Il Cane Che Mi Guardava e Altri Racconti Del Taxista - Giovanni Ubezio

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Giovanni Ubezio

IL CANE CHE MI GUARDAVA E ALTRI RACCONTI DEL TAXISTA© 2012 il Saggiatore S.p.A., Milano

ISBN: 978-88-657-6201-1

PRESENTAZIONEGiovanni Ubezio non è uno scrittore professionista: svolge il mestiere di taxista a Milano. Tuttavia è autore di racconti: spiazzanti, divertenti,profondi, sorprendenti.

Scrive grazie a una sorta di dittafono, seduto in auto, durante le pause ai posteggi, mentre i suoi colleghi leggono il giornale o chiacchierano. È cauto e molto preciso,lento e perfezionista; ha una propria idea della perfezione: riporta con fedeltà assoluta i dialoghi avvenuti all’interno del suo taxi e le riflessioni personali, prive di filtri o rimaneggiamenti, fermate nella memoria o appuntate velocemente durante l’orario di lavoro.

Poi, nei momenti di attesa dei clienti, il dittafono stende in caratteri digitali quanto Giovanni Ubezio legge da questi piccoli fogli. Il risultato è che queste brevi narrazioni hanno fatto richiamare i nomi di Robert Walser o Raymond Carver.È grazie a un caso del destino, se quelli che lui definisce racconti sono giunti oggi alla pubblicazione.

Questa è un’opera d’invenzione. Tutti i personaggi sono frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali è da ritenere casuale.

IL CANE CHE MI GUARDAVA.Ero capitato dalle parti della Bovisa, nella periferia Nord, e giravo per il quartiere. Sotto sotto non mi facevo troppe illusioni: l’ora non era delle migliori, la zona in quel momento prometteva poco lavoro. Stavo eventualmente considerando di fermarmi a mangiare un panino, ma ecco che il radiotaxi suona: era una chiamata e, secondo l’indicazione del monitor, si trattava di una via vicina, forse a un paio di isolati da me.

A chiamare era una signora con un cane di piccola taglia e quando giunsi davanti a lei le dissi: «Non sapevo che ci fosse anche un cane! L’aveva segnalato alla centrale radio?».

«Perché? Dovevo?»

«Naturalmente. Molti di noi taxisti non vogliono a bordo animali, quindi è sempre bene informare prima.»

«Ma oramai posso salire?»

«Dipende. Il suo cane morde?»

«Ma no, è così piccolo, cosa vuole che morda questo qua?»

«Va bene, salga. Ma lo tenga in braccio.»

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In realtà non ho particolari difficoltà a trasportare i cani e tanto meno ho paura. Però in alcune occasioni, forse per ravvivare il momento, mi diverto un poco a scherzare, inventandomi alcune situazioni non vere, per esempio la paura dei cani oppure porre anche domande banali ma che comunque escono dagli standard abituali. Chiedere a una novantenne se aveva visto ieri com’era andata a finire la gara del moto mondiale, oppure se era andata a sciare nel weekend o ancora se aveva visto il programma L’isola dei famosi, che personalmente non so esattamente di cosa si tratti, ma che sentivo spesso pronunciare. Tutto ciò per stuzzicare l’interlocutore e creare degli spunti su cui conversare.

Ma torniamo alla signora con cane che, a quanto pare, doveva essere di origine francese, la cui pronuncia era anche tradita dalla tipica “r” moscia.

«Dove va, signora?»

«In piazza Caiazzo» e pensai tra me: “Meno male, lì sicuramente la zona è più produttiva”.

«Come si chiama il suo cucciolo?»

«Gaston. Comunque non è un cucciolo: ha undici anni.»

«Veramente? Scusi, io non mi intendo molto di cani, so distinguere a malapena un barboncino da un cane lupo, ma questo tipo di cane non so nemmeno capire se è cucciolo o adulto.»

«Il mio cane è come un figlio per me, lo porto ovunque.»

«Lei non ha figli, quelli veri intendo?»

«No, però c’è lui che mi tiene compagnia.»

Tra una battuta e l’altra eravamo quasi giunti a destinazione. A un certo punto la signora aveva avvertito che mi ero un po’ irrigidito.

«Guardi che non le fa niente.»

«Lo so, ma sa il suo cane si è mosso e io non mi fido troppo di questi animali. E poi mi stava anche guardando.»

«Non è vero.»

«Invece sì, il suo cane mi ha guardato.»

«Le assicuro che si è sbagliato, il mio cane non la stava guardando.»

«Va bene, va bene, poco importa. Tanto oramai siamo arrivati.»

MIA FIGLIA.Parevano molto differenti le due signore che avevo appena preso a bordo.

Quella un po’ più giovane, a parte il saluto iniziale, era taciturna e assorta nei suoi pensieri, puntava lo sguardo assente oltre il finestrino.

L’altra ha trascorso la prima parte del viaggio attaccata al telefonino; non so di che argomento stesse parlando, ma dal suo tono acceso doveva certamente trattarsi di problemi importanti.

Erano tipiche donne di periferia, non raffinatissime, persone semplici, di estrazione popolare e un’età piuttosto difficile da stabilire, indicativamente dalla mezza età in su.

Quando staccò il telefonino la signora cominciò a parlare con me dei suoi guai: «Quello che sto passando in questi anni non lo auguro nemmeno a un cane».

«Cos’è successo di tanto brutto?»

«Guardi, lasciamo perdere… Mia figlia: sono mesi che sto tribolando avanti e indietro per lei, e sono stufa.»

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«Sua figlia non sta bene?»

«Non sta bene?! Ne ha sempre una. Adesso è la terza volta che tentano di farle la colonscopia, ma non riescono, perché prima le faceva male il retto, invece oggi aveva la diarrea e quindi è saltato tutto e io sono qui che sto correndo a destra e sinistra, dagli ospedali alla clinica e poi ancora al centro diagnostico. Tutto questo fra ticket e taxi mi sta costando una tombola.»

«È bello però vedere il sacrificio e le rinunce che una madre è disposta a fare per un figlio; penso che Dio gliene renderà merito.»

«Ma quale Dio! Se fosse per lui sarebbe già morta. L’unica cosa che mi ha fatto avere è appunto mia figlia, che però è una piaga: è da quando è nata che mi fa tribolare…»

Mentre l’amica silenziosa continuava a vivere nel mondo dei suoi pensieri guardando distrattamente fuori dal finestrino, la signora più loquace non smetteva di sfogarsi: «E poi, come se non bastasse, dopo che è guarita da una cistite, adesso è saltato fuori che ha anche problemi di ritenzione alle vie urinarie».

«Ma non può prendere un diuretico?»

«No. Siccome ha la pressione bassa, il medico mi ha detto che non si può.»

«Insomma, ci sarà pure un farmaco alternativo!»

«Certo, infatti lo sta prendendo, ma il dottore ha detto che deve andarci molto cauta perché, siccome ha un’ulcera nell’intestino crasso, il farmaco potrebbe fare male.»

«Ma quell’ulcera non si potrebbe curare?»

«Sì, ma non risolverebbe il problema alla radice, perché mi hanno detto che l’ulcera è forse causata indirettamente da una sindrome con un certo nome straniero, che mia figlia avrebbe.»

«Certo che sua figlia è messa proprio male: non gliene va bene una. Forse un pellegrinaggio a Lourdes potrebbe aiutarla!»

«E crede che non ci abbia pensato! A parte il fatto che soffre il mal di treno, poi ho ben altri pensieri che sciupare soldi portandola a spasso per Lourdes. Mi hanno sfrattata da un anno e ora vivo in un altro quartiere. Dove stavo prima, i vicini erano brave persone, per bene, educate e ci si aiutava a vicenda, invece dove sto adesso è pieno di gente pettegola e impicciona e, quando hai bisogno di aiuto, nessuno alza un dito.»

«Be’, è davvero sfortunata, ma si spera sempre che arrivino tempi migliori. Però qualche persona che ti aiuta c’è sempre: per esempio questa sua amica qui con noi è forse un po’ taciturna, però intanto le sta accanto e la segue.»

«Non è una mia amica. È lei, è mia figlia.»

LE DONNE DEL CENTRO.Le donne del centro sono più belle, non si può negare.

È un mistero a cui non ho ancora saputo dare un perché. Circolando per la città ne vedo di belle, brutte, grasse, alte, comunque nulla di particolare ma, quando oltrepasso la cerchia dei Navigli ed entro quindi nel centro storico, le cose cambiano: lì, le donne sono migliori, sembrano biologicamente selezionate, lo si vede dal portamento che hanno una marcia in più.

Forse è perché hanno denaro e tempo per mantenersi, ma non ne sono sicuro del tutto: loro hanno dei lineamenti naturali più belli, una fronte più evoluta forse perché leggono molto i quotidiani o semplicemente perché sono nate così.

Non c’è spiegazione; d’altra parte son lì da vedere: lo standard della loro bellezza è superiore, chiunque può constatarlo.

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Ho considerato l’ipotesi di un centro storico composto da una unica e grande famiglia «selezionata», ma l’aspetto curioso è che molte donne del centro provengono da altrove, anche da nazioni lontane, e poi la biologia moderna sostiene che la biodiversità con la mescolanza del patrimonio genetico fortifica e abbellisce la discendenza, perciò sembra essere smentita la tesi della grande famiglia.

Pensate che per un attimo avevo anche erroneamente ipotizzato che in centro, forse in virtù del maggiore traffico automobilistico, ci fosse un’aria speciale, un’aria ricca di principi attivi dagli effetti (solo per loro) benefici; ma la cosa mi è sembrata priva di fondamento anche perché questi tipi di donne girano spesso e volentieri con le biciclette indossando la mascherina bianca, quella per le polveri sottili. Ciò significa che l’effetto negativo dell’inquinamento vale anche per loro.

Ma la cosa davvero interessante è la prole. Può essere composta tranquillamente da tre o quattro figli (che ai giorni d’oggi è un numero più che ragguardevole) e ciò comporta certamente un sacrificio, che poi viene però ripagato ampiamente con il perpetuamento della stirpe. Dunque capita spesso di vedere le mamme del centro passeggiare con i loro bambini e ne sono molto fiere, quasi vanitose. Ma hanno ragione a esserlo perché la bellezza dei loro figli è di sicuro all’altezza della situazione: una bellezza certamente coerente con quella della madre.

Ma forse il segreto dalla bellezza dei bambini è più facilmente svelato: a parte la componente ereditaria, che penso sia parziale in quanto intorbidita dai caratteri paterni, ritengo che il vero movente di quest’evoluzione al bello dei figli sia nientemeno che l’amore che ricevono.

Hanno la fortuna di avere dei genitori che provvedono davvero tutto: a cinque anni già vanno a scuola, di solito si tratta di quelle scuole europee altamente competitive e rivoluzionarie, dove in certi casi hanno introdotto il bridge come materia didattica in quanto ritenuto molto formativo.

A sei anni conoscono bene due lingue anzi tre perché in casa, con la madre, parlano spesso il francese tanto per tenersi tutti in esercizio.

Per il tempo libero si stabilisce che debbano coltivare varie discipline: pianoforte, equitazione, danza classica ecc.; insomma tutto ciò che in futuro gli consenta di far fronte alle circostanze previste nel loro contesto.

I figli, insieme alla mamma, mangiano i cibi macrobiotici: è una alimentazione sicuramente più sana, forse meno appagante, ma tutto questo è fatto per amore, un dono che sicuramente verrà apprezzato successivamente.

I bambini del centro giocano molto poco e comunque non nel senso che intendiamo noi, ma in ogni caso sono compensati dalla pienezza della giornata: dopo le ore di scuola devono studiare moltissimo, vengono spremuti come limoni perché sono tenuti a tirare fuori tutto il loro potenziale intellettivo disponibile in preparazione a un futuro cinico, competitivo, ma anche generoso.

Se poi dovesse avanzare del tempo ci pensa la mamma a portarli a spasso magari in bicicletta, a condizione che indossino tutti la mascherina antismog; certo che tali mascherine sono davvero fastidiose, specialmente se indossate in estate, ma è bene chiarire che tutto questo viene fatto sempre per amore. Per cui ci capita spesso di assistere al pittoresco scenario di donne che pedalano per il centro storico, seguite dai rampolli in ordine di altezza, con le preziosissime mascherine e tutti addestrati a schivare abilmente le molto pericolose rotaie del tram.

Può accadere però, occasionalmente, che le mamme del centro non possano badare ai figli, perché dopotutto sono sempre loro che tengono le redini dell’impeccabile casa.

E se devono per esempio recarsi a cercare la riloga delle nuove tende? Nessun problema, i bimbi hanno una «tata» tutta per loro: una ragazza fidata, su cui si può nel caso contare a tempo pieno. Preferibilmente che sia straniera, perché ritenuta più affidabile, fedele ma soprattutto parla poco.

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CENTRO STOMATOLOGICO.Oramai erano giorni che la nevralgia non mi dava tregua; è per questo che mi trovavo qui al centro stomatologico.

Questo posto non è un normale studio dentistico: è una specie di «porto di mare» dell’odontoiatria, è un pronto intervento che non necessita dell’appuntamento.

Esso contiene vari stand dove è possibile intervenire contemporaneamente su vari pazienti, a ritmo industriale, e a ogni paziente può capitare di essere assistito da due, tre o quattro medici insieme, di cui almeno uno molto esperto.

Certo un porto di mare come questo è paragonabile a un pronto soccorso: è una specie di gavetta dove l’apprendimento è intensivo e l’esperienza che in breve tempo acquisisci ti consente, poi, di saper prendere con la massima facilità qualunque decisione immediata sull’intervento da farsi.

Tutto questo perlomeno è l’immediata analisi che ho fatto entrando nel centro stomatologico.

Mi fecero subito una lastra, prima di riesaminarmi.

«Sono questi i due denti che le fanno male?»

«Sì, ahia, esatto.»

«Dunque… Si tratta di denti del giudizio, sia inferiore che superiore, e stanno crescendo in maniera anomala, li leviamo?»

«Se voi poteste levarmeli entrambi e subito sarebbe fantastico!»

«No, si può solo uno alla volta!»

«Allora toglietemi il dente inferiore.»

«No, è un lavoro importante da rivedere successivamente, possiamo solo estrarre il dente superiore.»

«Ok, vada per il superiore; meglio di niente.»

Cominciavo ad avvertire dentro di me un crescente senso di apprensione. Io non ho mai temuto il dentista, casomai mi preoccupo della parcella o di vincere la pigrizia e spendere un po’ del prezioso tempo per potere combinare il tutto.

«Ecco fatto, può sciacquarsi la bocca.»

«Già tolto? Non mi sono nemmeno accorto.»

L’ansia però continuava a tormentarmi: l’avvenuta asportazione del dente non mi aveva tranquillizzato per niente.

Pagata la parcella e uscito per strada, mentre camminavo, l’ansia aumentava. In cento metri l’agitazione raggiunse l’apice, ma appena svoltai l’angolo il tutto cessò come d’incanto: il mio taxi era ancora là. L’avevo parcheggiato davanti a un passo carraio con le quattro frecce.

L’OMBRA DEL CINISMO.Un aspetto che accomuna le città frenetiche, ma anche qualsiasi comunità organizzata, è la tentazione di sminuire il valore umano.

Importano le persone ma soltanto nel loro insieme, un po’ come la logica del formicaio.

Questo fatto, d’altra parte, lo si può verificare in quotidiani eventi di cronaca: se per esempio avviene un importante incidente sul lavoro e muoiono dieci operai, la notizia è clamorosa; ma di tutti gli altri lavoratori che ogni giorno perdono la vita in giro per il Paese, la notizia ha importanza assai relativa, anzi essi rientrano in una statistica quasi fisiologica. In pratica, i decessi sono più

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importanti quando avvengono assieme.

Il valore umano è perciò scavalcato dalle statistiche, dal tempo che manca e dai soldi, mentre quello che succede è che il soggetto o persona viene quantificato in base al suo valore produttivo.

Grandi esempi di questo modello sono paesi quali Cina e Stati Uniti; forse, nel mondo aziendale il fenomeno è ancora più spinto, perché lì è solo la competizione che regna.

Nel mio piccolo mondo–taxi, a volte, compaiono personaggi che sembrano la fotografia della realtà appena descritta. Uomini che, nell’ambito domestico, vivono il normale affetto familiare dei propri cari. Ma è nell’ambito lavorativo che avviene la metamorfosi: si trasformano come il dottor Jekyll e mister Hyde.

«È lei taxi 758?»

«Certamente!»

«Sono io che ho chiamato: sono l’abbonato numero 99711789!»

«Prego, salga!»

«Senta!… Dobbiamo prima passare al quartiere QT8, per caricare un bagaglio con una persona, e poi proseguiamo in zona Maggiolina.»

Poco dopo, alla prima tappa, mentre caricavo il bagaglio con il conoscente annunciatomi, l’utente 99711789 si era già impegnato in una conversazione telefonica di lavoro, perciò i due amici si salutarono con un rapido distratto gesto con la mano. Del resto anche il conoscente stava telefonando, perciò rimanderanno il vero, rapido e formale saluto al termine di entrambe le conversazioni, per poi dialogare tra loro di una questione, forse riguardante un contratto.

Ma il destino volle interrompere presto il loro discorso: c’era infatti una coda anomala che interessava il cavalcavia della Ghisolfa.

L’utente 99711789: «Senta, sa forse dirmi perché c’è questo traffico?».

Io: «Non so, ma sentivo parlare di un corteo di protesta per i diritti all’integrazio…».

L’utente 99711789: «Però a noi, ovviamente, non interessa la causa del corteo, ma casomai dove si trova in questo momento».

Il conoscente dell’utente 99711789: «Da quello che sentivo io, ci sarebbero delle manifestazioni cinesi in zona via Imbonati, Maciachini e dintorni».

L’utente: «Cinesi! Sempre questi cinesi! Oramai comandano loro: hanno i negozi loro, le banche loro e le pompe funebri per loro, eppure stentano a morire! Sempre più spesso però si vedono bambini cinesi; il che significa che tutti questi, ora che sono qua, si sposano, si accoppiano e si riproducono e noi sosteniamo i loro costi.

Di integrarsi, ovviamente, non se ne parla assolutamente. Pensa che la cognata di un mio amico conosce una cinese che ha un figlio adolescente nato qui, a Milano, in casa. Si lamentava di lui perché era sulla cattiva strada e frequentava compagnie sbagliate. In pratica aveva prevalentemente amici milanesi, parlava solo italiano e mangiava solo spaghetti. La madre risolse così questo problema, spedendolo per qualche anno in Cina in una specie di scuola lager, dove ti tengono impegnato dalla mattina all’alba fino alle nove di sera a studiare prevalentemente il cinese».

Il conoscente dell’utente: «Sai che adesso si vocifera che qualcuno di loro voglia candidarsi al consiglio di zona?».

L’utente: «Non mi stupirebbe affatto! Si comincia sempre così, poi si passa al consiglio comunale fino a dichiarare Chinatown zona a statuto speciale, con la dogana, la porta del drago e sopra il telepass cinese, vedrai, caro Franco! Vedrai! Ho già sentito di casi di alcuni italiani che hanno fatto acquisti nei negozi dei cinesi pagando ovviamente in euro, e quelli davano come resto lo yuan, la

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loro valuta cinese».

Il conoscente dell’utente: «Il problema non sono i cinesi, è che siamo oramai in troppi, le risorse del pianeta non possono sostenere tutta questa gente. Una volta le regolamentazioni demografiche le pianificavano gli eventi naturali, le guerre e le carestie. Oggi tutto questo non basta più: ci vorrebbe un’epidemia!».

Io: «Mi scusi, ma se un’epidemia toccasse lei e la sua famiglia, sarebbe contento?».

Il conoscente dell’utente: «Ovvio che no! Il mio è un discorso di principio, che non può quindi considerare il caso particolare».

L’utente: «Concordo anch’io. Anzi, ho sempre sostenuto che l’invenzione della penicillina sia stato un grosso errore; sciagurato chi l’ha inventata».

Io, interrompendo il discorso: «Signori, mi sembra di vedere che la coda non è dovuta alla manifestazione di via Imbonati, ma a un incidente che intravedo poco avanti; e che incidente! Mi sa che qualcuno si è fatto male non poco!».

L’utente: «L’incidente è un segnale positivo perché, se Dio vuole, poco oltre troveremo la strada libera e forse arriveremo in tempo».

Il conoscente dell’utente: «Certo che quello lì a terra deve aver fatto un bel volo, ammesso che non ci abbia rimesso le penne! Dovrebbero sensibilizzare la gente alla guida prudente, inasprendo le sanzioni contro chi causa gli incidenti, anche perché, a parte le responsabilità penali, i morti, ma ancora di più i feriti, hanno importanti ripercussioni economiche sulla collettività, implicando costi sociali elevati».

Io: «Comunque penso che un semaforo a quest’incrocio non guasterebbe».

Il conoscente dell’utente: «Anch’io sono della stessa idea! Anzi, se fossi il sindaco, stabilirei subito che su qualsiasi incrocio, raggiunto un tot numero di morti per incidenti, si installi un semaforo».

L’utente: «Tu pensa che io ho in ballo la causa di un mio cliente che ha investito un tizio ammazzandolo e, a parte le questioni penali e assicurative, è costretto a pagare (e non poco!) un operaio che gli faccia da autista, perché gli hanno ritirato la patente. I parenti della vittima sono invece infuriati in quanto l’assicurazione ha riconosciuto un risarcimento irrisorio. Sfortuna vuole che lo sventurato fosse un semplice pensionato anziano, perciò, secondo la perizia, produceva poco. La cosa più clamorosa però è che, da fonti vicine alla famiglia, si vocifera che la vedova, al funerale, non piangeva per il marito defunto, ma perché forse non le avrebbero riconosciuto la reversibilità della pensione. Adesso questa stessa signora, che non ha un becco di quattrino, vorrebbe, tramite me, iniziare una causa contro un negoziante di animali, che le avrebbe venduto un cucciolo di cane da compagnia senza avvisarla però che il cane era epilettico, perciò lei si è sentita imbrogliata. Sono indeciso se accettare o no il contenzioso, considerata la sua situazione economica».

Il conoscente: «Valuta attentamente! Comunque anch’io mi trovo in una situazione analoga: ho una cliente, con cui sono in confidenza, che ha perso il figlio piccolo e come se non bastasse ha perso anche l’impiego, perché la multinazionale dove lavorava, penso per ottimizzare le risorse, ha tagliato il personale e lei rientrava tra gli esuberi. Il figliolo invece era da tempo ammalato in attesa di trapianto; c’erano state anche delle buone speranze ma, a quanto pare, alla morte di un potenziale donatore, esultarono troppo presto: il fegato non era compatibile. Purtroppo era figlio unico e io, da amico, glielo avevo detto con delicatezza: è sempre meglio avere almeno due figli perché, se ne perdi uno, rimane l’altro come punto d’appoggio; e i fatti poi mi hanno dato ragione…».

L’utente: «Scusa, Franco, se ti interrompo! È questa la zona di cui ieri ti parlavo, dove abita mia madre. Lei si lamenta continuamente dei disagi che creano i lavori per la nuova stazione della metropolitana, eppure io le ho spiegato tante volte i vantaggi che ne seguono, a cominciare dal suo appartamento che, come minimo, incrementerà del venti o anche trenta per cento il proprio

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valore!».

Il conoscente: «Ma Giulio, tua madre oramai ha quasi novantacinque anni, non ha tutti i torti a fregarsene della metropolitana…».

L’utente: «Be’, se non interessa a lei, in qualche modo interesserà a me».

Io: «Scusate, siamo in zona Maggiolina. Dove mi fermo esattamente?».

L’utente: «Alla Villa Mirabello, è qua subito a sinistra».

Io: «Che villa stupenda! È vostra?».

L’utente: «Magari fosse nostra! Purtroppo è stata donata, non so da chi, ai ciechi di guerra!».

Io: «Perché “purtroppo”? Un dono del genere è cosa nobile!».

L’utente: «Io personalmente non ho nulla contro le donazioni. Potevano però donarla ai sordomuti o malati di Alzheimer. Di ciechi di guerra, quanti ne saranno oramai rimasti? Ma soprattutto, una villa bella così bella, donata ai ciechi, non è sprecata?».

IL CANE DELL’ARCHITETTO.Sapete che differenza c’è tra il nuovo sistema di radiotaxi satellitare e il vecchio “baracchino” basato sulla comunicazione vocale? Per l’utenza poco o niente, perlomeno non in maniera diretta; per noi taxisti invece il sistema satellitare (o Gps) ha cambiato qualitativamente il modo di lavorare. Mi riferisco a coloro che esercitano con il radiotaxi: non dimentichiamo che una parte di noi preferisce lavorare senza radio, pur sacrificando qualche opportunità di guadagno.

Forse per una minoranza di nostalgici il passaggio al satellitare è stato negativo e per questo motivo, sulle ceneri delle vecchie radio oramai unificate e convertite appunto in Gps, è sorta un’ennesima radio col vecchio sistema. Si tratta però di poca cosa, perché oramai tutto è satellitare.

In futuro potrà forse accadere che io cambi cooperativa radio, ma una cosa è certa: non tornerò più al vecchio sistema; non ne ho affatto nostalgia e poi ora ho la possibilità di aggiudicarmi la corsa anche stando appena fuori dal taxi e senza rischi di equivoci o discussioni tra colleghi, perché è il «cervello centrale» ad attribuire le corse in base a criteri ben precisi.

Il vecchio sistema, invece, consiste in un «baracchino» (il CB radio) assai alienante, che trasmette la voce della speaker giorno e notte, pronunciando continuamente vie, piazze, indirizzi e messaggi vari, sempre, 365 giorni all’anno, 24 ore al giorno, costringendo noi taxisti a trascorrere tutto il tempo di attesa rintanati in macchina, in attento ascolto, e ogni chiamata in zona ti costringe a rispondere più velocemente degli altri, se vuoi aggiudicarti la corsa e, se l’assegnazione della corsa, in base a un presunto e ragionevole tempo d’arrivo da noi stabilito presso il cliente, dovesse per caso andare in porto, ecco che si deve confermare e fornire l’esatta posizione di partenza.

Questa è la sintesi della laboriosa procedura, necessaria anche per motivi di trasparenza nei confronti di tutti i colleghi in ascolto. Un sistema, tra l’altro, che per sua natura intrinseca ha un limite: non consente di smaltire più di una corsa alla volta in tutta la città; quindi, finché non è ultimata la procedura di assegnazione della corsa, non è possibile eseguirne un’altra.

Da tutto questo è quindi facile immaginare che le maggiori argomentazioni tra noi colleghi, vigente il vecchio sistema, fossero costituite da polemiche riguardo a «posizioni fasulle», «tempi stretti», «sei parente della speaker» ecc.!

Tuttavia il vecchio sistema vocale, anche nel suo squallore, ha almeno un aspetto positivo. Induce infatti a un continuo lavorio mentale, obbligando a un apprendimento intensivo della toponomastica e, sia pure indirettamente, a una sorta di conoscenza dei clienti abituali: ditte, alberghi, notai, studi legali ecc.

Ricordo infatti che udivo frequentemente una chiamata da un indirizzo in zona Bastioni, di un

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architetto con un cane: non l’avevo mai visto e pure sentivo spesso pronunciare la sua chiamata.

Un giorno chiesi a un collega: «Hai mai portato l’architetto?».

«Sì, ma non me ne parlare: è una donna e a volte fa fare anche dei viaggi consistenti, ma io, se capita, rifiuto la corsa per via del cane!»

«Perché? Tu non trasporti animali?»

«Sì, in genere li trasporto, ma quel cane è veramente antipatico, si agita continuamente. Ma soprattutto è un cagnaccio viziato e, anche se la padrona lascia delle belle mance, io del suo cane non ne voglio proprio sapere!»

Nei giorni successivi continuavo a udire frequentemente la chiamata dal suo studio o abitazione, finché, qualche tempo dopo, in un tardo pomeriggio, sul finire del mio turno, la sua chiamata toccò proprio a me.

Attesi un poco incuriosito e poi, finalmente, vidi uscire dal portone un ragazzo con un cane: si trattava di un dipendente dell’architetto che doveva svolgere varie commissioni per la città.

Il cane era di media taglia e di chissà quale razza, pareva un cane qualunque, ma già salendo in taxi saltò subito sul sedile.

«Senta, mi faccia una cortesia, lo faccia stare giù sul tappetino!»

«Sul tappetino? Sì, certo.»

Ci volle un po’ per convincerlo a scendere. Lo fulminai con lo sguardo per intimidirlo, ogni volta che mi giravo guardavo lui che non mi perdeva di vista con la coda dell’occhio, come vigile e senza abbassare la guardia. Pareva mortificato a essere trattato da cane.

Tra una tappa e l’altra il ragazzo mi tenne occupato oltre due ore. Rimaneva la penultima tappa, all’interno del cortile del Policlinico, dove si trovava ricoverata niente meno che l’architetto in persona, la quale desiderava vedere il cane.

La padrona era un tipino magro, oltre la mezza età, dall’aria un po’ malaticcia. Presentandosi nel cortile dell’ospedale in vestaglia, poté incontrare la sua amata creatura.

Sazi l’architetto e il cane di abbracci, effusioni e leccate varie, noi potemmo finalmente ritornare al punto di partenza. Però, dopo l’incontro con la padrona, il cane spavaldo non ne volle più sapere di accucciarsi sul tappeto, nemmeno con la forza: aveva acquisito molta sicurezza in se stesso.

Certo l’architetto l’aveva proprio viziato, forse il vero padrone era lui, il cane. Probabilmente in casa dormiva nel letto e mangiava carne di pregio, ho immaginato addirittura che fosse lui a gestire la custodia del telecomando tv.

Chiacchierando con un altro collega, mi raccontò che un giorno doveva accompagnare l’architetto all’aeroporto e quella gli chiese se poi, anticipando il pagamento, poteva proseguire solo con il suo cane, per portarlo al negozio di animali a fargli fare lo shampoo. Il collega a quanto pare doveva avere qualche conto in sospeso con quella bestia e fu l’occasione per la vendetta: a ogni semaforo rosso approfittava per girarsi e rifilare uno sberlone. Tanto non poteva raccontarlo a nessuno: era un cane, gli mancava la parola. Il cane, dal canto suo, senza la padrona, era incapace di reagire e si accucciava impaurito. Il collega non temeva nemmeno di rischiare qualche morso, pur di levarsi questa misera soddisfazione.

Dopo qualche settimana mi toccò ancora la chiamata dell’architetto, sempre con l’immancabile cane. Questa volta però ad accompagnarlo c’era lei, la padrona in persona, guarita e dimessa dall’ospedale. Il cane, forse sentendosi nelle buone mani della padrona, era molto alterato e più arrogante che mai. Per cominciare entrò in taxi, sul sedile, ringhiando, e semmai sarei stato io ad avere avuto il diritto di ringhiare, dal momento che era lui a essere entrato nel mio territorio, e poi mi aveva pure annusato.

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Anche riguardo questo aspetto vorrei aprire una parentesi. Che un cane entri nella mia macchina e mi annusi, io potrei non essere d’accordo. Se fosse una persona a entrare nel mio taxi e passivamente annusasse il mio odore, buono o cattivo che sia, ciò potrebbe essere relativamente normale, ma per un cane il discorso cambia. Il cane percepisce un odore che è unico al mondo e in base alle tracce molecolari che appartengono esclusivamente a ognuno di noi, lui ti identifica, ti classifica e stabilisce subito se gli vai a genio o no; solo Dio sa quante informazioni passano dal tuo corpo al suo naso. È sufficiente una brevissima fiutata e la frittata è fatta. Nella sua testa si crea una sorta di istantanea indelebile sul soggetto e tu entri da subito a fare parte per sempre del suo grande archivio olfattivo. È addirittura peggio di una persona che legge la tua carta d’identità e conosce il tuo codice fiscale o il tuo certificato medico: probabilmente infatti il cane, annusandoti, può anche capire se sei ammalato o no. Tutto questo non equivale a una violazione della privacy?

Fortunatamente io non diedi particolare peso alla questione. Il problema però era che il cane continuava a essere davvero insopportabile: quando capiva che eravamo a pochi isolati dall’abituale destinazione, si eccitava maggiormente e mi abbaiava all’improvviso dietro le orecchie mentre guidavo, facendomi sobbalzare, mi aveva perfino starnutito addosso, addirittura sul braccio. Insomma mise a dura prova il mio grado di sopportazione. Per fortuna il tragitto era breve.

Chiesi all’architetto: «Senta, quanti anni ha il suo cane?».

«Ha ben tredici anni!»

“Alleluia!” pensai tra me “è un età ragguardevole per un cane: ritengo che non andrà avanti per molto.”

Mai come quella volta ebbi premura di finire la corsa e grande fu il sollievo quando giunsi a destinazione.

Un altro collega mi raccontò che, dopo avere chiesto alla padrona di fare accucciare il cane sul tappeto, lei gli rispose: «… e se facessi sedere te sul tappeto, tu cosa diresti?».

Un altro taxista dovette percorrere avanti e indietro, con l’architetto a bordo, un viale che costeggiava un parchetto per inseguire il cane, che in quel momento aveva bisogno di correre un po’.

Dopo mesi o forse più di un anno, mi accorsi che era parecchio tempo che l’architetto non chiamava più. Chiacchierando tra colleghi scoprii la verità: l’architetto era morto, chissà cosa aveva. E del cane che ne era stato? Sulla base di pettegolezzi metropolitani si mormoravano varie versioni: il cane era stato rinchiuso in un canile o forse era morto di fame o si era suicidato; qualcuno addirittura sostenne la tesi che fosse stato adottato da qualche famiglia cattiva.

PEDINAMENTI.Nell’arco delle mie esperienze lavorative non sono mancati casi di pedinamenti.

In particolare per conto di donne gelose o loro amiche incaricate di pedinarne l’uomo. A chi toccava trasportarle qua e là all’inseguimento dei loro amati? Che domande: a chi se non a noi taxisti? Noi siamo discreti, efficienti, facciamo poche domande e soprattutto siamo sconosciuti e quindi non coinvolti nelle questioni private.

Un caso mi toccò quando presi a bordo una ragazza che doveva seguire il fidanzato di una sua amica su commissione dell’amica stessa. Attendemmo la chiusura all’ora di pranzo del negozio del ragazzo, il quale, ignaro di essere spiato, partì in auto.

L’inseguimento è una cosa per niente facile. Per non essere notati, è opportuno mantenere fra le due macchine una terza auto di mezzo, ma il rischio di perdere chi si segue è elevato: è sufficiente un semaforo rosso che si accende nel momento sbagliato e tutto il lavoro va in fumo.

Con un po’ di fortuna, la prima tappa andò bene. Il pedinato si ferma presso un centro sportivo per

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andare in piscina e a noi tocca semplicemente attendere la fine della nuotata. Fino a quel punto, nessuna sorpresa: la piscina faceva parte del suo programma giornaliero ufficiale.

L’amica a bordo del taxi pareva assumere con molto entusiasmo il delicato incarico commissionatole, nella speranza magari di qualche scoperta clamorosa.

Ma non andò così, il ragazzo proseguiva il viaggio recandosi a mangiare un panino per poi tornare a riaprire il suo negozio. Era andato tutto come doveva.

In quel periodo mi occupavo anche di un’altra cliente dai pedinamenti facili che, a differenza di quella appena descritta, era la diretta interessata. Non mi toccò in una sola occasione: di tanto in tanto mi chiamava. Era una signora di poco oltre la mezza età e dopo che mi capitò casualmente la prima volta, forse perché non mi stupii di nulla o forse perché mi ritenne paziente e affidabile, mi chiese se poteva chiamarmi per le altre volte successive. Se ero nei paraggi, per me andava bene; dopotutto si trattava di consistenti viaggi urbani e se poi capitavano in momenti di lavoro tranquillo era ancora meglio.

Il pedinato era il suo convivente e doveva trattarsi di qualche personaggio pubblico.

Così quando lui per esempio parlava dell’odierno programma lavorativo in maniera ambigua o reticente, lei si insospettiva e mi chiamava. In questo modo mi toccavano pedinamenti e lunghi appostamenti.

Il secondo pedinamento fu causato dal fatto che il partner si era svegliato particolarmente allegro, si era vestito più elegante del solito ed era uscito di casa tutto profumato. Anche per questi aspetti scattavano spiccati meccanismi di gelosia e mi toccava ancora scarrozzarla per i meandri della città, all’inseguimento di lui.

Il lungo tour oltre a tutto le costava non poco.

Tutto questo avvenne per un certo periodo, forse di alcuni mesi, ma senza risultati importanti. Dopo di che non ho più saputo nulla di loro: forse lei ha trovato qualche alternativa a me, oppure ha acquisito più fiducia in lui o magari si sono lasciati.

Da notare che quando racconto questi episodi ai passeggeri, le più interessate all’argomento sembrano essere proprio le donne e tutte subito mi chiedono: «Ma poi, come va a finire?».

MILANO E LA GENTE SOLA.Milano, città da sempre nota per la sua vivacità e gli stimoli che sono molti. Attiva nell’economia imprenditoriale, nel commercio e mettiamoci pure il turismo, anche se nell’immediata apparenza non si direbbe. Una metropoli sempre aperta a chiunque abbia nuove idee. L’aspetto tanto interessante quanto contraddittorio riguarda la gente che ci vive: una popolazione sempre indaffarata, ma anche quasi sempre ben disposta alla conversazione; e questo posso constatarlo ogni giorno sul mio taxi: è gente che di giorno sembra manifestare il cinismo aziendale sacrificando ogni barlume di passionalità ed esternazioni emotive, per poter esprimere con la massima lucidità la competizione che l’azienda chiede. Alla sera però, e comunque nel tempo libero, i milanesi si trasformano, liberandosi di tante inibizioni e tornando a se stessi, pronti quindi a vivere intensamente vecchie e nuove amicizie comunque derivanti anche dall’ambito lavorativo. Amicizie i cui legami sono consolidati grazie ai nostri insostituibili telefonini cellulari che, per la gloria dell’informatizzazione e della socialità, rispondono a continue richieste sempre più esigenti. Quindi sembrerebbe che la vita diurna e serale della gente di Milano sia molto viva e ricca di stimoli, interazioni e comunicazioni con altri..

Forse non è sempre così, questa è solo un’apparenza esteriore: in realtà a Milano la gente è profondamente sola.

Come posso fare un’affermazione del genere? Non saprei spiegarlo nemmeno io ma, dopo alcuni anni di lavoro e avere percorso centinaia di migliaia di chilometri per la città, queste cose le avverto

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nell’aria, è la mia sensibilità che me lo fa intuire; e poi non dimentichiamo che, vivendo fuori Milano, certi aspetti li vedo da osservatore esterno. Questa disponibilità alla conversazione e a vivere tante amicizie nasconde in realtà il bisogno di colmare un vuoto che forse si annida in molti. Allora cosa fanno? Per esempio, comprano il cane.

Il cane rappresenta un vero punto di riferimento. Certo il cane è un impegno, devi tenerlo pulito, sfamarlo, portarlo dal veterinario, portarlo a fare i bisogni perfino alla mattina presto di Capodanno perché il cane ignora il calendario. In compenso, con la scusa dei bisogni fisiologici, si crea un ulteriore pretesto per socializzare con i padroni di altri cani.

Di solito l’approccio inizia sempre con la frase: «Scusi, il suo è maschio o femmina?».

«Femmina.»

«Bene, allora possono giocare assieme.»

«Il suo cane che razza è? Non l’ho mai visto…» E così via.

Altri vantaggi che il cane rappresenta sono l’amicizia sincera che offre, che vive lo stato d’animo del padrone, ti aspetta e ti festeggia ogni sera al rientro a casa, ma soprattutto non parla e non ti contraddice. Invece con il congiunto non è così.

Tutto ciò può spiegare la percentuale di cani in città: su circa un milione trecentomila abitanti di Milano si stima una popolazione aggiuntiva di oltre ottantamila cani (e ancora di più i gatti!). In pratica i cani potrebbero riempire tutto lo stadio Meazza; pensate a cosa succederebbe se tutti all’improvviso si mettessero ad abbaiare.

Una volta una cliente mi ha raccontato che il suo cane era morto e doveva quindi andare in un negozio di animali per rimpiazzarlo, ma sfortuna ha voluto che il fattaccio fosse avvenuto a cavallo di un weekend e i negozi erano chiusi. Quindi l’unica alternativa era andare di corsa ad acquisirlo al canile municipale. E questo perché non poteva assolutamente aspettare la riapertura dei negozi di animali il lunedì.

Il fenomeno della solitudine è per me evidente anche osservando i colleghi taxisti che vivono dentro Milano, che immagino rappresentino oltre la metà di tutti i taxisti milanesi: essi vivono le amicizie prevalentemente tra colleghi stessi, spesso senza nemmeno conoscersi per nome, ma piuttosto per fisionomia o per sigla di radiotaxi.

Questo fenomeno è dovuto in parte al fatto che lavorano sempre praticamente tutti i giorni. In particolar modo vale per i soggetti più anziani, che stentano a frequentare la vita domestica perché hanno la moglie con figli che rompono, oppure per carenza di stimoli alternativi. Io invece, vivendo altrove, non sento il bisogno di crearmi nuove conoscenze tra colleghi: sono già appagato dalla vita privata, casomai sono alla ricerca di spazi di tranquillità.

Ritengo poi che il tempo dedicato alla famiglia è importante almeno quanto il lavoro.

Anche per i bambini milanesi vale lo stesso discorso. A volte mi capita di percorrere lunghi tratti di città senza vedere per le strade un solo bambino, ma ancor più incredibile è che i miei passeggeri non se ne accorgono nemmeno finché non glielo faccio notare io. Probabilmente sono assuefatti al fenomeno.

Io, Milano, l’ho definita «la città degli adulti».

Dove sono nascosti tutti questi bambini milanesi? Niente paura. Da qualche parte ci sono, ma sono stanziati nelle «apposite strutture» (scuole, palestre, piscine, scherma, danza ecc.). In sostanza i genitori pianificano il poco tempo libero facendo loro praticare le discipline più disparate, pur di non vederli impigrire davanti alla tv.

Le loro amicizie sono prevalentemente nell’ambito scolastico e, se un compagno viene invitato a casa a giocare alla PlayStation e magari dopo ha anche il permesso di fermarsi a cena, tutto questo rappresenta un evento importante.

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Insomma i tradizionali giochi in cortile qua oramai non esistono più, i cortili sono proprietà degli adulti, perché i grandi sono più importanti dei piccoli e, se per caso un bimbo si azzarda a giocarci, il genitore dovrà poi fare i conti con i condòmini.

A proposito dei condòmini, vorrei aggiungere un’altra parentesi: è vero che anche in una realtà metropolitana il quartiere è simile a un paese, tuttavia molto spesso il condòmino stenta a malapena a salutare il vicino di porta, per poi magari confidarsi su tutto col giornalaio in strada o col fioraio del chiosco. Questo avviene non per questioni di simpatia, ma forse per una esasperata cultura della privacy, cosicché la figura di un soggetto esterno viene percepita come più adatta alle confidenze, perché ritenuta emotivamente più distaccata, più leale e imparziale.

Se poi nascono lamentele nell’ambito condominiale nei tuoi confronti per violazione di qualche articolo del condominio, solitamente ne vieni a conoscenza indirettamente tramite il portiere o amministratore senza nemmeno sapere con certezza la provenienza o, in casi più gravi, direttamente tramite la lettera di un legale.

Sempre in tema di solitudine, una volta una ragazza che trasportavo mi ha raccontato che, dopo la rottura di un lungo fidanzamento, è riuscita a trovare un nuovo fidanzato in internet grazie a quei siti dove ci si registra e si aspetta che qualcuno chiami. Ma come puoi accertarti che sia la persona giusta? Nessun problema, ci si accorda per un primo incontro, poi si vedrà.

In un’altra occasione invece stavo trasportando un signore in zona Certosa, ma mentre chiacchieravo con lui mi sono accorto che avevo appena imboccato una strada sbagliata, un po’ più lunga.

«Mi scusi tanto, ma ho imboccato per errore una strada meno adatta. Non si preoccupi, faccio inversione e rimedio subito.»

«No, no. Vada pure dritto, non importa se ci impieghiamo più tempo: almeno così parlo con qualcuno.»

IL VECCHIO E LA METAMORFOSI.Uno degli aspetti di questo mestiere non è solo quello di dovere sopportare un traffico caotico e alienante. La cosa forse peggiore è essere costretto a fare i conti con la qualità dei guidatori che ci circondano: una qualità che raggiunge il picco negativo a cavallo dei weekend, ma che si prolunga un po’ anche fino a lunedì mattina.

I cattivi guidatori del lunedì mattino li ho sempre definiti «i reduci della domenica». Sono coloro che dalla domenica sera non sono ancora rincasati, in quanto è probabile abbiano perduto la strada del rientro.

La caratteristica dei guidatori della domenica, tra l’altro molto simili ai guidatori che indossano un cappello, è che sanno forse guidare, ma sicuramente non sanno circolare: si chiudono in se stessi e si isolano completamente da tutto ciò che circonda l’abitacolo, incapaci quindi di intuire la situazione generale di quanto gli sta intorno.

Essi difficilmente commettono infrazioni nel senso che siamo abituati a intendere, ma sicuramente creano disarmonia nel delicato equilibrio viabilistico.

Così, se un altro automobilista che segue si trova costretto a subire una modica andatura di trenta chilometri orari e un intralcio della carreggiata, egli diventa perfino colpevole per avere un po’ perso la pazienza, per avere fatto un sorpasso non del tutto regolare o addirittura per aver fatto un po’ suonare il clacson.

Da questo è facile intuire le frustrazioni degli automobilisti e a quali reazioni eccessive possano arrivare. Può capitare a volte anche a noi taxisti di farsi prendere un poco la mano quando si è al volante, allo scopo per esempio di liberarsi dell’automobilista inviato dalla cattiva sorte con il compito di recare intralcio e rallentamenti al prossimo.

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Altro movente di nostre possibili reazioni può essere quello di dare una sonora lezione al provocatore di turno.

A proposito di questo, ricordo un evento di qualche anno fa, sulla strada di rientro a casa. Percorrendo certi viali importanti (in questo caso, viale Fulvio Testi), si è costretti, dopo un turno lavorativo, a fare anche i conti con una lunga schiera di semafori sincronizzati, a volte al verde e a volte al rosso.

Fu proprio in una di quelle circostanze che mi trovai fermo a un semaforo in pole position, affiancato da un altro automobilista. Egli doveva essere molto antipatico: mi era rimasto attaccato dietro l’auto prepotentemente. E ora voleva certamente passarmi avanti. Io naturalmente non avevo nulla in contrario, ma lui mi stava proprio antipatico e quando io, con la coda dell’occhio, lo intravidi in faccia, la sua fisionomia non deluse le mie aspettative: meritava proprio una bella lezione.

L’aspetto interessante di quando ci si trova fermi appaiati è che la sfida la si avverte nell’aria da ambo le parti, ma nessuno si volta a guardare l’avversario, per non svelarsi. Ufficialmente nessuno considera l’altro in senso competitivo e, se per caso si parte molto velocemente, è solo perché si ha molta premura di arrivare a destinazione per motivi che devono essere sicuramente importanti. In sostanza, però, il concetto non cambia: lo scopo autentico è quello di superare l’avversario.

Pronti… Via! Semaforo verde, prima, seconda, terza, quarta. Ma le auto sono simili e rimaniamo pressappoco appaiati. Intanto si comincia ad avvertire l’appagante sensazione dell’adrenalina che va in circolo.

A un certo punto, quando oramai ebbi raggiunto una velocità considerevole, vidi in lontananza a qualche centinaio di metri un vecchietto che iniziava ad attraversare il viale. Il vecchio era molto curvo e i suoi passi molto lenti, l’età non saprei calcolarla con precisione, ma sicuramente molto avanzata, probabilmente dai novanta ai cento anni. Non esitai ad alzare subito il pedale dell’acceleratore. “Sarà per un’altra volta” pensai.

Però l’avversario non si fermava, continuava ad accelerare. Possibile che non se ne accorgesse? Forse era accecato dalla foga di dimostrare che aveva più premura di me. Quel pezzo di viale era deserto e la tratta poteva essere sufficientemente lunga per consentire l’attraversamento, ma il vecchio camminava troppo lento e la carreggiata a tre corsie era troppo larga per lui. Pensate che l’intero viale era a sua volta composto da quattro carreggiate, ma poco importava, al vecchio bastava riuscire a passare la carreggiata interessata da noi. L’impresa però sembrava ardua, perché la velocità raggiunta dall’avversario era oramai troppo elevata e il vecchio pareva quasi non preoccuparsene.

Io, che oramai mi trovavo assai indietro, cercai invano di lanciare qualche strombazzata e di inviare segnali luminosi all’avversario, ma egli non si accorgeva, pensai che forse era come ipnotizzato dalla guida, guardava in lontananza e non notava gli ostacoli più vicini.

Il vecchio, dal canto suo, era appena a metà carreggiata e troppo larga era la parte rimanente, specialmente per via della sua andatura costante ma modesta.

Io, che da lontano continuavo a inviare all’avversario segnali acustici e luminosi, in realtà il vecchio lo avevo già visto matematicamente spacciato e in una frazione di secondo immaginai scenari catastrofici per un anziano in cui già di per sé, vuoi per l’età o vuoi per il suo stato fisico, si capiva alla perfezione che la vita non poteva comunque evolversi a lungo. D’altro canto, per come egli stesso attraversava la strada, sembrava non essere minimamente turbato da questa prospettiva: presto, in un modo o nell’altro il destino lo avrebbe comunque condotto al traguardo.

A un certo punto, quando oramai l’evento fatale sembrava davvero compiersi, è successo l’impensabile. Il vecchio si è trasformato, è ringiovanito all’improvviso di vent’anni, il corpo curvo ha riacquistato la posizione eretta e le gambe hanno cominciato a correre in maniera quasi atletica. L’istinto di conservazione, che visto dai nostri occhi giovani e poco saggi doveva sembrare oramai

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superfluo, era prevalso, consentendogli con un balzo felino di raggiungere agevolmente il cordolo dello spartitraffico e mettersi in sicurezza per poi, un istante dopo, tornare allo stato naturale di sempre.

TAXISTA LAVORO CREATIVO.«Com’è il vostro lavoro, di taxisti?» Questa è la tipica domanda che potrebbe rivolgerci un passeggero in vena di conversazione e curiosità. In verità non esiste una risposta assoluta, dipende dai punti di vista: molti di noi parlano del proprio lavoro quasi con disprezzo, un lavoro dalle prospettive oramai nere e tenore di vita insufficiente. Si tratta spesso di colleghi forse un po’ stufi e che hanno elaborato i ricordi di tempi passati trasformandoli in miti, oppure di altri che da sempre hanno fatto solo i taxisti e, non avendo potuto fare un confronto diretto con esperienze differenti, si immaginano lavori alternativi al taxi, anche da dipendenti, sicuramente migliori (tutto retribuito, minore responsabilità ecc.).

L’altro punto di vista è di coloro che lo vedono come il lavoro più bello del mondo, che concede tante libertà in tutti sensi. Questa corrente di pensiero si riscontra per lo più tra i colleghi nuovi, salvo qualche eccezione di delusi a seguito di eccessive aspettative; ma a parte questi, gli altri, nonostante debbano magari affrontare grosse spese di inizio attività, vedono tutto positivamente: forse molti di costoro provengono da altre realtà lavorative difficili e precarie.

Io ritengo che, anche in questo caso, la verità sta nel mezzo. Comunque nonostante mi ritrovi alle spalle ben più di un decennio di questa professione, non sono schiavo del lavoro, tant’è vero che preferisco di più starmene a casa che in giro a lavorare. Tuttavia amo ancora il mio mestiere.

Vediamo ora nel dettaglio gli aspetti di questa attività.

I positivi:

1) Senso di libertà in quanto non devi… timbrare cartellini!, e in caso di necessità non devi chiedere il permesso a nessuno se non a te stesso qualora occorresse interrompere il lavoro.

2) Possibilità di libera scelta di turni a Milano, in quanto si basa sul naturale equilibrio di domanda–offerta nelle varie fasce orarie.

3) Opportunità, in caso di necessità, di lavorare fino a dieci ore al giorno e per sette giorni su sette, aiutandoti a fare fronte a periodi economici difficili; resta comunque inteso che un tale ritmo di lavoro, per ragioni psicofisiche, non sarebbe pensabile per un lungo periodo.

4) È il tipico lavoro che ti fa stare a contatto con tutti i tipi di persone, consentendoti di socializzare e quindi di conoscere tanti fatti e punti di vista.

Ora gli aspetti negativi:

1) È un lavoro molto faticoso, soprattutto per via dello stress psichico–emotivo e fisico, specialmente nelle giornate di maggiore traffico o pioggia, che non ti consentono nemmeno di uscire dall’auto per sgranchirti. Penso che per reggere questo tipo di lavoro, debba almeno all’inizio piacerti un po’ il guidare: un piacere di guida che comunque non ha nulla a che vedere con le code in tangenziale o gli imbottigliamenti delle ore di punta.

2) Tra i mestieri, non è certo dei più sani: è fisicamente sedentario, pieno di stress e arrabbiature generalmente causate da altri automobilisti. Quindi può predisporre maggiormente a malattie cardiovascolari, dolori alla schiena e alle articolazioni, specialmente al ginocchio sinistro il cui piede lavora sulla frizione, emorroidi e malattie polmonari, in quanto è un mestiere che obbliga a passare parte della giornata a respirare polveri sottili.

3) È un settore molto sensibile alle buone, ma anche alle cattive amministrazioni locali, statali o viabilistiche; un servizio vulnerabile alle distorte logiche politiche, a discapito, quindi, della professione stessa e del buon funzionamento del servizio che ne deriva.

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4) Fare il taxista comporta rischi. Generalmente quando si cita l’argomento, la gente è portata a pensare subito alle rapine. Infatti, sia pure fino al momento in cui sto scrivendo io non abbia subìto esperienze simili, va detto che alcuni altri colleghi sono stati meno fortunati, specialmente tra coloro che prestano servizio notturno. Tuttavia gli eventi malavitosi (che tendono per nostra cultura a fare clamore) vengono superati da rischi ben più elevati, in tutti sensi, quanto al danno economico e forse anche psicologico: mi riferisco agli incidenti, che sono molto più alla portata di quanto si pensi, specialmente per chi fa uso intensivo del veicolo come noi. Essi possono limitarsi a una piccola toccatina come invece risultare di entità disastrosa. Di questo argomento, però, si parla poco: forse in qualche modo siamo un po’ assuefatti all’idea che questi eventi possano accadere in qualunque momento. Inoltre vanno messi in conto altri rischi: guasti meccanici, malattie, infortuni. Tutti eventi che ci impediscono di lavorare.

«Certo che voi taxisti dovete conoscere molto bene la città.» Ecco un’altra classica osservazione che l’utente può rivolgerci. La risposta è quasi affermativa, nel senso che ogni taxista, che abbia una ragionevole esperienza del proprio lavoro, disporrà di una conoscenza perfetta della parte di città interna circoscritta dalla cerchia dei bastioni e di una conoscenza ottima di ciò che sta dentro la circolazione filoviaria; se però estendiamo la città fino alle periferie, penso che non esista quasi nessuno che non abbia qualche lacuna su una determinata zona. La buona conoscenza di una periferia può essere aiutata dalla vicinanza alla propria abitazione, ma anche dalla particolare configurazione mentale che ognuno di noi possiede.

Tuttavia la professionalità del nostro mestiere non è solo data dalla più o meno buona preparazione sulla toponomastica: quello che ci distingue dal navigatore satellitare è una conoscenza, da parte nostra, ben più profonda della città, per cui quando dobbiamo fare una scelta fra percorsi chilometricamente simili facciamo diverse valutazioni.

Io, spesso, tendo a coinvolgere il passeggero nella scelta dell’itinerario: un po’ per mettermi ai ripari, un po’ per prepararlo a eventuali intoppi di percorso, sempre ammesso che non sia lui stesso a indicarmi un suo percorso preferito. Potrebbe sembrare per codardia, ma in realtà tutti i miei colleghi sanno per esperienza che la maggior parte delle spiacevoli discussioni con l’utenza avviene proprio per la scelta del percorso appena si giunge a un indesiderato imbottigliamento. Per cui, un tipico dialogo di percorrenza fra il taxista e l’utente potrebbe essere pressappoco questo: «Libero?».

«Sì. Prego signora, se sale a destra ha più spazio a sedere, poi veda lei.»

«Senta, dovrei andare alla stazione ma sono in ritardo, ce la facciamo a essere là in quaranta minuti?»

«Non ne sono sicuro, dobbiamo fare un bel pezzo di città. Tra l’altro, la giornata non è delle migliori come traffico; ha qualche strada preferita?»

«Sì: la più veloce.»

«La più veloce non è necessariamente la più corta… Comunque, adesso vediamo un po’. Potrei fare la circonvallazione esterna, ma è piuttosto lunga e non c’è garanzia che sia scorrevole per via del cantiere.»

A questo punto, con tono discreto, interviene la cliente: «L’altra volta il suo collega ha fatto bastioni».

«I bastioni? Bè… può essere un’idea, anche se in genere non li faccio volentieri. Però… che giorno è oggi?»

«Martedì. Perché?»

«Eh, no, allora è meglio non fare i bastioni perché oggi c’è il mercato in viale Papiniano.»

«Già, oggi è giorno di mercato… e fare il centro?»

«Il centro lo lascerei perdere… C’è la manifestazione, quella dei centri sociali. Secondo le ultime

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segnalazioni del radiotaxi, il corteo ora dovrebbe essere dalle parti di piazza Scala; tutta la zona è sicuramente blindata.»

«Allora cosa facciamo?»

«Ma… a questo punto farei la cerchia dei Navigli, anche se comunque non sarà tutto rosa e fiori.»

«Ok, vada per la cerchia dei Navigli: è lei l’esperto.»

«È vero, ho l’esperienza. Ma sa cosa ho imparato in questi anni di servizio? A non scommettere mai con sicurezza su una strada: capita spesso infatti che il percorso che ieri era libero, oggi, alla stessa ora, lo trovi bloccato e senza alcuna ragione apparente. Quindi la mia esperienza si limita solamente a suggerirmi quali sono le strade più o meno a rischio; oltre a questo, non mi sbilancio.»

«Comunque spero di riuscire a prendere il treno, altrimenti dovrò aspettare il prossimo fino a stasera.»

Strada facendo ci accorgiamo che il traffico è anomalo: più si prosegue più diventa stagnante. La cliente è ansiosa. Allora io comincio a impostare piccole modifiche di percorso. Le variazioni che intendo fare le penso ad alta voce, consentendo così al passeggero di bloccarmi in tempo qualora lo ritenesse opportuno. Provo la parallela a destra, poi quella a sinistra. Poi, per mitigare la tensione della cliente, improvviso delle battute inventandomi qualche filosofia: «Sa cos’ha di bello il nostro lavoro? Certe volte diventa un lavoro creativo. Proprio così: uno di noi taxisti pensa un percorso, poi lo cambia, e poi lo modifica di nuovo, alla fine si crea una combinazione unica e personale. Tutto questo lei non lo chiama creatività?». La cliente, apparentemente più rilassata, a seguito di un discreto sogghigno risponde: «Io vi ammiro, un lavoro come il vostro non potrei mai farlo…».

«Eccoci finalmente alla stazione. Se ha già il biglietto del treno, ce la fa sicuramente.»

«Sì, forse riesco anche a bermi un caffè. Lei è un angelo, mi ha salvata: ha fatto la strada giusta.»

Uno degli aspetti di questo mestiere che mi gratifica maggiormente, oltre naturalmente a una fortunata giornata produttiva, è proprio l’evento che ho appena descritto: ossia, vedere il cliente che se ne esce soddisfatto, anche a prescindere dalla mancia (che comunque è sempre ben gradita). Dal momento che il taxi è considerato da molti un servizio caro, quando ho la sensazione che il cliente sia molto soddisfatto della mia prestazione, mi sento ripagato moltissimo, perché riesco maggiormente a dare un senso al mio lavoro. Purtroppo non va sempre così. Una delle maggiori doti di un taxista, anche aiutato dall’esperienza, non è la nozione della toponomastica e nemmeno la conoscenza profonda della città (come citato sopra), ma la capacità di capire e forse anche intuire che genere di percorso possa gradire il passeggero. E questa è la cosa più difficile. L’intuito è quell’intelligenza inconscia un po’ misteriosa che, sulla base di tanti dati acquisiti con l’esperienza, ti consente di percepire e prevedere una verità in una frazione di secondo. Quindi a volte noi vediamo un cliente avvicinarsi al nostro taxi e già lo classifichiamo, per via del passo deciso o tranquillo, per il tipo di barba che ha, se ha il giornale sotto braccio, se sta conversando col telefonino, se ha dei tic, ecc… Questi sono alcuni indizi molto utili, che vengono percepiti inconsciamente, suggerendoci poi il profilo di un soggetto. Il bello della psicologia è che non è solo una scienza, ma è anche un dono, una sensibilità dell’individuo a capire il prossimo. Un taxista un po’ psicologo può forse tentare di indovinare il genere di percorso che in quel momento, a quel cliente, può essere maggiormente gradito: come la signora anziana che preferisce il classico stradone trafficato ma lineare, oppure il milanese che ha premura e apprezza la scorciatoia, il turista che vuole la strada con le vetrine, l’amministratore delegato che sta perdendo l’aereo e proporrà di imboccare la tangenziale ovest… Ma l’intuito non è una formula matematica, è spesso traditore e, di conseguenza, possono nascere sgradite discussioni tipo questa: «Certo che se dobbiamo farci tutte le fermate dell’autobus che sta davanti a noi mi conveniva prenderlo direttamente».

«Ha ragione signora, purtroppo non siamo stati molto fortunati. Poi, come vede, qua non è possibile il sorpasso… però se porta un po’ di pazienza, vedrà che ce ne liberiamo.»

«Ma non era meglio fare via San Barnaba?»

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«Forse, ma non è mai facile stabilirlo a priori. Comunque se lei aveva una preferenza, bastava dirlo in tempo, l’ho anche scritto sul cartello davanti a lei: QUALORA L’UTENTE INTENDESSE INDICARE UN SUO PERCORSO PREFERITO, È PREGATO DI FARLO SUBITO, GRAZIE.»

«A me in genere non piace interferire, penso che ognuno debba fare il proprio mestiere, ma è evidente che la strada da fare era l’altra.»

«Questo lo dice lei, signora. Voi clienti avete in mente un percorso e pensate che sia l’unico possibile, ma in realtà non è così. Anzi, a dirla tutta, la sua via San Barnaba oltre a essere lunga è anche molto rischiosa: tre giorni fa sono rimasto completamente bloccato là per dieci o quindici minuti per via dei camion della nettezza urbana!»

«Sarà… ma ho l’impressione che molti di voi con la scusa del traffico ci marciano su.»

«Se anche così fosse non è di certo il mio caso, ma dal momento che oramai ha toccato l’argomento io le dico che a noi taxisti, di solito, non conviene speculare con le strade trafficate, specialmente in orari come questi quando il lavoro è continuativo. Siccome guadagniamo anche sulla partenza iniziale, per noi è più conveniente fare (a parità di tempo) tante corse, anche brevi, purché frequenti.»

«Va be’, va be’, voialtri la sapete lunga… Io intanto sono qui che ho premura e la corsa mi sta costando troppo!»

«Se lei sta insinuando che io stia facendo il furbo allora avrebbe fatto meglio a prendere davvero l’autobus. Per non fare altre discussioni mi dica quanto spende di solito e ci mettiamo d’accordo; naturalmente mi guarderò bene dal raccontarlo ai miei colleghi, altrimenti mi prendo anche del fesso oppure ci litigo, perché darei cattive abitudini ai clienti.»

«Il prezzo non è il punto in questione, comunque piantiamola con la discussione e… Amen!»

Finito il viaggio e salutata la cliente con un «arrivederci», penso tra me e me: “Speriamo invece di non rivederci mai”. Se tutte le corse fossero così cambierei sicuramente mestiere.

IL GATTO PRESTIGIATORE.«Posso salire? Ho anche il gatto!»

«Sì, prego, salga pure. Non sono allergico. Se la gabbia è pulita può appoggiarla sul sedile accanto a lei.»

«Dovrei andare in via Solari facendo la strada meno trafficata.»

«È una parola a quest’ora, signora. Comunque speriamo di fare la scelta fortunata. È maschio o femmina?»

«Maschio. È un po’ un birbone.»

«Il suo è proprio un bel micione! Picci, picci, picci…» Zac! Subito una bella zampata tentò di darmi appena allungai la mano verso di lui, per fortuna c’era la gabbia a proteggermi: «Bel caratterino ha il suo “ciccino”!».

«Guardi che il mio “ciccino” non fa male a nessuno, casomai è lui che ha paura; oppure lei non gli sta simpatico! Con gli altri non fa così.»

«Se lo dice lei…»

Tuttavia bisogna riconoscere che quel gattone doveva essere molto bello: dentro la gabbia non lo si vedeva molto bene, ma si capiva subito che era tutto nero, pareva un’ombra, e il muso non lo distinguevi ma lo deducevi grazie a due occhioni grossi che sembravano fari.

Ogni tanto si udiva un miagolio cupo, tipico dei gatti che soffrono la detenzione in gabbia, ma ciò lo rendeva ancora più affascinante: questi felini sono dei capolavori di eleganza, raffinatezza,

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anatomia e mistero, e se li tieni in casa completano l’arredamento.

Io l’ho sempre detto: se Dio non avesse creato il gatto, bisognerebbe inventarlo.

Giunti finalmente in via Solari, salutai la cliente; poco dopo che si era allontanata mi accorsi che il gatto aveva lasciato un ricordino. Fortunatamente si trattava di un bisognino molto solido e facilmente asportabile dal sedile rivestito in plastica, ma non era questo il punto: ancora oggi mi chiedo come abbia potuto un gatto recluso far la cacca fuori dalla gabbia. Che non gli andassi a genio l’avevo capito subito, ma questo gatto, oltre a essere dispettoso, era anche prestigiatore.

DOMANDE FREQUENTI.Ma come fate voi taxisti a sopportare il traffico?

Ecco forse la domanda più frequente che ci viene rivolta, una domanda apparentemente banale.

In verità, personalmente, nonostante alcuni anni di servizio non mi sono ancora abituato. Poi so di molti colleghi che col tempo hanno peggiorato il loro rapporto con il traffico, arrivando a chiedere turni più tranquilli.

Ci sono giorni particolari, di fiera o di pioggia, in cui tutto il turno lo passi veramente dentro l’abitacolo, con il ginocchio sinistro che duole per il continuo uso della frizione e alla sera, sulla strada del ritorno, ci tocca marciare strisciando fino a casa.

Per sopportare questo traffico ti deve, almeno da principio, piacere un po’ la guida.

I primi tempi, diciamo appena dopo aver preso dimestichezza con le strade, il mio problema era fare i conti con gli altri automobilisti: chiunque, davanti a me, mi rallentava il passo diventava un mortale nemico, e quando mi toccava subire più a lungo del previsto quella frustrante andatura potevo soffrirne emotivamente anche per mezza giornata.

Avevo perfino imparato a identificare a colpo d’occhio il nemico in base al tipo di macchina: dimmi che macchina hai e ti dirò chi sei.

I più tranquilli conducevano vetture tipo Lancia o alcune Mercedes, indossando spesso il cappello e il cappotto, i peggiori anche i guanti e la pipa. Si tratta di gente che detesta fare le manovre, è disposta ad aspettare tranquillamente anche cinque minuti affinché il camion si scansi, piuttosto che risolvere subito la situazione ingranando la retromarcia.

Ci sono poi i conducenti di piccole utilitarie, abili topi metropolitani che circolano in maniera efficace. I casi più spinti sono coloro che guidano le Smart: li ho sempre immaginati ansiosi di ammortizzare l’elevato costo di questa piccolissima vettura, correndo e intrufolandosi nel traffico anche violando frequentemente il codice della strada. La Smart sembra quasi una macchina costruita per essere esente dalle regole.

Poi ci sono i conducenti di grosse auto aziendali, Bmw e Audi, prepotenti sulle superstrade, incollati dietro di te affinché ti scansi, ansiosi di correre e produrre.

Quelli comunque che personalmente amo meno sono quelli della prima categoria citata sopra (Lancia e Mercedes). Ma in verità sono loro che hanno ragione, mentre noialtri, più deboli, subiamo il ritmo della città come un veloce ingranaggio di un orologio. Avevo anche ideato un piccolo proverbio a riguardo: «Se attraversi Milano, entri camminando ed esci correndo».

Torniamo al mio rapporto con il traffico, che in parte è mitigato dall’abilità dovuta alla cura intensiva della guida e che, in virtù della conoscenza toponomastica della città, mi consente di affrontare le strade senza troppo sforzo: in pratica mi sento quasi un tutt’uno con la macchina, una specie di figura mitologica dove il veicolo rappresenta un po’ il prolungamento delle mie gambe e qualunque sia il tipo di guida che il traffico richiede, la risposta si innesca da sola.

Tutto questo comunque non mi esentava, a fine giornata, dalla lunga tensione causata appunto dal

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traffico, che non consente alcun errore. A questo si deve sommare lo stress delle arrabbiature con altri automobilisti: solo per questo spendevo metà delle mie energie. Confidandomi con un collega, lui mi rispose: «Se il lavoro lo prendi in questo verso, allora hai sbagliato mestiere!».

Ci rimasi male, ma mi servì perché da lì in poi mi impegnai a lavorare con una filosofia differente. Con qualche caffè in meno e senza farmi troppo coinvolgere dalle premure dei clienti imparai a ridimensionare un po’ la mia guida: non correre troppo, perché poi rischi l’incidente; se un automobilista ti ha fatto uno sgarbo, dimenticalo subito, tanto non lo rivedrai mai più; se quell’altro mi ha intralciato, non è cambiato nulla, tanto il semaforo era comunque rosso e poi non devi timbrare alcun cartellino ecc.

Insomma, questi erano i miei nuovi ragionamenti allo scopo di rasserenare un po’ le giornate già di per sé faticose.

Non che oggi sia esente da incazzature, ma certamente le vivo in modo più rilassato.

Un paio di volte ho addirittura subìto degli insulti dal finestrino da gridar vendetta, ma io sono riuscito a non scompormi e metabolizzare: mi è sembrato, questo, un atto di forza, di non cedere alla provocazione che tanto non conduce a nulla.

Sfortunatamente non va sempre così, ma sono casi che non cito nemmeno.

Ha mai portato personaggi famosi?

Chi sa quanti ne ho portati, ma essendo io un pessimo fisionomista, molti non li avrò neppure riconosciuti o addirittura ignorato l’esistenza, in quanto seguo poco il mondo della tv.

Alcuni li ricordo: Johnny Dorelli (due volte), Ornella Vanoni (due volte), il giornalista Everardo Dalla Noce, Bruno Vespa, Giorgio La Malfa, la cantante Fiordaliso, Rocco (del Grande Fratello), l’oncologo Veronesi, Ronn Moss (che interpreta Ridge, un personaggio dello sceneggiato Beautiful), il deejay Molella, l’attrice Marisa Merlini, l’attore Paolo Bonacelli, Milly Carlucci, Umberto Eco (tre volte), Susanna Messaggio, Walter Zenga, Mengacci, il calciatore Pirlo, Emanuela Folliero (quattro volte), Natasha Stefanenko, Claudio Bisio (due volte), Albano, Amanda Lear, l’ex sindaco Pillitteri, l’attore Paolo Rossi, Marco Viti (dell’omonimo marchio farmaceutico), il giornalista Guido Meda, Giorgio Mastrota, Tony Renis, Paola Turci, Nino Carillo, Martina Colombari, DJ Linus, Paolo Limiti, don Mazzi, Loredana Bertè, Daria Bignardi. E anche un vescovo africano che non conoscevo, ma sicuramente dalle sue parti doveva essere un personaggio importante.

Quelli che ricordo maggiormente per la simpatia sono Johnny Dorelli, Guido Meda, Mastrota, Everardo Dalla Noce, che mi diede anche una pacca sulla spalla a seguito di una sua battuta, e Tony Renis.

Rimasi colpito anche dalla personalità molto piacevole di Umberto Eco e da una battuta dell’europarlamentare Giorgio La Malfa, quando gli chiesi di che partito era ai tempi della Prima Repubblica, scusandomi per la domanda banale: «Mi scusi… ma io di politica non ci capisco niente!»

«Non c’è problema, pure io non ci capisco niente».

Resta ovviamente inteso che tali simpatie (o antipatie) sono soggettive e si basano sull’approccio costruito nel breve tragitto urbano e non possono tener conto delle circostanze o del particolare stato d’animo negativo o positivo del momento.

Un incontro mancato fu con nientemeno che il premio Nobel Rita Levi Montalcini (per lo meno questo era il nominativo indicato dal monitor della radiotaxi) ma quando giunsi sul posto di carico non trovai più nessuno: cose che capitano, ma in quell’occasione mi dispiacque molto.

Ci sono poi due personaggi che avevo più volte fantasticato di trasportare: si tratta degli oramai scomparsi Indro Montanelli e Lucio Battisti. Ma conoscendo per fama i loro temperamenti

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particolari, forse l’incontro non sarebbe stato (specialmente per loro) così appagante: uno per la riservatezza e l’altro schivo con la gente, per lo meno questi sono i loro attributi nel mio immaginario. O ancora più semplicemente io, pur stimandoli, a loro potevo non stare simpatico.

Una cosa che accomuna alcuni di questi personaggi pubblici è la tendenza a dare del “tu” a noi sconosciuti. Questa abitudine, che trovo simpatica, non prescinde dal rispetto o cose simili; penso sia data dall’aspettativa del pubblico che conosce il personaggio famoso, anche se non viceversa. Accade in particolar modo con gli artisti che godono di molta popolarità e si manifestano al pubblico da amici a tutti gli effetti, perché è così che il pubblico li immagina e quindi li vuole.

Qual è la corsa più lunga che ha fatto?

Fino al casello autostradale di Dueville, tra Vicenza e Bassano del Grappa: era una signora israeliana che ha trascorso tutto il viaggio a sfogliare e strappare pagine di riviste, forse di abbigliamento; pareva mezza nevrotica.

Ultimato il viaggio mi lasciò un po’ di carte e riviste sul taxi, ma considerata l’entità del viaggio non mi formalizzai; trovai sul sedile perfino una pasticca: chissà a cosa serviva!

La corsa più breve invece era per una destinazione in linea d’aria a una ventina di metri; mi fermarono al volo un gruppo di ragazzi in via Tortona angolo via Bergognone: «Senta, dovremmo andare in via Tortona all’altezza circa del 32!».

«Pronti!»

Mi bastò solo completare la rotatoria e fare inversione: «Eccoci arrivati».

«Come, già arrivati? Ma allora eravamo già in via Tortona!»

«Be’, sì, pressappoco.»

«Incredibile; comunque mi dica quanto è!»

«Oggi offre la casa: tanto mi trovavo già nei paraggi.»

Un altro caso di prestazione gratuita fu la prima corsa della mia vita: andai in banca a procurarmi gli spiccioli per eventuali resti e mi piazzai al posteggio di piazza Diocleziano, il più vicino all’officina che mi aveva appena allestito il taxi.

Feci tutta la mia attesa ed ero un po’ emozionato; tante erano le piccole paure e i mille pensieri che si susseguivano: come dovrò comportarmi, come risponderò al telefono e poi cominciavo a immaginare tutte le destinazioni possibili ecc.

Non suonò alcuna chiamata, la cliente salì direttamente a bordo sul posto: «Buongiorno, dove andiamo?» chiesi con voce tremolante. Per la signora questo era un taxi come un altro e non poteva certo sapere che per me era una corsa speciale. «Vado in piazza Firenze.» Evvai, pensai tra me e me: so dov’è!

Per nulla mi importava che il viaggio fosse molto breve mentre l’attesa era stata piuttosto lunga: quello che contava era saperci arrivare e superare la barriera psicologica della prima corsa.

«Va bene se mi fermo qua?»

«Sì, sì va bene e mi dica quanto è.»

«Niente!»

«Come sarebbe?!» Sembrava quasi voler aggiungere: cosa c’è sotto?

«Niente, siccome lei è la mia prima cliente, ho deciso di non farla pagare in segno di buon auspicio. Così magari mi porterà fortuna.»

«Oh, grazie! Gliel’auguro! Io invece non ne ho avuta molta.»

Qualcuna le ha mai fatto qualche avance?

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Sfortunatamente, o fortunatamente, no; questo genere di mestiere, nel diurno, al contrario di ciò che può sembrare, non credo che si presti molto a certi tipi di approcci: la gente è frenetica, il lavoro e il contesto non sono favorevoli.

Tuttavia mi ricordo una volta, nei primi mesi di servizio, di una persona che presi a bordo, ma non si trattava di «qualcuna» bensì di «qualcuno».

Interminabile mi sembrò il tragitto da piazza Emilia alla zona San Siro con quell’individuo e mi ci volle un poco perché lo svelassi; del resto era ben camuffato e sotto quella maschera femminile c’era un professionista dell’altro sesso, che rincasava forse dopo una notte di lavoro produttivo.

Io non ho mai avuto difficoltà a trasportare tipi del genere, ma questo era proprio alienante: continuava a tampinarmi con proposte oscene. Non capisco che cosa ci trovasse di particolare in me; una cosa però era certa: lui non era affatto il mio tipo. Era straniero, parlava a stento l’italiano, ma quando si trattava di rompere l’anima al prossimo sapeva spiegarsi benissimo.

Io, d’altra parte, ero sereno e rilassato, e non avevo voglia di essere sgarbato: «Senta, il discorso è semplice, lei non fa per me!».

«Perché, cosa ho che non ti piaccio?»

«Lei non è il mio tipo.»

«Ok, capisco.»

Ma dopo un attimo di silenzio, sembrava quasi non accorgersene, lui tornava sul discorso iniziale. Io avrei potuto buttarlo fuori dalla macchina, ma non sono il tipo: non l’ho quasi mai fatto.

Dopo tutto non posso nemmeno dire che mi stesse odiosamente antipatico, era la sua insistenza che mi infastidiva, così cercai di troncare il discorso: «Senta, le ripeto che non mi interessa e poi, a dirla tutta, sarò forse un po’ all’antica ma mi piacciono le donne!».

«Certo, certo, capisco, rispetto…»

Come “rispetto”? Caso mai, sarei io a poter dire che rispetto… Sembra quasi che noi trogloditi amanti delle donne siamo una specie rara, in via di estinzione e fuori posto, e quasi dovrei sentirmi imbarazzato a esprimere le mie inclinazioni vergognosamente conservatrici.

In ogni caso il tipo non smetteva di insistere ma comunque, per quanto lungo dovesse sembrare il viaggio, alla fine giunse al termine.

In fondo questa mia esperienza è stata di blanda entità se penso a quello che aveva passato un mio cliente: era un giovane, forse un impiegato di azienda, lo vedevo taciturno, forse scosso, non lo dava molto a capire, dopo tutto, da queste parti la gente sa essere riservata.

Il giovane doveva però essere tormentato dai suoi pensieri, infatti quando attaccò a conversare al telefono con un suo conoscente fidato, gli raccontò tutto.

Finita la telefonata, forse ancora bisognoso di sfogarsi, si mise a parlare con me; io, che avevo udito tutto, conoscevo già il problema: in pratica un suo collega di azienda aveva tentato di baciarlo in ascensore.

Era un uomo come tanti altri con cui aveva sempre lavorato assieme. Elevato doveva essere stato lo shock e la reazione repulsiva del mio passeggero gli aveva permesso di scansarsi in tempo, ma oramai la frittata era fatta.

Il collega dal canto suo, senza ritegno, si era premurato di tranquillizzarlo con qualche frase che non ricordo, ma che in sostanza diceva che era un tipo ben disposto anche allo scambio dei ruoli, peggiorando ulteriormente la situazione.

In azienda si mormorava che il collega era un tipo da certe tendenze, poi si pensa sempre che siano solo pettegolezzi o modi di dire un po’ scherzosi, da non prendere troppo seriamente, ma quella

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volta non fu così: l’uomo si era manifestato svelandosi nel suo vero essere e il mio passeggero questo lo aveva toccato con mano.

Perché all’andata con un suo collega ho pagato più di adesso?

Nonostante il tassametro segua delle logiche di calcolo ben precise, durante il percorso la tariffa può incontrare diverse variabili. Intendiamoci, il tassametro è tarato per tutti alla stessa maniera e se è capitato che qualcuno, togliendo il sigillo, lo abbia manomesso, si è trattato sicuramente di episodi clamorosi quanto rari, tuttavia sufficienti a danneggiare la reputazione della categoria.

In tutti gli altri casi la differenza di costi, anche a parità di percorso, può derivare dal traffico che danneggia sia il passeggero sia noi taxisti: se al cliente comporta una spesa maggiore, a noi costa il tempo, che in condizioni normali ci consentirebbe di fare anche una corsa in più, con il relativo guadagno di un fisso che ci spetterebbe per ogni partenza. Per non contare un altro aspetto: il tassametro considera due regimi principali, orario (sotto i trenta chilometri orari) e chilometrico (sopra i trenta chilometri orari), che non possono sovrapporsi in nessun modo.

Quando è in atto, il sistema chilometrico è più vantaggioso anche per noi, perché a parità di tempo fa guadagnare di più. Facciamo un esempio pratico: con l’attuale tariffazione, se con il regime orario in dieci minuti il tassametro sale di 3,60 euro, con quello chilometrico già alla velocità minima di trenta chilometri orari salirà di 3,85 euro; se poi si va oltre i trenta chilometri orari, il vantaggio del regime chilometrico aumenta.

In pratica, se il traffico scorre veloce, è vero che il passeggero al minuto paga di più, ma arriva prima a destinazione e quindi, in totale, paga meno, mentre il taxista ha guadagnato meno ma ha finito in fretta ed è già pronto a iniziare una nuova corsa mettendosi in tasca la partenza di 3 euro.

Quindi se qualche passeggero pensa che alcuni di noi fanno apposta a cercarsi le strade trafficate sbaglia, senza contare che le code sono logoranti e facilitano le liti con i passeggeri.

Ci sono poi altri regimi forfettari che intervengono in circostanze particolari per calcolare le corse extraurbane, e poi ancora il supplemento festivo o notturno, che comunque non possono sommarsi.

Altra variabile che può incidere sulla tariffa finale è in quanto tempo il taxi arriva per prendere a bordo il cliente, perché non dimentichiamo che la nostra prestazione inizia al momento in cui veniamo chiamati.

Se poi si tratta di una prenotazione, è consuetudine dei radiotaxi cercare l’auto almeno dieci minuti prima dell’orario pattuito in modo da garantirla. Perciò una dritta, se il passeggero che ha prenotato vuole un po’ risparmiare, può uscire di casa qualche minuto prima: probabilmente troverà già il taxi pronto.

Tutto questo è per riassumere alcuni mutevoli fattori che possono incidere sulle tariffe di due viaggi apparentemente uguali.

Le polemiche che riguardano le tariffe e percorsi non mancano mai, ma se dovessi fare una casistica basata sulla mia personale esperienza, il rischio di discussioni tocca i massimi livelli solo con certi soggetti stranieri: mi riferisco in particolar modo a persone provenienti da alcuni paesi centrafricani, che non so esattamente quali siano, ma deduco che siano del centro dell’Africa dalla loro fisionomia e dalla particolare cadenza nel parlare.

Evidentemente dalle loro parti le tariffe e i percorsi vengono interpretati dai taxisti in maniera molto approssimativa, dunque anche qua partono prevenuti nei nostri confronti: «Senti, io devo andare in viale Romolo 75; mi puoi portare?»

«Ma certo, salga. Proprio bello il suo bambino!»

«Grazie, ha pochi mesi. Senti, ma è lontano viale Romolo?»

«Abbastanza, è dall’altra parte della città.»

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«Pensavo che fosse qua vicino.»

«No, è informata male… A quest’ora ci sarà mezz’ora di strada dalla stazione. Piuttosto, è sicura che sia il 75? Perché la via è corta e non penso che arrivi a quel numero.»

«Aspetta un momento che chiedo.»

Poco dopo mi passa il suo cellulare e una voce italiana mi dice di andare in viale Cassala, al 75.

«Adesso ci siamo: non è viale Romolo, ma una via vicina.»

A poco più di metà percorso il tassametro segna circa 12 euro e la signora all’improvviso dice: «L’altra volta ho speso 11 euro!».

«Mi sembra strano, mi scusi se glielo dico ma io ho già superato quella cifra e manca ancora un bel pezzo; ma che strada aveva fatto?»

«L’altra strada!»

«Come sarebbe a dire “l’altra”? Guardi che non ci sono solo due strade! Ma qualunque strada sia ci vuole il suo tempo. Forse lei l’ha fatta in un orario migliore, però 11 euro mi sembra poco ugualmente.»

«Era l’orario come questo.»

«Non so cosa dirle, ma è stata veramente fortunata con quella cifra; forse il mio collega non ha trovato traffico.»

Pensai tra me che forse aveva paura di essere fregata e allora metteva le mani avanti, però non si poteva saperlo e forse era come diceva lei.

Proseguendo per la strada, lei però ogni tanto borbottava: «Eppure non sono mai passata di qua».

Dopo un chilometro, ancora: «No, non so dove siamo… L’altra volta siamo passati da un’altra parte».

«Senta, sappia che esistono varie strade, se ha una preferenza deve anche saperla indicare!»

Dopo ci ho pensato su e mi è venuto in mente che aveva sbagliato il nome della destinazione pronunciando casomai quella dell’omonima e vicina stazione della metropolitana, per l’appunto Romolo, e poi non sapeva nemmeno se stava vicino o lontana. Stava facendo la furba e così mi è venuta un’idea per tentare di svelarla: «Senta, invece, qua è sicura che non è mai passata?».

«No, no.»

Un po’ dopo imbocco via dei Crollalanza: «Qua non è mai passata?».

«No, sono sicura!»

Continuo fino in fondo alla via e svolto a destra, per poi immettermi ancora a destra in una strada bloccata dal traffico: «Neppure qua è mai passata?».

Lei si guarda intorno e poi dice: «No».

«È sicura?»

«Sì, sono sicura!»

«Invece si sbaglia perché è proprio qua. Siamo arrivati.»

La signora, impietrita, non poté fare altro che pagare senza aggiungere altro commento.

C’è stato poi un altro episodio molto simile, ma con esito ancora più soddisfacente. Erano due forestieri, coniugi siciliani, che dalla stazione dovevano andare in via Faravelli, in una clinica: «Ieri il taxista ha fatto l’altra strada».

Io accostai immediatamente e le dissi: «Mi dica pure che strada ha fatto che siamo ancora in tempo

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a cambiarla».

«Ma… non so. Era l’altra strada» ma il marito interruppe la signora dicendo: «No, lei continui pure per la sua strada».

All’altezza del cimitero Monumentale, la donna ancora: «La strada di ieri era più corta!».

«Come è possibile, siamo a metà strada e già dice che l’altra era più corta?»

Il marito interruppe ancora la donna come per sedare sul nascere qualunque polemica: «Non fa niente, non facciamo discussioni. Oramai continuiamo per questa strada!».

A destinazione la signora dice: «Quant’è?».

«14800 lire!» e intervenne per la terza volta il marito che, rivolto alla moglie: «Hai visto? Ieri abbiamo speso 15000 lire, oggi 14800 lire; la prossima volta, invece di parlare, tieni la bocca chiusa e lei arrotondi pure a 15000 lire e grazie ancora!».

Queste sono le vere soddisfazioni, più che sufficienti a rallegrarti l’intera giornata. Sono inoltre convinto che, senza il marito, la signora avrebbe giurato di avere speso ieri non più di 7000 lire.

Rimane inteso che anche a noi capita di commettere errori di percorso e in un’occasione, portando un gruppo credo di nigeriani, mi sentii urlare che noialtri siamo tutti ladri. In quell’occasione sarebbe stato più costruttivo per tutti mettersi d’accordo per aggiustare la tariffa.

Qual è il suo posteggio?

Non esiste per noi un solo posteggio o una zona di competenza, forse era così una volta. Noi possiamo lavorare su tutta Milano e aeroporti, più alcuni comuni così detti «conturbati». È vero che alcuni taxisti prediligono uno o due posteggi, ma qualunque stazione taxi compete a tutti noi.

In pratica è il cliente che traccia un po’ il nostro destino, perché tendiamo a cercare un posteggio dove finiamo la corsa. Se così non fosse, saremmo costretti a sommare alla tariffa anche il ritorno obbligatorio; non sarebbe certo una buona cosa, visto che per molti «godiamo» la fama di essere cari.

Il posteggio, però, non è l’unico nostro punto di recapito: possiamo essere chiamati tramite radiotaxi o con l’alzata di braccio come nei film, e se non siamo occupati noi taxisti ci fermiamo.

IN CERCA DEL MOTEL.A sentirli, dovevano essere molto stanchi i due clienti che avevo appena preso a bordo presso un palazzo del periferico quartiere della Barona.

Erano un uomo e una donna. Valicando il portone di uscita, il primo proveniva dall’ala sinistra mentre lei dall’ala destra dell’edificio fino a congiungersi, per poi salire a bordo del mio taxi.

«Buongiorno, senta…» mi disse lui «conosce qualche hotel o motel per riposare qualche ora?»

«Ma… non saprei; francamente queste richieste sono molto complesse, non so dove consigliarvi di andare, né quanto potreste spendere. Verso il centro o la stazione ne ho in mente parecchi di hotel, ma per i costi… a Milano è tutto caro.»

«Va be’, va be’» disse lui «andiamo verso la statale Vigevanese e vediamo se troviamo qualcosa.»

Erano due soggetti normali, tutt’altro che distinti. Lui, a suo dire, si occupava di ristrutturazione o simili. Lei non so, però strada facendo mi chiede di fermarmi in un bar tabacchi per comprare le sigarette e andare alla toilette: evidentemente dalla casa da cui proveniva c’era il bagno rotto, o era uscita di premura per prendere il taxi e correre a riposare. Lei non parlava molto perché era certamente stanca.

Dai tipi di persone si presumeva che non avessero particolari pretese: un posto valeva l’altro. Ma presumevo sbagliato: il motel Venus, che stava dopo l’autostrada, non andava bene perché ci

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andavano le battone e lui non aveva nulla da spartire con loro; poco avanti c’era un hotel, ma era troppo nuovo e sicuramente caro. Poi, a dirla tutta, gli serviva un motel e non un hotel, perché dovevano fare solo un riposino, giusto per riprendersi un po’, mentre l’hotel gli avrebbe fatto pagare l’intero giorno. Era forse per questo che, di tanto in tanto, ci teneva molto a precisare che il fine della questione era appunto il riposare un poco, e io ne avevo certamente preso atto.

Man mano che la ricerca fra i comuni della cintura metropolitana ovest continuava, il cliente avanzava nuove pretese, sempre più raffinate: ora il motel doveva essere di quattro stelle. I motel di categoria inferiore potevano non essere adeguatamente puliti, se non addirittura contaminati dai viandanti precedenti.

La cliente non parlava, ma si vedeva subito che era ansiosa di riposare: chissà com’era stanca. Io, quello che potevo fare, era continuare la ricerca nell’hinterland ovest, nella speranza che la fortuna ci baciasse in fronte.

In fondo, di tanto in tanto, di motel se ne incontravano, anzi prima di allora non ne avevo mai notati così tanti da quelle parti; ma non bastavano: mancava quello a quattro stelle, né di più né di meno.

«Forse ci siamo» dissi. «Sì… entriamo con la macchina e chiediamo. Eppure mi sembra di esserci già stato qui, ma non ricordo bene…» disse lui. Ma come fa un uomo a stentare di ricordare di essere stato in un motel? Boh, poco importa pensavo; l’importante era trasportare i due all’alloggio e, se Dio voleva, la missione era compiuta.

Le stanze erano distribuite lungo un percorso interno e, a ogni alloggio, era affiancato il relativo posto auto. Alcuni di essi, evidentemente occupati, avevano un tendone abbassato, allo scopo di nascondere l’auto.

Dopo aver salutato i passeggeri, che mi avevano compensato adeguatamente, mi stavo recando verso l’uscita piuttosto soddisfatto, ma la sbarra non s’alzò. Era l’uomo della reception che mi tratteneva: poco dopo infatti si affacciò alla finestra per indicarmi senza spiegazioni di fare il giro e riprendermi i passeggeri. Incredibile! Tuttavia, il fatto non mi stupì molto: sicuramente la stanza non era conforme alle loro aspettative. Ma non era così, anzi possiamo dire l’opposto: era il cliente che non era ospite gradito in quel motel.

Caricai di nuovo i due clienti, iniziando di fatto una nuova corsa; così, ascoltando la versione del passeggero stesso, venni a sapere che il suo nome sarebbe stato inserito in una specie di libro nero dei clienti sgraditi, a seguito di una lite tra lui e l’albergatore avvenuta forse una ventina di anni prima. Infatti quando il nominativo tratto dal documento di identità fu inserito nel computer dalla memoria elefantina, si svelò l’altarino.

Al cliente, solo in quel momento, tornò in mente che effettivamente doveva esserci stata una remota discussione risalente ai tempi in cui aveva alloggiato lì per un certo periodo, forse per lavoro. Lui però non ricordava molto bene i motivi del litigio e sembrava comunque non dare importanza alla questione. Pensai che magari il cliente era talmente abituato a girare fra i motel, litigando qua e là, da non ricordare un caso in particolare.

A ogni modo, i due passeggeri erano risaliti a bordo e perciò era tutto da rifare.

Il tour dei sobborghi riprese anche con l’aiuto del navigatore satellitare, ma soprattutto con la segnaletica locale; proprio grazie a quest’ultima iniziammo a scegliere fra le tante alternative, mettendoci poi sulle tracce del promettentissimo Motel Mircos, ma non si arrivava mai. L’idoneità del motel era comunque tutta da verificare, perché a parte l’incognita del numero di stelle, c’era un’altra novità: adesso i due passeggeri volevano un motel dove mangiare anche un boccone.

Ecco così svelati tutti i misteri. I due della coppia non l’avevano raccontata tutta, volevano fare insieme dell’altro prima di dormire: mangiare! Potevano dirmelo anche prima: io oramai non mi stupisco di nulla, sono di larghe vedute; e poi in fondo cosa c’è di male nel mangiare qualcosa, dopotutto è un fatto naturale.

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Questa piccola novità comunque non stravolse la ricerca e, come cani da segugio, proseguimmo col giro, che di fatto era oramai un vagabondaggio, senza mai perdere la pista iniziale: quella del Motel Mircos. Percorrendo uno stradone, come d’incanto comparve il Motel San Silvestro, che non c’era mai apparso nelle indicazioni, ma passandoci era piuttosto vistoso.

Non esitammo a decidere di fermarci e chiedere; ma già mentre entravo nel piazzale che dava sulla reception, il cliente mi bisbigliò frettolosamente: «Non mi piace, è meglio andar via. Via! Via!».

Lo diceva urlando sottovoce, quasi a temere di essere udito dall’usciere che invece ci stava certamente osservando da un’apposita finestrella, mentre facevamo rapidamente l’inversione di marcia per andar via. Adesso era la cliente che aveva da dir la sua: si ricordava che quello era il motel dell’altra volta, ma perché lo ricordasse solo ora e che cosa ci fosse che non andasse lì non lo saprò mai.

A ogni modo la traccia del Motel Mircos non era comunque persa, anzi, i segnali erano rassicuranti: oramai indicavano solo quattro chilometri restanti. Peccato però che dopo vari chilometri incontrammo il segnale successivo che indicava altri tre chilometri al motel: ma che razza di chilometri erano, quelli della segnaletica? Si trattava certamente di chilometri speciali. Come esiste il miglio terrestre e il miglio marittimo, per analogia deve esserci anche il chilometro terrestre e il chilometro Mircos. Dallo specchietto scorgevo lo sguardo vispo e impaziente della donna dietro cui però si celava certamente la sonnolenza.

«Forse ci siamo davvero» dissi. Infatti, iniziato il tratto discendente di un desolato cavalcavia, ecco scorgere il «nostro» Motel Mircos.

Ci trovavamo in una zona rurale, a diversi chilometri dalla città: oramai si trattava solo di chiedere informazioni all’ingresso e, per quanto riguardava la questione vitto, secondo me non era il caso di fare i difficili. Andò bene anche quello, forse c’erano rimaste giusto un paio di porzioni di lasagne, perciò stavolta la missione si poteva dire veramente conclusa.

Sulla strada del ritorno, il cielo stava oramai imbrunendo, immaginai che a loro forse sarebbe convenuto chiamare già subito un taxi per il ritorno, perché ora che raggiungesse il posto, potevano fare il tutto con comodo. Ma a me, questo non importava. Io ero soddisfatto e un po’ stanco, e mi consolavo pensando che loro dovevano esserlo assai di più. Dopo tutto io ho solo un po’ guidato, loro invece hanno atteso attivamente la destinazione per guadagnarsi quindi il meritato sonno; è per questo che col pensiero e col cuore ho detto: «Buon appetito signori. Ma soprattutto buon riposo».

UNA GIORNATA QUALUNQUE.Se pensate che il nostro mestiere sia sempre ricco di eventi, come descritto finora, vi sbagliate: la corsa in media è noiosa e silenziosa. Molto comunque dipende dallo stato d’animo di entrambi, conducente e passeggero.

Senza contare i casi di eccessi negativi, come quando portai due sorelle in un ospedale fuori città per poi riportarle indietro: all’andata non parlavano, mentre per tutto il ritorno entrambe piangevano sottovoce, perché avevano appena saputo che loro padre era spacciato.

La noia inizia nei posteggi, specialmente quando il lavoro è scarso. Quel giorno ero fermo in una stazione taxi di via Padova, tutti noi taxisti eravamo chiusi in macchina a leggere o ad ascoltare musica.

L’unica distrazione era guardare un vecchio ultranovantenne col cappello che faceva manovra con la sua vecchia auto: poteva trattarsi di un Fiat Ritmo 60 o qualcosa del genere. Al suo fianco la moglie, una donnina talmente bassa che la testa non superava lo schienale del sedile, con l’espressione sicura, fiera del marito che certamente doveva avere quasi settant’anni di esperienza di guida: una vera garanzia.

Francamente noi, al posto della moglie, non saremmo stati così tranquilli: la faccia del vecchio si

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commentava da sola, non prometteva nulla di buono. Tuttavia già la sua faccia rappresentava un’attenuante che in qualche modo poteva giustificare, o quantomeno spiegare, il suo modo di guidare. Inoltre il volante veniva impugnato timidamente nella parte bassa e con i guanti, i polsi rivolti verso l’alto; doveva essere sordo come una campana: il motore era accelerato a regimi altissimi, forse a 6000 giri al minuto, e aspettava che l’auto si muovesse.

Solo parecchi secondi dopo l’ultranovantenne si accorse di essere in folle, allora, senza minimamente decelerare, con una tremenda grattata inserì la marcia. Ma anche così la vettura stentò a muoversi. Alla fine ci riuscì, muovendosi però contromano, in terza e con il motore che picchiava in testa.

Tutto questo non era nulla di particolare, ma per noi taxisti nei momenti di noia si trattava già di un diversivo, tanto che siamo usciti dalle vetture e per dieci minuti non s’è parlato d’altro.

Certo che se la legge, invece che sottoporre gli automobilisti al test dell’alcolicità, adottasse la prova dei riflessi, magari si scoprirebbe che alcuni anziani astemi possono essere più pericolosi di un adulto che ha pasteggiato bevendo semplicemente un paio di bicchieri di vino.

Presi poi a bordo un ragazzo che mi porta in piazza Risorgimento, dico «mi porta» perché noi abitualmente usiamo esprimerci così: è il cliente che ci porta e fa il nostro destino, noi non dobbiamo far nulla, solo guidare.

Non ricordo l’inizio del discorso, ma quel ragazzo mi raccontò qualcosa di curioso che ho sempre faticato a credere: avrebbe rifatto due volte il servizio di leva obbligatoria. In pratica il secondo richiamo era stato un errore burocratico, tuttavia un suo legale gli avrebbe consigliato di partire per evitare problemi penali: lui poi subito dopo avrebbe provveduto a sistemare la faccenda. Ma le logiche giudiziarie a volte prevedono tempi lunghissimi e l’anno trascorse, il giovane onorando così per intero anche il secondo servizio militare.

Non avevo mai sentito di un caso simile e mi era sembrato tutto così surreale, stentavo a crederci, eppure era stato così bravo a raccontarlo, forse direi anche troppo.

Il passeggero successivo che presi a bordo in piazza Tricolore era molto chiacchierone, forse troppo. Sembrava una specie di mercante e ci teneva a far capire che i suoi affari andavano a gonfie vele grazie al suo nuovo brevetto, poi mi propose pure di entrare nel giro di affari. Si capiva benissimo che era alla ricerca di socio–collaboratori, ma nessuno accettava, che ignoranti e fessi a lasciarsi sfuggire certe opportunità! Eppure l’invenzione era geniale: si trattava di una speciale lampadina nera che, all’opposto di quella tradizionale, faceva ombra. La proposta, vorrei sperare scherzosa, si rispondeva da sola: ovviamente con un nulla di fatto.

Lo lascio a Baggio: uno dei quartieri molto periferici che ha mantenuto una sua identità quasi di paese. In effetti un tempo doveva esserlo, per poi, verso gli inizi del Novecento, venir conglobato nel comune di Milano. Oggi Baggio è un quartiere piuttosto a misura d’uomo; è frequentato solamente dai residenti e il commercio è prevalentemente locale: il prestinaio, il salumaio, la merceria, il calzolaio ecc. e tanto per render l’idea capita spesso di vedere qualche vecchio che tornando dal ferramenta, magari per un paio di bulloni, si ferma dieci minuti con la bici in mano a spiare oltre lo steccato le fondamenta del nuovo cantiere. Chissà a cosa pensano i vecchi in quei momenti.

Anche questo quartiere ha naturalmente un suo posteggio taxi e lì, dopo una certa attesa, caricai due tizi dall’aria trascurata: uno aveva i capelli ricci lunghi, l’altro la barbetta incolta e almeno uno dei due puzzava un po’. Erano certamente artisti. Soggetti del genere li ho sempre definiti «emisferi destri», ossia creativi ribelli alle regole: le tipiche persone da centro sociale.

Destinazione, una via del quartiere Isola davanti a un grosso portone di legno completamente dipinto da uno stupendo graffito; si capiva che doveva essere opera loro o dei loro simili. Io un po’ provocatoriamente gli dico: «Che bel disegno! Ma… non avete paura che qualcuno ve lo imbratti con le loro bombolette di vernice spray?».

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«No, non possono farlo. È una questione di gerarchia.»

Il mio tour continua con partenza da piazzale Lagosta direzione Loreto. Questa volta si tratta di un vagabondo per vocazione, accompagnato da una vecchietta che di sicuro doveva trattarsi di sua madre che, spinta dall’istinto materno, di tanto in tanto riportava a casa il suo figliolo, lo lavava, gli dava un piatto di pasta per poi restituirgli l’indipendenza. Così la vedevo io.

Un particolare che ricordo molto bene è stato quando, strada facendo, il vagabondo mi ha chiesto molto cortesemente se potevo evitare il tunnel sottostante alla Stazione Centrale. Paura del chiuso? Forse, o forse semplicemente la breve galleria era già sufficiente a minare il suo senso di libertà.

In quei paraggi scelsi poi il posteggio della Stazione Centrale. Lì è come l’aeroporto: può capitarti qualunque tipo di cliente. In passato conobbi passeggeri provenienti dai luoghi più disparati: Islanda, isola di Wight, isole Bermuda, Alaska, Siberia ecc. Un giorno addirittura trasportai un monaco tibetano e un’altra volta ancora due persone di cui una era una suora di clausura straniera, ma in quel caso non approfondii il discorso chiedendo che cosa ci facesse in giro per la città.

Quel giorno mi capitò un normalissimo turista italiano che andava a vedere il cenacolo di Leonardo da Vinci: una delle tappe predilette dai visitatori della città.

Strada facendo a volte capita anche di fare un po’ da Cicerone.

«Che bello, cos’è?»

«È il castello Sforzesco. Apparteneva a un’importante famiglia di Milano, ma ho sentito che adesso devono abbatterlo per costruirci un centro commerciale.»

«Cosa? Ma è sicuro?»

«Certo, mica racconto balle io!»

«È pazzesco, ma chi avrà avuto questa idea?»

«Sicuramente qualche multinazionale: sono loro le vere potenze.»

«Ma la gente non dice niente?»

«No… E comunque si tranquillizzi, stavo scherzando. Per il momento, di fare il centro commerciale non se ne parla.»

Stavolta, da piazzale Baracca prendo la corsa per radio: è una donna rumena che, come tanti provenienti dall’Est, si trovava in Italia certamente con la speranza di farsi una nuova vita dando un calcio al torbido passato.

Il volto di questa era particolarmente tenebroso, anzi direi impietrito: il motivo? Non era certo affar mio. Ma quella volta, per dire la verità, non era proprio così perché in qualche modo c’entravo io. All’inizio lei dialogava con un po’ di reticenza, fino a quando, nella conversazione che non sto a spiegare com’era iniziata, mi ha detto: io ero il sosia preciso del suo ex marito rumeno, da cui lei era scappata in Italia per la disperazione. Doveva trattarsi di un tipo losco, forse malvagio e guarda caso anche lui faceva il taxista a Bucarest.

Pensate quindi che shock quando dallo specchietto retrovisore ha scambiato il mio volto per quello di lui: istintivamente avrà pensato che l’ex marito balordo si fosse trasferito col suo taxi a Milano per continuare a perseguitarla. Quasi piangeva e io mi sono sentito di tranquillizzarla: «Stia tranquilla signora, sono sempre stato della zona di Milano e sono una brava persona, parlo solo italiano. Sfortunatamente somiglio un po’ al suo ex marito ma fra poco, probabilmente, non mi rivedrà più».

La zona Corvetto, dove avevo lasciato la rumena, non sembrava in quel momento molto generosa di lavoro e, come spesso accade a noi taxisti, sono stato costretto a riavvicinarmi al centro in cerca di qualche opportunità di lavoro in più.

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Ecco infatti un’altra chiamata radio. La cliente non era nuova: la riconosco subito per la sua stazza enorme ma, a differenza delle volte precedenti, oggi è da sola, senza il suo cane altrettanto immenso, praticamente a misura della padrona. Meglio così.

Pensate che, già salendo a bordo, la macchina si era inclinata tutta dalla sua parte.

Certo che, per passeggeri così grandi, dovrebbe esistere nel tariffario un supplemento ammortizzatori.

La grande signora, nonostante il clima invernale, indossava vestiti leggeri, ma non soddisfatta spalancò il finestrino dell’auto. Certamente la sua mole doveva avere anche dei vantaggi: se in casa aveva il termoautonomo poteva risparmiare sul riscaldamento.

In pratica la cliente, in previsione di un’imminente viaggio turistico sulle Ande, lasciando inoltre a casa il marito, mi aveva chiesto di portarla in un grande magazzino di un comune limitrofo a Milano per poi riportarla indietro. Il motivo: doveva comprare uno zaino.

Molto lunga è stata la mia attesa fuori dal magazzino, ma l’importante era che la signora ne uscisse soddisfatta con il suo nuovo acquisto: «Eccoci qua, adesso possiamo ritornare. Sono contenta che qui, per il mio zaino, ho risparmiato il venti per cento rispetto al negozio vicino casa mia».

«Brava. L’importante è che abbia fatto un buon affare!»

Peccato che la signora, per risparmiare qualcosa sullo zaino, non aveva calcolato il costo del lungo viaggio in taxi: evidentemente aveva anche voglia di farsi un giretto.

Finita la corsa decido di mangiare qualcosa. Per noi lupi metropolitani è difficile fare un pasto dignitoso. Io ho provato di tutto: i panini al bar o in macchina, piatti di pasta da asporto, fast–food, kebab, pizzette ecc.

C’è stato un periodo che da casa mi portavo la minestra nel termos e un giorno è successo che, fermo al posteggio di piazzale Cuoco, mentre mangiavo in macchina, ho girato lo sguardo alla mia sinistra, verso la filovia ferma al semaforo vicinissima a me, e mi sono accorto che tutti i passeggeri seduti accanto al finestrino mi guardavano e potevano perfino capire che cosa stavo mangiando. Spettacolo interessantissimo.

Poi ho provato con gli alimenti ipocalorici, perché il nostro è un lavoro malsano e sedentario e alla sera, a forza di star seduti, quasi quasi torniamo a casa con le piaghe da decubito (si fa per dire). Mi ero quindi comprato una scorta di fettucce integrali, praticamente erano fette di crusca. Ho avuto una bella costanza, forse otto o nove mesi, ma con risultati poco soddisfacenti e il pasto non era affatto appagante, anzi, più passava il tempo, più diventava triste al punto che mentre masticavo quelle crocchette mi veniva il magone. Fu liberatorio quando mi accorsi che quelle fette di crusca cominciavano a provocarmi crampi allo stomaco, mi sentii così libero di tornare al vecchio e malsano sandwich.

Anche il giorno della grande signora mi ero fatto il mio panino con speck e brie, il mio prediletto, per poter così far fronte al rimanente pomeriggio lavorativo.

La giornata proseguì da piazza Duomo: presi a bordo una troupe televisiva cipriota, di quattro persone dirette al Palalido di piazza Stuparich, che erano certamente in Italia per eventi sportivi.

Il passeggero seduto davanti filmava il tragitto con una telecamera professionale talmente grande che sembrava un quinto passeggero: io evitavo brusche manovre per timore che l’apparecchio urtasse contro i vetri dell’auto.

Chissà che cosa ci trovavano di interessante a Milano? Personalmente ho capito una cosa di me: la città di Milano sono incapace di giudicarla. Sono assuefatto, ho sempre considerato l’aspetto esclusivamente viario e poche sono state le occasioni di fare una spensierata passeggiata per il centro storico. Poi tra la popolazione c’è chi la detesta e chi non ne potrebbe fare a meno.

Io penso che tolto il bel centro storico, quella di Milano sia una bellezza discreta e che vada cercata

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negli scorci, nei cortili privati con rampicanti di glicine in primavera, palazzi antichi che comunque si confondono tra gli edifici moderni in vetro. Si sbaglia il turista che immagina Milano bella in senso panoramico e aereo. Ancora più difficile è cercare il bello tra le grandi periferie costruite nel dopoguerra in fretta e furia.

Mi diressi poi a vuoto verso piazzale Lotto. Lì prendo su un signore: è un pendolare qualunque, residente in una provincia limitrofa e lavora per conto di qualche compagnia d’assicurazione.

Ci crediate o no, lui mi ha raccontato che dopo oltre trent’anni di pendolarismo a Milano, solo qualche giorno prima finalmente aveva visto il Duomo. In pratica, nonostante i numerosi spostamenti cittadini per lavoro, lui non aveva mai avuto tempo e occasione di passarci davanti. Al massimo aveva intravisto le guglie del Duomo in lontananza dalla tangenziale est. Comunque per lui tutto questo non era un problema: il Duomo era sempre lì e in qualunque momento poteva vederlo. Probabilmente fin dall’inizio aveva pensato che quella visita sarebbe stata imminente, ma poi rimanda e rimanda qualche decennio era trascorso.

Solo qualche giorno prima, in virtù dello spostamento della sede lavorativa, aveva potuto finalmente vedere il Duomo. Fu solo così, passandoci casualmente davanti, che realizzò di non averlo mai visto prima.

Questo cliente andava verso piazza Napoli, mi bastava fare un po’ di circonvallazione ma a volte le cose non sono prive di intoppi: quella volta c’erano dei cantieri. I lavori sono il flagello di Milano, per non parlare del periodo estivo quando tutta la città è letteralmente sbudellata dagli scavi.

Io ho sempre sostenuto che dovrebbero modificare l’articolo della costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sui lavori in corso».

Cantieri ci obbligano a delle imbarazzanti deviazioni e quando qualche turista a bordo ci chiede che lavori stanno facendo, io li tranquillizzo sempre rispondendo: «Non so esattamente, ma comunque sono a buon punto: fra vent’anni hanno finito».

All’imbrunire del cielo, il lavoro continua e dalla colonnina del telefono di piazza Napoli chiama un’autoscuola di zona: dovevo trasportare due allievi che avevano appena finito la lezione di guida verso una zona popolare del quartiere Giambellino.

Nulla di particolare, a parte un dettaglio leggermente inquietante: i due allievi erano coniugi e, dall’aspetto, quasi certamente ultrasessantenni.

Quel giorno era in un fruttuoso periodo di fiera, anche se non ricordo di quale settore, così io, considerando l’ora, decisi di spostarmi da quelle parti perché i visitatori erano certamente in uscita. Prendo a bordo due ragazzi e due ragazze inglesi che dovevano andare in un hotel a me sconosciuto nelle vicinanze della Malpensa: una ghiotta destinazione per noi tutti anche perché si tratta di una corsa ambita quanto rara, lunga cinquanta chilometri e veloce. Ma quella sera non fu così: sappiamo per certo da informazioni radio che l’autostrada è bloccata per incidente.

Avevo provato a consigliare ai passeggeri di prendere il Malpensa Express, ma loro non andavano esattamente all’aeroporto bensì nelle vicinanze, così potevano far conto solo su di me.

Sapevo che esisteva una strada alternativa, ma che non conoscevo bene. Era un po’ più lunga e più lenta, ma in questo caso avrebbe fatto risparmiare tempo e denaro. In teoria non era un problema, l’aerostazione doveva essere certamente indicata, ma io non potevo esserne sicuro: quel tratto l’avrò percorso forse un paio di volte e in senso inverso.

Iniziai a percorrere l’autostrada per Torino e, all’uscita Boffalora, faccio partire il navigatore satellitare. D’altra parte, se questi aggeggi non li utilizziamo in provincia, cosa ce ne facciamo? Dentro Milano li usiamo poco perché noi siamo esperti e poi, quando formuliamo il percorso, teniamo conto di più fattori e a volte aggiungiamo pure un pizzico di intuito. Inoltre il Gps non tiene conto che noi possiamo percorrere le corsie preferenziali.

Quando siamo in altri comuni il discorso cambia: il satellitare è veramente utile, è come avere una

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persona esperta che ci spiega il percorso, una vera sicurezza specialmente se, come me, si possiede un apparecchio di buona qualità, con un processore che in appena due o tre secondi elabora o rielabora un lungo percorso.

Purtroppo questi apparecchi non sono infallibili, giudicati nel complesso li definirei molto positivi, ma qualche volta sono traditori. A volte perché fanno dei loro ragionamenti senza una logica apparente, ma ancora più spesso perché gli aggiornamenti topografici nel software non vanno di pari passo con la realtà.

Quella sera andò proprio così: finché si percorreva la statale era tutto ok e tutto sommato si viaggiava anche piuttosto svelti, ma arrivati a Castano Primo iniziarono i guai.

Capita spesso che il navigatore e la segnaletica locale diano indicazioni discordanti, e qui non hai tempo per riflettere, devi fare una scelta: so per esperienza che a volte la segnaletica locale non ti dà la soluzione più ovvia, perché è coerente alle logiche locali di flussi del traffico, o magari dirottamenti verso zone più commerciali o altro; così quella sera privilegiai il mio navigatore, sbagliando.

Per cominciare mi ha fatto fare il giro di tutto un isolato quando in pochi metri, tirando diritto, avrei raggiunto lo stesso punto. Per i clienti era tutto ok, anzi erano quasi contenti: dopotutto era un diversivo nella loro noiosa trasferta di lavoro. Ma il vero problema si è presentato fuori dal paese, in aperta campagna, quando la strada all’improvviso si è interrotta per un cantiere.

E adesso cosa faccio? Tornare indietro non mi andava proprio… e poi che figura facevo?

A sinistra c’era una stradina sterrata che mi sembrava ampia e in ottime condizioni; d’altra parte se l’introduzione l’hanno fatta coincidere proprio con la mulattiera, si trattava sicuramente dell’alternativa e poi, una volta imboccata, il navigatore avrebbe rielaborato il tracciato e fatto il resto.

Però le cose non stavano esattamente così: quella tratta era assolutamente sconosciuta alla mappa digitale e il monitor dava il vuoto, il nulla assoluto, e anche noi, nell’oscurità della brughiera, non potevamo vedere oltre qualche decina di metri. I clienti avevano smesso di conversare e ridacchiare, e io non avevo idea se quella strada aveva qualche sbocco.

Stavo quasi decidendo di fare inversione ma ecco un miraggio: vedo in lontananza un veicolo furgonato, con segnali luminosi riesco a fermarlo e chiedere informazioni. Si trattava di un qualche tecnico di manutenzione di qualche linea esterna telefonica o energetica che mi ha rassicurato che sarei sbucato su una strada da cui potevo dirigermi verso l’aeroporto.

In quelle condizioni percorriamo almeno cinque o sei chilometri e, come se non bastasse, raggiunta la strada, un cliente mi fa notare quasi divertito che il monitor del navigatore, che tempestivamente si era rimesso a lavorare, segnava ancora dieci chilometri all’arrivo e, come se non bastasse, la prima parte del percorso rimanente non era per niente una passeggiata: strade piccole, curve e uno stretto ponticello a senso unico alternato sopra un profondo canale. Tutto piuttosto imbarazzante, ma dal momento che i passeggeri avevano insistito per fare il viaggio, avevo anche già fatto capire loro che comunque non sarebbe stato facile.

Tuttavia tutto cominciava ad aggiustarsi, le strade si allargavano e diventarono più veloci e finalmente arriviamo a una tratta di superstrada che ci conduce, sempre con l’ausilio del navigatore, al sospirato albergo. È stato lì che i ragazzi mi hanno dedicato un applauso.

Considerato il mio errore di valutazione, stavo calcolando un adeguamento alla tariffa ma loro hanno voluto pagarmi tutto intero: «It’s ok!». Anzi hanno aggiunto qualcosina come mancia. Magari per loro è stato una specie di avventura, magari si sono anche divertiti: beati loro.

Era oramai l’ora di rincasare, ma oramai non dovevano esserci problemi: potevo finalmente alzare il volume dell’autoradio e percorrere tranquillamente l’autostrada tradizionale per un bel pezzo, per poi dirottarmi verso una combinazione di efficaci superstrade e tangenziali.

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La giornata era stata faticosa, come del resto tutte; in fondo noi fisicamente non facciamo nulla, ma lo stress che comporta questo mestiere è notevole, non ti consente errori, devi cercare di soddisfare i clienti che hanno premura. È forse triste dirlo ma credo che buona parte del nostro lavoro sia basato proprio sulla premura e ritardo degli altri; per non parlare degli altri automobilisti maleducati e cattivi. Penso anche che prima o poi la salute mi presenterà il conto.

Pensate che spesso, alla sera rincasando, viaggio sognando di dare una svolta alla vita: vorrei vincere per esempio il superenalotto e fare una vita senza fatica, ma non subito. Preferirei, potendo, godermi la mia vita nell’ombra, senza dare nell’occhio e senza protagonismo.

Forse i primi giorni continuerei a lavorare come se niente fosse, poi mi organizzerei al cambiamento, ma forse prima del cambiamento dedicherei quindici giorni a circolare con un vecchio e scassato fuoristrada e levarmi soddisfazioni dando qualche materiale lezione a tutti gli automobilisti arroganti che commettono errori: «Scusi! Scusi, se l’ho urtata non l’ho proprio vista. Certo che se anche lei non fosse uscito dallo stop in quel modo, tutto questo non sarebbe successo, ma se comunque pensa di aver ragione possiamo andare a fondo della faccenda fino in Cassazione, perché se permette, io avrei moltissimo tempo da perdere».

Sarebbe bello avere anche un taxi Ferrari e lavorare solo con clienti che pagano bene e fanno lunghi viaggi, ma a pensarci bene sarebbe pur sempre lavoro: preferirei stare a casa o in crociera.

Forza! È meglio fantasticare meno e accelerare di più altrimenti non arrivo mai a casa e domani sarà un’altra giornata faticosa.

DISCORSI AZIENDALI.Il nostro lavoro non è basato sul turismo: è relativamente dato da trasporti privati di residenti ma soprattutto da spostamenti di lavoro.

Un esercito di uomini ma anche di donne in carriera, donne in grado di cavalcare il mondo aziendale, disumano e anche generoso, consapevoli di far parte di un ingranaggio spietato e a senso unico. Ma loro non si spaventano.

Aziende che esigono donne perfette: abbigliamento adeguato, sempre belle e devono apparire fredde ma sicure. Donne che per amore del lavoro hanno sacrificato temporaneamente la costruzione di una famiglia, ma sanno anche che appena raggiunto l’apice saranno ancora in tempo, all’età di quarantacinque anni, per fidanzarsi e recuperare il tempo perso e, se Dio vuole, rinvigorire quel che fino ad allora rappresentava un «ramo secco» nella loro vita.

Donne che, forgiate dall’azienda, hanno sviluppato al massimo il loro temperamento competitivo e, se non parlano di lavoro, possono parlare tranquillamente di politica. Tutto senza grazia e con una passionalità e aggressività tale da sembrar dei veri uomini.

Donne e uomini che nel lavoro hanno affinato un linguaggio privo di calore, altamente sintetico ed efficace.

Quando i signori aziendali iniziano a conversare in taxi con i loro telefonini, non aprono mai il discorso con inutili saluti, «buon giorno come sta», «mi scusi se la disturbo».Vanno subito al dunque e a noi osservatori sembra quasi la continuazione di un discorso lasciato in sospeso in precedenza.

Lo stesso vale per la fine conversazione, ma anche in caso di black out accidentale per insufficienza di campo: senza preavvisi, il discorso cessa e non ci si accorge.

Altro fatto curioso dei signori aziendali è che sembrano in grado di pianificare la conversazione telefonica in modo che si concluda nell’esatto istante in cui si giunge a destinazione, senza forzature e in modo naturale, e poter così rivolgersi a noi conducenti dicendo: «Ok, grazie, si fermi pure qui e mi dica quanto le devo». O magari è usanza che le argomentazioni aziendali siano poste in modo da poter essere troncate in qualunque momento, senza inibizioni.

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Invece se trasporto almeno due soggetti che dialogano di lavoro, il loro discorso sarà probabilmente ricco di termini di settore, in genere di origine anglosassone, per esempio meeting, master, target, oppure «papabili», che immagino voglia dire «candidati» o «idonei»: un termine aziendale forse creato o rimesso in voga in seguito all’ultimo Conclave in Vaticano, ma forse già abbandonato.

Se si tratta di utenti provenienti dal mondo pubblicitario può capitare di udire suoni tipo headline, caption, copy, panel, pay–off ecc.; insomma tutte parole che bisogna essere del settore per comprenderne il significato.

La cosa incredibile per noi ascoltatori obbligati e che da un dialogo tra due aziendali quasi mai siamo in grado di dedurre di cosa si occupano. Può perciò suonare incomprensibile, ma anche plausibile, immaginare una conversazione svolta pressappoco così: «… Io ritengo che qualunque sia la proposta dell’amministratore delegato della controparte, è meglio che prima, io e te, stabiliamo il punto della situazione».

«La questione però è anche un’altra: non potendo più far leva sugli ammortizzatori sociali, andrebbero riviste le condizioni pattuite ed è per questo che il gruppo ha stabilito che è necessaria una deroga che consenta di organizzarsi ai nuovi sviluppi.»

«Comunque a Bologna ci sono sicuramente dei contrasti, tanto che lui continua a dire che “io starò sopra” quando invece lui stesso sa benissimo che non è così, forse non si è reso ancora conto che la situazione di Cattaneo è estremamente delicata e dovrà prendere una direttiva prima della decorrenza delle pubblicazioni.»

«Comunque io cercherò di non prendere più di tanto in considerazione la questione D.R.E.A.L. Group, ma nel frattempo, visti i bilanci parziali, il consiglio d’amministrazione dovrà approvare il nostro progetto, altrimenti saremo costretti a preventivare almeno duecent, duecentocinquanta…»

«Il discorso è che la segretaria mi ha detto che ne aveva parlato, ma mi ha già anticipato che per la risposta dalla sede centrale passeranno almeno sei mesi: un tempo insostenibile per il nostro cliente per cui bisogna fare qualcosa che possa diventare un accordo pari.»

«Bisogna però adesso cercare di capire che cosa è sostenibile, ma soprattutto vedere se loro sono veramente interessati e fino a che punto sono disposti ad andare avanti. D’altra parte questi sono sempre stati i tempi…»

«Io non so se è perché ci sono stati dei contrasti con la loro dirigenza, ma io ti dico che troppe teste per una cosa non vanno bene e sarei dell’idea di scavalcare la sede centrale.»

«Non so se stavolta è opportuno anche perché nei confronti di Giordano non sarebbe corretto; io cerco di non andar contro perché adesso non conviene fare una roba del genere, dopotutto non dimentichiamo che ci siamo sempre scambiati i favori…»

Ecco quindi un esempio di interessantissima conversazione aziendale che, di tanto in tanto, ci tocca ascoltare.

Mi fermo qui lasciando il lettore con il fiato in sospeso, negandogli il finale della conversazione. Il motivo è semplice: non è come uno sceneggiato televisivo che, in appena due o tremila puntate, la storia finisce; i discorsi aziendali non hanno né un principio né una fine e sono destinati a continuare per sempre.

DUBBIA MORALITÀ.Le macchine non dovrebbero circolare. Gli automobilisti sono indisciplinati. Dovrebbero chiudere i centri storici come nel resto d’Europa. Parcheggiare in doppia fila è da incivili. I pendolari dovrebbero parcheggiare alle porte della città e proseguire con i mezzi pubblici che sono sicuramente efficienti. Le mamme dovrebbero accompagnare i bimbi a scuola a piedi. Le consegne con i furgoni si fanno di notte come avviene in tutto il resto del mondo, non ci vuole molto: basta lasciare aperti i negozi fino alle quattro del mattino consentendo al commerciante di poter firmare la

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bolla di accompagnamento…

Queste sono solo alcune delle molte frasi da tempo in voga, che ci tocca sentire quando ci si addentra negli eterni discorsi sulla viabilità.

Però la verità che si va sempre più delineando è che l’uso della macchina è immorale. Tu cittadino, o personaggio di rilievo, puoi macchiarti di colpe tipo falsi in bilancio o abusi d’ufficio ma, a parte il discorso della violazione della legge che ha importanza relativa, tu, per il senso comune della moralità, sei semplicemente uno che cerca di fare il proprio interesse; semmai colpevole solo di non essere stato abbastanza furbo da non farti pizzicare.

Ma guardati bene dallo spifferare in giro di fare uso regolare di vetture, che a loro volta fanno consumo cronico di sostanze sospette tipo gli idrocarburi, sempre più raffinati e dopanti per le auto: la gente potrebbe giudicarti male.

Tu che prendi la macchina rappresenti la piaga di quella parte della società affetta da sedentarietà e doti inquinanti.

Tu che ogni mattina ti accanisci a usare l’automobile, magari per ragioni superflue o ancora peggio per recarti al lavoro, il tuo comportamento non è certamente europeo. D’altra parte il sistema mediatico sono anni che ce lo dice: guidare troppo è peccato.

Ma soprattutto noi taxisti siamo trasgressivi e deliberatamente ignoriamo i saggi protocolli comportamentali che ci giungono dall’alto.

Però le autorità non stanno certo con le mani in mano; qualche assessore o urbanista di tanto in tanto promette cambiamenti viari e la gente pur non conoscendo il contenuto del progetto, si terrorizza. Non che le cose attuali vadano tanto bene, ma per favore che non tocchino nulla altrimenti le cose non possono che peggiorare: molta gente infatti è convinta che dove toccano certi, muore la pianta.

Ma nulla è dato al caso. Anche io inizialmente, quando mi ritrovavo in mezzo a carreggiate ristrette, piazze rinnovate impraticabili e combinazioni perverse di sensi unici, davo la colpa all’inesperienza degli urbanisti, il che mi feriva profondamente. Successivamente però, mi risollevai un poco, pensando che una ragione concreta doveva esserci: erano cattivi, gli urbanisti odiavano gli automobilisti. Era una motivazione discutibile ma era già qualcosa.

Fu però in un terzo tempo che capì invece il vero spirito di tutto questo. Il comune lo fa per il nostro bene: il piacere, anche di una agevole viabilità, è peccato e il comune, come un padre forse un po’ severo ma giusto, provvede subito all’espiazione delle colpe di noi cittadini e, dietro la maschera della realizzazione del buon arredo urbano, si cela la saggia intenzione di abituarci agli ostacoli nella viabilità e nella vita o quantomeno a mantenerci bei vispi.

Attenzione però: se la circolazione è di dubbia moralità, ancor peggio lo è la sosta. Perciò se proprio intendi disimpegnare la tua auto dal lecito parcheggio della tua casa in zona rurale, guardati bene poi dal parcheggiarla altrove perché non si può.

In linea di principio il parcheggio è vietato e se hai un piccolo dubbio sulla parcheggiabilità in quel bel posticino, è segno che non si può. In pratica è inutile cercare cartelli di sosta vietata, è più semplice cercare la sosta consentita.

E se tu, accidentalmente, hai parcheggiato in doppia fila, l’hai fatta grossa, hai fatto una cosa incivile: per comprare un giornale all’edicola un cittadino per bene non deve avere difficoltà a parcheggiare tre piani sotto dall’autosilo. Forse la cosa non è praticissima, ma in compenso godi della gratificazione di aver fatto il tutto a regola d’arte.

In pratica, oggi giorno è più conveniente circolare che fermarsi ed entro breve subentreranno certamente degli incaricati autorizzati, magari extracomunitari, addetti alla circolazione provvisoria: «Tieni la chiave della mia macchina e fatti due giri dell’isolato! Ci troviamo qua fra dieci minuti, vado a far shopping e torno. Mi raccomando, cerca di non rovinarmi la macchina come la settimana

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scorsa, altrimenti invece di pagarti, mi paghi tu!».

Pensate che qualche volta transitando mi è capitato di notare in via del tutto eccezionale un bel posteggio libero e gratuito, forte in me fu l’impulso di fermarmi e parcheggiare pur non avendone la necessità; d’altra parte, un’occasione simile quando ricapita?

Ma se la libera circolazione automobilistica fine a se stessa è trasgressiva, non diventa difficile intuire il contrasto assai profondo fra automobilisti e pedoni, di cui la maggior parte di quest’ultimi sembra composta da ex automobilisti «pentiti». In realtà sono automobilisti che hanno temporaneamente fermato la macchina, perfettamente trasformati in veri e propri pedoni.

Il fatale incontro avviene quasi sempre nei pressi degli attraversamenti pedonali, manifestandosi secondo le due principali variabili: la prima avviene quando per esempio io, in ruolo di automobilista, mi fermo per far attraversare e sono quasi commosso, ma soprattutto compiaciuto, per il mio stesso gesto molto europeo.

Il pedone, dal canto suo, mi ringrazia con un formale cenno col capo, con sguardo severo se non da inquisitore che sembra quasi voler dire: «Ok… hai fatto tutto nella maniera corretta, ma attento che ti tengo d’occhio!».

La seconda variabile si presenta quando tutte le vetture davanti a te sfrecciano via senza curarsi del povero pedone che dovrebbe passare; il pedone dal canto suo si espone, sempre più temerario, sulla carreggiata. Quando è il tuo turno sei, giustamente, quasi costretto a farlo passare, anche perché, diciamolo subito, oggi giorno quasi quasi è peggio investire un pedone che essere investito: se ti prendono sotto e non ti fai troppo male, magari qualche soldino lo prendi pure. Ma se sei tu che prendi sotto, torto o ragione che hai, una cosa è certa: sei nei guai fino al collo.

Se nulla di tutto ciò accade, il pedone che fai passare attraversa molto lentamente, piuttosto in diagonale, fissandoti con aria cattiva, quasi a voler farti lentamente scontare le colpe degli automobilisti sciagurati che sono passati prima di te.

Sembrerebbe dunque chiara questa ideologia puritana che, per l’interesse della comunità ma soprattutto per il tuo bene, ti implora a stare alla larga da vizi e abusi pericolosi come l’auto.

C’è solo un aspetto curioso che emerge di tanto in tanto dai giornali, con titoli tipo «Segnali di allarme, sono calate le immatricolazioni!». Parrebbe una contraddizione, ma non è così. E allora che dobbiamo fare? Ma è semplice: per la gloria del mercato compriamo tutti la macchina, ma prima di usarla mettiamoci la mano sulla coscienza.

CLIENTI SGRADITI.«Senta, dovrebbe portarmi alla Centrale.»

«Centrale del latte?»

«Oh… No, no, alla Stazione Centrale.»

«Senta, dovremmo andare in via Marcora.»

«Che numero esattamente di via Marcona?»

«Senta, io ho una banconota da cento euro, l’avviso perché l’ho visto scritto.»

«Ok, ha fatto bene a dirmelo comunque dovrebbero bastare.»

«Vorrei ben sperare!» risponde allarmato il cliente «pensavo di avvisarla per eventuali problemi di resto.»

Queste sono alcune delle banali battute che quotidianamente rivolgo ai clienti allo scopo di stuzzicarli un po’ per poi alleggerire l’atmosfera. Mi diverto con poco.

Un vantaggio nostro sta nel fatto che le stesse battute le puoi fare quasi sempre, senza il rischio di

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annoiare l’interlocutore: quasi certamente il cliente che trasporti è la prima volta che lo incontri e probabilmente non lo rivedrai mai più.

Quando poi mi capita di giungere in un posteggio di carico e da un gruppo di possibili passeggeri mi tocca un uomo, una mia frase frequente è: «Senza offesa, ma avrei preferito portare quella bionda là!».

«Ha ragione, anch’io al posto suo avrei preferito lo stesso.»

Questa affermazione però si limita realmente a una «battuta»: è vero che istintivamente manifestiamo subito delle preferenze, ma può succedere che il graditissimo passeggero si riveli invece poco dopo negativo e stressante, comunque sgradito.

Non sono mancati casi di persone che non hanno pagato, ma quelli li avevo intuiti subito; su cinque o sei casi totali ben tre volte si è trattato di ragazze o donne che andavano nel medesimo quartiere: ossia la Barona.

Una delle tre ha sacrificato la sua borsetta pur di non pagare. Infatti, quando giungemmo a destinazione in una tristissima via, mi disse: «Aspetti a chiudere il tassametro, dopo proseguiamo».

«Ok, ma mi dovrebbe lasciare una cauzione.»

Io non la pretendo mai, ma quella volta non esitai a chiederla, dopotutto il regolamento ce lo consente. Lei rimase come spiazzata, forse la mia richiesta non rientrava nelle sue previsioni. Dopo un istante di perplessità, mi disse: «Non ho con me i soldi, stavo giust’appunto andando a farmeli dare».

«Benissimo, allora potrebbe lasciare la borsa.»

Subito si affrettò a frugarci dentro per levare le cose più importanti.

«Guardi che la borsa non la tocca nessuno, piuttosto mi dica fra quanto arriva.»

«Cinque minuti.»

La ragazza non entrò in alcun edificio, bensì imboccò una sentierino che costeggiava uno squallidissimo palazzo per poi perdersi fra gli orti e campi.

Dopo una certa attesa chiesi a un passante: «Mi scusi, mi sa dire dove porta quella stradina?».

«Guardi, lasci perdere! Ogni notte là in fondo c’è una retata della polizia.»

«Ok, ho già bella che capito.»

Nella borsa trovai qualche cianfrusaglia e una bella siringa da insulina: quella che, per intendersi, utilizzano gli eroinomani.

Le corse sgradite capitano anche in circostanze più ordinarie: «Senta, dovremmo andare in zona Lambrate da un veterinario perché questo cane non sta molto bene».

«Spero che non soffra di dissenteria!»

«No, non si preoccupi. Ha solo problemi di rigurgito.»

Sempre in tema di rigurgiti, caricai una nonna col bambino all’Ospedale Buzzi: «Senta, a mio nipote hanno appena fatto la lavanda gastrica e ha problemi di vomito, ma soltanto se s’innervosisce!».

«Bene, cioè male. Viaggeremo velocemente e dolcemente cercando di non farlo arrabbiare.»

Io però sapevo già per esperienza che esistono due tipi di bambini: quelli che in macchina si rilassano e magari si addormentano, e quelli che al contrario si spazientiscono. Quel bimbo naturalmente apparteneva a quest’ultimo gruppo; l’unica fortuna era che non gli rimaneva praticamente nulla da rigurgitare. Comunque fu ugualmente un viaggio stressante.

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Possono capitare poi bambini che camminano sul sedile, signore che si danno una bella spazzolata ai capelli, clienti che si fanno uno spuntino e io che mi trovo costretto a far discussioni.

Il giorno però che presi a bordo una bella ragazza straniera che mangiava i cracker non avevo proprio voglia di polemizzare e feci finta di niente, ma di tanto in tanto davo un’occhiata con la coda dell’occhio che non mi facesse briciole.

Dopo due minuti sentii un odore nostrano: la ragazza aveva aperto un vasetto di pasta d’olive e la stava spalmando sui cracker come fossero delle tartine.

«Mi scusi, ma forse adesso stiamo un po’ esagerando; dovrebbe farmi la cortesia di mangiare dopo. Comunque quello che ha in mano oramai lo finisca.»

La ragazza aprì la portiera e rabbiosamente gettò a terra lo spuntino. Giunta a destinazione e pagato il conto, uscì dall’auto sbattendo la portiera.

Purtroppo oggi è così: c’è molta gente che vuol fare quel che gli pare e non gradisce osservazioni.

Ogni tanto a Milano cadono periodi particolari. Riguardano le partite di calcio di coppe, la città si riempie di stranieri che senza inibizioni passeggiano per la città indossando magliette col colore della loro amata squadra. Prendono d’assalto i tavolini fuori dai bar del centro e, se provengono dal Nord Europa, indossano magliette a maniche corte anche se è inverno, consumano panini ipercalorici e bevono grandi caraffe di birra a dispetto di eventuali ordinanze del comune che vieterebbero la vendita di alcolici nei giorni di coppe.

Fu in un’occasione di quelle che mi toccò prendere a bordo da un hotel di San Donato Milanese quattro ultrà del Manchester che, in attesa della partita serale contro l’Inter, desideravano che li portassi in qualche english pub. Ma io, in quel momento, non avevo in mente nessun pub: ero quindi costretto ad avvicinarmi al centro di Milano nella speranza di notarne qualcuno, eppure avevo premura di trovarlo perché di avere a bordo quei soggetti non ero affatto contento. In apparenza sembravano tipi formalmente cortesi ma allo stesso tempo erano piuttosto alterati, eppure erano ancora sobri. Si agitavano in taxi esibendo le loro bandiere e saltando su e giù sul sedile: un osservatore esterno avrebbe visto il taxi traballare qua e là. Non parlavano italiano, tuttavia a modo loro si fecero capire quando mi chiesero per quale squadra tenevo io: naturalmente mi guardai bene dal pronunciare il nome di qualunque squadra e mi limitai a rispondere qualcosa tipo: «I don’t love football» sperando che già questo non fosse compromettente. Dopo tutto non ho mentito, il calcio non lo seguo.

Verso piazzale Lodi un motociclista, evidentemente nemico dell’Inter, ci urlò: «Forza Manchester!». Loro in risposta urlarono ancora più galvanizzati. Quel motociclista idiota non poteva farsi i fatti suoi? Che se li portasse nella sua auto questi qua, così dopo avrei esultato io!

Ma la loro esuberanza non aveva confini: agitando le mani cantavano i cori della loro squadra e, quando transitavamo davanti ai gruppi di persone, qualcuno di loro mandava perfino i baci a donne di tutti tipi, anche alle vecchiette: per loro, tutto «faceva brodo».

Io non ero per niente contento, ma il buon senso mi suggeriva che era più conveniente avere un po’ di pazienza.

Infine li scaricai giù presso un bar birreria alle porte del centro: non era un english pub, ma si capiva subito che per loro andava benissimo lo stesso.

Mi chiedo ancora se il gestore del bar mi abbia ringraziato o maledetto. In ogni modo me ne andai sollevato ma con un pizzico di senso di colpa.

I problemi con i passeggeri che dopo non vorresti più vedere possono nascere pure da semplici equivoci. Un pomeriggio caricai al volo un tizio di colore: non era africano bensì newyorkese. Un caso piuttosto raro a Milano.

Inizialmente lo scambiai per un pony express, invece dopo parlandoci scoprii che faceva il cantante

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lirico. Si chiacchierava normalmente quando all’improvviso mi interruppe dicendomi freddamente: «Senta, potrebbe per favore darmi del “lei”?».

«Certo, scusi, ma io…»

«Non ci sono scuse! Voi italiani avete sempre questa abitudine di arrampicarvi sui vetri!»

«Vorrei solo dire che…»

«Non mi interessa! Già anche prima lei mi ha scambiato per un pony express e poi mi dà del “tu”!»

«Mi scusi, ma se dovesse sentirla un pony express a questo punto potrebbe essere lui a offendersi, dopo tutto il mio errore non è del tutto fuori posto: mi ha fermato perché si era guastato il suo scooter, l’abbigliamento particolare e poi mi ha dato la destinazione indicandomi un itinerario di percorso molto preciso. Quindi non mi è sembrato offensivo chiedere se faceva il pony express.»

Ma non voleva sentir ragione, sembrava una bisbetica e avevo molta difficoltà a spiegargli anche che se gli davo del “tu”, non era per mancanza di rispetto o atto di razzismo (come da lui interpretato) ma semplicemente do del “tu” a tutte le persone con cadenza straniera per evitare confusioni tra “seconda” o “terza persona”, specialmente nei soggetti di lingua anglosassone dove il “tu” e il “voi” si pronunciano nella stessa identica maniera e del “lei” non viene dato.

Ma per lui è ancora peggio: avrei dovuto capire benissimo che parlava perfettamente l’italiano e forse ne andava un po’ troppo fiero. Sarà, ma queste sono cose che non sempre ti accorgi subito.

Una cosa comunque era certa: aveva eccome la cadenza straniera ma non solo, la sua parlata era anche piuttosto gay.

Altra esperienza negativa che ricordo riguarda una breve corsa sul finire del turno quando presi a bordo una ragazza odiosissima che mi fermò per strada: «Posso salire?».

«Veramente starei per finire il turno proprio in questo momento.»

«Mi hanno picchiata e devo andare qua vicino.»

«Va bene, salga pure. Cos’è successo?»

«Guarda cosa mi hanno fatto!»

«Già, vedo…»

Continuava poi a mugugnare tra sé rabbiosamente nei confronti del suo aggressore, che a quanto pare sembrava doverlo conoscere bene.

«Ah… quel bastardo, ma stavolta non lascio correre, me la paga cara… eccome se me la paga, vedrai cosa gli combino domani… Hai visto cosa mi ha fatto?»

«Sì, c’è una bella botta.»

«Tocca qua!» Indicando la botta.

«No, no, ho già visto benissimo, ci credo!»

«Perché, ti fa schifo? Siete tutti bastardi, anche tu mi fai schifo…»

«Attenta che la faccio subito scendere!»

«Cosa fai tu?! Io non scendo!»

«Allora diamoci una calmata.»

A dire il vero l’avrei subito buttata fuori senza esitare, ma avrei dovuto usare la forza e non so perché, ma ebbi la sensazione che quella ragazza poteva essere benissimo il tipo da saltar fuori dal taxi urlando e incolpando me di averla conciata così. Tanto, eravamo comunque quasi arrivati.

Credo che quella donna non era così solo per la particolare circostanza: era sgradevole di sua

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natura, o forse era malata di tossicodipendenza e si trovava all’insorgere di una crisi d’astinenza.

Ebbe infine anche difficoltà a pagarmi l’intera cifra del breve tragitto, che a me parve eterno, e si allontanò dal taxi sbraitando e urlando parolacce; quel tipo era decisamente meglio perderlo che trovarlo. E così si spiegano anche le botte che ha preso: il tizio che gliel’ha suonate sarà stato decisamente provocato.

Per quel che riguarda me, anche questa ragazza si è aggiudicata egregiamente un posto nel vasto elenco dei miei ricordi tra i «clienti sgraditi».

GATTI E GATTARE.Come per i cani, ancora di più i gatti hanno i loro amanti fra la cittadinanza milanese: le stime sono molto approssimative, ma potrebbero indicare tranquillamente anche 100000 unità feline nel territorio comunale.

Eppure difficilmente li si vedono in giro: i cortili appartengono oramai esclusivamente alle persone, generalmente adulte, e queste nobili creature a quanto pare si sono adattate molto bene alla vita esclusivamente domestica: cibo, alloggio, affetto, tutto garantito e, in previsione di ulteriori richiami che Natura vuole, la padrona si occupa anche di fornire un partner o, ancora meglio, provvede alla sterilizzazione. Insomma, per amore tutto questo e altro.

I padroni condividono a pieno la vita delle loro amate creature: nel bene e nel male. Come quella volta che, diretto presso uno studio veterinario, chiesi alla passeggera qualche informazione generica circa il micione che portava con sé nella gabbietta: lei non rispose subito, anzi scoppiò all’improvviso a piangere. Tra lacrime e singhiozzi riuscii a capire che stava portando il suo gatto a farlo sopprimere perché affetto da un male incurabile.

A quanto pare la questione etica sull’eutanasia non si pone per gli animali.

Meritano una piccola attenzione pure le gattare: ogni comune che si rispetti ne ha almeno una. È un po’ come per le signore che fanno la puntura a domicilio: in ogni comunità o condominio ce n’è una.

Anche Milano, ovviamente, non fa eccezione; ma in una realtà metropolitana, ai giorni d’oggi, le gattare si manifestano nell’ombra.

D’altro canto però, se Dio nella sua infinita saggezza ha creato le gattare, ossia queste donne inclini ad aiutare e sfamare i gatti randagi, avrà certamente fatto tutti i suoi conti.

Oggi i gatti randagi a Milano li puoi ancora vedere, ma devi spostarti nelle estreme periferie e le gattare non si perdono d’animo: sono disposte anche a prendere il taxi pur di raggiungerle.

Questo è perlomeno ciò che mi è capitato di osservare in ruolo di accompagnatore, durante il servizio: la signora un po’ anziana dall’aspetto trascurato, cappotto, abbigliamento e portamento grezzo, lasciava intuire una provenienza da ambienti popolari. Questa è perlomeno l’apparenza che hanno in comune un po’ tutte le gattare. Mi riempì il bagagliaio di tanti sacchetti e un mazzo di fiori non addobbato; destinazione: il periferico cimitero del Musocco, lì dovevo attendere un po’ per poi riaccompagnarla. I fiori servivano per il cimitero e, dopo un rapido allestimento del vaso presso la lapide e una sintetica preghiera, si diresse velocemente nei paraggi dell’uscita: in tutti quei sacchetti c’era il mangiare dei gatti.

Era evidente che era questo il vero motivo del viaggio e la questione del proprio caro che giaceva sotto la lapide era certamente secondaria; ma dal momento che già doveva recarsi fin lì per i gatti, perché non approfittarne portando un mazzo di fiori?

Ma questi gatti poi dov’erano? Diverse volte avevo stazionato col mio taxi proprio lì davanti, ma di gatti mai, nemmeno l’ombra. Eppure al richiamo particolare della vecchia ne comparsero almeno una decina provenienti da tutte le direzioni, li vidi saltar giù perfino dall’alto senza che io facessi in

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tempo a capire esattamente da dove.

Tirò fuori dai sacchetti dei veri e propri pranzetti cucinati a regola d’arte per loro e diede inizio al banchetto. Pareva spaventoso il loro appetito, da come mangiavano.

Ogni creatura aveva naturalmente un nome: chissà se poi erano i veri nomi originali, magari qualcun’altra gli aveva già attribuito altri nomi precedenti.

Non mancò pure un cenno di gelosia nel gruppo dei gatti quando la vecchia, in via del tutto eccezionale, concesse una “cara” a uno dei gatti: eppure quei gatti erano proprio selvatici; probabilmente lei era l’unica persona al mondo che aveva da loro stessi il permesso di toccarli.

Ma un episodio ancora più spinto, riguarda una signora che praticamente tutti i giorni chiamava il taxi.

Abitava sulla cerchia dei Navigli, quindi alle porte del centro storico.

I suoi capelli erano grigi e trascurati, il corpo un poco grassottello e indossava sempre un indumento bianco che sembrava una camicia da notte. L’età era davvero difficile da definire, ricordava un po’ quelle vecchie molto semplici e misteriose disegnate nelle fiabe.

Sentivo per radio che chiamava sempre il taxi con uno o due gatti da trasportare; certe volte richiedeva un taxi station wagon perché aveva addirittura con sé quattro gabbie. Qualche volta capitava anche a me di trasportarla: la portavo sempre alla clinica veterinaria, con sé aveva due gatti in gabbie rigorosamente separate e coperte da un panno, così non potevano guardare fuori altrimenti, secondo lei, avrebbero sofferto il viaggio.

Qualche volta eccezionalmente mi permetteva di dargli un’occhiata alzando leggermente e per un attimo il panno, consentendomi di intravedere solo un po’ il muso e gli occhioni.

La volta successiva, sempre in direzione della clinica, fece tappa in una farmacia per acquistare le medicine per gatti; in quel viaggio scoprii che non aveva due e nemmeno quattro, bensì dieci gatti in casa e quasi tutti i giorni, a rotazione, li portava a fare delle terapie in clinica.

Fu lì che compresi la verità. Il veterinario della clinica, intuendo il tipo, deve avergli detto pressappoco così: «Cara signora, i suoi gatti hanno bisogno di tante cure!». E così l’hanno convinta a fare una specie di abbonamento fisso.

In pratica, ogni giorno a turno, i gatti venivano portati per le varie terapie: punture di calcio, flebo di vitamine, gocce per le orecchie, colliri, dialisi, clisteri ecc. In realtà quelle bestie erano sanissime, ma la signora voleva così.

Dopo tutto, se questo serviva a farla sentire più tranquilla, penso che tutti quei soldi erano anche ben spesi. Chissà se anche i gatti si sentivano così tranquilli a stare con lei?

Un giorno mi toccò invece il percorso inverso: dalla clinica a casa. Prima però mi tenne in ballo più di un’ora per cercare qua e là le affissioni VENDESI o AFFITTASI e prendere nota dei vari numeri di telefono, perché pareva intenzionata a cambiar casa e potersi così avvicinare alla clinica; il che mi sembrò un’eccellente idea, ma a quanto pare non andò in porto. Infatti qualche tempo dopo la ripresi a bordo dall’originaria abitazione e di eventuali traslochi non ne fece più cenno.

In compenso c’era un’altra novità: con l’ausilio di una piantina topografica appositamente acquistata per l’occasione, si era studiata a memoria un tragitto particolare per raggiungere la clinica veterinaria evitando il più possibile le strade pavimentate con il porfido. A quanto pare le vibrazioni che ne derivavano durante il percorso avrebbero disturbato i suoi gatti.

Nonostante la mia buona volontà di fare una guida e una percorrenza più confortevole possibile, certe volte le cose non vanno nel verso sperato: mi trovai praticamente costretto a effettuare una brusca accelerazione da fermo per levarmi da una disagevole posizione nel traffico che non sto qui esattamente a spiegare. Ma questo non è per niente piaciuto alla «signora dei gatti» (così l’ho soprannominata nel mio immaginario): si era sempre manifestata come una persona mite, tranquilla

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e dall’aspetto innocuo, ma quella volta si trasformò mostrando un suo lato oscuro che non avevo mai immaginato. Iniziò a urlare come una matta: «Lei è impazzito! Non so chi le ha dato la patente ma queste scemate non deve più farle!».

«Mi scusi signora, però vorrei dire…»

«Non mi interessa. Non lo faccia più perché io ho altre preoccupazioni che stare a badare alla sua guida sciagurata!»

«Ma veramente…»

«Non ho voglia di sentire altre scuse. Non lo faccia mai più, se vogliamo andar d’accordo.»

Non mi faceva parlare, interrompendomi con una parlantina svelta e velenosa: è incredibile come la collera può svelare l’altra faccia di una persona che in circostanze normali pareva l’esatto opposto, con un aspetto inoltre goffo e lento.

«Mi scusi signora, ma tutto questo non mi è sembrato molto grave. La sua reazione mi pare un po’ esagerata; dopotutto ha visto anche lei che mi stavo levando da un brutto impicc…»

«Non mi importa! Lei vada molto piano, anche dieci all’ora, anche se dietro le suonano o la insultano! Se non le va bene io prendo subito un altro taxi.»

Mi avrebbe fatto un favore, anzi molti colleghi al posto mio non avrebbero esitato a cacciarla fuori dall’auto insieme a tutti i suoi gatti. Io invece, dopo un attimo di indecisione, optai per portarla a destinazione, ma giurai tra me che non avrei più risposto a una sua chiamata radio.

Non andò proprio così. Diversi mesi dopo una signora mi fermò per strada con la tipica alzata di braccio, ma fu solo una volta salita a bordo che la riconobbi: era proprio lei, ma per la prima volta non aveva con sé le bestiole. Ebbi proprio l’impressione che non mi riconosceva: magari quelle sfuriate erano più frequenti di quel che credevo e forse per questo io non rappresentavo alcun evento in particolare. Comunque oramai non c’era più risentimento da parte mia: la questione «manovra brusca», dopo tutto quel tempo, non aveva più senso di porsi.

Questa volta la signora dei gatti doveva recarsi a un funerale, prima era necessario comprare dei fiori per il defunto.

Purtroppo la cerimonia funebre cadeva proprio in un lunedì mattino, che tutti noi sappiamo che a Milano è tutto chiuso. Così dovemmo girare un bel po’ tra chioschi e negozi di fiori; finalmente ce n’era uno aperto.

Dopo un po’ di attesa tornò a bordo con un mazzo di rose rosse scure, ma erano incartate in maniera molto strana: la confezione era molto stretta e lunga, e anche la vecchia stessa ci fece caso: «Certo che questa confezione ha proprio la forma di una bara. Comunque trattandosi di un funerale ci può anche stare. Ora, prima di partire, passiamo un attimo in piazza Sant’Eufemia». Scese un istante dal taxi, mise la mano in tasca, tirò fuori una manciata di mais e la lanciò ai piccioni.

«Ecco fatto» disse risalendo in auto «adesso possiamo proseguire.»

LA DOMESTICA.La signora, l’amica e la ragazza. Questi erano i tre soggetti che avevo a bordo.

Le prime due potevano avere anche un’ottantina d’anni, ma nella Milano del centro conta poco l’età: queste signore borghesi sanno come tenersi, sia nell’alimentazione, nel fisico ma soprattutto nella mente. Leggono, si informano, si tengono aggiornate anche con internet e fanno i cruciverba, in casa hanno la domestica che provvede a tutto ed era appunto il ruolo della qui presente ragazza straniera, forse filippina.

Non sempre le padrone di casa sono soddisfatte; in questo caso si trattava della signora che conversava con l’amica: «… Comunque, mia cara, io sono un po’ perplessa di questa nuova

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ragazza».

«Forse… però io penso che dovresti aspettare un po’ prima di dare un giudizio, dopotutto viene da un paese lontano.»

«È appunto questo uno dei problemi: di italiano non capisce un tubo e io non posso stare lì a perdere tempo a spiegare tutto!»

«Però anche tu devi spiegarle gradualmente le cose.»

«Macché gradualmente! L’altro giorno, per fargli capire che doveva spolverare il tavolo, gli ho passato su col dito ma non ha capito lo stesso. L’associazione che tu mi hai indicato sarà buona quanto vuoi ma a me ha mandato la ragazza sbagliata!»

«Te l’ho già detto: secondo me è presto per dirlo…»

Il discorso continuava senza preoccuparsi che la ragazza potesse ascoltare, del resto è vero: capiva poco o niente. Al massimo poteva solo intuire che stessero parlando di lei; perlopiù con aria indifferente poteva solo udire dei suoni derivanti dalla conversazione.

«Comunque tu puoi dire quello che vuoi, ma secondo me la ragazza non promette granché. Io queste cose le capisco subito: il buongiorno lo si vede dal mattino!»

«Devi avere un po’ di pazienza e dargli qualche possibilità in più!»

«Di possibilità credo di avergliene già concesse, comunque già che siamo qua, fermiamo il taxi e facciamo un esperimento. Facciamogli comprare qualcosa e vediamo se è capace.»

«Senti.»

«Sì?»

«Io ti do i soldi e tu dovresti andare in quel negozio a comprare del caffè. Hai capito?»

«Sì, sì, sì.»

«Mi raccomando, cerca di comprarlo il caffè, non di berlo al bar.»

«Sì, sì.»

«… e porta il resto. Hai capito?»

«Sì, sì, sì.»

«Ok, vai. Noi ti aspettiamo qua, nel taxi» poi rivolta all’amica: «Dice sempre “sì”, ma chissà se poi ha capito veramente?».

La ragazza entrò in drogheria lasciando noi tutti, me incluso, nel silenzio con un pizzico di apprensione, ma l’attesa durò poco: eccola uscire con il suo barattolo del caffè. Ce l’aveva fatta.

Chissà se sulla base della parola–chiave «caffè» ha intuito cosa doveva fare, oppure ha capito tutta la frase o addirittura l’intero discorso delle due signore.

Magari nulla di tutto questo. Possono capire o non capire semplicemente sulla base dell’opportunità del momento; questo è perlomeno quello che potrebbero pensare molte padrone di casa.

IL BRIVIDO DELL’ULTIMA CORSA.L’incognita più importante che ogni giorno ci tocca è quella dell’ultima corsa, oltre la quale non è più consentito lavorare per conclusione del turno.

Molti di noi, infatti, se capitano nella loro zona, preferiscono rincasare con un poco di anticipo piuttosto che rischiare lenti rientri dopo; dopotutto i nostri turni lavorativi sono già molto lunghi e di fatto ti consentono un po’ di margine. Io invece, un po’ per le spese, un po’ per il mutuo o semplicemente per inerzia lavorativa, tendo a tirare fino all’ultima corsa; eppure il mio fine turno

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coincide con il momento più trafficato: una corsa nella direzione sbagliata potrebbe rivelarsi davvero dannosa; equivarrebbe a una prestazione a metà prezzo in quanto la strada andrebbe poi ripercorsa all’inverso per poter rincasare.

Ma io questo aspetto lo considero un po’ nella sua globalità: oggi è andata male, ma già in principio ero consapevole del piccolo rischio e lo accetto sportivamente; dopo tutto devo anche riconoscere che sono un po’ più frequenti i viaggi favorevoli rispetto a quelli sgraditi. Molte volte mi diverto pure a coinvolgere il cliente con la questione della mia ultima corsa: già mentre sale a bordo ammetto di avere un poco di apprensione, e un attimo prima che lui pronunci la destinazione io intervengo quasi come per scongiurare brutte sorprese: «Prego, buonasera, mi dica pure e vediamo se sono fortunato con l’ultima corsa!».

Il passeggero quasi intimidito: «Ah… perché, dopo va a casa?».

«Sì, se Dio vuole vado a casa!»

«Senta… dovrebbe portarmi alla stazione metropolitana di Famagosta. Le va bene?»

«Assolutamente no: è il peggior posto che poteva capitarmi!»

«Oh… mi dispiace, ma dove abita?»

«Fuori città ma è esattamente dalla parte opposta!»

«Se vuole posso cercare un altro taxi.»

«No, grazie, ci mancherebbe. Io un po’ scherzo e accetto il rischio.»

Un giorno però andò veramente per il verso sbagliato. La serata da dimenticare iniziò prendendo a bordo un signore presso un hotel in via Washington. Il traffico era estremo anche per via dell’uscita dalla fiera, lì nelle vicinanze. Il cliente dovevo portarlo in un albergo in zona stazione, dove doveva poi incontrarsi con una signora.

La destinazione era più che ragionevole, dopo di che sarei andato a casa.

Il traffico però era terribile e la corsa pareva interminabile. A metà viaggio mi telefona mia moglie per chiedermi quando arrivavo perché dovevamo andare a cenare da amici. Quando finalmente arrivammo a destinazione, il cliente mi disse: «Adesso carichiamo su la signora e poi torniamo indietro, da dove siamo partiti».

«Cosa? Dobbiamo tornare indietro?! Lei mi uccide!»

«Se mi trova un altro taxi, possiamo continuare con quello.»

Il traffico però era alle stelle e non consentiva troppe deviazioni per cercare posteggi taxi; l’unico collega che incontrai mi negò il favore, eppure via Washington era un’ottima zona: con la fiera vicina c’era sicuramente tanto lavoro.

Oltre all’ansia, cominciava a scorrere nel mio sangue anche la collera nei confronti del collega: non riuscivo a capire il motivo della sua indifferenza e nemmeno riuscivo a farmene una ragione, in fondo il favore sarebbe stato reciproco. Forse era semplicemente cattivo.

Dovetti quindi avvisare la moglie dell’ulteriore ritardo, ma servì a poco perché di tanto in tanto mi telefonava per sapere per quanto ce n’era ancora. Ultimata finalmente la corsa non fu affatto un sollievo: c’era ancora molto da fare. Parecchi erano ancora i chilometri per rincasare e, per cercare di guadagnar tempo, formulai dei percorsi alternativi che però mi facevano allungare ulteriormente la strada: in pratica combinai un insieme di superstrade poste nella cintura metropolitana nord e, nonostante fosse inverno, le percorsi con i finestrini aperti perché lo stress di quel momento mi fece alzare la temperatura corporea.

Quando finalmente mi trovai in dirittura d’arrivo, mi accordai con mia moglie che l’avrei prelevata direttamente davanti al cancello di casa perché era impensabile perdere altro tempo per cambiarmi e

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darmi una rinfrescata; del resto mia moglie non ha mai gradito fare figuracce dovute a ritardi: gli amici ci stavano aspettando.

Il più era fatto: rimanevano una ventina di chilometri per raggiungere gli amici a Cesano Maderno, uno dei tanti comuni dell’hinterland nord milanese. Ma anche questo non fu affatto una passeggiata: questo viaggio fu totalmente accompagnato da un’accesa discussione tra me e mia moglie per via del ritardo, e a nulla servì cercare di spiegare che dopotutto stavo lavorando e impossibile era stabilire con sicurezza il termine della giornata lavorativa. Gli animi non erano sereni e l’apprensione in me aveva raggiunto l’apice; di tutto ciò che avevo dentro riuscì a buttar fuori solo il cinque per cento, tutto il resto dovetti metabolizzarlo seduto in compagnia a tavola con l’aiuto di un buon bicchiere di vino.

Ma di una cosa ero consapevole: in quelle ore ho avvertito in me un invecchiamento precoce di almeno un anno.

NON VEDENTI.Vi siete mai chiesti, potendo scegliere, se sia più conveniente la cecità acquisita a seguito di una malattia o la cecità dalla nascita? O, meglio ancora, cosa significa essere ciechi dalla nascita?

Questi sono alcuni fra gli interrogativi che noi taxisti ci poniamo quando trasportiamo i non vedenti.

Capita spesso di incontrarli per la città con l’inseparabile bastone bianco, bacchettando a destra e sinistra, preparandosi a qualunque ostacolo esclusi i bisognini dei cani.

Si fermano ai margini dei crocevia nella silenziosa speranza che qualcuno si accorga di loro e gli dia l’ok ad attraversare la strada. Spesso e volentieri sono nostri buoni clienti: d’altra parte, se non devono dipendere da qualcuno, il taxi è sicuramente il mezzo più adeguato per loro.

Sono persone abituate ad autogestirsi egregiamente, in quanto hanno sviluppato al massimo gli altri sensi. Di solito durante il percorso riescono anche a capire in quale strada si trovano; una volta, addirittura uno mi aveva indicato tempestivamente le strade da prendere in dirittura d’arrivo, consentendomi quindi di portarlo fino all’esatta destinazione.

Fanno sempre percorsi abituali: da casa all’azienda dove lavorano magari come centralinisti, oppure a qualche call center.

È gente di piacevole compagnia e, salvo pochi casi, non ti fa sentire colpevole di essere più fortunato.

Accettano ben volentieri anche alcune battute su di loro; per esempio sul fatto che l’essere ciechi ha perlomeno un vantaggio: se vivi da solo puoi risparmiare sulla luce.

Certo che la cecità acquisita è proprio una brutta cosa, un vero scombussolamento della vita: sarebbe come per noialtri, da oggi, cercare di vestirsi, fare i mestieri e camminare con gli occhi bendati per sempre.

Ma forse, in un certo senso, è ancora peggio la cecità dalla nascita: è vero che non è traumatica, in quanto rappresenta per l’individuo lo stato naturale originario, ma però ti porta ad acquisire sempre più coscienza della tua propria menomazione nei confronti degli altri. In pratica non ti consente nemmeno di immaginare come le altre persone possono percepire gli oggetti anche a enormi distanze e in maniera ben definita; non possono godere dei ricordi rappresentati in maniera figurativa, probabilmente possono sognare solo suoni, odori e sensazioni, ma soprattutto non hanno idea di cosa siano i colori, al massimo, per esperienza indiretta, possono associare i nomi dei colori agli stati d’animo: rosso la passionalità, rosa l’allegria, grigio la tristezza, nero la collera ecc.

Insomma dei non vedenti che trasportiamo, questi sono alcuni aspetti che superficialmente diamo per scontato e di cui loro non parlano mai di propria iniziativa: siamo noi che eventualmente provochiamo l’argomento.

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I primi mesi di servizio mi capitava frequentemente un cliente abituale che si recava al lavoro. Era cieco, a suo dire, a seguito di un intervento chirurgico; ogni volta attaccava con le sue barzellette, in genere per adulti, e le continuava per tutto il viaggio.

Sebbene il suo spirito non fosse apprezzato da tutti i taxisti, a me invece faceva spanciare dalle risate, che era il tipico soggetto che nonostante il suo handicap era capace di rallegrarti la mattinata. Era un vero professionista delle barzellette, ma non l’unico non vedente barzellettiere che conobbi e mi parve di trovarvi sempre qualcosa in comune: preferiscono raccontarle, le barzellette, piuttosto che ascoltarle e soprattutto non amano essere presi in castagna con barzellette a loro ancora sconosciute: «La conosce l’ultima barzelletta sul tango e le scarpe lucide?».

«Proprio a me lo chiedi? La conosco in almeno cinque versioni: le ho inventate io!»

«E quella delle otto spose per sette fratelli, la conosce?»

«No, acc…, stravolta mi hai fregato!»

Un episodio che ricordo ancora iniziò con una chiamata radio specificando che dovevo prendere a bordo anche un cane guida all’altezza di un crocevia. Dopo un attimo di attesa comparve in lontananza una signora non vedente con al guinzaglio un vecchio cane femmina: per queste delicate mansioni si utilizzano cani femmina, forse per il temperamento ritenuto più affidabile.

Ci volle parecchio prima che raggiungessero il mio taxi; la signora era anziana e il cane, vecchio, malandato e anche un po’ spelacchiato, non ne volle sapere di saltare nel bagagliaio dopo aver opportunamente tolto il pannello sopra. Il motivo era semplice: il saltino era troppo per lui e così l’anziana donna dovette sollevare la bestia e posarla sul pianale posteriore. La cosa non era uno scherzo dal momento che si trattava di un cane lupo e fu allora che le chiesi: «Mi scusi, ma il suo cane è per caso cieco?».

Un istante dopo mi vergognai come un ladro per la mia stupida domanda.

«Sì, è vero. Il mio cane non ci vede.»

«Ah… benissimo, allora ho visto giusto: i suoi occhi sono velati.»

Continuammo a chiacchierare durante il viaggio: «Ma cosa se ne fa di un cane guida che non vede?».

«Purtroppo invecchiando ha perso la vista e oramai me lo tengo così. Adesso siamo in due a non vederci.»

«Certo che un cane in quello stato ha un debito nei suoi confronti.»

«Che vuole farci, oramai mi ci sono affezionata e praticamente sono io che gli faccio da guida!»

«Ma quando non ci sarà più ne prenderà un altro?»

«Ma… non so. Se vuoi un buon cane costa un sacco di soldi, oltre quindici milioni di lire. Oppure in alternativa c’è il comune che ti passa il cane gratis, ma dicono che sono addestrati male e che il comune ha la facoltà di riprenderselo quando vuole.»

«Ho capito, in pratica anche dopo che viene assegnato, rimane comunque di loro proprietà: un cane “comunale”.»

Terminata la corsa all’interno del cortile dell’Istituto dei ciechi, aprii il portellone posteriore e notai che il cane era rimasto nella stessa esatta posizione di quando era stato posato.

Rimesso il cane a terra la signora gli disse: «Adesso, prima di entrare dentro devi far la pipì… No! Non qui! Falla lì!» indicando e bacchettando col suo bastone bianco. «Ecco brava, falla tutta lì!»

BAGAGLI PESANTI.Mi ci volle un bel po’ per riprendere fiato dopo quell’esperienza iniziata in un torrido pomeriggio

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estivo al carico passeggeri dell’Aeroporto di Linate.

Mi toccò una passeggera anziana, piccoletta, africana: somala o eritrea, probabilmente di ritorno da una lunga vacanza nel suo paese, con due vecchie valigie dall’aspetto innocuo.

Una delle cose però che tutti giorni ci tocca scoprire è se il bagaglio è veramente innocuo: quei bagagli non lo erano affatto, erano davvero pesanti.

«Ma che ci ha messo, sassi?»

«No, no è roba mia!»

Per caricarli in macchina dovetti aiutarmi con la gamba, sollevando il ginocchio, ma allora ero giovane e forte e tutto questo per me non era un problema.

Certo però che erano proprio pesanti, la macchina si era abbassata tutta e quando percorrevo buche, dossi o piccoli avvallamenti la macchina ondeggiava su e giù come una barca, ma tutto questo era quasi gratificante: io non dovevo far niente, semplicemente guidare, senza alcuna fatica perché il grosso sforzo era tutto a carico della vettura.

Certo che è stato un grande inventore colui che ha creato la macchina col bagagliaio, gli farei un monumento.

Una cosa poi che mi sono sempre chiesto è come fanno questi aeroplani, dall’aria così fragile, delicata e leggera, a levitare e muoversi nel cielo con a bordo questi terribili bagagli. Forse è una specie di incantesimo.

La destinazione comunque era dalle parti di viale Fulvio Testi, ma non ricordo la via esatta. La città era rovente ma deserta, era uno scherzo arrivarci. La cliente sembrava una brava persona, cordiale.

Ecco però la domanda che io stesso per scaramanzia non osavo nemmeno ipotizzare: «Dopo mi potrebbe dare una mano con i bagagli?». Uno dei tanti miei difetti è che a volte sono troppo buono e incapace di dire “no”; così anche stavolta non negai il favore, considerando inoltre che la signora era piccola e anziana; dopotutto avrei potuto tranquillamente applicare un nostro articolo del regolamento comunale che ci vieterebbe di lasciare incustodito il taxi. Ma perché negare ‘sto favore? In fondo si trattava solo di portare le valigie presso l’ascensore.

«Dopo le darò una mancia.»

«Non è questione della mancia signora, ma delle valigie che pesano troppo! Comunque a me basta che alla fine di tutto mi paghi quello che dice il “ragioniere” [tassametro]! Non vorrei, inoltre, che l’ascensore si blocchi con tutto quel peso!»

«Non c’è pericolo. L’ascensore non c’è!»

«Andiamo bene! A che piano abita, primo, secondo…?»

«Quinto.»

«E come farà a portarle su?»

«Se nessuno mi aiuta aprirò giù le valigie e poi porterò su qualche pezzo alla volta!»

“Ho già bella che capito” pensai tra me.

Arrivati sul posto iniziai ad attraversare un ampio cortile di un vecchio complesso di case popolari fino a raggiungere il portone (l’ultimo in fondo, naturalmente). Il marciapiede era assai accidentato, ma riuscii ugualmente a tirar la prima valigia munita di rotellina grazie a un’apposita cordicella, per poi, ahimé, portarla fino al quinto piano. Ero già sfiancato, ma non era ancora finita: c’era la seconda valigia che era più piccola ma ancora più pesante. A metà cortile la cordicella si ruppe e dovetti già da lì sollevarla per il manico.

Era talmente pesante che sulle scale ogni mezzo piano mi fermavo a riprendere fiato. Giurai di non raccontarlo a nessuno, l’aria pareva un forno e quando giunsi finalmente in casa fradicio di sudore

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la signora si affrettò a stapparmi una bottiglia di birra: «Signora, se bevo quella birra mi uccide definitivamente! Dove solo pagarmi il dovuto!».

Poco dopo in macchina, mentre cercavo di raggiungere la più vicina fontanella, la mia mente inquieta continuava a domandarsi in quelle valigie cosa avesse portato dal suo paese: forse dei sassi minerali, libri, avorio, oppure conserve alimentari. O addirittura parenti.

I TAXISTI VISTI DAI CLIENTI.Quando uno di noi conversa con un altro collega, tende a farsi un’idea di lui: lo identifica e forse anche lo giudica di solito come una normale brava persona.

È difficile andare oltre. Dopo tutto tra noi taxisti ci si conosce solo in piazza e non puoi mai sapere la condotta degli altri nei confronti dei trasportati. In fondo il taxi è un mondo a sé e a volte può sembrare che tutto sia lecito; noi colleghi esterni molti fatti non possiamo conoscerli se non dai clienti stessi.

Si scopre così che la nostra categoria è composta da persone meravigliose che si prendono anche la briga di aiutare il cliente inesperto a fare il biglietto o il check–in in aeroporto, ma anche da vecchi taxisti bisbetici e scorbutici che non alzano nemmeno un dito per aiutare a caricare i bagagli. Mi hanno raccontato di un taxista con una guida sciagurata o di un altro taxista che si era fermato a metà percorso per diversi minuti per finire la conversazione al telefonino «dimenticandosi» tra l’altro di scontare adeguatamente la cifra finale. Una volta una signora è voluta salire a tutti i costi sul mio taxi pur non essendo il primo al posteggio perché il collega davanti a me era anziano e lei non voleva averci a che fare.

Ci sono poi colleghi con la macchina tutta tappezzata di feticci e gingilli vari anti iettatura, quelli che ti vendono braccialetti in rame fatti da loro, o che si improvvisano cantanti e che tra un semaforo e l’altro del loro tortuoso tragitto urlano le loro melodie senza minimamente curarsi dei passeggeri trasportati.

Una signora mi ha raccontato che un collega le spiegò per filo e per segno come avrebbe potuto eventualmente ammazzare la propria moglie, il tutto pianificato nei minimi dettagli.

Alcuni di noi non riconoscono l’errore nemmeno di fronte all’evidenza assoluta: «Eccoci arrivati!». Il cliente, che era distratto, si guarda intorno con aria confusa: «Di già? Ho fatto tante volte il percorso a quest’ora di notte da Linate ma non sono mai arrivato così in fretta… Ma non mi pare che siamo arrivati».

«E invece sì. Siamo in largo Rio de Janeiro.»

«Guardi che io le avevo detto largo Brasilia.»

«Non è vero. Lei ha detto largo Rio de Janeiro!»

«Senta, io in largo Brasilia ci abito e che esistesse un largo Rio de Janeiro non lo sapevo nemmeno!»

«Va be’. Piantiamola di far polemica e andiamo anche là!»

Naturalmente alla vera destinazione nacque la discussione sulla tariffa, che per il collega includeva l’errore di percorso, ma il cliente la troncò sul nascere: «Io non ho mai pagato più di 35000 lire, gliele dò e arrivederci. Se non va bene chiami pure chi vuole!», lasciando così il taxista imbufalito, convinto ancora della sua ragione.

Qualche collega invece ha la facoltà di provocare tensione e insicurezza nei passeggeri più deboli. Questo lo riscontrai con una signora che presi a bordo dalla stazione centrale: «Dove la porto?».

«In zona via Gallarate.»

«Bella giornata, oggi.»

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«Sì, non sembra nemmeno di essere a Milano.»

«E… da dove arriva?»

«Dalla provincia.»

«A proposito, dove stiamo andando esattamente?»

«Più ho meno all’altezza Musocco.»

«Benissimo!»

Dopo un attimo di silenzio: «Senta, lei mi sembra una brava persona. Dovrei dirle una cosa: in verità dovrei andare esattamente al cimitero Musocco».

«Va bene, che problema c’è?»

«Io vado spesso lì, una volta però un suo collega un po’ anziano si è scocciato e mi ha detto: “Che cosa ci va a fare dalla centrale al Musocco?”.»

«Effettivamente dalla stazione al cimitero è una coincidenza un po’ inconsueta, ma un bravo taxista dovrebbe imparare a non stupirsi di nulla. Evidentemente quella destinazione usciva dai suoi programmi mentali che si era ideato e quindi si è seccato.»

«Ma il fatto è che lui è andato avanti mezzo viaggio a borbottare e lamentarsi su cosa ci va a fare una signora dalla stazione al Musocco. Io ero imbarazzatissima e non sapevo cosa fare… mi sentivo quasi in colpa.»

«Ma sta scherzando?! Lei ha diritto di andare dove vuole e nessuno può obiettare!»

«Poi a volte sembrava dimenticarsene, ma a ogni semaforo rosso riprendeva a sbuffare e borbottare tanto è vero che, per le volte successive, avevo anche pensato di comprarmi una mappa della zona e impararmi qualche via vicina al Musocco per farmi portar lì, per non dare pretesti per farmi sgridare.»

«Non credo che ce ne sia bisogno. È stata solo un poco sfortunata quella volta: evidentemente il collega non aveva proprio voglia di andare da quelle parti…»

Vorrei infine precisare che tutti questi personaggi diciamo «strani» rappresentano comunque una percentuale irrisoria e che non siamo una categoria di gente matta: siamo persone normalissime.

RAPPORTI TRA COLLEGHI.Può sembrare strano ma tra noi non ci si conosce. Se poi consideri che siamo quasi cinquemila tutto si spiega, senza poi contare i colleghi che lavorano nell’hinterland milanese. A volte ci si incontra frequentemente, a volte ogni qualche mese: dipende dal posteggio che ognuno di noi predilige o dai turni che si fa. Molti poi hanno cambiato vita e pochi se ne sono accorti.

In ogni caso l’amicizia la si vive prevalentemente in piazza.

Per l’amicizia, è vero che è importante avere delle cose in comune, ma nell’ambito privato forse questo discorso non funziona molto: si ha voglia di conversare su tutto. Se invece due amici svolgono la stessa professione rischiano di cadere in conversazioni di lavoro, argomento che quasi tutti preferiscono, quanto meno a casa, evitare.

In piazza si conversa molto di macchine, meccanici, vigili, concessionari ecc., ma quando racconti di clienti sgraditi e antipatici, molti colleghi che ascoltano si improvvisano maestri: «Peccato che a me non capitano mai questi clienti, io lo mandavo a quel paese», oppure: «Una volta me ne è salito uno così e l’ho fatto subito scendere», oppure ancora: «Se mi chiedeva a me lo sconto, gli facevano pagare ancora di più».

Per fortuna però che buona parte dei colleghi non è così; in un caso, qualora ci rincontrassimo settimane dopo, probabilmente non ci riconosceremmo nemmeno. Una collega molto fisionomista

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potrebbe chiuderti con la domanda: «Ci siamo già visti e parlati ma non ricordo dove!».

«Sì, è vero anche a me pare, ma non viene in mente.»

«Tu prima della Renault avevi una Fiat Brava?»

«Sì.»

«Allora ricordo: abbiamo parlato della frizione che le strappava ed eravamo al posteggio della Stazione.»

Così si poteva cogliere l’occasione per continuare l’interessantissimo discorso interrotto mesi prima.

Tra i colleghi possiamo essere amici di vecchia data ma, incredibile ma vero, probabilmente non sappiamo né dove abita né come si chiama l’altro: è più facile che lo conosci con il nome d’arte del suo radiotaxi o il numero civico.

Volendo comunque dare un giudizio generale sul rapporto tra noi taxisti, direi che è tutto sommato positivo: ci sono delle norme di lealtà che si tramandano da generazioni lavorative e generalmente vengono osservate.

GENTE LOSCA.Ogni grossa città nasconde i suoi panni sporchi. Dietro le quinte delle vesti produttive, commerciali, culturali ecc., si cela lo scenario del degrado urbano, contrasti sociali, etnici, malasanità, abbandono di anziani e tanto altro.

Terreni fecondi per il proliferare della criminalità.

Anche Milano ovviamente non fa per nulla eccezione. Ci sono le zone «per bene» e i quartieri storicamente noti per il loro decadimento ma che stanno in qualche modo riqualificando. Poi ancora parti di città piuttosto quotate anche dal mercato immobiliare ma che assistono al degrado etnicosociale quotidiano: in pratica si possono paragonare a «porti di mare» dove per strada trovi gente di tutti i tipi e di tutte le razze; mi riferisco in particolar modo al circondario della Stazione Centrale ma non solo…

Una cosa però accomuna tutte le parti della città: la notte.

Penso che la Milano notturna non sia idonea alle tranquille passeggiate a piedi, senza nulla togliere agli svaghi di ogni genere che la città offre.

A ogni modo, vuoi per un pizzico di fortuna, vuoi perché ho sempre svolto il turno diurno, fino a oggi, ringraziando la buona sorte, non ho mai subìto eventi malavitosi (a parte qualche piccolo o medio imbroglio che non cito nemmeno). Con questo non vuol dire affatto che non abbia mai trasportato balordi e malfattori, semplicemente che non li ho incontrati nel momento sbagliato o li ho incappati passivamente, cioè da osservatore esterno.

Per esempio mi è successo di assistere ad almeno quattro scippi e in due lo scippatore veniva inseguito dai poliziotti e vigili. Nel terzo caso sentii un debole urlo femminile e un istante dopo vidi il balordo con la borsetta rubata che transitava sul marciapiede con una vecchia Vespa scarburata che stentava ad accelerare, io che mi trovavo parcheggiato al suo fianco avrei potuto provare a fermarlo se fossi stato più pronto, ma forse è stato meglio così. L’ultima volta invece andò meglio: si trattava di uno scippatore a piedi che, dopo aver corso col malloppo per tutta la via, si fermò in fondo al semaforo tranquillamente, ma il destino volle che un ragazzetto uscito da una vicina palestra di box corse e lo agguantò a sorpresa per poi riportarlo al cospetto della malcapitata vecchietta e fargli restituire il borsellino. Il malandrino fu, in un certo senso, fortunato: fu esiliato dalla zona con l’aiuto di un paio di pedate nel posteriore.

Io, che stazionavo da quelle parti per faccende mie fuori servizio, vidi l’arrivo della volante della

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polizia che giunse sgommando e accelerando rabbiosamente; ma oramai erano trascorsi circa 25 minuti, la via era semideserta e i pochi passanti non sapevano nulla del misfatto avvenuto.

È interessante osservare che i quattro eventi si sono compiuti i posti qualunque della città, ossia rispettivamente in piazza Duomo, in piazza Emilia, in via Kolbe e in via Pietro Mascagni. Questo suggerisce a chi conosce un po’ la città che i reati non prescindono necessariamente da particolari zone.

Eventi simili capita anche di vederli dal taxi durante il trasporto: una volta ho visto un signore quasi anziano che, mentre scendeva dalla filovia, prendeva a sberle una donna dall’aria sospetta. Lì mi venne spontaneo immaginare che la donna fosse stata sorpresa a borseggiare, costringendo il presunto complice a uscire allo scoperto per cercare di dividere i due.

Un’altra volta transitando nei pressi della Barona intravidi una rissa in un bar che poi, anni dopo, sulla base di indicazioni che non sto a spiegare, dedussi che la causa doveva essere il videopoker: infatti l’accalappiamento di queste diaboliche macchinette sembra essere una delle maggiori cause di litigio da quelle parti.

Ma un fatto ancora più curioso accadde il giorno in cui mi trovavo fermo a un semaforo in corso Monforte: davanti a me c’era una camionetta cellulare, per intendersi quella che trasporta i detenuti; all’improvviso vidi qualcosa di grosso cadere dal veicolo cellulare fermo, ma io ero distratto e mi ci volle qualche frazione di secondo per realizzare quello che stava succedendo: un uomo, certamente un carcerato o un arrestato, si era letteralmente buttato a pesce dall’oblò laterale della camionetta impattando sulla strada come un sacco di patate, per poi subito alzarsi incolume e iniziare la fuga. Furono altrettanto svelti i poliziotti che, vestiti in tenuta da combattimento e stivali anfibi, balzarono fuori immediatamente dal veicolo e presero a rincorrerlo.

Il fuggitivo correndo, lo vidi davanti a me che imboccava il lato destro del mio taxi fermo e istintivamente allungai il braccio dietro e aprii la portiera posteriore destra nel tentativo di ostacolarlo, ma non servì a molto perché lui correndo me la richiuse.

Il tutto avvenne forse in quattro o cinque secondi.

Ancora oggi sarei curioso di sapere come è andata a finire. Allo scattare del semaforo verde dovetti ripartire per poi recarmi a prendere a bordo un passeggero e solo un po’ di minuti dopo potei passare sul luogo della fuga, ma non vidi più nessuno: era tornato tutto come prima.

Certe volte, alcuni personaggi diciamo «particolari» capita anche di prenderli a bordo. Una volta risposi a una chiamata radio per il pronto soccorso del Policlinico: si trattava di due passeggeri, madre e figlio sui sedici anni. Erano nomadi italiani, un caso inconsueto, la maggioranza è di origine slava e rumena, ma per il resto nulla di particolare a parte un dettaglio: il ragazzo aveva la gamba letteralmente fracassata.

Io dovevo trasportarli a «casa» loro e lui stringeva i denti dal dolore.

«Cos’hai fatto alla gamba?» gli chiesi.

«Ho fatto un incidente con il motorino e ho rotto la gamba. Ahi che male!»

«Ma come è successo?»

«Sono andato addosso a una macchina, però ho torto, ho torto. Ohi!»

«Ma non ti hanno dato una sedativo?»

«No, sono scappato!»

«Scappato? Perché?»

«Perché… Ahia! Ahia!… quando mi hanno guardato la gamba sentivo dire che volevano tagliare, aprire, bucare l’osso e mettere delle viti e io sono scappato!»

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Interviene la madre: «Io ho un figlio cretino! Dovevano aggiustargli la gamba e invece se l’è fatta sotto! L’altro figlio che ho non ha paura di nulla mentre questo è un fifone!».

«Però è bello scappare dall’ospedale!»

E la madre, sarcasticamente: «Scappa, scappa e vedrai cosa fanno della gamba. Te la tagliano».

Io sostenni ovviamente il punto di vista della madre.

«Ha ragione la signora: t’è piaciuto scappare dall’ospedale, ma l’ospedale è lì per curarti! Pensavi di farci la vacanza? E poi adesso come farai con la gamba?»

«Ah, per la gamba non so, ma sono contento che sono scappato.»

Avevo capito però che questo ragazzo, come molti della sua etnia, era uno spirito libero e che per lui, nella sua visione distorta delle cose, scappare da un penitenziario o da un ospedale era la stessa cosa. La fuga è fuga, e la fuga è per la libertà.

Giungemmo a destinazione in uno squallidissimo campo nomadi di periferia in zona Rogoredo, ma quella per lui era la vera casa. Davanti alla sua baracca c’era un gruppo di sfaccendati dall’aria molto sinistra, incuriositi dall’evento e pronti ad accoglierlo.

Dopo che mi pagarono il viaggio vidi il ragazzo avvicinarsi al gruppo saltellando con una gamba. Dietro la sua smorfia di dolore traspariva anche una parvenza di sorriso.

Soddisfatto per avere eseguito senza inconvenienti il mio ennesimo compito, fui felice di far manovra col mio taxi per poi, senza perdere troppo tempo, levare il disturbo.

Sempre in tema di nomadi, una volta me ne capitò uno che dalla stazione Cadorna dovevo trasportarlo a Baranzate: «Da dove arriva di bello, col treno?».

«Da Como… finalmente torno a “casa”.»

«A proposito, che via di Baranzate?»

«Non c’è problema, lì ti dico io. Comunque è il campo nomadi.»

Avrei dovuto capirlo subito che era uno zingaro, pensai. E poi non è come per le donne, che le riconosci subito a distanza; questi, a volte sembrano persone comuni e poi non ti dicono mai subito che devono andare al campo nomadi, forse per una loro sorta di pudore.

A ogni modo, qualunque occasione può essere buona per conversare: «Cos’è andato a fare di bello a Como?».

«Di bello poco. Torno dalla prigione.»

«Benissimo! Che cosa hai combinato per andarci?»

«Niente. Ho solo un po’ rubato.»

«Un po’ rubato? A quanto pare è sufficiente rubare un poco per finire dentro.»

«No… è che io rubavo sempre, ma solo quella volta mi hanno preso.»

«Naturalmente. Ricordati che c’è sempre “una prima volta” e per “quella volta” ti fanno scontare tutte le altre. Ma come è successo il furto?»

«Mentre rubavo in una villa mi hanno preso. È la prima volta che vado dentro… adesso però a casa voglio stare tranquillo.»

«Ma per quanto tempo sei stato in carcere?»

«Otto mesi, ma è colpa dell’avvocato che mi ha fregato.»

Non avevo dubbi che si sentisse fregato dall’avvocato, del resto lo si sente sempre anche nei film: deve essere un luogo comune che regna negli ambienti carcerari.

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«Perché, che cosa ha fatto l’avvocato?»

«Niente. Mi ha solo preso i soldi, ma non ha fatto niente.»

«Ma a quanto volevano condannarti inizialmente?»

«Un anno e due mesi.»

«Be’… Allora qualcosa ha fatto. Ti ha fatto scalare la pena di sei mesi portandola appunto a otto mesi.»

«Sì, è vero, hai ragione. Però poteva andarmi meglio.»

«In che senso?»

«Quando la polizia mi ha chiesto quanti anni avevo, perché non ho documenti, io gli ho detto diciassette. Con quell’età mi avrebbero dato poco. Loro però non mi hanno molto creduto. Mi hanno fatto visitare da un loro dottore che mi ha guardato le mani e poi ha detto: questo qua ha diciannove anni. E ha indovinato, avevo veramente diciannove anni!»

«Ma adesso, a casa tua, lo sanno che arrivi?»

«Sì… Staranno facendo da mangiare perché da noi si usa che quando uno torna dalla prigione si ammazza il capretto e si fa una specie di festa.»

Arrivati finalmente alle porte del campo, dovetti percorrere qualche altro centinaio di metri su una bruttissima strada mulattiera, consumandoci almeno duemila lire di ammortizzatori, per raggiungere finalmente un prefabbricato. Dopo tutto, per quanto triste fosse quel «villaggio», era dotato di una parvenza di impianto fognario e idrico, e le loro abitazioni erano in buona parte ben distinte e indipendenti.

Il cortiletto del suo prefabbricato era praticato da alcuni animali da fattoria e parenti che lo accolsero subito calorosamente, e dovetti attendere un po’ perché arrivasse finalmente una giovane e graziosa zingarella a portarmi i soldi, per poi mettere in conto, sempre a mio carico, altre cinquecento lire di ammortizzatori per riportarmi fuori dal campo.

L’episodio invece più raccapricciante fu quando presi a bordo un nordafricano dalle parti di via Padova. Mentre lui saliva in taxi, a pochi metri di distanza c’era un’altra coppia straniera, forse latinoamericana: lui stava letteralmente picchiando a sangue la donna.

Il mio cliente salì tranquillamente e mi indicò la destinazione (poco distante). Io, mentre guidavo, ero scosso dall’evento e con un po’ di senso di colpa per non avere avuto la reazione di intervenire; tuttavia però cercavo di giustificarmi supponendo che qualcuno, vedendo da qualche finestra, avesse già segnalato il fatto a chi di dovere. Poi però non mi davo pace e continuavo a vedere nei miei pensieri quella povera donna che veniva presa a pugni e calci e sputava sangue. Chiesi allora al passeggero che a quanto pare doveva essere assorto in tutt’altri pensieri: «Hai visto quella?».

«Sì, litigavano…»

Il discorso finì sul nascere e lui sembrò non dare alcun peso alla questione. Forse, dalle sue parti, è cosa normalissima che l’uomo picchi a sangue la donna.

L’unica cosa che feci, appena ultimato il breve viaggio, fu di segnalarlo a una pattuglia di carabinieri che provvidenzialmente incontrai in zona.

Un aspetto curioso del mestiere di taxista è che si presta molto alle conversazioni confidenziali. Il taxi è come un confessionale che va dal semplice pettegolezzo a danno di un personaggio pubblico alle questioni personali e ai rapporti con moglie e familiari, ma anche alle rivelazioni sul proprio losco mestiere.

Questa fiducia nei nostri confronti è data dal fatto che non siamo dei conoscenti intimi e quindi la nostra posizione viene vista come assolutamente neutrale e disinteressata. Al massimo vale sempre

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la regola del «si dice il peccato, non il peccatore».

In ogni caso, da parte nostra non verrebbe comunque tradita la fiducia del confidente, non solo per una sorta di etica professionale, ma per una semplice e naturale norma di lealtà nei confronti di un cliente che si è fidato di noi.

Tanti anni fa, nuovo di pochi mesi nella professione, verso le sei di un mattino d’inverno, mi capitò un tizio preso alla stazione che mi raccontava che lui faceva il ladro sui treni di notte: «Bel lavoro» gli risposi sarcasticamente. «Rende bene?».

«Oh… Sì, in questo Natale ho lavorato molto.»

Il personaggio più interessante però lo rimorchiai in piazzale Lotto per portarlo dall’altra parte della città. Il signore era, a suo dire, un po’ francese e un po’ nordafricano, ma viveva in Italia da una ventina d’anni. Un tipo piuttosto fine.

«Dovrei arrivare a casa più veloce della luce.»

«Pronti! Vediamo cosa si può fare.»

«Se mi è arrivato il controllo sono fregato!»

«Scommetto che lei è a casa in malattia ed è uscito ugualmente dall’abitazione.»

«No, non sono malato. Sono agli arresti domiciliari.»

«Cosa?! Un tipo come lei è agli arresti?»

«Sì. Se nel frattempo è arrivato il controllo, mi rimettono dentro. Sono parecchi giorni che non viene nessuno, ma se per caso l’ispezione è arrivata proprio adesso, amen, torno in carcere… In ogni caso ne è valsa la pena: ne ho approfittato per un piacevole incontro.»

«Ha incontrato l’amante?»

«Sì, be’, insomma, qualcosa del genere. Comunque se lo sa mia moglie mi ammazza.»

«Come mai è agli arresti?»

«Per borseggio. Stavolta mi hanno preso mentre borseggiavo una signora che usciva dall’albergo.»

«Borseggiatore? Ma che bel mestiere.»

«Sì, ma io non sono di quelli che rubano agli anziani o pensionati: io lavoro su persone che stanno bene. Lavoro solo davanti agli hotel e all’uscita dei teatri.»

«Pensi che una volta ho portato un tizio che faceva un lavoro simile al suo: rubava di notte sui treni.»

«Io non ho nulla a che vedere con questi qua, e non vado nemmeno in giro a spruzzare i sonniferi per poter rubare: io sfilo il borsellino solo con destrezza e a persone sveglie e vigili.»

Ci teneva a precisare che era una persona «per bene» e che il suo lavoro non colpiva soggetti deboli. Dopo tutto, pure nello spietato mondo del crimine deve esistere una specie di etica morale e il signore era un tipo sensibile.

Mi ha anche raccontato che, una volta, i ladri sono entrati in casa sua rubandogli quasi venti milioni di lire, che erano il frutto del suo lavoro, e ovviamente non poté nemmeno fare denuncia. Raccontava ciò disapprovando il gesto: «Questi ladri, che entrano nelle case d’altri e portano via le cose, che indecenza!».

«E se nel borsellino trova solo carte di credito cosa ci fa, le butta?»

«No, vengono buone anche quelle. C’era un ricettatore che sapeva come utilizzarle, era un gioielliere in piazza… Tanto oramai lo posso dire, non è più un segreto lo hanno già scoperto tempo fa… Comunque il mio è proprio un mestieraccio.»

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«Se dovesse rinascere o rifarsi una vita lo rifarebbe?»

«Sì.»

«Anche se è un mestieraccio?»

«Sì, perché sono molto abile e poi si guadagna bene.»

«Vorrebbe che suo figlio lo facesse?»

«No, vorrei che diventasse calciatore.»

Un piccolo difetto del lavoro di taxista è che non puoi sapere, per esempio, se il tuo cliente ce l’ha fatta a prendere il treno oppure l’aereo, o se è andato bene il colloquio di lavoro a cui si stava recando. Anche in questo caso non saprò mai se il passeggero rincasò come se niente fosse, oppure se per via del controllo gli toccò tornare in prigione.

Ci sono poi i personaggi che ti prendono in simpatia, ma con cui tu invece non vorresti avere a che fare. Un tizio che una sera portai a Trezzano sembrava proprio losco, parlava con cadenza siciliana e da come confabulava sembrava proprio della malavita organizzata: «Mi hanno appena rubato la macchina nuova di pacca!».

«Caspita! Che macchina era?»

«Una Bmw 735.»

Il tizio non mi dava per niente la sensazione che una macchina del genere se la fosse sudata.

«Comunque la macchina l’hanno rubata alla persona sbagliata!»

«Ha già fatto la denuncia?»

«No, non serve. Chi mi ha preso la macchina ha sbagliato di grosso.»

«Certo che il furto di un’auto come quella è un danno enorme.»

«Sì… Ma non è tanto per la macchina.»

«Come “non è per la macchina”? Con i soldi che vale!»

«Eh… i soldi… i soldi che importanza hanno? Oggi vanno, domani vengono…»

«Beato lei.»

Anche dal tono di voce piuttosto moderato non sembrava dare eccessivo peso all’evento, ma poi per tutto il tragitto insisteva sull’argomento:

«Comunque, secondo me, hanno commesso un errore a rubarmela.»

«Ha idea di chi può essere stato?»

«Ma…. sì, potrei saperlo.»

«E se lo scopre che cosa succede?»

«Non lo so ancora…»

«Però si ricordi che esiste il quinto comandamento che dice “non uccidere”!»

«Sì, è vero ha ragione, però non dovevano farmelo.»

Finito il viaggio pagò la corsa.

«Senta, mi dia il numero del suo telefonino così se avrò bisogno la chiamo.»

«No, non ce n’è bisogno… Basta chiamare il radiotaxi e ne arriva uno immediatamente.»

«E se chiamo lei?»

«No, non serve a niente, è molto improbabile che mi trovi in zona…»

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«Ma lei me lo dia lo stesso!»

Cedetti all’insistenza, ma in virtù dell’oscurità gli rifilai un falso biglietto da visita che tenevo in fondo alla pila di quelli buoni. A dire il vero era anch’esso una biglietto da visita, ma dell’azienda che gestisce la macchina automatica erogatrice che stampa appunto i biglietti da visita.

SITUAZIONI IMBARAZZANTI.Quante volte vi è capitato di sentire: «Ah… il mio lavoro è bello perché sei a contatto con la gente».

Magari si tratta di una silenziosa commessa di boutique o di un impiegato alla reception di un ospedale, oppure ancora di una cassiera al supermarket.

Il concetto di contatto con la gente mi pare più una moda di pensiero, dove verrebbe visto in ogni caso come positivo. Qualunque sia la qualità di vita nell’ambiente di lavoro, non viene comunque messo in discussione il piccolo privilegio di essere perlomeno a contatto con le persone; tutto questo senza nemmeno preoccuparsi di distinguere se l’interazione con altri avvenga in maniera attiva, passiva o addirittura negativa.

Per i taxisti può essere invece differente. Ne esistono principalmente tre tipi:

1) Quelli che non parlano con l’utenza e perfino non rivolgono neanche la parola.

Pensate che un cliente mi ha raccontato che un mio collega addirittura non rispondeva nemmeno alle domande e un altro ancora aveva messo il cartello NON PARLARE AL CONDUCENTE come negli autobus.

2) Quelli che parlano solo del Milan o della Lazio infastidendo anche vecchie e bambini fino alla fine del viaggio. Oppure iniziano a commentare le odierne e future situazioni meteorologiche, argomento che trova sempre tutti preparatissimi: è uno dei saperi più popolari, secondo solamente ai metodi per curare i dolori.

3) I taxisti che ascoltano e conversano su tutto.

Sul taxi sei veramente a contatto con la gente e se vuoi hai anche l’opportunità di parlare di qualunque argomento che ti interessa, con la persona giusta, senza inibizioni per differenze culturali titoli di studio ecc., purché rimanga una conversazione di piacere.

Il taxista è una di quelle professioni che non prescinde da livelli culturali o traguardi scolastici: puoi trovare il vecchio che ha fatto solo la terza elementare ma può anche capitare di essere trasportati da un laureato che fa questo lavoro per sua liberissima scelta.

In ogni caso, l’arricchimento culturale puoi coltivarlo per conto tuo e a tuo piacimento.

Ovviamente questo discorso, in linea di principio vale per tutti ma nel nostro caso si aggiungono almeno due condizioni favorevoli:

A) I momenti di scarso lavoro, quando ci si trova fermi nei posteggi taxi, puoi trasformarli in opportunità per leggere libri, riviste e qualunque altra cosa. In pratica il taxi rappresenta non la seconda ma bensì la prima casa dove puoi smistare scartoffie, suonare il clarinetto, scrivere la lettera all’amministratore condominiale o compilare questionari e censimenti. Io spesso porto da casa alcune lettere cartacee pervenutemi, per poi aprirle e leggerle con calma.

Ovviamente il tempo per fare ciò è a discapito del lavoro, ma se già devi stare fermo perché non approfittarne?

B) Hai anche la possibilità di conversare con molti clienti che trasporti: questa opportunità ti consente di confrontarti con gente di tutte le culture e tutte le razze, dal milanese al newyorkese di periferia, all’emigrato in Australia da tre generazioni che soffre lo smog di Milano, all’abitante di Chicago che si stupisce per i numerosi graffiti sui muri, all’islandese che, per intendersi, vive dentro il circolo polare artico. E se tu non conosci la loro lingua pazienza, sicuramente domani incontrerai

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qualcuno che conosce la tua.

Tutto questo ti consente inoltre di levarti varie curiosità, a seconda del soggetto che porti, sia di tipo sociale, economiche, religiose, geografiche e anche alimentari.

Infatti personalmente ritengo che, insieme ai dialetti, l’aspetto alimentare rappresenti una delle massime espressioni di una cultura locale; argomento quindi che oltre a essere piacevole favorisce la socializzazione a condizione però che tale confronto venga inteso con rispetto reciproco, senza partire dal principio che la propria specialità sia migliore e senza identificarsi in un ruolo di insegnante–giudice.

Capita quindi spesso che una delle domande che rivolgo all’utente sia: «Cosa si mangia di buono dalle vostre parti?». Resta comunque inteso che le argomentazioni e le relative domande rivolte possono essere le più disparate: chiedere per esempio a un londinese come ci si può fermare in macchina dalle vostre parti in assenza di parcheggi, sfatando magari, con la loro risposta, le leggende esterofile che tendono a dipingere come certe e assolute le giuste punizioni nei confronti di automobilisti che sbagliano. Altrimenti fare a un musicista la banalissima domanda, che però sono in molti a porsi: «In un brano musicale si crea prima la musica o le parole?», oppure domandare a una docente di fisica di chiarirmi in parole elementari il concetto di entropia, argomento da me letto in passato ma non compreso bene. Poi ancora chiedere a un tecnico informatico se conosce qualche software per convertire un brano musicale da analogico a digitale ecc.

Insomma ogni occasione è buona per sfamarsi dall’ingordigia di curiosità.

Non è però solo una questione di curiosità: il più delle volte il dialogo nasce dal puro piacere di conversare e i pretesti per iniziarlo non sono difficili da trovare.

Per esempio con i clienti provenienti da località remote io parto spesso dalla semplice domanda: «Da dove arriva di bello?». Qualunque sia la risposta è facile creare un principio di dialogo.

Un’altra tipica domanda è chiedere a una mamma: «Che bello il suo bambino, come si chiama?».

Comunque questo modo di approcciare non è privo di inconvenienti. Ricordo ancora una figuraccia quando presi a bordo una donna in stato interessante: doveva essere circa al settimo, ottavo mese quando, a un certo punto, ho avuto la brillante idea di chiedere: «Allora nascerà maschio o femmina?».

«Guardi che non sono incinta. Sì, effettivamente sono forse un po’ grassa.»

Il disguido era sicuramente dovuto in parte agli indumenti invernali che nascondevano il tipo di pancia e poi al sottoscritto che è stato frettoloso a trarre le conclusioni. Fortunatamente la gentildonna non diede particolare peso alla questione.

Un evento ancora più imbarazzante fu quando presi a bordo un presunto giapponese, il cui volto era comunque asiatico. Il tipo era taciturno, come del resto anch’io in quel momento. Il silenzio, pur non imbarazzando nessuno pareva assordante, ma in quel momento andava bene. Così finché a un certo punto cominciai a immaginare che forse il tizio avrebbe apprezzato un po’ di conversazione, ma non ne ero del tutto sicuro; il miglior modo per scoprirlo era rompere il ghiaccio e cercare lo spunto da cui ricavare un dialogo: «Di dove è lei?».

«Ioo sonoo di Giappone.»

Presumendo per esperienza che provenisse da una delle due maggiori città nipponiche, chiesi ancora: «Da quale città! Tokyo o Osaka?».

«Hiroshima.»

Non avendo però avuto la prontezza di cambiare argomento, il discorso cessò sul nascere e il silenzio tornò più tombale di prima.

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LO IETTATORE.La signora che presi a bordo all’uscita del palazzo del Bingo di via Washington pareva avesse molta premura di raggiungere la sua abitazione nei pressi della Barona.

In realtà voleva approfittare dell’ora di traffico ancora fortunata sperando nella strada libera.

Il destino volle che col taxi toccò a me.

«Dovrebbe allacciarsi le cinture di sicurezza, signora.»

«No, non allaccio mai la cintura, porta male.»

«Facciamo la via Giambellino, signora?»

«No! Per carità, può essere trafficata… e poi un giorno mi hanno scippata.»

«Si… ma sarà stata a piedi. Ora siamo in taxi.»

«Lo so, lo so ma è certamente un segnale negativo, perciò niente.»

«Allora facciamo la via Lorenteggio.»

«No! Non se ne parla perché cinque anni fa mio fratello fece un incidente rompendosi un dito.»

«E allora?»

«E allora, niente! E certamente tutto questo non è di buon auspicio!»

«Certo… è vero, non avevo riflettuto. Ma allora cosa propone?»

«L’unica scelta logica è andare verso viale Cassala, ma per scaramanzia lascio decidere a te.»

«Ecco. Stavo giusto pensando alla stessa strada, che coincidenza! Penso che sia la scelta migliore e se poi anche lì deve succedere qualcosa… amen!»

«No. Amen un bel niente! Tocchiamo ferro e andiamo.»

«Usciva dal palazzo del Bingo perché è andata a giocare?»

«No, no… non gioco mai. Nel senso che non gioco mai di mercoledì e di venerdì di Quaresima. Tuttavia oggi è l’anniversario del primo matrimonio di mio figlio, perciò ho potuto giocare: in questo caso non porta male.»

«Se lo dice lei, mi fido ciecamente. Ma si vince spesso a giocare?»

«Certo. Sei anni fa ho vinto settecento euro.»

«Ma quanto ha giocato in questi anni?»

«Sicuramente poca roba, cosa vuoi che sia qualche giocatina qua e là al giorno? Di che segno sei?»

«Sagittario.»

«E allora ti do un numero da giocare al lotto e vincerai sicuramente!»

«Sì, sì. Magari dopo.»

«Vuoi un santino?»

«Sì, grazie. Vediamo… ma questa è la foto di qualche mago!»

«Certo, ed è anche il migliore. Pensava forse che ci fosse l’immaginetta di san Fransesco?»

«No, no. Io non mi stupisco di nulla.»

Poi dopo un po’:«Signora, mi sa che la strada che abbiamo scelto è un po’ bloccata».

«Intanto l’hai scelta tu e poi, se non avessi gufato pensando che potesse succedere qualcosa, tutto questo non sarebbe accaduto. E diciamola tutta: già salendo sul taxi avrei dovuto capire subito dalla

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fisionomia che avevi un po’ del menagramo… per di più Sagittario!»

«Va be’, va be’. È inutile andare avanti a discutere, signora. Possiamo cambiare strada scegliendo tra la prima o la seconda a destra: quale scegliamo?»

«Bisognerebbe fare testa o croce.»

«Se vuole le impresto una moneta da un euro.»

«No, no ci mancherebbe solo questo. Ci vuole la vecchia moneta da cento lire, altrimenti non funziona. Se ricordo bene la tengo ancora qua nel borsellino come portafortuna…. eccola qua infatti.»

«Come facciamo col testa o croce?»

«Che domanda, la regola vuole che:

la prima a destra è sempre testa,

ma se è la croce che fa sponda, allora si gira alla seconda.

Due, uno, zero lancio il soldo ma non spero;

uno, due, tre, la fortuna cerca me.

È testa: giriamo la prima a destra.»

«Ottima scelta, vedrà che ci porterà fortuna signora.»

«E dagli con ‘sta storia: non si dice nulla, altrimenti porta male! S’è già visto prima che non è la tua giornata, vuoi contaminare anche la mia?»

«Non ci penso nemmeno, anzi… siamo quasi arrivati, svelti e senza incidenti!»

«Tiè, tiè, tiè! Uccellaccio del malaugurio!» Urlava la signora facendo le corna. «Meno male che siamo arrivati, altrimenti scendevo prima. Comunque fermati poco prima lo stesso per non scaricarmi proprio davanti al civico 17. E poi c’è la signora invidiosa del primo piano che spia sempre dalla finestra… Ecco, si fermi esattamente qua, quant’è?»

«Sette euro e settanta.»

«Ok, fai otto!»

«Grazie, gentile!»

«No, non è gentilezza. È che io pago sempre cifre intere, il motivo è semplice ma non ho tempo di spiegare!»

«Ecco, buona idea, me lo spiegherà la prossima volta.»

LA FIDANZATACCIA.Il tizio preso a bordo alla stazione Nord era un ragazzino, un po’ più che adolescente, un tipo impacciato, occhiali spessi e magrolino.

Doveva essere di sicuro diligente a scuola, un viso un po’ brufoloso e capelli trascurati.

In qualche film hollywoodiano verrebbe certamente collocato nel tipico ruolo di genio informatico, uno di quei «topi di scantinato» ma «volponi» sulla tastiera, un soggetto con difficoltà relazionali col prossimo ma che però ti risolve qualunque problema, basta solo convincerlo un po’.

Fisionomie del genere, per riassumere tutto, le definiscono «facce da hacker».

L’interesse per le ragazze è piuttosto improbabile, a meno che non sia la ragazza stessa a interessarsi a lui e quindi provocare anche in lui l’interesse per lei. Un istinto dormiente come uno stand–by, ma pronto a svegliarsi se suscitato. Questi soggetti sono una preda perfetta per tipi di ragazze, diciamo,

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esigenti. Ragazze su misura che sanno anche provvedere a tutto.

Questa è perlomeno l’istantanea che ho ricostruito sul soggetto il primo istante in cui lo vidi.

La successiva conversazione con lui indicherà una certa coerenza con la mia intuizione.

Stava con una ragazza che a suo dire aveva conosciuto in occasione di una gita parrocchiale, ma lei non faceva parte del suo gruppo. Anzi, era forse lì per conto suo, con delle amiche. Lui, ora si stava recando da lei.

«Buongiorno, devo andare a Liscate. Quanto tempo ci vorrà?»

«Adesso, almeno un’ora: è un po’ fuori Milano.»

«Va be’, andiamo. Speriamo di non spendere troppo.»

«Da dove viene di bello, col treno?»

«Da Gerenzano, vicino a Saronno.»

«Scusa… Se non c’è problema ti do del tu, visto che sei giovane.»

«Prego, prego!»

«Ovviamente i taxisti ringraziano, ma se tu avessi avuto una macchina sarebbe molto più pratico ed economico, visto che non si tratta di attraversare solo Milano, ma anche l’hinterland.»

«In teoria ce l’avrei una macchina, ma alla mia ragazza non piace perciò non vuole che vada da lei con quella. Sa, si vergogna e, anzi, in teoria non dovrei nemmeno usarla per andare a scuola.»

«Scusa, ma chi se ne frega. Basta non dirlo, tanto, voi siete distanti forse una trentina di chilometri.»

«Sì è vero, infatti a volte rischio e la uso. Però mi ha detto che se lo viene a sapere mi molla all’istante e che non ha affatto intenzione di fare figuracce a causa della mia macchina. In effetti non ha tutti i torti: è una macchina un po’ bruttina e di seconda mano, me l’avevano regalata i miei l’anno scorso dopo la maturità per spostarmi avanti indietro dalla facoltà.»

«Quindi adesso sei costretto usare mezzi?»

«Sì.»

«Ma hai provato a spiegare le tue ragioni, insomma a farti un po’ sentire?»

«No, preferisco di no.»

«E farsi sentire con le buone, magari addolcendola con qualche regalo?»

«Già lo faccio.»

Il tizio con la sua timidezza a volte pareva reticente nel rispondere, ma poi bastava stimolarlo un po’ nell’argomento ed era lui stesso a raccontare spontaneamente. D’altra parte questo tema andava certamente approfondito.

«Adesso stavo pensando di cambiar macchina e prenderne un’altra più adatta a noi.»

«Insomma, decide tutto lei.»

«Su alcune cose sì. Ho dovuto per esempio lasciare il calcio perché non voleva.»

«È un peccato, hai lasciato uno sport!»

«Per lei il calcio è uno sport plebeo. È lunga ancora? Perché non vorrei arrivare in ritardo.»

«E se succede?»

«È capace di rispedirmi a casa: è già capitato!»

«Scusa, ma non potevi partire un po’ prima?»

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«Sì lo so, però è anche lunga la strada. Quando lei per telefono mi ha dato il permesso di andare, non ho aspettato un secondo e ho preso subito il primo treno.»

«Certo che è un tipo esigente la tua fidanzata!»

«Sì, è un po’ birichina, pretende sempre tutto e io ho sempre paura di scontentarla. Stasera per esempio dovremmo andare con amici in pizzeria ma mi ha già proibito di ordinare la pizza perché secondo lei non so mangiarla e gli farei fare delle figuracce. Sono però già contento che usciamo in gruppo perché fino a poco tempo fa non potevamo: lei pensava che non ero ancora maturo.»

«È giusto. Bisogna arrivare alle cose per gradi. Ma hai avuto altre fidanzate prima?»

«No, non ho ancora capito, infatti, se le altre ragazze sono, diciamo così, capricciose.»

«E la tua ragazza, invece?»

«Lei dice che ne ha avuto un altro prima e racconta spesso, quando mi critica, che il suo ex fidanzato era quello che era, ma non si era mai azzardato ad andarla a trovare a mani vuote. Una volta in una discussione sul suo carattere mi ha detto che era fatta così per colpa mia: prima di conoscermi era diversa.»

«Intanto comincia anche tu a portarle dei fiori.»

«Lo faccio, ma oggi non ho fatto in tempo. Un giorno si è perfino informata s’esisteva un corso per fidanzati.»

«Perché, pensate già di sposarvi?»

«No, no non parlavo del corso prematrimoniale: lei voleva che facessi solo io delle lezioni comportamentali per essere un buon fidanzato.»

«Ma che bella ideona! E ha trovato qualcosa?»

«No, avrebbe chiesto a qualcuno, ma per colpa di quel “qualcuno” che si è messo un po’ a ridere, lei si è infuriata con me.»

Mentre raccontava, capivo che era preoccupato per il traffico: ogni tanto vedevo che adocchiava l’orologio ma nella sua mitezza non osava manifestare l’ansia per il ritardo. Però a un certo punto i suoi timori si sono concretizzati, gli suona il telefonino e poco prima di rispondere dice: «Ecco, è lei!».

Durante la conversazione udivo lui che rispondeva parlando di presunti tempi di arrivo e dall’altra parte il suono gracchiante della voce che usciva dal telefonino. Non distinguevo le parole, ma il tono pareva animato anche perché il tizio, con una piccola smorfia, teneva l’apparecchio a una certa distanza dall’orecchio.

«Cos’ha detto?»

«Io gli ho spiegato che c’era traffico ma che comunque ritardavo di poco.»

«E lei cosa detto?»

«Di non venire più.»

«Perciò cosa facciamo adesso?»

«Oramai proseguiamo; può darsi che cambi idea. Adesso poi, è qualche giorno che mi tiene il muso duro. Qualche giorno fa mi ha detto: “Oggi, siccome sono sei mesi che stiamo insieme, potresti scrivermi una dedica d’amore su un cavalcavia”.»

«Come? Come? In che senso?»

«Sì, insomma vorrebbe che gli faccia una scritta gigante su un muro tipo TI AMO o qualcosa del genere; ma io gli ho detto per favore di non chiedermi questo perché avevo già avuto problemi del genere con la polizia, sa, per imbrattamento dei muri.»

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«E lei?»

«Si è infuriata dicendo che se vuoi che il nostro amore duri per sempre devi crescere e questa prova d’amore mi serve per capire quanto ci tieni a me. Ma stavolta gliene ho cantate quattro: gli ho detto che secondo me esagerava!»

«Va be’, vorrà dire che invece che sul cavalcavia gli farai una dedica per lettera, se non se la piglia troppo male; intanto adesso dovremmo essere in zona, indicami tu dove andare.»

«Sì, sì. Si fermi pure prima della curva.»

«Qua?»

«Sì, non oltre perché non mi deve vedere arrivare con il taxi.»

«Certo. Tu, però per addolcirla, raccontagli che sei arrivato con la corriera volante!»

Pagato il viaggio, aspettai un attimo nell’istintiva illusione di assistere al loro caloroso incontro, ma il mio lavoro è fatto così: non mi è dato sapere la fine delle storie. Mi accontentai perciò di vedere la sagoma dell’innamorato che scompariva tra la penombra del tardo pomeriggio, nella speranza del perdono.