IL CINEMA COME FONTE DOCUMENTARIA - arte[spazio]parola · ancora prevalentemente campestre delle...

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arte[spazio]parola, Vol. 2015, n. 5 (Ottobre 2015 – Marzo 2016) IL CINEMA COME FONTE DOCUMENTARIA: RIFLESSIONI SUL PAESAGGIO ITALIANO 1 Marco Malfi L’approccio scientifico e filologico ha spinto la ricerca in maniera sempre crescente verso l’uso di metodi d’indagine maggiormente specializzati e trasversalmente disciplinari, moltiplicandone i campi d’interesse. In un panorama dove il coinvolgimento di strumenti diversificati appare irrinunciabile, il cinema emerge tra le fonti potenzialmente più fertili per lo studio del fenomeno architettonico e, più in generale, della nostra storia recente. Il rapporto cinema-città/paesaggio vanta già una nutrita bibliografia, e molteplici sono i livelli attraverso i quali tale argomento è stato affrontato. In questo breve contributo, per delimitare il campo di riflessione, si è scelto di prescindere dal ruolo diegetico del paesaggio nel cinema 2 per privilegiarne la valenza documentaria, più prossima e ‘funzionale’ allo sguardo dell’architetto. Attraverso pochi esempi significativi - circoscritti all’ambito del paesaggio italiano - tenteremo di tracciarne i caratteri e le trasformazioni che il mezzo cinematografico, in maniera inconsapevole o deliberata, ha saputo registrare. Il tema è complesso e la sua trattazione volutamente parziale; ogni spunto va considerato come un incipit per successivi approfondimenti. 1 Ricevuto: 28/12/2015 – Accettato 20/1/2016 Marco Malfi, Università di Napoli, [email protected] 2 Inteso come caratteristico della vicenda narrata. Per un approfondimento si rimanda al capitolo di Sandro Bernardi ‘due o tre cose sul metodo’ in Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia 2002, pp.99-108.

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arte[spazio]parola, Vol. 2015, n. 5 (Ottobre 2015 – Marzo 2016)  

IL CINEMA COME FONTE DOCUMENTARIA: RIFLESSIONI SUL PAESAGGIO ITALIANO1

Marco Malfi

L’approccio scientifico e filologico ha spinto la ricerca in maniera

sempre crescente verso l’uso di metodi d’indagine maggiormente

specializzati e trasversalmente disciplinari, moltiplicandone i

campi d’interesse. In un panorama dove il coinvolgimento di

strumenti diversificati appare irrinunciabile, il cinema emerge tra

le fonti potenzialmente più fertili per lo studio del fenomeno

architettonico e, più in generale, della nostra storia recente.

Il rapporto cinema-città/paesaggio vanta già una nutrita

bibliografia, e molteplici sono i livelli attraverso i quali tale

argomento è stato affrontato. In questo breve contributo, per

delimitare il campo di riflessione, si è scelto di prescindere dal

ruolo diegetico del paesaggio nel cinema2 per privilegiarne la

valenza documentaria, più prossima e ‘funzionale’ allo sguardo

dell’architetto. Attraverso pochi esempi significativi - circoscritti

all’ambito del paesaggio italiano - tenteremo di tracciarne i

caratteri e le trasformazioni che il mezzo cinematografico, in

maniera inconsapevole o deliberata, ha saputo registrare. Il tema

è complesso e la sua trattazione volutamente parziale; ogni

spunto va considerato come un incipit per successivi

approfondimenti.

                                                                                                                         1    Ricevuto:  28/12/2015  –  Accettato  20/1/2016    Marco  Malfi,  Università  di  Napoli,  [email protected]    2 Inteso come caratteristico della vicenda narrata. Per un approfondimento si rimanda al capitolo di Sandro Bernardi ‘due o tre cose sul metodo’ in Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia 2002, pp.99-108.

1    

La sovrapposizione tra cinema e architettura è cosa nota; e non è

un caso se il loro rapporto è da decenni oggetto di attenzione di

storici, registi e critici di ambo le discipline. Un rapporto, questo,

evidentemente ineludibile poiché strutturante al discorso

scenografico, spaziale e simbolico, intrinseco alla pratica

cinematografica. Come ricorderà Massimo Calanca in un suo

recente contributo: «quando il cinema utilizza l’architettura,

entrano in gioco inevitabilmente sia il livello documentario (in

quanto la macchina da presa non può fare a meno di dimostrare

aspetti reali dell’oggetto architettonico e dell’intenzionalità

dell’autore in esso contenuta); sia il livello finzionale (in quanto

l’oggetto entra a far parte, anzi contribuisce a creare, l’universo

narrativo). Ma entrambi questi livelli […] quando l’incontro tra il

cinema e l’architettura è particolarmente felice, tendono a

confluire ed a fondersi nel livello estetico».3

Ed è proprio di questo livello documentario che ci occuperemo,

passando brevemente in rassegna alcuni esempi paradigmatici del

cinema di finzione, grazie ai quali è possibile ravvisare - per

frammenti ed attraverso punti di vista del tutto differenti -

caratteri e trasformazioni del nostro paesaggio nel corso

dell’ultimo secolo.

Se il cinema italiano, dal secondo dopoguerra ad oggi, ha

prodotto una considerevole mole di immagini architettoniche,

urbane e paesaggistiche del nostro territorio, lo stesso non si può

dire per la produzione cinematografica tra le due guerre. Le

difficoltà tecniche, infatti, unite ad una connotazione fortemente

teatrale ancora presente nei primi anni del sonoro, obbligavano lo

svolgimento delle scene in teatri di posa. A questo proposito, vale

                                                                                                                         3 M.CALANCA, Il rapporto tra cinema e architettura, Seminario di “CinemAvvenire” alla Mostra del Cinema di Venezia 2010.

2    

la pena citare una pellicola che, per il suo carattere d’innovazione

e il notevole valore documentario, ne rappresenta un’eccezione:

Gli uomini, che mascalzoni… (1932)4 di Mario Camerini. Nella

Milano degli anni ’30 - per la prima volta immortalata dal mezzo

cinematografico – si susseguono velocemente manifesti, insegne

pubblicitarie e macchine irrigatrici che contribuiscono a costruire

quell’immagine di città raffinata e moderna tanto cara al regime.

In alcune scene, è possibile riconoscere un affollato capannone

della Fiera Campionaria [fig.1] nella sua veste originaria, oggi

sostituita dalla ‘nuova modernità’ dei grattacieli del Citylife in

costruzione; ma più delle sequenze urbane della «operosa

vitalità» della Milano di quegli anni, a colpire maggiormente lo

spettatore sono quelle che ne rappresentano i dintorni. Nella

scena in automobile, i protagonisti, nel giro di poche battute sono

fuori città; attraverso la Milano-Laghi5 [fig.2] raggiungono le

coste del lago Maggiore, dalle quali sono ben riconoscibili la rocca

di Angera e l’isola dei pescatori. Grazie a queste brevi ma

significative sequenze, il film riesce a restituire la dimensione

ancora prevalentemente campestre delle immediate prossimità di

Milano - oggi totalmente urbanizzate - costituendo una

testimonianza di notevole valore documentario per lo studio delle

trasformazioni del secolo scorso.

Una periferia ben diversa, ma altrettanto emblematica, quella

raccontata da Nanni Moretti nel primo episodio di Caro Diario

                                                                                                                         4 Il film è considerato uno dei capisaldi del ‘cinema dei telefoni bianchi’. Il genere, caratteristico degli ‘anni del consenso’, nato in Italia all’inizio degli anni ’30 e proseguito fino alla metà degli anni’ 40, deve il suo termine alla presenza di telefoni di colore bianco nelle sequenze cinematografiche; uno status symbol di benessere sociale mirato a marcare la differenza dai telefoni popolari in bachelite, più economici e di colore nero. 5 Aperta nel 1924, la prima autostrada a pedaggio d’Italia collegava Milano e Varese attraverso un percorso di 42,6 km ad una sola carreggiata, con una corsia per lato; non va dimenticato, infatti, che il traffico nei primi anni dopo l’apertura era limitato a poche decine di auto al giorno.

3    

(1993), “In vespa”. [fig.3] In una Roma d’agosto, irreale nella

sua desolazione ma autentica (quasi a fare da contraltare a quella

trafficata, caotica - ma ricostruita a Cinecittà [fig.4] - che Fellini

scelse di rappresentare nell’omonimo film6) il regista e lo

spettatore si fanno osservatori di un inedito, quanto imprevisto,

itinerario architettonico del moderno romano meno conosciuto.

«…Che bello sarebbe un film fatto solo di case» è l’incipit per una

riflessione sulla città (e sulla sua settorializzazione sociale)

attraverso la quale Moretti passa in rassegna quartieri ed edifici

della periferia romana elencandone nomi e date: Garbatella 1927;

Villaggio Olimpico 1960; Vigne Nuove 1987, per concludersi,

lungo la via dell’Idroscalo, al monumento alla memoria di Pier

Paolo Pasolini, colui che meglio di tutti ha saputo raccontare

gente e luoghi delle periferie romane.

È curioso, infine, notare come i registi stranieri abbiano scelto di

rappresentare il paesaggio italiano – e segnatamente quello

storico - in alcuni dei loro film. In Molto rumore per nulla (1993)

di Kenneth Branagh, ad esempio, il regista inglese, fra i più

prolifici traspositori di testi shakespeariani nel cinema, pur

consapevole che l’ambientazione della commedia sia Messina,

sceglie di rappresentarla in una villa rinascimentale nella

campagna toscana7 [fig.5]. In un lungo piano sequenza giochi

d’acqua, vigneti e terrazze aperte su un panorama verdeggiante

incorniciato da cipressi, contribuiscono a consolidare l’immagine

della villa italiana (e della vita di villa) generalmente depositata

nella memoria di uno straniero.

Una Sicilia ben diversa - poiché carica di tutt’altri significati – è

invece quella raccontata da Luchino Visconti ne La terra trema

(1948). In questo film, girato tra i pescatori di Aci Trezza,                                                                                                                          

6 Roma (1972). 7 La villa è quella di Vignamaggio di Greve in Chianti (FI).

4    

l’attenzione per luoghi e volti si fa assoluta; i personaggi - veri

poiché attori non professionisti8 - si muovono in uno scenario

dove il tempo sembra essersi fermato [fig.6], e davanti alla

macchina da presa parlano la loro lingua e vivono la dura

esistenza quotidiana allo stesso modo della loro vita reale. Uno

«scarno rigore nella sua estremistica suggestione documentaria»9

che ne farà uno dei momenti più alti del neorealismo.

Accanto alle testimonianze pervenuteci dal cinema di finzione,

non va dimenticata la forma del documentario audiovisivo -

un’area di ricerca diversa da quella del cinema tout court ma

altrettanto valida per il suo valore documentario10 - attraverso la

quale l’ambiente indagato fornisce significati immediatamente

visibili, poiché semplificati dalla macchina da presa, che ne ha

codificato lo spazio, il tempo e, dunque, la memoria. Un genere

che, soprattutto nell’immediato dopoguerra, impegnò alcuni dei

maggiori registi del secondo Novecento, tra i quali, Luciano

Emmer (Racconto da un affresco, 1941), Dino Risi (Barboni,

1946) ed Ermanno Olmi (filmati industriali per l’Edison Volta,

1953/1961). Anche Michelangelo Antonioni si misurerà, nella sua

prima regia, con il genere del documentario: in Gente del Po

[fig.7-8], attraverso il racconto della misera vita contadina ai

margini del fiume, Antonioni riuscirà ad immortalare alcuni brani

del paesaggio padano - segnatamente quello del polesine - che

solo pochi anni più tardi, nel ’51, sarà teatro della tremenda

alluvione. Nei villaggi di paglia dei contadini, nelle malinconiche

                                                                                                                         8 Visconti sceglierà di far recitare gli stessi abitanti di Aci Trezza. 9 Tutti i film di Luchino Visconti, nota introduttiva di L.MICCICHÈ, Amministrazione Provinciale d Siena – Assessorato alla Cultura, Siena, 1987, p.35. 10 Negli ultimi anni, la digitalizzazione di numerosi archivi, la gran parte dei quali liberamente consultabili on-line, ha reso possibile l’accesso ad un’eccezionale patrimonio di documenti audiovisivi e fotografici prima d’allora inaccessibili. In particolar modo si rimanda agli archivi dell’Istituto LUCE (http://www.archivioluce.com/archivio) e dell’ANICA (http://www.anica.it/).

5    

facciate di pietra dei piccoli paesi addossati agli argini del Po,

incessantemente attraversato dai barconi carichi di merci, pulsa

una piccola popolazione che trae dal fiume il sostentamento, il

lavoro, la vita. Iniziato nel ’43 e terminato solo nel ’4711, Gente

del Po costituisce una sorta di documento proto-neorealista,

anticipando alcuni dei temi che caratterizzeranno la stagione

cinematografica italiana dell’immediato dopoguerra. Lo stesso

Luchino Visconti, pochi mesi più tardi, girerà negli stessi luoghi la

parte iniziale di quello che sarà considerato il progenitore del

genere: Ossessione (1943).

Molti anni più tardi, nel 1973, sulla scorta dell’esperienza de Le

mura di San’a (1971)12, Pier Paolo Pasolini riutilizzerà la formula

del film-documentario in La forma della città. In questo breve

contributo, della durata di circa 15 minuti, girato da Paolo

Brunatto per la RAI13, Pasolini sposta il punto di vista della sua

riflessione sulla crisi del paesaggio italiano:

Io ho scelto una città, la città di Orte [...], ho scelto come tema la

forma di una città, il profilo di una città. [...] Io ho scelto

un'inquadratura che prima faceva vedere soltanto la città di Orte

nella sua perfezione stilistica, cioè come forma perfetta, assoluta,

ed è più o meno l’inquadratura così; basta che io muova questo

affare qui, nella macchina da presa, ed ecco che la forma della

città, il profilo della città, la massa architettonica della città, è

                                                                                                                         11 Le ultime sequenze, relative all’episodio del temporale, andranno perdute prima del completamento del documentario. 12 Girato durante le riprese de Il fiore della mille e una notte (1974), il documentario venne realizzato in forma di appello all’UNESCO per la salvaguardia della città yemenita. Il sito entrerà a far parte del patrimonio dell’umanità nel 1986, undici anni dopo la morte di Pasolini. 13 Nell’ambito dello stesso programma televisivo, Luciano Emmer girerà Fellini e l’EUR, film-intervista nel quale il regista riminese racconta i motivi che lo hanno indotto a scegliere gli scenari metafisici dell’EUR per ambientare alcuni scene de La dolce vita (1960) e Le tentazioni del dottor Antonio, episodio tratto dal film del 1962 Boccaccio ’70.

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incrinata, è rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo, che è

quella casa che si vede là a sinistra.

Le premesse ‘formali’ non tardano a diventare denuncia;

attraverso il caso emblematico di Orte [fig.9], Pasolini pone

l’accento sulla degenerazione ambientale, urbanistica e culturale

dell’Italia di quegli anni. Un destino irrimediabilmente

compromesso che lo porta a riconsiderare persino le ‘odiate’ città

di fondazione del ventennio, ora diventate in alcuni caratteri

«miracolosamente incantevoli» [fig.10]. Il commento

improvvisato (ma attentamente meditato) in armonia dialettica

con le immagini, fanno di questo breve pamphlet cinematografico

– una sorta di corrispettivo filmico di uno Scritto corsaro - una

delle più lucide analisi sulla condizione del paesaggio italiano mai

realizzate.

7    

APPARATI

[f ig.1] La fiera di Milano in Gli Uomini, che mascalzoni… (1932) di Mario

Camerini

8    

[ f ig.2] L’autostrada Milano-Laghi in Gli Uomini, che mascalzoni… (1932) di Mario Camerini

[ f ig.3] Fotogramma da Caro Diario (1993) di Nanni Moretti

9    

[ f ig.4] Il finto Colosseo in Roma (1972) di Federico Fellini

[ f ig.5] Fotogramma da Molto rumore per nulla (1993) di Kenneth Branagh

10    

[ f ig.6] Il porticciolo di Aci Trezza in La terra trema (1948) di Luchino Visconti

[ f ig.7] Fotogramma da Gente del Po (1943-47) di Michelangelo Antonioni

11    

[ f ig.8] Fotogramma da Gente del Po (1943-47) di Michelangelo Antonioni

[ f ig.9] Il profilo di Orte in da La forma della Città (1973) di Pier Paolo Pasolini

12    

[ f ig.10] Sabaudia in La forma della Città (1973) di Pier Paolo Pasolini