatosi in Lettere a Messina con una tesisu Hölderlin, svolse servizio come sottotenente a Palermodurante la seconda Guerra Mondiale fino allo sbarco alle-ato. Dopo un‟altra parentesi a Messina, si stabilì a Romanel 1946, dove si dedicò al giornalismo e alla critica

    d‟arte, frequentando pittori e mercanti d‟arte.Intorno alla metà degli anni ‟50 D‟Arrigo passa

    all‟attività letteraria scrivendo un libro di versi, Codice

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    Siciliano1, e cimentandosi in un‟opera di narrativa di am-

     pio respiro, La testa del delfino, scritta di getto in quindi-

     1  Cfr. D‟Arrigo 1957 (19782). Quest‟opera prima nel 1958 vinse ilPremio Crotone, della cui giuria facevano parte, fra gli altri, Ungaretti,Debenedetti e Gadda. Come ha avuto modo di avvertire lo stessoD‟Arrigo, essa contiene in nuce diversi motivi che poi confluirannonel grande romanzo. Già nel 1950 (anno in cui comunica alla moglie

    Jutta Bruto l‟intenzione di dedicarsi a un‟opera narrativa di ampio r e-spiro), nella presentazione del catalogo - da lui curato - relativo a unamostra del pittore Giovanni Omiccioli, D‟Arrigo non solo fornisce unritratto accorato della dura vita dei pescatori di Scilla - veri “ulissidi”(perché discendenti, forse, dei compagni dell‟eroe omerico buttatisi inmare per seguire il canto delle sirene) che inseguono instancabilmenteil pesce e placano la fame come in un «pauroso viaggio di „conoscen-za‟» - che ricorda da vicino quello dei futuri “pellisquadre” di Cariddi,ma forgia addirittura il famoso endecasillabo con cui si chiuderà, ven-

    ticinque anni dopo,  Horcynus Orca: «circoscritta ma disperata, vastaavventura quotidiana di questi pescatori che remano chini e assorti, inun gesto severo e immutabile, in un tentativo continuamente ripetutodi condurre l‟imbarcazione dentro, più dentro dove il mare è mare»(D‟Arrigo 1950: 7-8, corsivo mio). E una delle poesie di Codice sici-liano, “Sui prati, ora in cenere, di Omero” (in op. cit., pp. 28-31), oltrea presentare il tema del reduce dalla guerra che torna sconfitto ripen-sando alla madre (esattamente come sarà per ‟Ndrja Cambrìa), contie-ne in chiusura una variante dell‟endecasillabo di cui si è detto, ancora

    una volta in un contesto marinaresco: «desidero tornare spalla a spalla/ coi miei amici marinai che vanno /  sempre più dentro nei versi, nelmare» (corsivo mio). Giuseppe Pontiggia ha raccontato che lo stessoD‟Arrigo gli disse di aver tratto in parte l‟endecasillabo da una liricadi Alfonso Gatto, “All‟alba” (in Gatto 1973), dove si legge: “Dentro

     più dentro dov‟è largo il mare”. Cfr. l‟intervista a Pontiggia in Gatta (a

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    ci mesi tra il 1956 e il 1957. Quest‟opera, ancora inedita,

    è il primo abbozzo di quel romanzo che poi, dopo infiniteriscritture e ampliamenti protrattisi per quasi vent‟anni,diventerà Horcynus Orca. 

     Nel corso del 1958 D‟Arrigo sottopone a una prima revisione il testo de La testa del delfino e ne mandaun paio di brani al Premio Cino del Duca, che si aggiudi-ca (la premiazione avverrà il 23 aprile 1959). Questo av-

    venimento cambia la sua vita, perché tra i giurati c‟è ElioVittorini, il quale si dimostra entusiasta del work in progress

    2  e chiede a D‟Arrigo di pubblicare i due branidell‟opera sul “Menabò”, che egli dirigeva insieme a ItaloCalvino, mentre Mondadori gli propone un contratto perla pubblicazione integrale. D‟Arrigo accetta entrambe leofferte e si rimette a revisionare ulteriormente il testo,due capitoli del quale (un centinaio di pagine) appaiono

    l‟anno dopo sul terzo numero del “Menabò” col titolo  I giorni della fera, non senza disappunto dell‟autore, ilquale non accettò che il suo testo, scritto in uno strano

    cura di) 2002: 17, nonché le osservazioni al riguardo in Gioviale 2004:61-62.2  Qualche mese prima, contattato tramite Renato Guttuso, amico diD‟Arrigo, Vittorini ne aveva letto alcune parti che gli erano molto pia-ciute, e questo fatto costituì un grosso stimolo a proseguire il lavoro

     per “il commosso lettore di Conversazione in Sicilia”, come D‟Arrigoebbe a scrivere l‟11 febbraio 1959 in una lettera all‟amico e alter egoCesare Zipelli (cit. in Cedola 2000: XLI)

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    miscuglio di italiano e dialetto siciliano, fosse accompa-

    gnato da un Glossario a cura della redazione.3

      Nel frattempo D‟Arrigo, che dopo l‟uscitadell‟estratto sul “Menabò” si vede arrivare offerte da Ei-naudi, Garzanti e Feltrinelli (cosa allora inaudita per unautore pressoché sconosciuto e alla sua prima prova nar-rativa), rivede ulteriormente il romanzo da consegnare

     per contratto a Mondadori in tempi brevi. Il titolo provvi-

    sorio, come si apprende dal carteggio, è ora  I fatti della fera, e il dattiloscritto “definitivo” (1305 cartelle) vienefinalmente mandato all‟editore nel settembre 1961. Sem-

     bra fatta, perché subito dopo la casa editrice manda aD‟Arrigo le bozze, che per contratto devono essere cor-rette in un mese circa, e D‟Arrigo è così sicuro di farcelache r ifiuta l‟aiuto di alcuni collabor atori di Mondadori,

    3 In occasione di questa pubblicazione emerge già in tutta la sua evi-denza il difficile carattere di D‟Arrigo, il quale, convinto della naturaautoreferenziale e autosufficiente della „lingua‟ del suo romanzo equindi restìo ad essere considerato uno scrittore che usa in manieraoccasionale ed estrinseca il dialetto, si rifiuta di compilare un glossa-rio dei termini dialettali accompagnati dalla „traduzione‟  in italiano,così come richiestogli dalla redazione. A luglio manda persino un te-legramma a Calvino per chiedergli di avvertire i lettori, nel caso aves-

    sero deciso di pubblicare comunque il glossario (che intanto qualcuno- forse addirittura Guttuso, come ipotizza lo stesso D‟Arrigo in unalettera a Zipelli - aveva approntato e che la redazione si era premuratadi sottoporre alla sua visione e approvazione), che egli si era oppostoalla sua realizzazione rifiutandosi anche di compilarlo in prima perso-na. Cfr. Cedola 2000: XLIII-XLIV.

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    come Niccolò Gallo e Walter Pedullà, i quali avevano

    trascorso qualche pomeriggio con lui per effettuare unalettura comune, e promette che in massimo quindici gior-ni avrebbe restituito le bozze corrette. Com‟è noto, ci mi-se quasi quindici anni, e il libro uscì finalmente nel 1975con una mole poco meno che doppia e con un altro titoloancora, questa volta quello definitivo: Horcynus Orca. 

    Questo lavoro di tormentosa revisione ha ormai

    assunto i colori della leggenda. Da chi ebbe modo di fre-quentarlo in quegli anni egli è ricordato come un uomototalmente posseduto dal demone dell‟arte e dedito nottee giorno, anche a costo della salute, a uno sforzo creativorivolto soprattutto all‟invenzione di una nuova „lingua‟che affondasse le sue radici ultime nel magma delle nu-merose lingue (dialettali e non) di cui lo Stretto di Messi-na è stato punto d‟incontro e di filtraggio. Non bastando

     più i margini dei fogli a contenere le aggiunte e le riscrit-ture, D‟Arrigo incolla ai lati dei fogli delle strisce scrittecon una biro a quattro colori (nero, blu, verde e rosso) eappende questi „aquiloni‟ colorati a un filo che attraversala stanza.

     Nelle recensioni che precedono e seguonol‟uscita del romanzo ci si sofferma persino su particolari

     bizzarri, che comunque danno il senso del „caso‟ e dellasua costruzione mediatica: D‟Arrigo si è reso quasi inac-cessibile per potersi dedicare alla grande opera di cui eglistesso per primo percepisce il valore, lavora fino a quat-tordici ore al giorno, mangia pochissimo e si nutre soprat-

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    tutto di babà al rum e granita al caffè. Ma per avere

    un‟idea meno aneddotica del reale clima di attesa creato-si, nella cultura letteraria italiana di quegli anni, intornoal romanzo fantasma (clima favorito anche dal grandebattage pubblicitario sul „capolavoro‟ in gestazione e daicontinui annunci di una imminente pubblicazione), basticonsiderare che Calvino, scrivendo il 15 giugno 1972 adAnna Scriboni in occasione di una progettata e mai rea-

    lizzata antologia in spagnolo del “Menabò” per il pubbli-co dell‟America Latina, segnalava alla studiosal‟opportunità di tener conto del «mitico Stefano D‟Arrigoche da anni sta per finire un romanzo di cui si parla comedel Joyce italiano e di cui si conoscono solo le pagine

     pubblicate sul “Menabò” 3 e da allora è il “caso” che tie-ne la letteratura italiana col fiato sospeso»4.

    Una riprova dell‟eterna insoddisfazione di

    D‟Arrigo è data dal fatto che all‟ultimo momento (cioèdue mesi prima del „via libera‟ del  24 ottobre 1974),quando le bozze di  Horcynus Orca sono quasi completa-mente corrette, egli decide di sostituire in tutto il roman-zo “prendere” con “pigliare” e “preso” con “pigliato”.

    Ma cosa fece D‟Arrigo alle bozze in tutto questotempo, nel corso del quale viaggiavano a pezzi avanti e

    indietro tra casa sua e la Mondadori e venivano modifica-te di continuo? Da quando, nel 2000, la Rizzoli ha pub-

     blicato il dattiloscritto del 1961 col titolo I fatti della fera 

    4 In Calvino 2000: 1168.

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    (nell‟ambito del piano di una riedizione delle  opere di

    D‟Arrigo a cura di Walter Pedullà), è possibile farsiun‟idea pr ecisa del-l‟immane lavoro di revisione stilisticae linguistica, integrazione e ampliamento svolto daD‟Arrigo, che tra l‟altro gli costò la salute fisica e inqualche modo anche quella mentale («la mia mente …forse non sarà mai più una mente … ma io vorrei soloche ce la facesse … giusto giusto per mettere ordine alle

    ultime pagine del mio libro e chiuderlo, chiudere», scri-veva già alla fine del 1966 all‟amico Zipelli5).Rispetto al dattiloscritto originario,  Horcynus

    Orca, come detto, si presenta molto accresciuto (dei dueterzi circa). Questo ampliamento, però, non è dovuto tan-to all‟aggiunta di nuovi „episodi‟ alla trama principale(anzi, ce ne sono due in meno, e non di poco conto6), per-

     5 Cfr. Cedola 2000: XLV.6 Cfr. I fatti della fera, pp. 49-50 e 573-575 rispettivamente con le pp.74 e 774 di  Horcynus Orca. Sbaglia, dunque, Siriana Sgavicchia al-lorché scrive che “Nel passaggio da FF a HO viene eliminato un soloepisodio: l‟incontro di ‟Ndrja con lo «juvenello d‟una quindicinad‟anni»” (Sgavicchia 2000: XLVII, nota 3). Nel primo episodio, du-rante il suo viaggio lungo la costa calabrese, all‟altezza del Golfo diSant‟Eufemia, ‟Ndrja incontra uno “juvenello d‟una quindicina

    d‟anni”, il quale, dovendo portare una misteriosa “parola” a qualcunodi Filadelfia entro mez-zogiorno, sembrava “inseguito dal sole” e pr e-gava quest‟ultimo di non sorgere e comunque di non correre troppo infretta. Nel secondo, in occasione della mareggiata provocata dall‟Orcamorente, a causa della quale si riversarono a riva rifiuti di ogni tipo,dei ragazzini chiamano ‟Ndrja perché nella carogna di una fera arenata

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    ché la fabula e l‟intreccio sono in massima parte identici

    nelle due versioni. Che cos‟è cambiato allora? I priminove decimi circa dei  Fatti  (602 pagg. su 660) risultano“diluiti” e ampliati di oltre 200 pagine in  Horcynus (perl‟esattezza 226), e  ciò è dovuto a una riscrittura di gran

     parte del testo in una lingua e in uno stile più uniformi(nei  Fatti le differenze tra italiano e dialetto stretto sono

     più marcate e segnalate da accorgimenti grafici, come il

    corsivo e i doppi apici, mentre in  Horcynus il narrato èuniforme anche graficamente e infinitamente più denso, emolto dialetto risulta „italianizzato‟), nonché a un accr e-scimento di quasi tutti gli episodi principali e di quasi tut-te le digressioni narrative. Nell‟edizione di  Horcynus del2003, alla pagina 602 dei Fatti corrisponde la pagina 828(l‟impaginazione è identica e comprende 44 righe per pa-gina), ma a questo punto c‟è il grande innesto di 165 pa-

    gine, il famoso ed estremamente complesso monologodelirante del protagonista sullo sperone davanti all‟Orca

     priva di pinna dorsale credono di riconoscere Manuncularais, la cuistoria del duello con Caitanello era ormai proverbiale in paese; dopouna certa indecisione amletica (egli non sa se è meglio lasciare al pa-dre il ricordo intatto di Manuncularais vivo e umiliato o dargli la sod-

    disfazione di vederlo morto), ‟Ndrja fa vedere la carogna a Caitanello,il quale, seppure con qualche dubbio, la riconosce come quella di Ma-nuncularais e riceve i complimenti di tutti gli altri pescatori (eviden-temente, nel passaggio dai  Fatti a  Horcynus, D‟Arrigo scelsel‟alternativa scartata da ‟Ndrja, eliminando radicalmente tuttol‟episodio). 

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    morente (cui D‟Arrigo lavorò soprattutto tra il 1968 e il

    1972), dove il „tempo interiore‟ sembra un‟eternità rispet-to ai pochi minuti del „tempo esteriore‟ trascorso nel rac-conto. Le restanti 89 pagine di Horcynus risultano, infine,molto simili alle corrispondenti 58 pagine de I fatti, cui siriagganciano (con qualche aggiunta che allude a quantoaccaduto nel monologo) nello stesso punto in cui il datti-loscritto era stato lasciato e quasi con le medesime paro-

    le: la ripresa, in tal modo, torna indietro di qualche minu-to rispetto al „tempo‟ trascorso durante il monologo e ri-racconta dal-l‟esterno in circa sette pagine lo stesso lassodi tempo che in precedenza il lettore ha vissutodall‟interno della mente vorticante del protagonista (nei

     Fatti, quindi, questa sorta di „piega‟ nel tempo della nar-razione non c‟è, perché la successione temporale è perfet-tamente lineare).

    La pubblicazione del romanzo nel 1975, tuttavia,non ha interrotto il labor limae  di D‟Arrigo, il quale ètornato sul testo fino alla morte (avvenuta il 2 maggio19927) apportandovi ulteriori modifiche, seppur lievi,

    7  Nel 1985 D‟Arrigo pubblicò, sempre con Mondadori, il suo secondo(e ultimo) romanzo, Cima delle nobildonne, un‟opera profondamente

    diversa dalla prima, non solo per la lingua, molto più accessibile (an-che se „alta‟ e specialistica), ma soprattutto per le dimensioni (sono„solo‟ 200 pagine circa). Prendendo spunto da una connessione delfaraone donna Hatshepsut (il cui nome significa appunto “la più nobiletra le donne”) con la placenta, sostenuta dal professor Planika,D‟Arrigo immagina che un gruppo di medici scopre che la “premadre”

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    tant‟è vero che la riedizione del 2003 reca nell‟aletta di

    copertina la dicitura “nuova edizione con le ultime inedi-te correzioni d‟autore”.Da quanto detto fin qui, risulterà chiara

    l‟importanza di avere finalmente a disposizione l‟Ur-testo di Horcynus, perché, come già si è visto negli ultimianni8 e come si vedrà meglio negli anni a venire, la lettu-ra comparata dei due testi permette a filologi ed esegeti di

    entrare nel laboratorio creativo di D‟Arrigo e di fare pie-na luce finalmente sulle complesse strategie linguistico-espressive, narrative e filosofiche che in quasi tre lustri diincessante lavoro hanno portato l‟autore a concepireun‟opera profondamente diversa dalla precedente, sotto lasuperficie della trama comune, e di valore letterario taleda porsi tra i capolavori assoluti della narrativa moderna.

    dell‟uomo, cioè la Placenta-Hatshepsut, contiene elementi assassini, iSeminomi Killers, “cellule anarchiche placentari in feto”, a ripr ovache la morte è intrinsecamente legata alla vita sin nelle sue radici ul-time (e prime). In tal senso, Cima delle nobildonne è tematicamentespeculare rispetto a Horcynus Orca, perché, mentre il grande romanzotrovava i germi della vita nella morte trionfante (si pensi alla “cicirel-la” nella ferita dell‟Orca), ora è il germe della morte ad essere trovato

    nella “placenta” della vita. [Un‟ampia analisi del romanzo costituiscela seconda parte del presente volume].8  Il primo studio comparato è quello di Baldelli 1975, dove però iltermine di paragone è costituito dai due capitoli usciti sul “Menabò”col titolo  I giorni della fera; ma cfr. anche Sgavicchia 2000: XLVII-LX, nonché il più recente La Forgia 2002.

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    Al momento dell‟uscita del romanzo, però, la cr i-

    tica non è unanime nel giudizio sul valore dell‟o pera.L‟eccessiva attesa, l‟enorme mole, la lingua „difficile‟ peri non siciliani o comunque per i non specialisti di lingui-stica (o meglio di dialettologia connessa all‟an-tropologia, come precisa Salvatore Trovato parlando del„lettore ideale‟ del romanzo9), sono forse all‟origine, in-sieme o separatamente, di alcune stroncature che oggi

    appaiono ingenerose e assolutamente superate. Ad esem- pio, Enzo Siciliano intitola la sua recensione Quest‟Orcala cucino in fritto misto

    10; Pietro Citati parla di un «bel-lissimo libro rovinato dall‟incon-tinenza dell‟autore»11;Paolo Milano, infine, sostiene che «il capolavoro nonc‟è»12. I consensi, però, sono più numerosi: LorenzoMondo scrive che con D‟Arrigo «la letteratura assume ilvalore di un‟esperienza assoluta, totalizzante»13; Geno

    Pampaloni parla di un capolavoro «grandioso, sofferto,solenne, disperato»14; Giuliano Gramigna esalta in  Hor-cynus Orca il «lungo viaggio fra mito e romanzo»15. Di-scorso a parte merita Walter Pedullà, il quale sin da prima

    9 Cfr. Trovato 2002: 67.10 Siciliano 1975.11 Citati 1975.12 Milano 1975.13 Mondo 1975.14 Pampaloni 1975.15 Gramigna 1975.

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    della “rivelazione” ufficiale dello scrittore sul “Menabò”

    è il più strenuo difensore della grandezza di D‟Arrigonarratore16. In una serie di articoli usciti tra il febbraio el‟aprile 1975 sull‟“Avanti!” (e poi in tutti i saggi succes-sivi, fino a quelli introduttivi a I fatti della fera e alla rie-dizione 2003 di  Horcynus Orca), Pedullà combatte ap-

     passionatamente le stroncature affrettate difendendo la“leggenda” e l‟“impresa memorabile” di D‟Arrigo.

    16 Cfr. già Pedullà 1960.

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    CAPITOLO 2

    LA FABULA E L‟INTRECCIO 

    Ma di cosa  parla  Horcynus Orca? Raccontare lanuda  fabula implicita di questo romanzo totale  –   su cuihanno messo le mani non tanto, come si diceva una volta,“e cielo e terra”, ma terra e mare, ovvero solo il mare el‟abisso di mistero che esso cela in sé in quanto origine efine di tutto ciò che è vitale, e quindi luogo in cui si cele-

     bra l‟eterno ciclo della vita e della morte, come già sape-va bene il primo filosofo –  non è difficile, perché si trattadi riassumere alcuni “fatti” avvenuti princi-palmentenell‟arco di otto giorni, dal primo all‟8 ottobre 1943. Na-turalmente nel romanzo si trovano diverse puntate narra-tive al tempo precedente, da quello più recente, comenell‟ampio racconto dell‟uccisione del soldato tedesco da

     parte degli scugnizzi di Napoli, avvenuta il 29 settembre

    (cfr. pp. 535-547), a quello più lontano, come nel rapidoracconto della „sparizione‟, nell‟agosto del 1860, delquattordicenne Simone Gaspiroso –  che poi sarebbe riap-

     parso da vecchio con una stranissima teoria ittiologica

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    sulla dipartita dell‟anima dopo la morte –  dietro le truppe

    garibaldine di passaggio per lo sbarco in Calabria (cfr. pp. 355-357). Quello che segue, pertanto, è un sommarioil più possibile dettagliato delle vicende principali, dispo-ste nel loro naturale ordine cronologico.

    Sbandato dopo l‟8 settembre, il ventiduenne ma-rinaio della «fu regia Marina» ‟Ndrja Cambrìa, novello

    Ulisse, parte da Napoli il primo di ottobre per fare ritornoal suo paese natale, Cariddi, un villaggio di pescatori si-tuato sull‟estrema punta settentrionale della Sicilia. Du-rante i quattro giorni del viaggio, ‟Ndrja è accompagnatocontro la sua volontà da quattro altri soldati sbandati, ilcatanese Boccadopa, che ha una gamba sola, Portempe-docle, Montalbanodelicona e Petraliasottana, i quali loconsiderano il loro “Mosè” per l‟attraversamento dello

    Stretto. Lungo il percorso, ‟Ndrja cerca spesso di isolarsidai suoi petulanti accompagnatori e ha degli incontri (sul-le cui esatte coordinate temporali il testo tace) con figure

     particolari che simbolicamente gli rivelano in un climax ascendente lo stato di degradazione e di ribaltamento deivalori del suo mondo natale. Prima incontra le “femmino-te” del giardino d‟arance, le quali, cosa inaudita, inverto-

    no la loro consueta rotta verso sud e la Sicilia (dove pre-levano il sale di contrabbando) e vanno verso Napoli incerca di un uomo che, accoppiandosi con una di loro,l‟inebetita Cata, la liberi dallo stato di incantesimo in cuiè caduta per non aver potuto consumare il matrimonio a

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    causa della chiamata in guerra del marito; e

    all‟improvviso, con un lamento funebre e sboccato, essegettano “il tribolo” sui “ferr i bò” (ferry-boat), che primadi essere distrutti dalla guerra erano non solo i loro mezzidi trasporto ma anche i loro amanti, dal momento che,ogni tanto possedute sessualmente alle spalle da anonimimacchinisti nelle sale-macchine, preferivano pensare chefosse la stessa nave personificata ad amarle furtivamente.

    Poi incontra le “due femminelle” di Amantea, madre efiglia di un certo Sasà Liconti, il quale è impazzito e, ri-dotto a uno straccio e turlupinato dagli inglesi, se ne sta aCannitello davanti allo Stretto sognando un trasbordo emostrando una misteriosa fotografia ai passanti, per cui ledue donne vanno e vengono per portargli il ricambio deivestiti. C‟è poi un ex-pescatore che, avendo dovuto con-segnare la barca ai tedeschi che la usarono per disperdere

    in mare i corpi di alcuni soldati italiani da loro uccisi eavendo sognato un mare trasformatosi in neve e blocchidi ghiaccio, si è ridotto a caricare su un cavallo e a smer-ciare carne di carogna di delfino spacciato per tonno eacqua di mare spacciata per acqua purgativa. Infine‟Ndrja si imbatte nel vecchio “spiaggiatore” che, vestitocon pezzi di divise di tutte le guerre (affinché chiunque lo

    trovi morto lo riconosca e onori come un soldato di qual-siasi nazionalità), lo istruisce sulla natura ferina e divinadelle femminote e sul modo di ottenere i loro favori e iltrasbordo, esponendogli anche una gnoseologia basata sul

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    “vistocogliocchi” anziché sul “sentitodire”, finché si sca-

    va un letto-bara sulla sabbia in attesa della morte.Dopo i quattro giorni di marcia lungo la costa ca-labrese, ‟Ndrja arriva la sera del 4 al “paese delle Fem-mine” (Bagnara). Qui dovrà trovare una barca per il tr a-sbordo clandestino sulla costa siciliana, dato che non puòscendere oltre verso Scilla e Villa perché lo Stretto e iltraghettamento sono controllati dagli inglesi. Il paese del-

    le Femmine è infestato da un tanfo pestilenziale derivantedal particolare trattamento da parte delle femminote delladigustosa carne di “fera” (delfino), l‟unico animale, eter-no nemico dei pescatori per la strage di pescespada e direti che compie per puro divertimento, che si riesca a tro-vare a riva, morto o per le mine o per indigestione. Men-tre i compagni entrano nelle case delle femminote permangiare e bere (ciò che provocherà loro una diarrea ter-

    rificante e una sbornia soporifera), ‟Ndrja va sulla spiag-gia e la vista del cimitero d‟ossa di fere gli suscita sogni,ricordi e visioni dal forte significato simbolico e prefigu-rante (come il sogno delle fere trentenarie che vanno di-gnitosamente, cioè da “delfini”, a morire carbonizzatenelle cavità ardenti di Vulcano, cui segue il sogno di luiche porta la “buona novella” ai diffidenti pescatori di Ca-

    riddi, i quali vi leggono invece la sua degenerazione cul-turale e quasi la sua depravazione omosessuale dovutealla guerra e alla vita militare). A questo punto, una dellefemminote, la misteriosa Ciccina Circè, insieme una sire-na (secondo una teoria di Mimì Nastasi, non a caso un

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     paralitico, le femminote e le fere sono discendenti delle

    sirene omeriche: cfr. pp. 122 e 558-568), una sibilla (par-la spesso per enigmi e gli fa un‟ambigua profezia: cfr. p.328), una Calipso (cerca di convincerlo a non tornare dal-la sua Penelope, che come tutte le “femminelle di casa”sta col culo eternamente seduto e tiene in mano un capodel filo legato alla caviglia del marito in viaggio: cfr. p.341) e una maga incantatrice come Circe (ha le fere “in-

    cantesimate” al suo servizio e trasforma gli uomini in“porcelloni” nel modo in cui può farlo una prostituta: cfr. pp. 284 ss. e 1048), lo trova e lo porta sulla sua barca aCariddi in un viaggio notturno tra fere e carcasse di sol-dati che è una specie di discesa agli inferi. Tra le altre co-se, durante il trasbordo ‟Ndrja apprende che Ciccina Cir-cè usa il corteo incantato di fere soprattutto al fine dispazzare i corpi galleggianti dei soldati morti, la cui vista

    dalla barca lei aborrisce, perché le ricordano il suo “Baf-fettuzzi” morto in guerra. 

    Arrivato a casa, dopo essersi accoppiato sullaspiaggia con l‟ardente femminota per “disobbligo” (però«dove, come e quando volle lei», p. 329), ‟Ndrja ha unlunghissimo colloquio notturno col padre Caitanello, ilquale, come il Laerte omerico, riconosce il suo Ulisse so-

    lo dopo avergli visto sul polso sinistro la cicatrice dellaferita procuratagli anni prima da una “traffinera”, la par-ticolare fiocina usata per “lanzare” il pescespada. Caita-nello, però, è in preda a un delirio che lo spinge a evocarelo spirito della moglie Amalia, detta l‟Acitana (perché di

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    Acireale), morta da circa 15 anni, mentre, come le fem-

    minote, tratta con aceto la “ventresca” di una fera spar-gendo un fetore intollerabile nella “cameraperdormire”. Nelle interminabili “due parolette” con cui lo tiene sve-glio, dispiegate in nove “quadri” da cantastorie, il padreracconta al figlio gli ultimi avvenimenti che, dal mese diagosto, sono accaduti a Cariddi e che lo hanno spinto arinchiudersi in casa da giorni per risentimento nei con-

    fronti della comunità: 1) il sole infernale del 17 agosto; 2)il nefasto accoppiamento del sole con la guerra, che ha lefattezze di una vecchia e laida prostituta; 3) l‟arrivo diun‟orda di cetacei che assedia lo Stretto e 4) fa una Ron-cisvalle di pescispada; 5) un‟intera famiglia, padre, madree tre figli, saltata in aria nel sonno per una bomba d‟aereo“str aviata”; 6) il suicidio in mare di un gruppo di anziani

     pescatori guidati dal Noé dei cariddoti, il vecchio Ferdi-

    nando Currò, che, in occasione del terribile cataclismache sconvolse Messina il 28 dicembre 1908, aveva salva-to donne e bambini caricandoseli sulle spalle e portandolisulle alture; 7) la “Ferame”, ovvero la fame con la facciadi fera; 8) il suo ritrovamento di sei cadaveri di fascistimitragliati dagli aerei inglesi mentre banchettavano conuna testa di fera al centro della tavola; 9) la sua bravata

    notturna in cui va a sfidare da solo su una barca un grossocetaceo, Manuncularais, cui riesce persino a tagliare, conun pugnale volatogli dalla mano, la punta della pinnadorsale prima di essere ributtato a riva nell‟indif -ferenza,

     per lui offensiva, dei suoi compaesani per l‟impresa. 

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     Nel corso del giorno seguente (domenica 5 otto-

     bre), ‟Ndrja apprende la grossa novità: da quattro giorni(cioè dal giorno della sua partenza da Napoli),un‟immensa Orca, puzzolente di carne morta per via diuna piaga enorme sul fianco sinistro, si è stabilita nelleacque dello Stretto e nella sua agonia carica di presagi dimorte è arrivata persino a sfamare i cariddoti con i banchidi “cicirella” (anguille nate da poco) sollevati in superf i-

    cie nel corso dei suoi inabissamenti notturni. Nel pome-riggio ‟Ndrja va a trovare la sua Penelope, la giovane “zi-ta” Marosa, la quale lo ha atteso promettendo a Dio di ri-camare tutti i pesci del mare in cambio del suo ritorno etenendosi pronta a disfare ogni volta i ricami (quando Diosi fosse distratto), nel caso avesse esaurito il catalogo dei

     pesci conosciuti. La sera di quello stesso giorno, il futurosuocero Luigi Orioles, la guida spirituale della comunità

    di pescatori, lo invita a recarsi l‟indomani a Messina perverificare la situazione e soprattutto per informarsi se è

     possibile, ora che i nazifascisti sono stati cacciatidall‟Isola, ordinare una “palamitara”, la barca vitale perla loro economia basata sulla pesca.

    L‟indomani (lunedì 6), ‟Ndrja scende verso Mes-sina con il “fratello di latte” Masino, e lungo la strada,

    dopo aver incontrato solo desolazione e distruzione in un paesaggio popolato da donne che espongono i ritratti deiloro uomini partiti in guerra e non ancora tornati, incontrail Maltese, lo “sbrigafaccende” del Town-Major di Mes-sina, un personaggio ambiguo (soprattutto sessualmente)

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    che in compagnia di un losco scagnozzo va in giro in car-

    rozza per reclutare, dietro compenso di 500 lire, tredicigiovani messinesi da impiegare in una regata contro gliangloamericani prevista per il sabato successivo nel portodi Messina. In un primo momento ‟Ndrja, nonostante ilMaltese, evidentemente attratto dalla sua prestanza fisica,gli offra addirittura mille lire, non fa molto casoall‟offerta, anche se in cuor suo si chiede se quei soldi

     basterebbero come anticipo per una palamitara. Nel frat-tempo, a Cariddi, attratti dalla prospettiva di smerciare lacarne dell‟Orca spacciandola per tonno, due rigattieri si

     presentano con un‟ex Camicia Nera, Dumdum (noto inAbissinia per la sua cinica destrezza nel maneggiare le

     bombe), assoldato per finire l‟Orca con le sue “bomboat-te”. Il feroce individuo, dopo vari tentativi andati a vuoto,riesce a colpirla riaprendole lo squarcio sul fianco sini-

    stro, mentre le fere, intuita la vulnerabilità e la cecitàdell‟Orca, architettano un piano d‟attacco per mozzarle lacoda.

    «Venne marte e marte veramente fu perl‟orcaferone» (p. 758). Il 7 ottobre è il gior-no più lungo,sia sul piano della narrazione sia su quello degli avveni-menti. All‟alba, le fere attaccano in massa l‟Orca e la

    scodano in uno scontro epico, nonostante il suo carattere“maganzese” e “roncisvalloso”. A questo punto, essendocerta la sua morte, i pescatori discutono lungamente sulda farsi, e alla fine prevale l‟idea, degradante per la loroetica ma vitale per la loro economia, perché ridotti in mi-

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    seria dalla guerra, di smembrarla e utilizzarla tutta sia

    come cibo da svendere sia come fonte di materia prima per costruire oggetti vari con le sue ossa, così come fannogli abitanti del Mare di Bering, di cui il signor Cama mo-stra due foto in cui li si vede all‟opera mentre squartano e„lavorano‟ le parti delle orche. A ‟Ndrja, che pure non di-sdegna la proposta (è lui stesso ad avanzarla per primosenza troppa convinzione, solo perché spera di vedere i

     pescatori impegnati in un dignitoso “daffare” di mente edi mano dopo la lunga inattività forzata), il modo in cui isuoi compaesani si entusiasmano all‟idea del guadagnofacile sembra un segno tragico del declino e della finedella loro forma di vita secolare fatta di lavoro duro maonesto. A sbloccare la situazione, mentre i cariddoti sitrovano sullo sperone per assistere dall‟alto all‟agoniadell‟Orca, arriva lo zatterone inglese con a bordo il Ma l-

    tese e il suo scagnozzo, il quale sbarca per cercare diconvincere ‟Ndrja ad accettare la proposta del suo capo.

     Nonostante le insolenze dello scagnozzo, il quale alludealle tendenze sessuali del Maltese e quindi alla ragionevera del suo interessamento al giovane cariddoto, ‟Ndrjavede nel Maltese una possibile fonte di aiuto per i pesca-tori sia per le mille lire della regata da impegnare nel-

    l‟acquisto della barca sia perché gli può chiedere di farsida tramite con gli inglesi affinché questi rimorchinol‟Orca arenandola sulla loro riva. La sua decisione, però,matura attraverso un delirante e interminabile monologoin cui la sua mente annega in un vortice di pensieri guida-

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    ti dalle associazioni fonomorfologiche e semantiche pro-

    dotte dalle parole biascicate da Luigi Orioles, che ai suoiocchi visionari si erge a simbolo della decadenza e dellamutazione antropologica di tutta la comunità (la quale nelfrattempo mormora alludendo volgarmente ai favori ses-suali che lui è chiamato a concedere al Maltese per “sal-vare la patria”, p. 946). Riecheggiando nella sua menteipereccitata e amareggiata la frase “Si fece lontana la bar-

    ca, ‟Ndrja” e le parole sempre più atomizzate e ricompo-ste “barca”, “bara” e “arca” (addirittura “oreocchiate”, inuna complessa triangolazione psicologico-percettiva diechi, sulla bocca di un secondo anziano pescatore sedutosotto la Lanterna Vecchia del Faro), ‟Ndrja scende negliabissi della sua psiche e della sua memoria, da cui ripescaquasi tutte le figure simboliche incontrate nei giorni pre-cedenti, nonché molti ricordi d‟infanzia, e ha visioni che

    sono allegorie della fine del suo mondo. Alla fine si rendeconto che quelle parole che si implicano a vicenda sonointercambiabili e rimandano sempre e comunque allamorte («La barca della vita si scopre sempre più arca,sempre più bara che va incontro alla morte», p. 985), vi-sto che l‟unica arca di salvezza a loro disposizione èl‟Orca (ora detta “orcarca”, ibidem), ovvero la Morte

    stessa, per giunta morta e incarognita.Intanto il Maltese sbarca e va di persona a chie-

    dere a ‟Ndrja di partecipare alla regata, e questi accettachiedendogli però, e ottenendo, di far arenare l‟Orca conlo zatterone. Quando la carogna dell‟Orca, che nel frat-

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    tempo è morta, è portata a riva, la comunità sembra rina-

    scere a nuova vita nell‟entusiasmo di intraprenderel‟opera di smembramento dell‟animale in una sorta di banchetto macabro, e ‟Ndrja, prima di imbarcarsi conMasino (il suo ingaggio è un altro favore che egli chiedeal Maltese) sullo zatterone che lo porterà a Messina, va asalutare Marosa, la quale nel frattempo, distrutta dal do-lore per la nuova partenza dell‟amato, ha cominciato a

    ricamare in nero il suo cuore, sicché lui, come scherzoso pegno d‟amore che però si trasforma in gesto sacrificale e presago della sventura, le offre in dono il suo petto da in-filzare con l‟ago nella posa dell‟Ecce Homo. 

    Durante la sosta al Faro, da cui dovrà ripartire perMessina a bor do di un camion con gli altri dieci “sbarba-telli” reclutati per la regata, ‟Ndrja incontra di nuovoBoccadopa e Portempedocle, i quali ottengono un pas-

    saggio do- po un‟equivoca contrattazione con lo scagnoz-zo. Nello stesso momento sente provenire dalla casermet-ta degli inglesi sulla piazzetta del porticciolo il frastuonodi un “baccanaletto”, e presto scopre che il coro di soldatifestaioli che cantano “Rosamunda” è accompagnato dalsuono della campanella di Ciccina Circè, di cui lui serbaun ricordo struggente perché gliel‟aveva vista usare du-

    rante il trasbordo notturno per “alloppiare” le fere. Per‟Ndrja, che nella sua mente visionaria ha idealizzato, in-namorandosene, la figura della femminota facendone unasorta di maga incantatrice e passionale, è un colpo duris-

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    simo dover rendersi conto che Ciccina Circè si guadagna

    da vivere facendo la prostituta dei soldati inglesi.Arrivati a Messina, i ragazzi sono alloggiati neilocali puzzolenti e semidistrutti dalle bombe della CasaLittoria, e, durante la notte, dopo aver assistito alla mortedi un contrabbandiere di sigarette entrato nella Casa feri-to al collo da una sentinella inglese, gli “sbarbatelli” fug-gono terrorizzati lasciando ‟Ndrja e Masino da soli. 

    All‟alba di mercoledì 8, ‟Ndrja e Masino si ritr o-vano a vagabondare per le strade di una Messina dilaniatadalla guerra, e decidono di recarsi con un passaggio a Ga-lati Mamertino per informarsi dal “maestro d‟ascia” Ar-mando Raciti sul prezzo di una palamitara. Qui i due tro-vano uno spettacolo penoso: Armando Raciti, il più e-sperto maestro d‟ascia per le palamitare, è inebetito dauna paralisi e la moglie, per tenerlo in vita, costruisce le

     barche con legni qualsiasi dandogli l‟illusione di esserelui a guidarla nell‟opera.

    Tornati a Messina, ‟Ndrja e Masino ritrovano gli“sbar  batelli” (che avevano ricevuto ospitalità nella sededel Movimento Indipendentista Siciliano) e il Maltese, ilquale, pur avendo rinunciato a procurare al Town-Majorla squadra messinese per la regata, è convinto da ‟Ndrja a

    ricredersi e a tentare l‟impresa. Recatosi col Maltese al“mare secco” di San Ranieri, uno spicchio d‟acqua bassadavanti al porto di Messina delimitato sul lato del maredalle navi da guerra alleate, non appena Masino ritornacon gli “sbarbatelli”, che nel frattempo è andato a recupe-

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    rare sottraendoli all‟in-dottrinamento dei separatisti,

    ‟Ndrja, preso dall‟entusiasmo e dalla speranza di poterriscattare la comunità dei pescatori, comincia subito gliallenamenti sulla lancia a loro destinata. Ma è ormai sera,e poiché la lancia, sulla quale la squadra guidata da‟Ndrja voga in preda a una felicità inebriante e liberato-ria, si avvicina troppo alla prua di una portaerei, la senti-nella fa partire un colpo e la pallottola colpisce ‟Ndrja in

    mezzo agli occhi mentre alza lo sguardo come se volesseintercettarla “volontariamente”. Distrutti dal dolore, gli“sbarbatelli”, guidati ora da Masino, proseguono triste-mente la loro corsa verso il mare aperto per riportare ilcorpo di ‟Ndrja a casa, su quella barca  „rubata‟ che perlui è diventata bara e che forse sarà la vera arca di sal-vezza per i cariddoti ridotti a banchettare con l‟Orca. 

    Questa, ridotta all‟essenziale (sono moltissime lemicrostorie inserite nelle digressioni), la  fabula implicitadel romanzo, che però la narrazione esplicitanell‟intreccio annodando la successione temporale neimodi tipici dell‟epos. Il romanzo, infatti, inizia in mediasres con l‟arrivo del protagonista, la sera del 4 ottobre, nel

     paese delle Femmine, e recupera via via il tempo prece-

    dente con una complessa trama di analessi, affidate ora alricordo e al racconto del protagonista e di altri personaggiora ai flashback del narratore stesso.

    Pur essendo di una vastità e di una difficoltà dilettura a volte scoraggianti (soprattutto per via della par-

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    ticolare „lingua‟ in cui è scritto, come vedremo), il r o-

    manzo non presenta alcuna suddivisione in capitoli titola-ti „dall‟esterno‟ che possano consentire pause di riposo allettore o fornire appigli di ritmo per la lettura: il testo sisnoda ondeggiando e rifluendo in un unicum narrativo dirara densità, simulando l‟aspetto del mare dello Stretto inrema, con i suoi “bastardelli”, i suoi “spurghi” e i suoi“rifiuti” (cioè le correnti secondarie che si dipartono dai

    flussi e dai riflussi della corrente principale del mare inrema nell‟alternarsi delle maree). Il mare del testo, in talmodo, procede avanzando e retrocedendo, e la correntedella narrazione principale si spezza e rallenta producen-do correnti secondarie costituite dai „ritorni‟ del narrato-re, dalle digressioni e dalle rievocazioni del passato da

     parte dei vari personaggi, ai quali spesso, in un uso calco-latissimo e abbondante del discorso indiretto libero, il

    narratore cede la parola.Le suddivisioni dell‟opera sono tutte interne alla

    narrazione, e quella principale, che grosso modo divide indue il testo, è costituita dai due momenti del nostos del

     protagonista e della sua ripartenza verso la morte. Sul pi-ano puramente tipografico il romanzo è diviso in tre „par-ti‟ segnalate dal semplice cambio di pagina, che appros-

    simativamente rispettano la partizione suddetta: la prima parte (dall‟inizio a p. 343) va dall‟arrivo al paese delleFemmine all‟arrivo a casa sulla barca di Ciccina Circè; laseconda (pp. 343-616) è tutta incentrata sul-l‟incontro col

     padre, dal suo diffidente “riconoscimento” del f iglio al

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    suo lunghissimo racconto da cantastorie degli ultimi av-

    venimenti accaduti a Cariddi (come si vede, le prime due parti coprono  solo le circa dodici ore che vanno dal tra-monto del 4 all‟alba del 5 ottobre, ma sono anche quelleche contengono quasi tutte le analessi); la terza (pp. 617-1082), dopo la rapida presentazione del-l‟Orca e la segna-lazione della concomitanza tra il suo quarto risveglio nelmare dello Stretto e l‟arrivo di ‟Ndrja, torna indietro nel

    tempo alla sera del primo ottobre (giorno dell‟arrivodell‟Orca, ma anche della partenza di ‟Ndrja da Napoli) per il “riesumo” di tutti i „fatti del ferone‟, e tocca uno per uno in sequenza tutti i giorni fino all‟8 (se si escludequella, cui già si è fatto cenno, all‟altezza del raccordo trala fine della narrazione „in soggettiva‟ del monologo sul-lo sperone e la ripresa della narrazione „oggettiva‟, c‟è intutta la terza parte una sola „piega‟ vera e propria

    all‟altezza della tarda sera di domenica, cioè l‟analessi sul primo incontro tra ‟Ndrja e Marosa, avvenuto il pomerig-gio prima). All‟interno di ciascuna parte, il flusso dellanarrazione è scandito in „paragrafi‟ (69 nella pr ima, 58nella seconda e 89 nella terza) di lunghezza molto varia-

     bile (dalle poche righe, come quello di p. 547, alle parec-chie pagine), segnalati da doppi spazi bianchi che non

    sempre separano nettamente i segmenti narrativi o gli e- pisodi: in alcuni casi, infatti, un unico episodio compren-de più „paragrafi‟ (cfr. ad es. il lungo episodiodell‟incontro con le femminote nel giardino, pp. 8-46),mentre in altri si passa da un episodio all‟altro all‟interno

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    dello stesso paragrafo (cfr. ad es. il passaggio dallo stesso

    episodio alla ripresa del viaggio lungo la Calabria da par-te del gruppo, p. 46).L‟addensamento  sistematico della narrazione in

     Horcynus Orca, che ha una finalità estetica ben precisa(la simulazione dell‟acqua del mare dello Stretto, ad e-sempio) ed è un risultato tardo della lunga fase di elabo-razione, risulta ancora più chiaro e significativo se si dà

    un‟occhiata a  I fatti della fera, dove, pur non essendocidivisione in capitoli, non solo abbondano gli „a capo‟ e idiscorsi diretti (in per-centuale), ma in una occasionecompaiono persino dei titoli. Questo accade nel lungoracconto da  Mille e una notte di Caitanello al figlio, chenei  Fatti è suddiviso in nove “quadri” preceduti ognunoda una breve sintesi del con-tenuto in stampatello, nellostile dei cappelletti che precedevano i canti di certi poemi

    o „romanzi‟ epico-cavallereschi17  o delle didascalie che

    17 Il ciclo carolingio, dalla Chanson de Roland al-l‟Orlando furioso, èonnipresente nel romanzo, sia con certi termini divenuti antonomasti-ci, come “maganzese”, “durlindana” e “Roncisvalle”, a sua volta de-clinato in “roncisvallato”, “roncisvalloso”, “roncisvallare”, ecc., siacon certi nomi di personaggi elevati al rango di figure emblematichenella cultura popolare ed usati qui per analogia più o meno ironica,

    come Orlando morente a Roncisvalle (per Luigi Orioles e il vecchioCannadastendere che cedono alla “morte civile”: cfr. pp. 952-953),Astolfo (per Caitanello che sfida la Morte “e va direttamente nellaLuna a ripigliare lo spirito dell‟Acitana”: cfr. pp. 343 e 360), Malagigi(per Caitanello che come il mago di Carlomagno chiama a raccolta lefere nel suo racconto come fossero potenze infernali: cfr. p. 448), Fer-

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    accompagnavano i quadri del cartellone del cantastorie o

    degli spettacoli dell‟Opera dei Pupi (che D‟Arrigo citaspessissimo e di cui era particolarmente appassionato). Siveda ad esempio il titolo del nono e ultimo “quadro”:«QUADRO IN CUI SI VEDEVA CAITANELLO CAMBRÌA CHESE LA PENSAVA ALLA COATTA E FACEVA, SPRUDENTISSI-MO ASTOLFINO,  LA GRANDE SBLASATA DI ANDARE NELCAMPO D‟AGRAMANTE OVVEROSSIA USCIRE SOPRA QUELMARE DI FERE RONCISVALLOSE

    ».

    18

      Questi titoli, quasifossero elementi paratestuali nocivi al continuum del nar-rato, in Horcynus sono stati eliminati e così tocca al letto-re orientarsi nella scansione delle “scene” del complesso“cartellone” dipinto da Caitanello nel suo “contare” (cfr.

     p. 422; non a caso il termine originario qui usato daD‟Arrigo nei Fatti era “cantare”: cfr. p. 333).

    Si aggiunga, infine, il fatto che uno degli aspetti

    linguistico-espressivi più salienti del passaggio dai Fatti a

    raù (per Caitanello cui appare lo spirito della moglie: cfr. p. 414),Bradamante (per Marosa che atterra ‟Ndrja nel duello erotico: cfr. p.714), Agramante (per “Manuncularais”, il grosso cetaceo sfregiato daCaitanello: cfr. p. 488), Rodomonte (per la “Grantesta” di Mussolini,“un fassimile di quella di Rodomonte”: cfr. p. 23; o per ‟Ndrja che

    aggredisce lo scagnozzo del Maltese: cfr. p. 892), ecc.. Per non diredell‟episodio dell‟Orca uccisa e arenata da Orlando (cfr. in part. XI,36-44, dove l‟Orca è anche detta “la fera”: 36, v. 4), legato, tra l‟altro,a quello dell‟Orco in Boiardo (cfr. Innamorato, III, 27).18  I fatti della fera, p. 370; cfr. il luogo parallelo di Horcynus Orca, p.480.

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     Horcynus consiste in una sistematica dilatazione del re-

    spiro sintattico dei periodi, nel senso che il discorso indi-retto e quello indiretto libero del narrato non solo risulta-no considerevolmente più ampi nel complesso, ma già isingoli periodi si fanno generalmente molto più lunghi esi snodano in una trama articolatissima di frasi incidentalie di subordinate incassate l‟una dentro l‟altra, al puntoche in alcuni casi si arriva a una tale lunghezza che il let-

    tore ha la sensazione di smarrirsi ed è costretto più volte atornare indietro per ritrovare il filo del senso principaledel discor so. Tanto per fare un esempio, quando ‟Ndrja,verso la fine del romanzo, si trova sul camion che lo por-terà a Messina e sente il “mbùmbùmbù” della stampelladi Boccadopa, per descrivere la ridda di ricordi inquietan-ti che questo rimbombo sinistro gli evoca (l‟ultima voltalo aveva sentito dalla spiaggia del paese delle Femmine,

     poco prima che Boccadopa e Portempedocle stramazzas-sero a terra schiantati dal falso vino e dal mal di stoma-co), D‟Arrigo costruisce un periodo estremamente com-

     plesso che da un punto fermo all‟altro si estende per ben65 righe, e prima dell‟a capo è seguito da altri due perio-di, di cui il primo di 18 e il secondo di 8 righe (cfr. pp.1037-1039). Nei Fatti, tra il momento in cui ‟Ndrja sente

    il rimbombo e il momento in cui sente la voce di Bocca-dopa, „passano‟ appena 4 frasi, lunghe, nell‟ordine, 2, 3,2 e 5 righe, e dopo le prime due c‟è già l‟a capo (cfr. pp.629-630).

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    CAPITOLO 3

    L‟ IPER- LINGUA DEL ROMANZO 

    La novità e l‟originalità di  Horcynus Orca stan-no, com‟è noto, nella sua particolarissima tessitura lin-guistica, per ché D‟Arrigo ha letteralmente inventato unanuova lingua, affinata e portata a capacità espressive pri-ma impensabili nel periodo della revisione delle bozze de

     I fatti della fera.

    Sulla f ilosofia del linguaggio, ovvero sull‟esteticadell‟espressione che informa di sé ogni singolo atomolinguistico del romanzo, è lo stesso D‟Arrigo a fornirci leinformazioni più illuminanti in un‟intervista rilasciata nel1985:

    Ho costantemente cercato di fare coincidere i fattinarrati con l‟espressione, la scrittura con l‟occhio e

    con l‟orecchio, rifiutando qualunque modulo che miapparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non com- pleto e assoluto. Non ho rinunciato a nessun materialelinguistico disponibile perché sono partitodall‟obiettiva sicurezza che i luoghi della mia narr a-zione –  luoghi topografici ma soprattutto luoghi del te-

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    sto  –   restino un fondamentale punto d‟incontro e fil-traggio delle lingue del mondo. Naturalmente, ognivolta che ho adoperato neologismi o semantiche inedi-te mi sono preoccupato di fornire immediatamente ilcorrispettivo metaforico, di scrivere, riscrivere, rifon-dare il periodo e „mirare‟ il vocabolo finché non giudi-cavo d‟avere raggiunto l‟espressione completa: fino almomento in cui guadagnavo la certezza che il risultatoottenuto fosse quello giusto e definitivo, che la totalitàlessicale, sintattica e semantica fosse realizzata, che,

    sulla pagina finita, la scrittura „parlasse‟.

    19

     

    Da questo passo, ma anche da una lettura passa- bilmente attenta dell‟opera, risultano confutate quelle de-scrizioni superficiali della lingua di  Horcynus Orca  (chespesso capita di leggere) che la presentano come unastruttura costituita da vari livelli sovrapposti: quello del

    dialetto, quello dell‟italiano comune, quello dell‟italianoletterario o colto e infine quello dei neologismi. In realtàla lingua del romanzo è un tutt‟uno denso e autosufficien-te, e suddivisioni come quella precedente non descrivonominimamente lo stato delle cose, ma possono al massimocostituire delle semplificazioni astratte e con funzione pu-ramente didascalica. Quello che invece si dovrebbe dire è

    che la lingua di  Horcynus Orca si configura come una„iper -lingua‟ che nell‟insieme è molto più della sommadelle suddette parti.

    19 In Lanuzza 1985: 134-135; cit. in Cedola 2000: XLIII, nota 7.

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    Per illustrare in che senso quella di  Horcynus  è

    un‟iper -lingua, basterà fare un confronto per contrastocon quella che si può chiamare l‟„inter -lingua‟ di AndreaCamilleri, un altro autore siciliano che fa largo uso di e-spressioni e costrutti dialettali e che era amico e grandeestimatore di D‟Arrigo. A tal proposito prenderò a mo-dello l‟incipit de  La presa di Macallé  (ma basterebbe

     prendere qualsiasi altra opera a caso), solo perché si tratta

    di un romanzo ambientato nella Vigata del 1935, con laguerra di Mussolini in Abissinia sullo sfondo20:

    Venne arrisbigliato, a notti funna, da un gran catuniodi vociate e di chianti che veniva dalla càmmara dimangiari. Ma era cosa stramma assà pirchì tanto le vo-ciate quanto i chianti erano assufficati, squasiche chistava facendo catunio non vulisse fari sentiri il catunioche stava facendo.21 

    Come si vede, Camilleri usa un impasto lingui-stico che non è più pienamente dialettale ma non è anco-

     20 Al 1935, e ai transiti nello Stretto delle navi fasciste dirette in Abis-sinia, è legata un‟importante analessi del romanzo, cioè l‟episodiodell‟Eccellenza fascista che prima ordina dalla sua nave ai pescatori

    cariddoti di lasciare andare la fera da loro catturata e “spubblicata” pervendetta, poi impone loro di chiamarla “delfino” e di adorarla comeun fanciullo divertente, elegante, bello, puro, vergine e martire, e infi-ne fa il tiro al bersaglio scaricando in testa all‟animale i sei colpi delcaricatore del suo moschetto: cfr. pp. 178-184.21 Camilleri 2003: 9.

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    ra nemmeno italiano, perché l‟italianizzazione è solo

     parziale (si noti ad esempio l‟oscillazione nella morfolo-gia del verbo “fare”, usato nella forma italiana al gerun-dio e nella forma dialettale all‟infinito). In tal modo, la„lingua‟ di Camilleri risulta, sul piano delle potenzialitàespressive, al contempo più potente del dialetto (che adesempio non conosce l‟uso di nessi sintattici articolaticome tanto… quanto), e più debole del-l‟italiano, perché

    in tale „lingua‟ esso è limitato nella morfologia (in dialet-to siciliano, ad esempio, “notti” è una parola monomor-femica, perché invariante rispetto al numero, mentre initaliano “notte” è bimorf emica, perché varia nel numero),nel lessico (non tutte le parole italiane vi possono ricor-rere) e nella sintassi (non è un caso che i costrutti frasalidella prosa di Camilleri siano generalmente molto brevi e„semplici‟). Ecco perché questa „lingua‟ inventata può

    essere chiamata „inter -lingua‟, senza che questo ovvia-mente implichi un giudizio di valore, dal momento cheessa è perfettamente corrispondente agli scopi espressivie di poetica di Camilleri, il quale insegue esplicitamentel‟ideale regolativo di una mimesi il più possibile icasticadella struttura linguistico-co-gnitiva e dell‟orizzontesimbolico-culturale dei personaggi del suo mondo narra-

    tivo (costituito da una serie di ideal-tipi di una certa Sici-lia nelle sue varie fasi storiche dal ‟700 a oggi)22.

    22 “Per me il dialetto, meglio sarebbe dire i dialetti, sono l‟essenza ve-ra dei personaggi. (…) Nel romanzo storico, un certo lavoro di ricerca

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    L‟operazione linguistico-espressiva di D‟Arrigo,

    il quale muove da un‟ansia di totalità e mira con  Hor-cynus Orca a costruire un libro-mondo, è totalmente di-versa, ed è orientata invece a un potenziamento inauditodella lingua italiana. Ecco perché nel suo caso sarebbeopportuno parlare di una „iper -lingua‟, costruita a partireda un innesto sull‟italiano e sulle sue regole morfologi-che (derivazione per affissi, composizione, assimilazio-

    ne, incrocio) di una serie di radici attinte dal dialetto etalune volte anche da altre lingue, come il francese (vistala ben nota contiguità tra l‟argot  e certe forme dialettalisiciliane), e da una sistematica sussunzione di queste ul-time, attraverso la decantazione nell‟italiano medio, nellesfere più sofisticate dell‟italiano letterario di ogni tempo.Questo spiega, ad esempio, come sia possibile trovare in

     Horcynus termini dialettali italianizzati (come “almo”,

    “desio”, “periglio”, “s‟affrontava”, “improsatura”, “in-calmierarsi”, “alquandalquando”, “tangeloso”, ecc.)  23  eneologismi di grande carica espressiva (“trionfera”, “del-fifera”, “Ferame”, “Famera”, “dolidoli”, ecc.) e avere

    è indispensa bile: se devo raccontare un contadino siciliano del ‟700,ho bisogno di capire come parlava ai suoi tempi. E mentre cerco di

    capirlo, il personaggio comincia a prendere forma; nasce, quasi, dalle parole che deve dire. (…) La sua lingua è il suo pensiero” (in Sorgi2000: 120-121).23 Per una analisi morfologica e semantica di alcuni di questi termini(e di altri ancora) si vedano Trovato 1996, Trovato 2001, Trovato2002 e Trovato 2007.

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    nello stesso tempo la sensazione di leggere un testo di

     poesia o di prosa d‟arte dei secoli scorsi (si pensi a unafrase come la seguente, in cui parla un vecchio pescatorema è anche come se parlasse un eroe in un verso epico:«Si spronano allora gli uomini in periglio», pp. 706-707).

    Per fare un esempio semplice ma più dettagliatodi come funziona questo meccanismo di costruzione lin-guistica, si consideri il passo seguente (dove si sta par-

    lando di una giovane femmina di delfino, Mezzogiorna-ra, che gioca e amoreggia col piccolo Caitanello):

    Le stecchette, da vera femminella svergognata, leusava già come quelle di un ventaglino, ditando e sdi-tando la manuncula. Prima, gli dava quasi a intendereche s‟affrontava di lui, poi, la sfrontata, se n‟usciva afargli l‟occhiolino, la cascamorta, frascheggiandogli ecernendosi tutta, con tutto il suo flessuoso più flessuo-

    so di coda in primis col culo a mandolino (pp. 226-227; corsivo mio). 

    Consideriamo solo il termine messo in corsivo enotiamo innanzi tutto che esso, secondo uno stilema fre-quentissimo nel romanzo, crea un gioco di parole con“sfrontata”. Ma che cosa significa “s‟affrontava”? Un

    lettore non siciliano, o che comunque non può cogliereimmediatamente il significato che ha in dialetto il verboitalianizzato “affrontarsi” (omografo al verbo riflessivoreciproco dell‟italiano comune che significa “scontrarsi”,“confrontarsi in una competizione”, ecc.), può consultare

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    il dizionario e scoprire che nell‟italiano letterario antico

    “affrontarsi” significava “offendersi”24

    , entrando così,seppure molto parzialmente, nell‟area semantica del ver- bo usato da D‟Arrigo, che precisamente vuol dire “ver-gognarsi”, “arrossire di vergogna” (dal siciliano affrun-tàrisi, fruntàrisi, ecc., a seconda delle varie micro-areelinguistiche). In questo modo il suddetto gioco di parolecon “sfrontata” coinvolge non solo il puro aspetto fono-

    morfologico, ma anche quello semantico, perché affron-tato e sfrontato sono due termini dal significato opposto,e per di più questa coppia di contrari è ignota alla linguaitaliana. In una sorta di corto circuito morfo-semantico,“s‟af -frontava” attraversa, come si vede, tutti i livellidell‟italiano, da quello dialettale a quello letterario, pas-sando per quello comune.

    Questo piccolo esempio (ma se ne potrebbero

    fare decine) dimostra in maniera lampante che la „lingua‟di D‟Arrigo, costruita a partire da una mescolanza di dia-letto (o di dialetti, perché c‟è anche il calabrese) e italia-no, si configura come una terza  lingua che ha maggiori

     potenzialità espressive sia del dialetto che dell‟italiano(contrariamente a quanto avviene in Camilleri), e in

    24  Cfr. ad es. la seguente ricorrenza in Goldoni: “La signora Sabinanon mi vuol più. Dopo che le ho parlato di donazione,  s‟è affrontata,s‟è fieramente sdegnata, e non ha più voluto nemmeno vedermi” ( Ilritorno dalla villeg-giatura, atto I, scena 4, 32; corsivo mio).

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    quanto tale può benissimo essere definita una iper-

    lingua. Tutto ciò spiega anche perché D‟Arrigo può permettersi di riabilitare, nella sua prosa baroccheggian-te, sofisticatamente involuta e magmaticamente densa, le

     più artificiose figure morfologiche, sintattiche e semanti-che della retorica antica con una stupefacente disinvoltu-ra e naturalezza, al punto che, oltre ad allitterazioni, pa-

    ronomasie, calembour , ossimori, pleonasmi, chiasmi, si-nestesie e metafore ardite, il lettore può incontrare persi-no un paio di accusativi di relazione senza avere alcunaimpressione di leziosa forzatura.25 

    Un discorso a parte merita quello che forse è il più concettoso e straordinario ircocervo lessicale inven-tato da D‟Arrigo, cui è affidato un ruolo espressivo mol-to importante in una vasta sezione del romanzo. Si tratta

    del termine “oreocchio”, da cui seguono per derivazione

    25 Significativamente sono due donne a usarli (la fem-minota JacomaFacciatagliata, mentre parla come una sensale con ‟Ndrja che rifiutaCata, e l‟Acitana, mentre si rivolge al marito Caitanello), in contesti diseduzione erotica: “tornate così lordo, selvaggio e infamato la perso-na, che una cristiana tutta in sensi nemmeno con una canna vi tocche-

    rebbe” (p. 15, corsivo mio); “Avvampo a dirvelo, ah che sfacciata chesono, ma fate che vi sbroglio a uno a uno questo gomitolo di sospiri e

     poi ripigliate mare, se dovete, ma ormai, rianimato gli spiriti e le for- ze. Eh, Granvisire, per sfrontata mi pigliate?” (p. 383, corsivo mio). Èinteressante notare, inoltre, che di queste due ricorrenze solo la secon-da era già presente ne I fatti della fera (cfr. p. 297).

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    anche “oreocchiamento” (che ricorre solo una volta, a p.

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     prima ricorrenza si ha a pagina 150 (quando ‟Ndrja so-gna i pellisquadre che fanno strame della sua rivelazionesulla morte dei delfini nel ventre di Vulcano, preceden-temente „vista‟ in un sogno a occhi aperti), e un‟ultima

    volta ricorre verso la fine, a pagina 1045 (quando ‟Ndrjaimmagina il quadro di Ciccina Circè che si prostituisceagli inglesi nella casermetta, partendo dal semplice suo-no che manda la sua campanella). Prima facie il termineè ricavato da un semplice incrocio morfologico tra “o-recchio” e “occhio”, ma D‟Arrigo precisa che in esso ha

     parte anche la bocca (ore-), ed esprime una complessasituazione psicologico-percet-tiva che è tipica della pro-

     pensione visionaria di ‟Ndrja. Nel suo significato più pieno, questo termine indica quella particolare triangola-zione di echi percettivi per cui, quando il soggetto A

     pronuncia una parola, il soggetto B, che gli sta a fianco,da un lato la orecchia direttamente dalla bocca di A, madal-l‟altro la occhia sulla (e la orecchia dalla) bocca diun terzo soggetto C posto a una certa distanza di fronte

    ad A. Sullo sperone, infatti, quando Luigi Orioles sillabae biascica le parole “barca”, “bara” e “arca”, ‟Ndrja, chegli sta a fianco, mentre con un orecchio le sente diretta-mente dalla sua bocca, con l‟altro le sente (e con gli oc-chi le vede) come se provenissero dalla bocca del vec-

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    chio Cannadastendere, sdraiato più in basso sulla riva

    sotto la Lanterna. In questo modo ‟Ndrja può vedere Lu-igi Orioles riflesso nella figura degradata e quasi morentedel vecchio, e vaticinarne la sconfitta individuale, socialee antropologica (è questo il senso di “morte civile”, di“f inimondorioles” che sconvolge ‟Ndr  ja quando scoprela degradazione del suo mondo, ridotto a mendicare lacarogna dell‟Orca: cfr. pp. 952 e 966-967). Ma il termine

    ha anche altre due sfumature di significato, diciamo piùdeboli o „degenerate‟ rispetto allo schema descritto so- pra, e sono quelle che emergono nelle sue due ricorrenzefuori dal contesto del monologo sullo sperone. Nel primocaso, durante il sogno ‟Ndrja vede e sente che i pescatorisillabano qualcosa, ma ciò è dovuto al fatto che essistanno leggendo dalla  sua  bocca, e questo qualcosa, «aoreocchio della memoria», gli risuona nella mente iden-

    tico all‟ordine di gettare a mare il delfino chel‟Eccellenza fascista aveva impartito ai pescatori nel cor-so del “casobello” del 1935 (e ‟Ndrja prova vergogna nelrendersi conto di mostrarsi ai pescatori così degeneratoda copiare il linguaggio autoritario e il tono di un gerarcafascista). Nel secondo caso, ‟Ndrja immagina una scenache avviene dentro un locale chiuso «oreocchiandola sui

    dindin» di una campanella, nel senso che vede con gliocchi della mente una situazione a partire da un semplicestimolo acustico (e qui, com‟è evidente, è sparito ogniriferimento alla bocca).

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    CAPITOLO 4

    GENEALOGIA CULTURALE E SIMBOLISMO DELL‟ORCA 

    4.1. Il titolo

    La prima questione da affrontare riguardoall‟Orca e al suo significato nel romanzo concerne la par-

    ticolare denominazione scelta da D‟Arrigo nel titolo, per-ché il grande mistero che circonda l‟animale comincia proprio da lì.

    Se è abbastanza noto che il nome zoologicodell‟Orca è “Orcinus Orca”  (o “Or cynus Orca”), menonoto è il fatto che l‟espressione “Horcynus Orca” non r i-corre mai nel romanzo (per essere più precisi non ricor-

    rono mai  per esteso neppure le espressioni “Orcinus Or-ca” e “Orcynus Orca”). Per i “pellisquadre” di Cariddi(vale a dire i pescatori, cosiddetti perché hanno la pelleruvida come quella dello “squadro”, cioè lo squalo, che asua volta prende il nome da “squadrare”, ovvero lisciare e

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     pareggiare il legno ruvido con la cartavetrata: «pelli, in-

    somma, come la cartavetrata, ma più che pelli, caratteri», p. 254), l‟Orca è il “ferone”, cioè la „grossa fera‟, perchécon la fera essa condivide una caratteristica fisica ben

     precisa (oltre naturalmente a quella „comportamentale‟della ferocia): «la coda piatta invece che di taglio» (p.618). Quando però il navigato signor Cama, basandosisul suo inseparabile manuale di cetologia illustrata, spie-

    ga loro che l‟animale arrivato nello “scill‟e cariddi” èun‟Orca, dice via via che essa è l‟“orcinusa”, l‟“orca or-cinusa”, l‟“orcynus” (quest‟ultima espressione ricorre so-lo una volta, mentre le altre verranno poi ripetute spesso),

     per far capire che già nel suo nome (omen nomen…) èscritto il suo destino di animale assassino, creato da Diosolo per ammazzare gli altri e impersonare così la stessaMorte (cfr. pp. 657). Per il resto, l‟Orca, quando non è

    detta semplicemente “orcinusa”, è connotata nei modi piùsvariati nell‟ine-sauribile suppurazione linguistico-morfologica del romanzo, ogni volta per sottolinearneuna sfumatura diversa, ma comunque legata alla ferocia,alla morte e alla putrefazione: oltre ai frequentissimi “or-caferone” (da orca+ferone) e “orcagna”26  (da or- 26 In questo incrocio è difficile non scorgere un‟allusione, da parte diD‟Arrigo (esperto e critico d‟arte), all‟artista fiorentino Andrea diCione, detto l‟Orcagna, attivo intorno alla metà del XIV secolo, chetra altre cose affrescò nella chiesa di Santa Croce tre grandi storie con

     Il Giudizio, il Trionfo della Morte e l‟ Inferno (di cui sopravvivonooggi solo alcuni frammenti delle ultime due). Tutto Horcynus Orca, in

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    ca+carogna), troviamo anche, occasionalmente, “porca”

    (cfr. ad es. p. 667 e p. 801), “orcarogna” (da or-ca+carogna +rogna: cfr. p. 801), “orcassa” (da orca+car -cassa: cfr. p. 955), “orcassale” (da orca+car -cassa+sale:cfr. 967), “orcarca” (da orca+arca: cfr. p. 985).

    Ma perché, allora, quella “H” nella denominazio-ne dell‟animale che compare nel titolo? Secondo WalterPedullà, che è uno dei massimi esperti su D‟Arrigo, poi-

    ché la “H” fa sì che leggendo solo le iniziali (HO) si haquasi la formula chimica dell‟acqua, D‟Arrigo ha volutosegnalare un‟identificazione dell‟Orca col mare sulla ba-se del binomio vita/morte. Citando Savinio, secondo ilquale «uno dei probabili etimi di Mare, e proposto cometale da Curtius, è il sanscrito Maru che significa deserto e

     propriamente cosa morta, dalla radice Mar, morire», Pe-dullà suggerisce che in tal modo già nell‟espressione

    “Horcynus Orca” c‟è tutto il senso profondo della com- fondo, non è altro che un infernale Trionfo della Morte da Giorno delGiudizio per il mondo intero, attraverso lo  specimen di Cariddi. Neldettaglio, giocando con abili calembour D‟Arrigo fa esplicito rifer i-mento a questo tema dell‟arte sacra in occasione della descr izione,nell‟ottavo “quadro” di Caitanello, della scena da “monumento aimor ti in guerra” (p. 473) in cui si vedono i sei marinai italiani seduti

    morti attorno a un tavolo che ha al centro “una testa beccuta di fera”(p. 474): “Non era un trionfo di fera, una trionfera? (…) se andavanoavanti di quel passo, in ogni famiglia di Cariddi, finiva che banchetta-vano con la morte al centro della tavola, la morte in sembiante di fera(…). Eh, non era questo forse il senso di quella visione mortifera, ov-verossia a morti e fera?” (p. 475).

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     plessa simbologia del romanzo, in cui mare, Orca, vita e

    morte costituiscono i termini intercambiabili di una circo-larità metafisica che si riproduce a ogni livello.27 Questaipotesi è ampiamente giustificata dal testo, perchéD‟Arrigo insiste spesso non solo sull‟Orca come fonte divita e di morte (pur essendo per definizione la Morte, ilTiranno, il Minotauro, il Leviatano, ovvero “il drago”,come dice a un certo punto Luigi Orioles a p. 655, essa è

    anche donatrice di cibo vitale per gli affamati pescatori,sia perché da viva porta loro la “cicirella”, esplicitamentevista come una vera “manna”28, sia perché da morta offretutta se stessa come ci bo e materia prima di oggetti d‟usoquotidiano), ma anche sul mare come luogo in cui i pe-scatori svolgono il loro eterno ciclo di vita (la pesca, illavoro) e di morte (la carestia, la morte per acqua29, ecc.).

    27 Cfr. Pedullà 2000: XXV e Pedullà 2003: VII. 28 Con la significativa e inquietante differenza, però, che “quella man-na (…) gli veniva dall‟orca, dall‟abisso di mare invece chedall‟eccelso dei cieli” (p. 662; cfr. anche p. 664). In effetti la cicirellaè vitale per la loro alimentazione, che fino a quel momento era quasiesclusivamente a base di “favetta” secca con la “papuzza”, cioè con lafarfalletta (era il cibo per muli e cavalli abbandonato dai fascisti infuga dalla Sicilia dopo lo sbarco degli alleati: cfr. p. 469 e p. 704).29 Pedullà (2003: XV) racconta che D‟Arrigo gli citava spesso Morte

     per acqua (1952) di Raffaello Brignetti, ma non si può non menziona-re anche la breve sezione IV de La terra desolata (1922) di Eliot, inti-tolata proprio “La morte per acqua”:  “Phlebas il Fenicio, morto daquindici giorni,/ Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo delmare,/ E il profitto e la perdita./ Una corrente sottomarina/ Gli spolpò

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    In un passo-chiave, infatti, l‟“animalone” è definito «un

    essere dell‟altromondo, per il quale vita e morte f acevanouna cosa sola, e lui aveva, contempo, tutte e due le coseinsieme e nessuna delle due» (p. 668), ed è, questa, unacaratterizzazione che si può benissimo adattare al mare,inteso come elemento originario, principio e fine di tuttele cose, sin dall‟alba del pensiero occidentale. Per nondire che nella serie di visioni apocalittiche che ha sullo

    sperone, ‟Ndrja prima vede lo Stretto ridotto a un desertodi sale, dal quale i pescatori tirano a riva l‟“orcassale”(cioè la carcassa di sale del-l‟Orca), e poi vede l‟Orcastessa ricostituirsi, riprendere l‟antico aspetto, agitarsi f u-riosamente, rigenerare da sé il mare liquefacendosi dalla

    l‟ossa in mormorii. Come affiorava e affondava/ Passò attraverso glistadi della maturità e della giovinezza/ procedendo nel vortice./ Genti-

    le o Giudeo/ O tu che volgi la ruota e guardi sopravvento, / ConsideraPhlebas, che un tempo fu bello e alto come te” (in Eliot 1989: 275). In Horcynus Orca  c‟è la macabra descrizione di un cadavere sfigurato, per un attimo restituito alla vista dal mare, che ricorda molto da vicinoil passo di Eliot sin dall‟inizio: “Quel mareggiare fuori natura (…)

     portò fuori pure, pace all‟anima sua, quello che restava d‟uno sventu-rato cristiano, forse tedesco, forse italiano, forse inglese, forse ameri-cano: tanto, ormai, che differenza faceva?” (p. 773). Senza contareche, nel monologo sullo sperone, ‟Ndrja interpreta la passione dei pel-

    lisquadre per la carogna dell‟Orca come un segno apocalittico dellafine del loro mondo e vede Cariddi come una „terra desolata‟ a causadella presenza del Leviatano in decomposizione, notoriamente fonte disterilità sociale e naturale (e la parola “desolazione” ricorre proprio inquesta occasione: cfr. p. 877. Ma cfr. già p. 470, ultimo capoverso delsettimo “quadro” di Caitanello: “Cariddi pigliò l‟aspetto desolato…”). 

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    coda e infine fondersi in esso, tornando ad essere «una

    goccia d‟acqua nel mare», come se «il mare rivivesse dal-la morte di quell‟essere orcinuso, rivivesse, cioè a dire,dalla morte della Morte» (p.