Il ciàncol e i mandarini di Santa Lucia

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CLASSE: 1 /\ G ISTITUTO COMPRENSIVO DI LENO SCUOLA SECONDARIA DI PRJMO GRADO ,e e Una ricerca/confronto sulla vita dei ragazzi della campagna lenese di cinquanta e oltre anni fa MATERIA: STORIA PROF. GIULIANA ROBAZZI ANNO SCOLASTICO 2014 - 2015 IDEAZIONE ED ELABORAZIONE DEL PROGETTO: DOTT. CARLO AGAROTTI

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Una ricerca confronto sulla vita della gente della campagna lenese di cinquanta e oltre anni fa. Progetto didattico condotto dalla prof. Giuliana Robazzi con la classe 1^ G dell'Istituto Comprensivo di Leno, Scuola Secondaria di primo grado

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CLASSE: 1 /\ G

ISTITUTO COMPRENSIVO DI LENO SCUOLA SECONDARIA DI PRJMO GRADO

,e e

Una ricerca/confronto sulla vita dei ragazzi della campagna lenese di cinquanta e oltre anni fa

MATERIA: STORIA PROF. GIULIANA ROBAZZI ANNO SCOLASTICO 2014 - 2015

IDEAZIONE ED ELABORAZIONE DEL PROGETTO: DOTT. CARLO AGAROTTI

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PROGETTO ARCHIVIO DI STORIA LOCALE

"EXPO 2015"

RICERCA SUL TERRITORIO: L'INTERVISTA

Premessa Il confronto con altre realtà e altri vissuti diversi dal proprio è uno dei fattori che contribuiscono alla crescita dell'allievo portandolo ad evolversi e a migliorarsi. Inoltre, la conoscenza acquisita in questo modo rappresenta un indubbio incremento del suo sapere ed un sicuro miglioramento della sua cultura generale. Per raggiungere tale obiettivo si deve preventivamente operare una scelta fra le diverse opzioni che si possono presentare e quindi fare in modo di individuare quale possa essere il·· termine di paragone più adatto ed utile per raggiungere lo scopo prefissato. E' consigliabile, in ogni caso, evitare i confronti con realtà troppo lontane nel tempo e nello spazio mentre, al contrario, si dovrà aver cura di ricercare gli esempi che, per diversi aspetti, appaiono più stimolanti e più accessibili e che, quindi, permettono un migliore approfondimento delle varie tematiche. Viene facile, a questo punto, indirizzarsi sulla conoscenza della storia, degli usi e dei costumi inerenti il territorio in cui si vive e relativi al passato della gente che tuttora vi risiede. Dal punto di vista della materia insegnata, la storia, appare chiaro che dalla conoscenza, non soltanto libresca bensì diretta, del proprio territorio e della sua lenta formazione, si passi, in seguito, per accostamenti e paragoni, al sedimentarsi del territorio nazionale, quindi del continente europeo e, infine, del Mondo. Se si tiene conto degli epocali cambiamenti che sono intervenuti a partire dalla fine degli anni '50 del secolo scorso nella società, e nei comportamenti individuali, all'interno del territorio in cui gli studenti vivono, si comprende facilmente quanto possa essere stimolante procedere ad uno studio, ed eventualmente ad una comparazione con !'attuale, del periodo storico che lo ha preceduto che, pur ancora relativamente vicino nel tempo, risulta ormai remoto in ordine a costumi e comportamenti. Inoltre non si può ignorare che, in ogni caso, tracce consistenti di quel passato tuttora persistono nel!' architettura, negli attrezzi e nelle cose del territorio così come negli usi e nei quotidiani comportamenti della gente. Questo tipo di ricerca, per il fatto di svolgersi in un ambito territoriale omogeneo e non troppo vasto, offre il vantaggio di non presentare eccessive difficoltà di reperimento dei dati indispensabili mentre la possibilità di poter parlare direttamente con chi ha conosciuto il periodo storico in questione, per averlo direttamente vissuto, permette di attingere ad una preziosa fonte d'informazione diretta, difficilmente riscontrabile in altri studi e ricerche sul passato. Non bisogna poi dimenticare che essa racchiude in sé un fattore di sicuro stimolo come il cqnfronto con il mondo particolare, il modo di fare e di pensare e i comportamenti dei padri o dei nonni rispetto ai propri e quindi potrebbe stimolare la discussione anche in ambito familiare. Perché la ricerca sia anche formativa oltre che informativa è importante che lo studente si senta direttamente coinvolto per cui è indispensabile che il suo ruolo non risulti passivo ma, al contrario, egli dovrà avere la sensazione di essere un protagonista nell'ambito dell'indagine. In questo modo, secondo i dettami della didattica più avanzata, egli verrà sollecitato ad una fruizione che diventa capacità produttiva personale. Lo studente, trasformatosi per l'occasione in ricercatore di storia, di geografia economica e di etnografia, indaga ed agisce nei confronti di persone che siano chiaramente attendibili, abbiano una buona memoria del periodo in esame e sappiano esporre in modo lucido e comprensibile i propri ricordi. Le persone intervistate sono scelte direttamente dagli allievi nel rispetto dei requisiti proposti: essere nate nella prima metà del '900 ed aver vissuto l'infanzia e l'adolescenza nel territorio.

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QUESTIONARIO

I) In che anno è nato/a?

2) Sesso maschile o femminile?

3) Di quante persone era composta la sua famiglia?

4) Ha vissuto in cascina?

5) Di quante stanze era composta la sua prima abitazione?

6) Quali erano e com'erano i servizi igienici?

7) Qual era la sua colazione tipo?

8) Quali erano gli alimenti maggiormente presenti sulla sua tavola a pranzo?

9) Faceva la merenda? Se sì, con cosa?

1 O) La cena in che cosa consisteva?

11) Cosa si mangiava la domenica? E nelle feste religiose più importanti (Pasqua, Natale ecc.)? /

12) Oltre a ciò che veniva acquistato in danaro, quali alimenti avevano altra provenienza (orto,

allevamento animali, caccia, raccolta erbe commestibili o funghi)?

13) Può aggiungere qualche notizia circa il reperimento degli alimenti di altra provenienza?

14) Com'era la scuola? Era distante dalla sua casa? Come vi si recava?

15) Com'erano gli insegnanti?

16) Quali erano i suoi giochi da bambino?

17) Quali erano i giochi dei bambini dell'altro sesso?

18) Quali erano i suoi doni di Santa Lucia?

19) I suoi genitori erano severi oppure accontentavano i suoi desideri infantili?

20) Erano facili a perdonare le sue marachelle o ricorrevano alle punizioni? Se sì quali?

21) Le compravano facilmente dei giocattoli?

22) Da piccolo era libero di giocare quanto voleva oppure doveva assolvere ad altri compiti?

23) Possedeva qualche animale da compagnia?

24) La sua famiglia allevava il maiale o animali da cortile come galline, oche ecc.?

25) A quale età ha cominciato a lavorare?

26) Qual è stata la sua prima professione?

27) Di quante ore era il lavoro giornaliero?

28) Possedeva pochi o molti capi di abbigliamento? Quali?

29) Frequentava ambienti religiosi? Quali?

30) Gli adulti avevano tempo libero? Come lo passavano?

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ELABORAZIONE DELLE RISPOSTE

Si è cercato di ridurre al minimo i problemi che gli esordienti intervistatori, undicenni, avrebbero potuto trovare sul loro cammino fornendo loro un questionario semplice che prevedeva risposte altrettanto facili. Inoltre la scelta delle persone da intervistare è stata lasciata ad essi perché, rivolgendosi a parenti o ad altre persone di loro conoscenza, la presumibile buona disposizione di questi avrebbe evitato il possibile sorgere di incomprensioni o fraintendimenti. Le limitazioni a cui i ragazzi dovevano attenersi hanno riguardato soltanto l'età e l'aver vissuto nel territorio. Si tratta quindi di un campione la cui composizione risulta puramente casuale. Tuttavia, trattandosi di persone appartenenti tutte ad età sufficientemente elevate (da anni 66 ad anni 89), viventi in un ambito territoriale ristretto e rispondenti a domande riguardanti soltanto una parte non lunga della loro vita passata, si può giudicare il risultato ottenuto piuttosto attendibile e reputare raggiunto l'obiettivo proposto. Sono state intervistate 23 persone, delle quali viene mantenuto l'anonimato, a fronte di 21 allievi (evidentemente due di essi hanno lavorato il doppio). Il numero delle donne interpellate (16) rispetto agli uomini (7) risulta fin troppo in linea con la regola demografica che prevede ovunque un numero di femmine superiore a quello dei maschi nelle classi di età più elevate.

L'ambiente di vita Domande - Di quante persone era composta la sua famiglia? - Ha vissuto in cascina? - Di quante stanze era composta la sua prima abitazione? - Quali erano e com'erano i servizi igienici? - Possedeva pochi o molti capi di abbigliamento? Quali? - Frequentava ambienti religiosi? Quali?

Dati raccolti Nel periodo di tempo considerato, i rapporti fra le persone erano improntati a chiarezza e semplicità. Ognuno occupava il posto che gli spettava nella società e difficilmente derogava dal suo ruolo per cui le famiglie, pur nella diffusa povertà, risultavano unite ed erano ricche soprattutto di figli. Ben otto fra le persone intervistate affermano di provenire da famiglie formate da un numero di componenti superiore alla decina. Soltanto tre ne contavano meno di cinque mentre, per quanto

. concerne la rimanente dozzina, il numero dei familiari varia dai cinque ai nove. Stranamente non vengono ricordati i nonni o gli zii celibi o nubili (putti) che continuavano a vivere all'interno della famiglia non avendo altra possibilità per l'estrema, generale ristrettezza di mezzi e la mancanza di strutture apposite (case di riposo). ' Gran parte della popolazione viveva sparsa sul territorio e non si concentrava nei centri abitati più cospicui che pure non mancavano. Ben 16 su un totale di 23 intervistati hanno dichiarato di aver vissuto in cascina i loro primi anni di vita. I bambini, dopo essere stati a scuola o aver assolto a mansioni adatte alla loro età, potevano ritrovarsi per giocare insieme (erano sempre in tanti) sia nella cascina che nella campagna circostante oppure nella piazza del paese. Potevano lasciare liberamente correre la loro fantasia divertendosi e inventando giochi e situazioni con qualsiasi cosa incontrassero sul loro cammino. Essi facevano le loro prime esperienze in lID ambiente naturale non ancora impoverito, nella sua ricchezza di varietà, dalla cultura intensiva che verrà in seguito, e che si rivelava sempre ricco di sorprese. Il padre, il cui compito principale era il mantenimento della numerosa famiglia, abitava, insieme a moglie e figli, vicino al luogo di lavoro, generalmente nella cascina, nell'abitazione, considerata parte del salario, concessagli dal proprietario dell'azienda di cui era dipendente. Le case dei dipendenti agricoli (salariati) non differivano molto le une dalle altre nella loro sostanzialità. L'abitazione, non rappresentando altro che una spesa per il datore di lavoro, non si

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presentava quasi mai comoda e confortevole. Si potrebbe dire, eufemisticamente, che seguiva i criteri di semplicità ed essenziàlità sedimentati dal tempo. Generalmente, come riporta Fabiana Di Martino: era composta da una cucina grande, due camere e due granai (solai). I mobili erano pochi e si tenevano solo gli indispensabili. In inverno ci si riscaldava con il fuoco acceso nel camino che serviva anche per cucinare i cibi. Bagni e gabinetti non esistevano all'interno delle case. Alessia Di Bello scrive che: i servizi igienici non c'erano perché andavamo ai servizi nell'aia che era un bagno [una turca] dove tutti quelli che abitavano in cascina usavano. Per le emergenze notturne si ricorreva al vaso da notte (bocàl). Ciononostante le persone apparivano pulite ed ordinate. Gli uomini di solito si presentavano sbarbati di fresco, con i capelli corti e in ordine e, mentre le donne giovani non maritate si pettinavano nel modo detto "alla verginella", le anziane si facevano lunghe trecce che attorcigliavano sulla nuca. Poteva capitare che la gente indossasse capi di abbigliamento rattoppati a causa della perenne scarsità di risorse ma gli indumenti erano sempre lindi e sapevano di bucato fatto con la parte più bianca della cenere. Curavano, quindi, l'abbigliamento ed anche il corpo e tenevano molto all'igiene e al decoro personale soprattutto per il rispetto che avevano nel confronto dei loro interlocutori. D'altra parte, costretti a vivere in ristrettezze economiche, non ci si potevano certo permettere molti capi di abbigliamento. Pietro Trainini, che ha intervistato un signore, riporta che egli possedeva due vestiti: uno della festa e uno di tutti i giorni con sempre indosso anche a mangiare. La signora interpellata da Alessia Di Bello dichiara'. possedevo pochi capi di abbigliamento, avevo il necessario. Il capo di tutti i giorni e il capo che si usava solo la domenica. A questi due capi Rebecca Leoni aggiunge: ai piedi degli zoccoli di legno. A conferma di questa affermazione si può citare il titolo del film del regista bergamasco Ermanno Olmi "L'albero degli zoccoli" che ha affrontato, con grande maestria, la medesima tematica di questa indagine. Si può, inoltre, aggiungere che bambini e ragazzi, quando non erano a scuola o in chiesa, a partire da Pasqua fino ai primi freddi autunnali, camminavano sempre scalzi. La religione cristiana aveva un peso preponderante nella vita di un tempo e i suoi esponenti (preti, frati e monache) erano tenuti in alta considerazione fors' anche perché, in assenza di servizi sociali adeguati, erano i primi a cui rivolgersi in caso di disgrazie o di estremo bisogno. L'intervistata da Alice Zinetti afferma: frequentavo la chiesa di Lena, andavo a catechismo e al! 'azione cattolica. Così come quella di Simone Moreschi: frequentava tantissimo gli ambienti religiosi mentre il signore che ha colloquiato con Ferhane Hamza ricorda che: pregavano in casa tutti insieme.

L'alimentazione Domande - Qual era la sua colazione tipo? - Quali erano gli alimenti maggiormente presenti sulla sua tavola a pranzo? - Faceva la merenda? Se sì, con cosa? - La cena in che cosa consisteva? - Cosa si mangiava la domenica? E nelle feste religiose più importanti (Pasqua, Natale ecc.)? - Oltre a ciò che veniva acquistato in danaro, quali alimenti avevano altra provenienza (orto, allevamento animali, caccia, raccolta erbe commestibili o funghi)? - Può aggiungere qualche notizia circa il reperimento degli alimenti di altra provenienza? - La sua famiglia allevava il maiale o animali da cortile come galline, oche ecc.?

Dati raccolti Tra le cause di precoce invecchiamento che portavano i sessanta/settantenni a dimostrare tm'età molto avanzata e, quindi, in pochi anni, ad una morte che, agli occhi di oggi, può senz'altro apparire prematura, va ricordata l'alimentazione che si presentava scarsa e poco equilibrata. Già il mattino, dopo essersi lavati e vestiti, i ragazzi consumavano una colazione che pareva monotona e insufficiente e che non si è mai potuta distinguere in prima e seconda come avviene in altri contesti.

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La maggior parte degli intervistati dichiara di aver mangiato soprattutto latte caldo che veniva dato come parte del salario nella misura di un litro giornaliero per ogni dipendente, e polenta del giorno prima, contenuti in una scodella di maiolica. Qualcuno aggiunge la variante della minestra avanzata dalla cena, del pan biscotto oppure un uovo, forse sbattuto. Il pranzo era il pasto principale della giornata. Quando c'era: il pane era nero afferma la signora intervistata da Emma Elesbani. In ogni caso, a mezzogiorno, in tutte le case troneggiava sul tagliere una fumante polenta gialla di mais che le massaie rurali si ingegnavano in ogni modo per potere accompagnare degnamente con alimenti la cui varietà e quantità erano pari alla loro sagacia nel reperirli. L'intervistata da Fabiana Di Martino afferma che: gli alimenti presenti a pranzo erano polenta, verdura colta nell'orto e un po' di formaggio e bevevamo l'acqua della fontana. Varianti erano costituite da uova, intingoli (pocio o tocio) con fagioli, carote, patate o piselli, arricchiti, talvolta, con le budella ben ripulite di gallina o altre interiora e zampe appartenenti sempre ad animali da cortile. Durante la stagione invernale, dopo il periodo della macellazione del maiale, era questo generoso animale che forniva qualche po' di carne e di grasso mentre quella di manzo appariva alquanto raramente sui poveri deschi dei contadini a meno che qualche animale azzoppato, ammalato o non più in grado di servire allo scopo per il quale era allevato venisse abbattuto e la sua carne venduta a prezzo d'occasione. Nel pomeriggio, di ritorno dalla scuola, alcuni ragazzi trovavano pronta la merenda. Dalla ricerca risulta che non la facevano mai tre degli intervistati mentre per un paio era una cosa saltuaria. La signora che ha risposto alle domande di Michele Manfredini dichiara anche alcune varianti: rosolàda (uovo sbattuto con lo zucchero), bertuldina (sorta di dolce semplice fatto con uova, zucchero e farina di grano tenero), in estate pesche o prugne, anche uva e meloni, pane e salame. Altre due varianti sono ricordate dagli intervistati da Gloria Famulari: pane raffermo, bagnato in acqua con dello zucchero sopra e da Federica Francio: polenta arrostita con burro e zucchero. Giunta la sera, fra le ore sei e le sette, tutta la famiglia si riuniva per la cena. Il piatto principale della sera era la minestra, che alcuni definivano "la biada dell'uomo" che, generalmente, era fatta con poco condimento, fagioli e patate mentre, per la signora interpellata da Federica Francio, che forse aveva qualche possibilità in più, c'erano: minestra di verdura o con brodo di carne, formaggi e verdure. Forse se la passava peggio il signore-intervistato da Pietro Trainini che dichiara di cenare con latte allungato con acqua e caffè d'Olanda (un surrogato). La domenica era giorno di festa e sul povero desco appariva qualcosa in più del solito come conferma l'intervistata da Fabiana Di Martino: la domenica certe volte si mangiava il pollo, salame e tutti animali che si allevavano in cascina. E così anche la signora interpellata da Emma Elesbani: carne e, se e 'era, un bicchiere di vino. Qualcuno assaporava anche un dolcetto come dichiarato nell'intervista di Alessia Di Bello: la mia mamma la domenica mi faceva sempre il budino con i biscotti, con gli animaletti della Colussi. Sarcastica, invece, la risposta raccolta da Michele Manfredini sul pranzo della domenica nel corso del quale: si mangiava come tutti i giorni cioè poco. Le grandi feste religiose e i pranzi di nozze costituivano delle eccezioni rispetto al solito tran tran. Era il momento in cui le persone potevano finalmente riempirsi ben bene lo stomaco come spiega la signora intervistata da Federica Francio che descrive un menu servito in questi rari appuntamenti culinari che appare fin troppo ricco: alla vigilia di Natale i tortelli con la zucca, formaggi, marmellate cotognate e anguilla salmistrata [forse marinata?]. A Natale brodo di gallina con tortellini fatti in casa, gallina lessa e carne di manzo, salame lesso, cotechino e formaggi. A Pasqua bollito di carne, tortellini in brodo e coniglio al forno con polenta. AI termine, come racconta nella sua intervista Alice Zinetti: la torta che faceva la mia mamma nelle jèste. Con la signora scelta da Fabiana Di Martino sembra invece di tornare più alla normalità: a Natale si mangiavano casoncel/i con la zucca fatti in casa ed un pezzettino di torrone, quando c'era. A Pasqua di solito la gallina con il riso. Erano tempi di economia stretta e non si sprecava né si buttava niente di ciò che ci si procurava per alimento. Innanzitutto si cercava di non spendere perché, si diceva, il .primo .guadagno è il

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risparmio. Ecco perché la signora interpellata da Alice Zinetti può tranquillamente affermare: la mia famiglia non acquistava niente, proveniva tutto da noi e dal nostro orto o dai nostri animali da cascina. Si allevavano galline, faraone, oche, anatre e perfino porcellini d'India che venivano tranquillamente consumati oltre al normale suino che ogni famiglia possedeva. In tempi di scarsa alimentazione bisognava procurarsi qualche vettovaglia anche al!' esterno delle mura della cascina. Come racconta la signora intervistata da Nicola Zanelli: venivano raccolti frutti selvatici o erbe dai campi "gregn6s [varietà di tarassaco invernale], redécc [tarassaco] e paciiich [acetosell§L]". Queste erbe, come ricorda la signora che ha risposto alle domande di Alessia Di Bello: la mia mamma le puliva, le cuoceva e le metteva nei vasi sott'aceto con un po' di acqua e di zucchero e, d'inverno, era la verdura che mangiavamo solitamente. La signora che è stata a colloquio con Simone Moreschi ricorda che i suoi familiari: andavano a caccia. Probabilmente di fringuelli, tortore, passeri, merli, pettirossi, starne, fagiani e lepri. Invece quelli della "simpatica coppia sposata", come l'ha definita Gloria Famulari: andavano a pescare bòze [ghiozzo] e rane nei fossi o fiumi. Non mancava mai la solidarietà nei confronti di chi aveva più bisogno come ammette il signore, che risponde ad Andrea Man enti, il quale riceveva: un aiuto di latte dai parenti. Si respirava un'aria di grande libertà. Le consuetudini permettevano che, dopo il raccolto chiunque potesse entrare nei campi a spigolare ciò che era rimasto sul terreno. La legna che si seccava sugli alberi, lungo le rive dei fossi, era di chiunque la raccogliesse e così le erbe commestibili e i funghi. I divieti, le proibizioni e le norme restrittive emanate da chi sembra, talvolta, considerare la campagna un'appendice verde della città, rappresentano una novità di questi ultimi decenni ed, in quei tempi di grande bisogno, sarebbero sembrate inconcepibili. Oltre alla casa, compresi nel salario, erano un orticello e una minuscola costruzione su due piani che, da basso, ospitava il maiale (porcile) e, sopra di esso, le galline (pollaio). Il suino che veniva nutrito con lavatura di piatti (non si usavano e neppure esistevano detersivi chimici) e ogni altra cosa commestibile, diventando adulto in poco meno di un anno, poteva essere macellato al giungere dei primi freddi. Quel giorno era una festa del!' abbondanza, perché veniva costituita una riserva di carne conservata (insaccati) e di grasso per la cottura dei cibi, che doveva durare per tutto l'anno.

L'istruzione Domande - Com'era la scuola? Era distante dalla sua casa? Come vi si recava? - Com'erano gli insegnanti?

Dati raccolti La scuola aveva norme più severe di quelle di adesso. Da casa mia era distante ben 2 Km e mi ci recavo con le mie amiche e i miei fratelli a piedi perché non avevamo nemmeno le biciclette e quando faceva freddo scivolavamo lungo il ghiaccio che si creava sul terreno per arrivare prima. Questa la testimonianza raccolta da Alice Zinetti. Non è molto diverso il ricordo di un'allieva, ora settantenne, raccolto da Fabiana Di Martino: la scuola era composta da classi di femmine e di maschi. Avevo la cartella di cartone, si portava la divisa [grembiule nero per le femmine e blusa, sempre nera, per i maschi, entrambi con colletto bianco] con fiocco azzurro o rosa. [La scuola] era distante poco più di tre chilometri. Andavo a piedi e qualche volta mi accompagnava il mio papà con il carretto. La signora intervistata da Nicola Zanelli rammenta che: i banchi erano di legno con un buco dove era inserito il colore (inchiostro) per scrivere. Per favorire la pubblica istruzione, presso le cascine più grandi erano state costruite delle piccole scuole elementari. Uno di questi edifici, ora passato ad altro uso, si può ancora vedere lungo la strada Leno-Calvisano nei pressi della cascina Pluda. In questi plessi, secondo quanto riportato da Rebecca Leoni: a scuola le classi F', IF' e !IP' erano ammucchiate in un 'unica stanza. C'era una sola maestra per tutti che era davvero severa. In un altro di questi, come ricorda la signora interpellata da Serena Rusu: c'erano pochi bambini, di solito jàcevano le classi con diverse età, c'erano due o tre bambini in una classe, due o tre in un 'altra e c'era solo un insegnante che insegnava tutte le materie.

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Gli insegnanti vengono ricordati più per il loro comportamento nei confronti degli allievi che per le capacità didattiche o le doti umane. Di conseguenza, fra gli intervistati, il giudizio sulla severità nei rapporti con i ragazzi è quasi unanime forse perché s'impone il confronto con la realtà attuale che appare di ben altro segno. Nel ricordo raccolto da Michele Manfredini risulta che l'intervistata: non aveva nessun insegnante preferito. La insegnante elementare faceva le differenze e non era simpatica e severa. Alessia Di Bello riporta un'altra testimonianza: di insegnanti ne avevamo solo uno. Allora per i primi due anni ho avuto un 'insegnante anziana brava, ma molto severa, mentre gli altri tre anni ho avuto una maestra fresca di diploma con il suo primo insegnamento, dove ho ancora un bellissimo ricordo. Altri giudizi poco lusinghieri sugli insegnanti vengono riportati rispettivamente da Serena Rusu: erano severi ed esigenti, da Singh Gaurav: erano severi e violenti e da Simone Moreschi: erano cattivi "mìa de rìder" [si tratta di una forma dialettale di superlativo del!' aggettivo]. Per Nicola Zauelli e Andrea Manenti gli insegnanti tenevano la disciplina facendo costante uso della stròpa [in genere di salice, era una sottile verga di legno flessibile] mentre altre punizioni corporali sono ricordate da Pietro Trainini: erano severissimi e picchiavano con una bacchetta che davano sulle mani e così anche Emma Elesbani: ogni tanto gli davano le sberle e usavano la bacchetta sulle mani. La bacchetta rigida di legno veniva picchiata sul palmo disteso delle mani. In ogni caso non bisogna meravigliarsi eccessivamente del ricorso alle punizioni corporali nelle scuole come metodo disciplinare e didattico perché, nel passato, risultava in uso in gran parte degli stati europei e, in alcuni di essi, è stato abbandonato soltanto da qualche decennio. Inoltre, talvolta, erano i genitori stessi, che lo condividevano in toto, a persuadere gli insegnanti a non lesinare i loro interventi maneschi. Infine, e fuori dal coro, si collocano le testimonianze riportate da Michele Manfredini: erano severi ma bravi e non facevano le differenze, da Singh Anmol: i maestri erano bravi, da Nicole Penna: gli insegnanti erano severi ma giusti e da Asia Piemonti: gli insegnanti erano buoni e pazienti. In ogni caso la gente considerava la scuola un'istituzione seria e rigorosa dove ognuno svolgeva al meglio il proprio dovere. Come nel resto della società ognuno aveva un suo ruolo ben definito: al dirigente scolastico spettava l'organizzazione e la direzione della scuola, oltre al controllo del lavoro degli insegnanti i quali, dal canto loro, si preoccupavano di fornire agli allievi le conoscenzè utili per il loro domani impegnandosi a svolgere per intero i progrannni ministeriali mentre i bidelli tenevano lindo e in ordine l'edificio. Di conseguenza, anche per il fatto di collocarsi al di sopra di correnti di pensiero o di ideologie che li avrebbero, probabilmente, distratti dai propri compiti e resi meno imparziali, gli insegnanti erano da tutti stimati e rispettati.

Tempo libero - giochi Domande - Quali erano i suoi giochi da bambino? - Quali erano i giochi dei bambini dell'altro sesso? - Possedeva qualche animale da compagnia? - Gli adulti avevano tempo libero? Come lo passavano?

Dati raccolti Il figlio del contadino, professione esercitata dalla maggior parte degli abitanti della pianura Padana almeno fino alla prima metà del '900, stante la situazione di diffusa povertà, sapeva di dover contribuire al proprio mantenimento, fornendo un certo apporto, piccolo o grande che fosse, alla sua famiglia. Dopo la scuola, o la messa, e la dottrina domenicale, ovvero dopo aver adempiuto ai propri doveri nei confronti dei poteri civile e religioso, egli doveva concorrere alla vita della propria famiglia, con incombenze adatte alla sua età (raccogliere la legna secca per il camino, l'erba e i rametti di salice per i conigli, le ortiche per oche e anatre ecc.). Solo allora poteva sentirsi libero di riunirsi con i suoi coetanei e, insieme ad essi, scaricare la propria gioia di vivere dando sfogo alla prorompente carica di energia vitale che ogni giovane organismo ha dentro di sé.

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I giochi delle bambine erano consoni alla loro natura femminile perché, secondo il costume del tempo, sarebbero dovute diventate madri di una numerosa figliolanza. Di conseguenza, fin da piccole, dovevano prepararsi a diventare abili e parsimoniose donne di casa, in grado di allevare ed educare bravi figlioli. Oltre a giocare la mia mamma mi ha insegnato fin da piccola a cucire è la testimonianza raccolta da Alessia Di Bello e Nicola Zanelli riporta che: da piccola nel tempo libero doveva assolvere ad altri compiti, accudiva le caprette, dava da mangiare a conigli e galline. Stante la situazione di indigenza che si respirava ovunque, da brave massaie rurali, esse avrebbero dovuto fare in modo di non sprecare le diuturne fatiche del marito, l'unico a portare a casa qualche soldo trovandosi, impegnato, ogni giorno, in un duro lavoro manuale. Ricorda la signora intervistata da Alice Zinetti: noi bambine avevamo bambole di stoffa. A me le faceva mia nonna. La ste~sa cosa viene riportata da Emma Elesbani, da Pietro Trainini, da Andrea Manenti, da ,S,ingh Gaurav, da Simone Moreschi, da Rebecca Leoni, Fabiana Di Martino, Lorenzo Camisani, Ferhane Hamza e Aminata Ndao. Una variante è riportata da Gloria Famulari: le bambole le faceva la mia mamma con foglie di pannocchie [del mais] arrotolate a pallina. Facevano la testa e poi cucivano i vestiti. C'erano poi altri giochi femminili a cui ci si poteva dedicare con i coetanei ma solo dopo aver aiutato la madre nelle piccole faccende domestiche o badato ai fratellini più giovani. Questo è il ricordo raccolto da Alessia Di Bello: i miei giochi da bambina erano di legno, come un dondolo fatto dal mio papà, poi i giochi erano specialmente di gruppo perché abitavamo in cascina, tipo nascondino, a palla oppure facevamo i giochi dei salti [circensi] oppure con i noccioli di pesca, ma, più che altro, erano giochi di fantasia, sull'altalena, con le bambole. Michele Manfredini e Gloria Famulari ricordano un gioco detto "mondo" o "ciàpa" (dal pezzo di coccio che veniva lanciato nelle caselle numerate, tracciate per terra), che, probabilmente, si rifà allo zodiaco e alle previsioni per il futuro. Dovrebbe trattarsi di una sorta di rito piuttosto antico, declassato a gioco per bambini dopo la diffusione del cristianesimo. In italiano è conosciuto come "campana" per la forma del tracciato disegnato per terra mentre presso i bambini francesi è conosciuto come "jeu de marelle''. I maschi, come ricorda Serena Rusu: giocavano insieme e tanti giochi li inventavano loro. Ciò accadeva anche sul momento, tanti erano gli splmti che venivano da una vita libera, passata, in gran parte, in totale immersione nella natura, tra i fossi, le rive, i campi, gli alberi, gli animaletti selvatici, gli uccelli, gli insetti ecc .. Essi si dissetavano alle risorgive, pescavano infilzando i pesciolini con la forchetta poi si arrampicavano sugli alberi come scimmie per prelevare gli uccellini implumi dal nido o per rubare la frutta ancora acerba. Gareggiavano in competizione fra di loro correndo e saltando i fossi e, quando incontravano gruppi di coetanei provenienti da altre zone, dando sfogo a tutta la loro aggressività maschile, si azzuffavano per difendere dagli estranei il territorio in cui erano abituati a scorazzare. A volte si ricorreva alla fionda, ricordata da Fabiana Di Martino e da Michele Manfredini, con cui, in genere, si cercava di colpire gli uccelli al volo, ma, alla fine, neppure in queste zuffe di gruppo, nessuno riportava mai serie conseguenze.' Andrea Manenti nomina, fra i giochi dei maschi, il ciàncol: un pezzo di legno con due punte rastremate che veniva colpito e lanciato lontano con una sorta di mazza di legno. In italiano è conosciuto come lippa ed è strettamente imparentato con il gioco americano del baseball, dove, però, è sostituito da una palletta dura. Si può immaginare che i due giochi abbiano avuto un antenato in comune. Il ciàncol è ricordato anche da Nicola Zanelli e da Federica Francio. Rammenta la signora intervistata da Alice Zinetti, che: i maschi avevano delle palle di stracci ovviamente fabbricate in casa con degli scarti, così come i cavallini di legno della testimonianza raccolta da Simone Moreschi o: il carrettino che uno si sdraiava e l'altro lo tirava riportato da Fabiana Di Martino. La signora interpellata da Gloria Famulari riporta altri giochi poveri ma con cui i ragazzi si divertivano molto: facevano delle piste e con delle scodelline le fingevano macchine. "Barbanzè ": un fil di ferro che si metteva [lanciava] sopra una montagnetta [di terra o sabbia] e si

faceva cadere dritto e lo shangai. Ogggigiorno parecchie famiglie possiedono animali che tengono in casa per proprio diletto. Nel periodo che riguarda questa ricerca non si parlava di pet, termine inglese per definire gli animali.da

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compagnia, o di cani da grembo se non presso le signore altolocate, le quali, peraltro, li usavano in inverno quando erano sedute nel loro salotto per godere del tepore emanato dall'animale. Dalle interviste emerge che sette delle persone interpellate possedevano un cane, quattro un gatto e sette entrambi gli animali. Le rimanenti non ne tenevano alcuno. Allevare animali non commestibili era considerato un lusso a meno che, come afferma la signora a cui si è rivolta Gloria Famulari: si tenesse un cane per la guardia e un gatto per i topi. In tempi di ristrettezze economiche come quelli di cui si tratta in questa indagine, qualsiasi animale doveva fornire qualcosa in cambio del suo mantenimento. Gli animali da cortile davano la loro carne, il gatto doveva cacciare i topi mentre i cani si dividevano fra quelli da guardia e da caccia ed entrambi dovevano adempiere ai propri compiti in favore del padrone. Certamente, col tempo, ci si affezionava a questi animali pur continuando a mantenerli, in mancanza di meglio, con gli scarti della tavola ma il principio generale non era messo in discussione. Il concetto di tempo libero da dedicare a se stessi non esisteva in quei tempi fra la gente di campagna. Soltanto di domenica e in occasione di feste religiose infrasettimanali non si lavorava. Delle solennità civili pochi se né interessavano e la gente ne approfittava per sbrigare le faccende che aveva dovuto rimandare per mancanza di tempo. La testimonianza raccolta da Alessia Di Bello fa riferimento alle festività religiose, durante le quali, dopo aver assolto ai propri doveri verso la divinità, i contadini potevano alzare un po' la testa: il tempo e 'era sì e no e se poteva mio papà andava al bar [l'osteria] a giocare a carte e a bere un bicchiere di vino, ed era il passatempo di molti campagnoli. Poi il mio papà facev6. il mandriano e quindi lavorava anche di domenica. La mia mamma stava sempre in casa e quindi la sua vita l'ha vissuta per noi perché, una volta, le donne stavano a casa e non uscivano con il marito. Soltanto i giovani non sposati, che dopo aver frequentato la scuola elementare erano entrati nel mondo del lavoro, potevano dedicarsi, dopo la fatica quotidiana, a cose considerate più frivole come, ad esempio, mascherarsi nel periodo di carnevale, girovagando di notte fra le cascine contraffacendo la voce per non essere riconosciuti. Oppure intagliare una zucca non commestibile per riprodurne una sorta di teschio da sistemare al buio, il giorno dei Morti, con un lumino acceso all'interno, per spaventare la gente che si azzardava ad uscire di casa. Un'antichissima tradizione diffusa in tutta l'Europa già celtica che, portata dagli emigranti in America, si è, poi, trasformata in una sorta di carnevale consumistico dell'horror (Halloween). Nelle lunghe sere invernali quando, di giorno, il lavoro diminuiva e le giornate erano corte e fredde: per scaldarsi si andava nella stalla, da piccoli si giocava, gli adulti [le donne] lavoravano a maglia così ricorda quei tempi la signora intervistata da Nicole Penna. Mentre gli uomini conversavano tra di loro con amabilità ed arguzia e le donne non tralasciavano, neppure per un istante, il lavoro che avevano portato con sé da casa, si poteva notare la presenza di qualche personaggio fuori dal comune, anch'egli un contadino, che, nel suo piccolo, si sarebbe potuto definire artista. Costui inventava giochi e burle, recitava filastrocche oppure raccontava lunghe storie intriganti e misteriose, che facevano trattenere il fiato ai bambini, perché duravano anche parecchie sere prima di giungere alla felice e fatale conclusione. Questi affabulatori verranno sostituiti, di fatto, dal nuovo, inedito raccontastorie che sarebbe arrivato dopo qualche anno: la televisione.

Rapporti con i genitori Domande - Quali erano i suoi doni di Santa Lucia? - I suoi genitori erano severi oppure accontentavano i suoi desideri infantili? - Erano facili a perdonare le sue marachelle o ricorrevano alle punizioni? Se sì quali? - Le compravano facilmente dei giocattoli? - Da piccolo era libero di giocare quanto voleva oppure doveva assolvere ad altri compiti?

Dati raccolti

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Non si faceva, in quel tempo, una grande distinzione fra bambini ed adulti se non per la capacità di eseguire lavori o compiti, che, per i piccoli, dovevano essere, ovviamente, adatti alla loro età. A tavola si mangiavano gli stessi alimenti e, poi, ci si vestiva allo stesso modo, infatti, a chi li avesse osservati la domenica, con il vestito della festa, i ragazzini sarebbero sembrati adulti in miniatura. I componenti del numeroso nucleo familiare collaboravano egregiamente affinché tutto andasse per il meglio e, riguardo alle faccende che anche i piccoli dovevano eseguire, Serena Rusu riporta che: tutti avevano i compiti ben stabiliti in casa, quindi non erano tanto liberi di giocare. Infatti, come conferma la signora interpellata da Emma Elesbani: prima del gioco bisognava aiutare come, per esempio, andare a prendere l'acqua, riordinare la casa, lavare i piatti. Michele lVIanfredini nelle sue due interviste riferisce che: doveva lavorare con la mamma cioè stirare, raccogliere le erbe, pulire vestiti e piatti e inoltre, sferruzzare maglioni. C'era anche chi, come testimonia Ferhane Hamza: doveva fare i mestierifiwri casa, nei campi e non c'era limite di età per cominciare a darsi da fare come si evince dalle parole della signora intervistata da Alice Zinetti: ho iniziato a lavorare in casa a cinque anni aiutando la mia mamma. Il principio che si seguiva allora viene ricordato da Alessia Di Bello: l'insegnamento è sempre stato quello: prima il dovere e poi il piacere. Poi il tempo che mi rimaneva lo util.izzavo a giocare. Un'eccezione è rappresentata dalla testimonianza raccolta da Fabiana Di Martino: essendo l'ultima di nove fratelli potevo giocare quanto volevo. Sia il Natale che la santa Lucia, prima di essere cristianizzate, erano fra le ricorrenze legate al ciclo del sole e della luce, connesse al solstizio d'inverno. L'antica tradizione dei regali legata a queste feste, la cui origine non era cristiana, non è·mai scomparsa del tutto e, quando esse ricorrono, ci si continua a comportare come allora. La mattina del 13 dicembre i bambini si svegliavano molto presto per il desiderio di sapere cosa Santa Lucia avesse loro recato con il suo asinello carico di doni. Di solito si trattava di poche, semplici cose ma per chi non riceveva mai nulla di extra durante l'anno, neppure in occasione del compleanno o del!' onomastico, esse rappresentavano comunque una felice sorpresa. La signora intervistata da Gloria Famulari, ricorda che trovava, solitamente: la bambola fatta dalla mamma e i carretti fatti dal papà o il nonno, due arance, un mandarino, noci e nocciole. Non troppo diversamente dalla significativa testimonianza raccolta da Fabiana Di Martino: per me Santa Lucia era povera, cinque caramelle, una mela, un 'arancia, un torroncino e una bambola nuova di stoffa fatta in casa. Doveva rimanere sempre molto delusa la signora citata da Rebecca Leoni che: a Santa Lucia non riceveva nulla ma faceva delle collane con le castagne. Forse potevano permettersi un pochino di più i genitori della signora interpellata da Alessia Di Bello: i miei doni di Santa Lucia erano un mandarino, la farina di castagne, la stecca di liquirizia, le caramelle di zucchero che si scioglievano in bocca, poi una bambolina di zucchero e le castagne. E invece come giochi una bambolina fatta dalla mamma con la pezza mentre, da più grandi, una bambola bella e particolareggiata, vestiti, calze di lana, maglioncino, i guanti, la sciarpa. I doni di Santa Lucia rappresentavano effettivamente una piacevole eccezione nel rapporto fra genitori e figli che, durante il resto dell'anno, appariva ben più ruvido ed essenziale pur non mancando il reciproco affetto. La vita era dura per tutti per cui, fin da piccoli, i figli dovevano abituarsi a comportarsi in modo adeguato adattandosi, fin dalla nascita, all'ingrata realtà che, presumibilmente, avrebbero poi trovato anche da adulti. Nell'intervista di Fabiana Di Martino si racconta: i miei genitori erano molto severi avendo una numerosa famiglia e non mi accontentavano perché non avevano la possibilità. Sulla stessa falsariga il ricordo riferito da Emma Elesbani: non c'erano le possibilità. Non erano molto severi. Facevano fatica ad accontentarli. Non molto diversamente dalla testimonianza raccolta da Alice Zinetti: non erano severi però, purtroppo, eravamo molto poveri e quindi io sapevo che non potevano accontentarmi ed io stessa non chiedevo mai niente. Se poi i ragazzi combinavano qualche marachella difficilmente la passavano liscia come riporta Michele lVIanfredini: non erano severi ma quando si arrabbiavano erano cavoli. Davano le punizioni e li bacchettavano con delle verghette sottili di salice sulle gambe ma, a volte, li perdonavano. Sempre Michele Manfredini, nella sua seconda intervista, racconta: usavano la "stròpa" cioè un bastone di salice che gli davano sulle gambe. Altri tipi di

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punizione sono riferite da: Emma Elesbani: ti davano qualche scappellotto, lanciavano gli zoccoli e usavano la scopa, da Aminata Ndao: qualche sculaccione e da Lorenzo Camisani: prima, punizione sotto scala poi, il perdono. I genitori del signore sentito da Singh Gaurav: non erano facili a perdonare le marachelle e le punizioni erano le scopate in testa e due ore di lavoro in più. Più tolleranti sembrano essere stati, invece, quelli della signora interpellata da Fabiana Di Martino: essendo io una bambina abbastanza tranquilla ho fatto poche marachelle. La punizione era quella di avere qualche sberla. Certamente, quando si superava il limite, si potevano rischiare addirittura delle cinghiate sulla schiena e, nel caso in cui si fosse tornati a casa un po' ammaccati, non si poteva mai raccontare cos'era veramente accaduto ovvero di averle prese dall'insegnante, dal prete, da un altro adulto o durante un litigio con un compagno, perché, poi, se ne potevano prendere altrettante dai genitori, che si avesse o meno ragione. In quei tempi, e confortati da un costume millenario si andava per le spicce: l'educazione permissiva non soltanto era di là da venire ma neppure si sarebbe concepita come prassi educativa. I genitori, per ottenere che i propri figli crescessero responsabili, onesti e rispettosi delle autorità e di tutti coloro con cui avevano e avrebbero avuto a che fare, non si perdevano in parole se non per lo stretto necessario e, quindi passavano alle vie ·di fatto, sicuri che, in questo modo, la loro prole avrebbe meglio interiorizzato il messaggio educativo.

Il lavoro Domande - A quale età ha cominciato a lavorare? - Qual è stata la sua prima professione? - Di quante ore era il lavoro giornaliero?

Dati raccolti Nel periodo trattato da questa ricerca, i rapporti di lavoro non erano codificati, rigidi e garantiti come, in gran parte, lo sono ora. Erano tempi in cui non si poteva andare troppo per il sottile, perché il bisogno della famiglia incombeva e obbligava la gente a fare delle scelte non facili, in special modo nei riguardi dei propri figli. Fra le persone intervistate ben cinque dichiarano di aver cominciato a lavorare alla tenera età di otto anni. Raccoglieva il granoturco è la testimonianza fornita a Simone Moreschi mentre la signora interpellata da Gloria Famulari: faceva la baby sitter. Il signore intervistato da Pietro Traiuini: eseguiva piccoli lavori, com'è immaginabile anche per i due che non si esprimono al riguardo. A dieci anni, presumibilmente al tennine delle elementari, dichiarano il proprio primo approccio con il lavoro le persone il cui ricordo è stato raccolto da Alice Zinetti e Serena Rusu. Rebecca Leoni riporta la testimonianza di una signora che: iniziò a lavorare a undici anni come serva. Presso la gente benestante venivano prese, di tanto in tanto, delle ragazzette, figlie di contadini, per dare una mano in cucina 'o a rassettare la casa. I genitori erano contenti, perché anche se pagate soltanto con ciò che mangiavano, oltre ad ingentilire i propri comportamenti, sollevavano la famiglia di una bocca da sfamare. Accadeva la stessa cosa per i maschi che si trasferivano con il fagotto dei loro poveri cenci a fare il famiglio (famèi de fagòt) presso terzi. In quattro ricordano di aver iniziato a lavorare a tredici anni, alle altrui dipendenze, facendo: il contadino (Emma Elesbani), meccanico di motociclette (Andrea Manenti), cameriera (Nicole Penna) e magliaia (Asia Piemonti). Altri tre, forse dopo piccoli lavori saltuari, hanno avuto il loro primo lavoro serio a quattordici anni: come contadino (Lorenzo Camisani), addetta al confezionamento del tabacco e mondariso (Emma Elesbani) e operaia in fabbrica (Fabiana Di Martino). Gli altri, probabilmente più fortunati, hanno avuto un lavoro stabile soltanto dai quindici anni in su. Non lasciava l'ambiente della sua infanzia e adolescenza chi era rimasto a lavorare in campagna come salariato agricolo o mandriano. Anche se diminuivano in inverno per l'accorciarsi delle giornate, durante la bella stagione le ore non si contavano. Sotto il sole cocente gli uomini si piegavano per la fatica aiutati soltanto dagli animali da tiro (buoi e cavalli o altri equini) mentre gli

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addetti alla mungitura manuale delle vacche erano costretti a lavorare su due turni che si svolgevano alla distanza di dodici ore, il dì e la notte, oltre la domenica e le altre feste. Il sabato era considerato lavorativo come gli altri giorni della settimana e nessuno sembrava sentire l'esigenza delle ferie annuali. I ragazzi che, prima di entrare nel mondo del lavoro, frequentavano le elementari erano occupati tre ore il mattino e due nel pomeriggio, non esisteva mensa scolastica e il giovedì era vacanza. In questo modo, sfruttando anche le vacanze estive, natalizie e pasquali e tralasciando qualche ora di gioco, potevano sollevare i propri genitori da tante piccole faccende che il lavoro lungo e faticoso, a cui erano obbligati gli adulti, non permetteva loro di compiere agevolmente.

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Il gioco del ci:irn.col*

Attrezzatura -Per questo gioco bisogna munirsi del ciàncol e della canèla (mazza). -Per costruirli si stacca da un albero un ramo diritto e sufficientemente uniforme, della lunghezza di circa cm 60/70 e del diametro di circa cm 3. -Dal ramo, pulito da eventuali foglie o rametti, se ne taglia un pezzo di circa cm 14/18 che diventerà il ciàncol -La parte rimanente di circa cm 45/50 si chìama canèla (mazza) e serve per colpire il ciàncol nelle fasi di gioco. -La parte più corta viene rastremata ossia appuntita alle sue due estremità in modo da ottenere due punte a forma di cono della lunghezza ciascuna di circa cm 4/5 unite ad un corpo centrale di una decina di cm circa Questo è il ciàncol. Svolgimento del gioco -I giocatori sono due e prima di iniziare essi devono accordarsi sul punteggio da raggiungere per vmcere. -Con una conta o a pari e dispari, si stabilisce chì sta nella base, prende possesso di ciàncol e canèla e inizia il gioco. L'avversario sta fuori e attende il lancio. -La base viene costruita dal giocatore che ha vinto nella conta tenendo la canèla puntata per terra. Egli, girando su se stesso, con un'estremità dell'attrezzo, traccia un cerchio sul terreno di gioco, che dev'essere possibihnente sterrato. La superficie del cerchio così tracciato costituisce la base ed egli ne prende possesso. -Per iniziare il gioco il basista deve tenere la canèla con la mano destra, oppure con l'altra se fosse mancino, e trattenere una delle due punte del ciàncol fra l'indice e il pollice della mano sinistra perché stia in posizione verticale. -Il basista, prima di battere, per avvertire l'avversario che è pronto ad iniziare il gioco, deve gridare "ciàncol" e sentirsi rispondere "canèla mé". Naturahnente, in questa fase, questo giocatore deve rimanere all'interno della base e nemmeno calpestare il cerchìo altrimenti deve cedere la base all'avversario. -La battuta avviene quando la canèla, tenuta saldamente in mano, colpisce il ciàncol nella parte centrale con l'intento di lanciare il ciàncol il più lontano possibile dalla base. -Se l'avversario riesce ad afferrare il ciàncol prima che tocchi terra conquista la base. Altrimenti, stando fermo nel punto dove il ciàncol si è fermato, deve prenderlo e lanciarlo in modo che cadendo si fermi nella base. Se così avviene ha conquistato la base. Naturalmente il basista può respingere il ciàncol con la canèla ma soltanto quando esso è in movimento. -Quando il ciàncol si ferma fuori dalla base, il basista, picchìando con la canèla su una delle due parti appuntite, lo fa saltare e, mentre è sospeso per aria, lo colpisce per mandarlo il più lontano possibile. Per tre volte viene ripetuta questa operazione. Se in questa fase, ossia quando il ciàncol è in alto, lavversario riesce ad afferrarlo con le mani conquista la base. -Terminata questa fase, e il ciàncol è fermo in terra, si misura la distanza dell'attrezzo di gioco dalla base con la canèla che è I 'unità di misura. Il numero di canèle costituisce il p1mteggio del giocatore che è nella base. -Se l'avversario non è riuscito, in uno dei diversi modi a sua disposizione, a conquistare la base, il basista riprende il gioco nello stesso modo di come l'aveva iniziato sommando ogni volta il punteggio fino a raggiungere il numero stabilito per la vittoria. -Se, invece, l' avversarie conquista la base, i ruoli si scambiano e si prosegue come già precedentemente. -Il primo che raggiunge il punteggio stabilito all'inizio del gioco, vince.

*Deve trattarsi di un gioco diffuso anticamente nell'Europa continentale già celtica, dall'Alta Italia all'Irlanda, perché nei dizionari inglesi alla voce chunk (pron. ciane. e ciàncol dovrebbe essere il vezzeggiativo) si trova a short, thick piece o.f wood ossia corto, tozzo pezzo di legno che, posto al vezzeggiativo descrive esattamente il ciàncol.

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