IL CIGNO n°2

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Il Cigno FOGLIO DI CULTURA TRADIZIONALE E DI ESPRESSIONI VARIE - Organo del “Club del Cigno” e de “Il Cancello del Cinabro” - n° 2 / 2013 PETE BEST il primo storico batterista dei BEATLES ospite del “Cancello del Cinabro” intervista e foto inedite... IN QUESTO NUMERO: Intervista a Daniele Raco 4 chiacchiere con Il Prof. Franco Bampi Intervista a UT NEW TROLLS Ricky Belloni Andrea Cervetto e il dialetto genovese... ed Alex Procacci

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Foglio del "Club del Cigno" e del "Cancello del Cinabro"

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Il CignoFOGLIO DI CULTURA TRADIZIONALE E DI ESPRESSIONI VARIE - Organo del “Club del Cigno” e de “Il Cancello del Cinabro” - n° 2 / 2013

PETE BEST il primo storico batterista dei BEATLES ospite del “Cancello del Cinabro”intervista e foto inedite...

IN QUESTO NUMERO:

Intervista a Daniele Raco 4 chiacchiere con Il Prof. Franco Bampi

Intervista aUT NEW TROLLS

Ricky Belloni Andrea Cervetto

e il dialetto genovese...

ed Alex Procacci

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Il CignoFOGLIO DI CULTURA TRADIZIONALE E DI ESPRESSIONI VARIE organo del “Club del Cigno” e de “Il Cancello del Cinabro”

Sub ORDO MILITUM VERITATIS

EditriceARŶA sasVia del Monastero, 1/3 – 16149 GenovaE-mail: [email protected]

StampaFinito di stampare il 21 dicembre 2013 - correndo il Solstizio d'Inverno

….....................

Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli Autori, dei quali (al di là della nostra personale condivisione) si intende rispettare la piena libertà di giudizio. La collaborazione alle nostre pagine avviene solo per invito. Proprietà letteraria e diritti sono riservati. La riproduzione totale degli articoli è vietata, mentre è consentita la pubblicazione di estratti, purchè siano dettagliatamente citati la fonte e gli Autori.

CONTENUTI:SULLE ALI DEL CIGNO (Redazionale)........................... 1

CHE C'È DA RIDERE? Intervista a Daniele Raco (Odal). 2

LA MUSICA PROGRESSIVA (Massimo Gasperini)........ 4

BENEFICI DELL'ALIMENTAZIONE VEGETARIANA (Francesco Castorina)........................................................ 6

0039 BLUEGRASS Made In Italy (Giovanni Stefanini).... 10

“IL CANCELLO DEL CINABRO” Beatles Fan Club di Genova (Arturo Boreale).................................................... 11

THE BEATLES STORY – Intervista a Ricky Belloni, An-drea Cervetto ed Alex Procacci (N.C.)................................ 12

LE TIPICITÀ DEL DIALETTO GENOVESE (Franco Bampi)................................................................................. 16

PESTO GENOVESE E PIATTI LIGURI TRADIZIONA-LI (Roberto Panizza)........................................................... 19

CULTURA ENOGASTRONOMICA A GENOVA (Luca Arrigo)................................................................................. 20

OSPITI DEL “CANCELLO”.............................................. 20

PETE BEST A GENOVA – Il primo storico batterista dei Beatles (N.C. e Rolando Giambelli)................................... 21

LAMBIC – L'ANELLO MANCANTE TRA LA BIRRA E IL VINO (Lorenzo Dabove – Kuaska)............................. 26

UT NEW TROLLS (Gianni Belleno e Maurizio Salvi)...... 34

Il Cancello del Cinabro

Laboratorio ZELIG LAB

GENOVA

Squadra IL CIGNO

Federazione Italiana Gioco Freccette

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1Il Cigno

Sulle ali del

CignoRedazionale

Il primo numero de Il Cigno (quale organo ufficiale dell'O.I.C.L.) uscì il 1° febbraio del 1996, ma altre priorità editoriali, come i testi dell'Ordine, i libri della nostra Casa Editrice Arŷa e la storica rivista di cultura tradizionale Arthos, relegarono abbastanza rapidamente il progetto in un cassetto, dov'è rimasto per diversi lustri.

Nel gennaio 2013, nasce l'idea di “rispolverare” la testata da diffondere tra gli amici del Club del Cigno e i soci de Il Cancello del Cinabro, proponendola in una veste nuova, più informale, con argomenti e contenuti meno impe-gnativi, senza, comunque, dirottarne l'orientamento. Così, da questo numero e con scadenza annuale, le pagine della nostra “colorata” pubblicazione diventano il supporto ufficiale del Club del Cigno e la “memoria” su carta stampata de Il Cancello del Cinabro, per raccogliere e raccontare i migliori eventi e le vicende più significative delle nostre attività parallele.

Nelle immagini, il parterre di alcuni eventi culturali o di beneficienza or-ganizzati dal Club del Cigno.

Foto sopra: PAOLO TESTINO, dal lu-glio del 2006 nominato Console del Club del Cigno.

Foto a destra: MARIO MANCINI, dal 2009 nominato Governatore de Il Can-cello del Cinabro.

Ma per raggiungere appièno l'obietti-vo, vorremmo coinvolgere tutti quelli che apprezzano e condividono l'ini-ziativa, invitandoli a partecipare libe-ramente alla costruzione di questa “rivista”, attraverso i suggerimenti o, meglio ancora, i loro stessi scritti di argomentazioni varie: articoli in gra-do di spaziare ad ampio raggio su tut-to ciò che è cultura, sia essa spettaco-lo, musica, letteratura, enogastrono-mia, viaggi, curiosità, cinema, etc., per la composizione di un “quaderno” gradevole da leggere e, soprattutto, utile da conservare.

In questo numero le novità di certo non mancano, così come la partecipa-zione nutrita di personaggi dai più conosciuti e stimati, che con la loro penna o la propria immediata dispo-nibilità hanno contribuito alla realiz-zazione del “nuovo” Cigno, a cui (dopo 17 anni di “silenzio” e per un motivo di continuità) abbiamo voluto assegnare il numero distintivo “2”. Chi fosse interessato, può inviare i propri scritti per il n° 3 del 2014 al-l'indirizzo mail: [email protected] .Gli ar-ticoli, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.

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Ve lo assicuro... è proprio così. Finisce lo spettaco-lo, scende dal palcoscenico e, con i pochi rimasti, con-tinua a strappare allegria raccontando con semplicità quegli spaccati di vita reale a cui assistiamo giornal-mente, ma che ci scivolano addosso, perchè non sap-piamo più vedere ed ascoltare nessuna forma umana che ostacoli la nostra corsa quotidiana verso lo “stress”. Così, quando ce li ricorda, riesce a “fermarci” per il tempo di un monologo, scatenando risate ed ap-plausi su scenette al limite dell'assurdo, che ci illudia-mo riguardino terzi, ma i cui attori principali siamo proprio noi.

Stiamo parlando di Daniele Raco (di stirpe calabre-se, ma nato a Savona, ed, ultimamente, trasferito a Ge-nova), comico professionista di razza, musicista e au-tore, qualificato punto di riferimento dei cabarettisti della Liguria, essendo il responsabile ed il “comandan-te” indiscusso del Laboratorio Zelig regionale.

Lo incontriamo al “Cancello del Cinabro”, dove ogni giovedì sera si esibisce con lo Zelig Lab.

Quando hai scoperto la tua comicità? Più o meno a 18 anni, ero il cantante di una band di blues e raccontavo delle cose tra un pezzo e l’altro, da li il passo alla comicità pura e semplice è stato davve-ro breve.

Ancora oggi – in linee generali e tranne per i casi di successo – l’attività del “comico” non è comune-mente riconosciuta come una forma di lavoro, ma un ripiego o una passione da abbinare ad una occu-

pazione tradizionale e più sicu-ra. Quando hai deciso di farne la tua professione?Da subito, ho capito che era una cosa alla quale avrei dovuto dedi-carmi a tempo pieno. Ho lasciato il mio laboratorio odontotecnico e ho iniziato a girare l’Italia per im-parare il mestiere di monologhi-sta. Prima tappa Roma, lavoravo al Gildo, il localino di Teo Mam-muccari e all’Alfellini, lo storico locale fondato da Marcello Casco, dove il comico fisso era Max Giu-sti, questi due artisti mi hanno dato molto e sono davvero felice del loro meritatissimo successo. Poi sono andato a Milano, inizial-

mente al Cà Bianca e poi a Zelig, un’avventura che dura ancora oggi.

Sembra che il “Cabaret”, quanto meno in Italia, abbia una origine abbastanza recente rispetto ad altre forme d’arte o di spettacolo. Con ciò, negli ul-timi decenni, anche grazie alla televisione, ha visto un considerevole sviluppo. Esistono delle scuole specifiche di riferimento per coloro che volessero affinare le proprie qualità nel rappresentare l’a-spetto umoristico della realtà?La cosa migliore che è successa in questi anni è la na-scita dei laboratori, quelli di Zelig su tutti, posti dove i giovani comici possono sperimentare ed imparare a fianco di professionisti, che magari hanno nuovi pezzi da rodare. Quando ho cominciato io si facevano le “aperture” e le “chiusure”: 10 minuti per dimostrare il tuo valore, senza rete e spesso ci si faceva molto male.

Anche se è intuibile rilevarne la composizione, qual è la differenza fra comicità e satira e quali devono essere le caratteristiche artistiche di chi propone attimi di quotidianità rispetto a chi si concentra sulla critica politica e/o alla società?Non ci sono grandi differenze, tutto parte dall’osser-vazione della realtà. Un buon comico deve essere pri-ma di tutto un osservatore della realtà che lo circon-da, se vogliamo volare alti possiamo dire che i comici dovrebbero essere i testimoni del loro tempo. Dal pun-to di vista tecnico, invece, fare satira politica è un la-voro continuo e difficilissimo, perché bisogna leggere

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CHE C'È DA RIDERE?INTERVISTA A DANIELE RACO

di ODAL

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tutti i giornali e guardare tutti i TG e spesso non si riesce comunque a stare dietro agli avvenimenti.

Alcuni comici della televisione lamentano un con-trollo eccessivo sui loro monologhi da parte dei di-rigenti di rete, che spesso si traduce in vere intolle-rabili censure, capaci di limitare la libertà di espressione dell’artista. Di contro, forte della sua peculiarità, il comico mantiene il possesso di un’ar-ma assai potente, che gli consente di ridicolizzare tutto e chiunque. Dove sta il giusto equilibrio?In Italia la censura c’è sempre stata, quella cosiddetta di Stato è diventata abilissima, non si avvale nemme-no più di figure umane, si è insinuata nella mente di chi scrive per la TV che ormai si auto censura, poi ci sono i gruppi (religiosi, politici, femministi, gay, etni-ci)... ecco, oggi toccare quei gruppi può essere davve-ro pericoloso, in genere hanno pochissimo senso del-l’umorismo, permettono battute solo a chi appartiene al gruppo, se no si arrabbiano davvero e fioccano e-mail e i commenti sui social network…

Molti comici del passato riuscivano a trasmettere la propria “vis” umoristica con sarcastica eleganza. Oggi, per strappare l’applauso, l’artista scade spes-so nella volgarità, sicuro di catturare il consenso at-traverso una parolaccia. Sono cambiati i comici o è peggiorato il pubblico?Direi la seconda. Il comico è il testimone del suo tem-po e il nostro attuale è davvero brutto, la gente è sem-pre più arrabbiata, non saluta, non ci si conosce tra vicini di casa, non ti aspettano all’ascensore, abbiamo centinaia di amici su “Facebook”, ma non parliamo con la gente. Anni fa c'era più rispetto, i negozianti davano del lei e Walter Chiari monologava con asso-luta eleganza. Oggi siamo tutti molto nervosi ed ar-rabbiati e i comici urlano e dicono parolacce. É cam-biato il linguaggio, in peggio.

Come nella musica, esiste anche nel monologo del cabarettista un tracciato “tecnico” da seguire?Direi di si, io sono un istintivo, ma il monologo ha delle regole ferree: prima di tutto le battute, ci devono

essere per forza, altrimenti il racconto deve richiama-re immagini molto divertenti e poi la “chiusa” deve essere forte, la battuta migliore. All’inizio non è facile capire qual è, a te può piacere molto una cosa e ma-gari il pubblico ne apprezza una che dici prima. Qui ho una regola che ho imparato da Claudio “Rufus” Nocera, indimenticato fondatore dei “Cavalli Marci”: quando prendi la risata forte e l’applauso, esci; lo dico sempre anche ai ragazzi del laboratorio, qualcu-no lo fa.

Si dice che l’attore comico sia potenzialmente “drammatico” e che la spavalderia necessaria ad affrontare il pubblico, in una esibizione che si con-clude in tempi ridotti, richieda capacità artistiche non indifferenti, che, comunque, nascono da una forte timidezza interiore da superare. Quanto c’è di vero in tutto questo?Intanto, io da bambino ero timidissimo, in realtà lo sono ancora oggi: faccio fatica a sostenere lo sguar-do. Negli anni ho imparato ad essere più sfrontato, al-trimenti avrei dovuto tornare a fare l’odontotecnico!

Per concludere, quali sono i progetti sui quali stai attualmente lavorando?C’è un lavoro al quale tengo molto, un monologo tea-trale “serio” che sta scrivendo per me Marco Rinaldi. Vediamo cosa ne uscirà. Nel frattempo, lavoro a nuovi pezzi e continuo a portare avanti il laboratorio, poi ho tante serate, perché stare davanti al pubblico è la cosa migliore che mi potesse capitare e voglio conti-nuare a farlo.

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5 aprile 2012 – Consegna attestato a DANIELE RACO quale “Socio ad Honorem e Amico n° 3” del Cancello del Cinabro.

Il Cigno

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Come può essere definita la Musica Progressi-va? Senza dubbio, come la “musica classica del fu-turo”. E con questa affermazione abbiamo gia' dato una risposta ad un quesito di non facile soluzione, ma è meglio fare un po' di storia su questa musica infinita e capace di emozionare come poche altre forme artisti-che.

All'inizio fù il blues, poi il rock'n'roll, dalla cui fu-sione nasce il beat e dall'espansione del quale, insieme all'evoluzione di gruppi come Beatles, Rolling Stones, Pretty Things, Who e Kinks, si forma la psichedelia dei Soft Machine, Tomorrow, Pink Floyd, Open Minds e tanti altri coloratissimi gruppi inglesi, tra i quali non posso fare a meno di citare Tyrannosaurus Rex e Cra-zy World of Arthur Brown.

Siamo tra il '66 e il '67 quando certi musicisti in-glesi cominciano ad evolvere il proprio suono cercan-do di trasformare la musica psichedelica in una vera forma d'arte, cosi' mentre in America la musica rock incontra il country, nella più acculturata Europa (ed in Inghilterra in particolare) si punta verso forme di mu-sica classica ed il jazz.

Il 1967 è l'anno di nascita della musica rock pro-gressiva, il luogo e' naturalmente l'amata Inghilterra ed i nomi sono Nice, Procol Harum, Moody Blues ovvero come coniugare Beatles a Bach e Beethoven, Mozart... dando vita al pop sinfonico, la prima forma di musica progressiva.

Il prog ha le sue caratteristiche che da sempre la rendono unica ed allo stesso tempo indefinibile, ecco dunque la necessita' di uscire immediatamente dagli

schemi del 45 giri, che per la sua brevità non può con-tenere tutti gli elementi tipici della musica classica; si forma quindi la “Suite”, lunga composizione spesso divisa in vari movimenti, proprio come nella musica sinfonica, quindi il 33 giri prende il posto del singolo. Poi l'introduzione cospicua di tastiere (hammond, mel-lotrom, moog, piano), che si alternano alle chitarre conduttrici, quando non ne prendono decisamente il ruolo solista.

Compaiono in questo periodo le copertine dei di-schi a 33 giri apribili e spesso raffiguranti veri e propri quadri creati da artisti capaci di rendere alla perfezione il connubio immagine-musica. Ecco, quindi, artisti come Roger Dean, Paul Whitehead, Markus Keef, lo studio Hipgnosis esibirsi in memorabili illustrazioni, che rendono indimenticabili i capolavori musicali dei Genesis, Yes, High Tide, Affinity, Uriah Heep, Green-slade, Colosseum, Still Life, Quatermass, etc.

Altro elemento fondamentale del prog sono i testi, che escono dalle solite banalità per affrontare temi come la mitologia, la storia, il Vangelo, la fantascien-za, la letteratura gotica e fantasy. Ultima caratteristica, ma non meno importante, è la nascita di vere e proprie etichette specializzate in musica progressiva, come la Decca, la leggendaria Vertigo, la Harvest, la Chari-sma, Dawn, Neon e tante altre, alcune delle quali pas-sate alla storia magari solo per uno o due albums pub-blicati ed oggi rarissimi.

Con l'inizio degli anni '70 si tocca il periodo mi-gliore per questo tipo di musica, con gruppi ecceziona-li per tecnica ed inventiva come i King Crimson, i Ca-ravan, Camel, Yes, Strawbs, Gentle Giant, Van Der Graaf Generator, Family, Black Widow, Curved Air, Audience, Jethro Tull, ELP... ed altri che consegnano alla storia una serie di albums indimenticabili, i quali, oltre ad essere bellissimi e ricchi di vera grande musi-ca, vendono anche molto bene entrando ad alti livelli nelle classifiche di mezzo mondo.

Le diverse influenze formano vari stili, ecco quindi il folk prog degli Strawbs, Trees, Mellow Candle, In-credible String Band, il jazz progressivo dei Catapilla, Web, Samurai, con la scuola di Canterbury di Soft Ma-chine, Caravan, Hatfield and the North, National Healt, il dark prog dei Black Widow, Atomic Rooster, High Tide, Indian Summer, ci sono contaminazioni col blues e col jazz, come nel caso dei grandi Graham Bond, Colosseum, East of Eden, Traffic... ci sono band decisamente piu' romantiche, come Fantasy, Spring, Renaissance o gli stessi Genesis...

4Il Cigno

LA MUSICA PROGRESSIVA (Prog)di MASSIMO GASPERINI

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Sulla scia di questi mostri sacri, anche l'Italia capi-sce che e' il momento di smetterla di fare solo covers di gruppi beat inglesi. I musicisti di casa nostra com-prendono che c'è una musica nuova, una musica piace-vole da ascoltare e che è, quindi, necessario provare a suonarla, dato che sembra anche vendere bene.

I primi gruppi italiani a suonare “musica progressi-va” sono i New Trolls, Le Orme e La Formula Tre, se-guiti a ruota da una miriade di gruppi come la Premia-ta Forneria Marconi, Il Banco del Mutuo Soccorso, Delirium, gli Osanna, Area, Quella Vecchia Locanda, Metamorfosi, Il Balletto di Bronzo, etc.

Sara' questa la stagione piu' grande per la musica “rock italiana”, un periodo breve ma indimenticabile, che inizia nel 1970 e termina nel 1975, anche se qual-che albums fù pubblicato tra il '76 ed il '79 (ma si trat-ta di casi sporadici, in quanto il fenomeno era finito con l'avvento dei cantautori, decisamente meno costosi da produrre e piu' facili da vendere). Faccio notare che in nessun altro paese al mondo il ruolo dei cantautori diventa cosi’ straripante da annullare quasi completa-mente la musica rock (ed in questo le responsabilità vanno equamente divise tra le case discografiche e la politica).

La musica diventa sempre più magniloquente, di-mentica di essere rock, abbandona i clubs a favore dei teatri sempre piu' grossi e con spettacoli sempre più pomposi e costosi, allontanandosi dalla gente... Gli al-bums anche dei migliori gruppi diventano sempre piu' scontati e ripetitivi, i ragazzi hanno bisogno di energia, di sfogare la rabbia che si portano dentro, il rock era la musica ribelle che dava forza e speranza e la trovano finalmente nel punk, che dara' al prog la mazzata fina-le consentendo ai giovani di riappropriarsi del rock nella sua forma più pura. Nascono le fanzines, le eti-chette indipendenti, le piccole autoproduzioni di 45 giri; la musica ritrova una nuova vita con la comparsa

della new wave, del dark-gotico, dei new romantics, della cold wave, ma la storia del prog non finisce qui.

Certo, il successo degi anni '70 diventa una chime-ra, ma la musica prog col tempo riesce a trovare nuovi stimoli, anche derivanti dall'evoluzione del punk e del-la new wave, che generano la formazione di nuovi gruppi. Tornano a suonare vecchie glorie ed il prog ri-nasce a nuova vita in tutto il mondo, perché questa musica è sempre stata suonata non solo in Inghilterra o in Italia o in Germania (dove nacque una vera e perso-nalissima scuola), ma anche in Messico, nel lontano Giappone, in Australia, Cile, Argentina, Brasile, Nor-vegia, Svezia... e lo è ancora oggi. Indubbiamente, nel-la stragrande maggioranza dei casi si tratta di bands che non vendono piu' di poche centinaia di copie o qualche migliaio nei migliori dei casi, ma l'arte non si misura dalle copie vendute e la Musica Prog è e resta arte!

MINIMA DISCOGRAFIA INTERNAZIONALE CONSIGLIATA:- AFFINITY – Same. - BEGGARS OPERA - Waters of change. - BLACK WIDOW – Sacrifice. - CAMEL - The Snow Goose; Mirage. - CARAVAN - In the land of Grey and Pink. - CATAPILLA – Same; Changes. - CURVED AIR - Phantasmagoria, second album. - EMERSON, LAKE and PALMER – Trilogy; Tarkus; Pictures at an exibiction; Brain salad surgey. - FAMILY – Entertainment; Fearless; A song for me; Anyway. - FANTASY - Paint a picture. - FOCUS - Moving waves. - GENESIS – Foxtrot; Nursery crime; Selling England; Trespass. - GENTLE GIANT – Same; Three Friends; Acquiring the taste. - GONG – You; Flying Teapot; Angel's eggs. - HAWKKWIND - Warrior on the edge of time; Hall of the mountain grill; Space. - JETHRO TULL – Aqualong; Thick as a brick; Mistress in the gallery. - KING CRIMSON - I the court of Crimson King; In the wake of Po-seidon; Island; Larks tongue in Aspic; Starless and bible black; Red.- MOODY BLUES - In the search of lost chords.- NICE - Ars longa Vita Brevis.- PROCOL HARUM - Shine on Brightly.- RITUAL SPRING - Same.- SOFT MACHINE – Third; Bundles. - STRAWBS - Grave New World. - VAN DER GRAAF - Pawn Hearts; H to each; The last we can do. - YES – Fragile; Close to the Edge; Relayer; Going for the one.

MINIMA DISCOGRAFIA ITALIANA CONSIGLIATA:- ALPHATAURUS - AREA - Arbeich mach frei; Crac. - BALLETTO DI BRONZO – Ys. - BATTIATO – Pollution; Sulle corde di Aries. - BIGLIETTO PER L'INFERNO – Same. - CERVELLO – Melos. - DELIRIUM - Dolce acqua, Viaggio negli arcipelaghi del tempo - EDGAR ALLAN POE - GOBLIN - Profondo rosso; Roller. - L'UOVO DI COLOMBO- LA FORMULA TRE - La grande casa; Sognando e risognando. - MAXOPHONE- MUSEO ROSENBACH- NEW TROLLS - Concerto Grosso; Searching for a land; Ut. - ORME – Collage; Felona e Sorona.- OSANNA – Palepoli. - PFM - Storia di un minuto; Per un amico. - QUELLA VECCHIA LOCANDA - SEMIRAMIS - Dedicato a Frazz. - TRIP – Caronte; Atlantide.

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Ricordo che quando diventai vegetariano (cioè il giorno in cui aprii il frigorifero e improvvisamente vi-di in modo diverso quanto era contenuto al suo inter-no: salumi, carni), pensai immediatamente di cercare altre persone che avessero fatto questa scelta, persone da cui ricevere informazioni.

Partecipai ad una conferenza in cui parlava la dot-toressa Luciana Baroni, presidente di SSNV - Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana, nonché “vegana” (i vegani, a differenza dei vegetariani, non utiliz-zano alcun prodotto animale: latte, for-maggi, uova, miele). La Baroni fece un'affermazione che all’epoca memoriz-zai senza dare troppo peso; disse che lei, in quanto medico, non avrebbe mai cre-duto che fossero così tante le informa-zioni scientifiche a favore dell’alimenta-zione vegetariana, informazioni che non venivano diffuse.

Qualche tempo dopo, ero seduto ad ascoltare un altro medico vegetariano, Stefano Cagno. Lui non si occupa di ali-mentazione, ma di vivisezione (ovvia-mente proponendo di abolirla). Mentre parlava, raccontava del suo ingresso nel mondo della medicina e disse che, in quanto medico, non avrebbe mai creduto che fossero così tante le informazioni scientifiche dimostranti l’i-nutilità della crudele abitudine a sperimentare torture su animali per provare l’efficacia di una farmaco che, alla fine e comunque, dovrà essere verificato sempre su soggetti umani. Sentendolo, mi ricordai che la dott.ssa Baroni aveva detto sostanzialmente la stessa cosa. Se due più due fa quattro, non potevo trarne che una sola conclusione. Appare evidente che il problema non è: si può vivere, ci si può non ammalare diventan-do vegetariani? Si può evitare la sperimentazione ani-male? Il primo problema è: perché fanno di tutto per non metterci a conoscenza? Quanto c’è di inconsape-vole ignoranza e quanto di consapevole menzogna? (gli interessi monetari legati a uno sviluppo economi-co basato sul consumo di carne, latte e formaggi sono colossali). Il secondo problema è: chi ci vieta di cerca-re informazioni?

Per ascoltare le conferenze della dott.ssa Baroni e del dott. Stefano Cagno, io avevo scelto la più lontana delle sedie, perché caratterialmente timido, tremavo e diventavo rosso solo al pensiero che a fine conferenza avessero detto: qualcuno vuol fare delle domande?

Oggi io parlo in conferenze, anzi me le vado cercando, perché quando davanti agli occhi mi ritrovai anche io tutte quelle informazioni scientifiche non diffuse, pen-sai che era un dovere morale diffonderle. Ho fatto mie frasi e azioni di persone celebri: “Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti” (Martin Luter King); “La neutralità favorisce sempre

l'oppressore, non la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, non il torturato” (Elie Wiesel, vegetariano, Premio Nobel per la Pace).

Anche Aung San Suu Kyi, nota politica birmana, at-tiva da molti anni nella difesa dei diritti umani è vege-tariana ed è stata Premio Nobel per la Pace, esattamen-te come Albert Schweitzer. Tutti e quattro (insieme a tantissime altre persone) hanno una cosa in comune: non sono stati neutrali e non sono rimasti in silenzio. Perciò, quando mi sono accorto che la domanda “Si può vivere, ci si può non ammalare diventando vege-tariani?” può essere decisamente rivoltata con “Lo sai che potresti ammalarti mangiando carne?” ho deciso il mio impegno a divulgare questa evidenza innegabi-le. Ed ho smesso di arrossire in pubblico.

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BENEFICI DELL'ALIMENTAZIONE VEGETARIANA

SECONDO LA SCIENZA MEDICA E SCIENTIFICAdi FRANCESCO CASTORINA

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Nella home page del sito web di Società Vegetaria-na, l’associazione di cui oggi sono Presidente, c’è una voce: “Nutrizione – Articoli scientifici”; cliccando su quella sezione appare una documentazione attualmen-te contenuta in 11 pagine (sono sempre citate le fonti e riportati i testi originali). Tutto è scaricabile, in forma-to pdf, con un download. Leggiamo alcuni di questi te-sti, così, per tagliare la testa al toro (per gli onnivori) o per tagliare la testa al porro (per i vegetariani o vega-ni):

1) E' posizione dell' ADA (American Dietetic Associa-tion) che “le diete vegetariane correttamente pianifi-cate, comprese le diete vegetariane totali o vegane, sono salutari, adeguate dal punto di vista nutrizionale e possono conferire benefici per la salute nella pre-venzione e nel trattamento di alcune patologie”.

L’ADA raggruppa centinaia di dietisti, medici, nu-trizionisti americani, che a loro volta hanno raccolto una vasta bibliografia sull’argomento. E’ inoppugnabi-le la loro conclusione: “Le diete vegetariane ben pia-nificate sono appropriate per individui in tutti gli stadi del ciclo vitale, inclusa gravidanza, allattamento, pri-ma e seconda infanzia, adolescenza, e per gli atleti”. Quindi, vanno bene anche per i bambini (e infatti in molte città italiane, le mense scolastiche prevedono pasti vegetariani per chi ne fa richiesta). E poi, Carl Lewis, il plurimedagliato campione di atletica leggera, era vegan, così come tanti altri atleti, in varie discipli-ne. Basterebbe questo per non star li a perder tempo a discutere se è possibile vivere bene essendo vegetaria-ni, no? Si e no. Non basta laddove l’ego umano fa di tutto per opporsi al cambiamento. Infatti, ad un corso ECM organizzato all’Ospedale San Martino di Geno-va, allorché lo scrivente e una dietista vegan citammo questa fonte, qualcuno disse: “mah, boh, chissà se esi-ste poi veramente questa associazione (l’ADA). Che è come se uno statunitense dicesse: “Il Colosseo a Roma? Mah, boh, chissà se esiste”. Poi qualche dieti-sta chiese: “Ma voi vegetariani il calcio da dove lo prendete?”. Avessero studiato con voglia di indagare, avrebbe saputo che i vegetariani trattengono più calcio e gli onnivori lo perdono tramite le urine, proprio a causa dell’alimentazione onnivora. Ecco infatti cosa è scritto nel sito della Lega Italiana Osteoporosi: “Un eccesso di proteine, in particolare proteine animali, nella dieta quotidiana è oggi un fenomeno molto fre-quente. Le proteine in eccesso fanno aumentare l’aci-dità del sangue, e l’organismo tende a correggerla eli-minando una maggiore quantità di calcio con l’urina, cosa che potrebbe far mancare calcio per l'osso”. Un altro studio? Eccolo!

2) Si è concluso nel 2013 lo studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), che ha coinvolto 23 centri di 10 nazioni europee, ana-

lizzando quasi mezzo milione di cittadini europei, per comprendere gli effetti delle scelte alimentari sulla sa-lute. I risultati, presentati sulla rivista Bmc Medicine, parlano di un rischio di morte prematura che cresce di pari passo con la quantità di carne lavorata (come pro-sciutti, salami e salsicce) consumata ogni giorno. I car-nivori, infatti, hanno una maggiore probabilità di svi-luppare malattie cardiovascolari e tumori, un rischio che, stimano i ricercatori, potrebbe essere abbattuto semplicemente consumando meno di 20 gr. di carni la-vorate al giorno (scrive Sabine Rohrmann, ricercatrice dell'Università di Zurigo, che ha guidato la ricerca: “Il rischio di morire in giovane età per malattie cardiova-scolari e tumori aumenta con l'aumentare del consu-mo di carni lavorate”). E che dire di questo documen-to recentissimo? Un vero e proprio caposaldo per la diffusione della cultura vegetariana. L’aiuto viene dal-la Asl di Milano!

3) Marzo 2013 – Milano. La nuova linea suggerita dal-l'Asl del capoluogo in un documento destinato a 1.100 medici di medicina generale della metropoli e a spe-cialisti in forze negli ospedali: “Dieta vegana, oppure mediterranea correttamente impostata, attività fisica, cessazione dal fumo”. Per combattere con il diabete di tipo 2 (Alberto Donzelli, direttore del Servizio edu-cazione all'appropriatezza ed EBM - Evidence Based Medicine, ovvero Medicina Basata sulle Evidenze del-l'Asl di Milano).

Scorriamo solo alcuni titoli degli articoli che abbiamo inserito nel sito:

• (Rivista Cancer Epidemiology, Biomarkers and Prevention). Uno studio su 69.120 perso-ne: Le diete vegane presentano un rischio di cancro inferiore.

• (Rivista PLoS ONE Leucemia). Studio scien-tifico: dalle verdure una cura.

• (Rivista Atherosclerosis). Il consumo di tuorli d'uovo è dannoso, in rapporto all'aterosclero-si, quasi quanto il fumo.

• (Am J Clin Nutrition). Evitare il latte di muc-ca può ridurre il rischio di diabete di tipo 1.

• (British Medical Journal). Carne male per la

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salute e l'ambiente. (Uomini e donne che han-no consumato la minor quantità di prodotti a base di carne rossa e trasformati avevano ri-spettivamente, un 9,7 e 6,4% di rischio ridotto di malattie cardiache; 12,0 e 7,5% di rischio ridotto di diabete; 12,2 e 7,7% di rischio ri-dotto per il cancro del colon-retto. I prodotti a base di carne rossa e trasformati, è scritto nel-la relazione, sono uno dei fattori più negativi delle emissioni di gas a effetto serra).

• PCRM (Physicians Committee for Responsi-ble Medicine - Comitato di Medici per una Medicina Responsabile). L'olio di pesce (coi famosi pubblicizzati omega-3) non abbassa il rischio di malattie cardiovascolari o di morte.

• (Rivista American Journal Clinical Nutri-tion). Una ricerca medico-scientifica condot-ta su oltre 19.000 persone, in Gran Bretagna (2010) rileva che l’assunzione di omega-3 è più efficiente se questi provengono dai vegetali. (Ma c’è, a questo proposito, una cosa da sapere, considerando il massacro pub-blicitario invasivo pro omega-3: gli omega-3 sono acidi essenziali? No, nel senso che es-senziale è l'acido alfa-linolenico ALA [cioè il precursore indispensabile degli acidi grassi omega-3 a lunga catena], una volta introdotto nel nostro organismo con l'alimentazione vie-ne metabolizzato e trasformato in EPA e DHA, entrambi votati a fondamentali funzioni organiche. Nello studio apparso sull’ Ameri-can Journal of Clinical Nutrition, si è visto che vegetariani e vegani provvederebbero au-tonomamente alle proprie necessità di acidi grassi essenziali omega-3 a lunga catena [pre-senti nel pesce] ricavandoli dagli acidi grassi omega-3 vegetali, quindi senza dover intro-durre nella propria dieta la carne di pesce. Lo studio ha mostrato come, a fronte di una mi-nore introduzione di omega-3 attraverso la dieta tipica dei vegetariani/vegani, se parago-nata a chi consuma pesce in quantità [con una percentuale che va dal 57% all'80% di diffe-renza], i livelli di EPA e DHA sono risultati essere pressoché uguali nei due gruppi di campioni studiati. Ci sarebbe dunque, spiega-no i ricercatori, una "efficienza di conversio-ne" in acidi grassi omega-3 a lunga catena si-gnificativamente maggiore nei vegetariani/ve-gani rispetto a coloro che consumano pesce).

E sul ferro?

• (Dott. Michael Greger). E' importante assu-mere ferro solo da fonti vegetali.

• (Dott. Franco Berrino – Dir. Dip. Medicina Preventiva e Predittiva dell’Istituto Tumori di Milano). L’alimentazione può influenzare la insorgenza dei tumori attraverso numerosi meccanismi. Fra i principali: sostanze pro os-sidanti, ad esempio il ferro eme delle carni (e pensare che i soliti nutrizionisti d’assalto rile-vano: “Il ferro dei vegetali è di tipo non eme mentre quello della carne è eme”, incutendo sugli uditori la sensazione che sia più impor-tante!)

• (Oxford University). La carne uccide 45.000 persone ogni anno - (230 le fonti bibliografi-che citate).

• (Oxford University). Minor rischio di diverti-colite nei vegetariani (31%). La diverticolite è una patologia dell'apparato digerente, caratte-rizzata dall'infiammazione di uno o più diver-ticoli (escrescenze verso l'esterno, della parete intestinale). Cause: feci troppo dure e secche e stitichezza cronica, dieta carente in fibre.

• (American Journal of Clinical Nutrition). Ve-gani e vegetariani sono a minor rischio di ca-taratta rispetto ai carnivori. Sono state analiz-zate cartelle cliniche di 27.600 pazienti: chi adotta un regime alimentare prevalentemente vegetariano (ancor meglio vegano) ha fino al 40% di probabilità in meno, rispetto ai carni-vori, di soffrire di questo disturbo visivo.

• (Rivista scientifica Diabetes Care). Una dieta vegetariana è associata a un minor rischio di sindrome metabolica. (Si parla di una riduzio-ne del rischio di ben 2/3, quindi il 66%! La sindrome metabolica è un insieme di fattori di rischio fortemente associato con un incremen-to del rischio di diabete mellito tipo 2 e di ma-lattie cardiovascolari.

• (Università dell'Indiana – USA, American So-ciety of Nephrology). Viene confermato che l'alimentazione a base vegetale è efficace per contrastare il decorso delle malattie renali. Si parla di significative differenza tra dieta vege-tariana e carnea.

Complimenti se siete riusciti a leggere fin qui! Adesso vi pongo una domanda: cosa hanno in comune questi articoli? Semplicemente una cosa: sono tutte fonti autorevoli scientifiche, ma nessuna di queste è... italiana! A voi le dovute riflessioni.

E l’Ambiente? Al di là del problema della salute personale, cosa succede all’ambiente utilizzato per ri-cavare una alimentazione carnea? Il seguente testo è tratto da Report, trasmissione tv. E’ stata anche mo-

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strata una dichiarazione televisiva, a Londra, di Rajen-dra Pachauri, Premio Nobel per la Pace 2007, vegeta-riano (per consapevolezza, considerato il mestiere che fa), Presidente dell’IPCC (gruppo intergovernativo, Agenzia dell’Onu, che si occupa di valutare i dati sui cambiamenti climatici). Durante il servizio sono state fatte queste osservazioni: “L’attuale produzione di cibo potrebbe sfamare dieci miliardi di persone. Sia-mo 6,5 miliardi di cui una parte è denutrita e un’altra parte muore di fame. Gli abitanti di Europa e Usa (cioè 800 milioni di persone) mangiano in media 100 kg di carne a testa in un anno. Siamo 6,5 miliardi e a breve potremmo diventare 10. Cosa succederebbe se tutti reclamassero lo stesso diritto: mangiare 100 kg. di carne?”.

Sarebbe sostenibile? E’evidente che no, servirebbe un pianeta molto più grande di quello attuale. Ed al-trettanto impossibile (peggio ancora) è pensare agli al-levamenti biologici, tanto pubblicizzati oggi come so-luzione equa per l’ambiente e per gli animali. Se tutti i 6,5 miliardi attuali di abitanti dovessero accedere allo stesso diritto (100 kg di carne e biologica) occorrereb-bero decine di pianeti con terreno utilizzabile per il biologico, per cui oggi la possibilità di una parte della popolazione umana di mangiare carne biologica si basa esclusivamente sulla depauperazione del diritto alla vita sostenibile ad una altra parte di popolazione.

Dichiarazione di Rajendra Pachauri:“Dagli allevamenti proviene l’80% delle emissioni to-tali dell’agricoltura, e cioè il 18% di tutte le emissioni di gas serra (nota: quelle dei trasporti sono inferiori, pari al 13,5%). Produrre 1 kg di manzo equivale a produrre gas serra pari a 36,4 kg. di CO2, che equi-vale a CO2 emessa da un automobilista medio che percorre 250 km. Produrre 1 kg di manzo equivale a tenere accesa una lampadina da 100 watt per 20 gior-ni. La produzione di carne è di gran lunga la prima consumatrice di terra per uso antropico. L’allevamen-to consuma il 70% di tutte le terre agricole, il 30% della superficie terrestre. Il 70% di quello che era la foresta amazzonica è diventato pascolo o coltivazioni per alimentazione animale. Un altro enorme impatto della produzione di carne”, continua così Pachauri, “è l’acqua che occorre per produrne un chilo. Mais 900 litri. Riso 3.000 litri. Pollo 3.900 litri. Maiale 4.900 litri. Manzo 15.100 litri”.

La conferma arriva da uno studio dell'Istituto tede-sco per la Ricerca sull'Economia Ecologica (IoeW), che è stato pubblicato (25 agosto 2008) dall'associa-zione di consumatori tedesca Foodwatch: “Confronto emissioni gas serra (per persona) in un anno, tra tipo di alimentazione e km. percorsi in auto, in un anno”.

ALIMENTAZIONE VEGANDa agricoltura bio: 281 km. (il minor consumo). Da agricoltura convenzionale: 629 km.ALIMENTAZIONE LATTO-OVO-VEGETARIANA

Da agricoltura bio: 1.978 km.Da agricoltura convenzionale: 2.427 km.ALIMENTAZIONE ONNIVORADa agricoltura bio: 4.377 km.Da agricoltura convenzionale: 4.758 km. (il maggior consumo). Come si vede, i dati sono eloquenti. L’alimentazio-ne vegan può determinare la fine della fame nel mon-do. Quella onnivora la causa. Ecco fornite le prove scientifiche. Serviranno? Si dovrebbe osservare: se i macelli avessero le vetrine, i genitori porterebbero i bambini a vedere? Sarebbe necessario domandarsi: se ti dessero un agnello vivo e un coltello, lo useresti per sfamarti con quell’essere? Eppure la carne che tran-quillamente mangi ed è venduta nei cellophane dei su-permercati viene da lì, da quell’esserino che quando siamo bambini accarezziamo dicendo: “mamma che bello!”.

La “Società Vegetariana” organizza, da anni, eventi culturali legati alla scelta vegetariana, fornendo infor-mazioni scientifiche e proponendo corsi di cucina ve-gan (cioè senza alcun ingrediente di origine animale). Il 1° marzo 2013 è stata organizzata con successo (alla presenza di un pubblico numeroso e interessato), una serata con “cena vegana” al “Cancello del Cinabro”.

Riteniamo che l’informazione sia la necessità pre-dominante nell’ambito di una politica del cambiamen-to. Solo conoscendo si può decidere di cambiare.

I temi che l’associazione tratta (com'è scritto nel nostro statuto) riguardano di fatto i problemi che oggi sono oggetto continuo di discussione e riflessione, cioè quelli legati alla salvaguardia dell’ambiente, della salute, a una nuova etica (che rispetti noi stessi, le po-polazioni “sempre più” povere del mondo, gli animali) e ad una nuova economia che consideri gli esseri esi-stenti come ‘esseri’ e non come ‘oggetto di merce’. Ci proponiamo di individuare le cause di tali condizioni, suggerendo/indicando proposte. Chi volesse approfon-dire può contattarci: [email protected].

Non imponiamo di diventare vegetariani o vegani, ma consigliamo sicuramente di non guardare la tv. E’ il primo gradino per poter riflettere in modo non con-dizionato.

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Parlerò del mio gruppo: “0039”. Siamo una band appassionata di Bluegrass, musica che ha origine nel Kentucky (U.S.A.) alla fine degli anni '30, dall'intuito del mandolinista Bill Monroe (universalmente ricono-sciuto come il “padre” di questo genere), che, influen-zato dal folk americano, l'old time music ed il blues, seppe aggregare diversi strumenti a corda come banjo, mandolino, violino, chitarra, dobro e contrabbasso. Gli "0039 Bluegrass Made in Italy" hanno origine dalla fusione di musicisti accomunati dalla stessa pas-sione, ma provenienti da città diverse (Bologna, Geno-va e Milano), che hanno maturato importanti esperien-ze con altre band, creando un loro “stile”, pur mante-nendo ferme e solide le origini anche stilistiche del Bluegrass. Il gruppo è composto da Giovanni Stefani-

ni (mandolino e voce), Luca Bartolini (chitarra e voce), Paolo Ercoli (dobro e voce), Marco Ferretti (banjo e voce) e, nota femminile, Maria Grazia Bran-ca (contrabbasso). Nel repertorio vengono proposti brani tradizionali e molti "originali" composti da Pao-lo Ercoli, che hanno arricchito il nostro CD realizzato in Italia e valorizzato dalla partecipazione di alcuni va-lidi musicisti americani (Andy Hall degli Infamous Stringdusters, Rafe Stefanini, violinista di riferimento nella scena dell'old time music, ma, soprattutto, Mike Guggino e Nicky Sanders, membri della band america-na Steep Canyon Rangers, freschi vincitori del "Gram-my Award", l'Oscar della musica, perennemente in tour con il noto attore/musicista Steve Martin...) il cui apporto ha garantito una veste più internazionale al nostro lavoro. In Italia si è fatto di tutto per rendere difficile la di-vulgazione della musica “live” e i pochissimi locali at-trezzati non osano dare spazio ad altri generi musicali che non siano “piano bar”, “cantautorato”, “ever-green”... eccezione fatta per "Il Cancello del Cinabro" a Genova, dove, viceversa, siamo stati più volti ospita-ti ed apprezzati. Grazie a questo incontro abbiamo, tra l'altro, avuto la possibilità di ricevere un'aiuto finan-ziario importante per la realizzazione del nostro CD "Dial" dalla Casa Editrice Arŷa, produttrice di libri della Tradizione, che proprio con noi ha, per la prima volta, edito un CD, aprendo un'altra strada nella divul-gazione delle arti. Noi degli "0039" ne siamo onorati.

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0039BLUEGRASS MADE IN ITALY

di GIOVANNI STEFANINI

BILL MONROE

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Il Cancello del Cinabro

BEATLES FAN CLUBdi GENOVA

di ARTURO BOREALE

15 dicembre 2012. Mentre Rolando Giambelli (Presidente Nazionale dei Beatlesiani Associati d'Ita-lia), per l'occasione accompagnato da Franco “fisher” Sandi e da Stefano Cavallo (dello storico gruppo “Reunion”), si esibiva sul palco del Cancello propo-nendo il miglior repertorio dei Beatles, sullo schermo scorrevano lente le immagini dei “Fab Four”, tra l'e-mozione del pubblico presente catapultato per poche ore nella magica atmosfera dei favolosi “anni '60”.

Aneddoti, curiosità, canzoni... tutto su John, Paul, George e Ringo e, a conclusione del concerto, fra gli applausi inarrestabili di un calorosissimo pubblico, la proclamazione ufficiale del Cancello del Cinabro qua-le primo “Beatles Fan Club” di Genova e della Ligu-ria. Una nuova conquista per i soci e, soprattutto, per alcuni fondatori del nostro circolo, beatlesiani da sem-pre, ora chiamati a ricreare un punto di aggregazione in nome del più grande mito musicale del '900. Un compito stimolante, anche nel ricordo di quel lontano 26 giugno 1965, quando nelle prime file del Palazzetto dello Sport di Genova qualcuno di noi potè vedere, ascoltare e applaudire i quattro di Liverpool.

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“THE BEATLES STORY”intervista a

RICKY BELLONIANDREA CERVETTO ed

ALEX PROCACCI

di N.C.

Quando tre grandi musicisti, uniti dalla stessa pas-sione, decidono di “giocare” insieme il successo è as-sicurato in partenza. Così è stato per Ricky Belloni (Milano, 1952), chitarrista e voce della Nuova Idea (1972/1973), dei New Trolls (dal 1975 al 1995), del Mito New Trolls (dal 1998, tuttora in attività) e che vanta collaborazioni con Fabrizio De Andrè, Franco Battiato ed Adriano Celentano; Andrea Cervetto (Ge-nova, 1968), chitarrista di talento e grande voce, che ha collaborato con Lara Saint-Paul, Patty La Belle, Ronnie Jones, Alberto Radius ed è stato personalmente selezionato da Brian May dei Queen, per partecipare al musical “We will rock you”, attualmente, compo-nente del Mito New Trolls (dal 2006), di ACT Trio e della band Dire Strato; Alex Procacci, milanese, Vocal Coach e arrangiatore voci di musical di successo, qua-li “Aladdin”, “Peter Pan”, “Christmas Show”, “We will rock you” ed altri. Li incontriamo al termine del loro concerto al “Cancello del Cinabro”, dove per la terza volta si sono esibiti con grande successo di pubblico nella versione The Beatles Story.

E' chiara la vostra condivisa passione per i “Fab four”, ma quando e com'è nata l'idea di formare il trio “The Beatles Story”?ALEX: È colpa mia Ricky... vai avanti tu...RICKY: L'idea è nata dal fatto che da sempre noi tre siamo assoluti appasionati dei “Fab four”. Io ho co-

minciato a suonare e cantare con i brani dei Beatles e da sempre mi sarebbe piaciuto risuonarli. Adesso, in età adulta, il repertorio che mi ha fatto scoprire la musica lo si approccia in maniera più consapevole e l'idea è stata quella di suonare i brani come se fossi-mo sul divano di casa nostra, tre amici che si dicono: “ti ricordi quella canzone”?

Strumentalmente parlando, quali sono le caratteri-stiche principali del “Beatles sound”? In che cosa si differenzia da quello prodotto da altri musicisti del-l'epoca e, soprattutto, nei quattro elementi di Li-verpool si trovano delle espressioni tecniche supe-riori o delle eccellenze? ANDREA: Le caratteristiche sono tante. Nel primo periodo, la formazione tipica di due chitarre, basso e batteria, la scelta di usare chitarre Rickenbacker/Gre-tsch, basso Hofner e amplificatori Vox... già qui si in-tuiva che si sarebbero distinti da tutti; all'epoca la scelta era principalmente orientata su modelli Fender e Gibson, questo per quanto riguarda la strumentazio-ne. Poi, il sound in generale è dato dall'impasto delle loro voci, dal modo di "portare" il ritmo di Ringo, dal playing di Paul al basso (che cominciò a "muoversi" e a dare un ruolo alla figura del bassista, che fino ad allora era un po' in disparte; in questo, grande ispira-tore per lui fu Brian Wilson dei Beach Boys) e dalle doti di John e George alle chitarre. Una cosa impor-tante da notare (lo si vede anche dai provini dei “Fab Four” che sono stati pubblicati) è l'intonazione delle voci e l'accordatura degli strumenti... straordinarie! Se riascoltiamo incisioni dell'epoca di altri gruppi musicali, fatta eccezione per pochissimi, è molto fre-quente udire stonature nei cori o strumenti non perfet-tamente accordati. Quindi, sono stati sicuramente uno dei punti di forza dei Beatles la loro intonazione, la loro capacità di tenere accordati gli strumenti... il tut-to unito da una magia e una interazione fra i quattro che è rara. Nel secondo periodo, il percorso speri-mentale in svariate direzioni li ha fatti evolvere. La capacità di non adagiarsi sul successo facile ha com-pletato il loro sound, con l'inserimento di orchestra, effetti e qualsiasi cosa passasse loro per la mente, senza mai perdere di vista la canzone.

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Da sinistra: ALEX PROCACCI, ANDREA CERVETTO e RICKY BELLONI, musicisti professionisti impegnati in altre famose forma-zioni, che nel 2011, proprio dal palco de “Il Cancello del Cinabro”, hanno dato il via al progetto THE BEATLES STORY TRIO.

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In virtù della tua esperienza di “vocal coach”, cosa puoi dirci sull'armonia e la naturale fusione vocale dei Beatles. E' solo il frutto di un talento poliedrico e multifunzionale individuale?ALEX: Prima di tutto, devo precisare che sono un ap-passionato di Beatles senza esserne uno storico o il ti-pico fan che ne conosce vita, morte e miracoli... Pro-vo, quindi, a risponderti di getto... così come credo sia andata. Io penso che da subito loro abbiano “sentito” la necessità di corredare, di aumentare e migliorare il coefficiente melodico dei loro pezzi tramite armoniz-zazioni vocali e che, a causa di composizioni comples-se, abbiano ricercato e trovato il giusto aiuto in quel signor arrangiatore che si chiama George Martin. Il fatto poi che le loro voci insieme fossero incredibil-mente fantastiche... beh... quello è un colpo di fortu-na. Una chimica difficilmente riscontrabile, che ab-biamo trovato, nel nostro piccolo, anche Ricky, An-drea ed io. Tre voci molto differenti, che si fondono bene insieme.

La storia dei Beatles è contrassegnata da un pro-gressivo, complesso e, forse, troppo accelerato mu-tamento, che spinge, in poco meno di un decennio, questi quattro ragazzi (nei testi, nella sonorità, nel-l'immagine e nello stesso stile di vita) a una produ-zione musicale inarrivabile e di sempre più elevato livello, capace di stimolare e accompagnare addirit-tura una rivoluzione culturale generazionale. Dal vostro punto di vista, a cosa è possibile attribuire una tale “energia”? I Beatles devono veramente considerarsi un fenomeno “geniale” o il frutto solo casuale di capaci “manovratori”, che li hanno sfruttati come “simbolo”, per cavalcare la trasfor-mazione di un'epoca?ALEX: Punto tutto su fenomeno “geniale”... in un momento di fertilità creativa incredibile! Le loro pro-duzioni post Beatles sono molto belle, ma per sfornare il numero di capolavori che ci hanno regalato in poco tempo, avrebbero avuto bisogno di 100 anni di carrie-ra in più.RICKY: I Beatles sono stati un'alchimia particolare, che capita molto raramente. A mio parere, si sono

fuse genialità, talento, voglia di fare e momento stori-co. I Beatles sono stati il ponte tra il rock & roll ed il pop, tra l'altro, ancora oggi il brit sound è fortemente caratterizzato da ciò che i Beatles hanno lasciato.ANDREA: È innegabile che i Beatles non hanno cam-biato solo il panorama musicale dell'epoca, ma l'inte-ra società! Ancora oggi la loro influenza grava, e non poco, su tutta la produzione musicale. Per quanto mi riguarda, credo che siano stati, anzi sono, un avveni-mento irripetibile, un po' perché oggi la società non ha i presupposti per recepire a fondo un qualsivoglia fenomeno musicale (la musica di fatto ha cambiato ruolo nella società odierna) e in gran parte perché riuscire a sconvolgere il mondo come hanno fatto loro con la propria creatività sia inarrivabile. Io dico sem-pre che i Beatles sono la conferma del fatto che il fe-nomeno della "Reincarnazione" esiste! Trovo incom-prensibile come quattro ragazzi ventenni possano aver scritto cose di quel livello e, soprattutto, che abbiano potuto rilasciare nelle interviste dei concetti di quel tipo: parlavano come persone con esperienza di vita intensa e lunga.

Si parla di George Martin (definito il quinto Bea-tle), come della “mente” del gruppo, dell'artefice reale di una fortuna musicale che, senza i suoi fa-mosi arrangiamenti o i complessi artifici pioneristi-ci di un editing dell'era pre-digitale, sarebbe stata altrimenti impossibile. Quale percentuale attribui-sci a Martin nel successo dei Beatles? RICKY: Io ribalterei la domanda. Quanto attribuisci ai Beatles nel successo di George Martin come arran-giatore? Molto!!! Senza di loro, probabilmente, Geor-ge Martin sarebbe stato un arrangiatore molto bravo, come tanti altri arrangiatori bravi, ma meno fortunati negli incontri della vita.

Ad un orecchio inesperto, le prime canzoni dei Bea-tles appaiono motivetti semplici, brevi e spesso ba-nali, ma nei vostri concerti sottolineate sempre come questo non sia totalmente vero. Quali sono le maggiori difficoltà che avete riscontrato e qual è il brano più impegnativo da riproporre?

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ALEX: I famosi motivetti semplici sono i miei preferi-ti! Semplici? Dite?ANDREA: È vero, ad un primo ascolto possono sem-brare "canzonette", in realtà bisogna sottolineare la loro bravura nel condensare in poco più di 2 minuti una canzone completa e la capacità tecnica di realiz-zazione attraverso voci sempre perfette, strumenti co-stantemente accordati e suonati con gusto: una cosa, come dicevo prima, non proprio scontata per l'epoca! Ricordiamoci sempre che in quel periodo non c'era la tecnologia di oggi, per cui era necessario suonare e cantare bene subito in registrazione... Sarebbe meglio poterlo fare anche oggi! Non c'era la possibilità di in-tervenire e/o correggere questi aspetti in post produ-zione! Sul fatto, poi, che possano sembrare banali non concordo, in quanto in tutta la produzione Beatles l'aggettivo “banale” è sempre fuori luogo. Bisogna sempre pensare a cosa c'era musicalmente prima dei Beatles e cosa è avvenuto dopo! Sul piano delle diffi-coltà, direi che abbiamo sicuramente dedicato molto più tempo all'aspetto vocale che non a quello stru-mental., Dire che ci sia un brano in particolare che sia più impegnativo di altri mi resta difficile, perché in ogni pezzo c'è sempre una componente vocale rilevan-te che richiede molta attenzione.

La proposta “The Beatles Story” si affida alle vostre tre splendide voci, che si combinano perfettamente insieme, in una fusione talvolta incantevole, e all'u-tilizzo di tre chitarre. Come mai non due chitarre e un basso acustico?ALEX: (risata...) E' stata la prima cosa che Ricky Bel-loni ha detto dopo le prime prove, ma Andrea ha fatto

notare che una volta usato il basso in un pezzo ne avremmo avuto bisogno in tutti... e poi ci sarebbe ser-vita la batteria... e poi... saremmo diventati una cover band dei Beatles, cosa che non vogliamo essere! Vo-gliamo suonare i loro pezzi come vengono a noi, da-vanti ad un'audience che ci vede convivialmente seduti come se fossimo attorno ad un falò o ad una festa in casa di amici. Si canta, si raccontano aneddoti sui 4, su quello che hanno significato per tutti e come hanno modificato la nostra esistenza musicale. Quindi, nien-te coreane, Rickembacker o basso Hofner. Ci sono già degli ottimi gruppi che si occupano di questa “repli-ca” dei Beatles.

Dei quattro Beatles chi preferivate? E ora che, nel vostro entusiasmante spettacolo, ne riproponete i brani più significativi, vi siete suddivisi vocalmente i ruoli di John, Paul e George?RICKY: No, non proprio. Il mio preferito era Paul e canto molti pezzi suoi, ma ne cantano anche Alex ed Andrea.ALEX: Ho passato la gioventù all'insegna di Lennon. Volevo fare il ribelle e mi sembrava il tizio giusto in cui identificarmi! In seguito, ho iniziato a percepire la grandezza e la versatilità di McCartney e, quindi, viaggiano appaiati nel mio animo musicale. Ringo è un elemento imprescindibile del “sound” e George è il perfetto catalizzatore di tutti gli elementi. Per quan-to riguarda la suddivisione dei brani... è una cosa del-la quale non abbiamo mai neanche parlato, credimi! Durante le prove ci guardavamo e dicevamo: la fai tu questa, vero?Mi sembra perfetta per te!ANDREA: Pur riconoscendo la grandezza e l'impor-

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tanza di tutti e quattro e la convinzione che il loro suc-cesso sia frutto di un'alchimia, di una vera e propria magia tra gli elementi e che se solo uno di loro non ne avesse fatto parte le cose non sarebbero andate in quel modo, la mia "simpatia" è sicuramente per Len-non e McCartney in misura uguale. Nel riproporre i loro brani non ci siamo suddivisi i ruoli vocali, anche perché è talmente tanta la nostra passione, che pro-prio non ci siamo posti il problema. Qualunque brano fosse capitato di cantare sarebbe andato bene ad ognuno di noi.

Ci complimentiamo ancora per la vostra “perfor-

mance” e vi ringraziamo di questa breve chiacchie-rata. Ma prima di lasciarvi, non possiamo non chie-dervi quali sono i progetti professionali sui quali state attualmente lavorando...RICKY: Beh, Andrea ed io, attualmente, stiamo lavo-rando col “Mito NEW TROLLS” ad un nuovo CD ed un nuovo spettacolo live, riproponendo i nostri brani più famosi, ma anche alcuni meno noti, che però han-no avuto collaborazioni importanti, come “Domenica di Napoli”, scritta a 4 mani con Lucio Dalla.ALEX: Attualmente sono impegnato nella produzione artistica di una giovane cantante, che ha tutte le ca-ratteristiche per emergere nel panorama musicale in-ternazionale. Un prodotto non pensato per il mercato italiano... incrociamo le dita e vediamo. Inoltre, sto scrivendo ed arrangiando le musiche di un Musical che sarà in produzione nella prossima stagione. Nel frattempo, porto avanti un quartetto di rock abbastan-za pesante, perchè in questo momento sento l'esigenza di tornare alle origini ed ad un sound più rozzo rispet-to al soul ed al funk che ha invaso la mia vita negli ultimi 20 anni! Insomma... Rock'n'Roll!ANDREA: Personalmente, sono impegnato insieme al “Mito NEW TROLLS” nella realizzazione del nostro nuovo CD. Dopo molti anni di rinvii per impegni la-vorativi, sto finalmente realizzando il CD del mio trio e, non ultimo, lavoro in una tribute band dedicata ai Dire Straits che, chitarristicamente parlando, sono un po' il mio primo amore. Il tutto, senza tralasciare i “Beatles Story”, che mi fanno divertire come un bam-bino. Ho, poi, altri impegni che arrivano fortunata-mente durante l'anno: varie produzioni alle quali mi chiamano a partecipare e/o a realizzare. E' stato un piacere chiacchierare con voi che avete sempre un'at-tenzione particolare per la musica, la cultura e tutto quello che umanamente fa crescere l'essere umano. Grazie.

Grazie a voi ragazzi. Ormai siete un appuntamento co-stante e importante nella programmazione musicale de “Il Cancello del Cinabro”, quindi, non ci rimane che dire “a presto!”.

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24 marzo 2012, seconda esibizione dei Beatles Story. Nel corso della serata viene consegnato l'Attestato ad ANDREA CERVETTO, quale “Socio ad Honorem e Amico n° 1” del Cancello del Cinabro.

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La grafia usata è la grafîa ofiçiâ dell’Académia Ligùstica do Brénno

Genovese: dialetto o lingua?

Scrive Padre Federico Angelico Gazzo (1845 – 1926) nell’introduzione della sua traduzione della Divina Commedia: “Il genovese è bensì un volgare italico - il substratum del latino e perciò anche dell'italiano, di-ceva il Celesia - ma non è un dialetto nel senso come suol prendersi questa parola, quasi chi dicesse una storpiatura dell'italiano. Esso è una lingua romanza o neo latina come e quanto le altre, svoltasi secondo la propria indole e vivente di vita propria”.

Genovese: lingua anticaI due documenti più antichi in lingua ligure non hanno carattere letterario, ma sono scritti di carattere docu-mentario. Sono precisamente i seguenti.

1. Il testamento di Raimondo Pictenado (o Pic-cenato): è un documento del 1156 scritto in lati-no. Un inserto contiene un elenco dettagliato di oggetti di casa che Raimondo lega alla moglie. La lingua usata è definita da Ernesto Parodi un “latino genovese” essendo numerosi i tratti fone-tici genovesi (amolam = àmoa, misura di capaci-tà; auriger = oêgê, guanciale; caçam = càssa, mestolo; lençoles = lenzeu, lenzuola; uaxellum = vascelæa, piattaia).

2. La Dichiarazione di Paxia: è redatta a Savona nel 1182; qui il volgare ha una autonomia molto più accentuata (barril = barile; çoculi = zoccoli; lençol = lenzuolo; pixon = pigione).

Successivamente vi sono gli scritti dell’Anonimo Ge-novese o, come lui stesso dice di chiamarsi, Luchetto (ante 1283 – post 1311), vero padre della nostra cultu-ra e autore più significativo di tutto il periodo medie-vale.L’opera dell’Anonimo ci è giunta attraverso una reda-zione trecentesca scoperta nel 1820 dall’avv. Matteo Molfino (da cui il nome di Codice Molfino) e dallo stesso affidata agli studi di P. Giovanni Battista Spo-torno.L’opera è così composta:

1. 147 rime in antico genovese;2. 35 rime in latino;

3. prima poesia volgare italico: 1291;4. un ritmo latino è databile tra il 1270 e il 1283;5. ultima poesia: 1311.

Come paragone si osservi che Dante (1265 – 1321) scrive la Divina Commedia tra il 1306 e il 1321.

DE CONDICIONE CIVITATE JANUE,LOQUENDO COM QUEDAM DOMINO DE BRIXIA

[...]Zenoa è citae pinnade gente e de ogni ben fornia;con so porto a ra marinaporta è de Lombardia[...]E tanti son li Zenoexie per lo mondo sì desteixiche und’eli van o stanun’atra Zenoa ge fan.

DELLA CONDIZIONE DELLA CITTÀ DI GENOVA,PARLANDO CON UN BRESCIANO

[...]Genova è una città pienadi gente e fornita di ogni bene;con il suo porto sul mareè porta di Lombardia[...]E tanti sono i Genovesie per il mondo così diffusiche dove essi vanno o si fermanoformano un’altra Genova.

Moltissime parole usate dall’Anonimo appartengono al lessico genovese:acolegar, coricare; aguaitar, tener d’occhio; alantor, allora; arranchar, svellere; astarse, sedersi; barba, zio; breiga, contesa; enderer, indietro; negar, annega-re; patron, armatore; preve, prete; remorim, mulinello, vortice; riva, scarpata; scoriaa, frustata; serrar, chiu-dere; szhoir, far nascere; troim, tuono.Dall’Anonimo in poi vi è una letteratura scritta inin-terrotta fino ai giorni nostri.

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Le tipicità del dialetto genovese

di FRANCO BAMPI

Docente presso la Facoltà di Ingegneria di Genova e Presidente del-l'associazione di cultura genovese “A Campagna”.

Il prof. Bampi a una conferenza tenuta nel 2010 presso il “Cancello”

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Genovese: lingua delle vocali

Sono le consonanti ad adattarsi alla lunghezza o quan-tità delle vocali: lìbbro – librétto • càppo • segrétto • pómmo • stùffo.Parole con “due” accenti: câsìnn-a • röbìn • mâve-giôzo.

Non vi è il paradigma radice-desinenza come in ita-liano

Grànde – gréndi • ciànze – cénto • corî – côreanticamente anche: tànto – ténti • quànto – quénti • fànte – fénti • travàggio – travagiâ.

Nota sintattica: concordanza del verbo con il sog-getto

Quando il verbo precede un soggetto al plurale, il ver-bo va messo al singolare. Esempi:E castàgne càzan da-i èrboi • Càzze e castàgne da-i èrboi.E famìgge vegnîvan chi a demoâse • Chì ghe vegnî-va e famìgge a demoâse.E giornæ s’alonghìscian de stæ • De stæ s’alonghì-sce e giornæ.E anche: me piâxe tànto i raieu • i raieu me piâxan tànto.

Ma attenzione al predicato nominale!Cöse sucêde? Gh’é di figeu che zêugan.Chi l’é che crîa? Són di figeu che zêugan.

Il dileguo della “v”

Vòtta • òtta • öta; zóveno • zoêno; brâvo • brâo; arivâ • ariâ, ecc.

La “elle” eufonica

Lê o l’anâva a câza • a nònna a l’êa regagîa.Curiosità: cös’o veu > cös’o eu > cös’o l’eu.

Iotacismo e rotacismo

ROTACISMO: ùltimo > ùrtimo; qualchedùn > quar-chedùn.IOTACISMO: butêga > bitêga; muâgia > miâgia; pu-gnàtta > pignàtta.Ma anche: nûvea > nûvia; e êuve > i-êuve;pöveo > pövio opp. Pöviou, ma al plurale pövei: L’A-bèrgo di Pövei.

Un, due, tre

Un òmmo, unn-a dònna.Doî òmmi, doê dònne.Tréi òmmi, træ dònne.Anche nei composti con l’eccezione di un vint’un òmmi, vint’un dònne.

NumeriSi dice setant’e tréi, quarant’e çìnque ecc.

Diminutivo con “eu”

Pòrto • portixeu; vénto • ventixeu; òrto • òrtixeu.Attenzione ai falsi diminutivi: bàggio • bageu; fìg-gio • figeu.Si ha anche ciapélla • ciapelétta.

La vocale “e”

Si legge sempre aperta davanti a “r” e “l” seguite da consonate: èrba, avèrto, stèrso, èlmo, svèlto.

“Molto” non esiste in genovese!

Aggettivo – frasi affermative

tànto • tànta • tànti • tànte.Gh’é tànta génte in ciàssa;ò acatòu tàti lìbbri;gh’êa tànte bàrche in mâ.Aggettivo – frasi negative, interrogative

goæi – guari (avv. e agg.);no ghe n’ò goæi coæ;no ghe n’é goæi de carêghe • no gh’é goæi carêghe;ghe n’é ancón goæi de travàggi da fâ? • gh’é ancón tànti travàggi da fâ?Avverbio

me piâxe tànto caminâ • te véuggio tànto bén.Ti gh’æ ancón tànto da fâ? No goæi, ò quæxi finîo.Ti stæ goæi?Casi speciali

- BÉN BÉNgh’é bén bén da génte in ciàssa • ghe n’êa bén bén.- PE COSCÌti gh’æ tànte crovâte? ghe n’ò pe coscì.- ASÆ – UN MÙGGIO- RÊOghe n’êa a rêo (in abbondanza, così come vengono);quésta pàsta a fa rêo (questa pasta rende molto nella cottura);o l’é ’n òmmo ch’o fa o rêo de dêxe (è un uomo che vale per dieci);êse da rêo (essere cattivo, malvagio);brutô – brutoî da rêo (malvagio – malvagi).- ABRETIOda mangiâ ghe n’êa abrétio (da mangiare ce n’era mol-to); röba amugiâ abrétio (roba ammucchiata in disordi-ne); parlâ abrétio (parlare a casaccio).- MÂI (frasi esclamative)mâi bèllo ch’o l’é! • o l’à giaminòu mâi tànto!

PERIFRASIHa lavorato molto bene = o l’à fæto ’n bèllo travàggio.Ha scritto molto bene = o l’à scrîto pròpio bén – o l’à scrîto davéi bén – o l’à scrîto bén pe’n davéi.

17Il Cigno

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Dall’italiano (latino) al genovese

cl, pl > ciciæo, ciàn, ciànta, ciànze (attenzione a “pìn”);

bl, gl > gigiànco, giànda;

fl > scsciòu, sciùmme, sciàmma, sciô oppure sciôa.

La “g” italiana spesso diventa “z”: Zêna, zenzîa, zón-ta, rozâ.

Le desinenze italiane “zione” e “sione”: zione diventa çión: preceduta da vocale: am-

biçión, leçión, òraçión; e preceduta da conso-nante: atençión, porçión;

sione preceduta da consonante diventa sción: tensción, inpresción;

sione preceduta da vocale diventa xón: eva-xón, fuxón.

Eccezione: emozione: sia emoçión sia emo-sción.

NB. Attenzione alla desinenza torio: si ha purgatêuio e ötöio.

Parlare Genovese?

PARLÂ DISTINTOAldo Acquarone (2 gennaio1898 – 28 gennaio 1964)

Lei forse avrà ragione ce lo ammetto;cosa vuol che ci dica, pare strano,mé sono genovese puro e schiettoche ansi sono nato qui in Sarzano

e capisco benissimo il dialettoma a parlarlo ci ho perso un po’ la manoanche per via del nostro ragassettoche in casa ci si parla in italiano

sedunque poi ci piglia la cadensa.Anche la mia signora che è di Préme lo dice: - Baciccia abbi passiensa,

non parlar genovese! volgarone!Allora cosa serve, dico mé,averci la pelliccia di visone?

GIULIANO ROSSI (1605? – 1657)

Voi che dî vengo e hoggi a ancheu,ch’oggi ve viegna un cancaro in to cheu!

Aspieterei da peuche ve deggian stimâ i forestiêse voi ve dae da sappa sciu i piê.

Provae in nomme di Diêa beive in ti Besagni e in te Ponseivrea lassae un poco andâ l’Arno e o Tevere.

18Il Cigno

Caricatura di Franco Bampi, pubblicata sulla rivista GenovaZena (lu-glio 2010, Anno III, n° 7).

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La mia passione per la cucina e per la cultura enoga-stronomica è stata la naturale evoluzione del lavoro che ho sempre fatto come negoziante di prodotti legati alla gastronomia, sfruttando l'esperienza sulle materie prime e dedicandomi al significato della loro antica provenienza. Anche Pellegrino Artusi, padre della cu-cina italiana, era figlio di un droghiere.

Sono voluto tornare al passato proponendo menù rigo-rosamente genovese o ligure: piatti semplici, materie prime di alto livello e prezzi accessibili. La mia inten-zione era invogliare le persone del luogo che cercano un piatto di qualità e decidono di spendere un po' di più rispetto a un piatto da intervallo o un panino, per riscoprire i sapori della memoria.

Ad esempio, un piatto di gnocchi al pesto che abbia un significato nel suo genere. Poi ci sono i turisti che cer-cano la cucina tradizionale. La mia idea è dare una im-magine molto coerente di buona cucina genovese.

L'attenzione alle materie prime è fondamentale, sono alla base della cucina. Ad esempio, utilizziamo olio extravergine di oliva italiano, sia in cottura, sia in frit-tura e in tavola mettiamo quello “dop”. E poi gli gnoc-chi, il pesto, i ravioli, il “tocco” cotto 5-6 ore li faccia-mo noi. Gli gnocchi al pesto: è un piatto assolutamente semplice, ma non banale, ed è difficile mangiarlo nella sua migliore espressione. Il pesto è un arte, al mortaio e con basilico genovese “dop”, pinoli italiani, sale di Trapani, aglio di Vessalico, olio extravergine d'oliva, Parmigiano Reggiano invecchiato 24 mesi e fiore sar-do.

Quella del pesto alla genovese non è una ricetta, ma un processo di produzione, per cui dati gli ingredienti ogni artigiano vi trasferisce la propria personalità. Da qui l'idea del Campionato Mondiale di Pesto, un vero successo attraverso il cui svolgimento è stato possibile trasferire la cultura di questa salsa, dai profumi ai co-lori ai suoni del pestello nel mortaio a livello mondia-le. Finalmente Genova si sente!

Fortemente radicata a Genova e in Liguria, con l'idea-zione e la realizzazione del Campionato Mondiale di Pesto Genovese al Mortaio ci siamo posti l'obiettivo culturale e promozionale di realizzare un evento forte, originale e di grande proiezione verso il futuro. Il Campionato è una vetrina di abilità internazionali e di

eccellenze di Liguria, che racconta ed esalta le qualità di un territorio antico. Un evento che è già tradizione, con un'energia mediatica ed emotiva crescente e un coinvolgimento sempre più internazionale.

Promuovere la cultura delle buone tradizioni a partire dall'infanzia, con l'organizzazione della gara non com-petitiva del Campionato dei Bambini e di eventi dedi-cati ai più piccoli durante le giornate dei Rolli Days e per meritevoli finalità benefiche a sostenere il Fondo Tumori e Leucemie del Bambino dell'Istituto Giannina Gaslini di Genova, devolvendo al Fondo una percen-tuale della quota d'iscrizione. Il marketing territoriale è la capacità di una città o di un'area geografica di di-ventare sempre più attrattivi per le imprese e per le porsone. È l'unica vera possibilità di sviluppo in un mondo sempre più competitivo e in grado di offrire suggestioni e incentivi di ogni tipo. Per un buon mar-keting del territorio bisogna saper fare tre cose: proteg-gere la diversità, promuovere la diversità e rendere ac-cessibile la diversità. Proteggere la diversità significa conoscere e amare la tradizione, dove questa fa cultu-ra, dove è sedimento di sapere, di storia e di modo di vivere. Significa non accettare l'omologazione. Ma la difesa della “diversità”, senza la sua “promozione”, si-gnifica isolamento, snobismo: comunque, l'incapacità di cogliere le opportunità in un mondo sempre più cu-rioso ed attento.

C'è voluto il 2004 per scoprire che Genova è “anche” una città d'arte. Per decenni ‒ per i non genovesi, natu-ralmente ‒ Genova era “semplicemente” un porto. Ter-zo fattore di successo è “rendere accessibile la diversi-tà”, cioè fare in modo che ci si possa avvicinare: dal parcheggio, all'ospitalità, all'informazione, alla stimo-lazione di esperienze nuove, come, per esempio, fare il pesto con il mortaio...

19Il Cigno

PESTO GENOVESE E

PIATTI LIGURI TRADIZIONALIdi ROBERTO PANIZZA (Fondatore dei Campionati Mondiali di Pesto alla Genovese)

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Che argomento andiamo a toccare! La cucina geno-vese e la sua conoscenza da parte dei Genovesi. A vol-te si dice che è difficile essere profeti in Patria e, come tutte le cose, la cucina non si distacca dal resto. Prova-te a proporre il “pesto” a qualcuno e costui vi dirà che quello prodotto da lui è sicuramente il migliore. Que-sto, però, consentitemi, ritengo che valga solo per la meravigliosa “salsa verde” conosciuta e venduta mag-giormente in tutto il mondo. Genova negli ultimi anni si è, purtroppo, impoverita di tutti quei piatti che han-no contraddistinto la nostra cucina, un po' perché alcu-ni piatti necessitano di lunghe cotture, un po' perché non esistono quasi più le antiche trattorie dove poter mangiare i piatti della tradizione. Che felicità girare per Sottoripa e vedere le antiche friggitorie che propongono cuculli, panissa fritta e pi-gnoletti, piatti semplicissimi, ma difficili da trovare ovunque. Si parlava di lunghe cotture e qui subentrano anche i ritmi forsennati coi quali siamo ormai abituati a convi-vere, ma che ci privano di mangiare un minestrone alla genovese o uno stoccafisso accomodato, che necessi-tano di almeno 4 ore di cottura, per avere delle prepa-razioni uniche nel loro genere. Per finire, ci sono quei piatti tipici, che secondo me pochi in questo momento conoscono, specialmente tra i più giovani, come la cima, che, comunque, necessita anch'essa di lunga cottura, o le tomaselle e le lattughe in brodo, piatti ormai scomparsi dalle nostre tavole, anche in trattoria. Peccato, anche perché la cucina li-gure rispecchia alla perfezione i canoni della cucina mediterranea, negli ultimi anni da tutti decantata come la più salutare e propositiva. Fortunatamente, vi sono persone che amano la cultura eno-gastronomica e dan-no supporto alle iniziative su questo tema. Recentemente, abbiamo organizzato una bellissima serata all'insegna della tradizione culinaria genovese ed al perfetto connubio tra birra e pesto. L'evento è stato possibile grazie all'interessamento e all'appassio-nata partecipazione de “Il Cancello del Cinabro”, uno dei Circoli più belli e particolari, per stile e accoglien-za, che io ricordi di aver visitato in tutti questi anni di attività anche a livello internazionale e che ho segnato e segnalato nelle mie rubriche e al circuito di cui fac-cio parte.

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Cultura enogastronomica

a Genova...di LUCA ARRIGO

già Tecnico Federale Tennis Italiano,

cultore enogastronomico e

fondatore del “Circolo Elefante”

OSPITI DEL “CANCELLO”...

LUISA CORNA

ALBERTO RADIUS(Formula 3 – Lucio Battisti)

BERNARDO LANZETTI(voce “Premiata Forneria Marconi”)

RICKY PORTERA(chitarrista di Lucio Dalla)

IRENE FORNACIARI

MICHELE

I DELIRIUM

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di N.C. e ROLANDO GIAMBELLI

Volevamo fare un fantastico regalo ai nostri soci e alla città di Genova e ci siamo riusciti, prendendo come occasione la tre giorni (28-29-30 giugno) previ-sta al Porto Antico per la “Mostra Vintage” dedicata ai “mitici anni '60”, abbinata al Beatles Day (per ricorda-re il concerto che i Fab Four tennero proprio a Geno-va il 26 giugno 1965 e festeggiare il 50° anniversario dell'uscita del disco Please Please Me). D'altra parte, questo grande evento – promosso dal-l'Associazione Nazionale Beatlesiani d'Italia, con la partecipazione de “Il Cancello del Cinabro” (Beatles Fan Club ufficiale di Genova e Liguria) – meritava una ciliegina sulla torta. Così, nell'arco di dieci giorni (aiutati dall'amico Rolando Giambelli e dai membri dell'O.I.C.L., che con entusiasmo si sono volontaria-mente prestati a pianificare e gestire ogni aspetto logi-stico e organizzativo), abbiamo potuto confermare la presenza di un ospite d'eccezione: Pete Best, per l'oc-casione accompagnato dal fratello Roag (che Mona Best, mamma di Pete, ebbe nel 1962 da Neil Aspinall, amico di sempre dei Beatles e, successivamente, re-sponsabile della loro Casa Discografica, la Apple Re-cords). Atterrati in Italia con un volo diretto da Liverpool, Pete e Roag sono stati accolti con entusiasmo nel no-stro locale e, subito dopo, accompagnati all'albergo che avevamo riservato per loro, mentre alle 19.00 il “Cancello” cominciava già a gremirsi di soci, di fans e di musicisti, che hanno riempito ogni angolo del locale in meno di un'ora. Facciamo adesso un passo indietro, solo per accen-nare la storia incredibile di un uomo che ha perso (in-volontariamente) la più grande occasione della sua vita, ma – seppur costretto nell'ombra per decenni – è riuscito a reggere il duro colpo ed è oggi invitato in tutto il mondo, come prezioso testimone della nascita di un evento musicale irripetibile: The Beatles. Randolph Peter (Pete) Best nasce il 24.11.1941 a Chennai (Madras), nello stato federato indiano di Ta-mil Nadu (ai tempi, sotto la giurisdizione britannica), da Alice Mona Show Best (1924 – 1988) e da Donald

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da LIVERPOOL a GENOVA... per 2 giorni in Italia

PETE BESTIL PRIMO STORICO BATTERISTA DEI BEATLES

OSPITE DEL “CANCELLO DEL CINABRO”

In alto: la locandina dell'evento.

In basso: i giovani Paul, John, Pete e George.

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Peter Scanland, ingegnere deceduto nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1944, Mona sposa lo sportivo Johnny Best (da cui avrà un figlio, Rory) e, nel 1945, si trasferisce con tutta la famiglia a Liver-pool, in una grande casa del 1860 con giardino, al n° 8 di Hayman's Green – West Derby, dove crea, nella cantina dell'abitazione, il famoso Casbah Coffee Club (oggi, meta turistica di tutti gli appassionati dei Bea-tles). Il 29 agosto 1959, saranno i rocostituiti “Quarry-men” (gruppo, per l'occasione, composto da John Lennon, Paul Mc Cartney, George Harrison e Ken Brown) ad inaugurare il locale, nel quale si esibiranno consecutivamente per due mesi e che diventerà assai popolare a Liverpool fra tutti i teenagers amanti del rock. Proprio in questo periodo Pete Best (proveniente dal complessino “The Blackjacks”) entra in pianta stabile come batterista ufficiale della band (che, poco dopo, assumerà il nome definitivo The Beatles), restandovi ininterrottamente dal 12 agosto 1960 al 16 agosto 1962. E' con Pete Best alla batteria che l'allora manager dei Beatles, tale Allan Williams, scrittura John, Paul, George e Stu Sutcliffe per le tournée ad Amburgo, dove i giovani musicisti fecero una gavetta dura, ma essenziale per la propria carriera, presso l'Indra, il Kaiserkeller e lo Star-Club, collezionando oltre 800 ore sui palcoscenici tedeschi. Tra l'altro, anche in In-ghilterra Pete si era rivelato fondamentale per la noto-rietà del gruppo, grazie al notevole successo personale che riusciva ad ottenere presso il pubblico femminile. Dopo innumerevoli sacrifici, il 6 giugno 1962 i Beatles vengono convocati da George Martin per un provino negli studi di registrazione della EMI in Ab-bey Road a Londra. Qui, Martin individua in Best l'a-nello debole del gruppo (probabilmente, non per inca-pacità strumentale, ma per il suo fare schivo e troppo riservato o anche per le esistenti gelosie interne) e ne pretende la sostituzione. Così, all'improvviso, nell'ago-sto del '62 Pete viene licenziato... Al suo posto, Ringo Starr, batterista del gruppo “Rory Storm and the Hur-ricanes”. Il resto è storia. Qui di seguito, l'intervista integrale che, sul palco del “Cancello”, Pete ha rilasciato al microfono di Ro-lando Giambelli (Presidente Naz. Beatlesiani d'Italia).

Come stai, Pete?Sto bene, sto bene.Sei felice di essere a Genova?Sono molto lieto di essere a Genova. Quando ho rice-vuto la telefonata di richiesta se sarei venuto ho detto: OK!Grazie infinite, Pete, anche a tuo fratello, con cui da tempo siamo amici. Vi ho invitato altre volte in Italia, ma mai in questa bella città, piena di musici-sti e di bella gente, come il pubblico di stasera. Sia-mo molto orgogliosi di averti alla serata inaugurale di questo “Beatles Fan Club – Il Cancello del Cina-

bro” a Genova. E tu sei qui con noi...Si. Come stavo giusto dicendo, sono molto orgoglioso di essere stato invitato come ospite in questo “Beatles Fan Club”. Ed ho incontrato così tante persone, nel breve tempo in cui sono stato qui, che potranno diven-tare buoni amici... e spero possano restare buoni ami-ci per tanti e tanti anni a venire. Questa è la prima volta che vengo a Genova, ma spero non sia l'ultima. Probabilmente, la prossima volta verrò con la mia Band. Chissà.

… (applausi) ...

Si, penso che tornerai con la tua Band! Pete Best ha una Band, che noi abbiamo invitato più volte: ov-viamente, lui fa le canzoni che faceva con i Beatles

prima di abbandonare il gruppo (lui ha suonato con i Beatles due anni, poi è stato sostituito con un altro batterista). Noi siamo orgogliosi di pensare che se non fosse andato lui a fare il batterista dei Beatles ad Amburgo... Quando sei andato con i Beatles ad Amburgo è stata una grande esperienza. In quella città c'è stato il vero inizio. Il vero inizio è stato in Germania e al “Cavern” (Liverpool – n.d.E.).Beh... non sono d'accordo col fatto che tutto sia ini-ziato in Germania. E' iniziato al “Casbah” e non al “Cavern”. Devi essere punito per ciò che hai detto!Mi ha rimproverato, perchè l'unica costruzione ve-ramente autentica che è rimasta a Liverpool è il “Casbah Coffee Club”. Tutto è iniziato al “Casbah: tua madre invitò te ed i ragazzi a suonare nella cantina di casa vostra.Prima di diventare i “Beatles”, suonavano col nome di “Querrymen”. La prima volta che siamo ritornati da Amburgo, che era il Dicembre 1960, lei ci invitò a festeggiare la favolosa tournée di Amburgo. E in quel-la notte particolare il mondo ha capito cosa fossero i “Beatles”.Noi tutti gli anni andiamo a Liverpool, in occasione della “Liverpool Beatles Week”. Molte persone pro-venienti da tutto il mondo vanno a Liverpool al “Casbah Coffee Club” a West Derby – Hayman's Green e in tutti i posti di Liverpool dove hanno vis-suto i vari personaggi. E noi tutti gli anni parteci-piamo al raduno che si fa in casa di Pete, a West Derby, al “Casbah Coffee Club”. Ci sono ancora le pitture di Paul Mc Cartney... è tutto rimasto intat-

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to. Noi possiamo ben affermare che l'unico posto di Liverpool “originale”, rimasto come cinquant'anni fa è il “Coffee Club” creato dalla mamma di Pete per far stare i ragazzi fuori dai pericoli. A Liver-pool di pericoli una volta ce n'erano... ce ne sono ancora adesso... e anche a Genova!Lui ha suonato con i “Beatles” due anni: con Geor-

ge Harrison, John Lennon, Paul Mc Cartney e con Stuart Sutcliffe. Hanno condiviso anche la prigione. Ricordi la Polizia ad Amburgo? Siete finiti in pri-gione...Si, anch'io. Siamo stadi dentro. Abbiamo provato a bruciare il “Bambi Kino” (locale di Amburgo, ex ci-nema – qui, Pete Best e Paul Mc Cartney hanno go-liardicamente dato fuoco ad un preservativo, ma sono stati accusati di incendio doloso – n.d.E.) e così siamo stati fermati alla Stazione dalla Polizia, che ci ha por-tati in prigione. Quindi, siamo stati “deportati”, nel senso di espulsi dalla Germania. Ma, alla fine, abbia-mo vinto... e siamo ritornati in Germania.La polizia scoprì che George non aveva 18 anni, ma ne aveva solo 17...Andò così. Andammo a suonare al “Top Ten”, che era un altro locale ad Amburgo, a quel tempo... e Bruno Koschmider ci domandò se veramente avessimo suo-nato al “Top Ten”. Noi rispondemmo che l'avevamo fatto... solo che George era diciassettenne ed io e Paul siamo stati espulsi...Praticamente, Bruno Koschmider, che era il mana-ger del “Kaiserkeller”, era geloso che andassero a suonare al “Top Ten”, così ha fatto la spia ed è an-dato alla Polizia a dire che George Harrison era mi-norenne. Li hanno messi in galera tutti e, poi, han-no dato il “foglio di via” a Pete e a Paul. L'anno successivo George aveva 18 anni ed è potuto torna-re.Si, è tornato.Sono stato ad Amburgo a visitare la città con Tony

Sheridan e mi ha spiegato tutta la faccenda... la Po-lizia, il “Bambi Kino”, “Star-Club”, “Top Ten”... ho visitato tutto con Tony Sheridan e sono dispiaciuto nel dire che sono stato l'ultimo che ha suonato con lui lo scorso dicembre. E' venuto in Italia il primo dicembre, abbiamo suonato insieme e solo un mese dopo è mancato. Ragazzi, facciamo un applauso a Pete Best... Grazie a Pete Best. Speriamo la prossima volta di averlo con la sua Band, a suonare qui nel nuovo “Cancello

del Cinabro”, che sarà ristrutturato a cominciare dalla prossima settimana.

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Alcune foto rare ed altre più conosciute dei giovani BEATLES

Dall'alto: 1. John, George, Pete, Paul e Stu all'Indra Club di Amburgo (17 agosto 1960); 2. Pete, George, John, Paul e Stu ad Amburgo; 3. I quattro BEATLES originali: Pete, George, Paul e John; 4. Pete Best con la sua “Ludwig”; 5. i BEATLES all'uscita del Cavern di Liverpool: George, Pete, John e Paul.

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La serata ha visto l'esibizione di diverse formazio-ni provenienti da varie città italiane (Reunion e The Beagles da Genova, Beatops da Brescia e Back to The Beatles da Pavia), per un tributo ai Beatles e in omag-gio a Pete Best, personaggio gentile ed umile, sempre disposto a concedersi al pubblico firmando autografi e rispondendo alle mille domande che i suoi ammiratori gli hanno posto, quasi assediandolo. Con ciò, Pete non ha mai avuto atteggiamenti sgarbati o di insofferenza, uscendo per ultimo dal “Cancello del Cinabro”, dopo aver soddisfatto le richieste dei suoi fans, giunti anche da regioni lontane per incontrarlo. Ma il momento più entusiasmante della serata è stato quando, arrendendosi al richiamo continuo del numeroso pubblico presente in sala, che a gran voce lo invocava sul palco, per ascoltare almeno un suo pezzo alla batteria (non previsto, in quanto non suona mai senza la sua Band), Pete Best, questa volta introdotto e presentato dal carico fratello Roag, ha ceduto e, sotto una ovazione di vibranti applausi, quanti al “Cancello” non si erano mai sentiti, si è seduto allo strumento, per accompagnare una nutritissima jam session di artisti nel brano che più di altri ci ricordano i Beatles degli esordi: “Twist and shout”. Qui giunti, preferiamo la-sciar “parlare” le foto, perchè l'emozione che Pete Best ha saputo regalare ai presenti (e, soprattutto, tra-smettere ai più anziani, da sempre seguaci dei Bea-tles), difficilmente può esprimersi con le parole.

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Se osserviamo con attenzione “Le nozze di contadi-ni”, dipinto dal grande Bruegel intorno al 1568, in bas-so a destra si può notare un giovanotto dall’aria soddi-sfatta, forse il novello sposo, che riempie subito le brocche rimaste vuote raccolte in una grande cesta. Le riempie, certo, ma di che cosa? Autorevoli studiosi ci assicurano che si tratta di lambic, bevanda molto po-polare all’epoca, spontaneamente fermentata grazie al-l’azione dei lieviti selvaggi e dei batteri presenti nel-l’aria di quella miracolosa ristretta area solcata dal fiu-me Zenne, detta Pajottenland, ancora oggi così rurale e fatata, nonostante abbia a ridosso le incombenti ci-miniere della capitale d’Europa. Nel Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli è conservato il celeberrimo dipinto “La parabola dei ciechi”, nel quale è ritratta la chiesa di Sint Anna Pede, nelle cui vicinanze si trova-no ancor oggi deliziosi caffè dove poter degustare un buon bicchiere di gueuze. In molti altri dipinti di Brue-gel ritroviamo chiese, ponti e mulini che ancora oggi possiamo ammirare nel Pajottenland.

L’origine del nome lambic è alquanto misteriosa, ma la versione più accreditata la fa risalire al villaggio di Lembeek, una ventina di km da Bruxelles. Ma cos’è il lambic? Birra? Non proprio, io concordo col produtto-re Frank Boon che l’ha genialmente definito “l’anello mancante tra la birra e il vino”. La miscela di grani

utilizzati per produrre il mosto deve per legge contene-re almeno il 30% di frumento rigorosamente non mal-tato, il resto è rappresentato nella stragrande maggio-ranza dei casi da malto d’orzo, mentre è meno comune l’utilizzo di mais, riso e segale. Il malto d'orzo impie-gato nella produzione del lambic è di colore chiaro tipo pilsener ad alto potere enzimatico, per bilanciare l’utilizzo del frumento non maltato del tipo tenero (tri-ticum aestivum), che, rispetto al malto d’orzo, è più ricco di amidi e proteine ma meno di fibre e lipidi. La macinazione dei grani avviene tramite mulini che per-mettono di regolare la distanza ta i rulli in funzione dell’utilizzo prima del frumento (1 mm.), perché es-sendo senza cariosside ha le pareti cellulari integre e quindi è più duro e va macinato più fine e poi del mal-to d’orzo (1,5 mm), in quanto avendo le pareti cellula-ri già degradate per la maltazione è più friabile ed inoltre va solo delicatamente compresso per mantenere intatte le scorze (utili per la fase di filtrazione). L’am-mostamento, che si effettua nel tino di miscela che ri-ceve i grani macinati dalla tramoggia, deve permettere al birraio di ottenere un mosto (ricco di amido non idrolizzato, destrine e amminoacidi) che possa risulta-re ideale allo sviluppo dei diversi e complessi micror-ganismi protagonisti della lunga e misteriosa fermen-tazione. Al termine dell'ammostamento, comincia l'e-strazione attraverso il letto filtrante ed il primo mosto è ricircolato per la chiarificazione. Il risciacquo delle trebbie è effettuato con acqua alla temperatura di 85-95°C, molto più elevata di quella usata per le altre bir-re (cioè 74-76°C.), che favorisce l'ulteriore solubiliz-zazione dell'amido e delle destrine rimaste nelle treb-bie e comporta una estrazione di tannini (dalle scorze del malto) che precipiteranno in gran parte durante la lunga fermentazione. Per la fase di bollitura viene uti-lizzato in grande quantità (circa sei volte quello usato normalmente), del luppolo invecchiato oltre tre anni, detto “suranné”, dal caratteristico odore di “formaggio maturo”, che perdendo in pratica il potere amaricante apporta quasi esclusivamente le proprietà antisettiche e antiossidanti. Tale fase di bollitura è piuttosto lunga, da circa 3 ore ½ a 6 e porta ad una riduzione del volu-me iniziale del 25-30%. Può quindi iniziare la fonda-mentale fase di raffreddamento, durante la quale av-viene l’inoculazione spontanea da parte dei microrga-nismi che popolano gli ambienti della birreria. Il mo-sto viene pompato nella vasca di raffreddamento posta

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LambicL'ANELLO MANCANTE

TRA LA BIRRA E IL VINO...

di LORENZO DABOVE (Kuaska)

Il Pajotttenland è una regione del Belgio situata a sud-ovest di Bruxel-les. Territorio agricolo molto fertile. (n.d.E.)

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nelle birrerie più tradizionali nella parte più alta, il sot-totetto, dove opportune fessure favoriscono il passag-gio della “miracolosa” aria ricca dei “magici” lieviti selvaggi e batteri. Tale vasca, lunga più di 7 m. e larga più di 5 m. e profonda solamente intorno ai 30 cm, serve a creare una superficie di contatto con l'aria più ampia possibile, dato che il mosto vi trascorre l’intera notte, prima di essere pompato l'indomani, quando ha raggiunto una temperatura di 18-20°, in un’ulteriore vasca per ottenere un liquido più omogeneo e per con-vogliare i microrganismi in tutto il volume.

Finalmente il mosto è pronto per riempire le botti di legno usate provenienti dalle regioni di Porto, Sherry, Madeira e Cognac. Allineate nelle buie e polverose cantine, tra intoccabili ragnatele e gatti furtivi, queste botti in legno di rovere o castagno sono davvero sug-gestive e impressionanti. Le più piccole, dette ton-neaux in francese o tonnen in fiammingo, contengono circa 250 litri, le medie pipes o pijpen circa 650 litri, mentre le monumentali foudres o foeders possono con-tenere oltre 3000 litri! Essendo state impiegate per molti anni nell'invecchiamento di vini o distillati, han-no ceduto ad essi gran parte delle sostanze estraibili e quindi possono ospitare la fermentazione del lambic senza interferire in modo marcato sul gusto e sul colo-re, ma avendo ognuna la propria “storia” possono con-ferire sfumature diverse sempre molto interessanti. La permanenza del lambic nellel botti per lungo tempo, anche 3 anni, fa in modo che si presentino composti polifenolici (tannini) che concorrono al colore ambrato nonché ad una sensibile astringenza ed a note di vani-glia create dalla vanillina originata dalla degradazione della lignina. Non dimentichiamo che Il legno, grazie alla sua struttura porosa, è colonizzato a fondo da lie-viti e batteri. Dobbiamo pensare ad ogni contenitore di fermentazione come ad un micro-ambiente unico in cui la popolazione di lieviti e batteri presenta equilibri diversi rispetto a tutte le altre botti. Avremo quindi un’ assoluta unicità del prodotto finale: infatti, ben difficil-mente il lambic di due botti, anche vicine, sarà identi-

co, pur partendo dallo stesso mosto. Ma torniamo pro-prio al nostro mosto, che avevamo lasciato intorno ai 15-20°C., pronto per il riempimento delle botti. La fer-mentazione principale è accompagnata dalla produzio-ne abbondante di schiuma bianca che trabocca dall'a-pertura del fusto cui non viene inserito il tappo; in po-chi giorni la schiuma diventa di colore scuro e si indu-risce formando un tappo naturale che protegge il mo-sto da ossidazione ed infezioni. Dopo qualche settima-na l'apertura viene finalmente chiusa con l'apposito tappo. Durante la fermentazione e la maturazione si ha perdita di acqua ed etanolo e, quindi, una diminuzione del volume ed un aumento dello spazio nella parte su-periore della botte, a rischio quindi di ossidazione ed di possibile sviluppo di batteri acetici. Il birraio per far fronte a questi pericoli deve effettuare il rabbocco con lambic della stessa cotta prelevato da un’altra botte. Tradizionalmente, il lambic si produce da ottobre a maggio, per evitare le alte temperature estive che osta-colerebbero il raffreddamento e favorirebbero le infe-zioni. Per me, innamorato (corrisposto) di questa straordinaria bevanda, i difficilissimi nomi dei lieviti selvaggi e dei batteri protagonisti delle 5 fasi (le prime 4 in botte e la quinta in bottiglia) della più antica delle fermentazioni, riescono ad emozionarmi ogni volta che li elenco. Nella prima fase detta “delle enterobacteriaceae”, crescono colonie di enterobatteri come Enterobacter cloacae, Klebsiella aerogenes, Escherichia coli, Haf-nia alvei, Enterobacter aerogenes e Citrobacter freun-dii, nonché lieviti non fermentanti il maltosio come Kloeckera apiculata, Saccharomyces globosus e dai-rensis.

Nella seconda fase imperano i “saccharomyces”: ce-revisiae, bayanus, uvarum e inusitatus. Nella terza fase, detta “dell’acidificazione”, aumentano i batteri lattici come il pediococcus e nelle botti più grandi an-che i lactobacillus, mentre tra i lieviti i saccharomyces lasciano il campo ai brettanomyces: soprattutto bru-xellensis e lambicus e poi custersii, anomalus e inter-

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Barili di lambic

Lorenzo Dabove durante una degustazione.

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medius. Nella quarta fase, detta “della maturazione”, diminuiscono i batteri lattici e molto dopo anche i lie-viti brettanomyces si riducono. Continua l'attenuazio-ne del mosto. Nel corso delle ultime tre fasi sono sem-pre presenti batteri acetici che, specialmente nei mesi più caldi, possono essere molto numerosi. Nella quinta fase, detta “della rifermentazione in bottiglia”, sono presenti al momento dell'imbottigliamento molti lieviti selvaggi: Candida, Torulopsis, Hansenula, Pichia e Criptococcus. Questi lieviti, che probabilmente deri-vano dallo spesso film che si sviluppa nei barili duran-te la lunga fermentazione, non si moltiplicano e scom-paiono dopo una decina di mesi. Invece i lieviti Bret-tanomyces e i batteri lattici aumentano in modo espo-nenziale, ma dopo 14 mesi in bottiglia, sono i batteri lattici ad essere prevalentemente riscontrabili. Il lam-bic (lambiek in fiammingo) che esce dalla botte si pre-senta piatto, molto secco, di gradazione intorno al 5% vol. alc. e con aromi e sapori dalle sfumature uniche e introvabili, nel loro insieme, in qualsiasi altra bevanda del pianeta. Aromi e sapori inusuali, che possono a volte ricordare il metallo, il formaggio ammuffito, il limone, l’aceto, il sudore, le carte da gioco vecchie, il sangue, la carne in scatola, gli stracci bagnati e così via! Aromi e sapori che, lo ammetto, possono risultare ardui e di difficile fruizione per il bevitore senza espe-rienza, ma che, dopo un po’ di “allenamento” e di “de-dizione”, possono a volte attaccare una malattia che per me è stata irreversibile e che mi ha fatto intrapren-

dere un esaltante cammino. Il lambic piatto, una volta vera e propria “bevanda del popolo”, oggi giorno viene quasi tutto assemblato per produrre la gueuze ed è sempre più difficile da trovare. Si contano ormai al massimo sul-le dita di due mani, i piccoli, romantici caf-fè (che definire “basi-

ci” non rende del tutto l’idea) nei quali poter vivere l’eccitante esperienza di assistere ad un semplice ma antico gesto: lambic di pochi mesi spillato in una broc-ca di ceramica direttamente da una vecchia botticella e poi finalmente nel nostro trepidante bicchiere. Detta “lo champagne del Belgio”, la spumeggiante gueuze (geuze in fiammingo) nasce dall’assemblaggio di due o più lambic di età diversa effettuato per lo più dagli stessi produttori, ma in alcuni casi quest’arte vie-ne praticata da puri assemblatori che acquistano il lambic dai produttori che preferiscono. La gueuze prende il nome probabilmente dal termine “gueux” (pezzente), perché nella regione era la bevanda dei po-veri, mentre il vino trovava posto solo sulle tavole dei

potenti. Le caratteristiche aromatico-palatali sono vici-ne a quelle del lambic sopra descritte, ma la fermenta-zione supplementare, oltre alla frizzantezza, conferisce alla gueuze una complessità e una finezza molto più marcate. L’assemblatore di lambic (che non deve esse-re sempre necessariamente lo stesso produttore) deve assolutamente avere una sensibilità olfattivo-gustativa molto sviluppata (spesso innata o ereditata) verso que-sta bevanda, per riuscire a trovare la “propria” gueuze, quella e solo quella che lo possa soddisfare ed identifi-care. Una sensibilità e una unicità che paragonerei a quella di un musicista che ricerca il proprio “suono” nella pratica di uno strumento. Un detto locale senten-zia “une vrai gueuze doit puer” (una vera gueuze deve puzzare”) e questa “puzza” deve essere padroneggiata dall’artista-assemblatore che vuole dare un’impronta originale alla sua creatura.

Tradizionalmente la gueuze, di gradazione intorno al 5-6% vol. alc., si ottiene dalla rifermentazione in botti-glia di una miscela di lambic giovani, che apportano carboidrati fermentescibili, mentre i lambic invecchiati contengono le destrinasi, prodotte dai vari microrgani-smi, necessarie all'idrolisi delle destrine. L’assemblag-gio, come dicevo, è una vera e propria arte: il birraio sceglie i componenti della miscela tenendo conto delle loro caratteristiche di gusto ed acidità, al fine di otte-

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Cozze, zucchine e gueuze, un abbinamento usuale a Bruxelles.

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nere un prodotto che, dopo la rifermentazione e la ma-turazione, abbia le caratteristiche tanto desiderate. Lo scopo di quest’appassionante miscelazione è di ricosti-tuire la frazione destrinica da parte del lambic giovane in modo da permettere la rifermentazione in bottiglia con produzione di CO2. Ovviamente, le proporzioni di lambic giovani e vecchi variano da un birraio all’altro. Sempre che non stiano mentendo (cosa comune nei birrai di tutto il mondo, ma molto accentuata in quelli belgi, gelosi di cotanta tradizione), alcuni birrai indi-cativamente utilizzano il 50% di lambic di un anno, un quarto di due anni e un quarto di tre anni, mentre altri preferiscono mettere due terzi di lambic di un anno e un terzo di lambic invecchiato due o tre anni, altri an-cora più di nove decimi di lambic di due anni e solo un decimo di lambic che ha fermentato solo per qualche settimana. Dopo la miscelazione si passa l'imbottiglia-mento, cui segue la rifermentazione che dura circa 4-6 mesi con un metodo simile a quello usato per lo spu-mante italiano metodo classico. Le bottiglie coricate nelle buie cantine riposano indisturbate finchè si deci-derà di portarle al tavolo, sempre nella stessa posizio-ne orizzontale, maneggiandole delicatamente, prestan-do la massima cura per non agitare i lieviti depositati-si. Quanti bambini belgi hanno preso uno scappellotto dai loro padri per non aver rispettato questa primaria fondamentale regola! Scappellotti che andrebbero an-cora oggi dati a quei (numerosi) gestori di caffè che non istruiscono debitamente il loro staff. La kriek tradizionale nasce dall'aggiunta di ciliegie acidule (prunus cerasus acida) intere al lambic. Tradi-zionalmente, vengono utilizzate griotte (per essere più precisi) che appartengono alla varietà di Schaerbeek, a nord-est di Bruxelles, hanno frutto piccolo, nocciolo relativamente grande, gusto acidulo e polpa dal bellis-simo color rosso intenso. Ai giorni nostri sono però li-mitatamente coltivate nella zona di Gorsem, Tienen e Sint Truinden, rendendo necessario il ricorso a impor-tazioni dai paesi dell’est (Polonia e Macedonia), le cui varietà di ciliegie però hanno frutto più grosso e meno acidulo di quelle di Schaerbeek. Il metodo tradizionale prevede l'utilizzo di ciliegie intere in quantità pari a circa 20-30 kg ogni 100 litri di lambic, che vengono

poste in botti riempite poi con lambic invecchiato dai 12 ai18 mesi . Gli zuccheri apportati dalla frutta fanno partire una seconda fermentazione, che si rivela molto tumultuosa con produzione di abbondante schiuma. Dopo circa 5-6 mesi di macerazione, durante la quale avviene tra l’altro l’estrazione dei tannini (da buccia e nocciolo) e formazione di benzaldeide, responsabile della spiccata nota di mandorla avvertibile in alcune kriek, si procede all'imbottigliamento, come per la gueuze, cioè miscelando alla kriek una quantità di lambic giovane per la rifermentazione in bottiglia. La leggenda, incrociata con la Storia, dice che la kriek fu inventata da un soldato originario di Schaer-beek, gran bevitore di birra, che ai tempi delle Crocia-te si recò in Terrasanta a combattere gli infedeli per li-berare il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Qui scoprì e apprezzò il vino rosso come il sangue di Cristo e, al ri-torno, in preda alla nostalgia, decise di lasciar macera-re e fermentare nella birra (sua bevanda abituale) le ci-liegie del suo giardino, creando così la prima kriek della storia. Leggende a parte, una kriek autentica, dal-l’irresistibile color rosso vivo, profumata e acidula, può rappresentare un aperitivo raffinato o, in mano ad un bravo chef, un ingrediente decisivo per piatti tradi-zionali come la celebre e squisita “faraona alla kriek”, senza dimenticare i desserts, come il voluttuoso “zaba-ione tiepido alla kriek”. Una curiosità per finire: per attenuare la decisa punta di acidità, un tempo si usava aggiungere nel bicchiere una zolletta di zucchero, che veniva poi frantumata per mezzo di un antico strumen-to, simile ad un pestello di metallo, chiamato “stoem-per”. Dall'aggiunta di lamponi freschi al lambic, in quanti-tà variabile a seconda del produttore, tra 20 e 35 kg per cento litri, si ottiene la framboise tradizionale, il cui processo produttivo è lo stesso della kriek, ma te-nendo ovviamente conto della diversa consistenza tra i due frutti. I lamponi, infatti, si decompongono nel cor-so della fermentazione e i piccoli semi possono creare qualche piccolo problema al momento della filtrazio-ne. Talvolta, per rendere più intenso il caratteristico colore rosé, viene aggiunta una piccola percentuale di kriek al momento dell'imbottigliamento. La framboise prodotta con metodi tradizionali, dall’aspetto elegante e dall’aroma delicato, si presenta in bocca ben più “dry”, tagliente ed astringente con decise punte di aci-

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dulo, che la rendono perfetta come aperitivo per un pranzo raffinato. Il faro (pronuncia farò), vera e propria bevanda delle classi meno abbienti di Bruxelles e dintorni, era così popolare nel XIX secolo che una sciagurata decisone dei governanti di allora di aumentarne (siamo nel 1842) il prezzo di un solo centesimo, provocò una vera e propria insurrezione (paragonabile a quella del pane, nel '700, di manzoniana memoria), che obbligò gli in-cauti autori del crimine a riportare al più presto l’irri-nunciabile bevanda al vecchio prezzo, con conseguenti grandiosi festeggiamenti e processione per le strade di Bruxelles, con bisboccia e sbornia finale (a base di faro, ovviamente) al caffè “Au Duc Jean”. Il faro (il cui nome sembra derivi dall’omonima città portoghe-se, anche se alcuni storici lo fanno risalire alla parola latina “farina”) veniva prodotto dalle birrerie o dai sin-goli gestori dei caffè (cabaretiers) aggiungendo al lambic zucchero candito bruno o melassa. Tagliato con una birra leggera (a volte prodotta dalla seconda utiliz-zazione delle trebbie) e spesso allungato con acqua, dava vita alla Mars, una bevanda popolarissima all’e-poca, ancor più a buon mercato, che da molti decenni è ormai scomparsa.

Alle più tradizionali kriek e (in un secondo tempo) framboise, si sono successivamente aggiunte numero-sissime variazioni sul tema: dalle raffinate “druiven lambic”, con aggiunta di acini di uva, alla prorompen-te, sciagurata (ma molto renumerativa) moda attuale di addolcire in modo snaturante l’acidità del lambic con zucchero e ogni sorta di succhi e sciroppi di frutta come cassis, albicocche, fragole, banane, prugne, ana-nas, limone e chissà cos’altro. Vorrei stendere, infine, un velo pietoso sul lambic al the, definito da uno dei pagatissimi “guru” della birra, in un suo libro, “novità rinfrescante” (!). Spesso produttori che per vil denaro (altri dicono per “sopravvivenza”), sfornano queste in-vereconde bibite, producono anche una piccola per-centuale della “real thing” e questo crea confusione tra i consumatori meno smaliziati.

I produttori

Quanti birrai attualmente producono o assemblano lambic? Solo undici è la preoccupante risposta. Se poi si considera che solo tre, sottolineo tre, non ricorrono a dolcificanti, filtrazioni, pastorizzazioni e tagli vari, la risposta diventa ancor più drammatica. E pensare che a inizio secolo si potevano contare più di 180 tra produttori, puri assemblatori e assemblatori-gestori di caffè. Nella sola città di Bruxelles erano attive ben 45 birrerie che producevano lambic ed ancor oggi è possi-bile trovare alcuni dei vecchi edifici, pregnante testi-monianza di archeologia industriale. Quali sono state le cause di questa decimazione? Molteplici: l’età avanzata dei proprietari, spesso senza figli o con figli che non volevano fare un lavoro duro e dal futuro incertissimo, l’acquisizione da parte di bir-rerie più grandi o da multinazionali, ma, soprattutto, dalla esponenziale diminuzione del consumo di lam-bic e dei suoi derivati da parte del popolo belga (in particolare dei giovani), che ha portato all’attuale con-sumo di oltre il 70% di anonime pils. Dato scioccante e preoccupante se si tiene conto delle straordinarie ed uniche tipologie che il Belgio può, anzi deve, vantarsi di avere, autentico ed inestimabile patrimonio che ri-schia seriamente di snaturarsi in tempi brevi, prima di estinguersi ancor più rapidamente in nome, come sempre, del vil denaro. Come non partire dal più fiero e tradizionalista dei produttori di lambic? Il mitico Jean-Pierre Van Roy, “mio padre putativo”, officia dal 1970 nel suo tempio-museo in Rue Gheude ad Anderlecht, (cinque minuti a piedi dalla Gare du Midi). Jean-Pierre è il marito di Claude, la nipote del leggendario Père Cantillon, che nel 1900 si insediò in Rue Gheude, dapprima per im-bottigliare e vendere lambic di altri produttori, per poi tramandare quest’arte ai figli Marcel e Robert, che co-minciarono a produrre ed assemblare il proprio lambic nel 1937. Marcel, padre di Claude, si ritirò nel 1968 e due anni dopo il genero Jean-Pierre Van Roy cominciò la sua grande avventura, che ancor oggi, assieme al ta-lentuoso figlio Jean (mastro-birraio dal 2001), lo vede assoluto protagonista sulla scena del lambic tradizio-nale. Il lambic “Cantillon” è “rude” e verace, con note agrumato-acetiche riconoscibilissime.

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La sontuosa Broucsella Grand Cru è il solo lambic piatto imbottigliato al mondo (tre anni di invecchia-mento) e La Gueuze 100% lambic è acida senza com-promessi, con un caratteristico corpo watery, mentre la nuova versione Bio (vecchio pallino di Jean-Pierre, che ora produce e continuerà a produrre esclusivamen-te prodotti Bio) abbina al “formaggiato” lievi punte di erbaceo-amarognolo nel retrogusto. Il faro è irresisti-bile. La kriek è di una finezza olfattivo-gustativa feno-menali, mentre la tagliente Rosé de Gambrinus al lam-pone può essere un aperitivo di prestigio. Chi immagi-na che Jean-Pierre e figlio si limitino a produrre classi-ci si sbaglia di grosso, in quanto ricercano sempre qualche nuovo prodotto come testimoniano le raffinate Vigneronne e St. Lamvinus con acini di uve bianche (Moscato e altre) la prima e uve rosse (Merlot e Ca-bernet) la seconda, come la delicata Fou Foune (in francese è l’organo genitale femminile) con albicocche denocciolate e la originalissima Iris, che è l’unico pro-dotto non-lambic, in quanto viene impiegato solo mal-to d’orzo. Altri gioielli sono le gueuze, kriek, framboise della cuvée Lou Pepe (dal nomignolo di Jean-Pierre), in cui si assemblano diversi lambic di due anni senza aggiun-ta di lambic giovane, bensì di un “liqueur sucré”. Altre gemme sono infine la Loerik (pigro in fiammingo) con lambic che fermenta più lentamente e la ammaliante Soleil de Minuit con aggiunta di hjortron (rubus cha-maemorus), una bacca polare, per il pub Akkurat di

Stoccolma. Ma non finisce qui: Jean, gran tifoso (come il padre) della squadra di calcio dell’Union St. Gilloise, ha creato una gueuze speciale, per il centena-rio della vincita del primo scudetto, usando luppolo più giovane che conferisce una punta d’amaro partico-larmente interessante. In ultimo, Jean-Pierre ogni tanto si diletta a produrre un finissimo aceto di kriek, la-sciando di proposito una botte di kriek aperta in modo da favorire lo sviluppo dei batteri acetici. La birreria, che produce meno di 1.000 hl l’anno, si fonde in modo naturale con il Musée Bruxellois de la Gueuze, inaugu-rato nel 1978, che riceve ogni anno più di 25.000 visi-tatori, i quali, dopo un interessantissimo tour tra at-trezzi originali del XIX secolo, hanno l’opportunità di

degustare una gueuze o una kriek fatte come Dio (e non il denaro) comanda ed acquistare squisite gelée alla gueuze, alla kriek e alla Rosé de Gambrinus. Con la scomparsa di Louis Girardin, nel settembre 2000, il mondo del lambic perde uno dei suoi più in-transigenti protagonisti. Ora i figli portano avanti la tradizione iniziata nel 1882 nella birreria-fattoria di Sint-Ulriks-Kapelle, producendo rinomato lambic per piccoli caffè della zona e per gli assemblatori, mentre in bottiglia propongono una gueuze tradizionale (eti-chetta nera), acidula ma rotonda nel gusto con un ca-ratteristico fruttato di mela, una versione filtrata (eti-chetta bianca) e una kriek e una framboise senza infa-mia e senza lode. Curiosamente, producono anche una pils chiamata Ulricher Extra. La produzione comples-siva non supera i 4.000 hl. l’anno. Si è temuto recente-mente che la birreria interrompesse la produzione a causa di alcune leggi comunitarie in materia di igiene, che stanno angustiando tutti i produttori di lambic, ma per fortuna, sembra che, almeno per ora, l’allarme sia rientrato. Dalla gloriosa storia, fondata nel 1913 da Philemon Vandestock (mai più tornato dai campi di concentra-mento nazisti), la Brasserie Belle Vue è dal 1990 sal-damente nelle voraci mani del colosso Interbrew. Pro-duce lambic nel modernissimo stabilimento di Zuun e lo fa maturare nel vecchio edificio di Molenbeek-St-Jean, per poi filtrare e pastorizzare tutto o quasi (pro-ducono una ridicola percentuale di gueuze tradizionale acida chiamata Sélection Lambic per puro fine propa-gandistico). La produzione, di oltre 300.000 hl. l’anno, comprende gueuze, kriek e framboise addolcite, che di tradizionale non hanno più nulla, ma che si vendono alla grande, distribuite dappertutto ed esportate in mol-ti paesi esteri. Nel 1997, nove produttori di lambic del Pajottenlan si associaron in HORAL (Hoge Raad voor de Amba-chtelijke Lambikbieren, cioè Alto Consiglio per le bir-re lambic artigianali), con lo scopo principale di pro-teggere la gueuze tradizionale, riuscendo ad ottenere la denominazione di “Oude Geuze” e “Oude Kriek” per i prodotti rispondenti all’antico metodo di produzione (utilizzo di 100% lambic senza filtrazioni, pastorizza-zioni e aggiunte di sciroppi o succhi di frutta). HO-

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RAL organizza periodicamente i “Tour de Geuze”, per-corsi mirati per visitare, in una sola giornata, tutti i produttori associati che aprono le loro birrerie ai nu-merosi visitatori, organizzando visite guidate in un cli-ma di festa, con musica e specialità culinarie locali.

Passiamo ora in rapida rassegna questi produttori. Purtroppo, si sono ora ridotti ad otto, per la dolorosa chiusura da parte del leggendario Henri Vandervelden della gloriosa birreria Oud Beersel. L’associazione belga Zythos, nata dalle ceneri dell’OBP (Obiectjeve Bier Proevers), si è tempestivamente attivata, con una petizione, per salvare questo autentico pezzo di Storia locale ed evitare che cada in mani “sacrileghe”. L’a-diacente mitico caffè “In ‘t Bierhuis”, che serviva i prodotti (lambic, gueuze e kriek) della birreria, è ormai tristemente diventato un negozio di fiori e ogni volta che ci passo davanti mi viene da piangere. Armand Debelder, presidente della HORAL, è una personalità di spicco nel suggestivo panorama della gueuze tradizionale a fermentazione spontanea. Il pa-dre, Gaston, uno dei “nasi” più fini mai esistiti nell’as-semblare lambic, iniziò a Beersel, nel 1953, l’antico mestiere di “assemblatore” e trasferì al figlio Armand i segreti dell'arte. Armand rivelò ben presto il suo talen-to assemblando lambic di Girardin, Boon e Linde-

mans, creando una gueuze di una finezza eccezionale, che gli valse, nel 1993, l’ambito trofeo dell’OBP, l’as-sociazione che promuoveva la birra belga tradizionale. La fine del secolo ha visto la nascita della straordina-ria “Millenium Gueuze”, nata da una stretta collabora-zione con Willem van Herrewegem della birreria De Cam. Tale collaborazione continua attualmente con il giovane birraio Karel Goddeau, cresciuto proprio alla scuola di Armand. Da tempo Armand (che produce circa 800 hl. l’anno) ha dato impulso alla sua produ-zione acquistando un gran numero di stupende botti dalla celeberrima birreria boema Pilsner Urquell e co-minciando a produrre il proprio lambic, che darà un’impronta ancor più personale alla sua gueuze. Re-centemente, si è dedicato completamente alla birreria e al negozio (nel quale vende anche le rimanenze in bot-tiglia della produzione Oud Beersel), lasciando al fra-tello Guido la gestione del rinomato omonimo storico ristorante, oggi vero e proprio tempio della cucina alla birra, ma in passato autentico caffè letterario, sede del movimento artistico “De Mijol” fondato da celebri scrittori fiamminghi come Herman Teirlinck, Maurice Roelants, Ernst Claes e altri. Nel ristorante è possibile trovare tutti i prodotti “Drie Fonteinen”, tra i quali ci-terei il tradizionale Faro, la finissima Gueuze e la straordinaria Kriek, ora anche in versione lusso, con autentiche ciliegie di Schaerbeek.

Gli altri produttori associati ad HORAL

Frank Boon produce lambic a Lembeek dal 1977, dopo aver ripreso la birreria René De Vits. La produ-zione attuale supera i 5.000 hl. l’anno. Legato a Palm, ora alla sua Oude Geuze (dall’indovinato nome di Ma-riage Parfait), di buon livello anche se troppo alcolica (8%) per non aver usato zucchero, affianca versioni addolcite di scarso interesse per il purista, ma di enor-me importanza per il suo commercialista. Nel 1997, Willem Van Herreweghem, ingegnere alla birreria Palm, comincia ad assemblare lambic a Gooik, nel centro culturale De Cam. Nel 2000 subentra il giovane Karel Goddeau, pupillo di Armand Debelder, che du-rante la settimana lavora alla birreria Slaghmuylder di Ninove e nel weekend assembla lambic (produzione annua circa 100 hl), ottenendo una Oude Gueuze ancor verde, ma promettente, e una Oude Kriek che lascerà il segno. A Dworp, dal 1896, officia la famiglia Hans-

sens. Oggigiorno il mitico Jean Hanssens, grande naso per assemblare lambic, e i suoi eredi naturali (la figlia Sidy e il genero John Matthys), producono (circa 500 hl. annui) una Oude Geuze dall’aroma inconfondibile di uva fresca e di formaggio brie e una Oude Kriek molto accattivante, che spesso viene accusata di conte-nere saccarina.

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La originale rosé Oudbeitje con fragoline di bosco ha diviso gli esperti (io le trovo uno sgradevole off-fla-vor di vomito), mentre il blend tra un idromele inglese e la gueuze ha generato un discutibile ibrido chiamato “Mead the Gueuze”, destinato al solo mercato ameri-cano. La famiglia De Keersmaeker, di Kobbegem, è legata al lambic almeno dal 1640. Attualmente legata ad Al-ken-maes, produce (50.000 hl. annui) sotto il popolare nome Mort Subite una Oude Geuze apprezzabile, ma il grosso della produzione spetta a Mort Subite addolcite da zucchero e succhi vari, dai puristi evitate come la peste. Lo stesso fa Timmermanns (12.000 hl. annui) a Vlezenbeek, legato a John Martin’s, con la differenza che nemmeno l’unico prodotto etichettato come tradi-zionale (Gueuze Caveau) riesce a convincere i puristi.

Anche Lindemans di Vlezenbeek (30.000 hl per anno) punta tutto sui prodotti addolciti che, a parte l’i-gnobile Tea Beer, sa rendere più accattivanti di quelli dei suoi colleghi. Produce un buon lambic che poi vende a diversi assemblatori. A parte una rarissima “gueuze fond” fornita allo stu-pendo caffè-ristorante “De Heeren van Liedekercke”, Lindemans produce una Oude Gueuze chiamata Cuvée René che ha riscosso un buon successo negli Stati Uni-ti. Infine, va citato De Troch di Wambeek, che ha in-vaso (5.000 hl. l’anno) il mercato interno ed estero con terribili bibite zuccherate e aromatizzate ai più svariati tipi di frutta, sotto il nome ammiccante di Chapeau. In Belgio prestigiosi nomi di birrerie ormai dismes-se continuano a rivivere su etichette di altri produttori (non solo nel caso di birrai di lambic), tramite acquisi-zioni, rifacimenti di antiche ricette, ma, frequentemen-te, tramite una semplice azione di diversa etichettatura

di una stessa birra (deprecabile fenomeno tipico, pur-troppo, di molte birrerie belghe). Esempi emblematici legati al lambic sono De Neve di Schepdaal (Inter-brew), Eylenbosch di Schepdaal (Alken-Maes), Mo-riau di Sint-Pieters-Leeuw (Boon), De Koninck di Dworp (Boon), Wets (Girardin). Troviamo anche due produttori “extra-muros”, cioè fuori dal Pajottenland, nelle Fiandre Occidentali, come Van Honsebrouck (St. Louis) di Ingelmunster e Bockor (Jacobins) di Belle-gems, ma, con l’eccezione di una pretenziosa “St. Louis Geuze Fond” tradizionale prodotta dal primo, ci troviamo davanti alle solite sedicenti lambic addolcite. Un cenno, infine, sul discutibile “plambic” (pseudo-lambic) di alcuni piccoli produttori, per lo più home-brewers (specie americani), che aggiungono al mosto una coltura di lieviti selvaggi in commercio o “ricicla-ti” da gueuze a fermentazione spontanea. I giapponesi amano molto la gueuze e la kriek tradizionali e, quindi, non mi stupirei di dover fronteggiare in futuro un’in-vasione di plambic dal Sol Levante!

Il termine lambic, che si trova indiscriminatamente sia su etichette di prodotti tradizionali che contengono lambic al 100% e sia su quelle di prodotti che di lam-bic ne hanno visto ben poco o proprio per nulla, crea demagogicamente confusione nel consumatore. Se poi si tiene conto che la vera gueuze è acida e che quella falsa è dolce non è quindi difficile prevedere che un aumento sempre crescente di prodotti addolciti (preoc-cupante il recente proliferare di terrificanti kriek dol-cissime) accrescerà i rischio di estinzione di questo pa-trimonio del popolo belga e di conseguenza di tutta l’umanità.

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di GIANNI BELLENO e MAURIZIO SALVI

Qualcuno ci associa ai New Trolls o agli Ibis: niente di tutto questo. Non rinneghiamo il nostro passato, che ha contribuito a farci crescere, ma il progetto che abbiamo in mente vuol prendere la sua strada. Del resto, neanche noi siamo più quelli di allora, sia anagraficamente, sia nei volti, nelle situazioni e, na-turalmente, nella musica che suoniamo. Resta, però, il desiderio di rivisitare quel periodo, che ha così pro-fondamente segnato la nostra gioventù. Così, abbiamo voluto chiamare questo progetto UT, non solo dal tito-lo dell’album omonimo, nel quale eravamo protagoni-sti come New Trolls. “Ut” è una parola latina: la preposizione che esprime una finalità, un desiderio che noi per primi vorremmo si realizzasse. Ma “Ut” è, allo stesso tempo, la prima nota musicale, il DO della notazione gregoriana: quin-di le radici profonde della musica, il desiderio di riper-correrne le strade, di offrirla a chi vuole fermarsi con noi e riceverne, in cambio, la semplice umanità che è, dopo tutto, quella di cui oggi c’è davvero bisogno. Non per nulla, “Do ut des”, che si può tradurre con “dare e ricevere” è il titolo del nostro ultimo lavoro. Non è qualcosa di imposto, con i suoi tempi stretti, i suoi ritmi che avvolgono e, purtroppo, a volte soffo-cano il nostro essere uomini o donne: abbiamo voluto che l’aspetto “ludico” fosse fondamentale. Crediamo sia indispensabile a far sì che la gente, noi per primi, sia più unita: possono esserci diversità di vedute, però mai tali da portare al litigio. Abbiamo voluto che que-sta fosse la prima “clausola”, se così possiamo chia-marla, del nostro progetto. La pietra angolare su cui costruire, per riassaporare le cose e la musica in primo luogo, per noi che la suoniamo e, naturalmente, anche per chi vorrà ascoltarla e condividerla. Continuiamo a pensare che l’aspetto di “comunione” è quello che più si addica alla musica: non si può suo-nare solo per sé stessi. Se la musica è un linguaggio, cercherà naturalmente le sue risposte e, certamente, le troverà: tante quanti sono quelli che la ascoltano. Il nostro progetto, quindi, si configura come un labo-ratorio: un “work in progress” in cui “Ut”, “Searching for a land”, “Canti d’innocenza – canti d’esperienza” avranno il loro spazio, ma rivisitate, al di là di una band che ha avuto mille vicissitudini, mille nomi, mille facce diverse... perché, alla fine, quello che conta in un gruppo e lo fa esistere è la musica. Noi speriamo che trovi l’istante per toccare il cuore della gente e per restituirci il volto umano di tutti.

GIANNI BELLENO

Nasco a Genova. Inizio a suonare la batteria fin dal-l’età di 12 anni, sull’onda dei numerosi gruppi che fiorivano e si esibivano nelle cantine ed i locali di Ge-nova. Sono tra i primi batteristi italiani ad avere un approccio moderno allo strumento, con una metodolo-gia specifica, ispirandomi ai batteristi dei grandi grup-pi rock tra la fine degli anni '60 e l’inizio dei '70.Con D’Adamo e De Scalzi, nel 1966, fondiamo i New Trolls e, al di là di scioglimenti del gruppo nel corso degli anni, ho comunque fatto parte di band nate dal-l’incontro di elementi fuoriusciti dalla formazione.Come New Trolls realizzo albums fondamentali nella carriera del gruppo, quali i tre Concerti Grossi di L.E. Bacalov, “Searching for a land”, “Aldebaran”, “New Trolls”, “FS” e numerosi altri. Sempre come New Trolls, sotto la denominazione di “Nico, Gianni, Frank e Maurizio” realizzo albums co-me “UT”, "Canti d’Innocenza - Canti d’esperienza". Con i Tritons, riproponevamo cover di gruppi quali i Rolling Stones e, da solista (con lo pseudonimo “Johnny dei Tritons”) incido "Twist and shout" e "Satisfaction".Come autore e compositore collaboro agli album di Ornella Vanoni, Mina, Anna Oxa, Fausto Leali, E-doardo De Crescenzo e molti altri. Partecipo ai nume-rosi festival pop-rock italiani, fra cui Caracalla e Villa Pamphili a Roma. Nel 2009, scrivo anche brani di "Christian Music". Nel 2010, con Di Palo , D’Adamo e De Scalzi, ricostituiamo la formazione originaria dei New Trolls (1966), sotto la denominazione La Leg-genda New Trolls, ma già nel 2011 sfuma la reunion.Nel settembre del 2011, con Maurizio Salvi, apriamo un nuovo capitolo fondando gli Ut New Trolls, per ri-proporre oggi la musica prog, invitando i giovani alla riscoperta di tutte quelle sonorità che hanno avuto tan-to successo all’inizio degli anni '70.Nel 2013, l’attuale formazione degli Ut New Trolls ve-de la partecipazione di Claudio Cinquegrana (chi-tarre/cori) e Fabry Kiareli (basso/ voce solista).La mia formazione musicale è avvenuta nel periodo tra gli anni sessanta ed i primi settanta: un periodo fertilissimo non solo in fatto di produzione musicale,

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ma anche di sviluppo di tutta una serie di gruppi e di musicisti che tuttora fanno scuola. Un nome su tutti: i Beatles (il vero momento di svolta della musica in quel periodo) e, poi, i Rolling Stones (con i New Trolls avevamo aperto, come supporters, il loro concerto a Roma). Se poi ci vogliamo riprendere in mano tutta una serie di brani composti dai New Trolls o da altri gruppi for-mati in seguito alle loro ripetute scissioni, è inevitabile ritrovare tracce di quanto ascoltavamo in quel periodo: Deep Purple, Cream e, in seguito, Bee Gees. Ogni incontro “musicale” è stato per me determinante e non ha mancato di influenzare il mio modo di suonare e di comporre.

Se dovessi ricostruire la storia del mio modo di suo-nare attraverso una serie di flashback negli anni, note-rei subito che da quando ho iniziato (parlo del periodo tra gli anni '60 e '70) le differenze sono abissali. A par-tire dalla quantità e dalle caratteristiche degli elementi dello strumento (e, quindi, dalle sonorità conseguenti).

I New Trolls del Concerto Grosso già si presentavano sul palco con una batteria a doppia cassa, coi fusti ro-vesciati, dalle dimensioni decisamente inusuali rispet-to alla batteria di altri gruppi dell’epoca. Direi che una certa mia creatività, uno spirito d’improvvisazione spesso efficace, hanno contribuito molto a dare alla musica dei New Trolls una identità. La “voglia di fare” ti porta a questo, nel bene e nel male, perché le imper-fezioni non mancavano: errori di gioventù e di entu-siasmo, potrei dire. Oggi dedico diverse ore di studio allo strumento, va-luto quale elemento e quali caratteristiche debba avere per una migliore esecuzione di determinati brani. C’è una cura maggiore, non solo nell’impostazione, ma anche nella scelta di sonorità specifiche. Gli Ut New Trolls oggi non lasciano nulla al caso, anche se lo spazio per l’improvvisazione e la creatività rimane fondamentale: è il segno che la nostra musica è viva.

Quando ho iniziato a suonare la musica era al primo posto. La ripresa di generi quali il Prog resta una scelta coraggiosa: in fondo, si tratta di un settore di nicchia di mercato, se vogliamo considerare questo aspetto.Il live è sempre un’infinita scoperta di emozioni: tu ci sei, il pubblico c’è e siamo l’uno per l’altro in quel preciso momento. E’ uno scambio non solo di musica, ma di sguardi, di gesti che accompagnano il tuo suo-nare. E’ la stessa vita che prende forma di musica dalle

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tue mani e dalla tua voce. Un viaggio che vorresti non finisse mai, anche se sei a pezzi dopo tre ore di con-certo dietro ad uno strumento particolarmente faticoso come la batteria. Niente è “artificiale”: anche eventuali errori o imperfezioni del concerto fanno parte del gio-co, così come fanno parte della vita.A volte penso che ogni esibizione sia una specie di prova d’amore per la musica e per il pubblico: cerco di dare il meglio, sicuro di ricevere in cambio il piacere di vedere gente che è lì per me, felice di starmi a sentire. E, allo stesso tempo, con la consapevolezza di ricevere anche osservazioni o critiche, se le cose non sono andate come il pubblico avrebbe voluto. Scrivere musica, suonare, raccontare e raccontarmi. La mia storia, come quella di ognuno, ha un valore im-menso. In fondo, si tratta sempre di far sì che i tuoi talenti portino frutto, senza sotterrarli da qualche parte, perché non credi nelle tue possibilità. Metto sempre lo stesso entusiasmo in ogni novità, in ogni impresa, grande o piccola, che mi trovo ad affrontare nella mia vita e nel mio lavoro. Il progetto con gli Ut New Trolls al momento mi coinvolge totalmente e voglio dedicargli tutta l’attenzione possibile, perché riesca al meglio. In fondo, la musica è fatta così: vuole il meglio, ma ti permette di dare il meglio di te se è il tuo canale di comunicazione privilegiato. Altri lo fan-no con la pittura, la scrittura, con lo stesso lavoro di tutti i giorni che, se svolto bene, diventa arte a tutti gli effetti. Io continuerò a parlare con la musica su qual-siasi strada mi troverò a camminare. (G.B.)

MAURIZIO SALVI

Nasco a Genova. Incomincio a studiare pianoforte all' età di cinque anni. Le mie basi classiche, il metodo e la precisione accompagneranno tutta la mia produzio-ne musicale, anche quella di stampo più rock.Dalla fine degli anni '60, seguo con profondo interesse il formarsi dei molteplici gruppi musicali nella mia città e in Italia, oltre ai più noti esponenti della musica rock-prog nel mondo. La musica mi impone scelte de-cisive: al momento del mio ingresso nei New Trolls, nel 1970, lascio gli studi (Istituto Nautico di Genova), per dedicarmi completamente alla musica.

Dirotto il mio percorso culturale verso il Conserva-torio della mia città, che orienta in maniera decisiva e metodica la mia formazione. Soprattutto, sono guidato da un profondo interesse per la sperimentazione musi-cale di ogni genere. Nei New Trolls, alle prese con il “Concerto Grosso n°1” di L. E. Bacalov, trovo un gruppo ricettivo all’idea e mi inserisco con tutta natu-ralezza, portando un contributo decisivo anche per le successive produzioni del gruppo (“Searching for a land”, “UT” e "Canti d’Innocenza Canti d’Esperien-za").Collaboro con i “Tritons”, proponendo covers dei Rolling Stones e di altre band. In seguito, Gianni Bel-leno verrà sostituito da Rick Parnell e con questa nuo-va formazione (Salvi-Di Palo-Laugelli e Parnell) na-scono gli Ibis, con cui pubblicheremo “Sun supreme”, interessante percorso musicale verso l’illuminazione.Partecipo, inoltre, ai numerosi festival pop-rock italia-ni, fra cui Caracalla e Villa Panphili.

In quegli anni 72/73, riprendo gli studi classici, pur non rinnegando mai il mio interessante per il validis-simo periodo rock e prog.Oriento i miei studi soprattutto in direzione dell’opera classica, realizzando numerosi midi files ad uso degli amanti del genere. Curo i concerti classici, eseguiti da giovani musicisti. Dirigo, tra l’altro, l’orchestra per i “Concerti Grossi” 1 e 2 di Bacalov, riproposti in ver-

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sione live con “La storia dei New Trolls” e partecipo ad un tour in Giappone e Corea.Come direttore d’orchestra (sono tutt’ora Maestro di Canto Corale al "Conservatorio N. Paganini” di Geno-va) ho collaborato con Luciano Pavarotti e costituisco, nel 1981, l’ensemble vocale “Harmonia”.Dopo aver lasciato la formazione di Vittorio De Scalzi, riprendo il progetto degli Ibis con “Ibis Prog Machi-ne”, con il quale registro, in inglese, una nuova ver-sione del brano “Chi mi può capire”, tratto dall’album New Trolls “UT ”.Nal 2011, con Gianni Belleno, ricostituiamo gli Ut New Trolls. Da parte mia, amo la musica in tutto: nella sofferenza e nel piacere che può dare…

Come poter dare una definizione della musica? Sono in tanti a chiederlo ed è domandare una cosa impossi-bile. Non ci si potrà mai limitare alla "fisicità" mate-matica di note e pentagrammi, alla tecnica che, per quanto perfetta, senza un'anima non riesce a comuni-care altro che suoni, seppur ben eseguiti ed anche gra-devoli.L'anima: credo sia questa la chiave della musica e di ogni cosa che abbia a che fare con l'umano o il tra-scendente. E l'anima è all'origine di ogni comunicazio-ne: parole, colori, musica…e comunicare è, in qualche modo, donare qualcosa di te a chi ti sta davanti, o leg-ge le tue pagine, o ascolta le tue note. In questo senso, la musica diventa comunicazione di vita e, soprattutto oggi, se ne ha estremo bisogno.La musica è la mia compagna da sempre, è stata ed è un mezzo di vita ed una ragione di vita: l'ho esplorata nei suoi meandri più nascosti da solo e insieme ad altri musicisti, perché il confronto e lo scambio mi hanno sempre lasciato con qualcosa in più che, prima, non avevo. Nel bene e nel male.Ho ascoltato sempre prima di suonare. Mi sono emo-zionato all'ascolto di grandi autori come ci si può emo-zionare davanti ai più sublimi spettacoli della natura; ho provato sensazioni uniche e non ho voluto tenerle per me: suonare è anche donare. Saper donare, anche se della musica fai il tuo mestiere.Ma anche tacere al momento giusto, quando le note ti toccano nel profondo e raggiungono certe frequenze che assomigliano all'estasi, la sospensione dell'essere in un istante di infinito, la condivisione unica, totale.Non trovo parola migliore di "comunione": una di-mensione sacrale, in un certo modo liturgica e, allo stesso tempo, estasi di un uomo e una donna al vertice dell'amore. E' il momento in cui le parole vengono meno, perché, come diceva Chopin:"La musica inizia dove finisce la parola".Per comprendere, vivere le più alte emozioni e sensa-zioni bisogna imparare ad ascoltare. E, prima di tutto, a lasciare il giusto spazio anche al silenzio. (M.S.)

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Immagini dal concerto degli Ut New Trolls del 17 maggio 2013. Ospite Elisabetta Garetti (Primo Violino al Teatro Carlo Felice di Genova).

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