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l presidente [del Governo Galattico Imperiale], in particolare, è soltanto un prestanome: non esercita in effetti il benché minimo potere. È sì scelto dal go- verno, ma le qualità che deve dimostrare di avere non sono quelle tipiche del leader: la sua fondamentale qualità è saper provocare scandali. Per questa ragio- ne scegliere un presidente non è facile: bisogna poter scegliere una persona che sappia provocare il furore nella gente, ma che sia anche in grado di affascinarla. Il suo compito non è esercitare il potere, ma stornare l’attenzione della gente dal potere stesso. Douglas Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, 1979 Periodico mensile - Anno XXX, n. 7, agosto-settembre 2010 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz.. e ammin.: 38100 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20 http://www.il-margine.it/index.php/it/rivista I Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno XXX (2010) n. 7 Lucio Chiricozzi CHE COSA STA SUCCEDENDO? Andrea Mazzalai ANIME NELLA TEMPESTA PERFETTA Alessandro Cugini COSTRUIRE IL CAPITALE CIVILE DEL SUD ISSN 2037-4240 Angela Angiuli Giuseppe Morotti CARLO CARRETTO: FIGLIO SCOMODO E FEDELE ALLA CHIESA Mattia Coser LA RESURREZIONE NELLA MORTE NELLA TEOLOGIA DI GISBERT GRESHAKE Emanuele Curzel FEDERALISMO PER CHI?

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l presidente [del Governo Galattico Imperiale], in particolare, è soltanto un prestanome: non esercita

in effetti il benché minimo potere. È sì scelto dal go-verno, ma le qualità che deve dimostrare di avere non sono quelle tipiche del leader: la sua fondamentale qualità è saper provocare scandali. Per questa ragio-ne scegliere un presidente non è facile: bisogna poter scegliere una persona che sappia provocare il furore nella gente, ma che sia anche in grado di affascinarla. Il suo compito non è esercitare il potere, ma stornare l’attenzione della gente dal potere stesso.

Douglas Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, 1979

Periodico mensile - Anno XXX, n. 7, agosto-settembre 2010 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz.. e ammin.: 38100 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20

http://www.il-margine.it/index.php/it/rivista

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Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno XXX (2010) n. 7

Lucio Chiricozzi CHE COSA STA SUCCEDENDO?

Andrea Mazzalai ANIME NELLA TEMPESTA PERFETTA

Alessandro Cugini COSTRUIRE IL CAPITALE CIVILE DEL SUD

ISSN 2037-4240

Angela Angiuli Giuseppe Morotti CARLO CARRETTO: FIGLIO SCOMODO E FEDELE ALLA CHIESA

Mattia Coser LA RESURREZIONE NELLA MORTE NELLA TEOLOGIA DI GISBERT GRESHAKE

Emanuele Curzel FEDERALISMO PER CHI?

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IL MARGINE 7 AGOSTO-SETTEMBRE 2010 Lucio Chiricozzi 3 Che cosa sta succedendo? Economia, finanza e carta straccia

Andrea Mazzalai 7 Anime nella tempesta perfetta

Alessandro Cugini 14 Costruire il capitale civile del Sud Perché «tutti siamo veramente responsabili di tutti»

Angela Angiuli Giuseppe Morotti 26 Carlo Carretto: figlio scomodo e fedele alla Chiesa

Mattia Coser 35 La resurrezione nella morte nella teologia di Gisbert Grehsake

Emanuele Curzel 42 Federalismo per chi?

In ricordo di Raimon Panikkar, amico e maestro Non amava le definizioni. Ogni volta che si tentava di catturarlo, sfug-

giva sempre, sia sul piano teorico, razionale, sia sul piano esistenziale. Fi-glio di madre catalana cattolica e padre indiano induista, aveva il sangue fortemente impastato di pluralismo. Amava i ponti, odiava i muri. Immagi-nava il mondo come un reticolo di strade che si intersecano e si incrociano. Aveva una cultura vastissima. Ha scritto una settantina di libri, molti tradotti anche in italiano. Aveva avuto un importante ruolo nel Concilio Vaticano II. Le sue tesi avevano influenzato teologi come Yves Congar, Hans Küng, Jürgen Moltmann, Leonardo Boff. Amava ripetere, riecheggiando il vange-lo: «Chi ha paura di perdere la fede la perderà». Non sopportava parole co-me “multiculturalismo” o “civiltà planetaria”, che gli sembravano dei tenta-tivi di uniformare e omogeneizzare la storia.

Uno dei più grandi pensatori contemporanei si è spento nella sua casa di Tavertet, un paesino abbarbicato sui Pirenei, a cento chilometri da Barcel-lona. Aveva 92 anni. Ha vissuto una vita intensissima. Fino alla fine. L'ulti-mo biglietto mi arrivò tre mesi fa. Si chiudeva con questa frase: «Si può ancora cantare perché siamo mortali» (Francesco Comina).

Un federalismo che superi la fase dei “cittadini utenti” e quella dei “cittadini clienti”. La buona amministrazione non è solo quella che sa dare servizi: è quella che sa attivare i cittadini. Non vi è infatti servizio che possa evitare la disgregazione sociale, nemmeno la scuola o il lavoro. Bisogna invece che la politica riconosca quei luoghi (che già esistono) dove i citta-dini si incontrano e dove possono nascere idee e progetti per il futuro. Que-sto è davvero costruzione di un patto sociale, è federalismo.

Siamo in una fase di passaggio epocale, che ci costringerà a fare i con-ti con la categoria del limite e con il principio di responsabilità. Anche la politica, allora, deve cambiare: non deve essere lo strumento che serve a redistribuire le risorse, ma quello che serve per attivarle. Al di fuori di que-sto non ci sono “federalismi” o altre geometrie istituzionali: c’è solo la legge del più forte. �

I L M A RG I N E

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Collaboratori: Carlo Ancona, Anita Bertoldi, Dario Betti, Omar Brino, Vereno Brugiatelli, Luca Cristellon, Marco Dalbo-sco, Mirco Elena, Cornelia Dell’Eva, Michele Dorigatti, Michele Dossi, Eugen Galasso, Lucia Galvagni, Luigi Giorgi, Massimo Giuliani, Giancarlo Giupponi, Paolo Grigolli, Alber-to Guasco, Tommaso La Rocca, Paolo Mantovan, Gino Mazzoli, Milena Mariani, Pierluigi Mele, Silvio Mengotto, Walter Nardon, Rocco Parolini, Lorenzo Perego, Nestore Pirillo, Gabriele Pirini, Emanuele Rossi, Flavio Santini, Angelo Scottini, Giorgio Tonini. Progetto grafico: G. Stefanati Una copia € 2,00 - abbonamento annuo € 20 - d’amicizia € 30 - estero € 30 - via aerea € 35. I versamenti vanno effettuati sul c.c.p. n. 10285385 intestato a: «Il Margine», c.p. 359 - 38100 Trento o sul conto corrente bancario con le seguenti coordi-nate: ABI 07601, CAB 01800, CIN J, CC 000010285385, IBAN: IT25J 07601 01800

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editore della rivista:

ASSOCIAZIONE

OSCAR ROMERO

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Vicepresidente: Fabio Olivetti

Segretaria: Veronica Salvetti

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Economia

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Che cosa sta succedendo? Economia, finanza e carta straccia LUCIO CHIRICOZZI

Questa relazione, come quella che segue, sono nate in seguito alla redazione tenutasi il 21 giugno, e sono state scritte pochi giorni dopo.

a mia lunghissima vita professionale, in gran parte spesa nel mondo bancario-finanziario, mi ha insegnato a “profetizzare” con una gittata

temporale di breve/medio termine. Proiettarsi oltre risulta difatti assai arduo, giacché il futuro lontano non solamente è nebuloso a causa delle innumere-voli variabili da individuare e semmai da misurare, bensì è anche imperscru-tabile in dipendenza delle reazioni che l’uomo – e con esso i governi e le autorità in genere – andranno a sviluppare davanti a siffatte variabili.

Ciò nonostante, il tema proposto mi costringe a un simile cimento. Lo affronterò mediante l’enucleazione (più succinta possibile) degli eventi sino-ra occorsi, da cui cercherò di estrapolare le linee evolutive “presagibili”, quantomeno secondo le mie odierne opinioni e percezioni. Le quali ovvia-mente risentono dei miei trascorsi di manager before subprime (allorché il rapporto con il cliente non necessitava dell’aggettivazione di “personalizza-to” dato che di per sé era già personalizzato).

Fabbricanti di carta straccia La crisi, scoppiata apertamente nel 2008, è nella sua essenza dipesa da

un eccessivo indebitamento delle aziende e delle famiglie USA, a cui ha fat-to da contrappunto la dissennata condotta delle istituzioni creditizie e finan-ziarie, dapprima statunitensi e poi a più vasto raggio geografico. Esse, aven-do dimenticato le sane regole tanto del bilanciamento delle scadenze (fra depositi e impieghi) quanto della moltiplicazione dei depositi medesimi, si sono dedicate all’“ingegneria dell’inventiva”; nella buona sostanza, hanno

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“fabbricato carta” e soprattutto “carta straccia” allo scopo di assecondare una domanda di prestiti problematici addirittura indotta, l’hanno commercia-lizzata e distribuita nell’ambito del pianeta ad altre consorelle parimenti “voraci” e – grazie al loro appoggio – pure a clienti ignari della qualità del prodotto acquisito. Questa catena nefasta – accompagnata da andamenti eu-forici dei listini, favorita dagli insufficienti controlli degli organismi all’uopo preposti, e agevolata dalla miopia delle agenzie deputate alla classi-ficazione del merito del credito – è durata per anni, ed è infine implosa giu-stappunto in forza di quei meccanismi che definirei “satanici”, escogitati e persino teorizzati. Insomma, la matrice della catastrofe è da attribuire alla smodata ingordigia di profitti messa in atto in un contesto volutamente dere-golamentato, laddove la moneta viene divinizzata alla stregua della ragione nell’epoca dell’Illuminismo.

È così che l’organismo bancario e finanziario è entrato nella fase ciclo-nica, ha perso fiducia in se stesso, e ha cominciato a restringere i “cordoni della propria borsa”, contagiando le aree meno incidentate (quali l’italiana). Mentre l’economia reale ha principiato a patirne gli effetti a motivo delle indubbie interconnessioni esistenti tra i due comparti. Allora, e solo allora, la politica (lato sensu) ha afferrato appieno la rilevanza devastante del fe-nomeno, e ha iniziato a muoversi con decisione: mediante incessanti inon-dazioni di mezzi liquidi, l’abbassamento del costo del denaro, l’assicurazione/l’acquisto/il finanziamento di banche disastrate, gli aiuti ai settori produttivi, il conseguente ingrossamento dei “buchi” nei bilanci stata-li. In un quadro, tuttavia, contrassegnato e dalla sopravvivenza di nazionali-smi (all’insegna della conclamata globalizzazione), e da palesi trinceramenti a difesa di privilegi posizionali.

Del resto, la tempesta epocale è stata smorzata nei suoi impatti più squassanti. Ed ecco le forti ripercussioni della massiccia e perdurante profi-lassi che, in quanto tale, non avrebbe potuto non implicarle: il mondo è nella morsa – da un lato – delle voragini dei conti pubblici, capaci di compromet-tere i conti bancari-finanziari (al cui interno figurano quelli tuttora appesan-titi dalle “intraprese pregresse”), e – dall’altro lato – della persistente “stan-ca” sul versante della crescita del prodotto interno (che poggia le sue aspet-tative prioritarie sull’Estremo Oriente); in un clima permeato da ansiose at-tese “messianiche”, e in una cornice disciplinare quasi immutata a dispetto delle molteplici sollecitazioni effettuate. Cosicché, quando leggo i comuni-cati dei “G” (4, 7, 8, 20 che siano), sono colto da delusione accoppiata a demoralizzazione, visto che i passi in avanti nella giusta direzione stentano a

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registrare un vero consenso. E mi succede altrettanto allorquando rammento le speranze destate dall’elezione di Obama a presidente degli Stati Uniti, man mano dissoltesi alla constatazione che egli – all’apparenza moderno, atletico e simpatico – sta rivelando un volto di sicuro “non trionfante” al co-spetto dello strapotere finanziario.

La qual cosa accade poiché la filosofia sottostante resta sempre eguale: la moneta considerata come fine e non come mezzo, la subalternità della lungimiranza razionale alla soddisfazione dei bisogni più prossimi, l’assenza di una visione planetaria in luogo di quella particolaristica. Al punto che sa-rei quasi preso da un totale sconforto riscontrando lo iato oggigiorno inter-corrente fra, da un canto, le strutture e le strumentazioni globalizzate e, dall’altro canto, le idee dei responsabili ridotte alla cura dell’immediato e del proprio “orticello”, se non animate da inconsapevolezze, o da falsità, o da illusioni, o da utopie, o da velleità.

Le vacche sopravviveranno Nondimeno voglio convincermi che ne usciremo: credo nella Bibbia, e

quindi nei periodi di “vacche magre” che si alternano ai periodi di “vacche grasse”; di riflesso, non credo alla morte delle vacche. In ordine, comunque, alle modalità e ai tempi di un ritorno al sereno (ancorché relativo) il discorso diventa più appannato nei suoi contorni. Mi immagino un ulteriore peggio-ramento della situazione, indispensabile per determinare la svolta autentica. Ossia una serie di passaggi, dapprima deflazionistici (con saggi di produzio-ne in calo, quote di disoccupazione in aumento, bilanci bancari in sofferen-za) e in seguito inflazionistici (con prezzi in consistente rialzo, bolle specu-lative in ascesa, bilanci bancari in ripresa fittizia): in entrambi i casi, con no-tevoli disagi sociali che – stando alla norma – graveranno in misura maggio-re sui poveri piuttosto che sugli abbienti. Alla fine, però, gli interessi di so-pravvivenza dell’intero sistema dovrebbero prevalere; per cui – magari sotto la spinta dei paesi emergenti, innegabilmente più vivaci – amo prefigurarmi che si faccia strada un lento processo di resipiscenza e di recupero della lo-gica.

È chiaro che, condividendo le asserzioni e le “preconizzazioni” dianzi enunciate, si venga interpellati – in qualità di membri della comunità terre-stre – dalla voce dei più deboli onde accelerare/accorciare il percorso deli-neato. Ciascuno, nel territorio di propria competenza, dovrebbe incaricarsi

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di conferire corpo all’umanesimo nell’economia: sono richiesti grandissimi sforzi per piccolissimi progressi! Per esempio, chi sa di finanza dovrebbe lumeggiare il suo funzionamento affinché gli inesperti/i neofiti evitino la caduta nelle trappole loro spesso tese (è singolare che tutti si affannino per guadagnare qualche soldo in più, e pochi si adoperino nello studio serio dell’universo monetario). Seguitando, chi lavora sul terreno della tecnica e della tecnologia dovrebbe dare priorità ai diritti dell’individuo nelle sue ca-leidoscopiche dimensioni. Da ultimo, chi si impegna sul fronte delle scienze umane dovrebbe scendere nell’ambito della concretezza con l’obiettivo di affermare la persona, intesa come essere vivente nella sua completezza inef-fabile. �

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Economia

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Anime nella tempesta perfetta ANDREA MAZZALAI

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«La salvezza a lunga scadenza non è mai stata apprezzata dagli uomini d’affari, se essa comporta adesso una perturbazione nel normale andamento della vita e nel proprio utile. Così si auspicherà l’inazione al presente anche se essa significa gravi guai nel futuro. (...) È ciò che agli uomini che sanno che le cose vanno molto male fa dire che la situazione è fondamentalmente sana!»

osi si espresse il grande economista J.K.Galbraith, rivisitando i mo-menti salienti della Grande Depressione del ’29, in riferimento alle po-

litiche che dominarono gli anni venti e trenta; un fascino, quello del breve termine, del tutto e subito, che ha travolto anche l’uomo comune dei nostri giorni, nei quali l’educazione del come fare e del saper fare tende ad emar-ginare il significato delle cose, la loro origine, il loro perché.

“Non era prevedibile” “Non era prevedibile una simile crisi, una simile correlazione e simul-

taneità di dinamiche inedite”: lo si è spesso sentito dire in questi tre lunghi anni, andando alla ricerca di motivazioni tecniche, scientifiche e normative che nascondono l’essenziale, ovvero la natura antropologica di questa auten-tica tempesta perfetta.

Prevale la frenesia e l’ansia della revisione delle dinamiche economi-che, piuttosto che la riflessione sulle cause e sulle conseguenze, si cerca spesso e volentieri di amplificare la complessità di questa crisi, fornendo in-terpretazioni artificiali che nascondono la semplice e naturale evoluzione di comportamenti che hanno origine nella natura umana.

È essenziale comprendere che la teoria della razionalità dei comporta-menti economici ha sequestrato il sistema al punto tale di anestetizzare qual-

1 Andrea Mazzalai tiene l’apprezzato blog http://icebergfinanza.splinder.com (n.d.r.).

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siasi concezione del rischio, della fragilità intrinseca delle relazioni umane ed economiche, della stessa fiducia. Certamente gli operatori del sistema fi-nanziario, in questi anni, hanno razionalmente sfruttato l’occasione, conces-sa loro dalla politica, per raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo e nel minore tempo possibile, ma questo non toglie che le motivazio-ni e le singole passioni abbiamo portato a scelte irrazionali e obiettivamente insostenibili.

Esplorando sinteticamente l’origine di questa crisi dal punto di vista tecnico/scientifico, se ne possono identificare le cause principali nell’eccessiva iniquità nella distribuzione dei redditi e delle risorse e nell’eccesso di indebitamento che ha accompagnato in particolar modo l’ultimo decennio.

Immaginatevi la proiezione di un film nel quale la visione del migliore dei mondi possibili procuri una piacevole sensazione di benessere artificiale trasmessa all’esterno coinvolgendo i passanti che affollano la sala cinemato-grafica. Piano, piano la sala si riempie, sino a quando, qualcuno, lentamente, senza dare nell’occhio, si avvia all’uscita principale o si avvicina alle uscite di emergenza. All’improvviso la visione si interrompe, la luce scompare e gli occupanti si recano simultaneamente – prima compostamente, poi in pre-da al panico – alle uscite di emergenza, perdendo la fiducia in quella visione che li aveva indotti a entrare come protagonisti.

Nella sostanza si è trattato di una crisi di fiducia, che ha generato una crisi di liquidità, che nel tempo si è trasformata in una crisi di solvibilità. Il conflitto di interesse dei proprietari della pellicola sino ad allora propagan-data, unito alla sensazione artificiale di benessere a breve termine, ha pro-dotto una generale sottovalutazione dei rischi, sovrastimando nel contempo la sostenibilità. L’assenza di una minima regolamentazione, la mancanza di trasparenza, una combinazione di sottovalutazione della possibilità di conta-gio e di sovrastima della razionalità degli individui ha prodotto l’azzardo morale che ha sequestrato la democrazia, perché – come spesso amo ripetere – oggi la finanza e talvolta la politica hanno sequestrato la democrazia, la vita sociale delle persone. Il tutto accompagnato da una vera e propria crisi antropologica che ha prodotto una serie impressionante di correnti che han-no origine dalla natura fondamentale dell’uomo. Frodi, manipolazioni, in-ganni, ondate sistematiche di avidità e onnipotenza hanno accompagnato e amplificato le dinamiche tecnico/scientifiche.

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“Questa volta è diverso” “Questa volta è diverso”, sussurra qualcuno, ma spesso la storia, anche

se non si ripete, ama fare la rima. Ecco perché chiunque dimentica il proprio passato è destinato prima o poi a riviverlo, ecco perché sino a ora questa cri-si ha insegnato poco o nulla al di la di quello che la politica vuole far crede-re, attraverso decisioni che, in estrema sintesi, sono giochi di parole nei qua-li i fatti non trovano spesso riscontro.

È stato come osservare un film d’epoca trasformarsi in un attualissimo film a colori, fotogrammi che sistematicamente tendevano a ripetersi in ma-niera spesso sbalorditiva. Il fenomeno subprime (un mutuo alla portata di tutti, anche senza redditi, anche senza patrimonio, l’accesso al sogno ameri-cano anche per coloro che non avrebbero mai potuto in alcun modo permet-tersi una casa), era un film già visto nella crisi giapponese, jusen, l’altra fac-cia della medaglia subprime, eppure molti non ne sapevano nulla o lo ave-vano completamente cancellato dalla storia. “Da noi non succederà mai quanto è accaduto in Giappone, è una realtà completamente diversa, modi, tempi dinamiche e culture troppo differenti”: eppure stiamo tutti parlando giapponese. Invece che affrontare i problemi li abbiamo nascosti, cercando di prendere tempo, continuando ad avere ingenuamente fiducia in un sistema che ha dimostrato tutti i propri limiti.

Non è stato permesso di fallire a coloro che si presumevano troppo grandi per fallire, a coloro che non avevano alternativa al fallimento, addu-cendo il rischio sistemico, il pericolo di trasmissione del contagio, il rischio di una nuova Grande Depressione, creando e perpetrando un azzardo morale che tuttora sequestra l’economia reale. Si è preferito salvare azionisti e ob-bligazionisti di alcune grandi banche piuttosto che aiutare l’economia reale, offrendo una moratoria sui mutui o favorendo dinamiche che permettessero alla gente di non perdere il proprio posto di lavoro.

“Questa volta è diverso”, hanno sottolineato le principali autorità mo-netarie, dopo aver fallito la diagnosi della crisi; “ora sappiamo come inter-venire, perché abbiamo imparato dalla storia”.

Un azzardo morale, quello della speculazione, che come un boomerang sta falciando il lavoro e la dignità di tanti uomini e donne. L’idea che la spe-culazione e il rialzo dei mercati finanziari possano coinvolgere in un cre-scendo emotivo di entusiasmo l’economia reale è un’idea puramente de-menziale, un sistema di controllo cerebrale che sequestra gli individui e crea l’illusione di vivere in un mondo nel quale non ci si accorge minimamente

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della propria condizione di schiavitù. La scelta tra verità e finzione non è cosi facile, implica consapevolezza

e un estenuante cammino di crescita umana e culturale; la glaciale pillola blu dell’indifferenza, la pillola dell’ignoranza, è facile preda della commer-cializzazione nelle masse, un messaggio demenziale frutto dell’ipnosi me-diatica.

È un po’ come il palcoscenico quotidiano della crisi mondiale, sul qua-le presunte persone ragionevoli, magari animate dalle migliori intenzioni e misconoscendo più o meno ingenuamente la realtà, credono di poter rimette-re in piedi con la ragione – ma dimenticando l’uomo! – l’impalcatura, mise-ramente crollata, di questo turbocapitalismo.

L’idolatria del breve termine Chiariamo bene un punto: questa non è la fine del capitalismo, ma la

probabile fine di una degenerazione che ha sequestrato la democrazia, ha distrutto la vita di intere comunità, anche se questo gatto, il capitalismo, sembra avere sette vite. L’eccessiva permanenza nell’immaginario virtuale di un mondo parallelo, che alimenta comportamenti trasgressivi alla ricerca spasmodica del massimo risultato possibile, testimonia l’attraversamento di un passaggio dimensionale, nel quale l’esperimento finanziario accompagna quello genetico, alla ricerca della perfezione, ai confini della follia.

È l’eterna lotta tra coloro che coltivano sentimenti di responsabilità per i rapporti interpersonali e coloro che non sentono questa responsabilità, in un continuo turbinio di alleanze e tradimenti, dichiarazioni di principi e cor-ruzioni, mediazioni diplomatiche e trame oscure. Una lotta, quella attuale, che continua inevitabilmente a richiedere il suo tributo di vite, attraverso un persistente e probabilmente strutturale declino dell’occupazione, declino av-venuto nonostante la più imponente dose di metadone pubblico della storia. Si è creato lavoro favorendo un’economia del debito, una crescita economi-ca fondata sul debito, delocalizzando tutto ciò che era possibile in nome del-la massimizzazione di breve termine assoluta, favorita da incentivi anch’essi di breve termine.

Nonostante ciò, nonostante alcune chiare lezioni, oggi continua l’idolatria del breve termine a livello aziendale, attraverso una spasmodica riduzione dei costi che determina la cancellazione di occupazione e di inve-stimenti. Non si tratta solo di un vizio privato, ma anche pubblico: ammini-

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strazioni statali e amministrazioni locali tagliano i servizi e l’occupazione, per cancellare un livello di indebitamento che spesso è sinonimo di probabi-le fallimento.

Ecco quindi che si ripropone l’eterno dilemma accademico tra i sosteni-tori della spesa pubblica per rilanciare l’economia a costo di espandere ulte-riormente il debito e coloro che non vedono alternativa alla sobrietà, a un nuovo rigore contabile, rigore che puntualmente, mentre di giorno il gover-no federale tesse la tela della ripresa, di notte amministrazioni statali e locali la disfano, senza alternative.

Inutile ricordare che il sistema finanziario è andato a nozze sulla que-stione del debito sovrano, una speculazione quasi scientifica che ha utilizza-to i soldi del contribuente per speculare appunto contro lo stesso contribuen-te, ovvero contro gli Stati che avevano salvato il sistema finanziario.

Per molti si è trattato di un semplice errore di valutazione; un errore in-dotto dall’impossibilità di controllare le variabili impazzite della finanza creativa. Sistemi contabili inefficaci, mancanza di regolamentazione, incen-tivi di breve termine, conflitti di interesse, variabili politiche impazzite, erro-ri di politica monetaria, squilibri micro- e macro-economici e mille altri a-spetti tecnici che vogliono far dimenticare l’esaltazione dell’azzardo morale, perpetrato, generalizzato, spudoratamente sottolineato.

In realtà si è trattato della più imponente truffa legalizzata e istituziona-lizzata che la storia economica conosca, un trasferimento di ricchezza im-menso, una sorta di “etica del furto” – come la chiamano nel loro ultimo li-bro Guido Rossi e Paolo Prodi – per alcuni inconsapevole, ma nella maggior parte dei casi scientificamente perseguito.

Nel “giardino del diavolo”, in una determinata concezione della finan-za, dove il denaro è la “sacra scrittura”, frode, inganno, manipolazione sono quasi, talvolta, la prassi che dimentica o fa finta di dimenticare il settimo comandamento, ovvero non rubare. Certo, esistono anche ladri che magari non si accorgono di rubare, ma probabilmente quelli sono i più pericolosi. In questo caso ci si nasconde dietro il concetto di creazione di valore, ma nella sostanza è rubare! Un’etica del furto che, come hanno scritto gli autori citati, amplia il suo concetto, non si limita più a violare i diritti altrui, ma sequestra intere comunità privandole di diritti elementari e fondamentali come il lavo-ro.

Il concetto di “etica del furto”, nella sua presunta razionalità, è affasci-nante. Il confine tra il lecito e l’illecito diviene invisibile: norme e regola-menti sono la sintesi di tutto e del contrario di tutto, e più nessuno si indigna

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perché, in fondo, ruba inconsapevolmente, “come fanno tutti”, per lavarsi l’anima. E allora si “investe”, giocando in borsa e rifiutando qualsiasi con-cetto di investimento etico, responsabile, consapevole, dimenticando che ogni investimento ha un diverso lato della medaglia, che in alcuni casi può essere socialmente e ambientalmente devastante. Ma il sistema continua a preferire e insegnare l’utilitarismo del breve termine, con il minimo dolore e il massimo piacere. Jeremy Bentham la chiamava algebra morale: l’utile di-venta una sorta di perno del pensiero etico, secondo il quale è lecito compie-re qualsiasi atto che massimizzi in teoria la felicità di un individuo, senza perdere tempo a rilevare la moralità dell’atto, con la presunzione di credere che altri membri di una comunità possano trarre vantaggio dalla massimiz-zazione del profitto personale.

L’Uomo dovrebbe essere il fine e non il mezzo, qualunque sia la sua dimensione sociale, religiosa, culturale. Dovrebbe servire da monito il fatto stesso che, anche nelle nostre società, nelle società occidentali, prolificano le povertà immateriali, con fenomeni di emarginazione, povertà morale, spiri-tuale e relazionale, forme di disagio che fruttificano sull’albero del benesse-re. Abbiamo edificato cattedrali d’oro nel deserto dell’indifferenza, nel de-serto relazionale, dimenticando l’Umanità! Ecco che allora, pur riconoscen-do all’economia di mercato la capacità di innovare e favorire il progresso sociale, vediamo diffondersi ovunque un senso di delusione, di frustrazione, in quanto l’oceano del progresso non raggiunge tutte le spiagge.

Ricostruire nella complementarietà

Guardando all’orizzonte non vedo oggi molte possibilità di sfuggire a un lungo periodo di “riflessione” nel quale il sistema economico occidentale subirà un graduale e strutturale ridimensionamento, accompagnato dalla brezza di una nuova vitalità economica a Oriente e in alcuni paesi emergen-ti.

Non è solo una crisi economico/finanziaria, ma essenzialmente una cri-si antropologica; quindi non ha senso concentrarsi solo sulle soluzioni tecni-che o normative per cercare di dimenticare la più imponente crisi della storia (nella sostanza, non ancora nelle conseguenze). Abbiamo riparato alla me-glio uno scuolabus guidato e sfasciato da una classe politica irresponsabile, rimettendo al volante gli stessi uomini, le stesse idee. Sarà un percorso lun-go e tortuoso, spesso sull’orlo di un burrone, ma senza un cambiamento di

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mentalità del guidatore, un volo nell’ignoto ci aspetta. Nelle scuoleguida della finanza e dell’economia dobbiamo insegnare un nuovo modo di guida-re, nuovi codici della strada etici, il rispetto della vita, la responsabilità di non mettersi al volante ubriachi dell’idea che la massimizzazione del profit-to a breve termine è la sola ebbrezza di una guida spericolata al volante. Non serve a nulla avere piloti esperti e capaci che non conoscono nulla del moto-re e delle strade da percorrere; probabilmente è solo grazie a un cambiamen-to di mentalità delle giovani generazioni che potremo ambire al cambiamen-to verso un nuovo sistema più umano e più giusto, senza l’illusione di una perfezione che non esisterà mai.

Penso che, al di la delle paure, anch’esse di breve termine, non è tanto importante quello che accadrà nei prossimi anni, anche se è umano pensarlo, ma come sarà possibile ricostruire un sistema economico responsabile, che permetta di attenuare le naturali deviazioni dell’animo umano, e non solo quelle scientifiche e tecniche.

Ecco perché la ricostruzione della scienza economica e della cultura fi-nanziaria devono necessariamente passare per una completa complementari-tà di cultura umanistica e cultura scientifica, per lo studio della filosofia mo-rale e della sociologia, dell’economia cognitiva e comportamentale, della storia economica e politica, riducendo e limitando il peso della componente matematica pura.

«Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino, noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana e la razza umana è piena di passione. Me-dicina, legge, economia, ingegneria, sono nobili professioni, necessarie al nostro so-stentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita». Questo diceva il professor Keating in Attimo fuggente. L’attimo fug-

gente di questa crisi è una occasione irripetibile per un cambiamento, senza utopie. Un attimo che permetta alle giovani generazioni di considerare in primo luogo i rapporti umani, anche al di là della “scienza triste” dell’economia. �

Politica da cristiani

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Costruire

il capitale civile del Sud Perché «tutti siamo veramente

responsabili di tutti»1

ALESSANDRO CUGINI (segretario dell’Associazione Laici e Gesuiti per Napoli Onlus)

«Oggi, tra le persone seriamente impegnate nella costruzione di modelli di vita al-ternativi e che si interrogano su come vivere assieme nel nostro Paese – declinano i valori della solidarietà, della giustizia, della sostenibilità e della democrazia – sono evidenti i segnali di perplessità, scetticismo, sdegno e fastidio nei confronti della po-litica e ancor più dei politici».

uesta riflessione di Giacomo Costa s.j. nell’editoriale di “Aggiorna-menti Sociali” dell’aprile 2010 riguarda tutto il nostro Paese ma foca-

lizza l’esigenza di rinsaldare un legame forte con i cittadini comuni che ha la politica nella parte meridionale del Paese. Nel Sud questa esigenza è da tempo avvertita. La situazione del Sud determina l’esigenza di quel tipo di “far politica da cristiani” che è uno dei target della Rivista “Il Margine” e fu una delle tematiche cardinali fatte oggetto di analisi dalla “Rosa Bianca”2 di Paolo Giuntella, che voglio qui ricordare. Ecco perché – non l’esigenza – ma il COME costruire un capitale civile nel Sud, mi fa ritenere utile integra-re l’articolo dell’amico Lucio Pirillo Cattolici, politica e democrazia nella

1 Giovanni Paolo II, Sollecitudini rei socialis, n. 38 (1987). 2 «Noi si cercava una rosa bianca, nella crudeltà di cemento ed acciaio, ripiegati gli stri-

scioni del’68 con grinta e con rabbia, ritrovando la fede dei padri, ritrovando la pas-sione di essere dentro, accettando la complessità del reale, la dura quotidianità in cui vivere la tensione utopica, il servizio, la sete di giustizia, e di immaginazione al potere, entro le istituzioni per costruire le nuove istituzioni, nella storia ma assetati di nuova storia e di nuovi cieli»: P. Giuntella, In cerca di una rosa bianca, La locusta, Vicenza 1981, p 8.

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realtà del Sud (“Il Margine”, 2/2010), che si concentrava su di una vera e-mergenza: l’esigenza nel Sud di una riflessione sulla politica e la democra-zia generata da una complessa insoddisfazione e da una critica dello stato delle cose attuali che ostacola la crescita e la competitività delle regioni più deboli del nostro Paese.

In particolare, voglio segnalare l’esperienza di una rete di nuove sog-gettualità che contraddistingue quella parte dei laici cristiani che realizzano la vocazione cristiana immersi nel mondo (e non sono né “iperspiritualisti”, né “ superattivisti pastorali”, come dice Pirillo). La letteratura sul Mezzo-giorno, al centro dell’attenzione di chi vive nel Sud e di chi ha responsabilità di governo nazionali come il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, ha evidenziato che la differenza nel capitale sociale tra Nord e Sud è fra le determinanti della minore performance economica dell’economia meridio-nale rispetto a quella del Nord. Per chi vive nel Sud il problema della politi-ca nazionale per il Mezzogiorno riguarda la qualità più che la quantità delle politiche di trasferimento, la ripartizione tra spese per consumi rispetto a quelle per investimento e – in ultima analisi – la loro ripartizione su quei consumi pubblici (sicurezza, istruzione, sanità ecc.) che, se ben impiegati, possono avere ripercussioni molto positive sul rafforzamento del capitale sociale. Il problema centrale del Sud, insomma, è quello del capitale socia-le. In questo senso voglio segnalare un tentativo che esiste e opera a Napoli e la cui intenzione è far conoscere e denunciare questo stato di cose, per formare le coscienze e per offrire spazi liberi di dibattito aperti a esponenti della società civile locale in un’ottica di collaborazione tra laici e religiosi che operano in quel particolare ed emblematico contesto. Un “laboratorio sociale “ napoletano varato nel 2006

Come fu ben addietro a Palermo con l’Istituto Arrupe, dal 2006 alcuni

laici e gesuiti che vivono e operano a Napoli, nell’ottica postconciliare3, va-lutarono la necessità di nuovo discernimento delle azioni laicali da raccorda-re ai nuovi segni dei tempi del mutato contesto napoletano.

Le preesistenze e le azioni ignaziane a Napoli fino al 2006. Le preesi-stenze dell’attività pastorale plurisecolare dei gesuiti a Napoli sono ampie e 3 «È proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali ed ordinandole

secondo Dio, agendo quasi dall’interno a modo di fermento»: Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n.31.

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l’attività nel sociale evidente. Consolidata è l’attività di istruzione teologica svolta dalla Facoltà Teologica Sez. S. Luigi e quella di istruzione secondaria dell’Istituto Pontano. L’attività religiosa ruota attorno al Gesù e alla Casa per Esercizi Spirituali Cappella Cangiani e si somma a quella di Scampia (noto quartiere napoletano socialmente degradato) rivolta anche alla promo-zione sociale. In questi ultimi anni, i Padri Gesuiti hanno sviluppato iniziati-ve innovative sul piano del dialogo con la società civile napoletana: ad e-sempio “I Lunedì di Villa San Luigi”, momenti di incontro aperti al pubbli-co presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sezione “S. Luigi”, che offrono dal 2003 ininterrottamente4 al pubblico napoletano un luogo di confronto e conversazione su temi di attualità culturale, sociale e religiosa; ad esempio l’“ Eremo in città” è stato per anni punto d’incontro a favore di chi era impegnato in responsabilità di amministrazione e di servi-zio politico nelle strutture pubbliche, per avere momenti di riflessione e per conformare l’azione pubblica con una spiritualità della Politica.

Nuove esigenze della società civile di Napoli. Nel 2006 si avviò nell’ambito dei gesuiti a Napoli una riflessione che ne intercettò una analo-ga, maturata da alcuni laici impegnati nel mondo del lavoro e delle profes-sioni e delle istituzioni: Napoli, al pari di molte altre città italiane, visse e vive momenti di grande difficoltà progettuale a livello pubblico e privato, ma soprattutto a livello delle coscienze di molti suoi cittadini. Proprio que-sto momento di grande difficoltà della città potrebbe tuttavia sviluppare – si pensò – con opportune azioni l’impegno etico di tanti suoi cittadini. Per af-fiancare e sostenere l’attività svolta dai gesuiti a Napoli, un gruppo di napo-letani, attenti alle esigenze individuali e della città, decise di riunirsi per mettere a punto la costituzione di un movimento che supporti in modo strut-turato e continuativo le attività anzidette e altre da progettare assieme ai Pa-dri. La caratteristica di questa iniziativa fu la costituzione di un nucleo ope-rativo e di un soggetto giuridico e, per mezzo di essi, l’avvio di varie inizia-tive.

Scopi e azioni. La novità dell’iniziativa fu nel desiderio di affiancare l’azione di un nucleo di laici seriamente impegnati nella vita civile a suppor-to economico, finanziario e scientifico dei gesuiti e della comunità ignaziana di Napoli, nelle sue molteplici presenze e attività. Il nucleo, all’inizio, previ-de come scopo della sua attività un obiettivo vasto, multiforme, una pluralità

4 Nel 2010 è in corso l’ottavo ciclo, organizzato dall’Associazione “Laici e Gesuiti per

Napoli Onlus”.

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di azioni, per potersi meglio adattare all’evoluzione della realtà napoletana e alle esigenze di intervento. Ma fu subito chiara l’esigenza di costituire un soggetto giuridico, le cui azioni ruotassero attorno alla promozione di inizia-tive politiche e sociali e prendesse a base la pastorale conciliare e postconci-liare della Compagnia, costituendo una ONLUS, così da prefigurare un so-stegno non episodico ma duraturo all’azione delle preesistenze della comu-nità ignaziana di Napoli e, nel contempo, adottare una formula vantaggiosa dal punto di visto economico e flessibile per studiare nuove attività5.

Come iniziare a lavorare insieme? Al di là delle iniziative, a cinque anni dalla sua costituzione, il risultato

qualitativo dell’iniziativa è quello di una presa di coscienza comune, matu-rata in ambiti diversi ma ispirata da una condivisa esperienza di formazione culturale, etica e religiosa, che ha spinto e spinge una dozzina di gesuiti e una quarantina di laici ad essi vicini alla realizzazione di un “servizio” alla città di Napoli e, a partire da essa, al paese. Attivandosi in questo decennio, particolare per la nostra città e per la vita nazionale, caratterizzato dalla competizione elettorale, essi non hanno voluto esercitare alcuna sorta di pressione né per uno schieramento di partito, né per candidature personali. Piuttosto hanno inteso e intendono impegnarsi a favore della città, mettendo insieme energie morali, competenze e capacità di lettura dell’esistente nell’elaborazione di un servizio che favorisca «la formazione della coscien-za nella politica», la crescita della «percezione delle vere esigenze della giu-stizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale»6. Ne è prova il “manife-sto” che afferma:

5 Come Cicli di conversazioni su temi di attualità e progetti di impegno civile e culturale

nella città di Napoli, in una prospettiva di Scuola di educazione politica cittadina, Convegni per confronti tra la comunità ignaziana di Napoli e la società civile, la pro-mozione delle riviste dei gesuiti italiani “ Aggiornamenti sociali”, “La civiltà cattoli-ca”, “Popoli” e “Rassegna di teologia” presso la società civile e gli operatori pastorali laici, Corsi di Teologia per laici impegnati nel mondo lavorativo e nelle Amministra-zioni pubbliche, Interventi di promozione ed economici a sostegno di corsi accademici della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sez. S. Luigi.

6 Benedetto XVI, Deus caritas est, 28 (2009).

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«Siamo laici e gesuiti, provenienti da percorsi diversi, decisi ad impegnarsi insieme per contribuire a rendere migliore la città di Napoli. Da questa idea è nata l’Associazione “LAICI E GESUITI PER NAPOLI – ONLUS” che intende proporre alla città una serie di iniziative finalizzate a favorire un recupero di quei valori fon-damentali per una migliore convivenza civile, promuovendo un sistema etico che sappia conciliare giustizia e solidarietà. Questo sistema di valori – radicato nella tradizione e nella cultura della Compagnia di Gesù ma condiviso da molti laici, al di là di ogni appartenenza religiosa – rappresenta il punto di riferimento per la nostra azione, che intende mettere al servizio della città risorse e competenze per costruire percorsi di formazione e di sensibilizzazione etica sul piano della coscienza civica e politica». Ma la prima azione fu un bruciante insuccesso. Con il sostegno

dell’Associazione Laici e Gesuiti per Napoli Onlus la Pontificia Facoltà Te-ologica dell’Italia Meridionale, Sezione San Luigi, organizzò, per l’anno ac-cademico 2006/07, il Master Universitario di primo livello in etica per Ge-store delle politiche pubbliche e Consulente etico aziendale, della durata di tre semestri (febbraio 2007-giugno 2008), aperto sia a giovani laureati che non fossero ancora impegnati professionalmente, sia a coloro che già posse-dessero un’esperienza di impegno pubblico, sociale e/o lavoro. Il Master propose un percorso formativo specifico e preferenziale, che preparasse all’inserimento nei quadri elevati della Pubblica Amministrazione e delle imprese. Il Master volle concretizzare una Scuola di politica ma non partì perché non ebbe il numero minimo di iscritti che si era prefisso.

Da ciò emerse l’esigenza di una riflessione interna all’associazione, di-scutendo i punti nodali del proprio impegno etico e le scelte da operare. Sfondo del dibattito interno all’Associazione Laici e Gesuiti per Napoli, che si era nel frattempo sviluppata organizzativamente, furono tre domande: che cosa è essenziale per formarsi eticamente? quali punti di forza ritrovo in me, e attorno a me, interrogandomi sul mio impegno etico personale, alla luce delle sfide e dei problemi che mi trovo ad affrontare nella mia vita? interro-gandomi sulla città di Napoli, e sulle sfide etiche cui fare fronte, come sce-gliere, formarsi, sostenersi nel costruire una città più giusta?

La discussione tra laici e gesuiti, indicando il retroterra culturale e filo-sofico di ognuno – cattolico, agnostico, liberale – puntualizzò a volte la cen-tralità della libertà e il carattere problematico delle regole, ricordando che l’incertezza delle regole è l’unica certezza. Il modello di etica che ne conse-guì – tradotto in una contestualizzazione – fu un’etica in progress, quasi si trattasse di un cantiere in costruzione, in cui l’elemento dinamico fosse non accessorio, ma costitutivo, ineliminabile e il cui fine è la sempre maggiore e

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migliore costruzione, insieme, della dignità dell’uomo. Il dialogo e il con-fronto sono a fondamento di una tale etica e, nello stesso tempo, sono il fine verso cui essa tende. La realtà napoletana, con il contesto e le fasce sociali che la caratterizzano, invitò concretamente e urgentemente a un lavoro co-mune, associandosi a forze positive cittadine e a realtà di normalità che chiedono sostegno, opponendosi e isolando le forze negative che operano in città. Da parte di altri, poi, si individuarono come elementi etici essenziali punti di debolezza e punti di forza, i primi costituiti da una visione della vita umana e della realtà di tipo economicistico, in cui dominano l’efficienza, l’utilità, il profitto e in cui si trascura il debole, smarrendo la gratuità disinte-ressata; è anche presente la situazione del contesto economico e sociale na-poletano, che ha raggiunto forme di alienazione che “reificano l’uomo”; e, infine, si constata una crescente incomunicabilità tra le persone pur nell’estensione delle possibilità di informazione. Ma a questi punti di debo-lezza, in termini positivi, emerse la caratteristica napoletana – e in genere meridionale – della capacità di ascoltare e della virtù del dialogo. Altre volte prevalse la sensazione di paura e sconcerto che la tecnica solleva persino a proposito dell’identità biologica dell’essere umano (clonazione, sperimenta-zione genetica, confini della vita), richiamando l’esigenza di una riflessione “alta” sul senso dell’umano e il bisogno di infondere speranza.

Il lungo processo di analisi interna fu utile perché rimarcò alla fine il desiderio di tutti di collaborare e di costruire insieme nella fiducia; il saper stare nelle situazioni anche difficili senza cedere alla tentazione della fuga e della nicchia gratificante; la volontà di non abbassare la ricerca e il confron-to, tendendo a mete possibili. Guardando alla nostra città, ciò si tradusse in un rinnovato impegno nell’essere disponibili a: ‘sporcarsi le mani’ di fronte alla rassegnazione diffusa; superare logiche individualistiche, educandosi alla responsabilità e mirando a dare frutti, senza confonderli con i risultati; mediare politicamente, comunicando, argomentando, costruendo una base comune di riferimento da cui partire.

Il programma ha risentito positivamente di questo momento di confron-to, interno e con lo sfondo teorico di riferimento, mettendo in campo attività concrete di cui fornirsi, a livello cittadino, per dialogare, per aggregare e so-stenere le forze positive cittadine, per tendere a consolidare la ricerca del bene comune. Anzitutto collaborando a eventi della Compagnia che hanno

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inciso profondamente sulla città7 o altri di grande respiro8, collegando l’Associazione con il Jesuit social network, conoscendo il volontariato na-poletano9: fu un percorso lento nel quale molti soci vennero a conoscere epi-sodi e attività di alto valore sociale, poco conosciute, poco valorizzate, poco aiutate da altri pezzi della Città. Conoscere l’umanità di Napoli fu un ele-mento utilissimo anche ai fini della ricerca di identità della stessa Associa-zione.

Per riferire come questa analisi contestualizzata fosse profonda, riporto brani della “lettera di Natale 2007” che, a margine di una visita per conosce-re l’attività di una nuova cooperativa sociale costituita nel quartiere Sanità, un altro quartiere degradato del centro della città di Napoli, un socio laico rivolse agli altri soci:

«mi rivedo alla fine degli anni cinquanta, bambino. La guerra è ancora evidente nel-le macerie della mia Città e nelle povertà antiche e nuove che ne segnano la bellezza di sempre. È la Napoli che De Sica e Nanni Loy tratteggiarono poi con amore con un cinema di qualità, sul fondamento di valori antichi, figli e tessuto connettivo di una Storia ricca di cultura, di arte, di creatività, di generosità, ma anche di dramma. Profilo e anima di una Bellezza capace di intrecciarsi continuamente con i sogni, le aspettative, le delusioni, gli sforzi, i disagi, le ferite, gli abbrutimenti, gli egoismi immorali e devastanti degli speculatori di turno, fino al degrado attuale. Un quartie-re bellissimo, la Sanità. Dove Totò dette i primi passi nell’avanspettacolo, poi am-basciatore nel mondo di una maschera che, come Chaplin, metteva insieme la comi-cità e la vita, consegnandosi all’universalità, senza confini. Nelle feste scolastiche di Natale e di Pasqua, o in estate entravo con mia Mamma, qualche lunedì, in questa splendida Basilica di Santa Maria (la chiesa frequentata da tutta la mia famiglia). Mi spaventavano l’imponenza dell’altar maggiore e la maestosa bellezza delle architet-ture, delle statue, tra cui il mio San Pasquale Baylon. L’esperienza vissuta alla Sani-tà dall’Associazione è stato un po’ riaprire questa finestra sulla mia storia. Risentire

7 Come fu il caso del Convegno del 14 febbraio 2008 nel centenario della nascita del P.

Pedro Arrupe e in occasione dell’inizio della XXXV Congregazione Generale Gesuita, con la partecipazione, tra gli altri di P. B. Sorge s.j.

8 Come fu il caso del Convegno del 17 ottobre 2007 organizzato assieme all’Associazione “Oltre il chiostro” e “Bielo” su alcune testimonianze di donne che hanno cambiato il mondo, con la partecipazione del medico missionario Carla Castellano.

9 Segnalo come una volta il luogo d’incontro – la “Casa del Sorriso” – fu occasione per confrontarsi con una scelta e un impegno etico preciso. Infatti, nella “Casa del Sorri-so”, il gruppo di laici che la gestisce, appartenente all’Associazione “E. Vitali” ON-LUS, accoglie sia i familiari di degenti oncologici, in disagio economico, che vengono a Napoli da altre province per seguire i propri cari ricoverati, sia i malati quando sono ricoverati in day hospital e sono autosufficienti (www.vitalionlus.org).

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sapori, profumi, gusto, voci, come quella del mio papà che, in quella basilica, fu Presidente della Pia Unione del Buon Consiglio per anni. Non era ancora il tempo delle progettazioni sociali e dei POR, o dei Fondi Europei che tanti interrogativi pongono di questi tempi ma dell’esserci in prima persona sulle frontiere del disagio e della ricostruzione, per condividerle e dare il proprio contributo, piccolo, nascosto. Ma vero, disinteressato. Poco prima di andar via da quel quartiere e da quella chie-sa, dieci anni dopo, ormai in CVX (Comunità di Vita Cristiana, allora Congregazio-ne Mariana), in quegli altari cominciai a servir messa nel periodo della riforma li-turgica post-conciliare. Un po’ come dice Alex Zanotelli, che oggi vive lì, proprio nel campanile di quella chiesa, come un faro di Luce e di Speranza, con don Anto-nio e la Comunità, con la Rete delle Associazioni, e le loro iniziative nuove e rinno-vanti, sul Quartiere e sulla Città. Allora il “grazie” mi nasce “dentro”, col sorriso dell’anima, con la fragranza della verità, nel silenzio armonioso della contemplazio-ne. Oggi, verso il Natale, rifaccio, nella mia famiglia, il presepio, così come l’ho imparato in silenzio da Papà: con la colla, il sughero, i giornali vecchi e le vernici all’anilina, per una cartapesta senza alcuna pretesa, se non quella di rivivere un’esperienza e un’atmosfera, anche spirituale, di gioia e di amore. E condividerla. È un po’ la Napoli della mia Sanità e di quella chiesa, che oggi, in qualche modo, ricostruisco nel presepio, come ogni anno…». Si continuarono i momenti di incontro de “I Lunedì di S. Luigi” e si i-

niziò un percorso, ancora non concluso, per una scuola politica giovanile partendo dalla riflessione di partenza che la proposta, non “generalista”, do-vrà coinvolgere un “gruppo pilota” composto da giovani motivati e interes-sati, segnalati dalle associazioni (scout, CVX, AC, volontariato ecc.) e, prendendo atto della grande difficoltà dei giovani ad accostarsi alla politica, utilizzare esperienze vissute improntate alla forte coerenza tra valori civi-co/sociali e azioni pratiche già messe in atto da giovani10. A margine di una lezione ad Oxford, Romano Prodi disse il 6 marzo 200911: «Pensiamola co-me vogliamo ma parrocchie e cellule erano una scuola di formazione effica-ce, attenta e severa. Oggi quando ascolto un giovane che dice la formula magica – Votatemi perché sono estraneo da tutto – rimango molto perplesso: è il vuoto». Bisogna intervenire.

10 La Scuola punterebbe a far parlare tra di loro i giovani prescelti su ciò che essi già fan-

no nel campo sociale e civile, con testimonianze reciproche, su quali siano nei giovani le esigenze di coerenza di vita, sullo sviluppo della consapevolezza dell’impegno di cittadinanza a Napoli e sulla redazione da parte dei giovani di quale proposta fare ad altri giovani della città.

11 “Corriere della Sera”, 6 marzo 2009.

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Che cosa hanno realizzato finora i Gesuiti e laici insieme a Napoli

La prima realtà di azione è la memoria delle attività e la loro funzione

“democratica”. Il sito (www.laiciegesuiti.it) che l’Associazione ha creato e mantiene ha l’intento di essere un luogo virtuale (foto, video e audio degli incontri, rassegna stampa e documenti di quanto nel tempo l’Associazione ha creato a Napoli), senza password o userid! La caratteristica meridionale è l’inventiva alta e geniale, ma non supportata da un duraturo impegno: i commenti di chi ha partecipato, le domande ai dibattiti, l’elenco pedissequo dei relatori delle ormai decine di momenti di incontro, oggi e in futuro “sono lì”.

Tra i “frammenti di risposte” che concludono l’articolo di Lucio Pirillo, ritrovo e condivido: «al Sud una buona pedagogia delle istituzioni è il primo passo per operare tale ravvicinamento e superare così la disaffezione dei cit-tadini verso la politica». Sono risposte operative i titoli dei tre cicli di incon-tri dei Lunedì di S. Luigi del 2008 (“Certezza e incertezza”) e del 2009 (“Crisi, mutamenti ed opportunità”). Centinaia di cittadini, in alcuni casi de-cine di loro di giovane età, sono venuti ad ascoltare temi cruciali della poli-tica e del vivere civile, prendendo la parola, avendo risposte, “allargando la rete”.

Se Lucio Pirillo afferma che «emerge fortemente una richiesta di eticità per l’ambito pubblico, al di là delle retoriche sul “rinascimento», proprio in quei giorni il calendario degli incontri organizzati da Laici e Gesuiti per Na-poli rispondeva «la nostra associazione inizia questo percorso di incontri 2010 per contribuire a un processo di cambiamento:si tratta di una serie di incontri con persone autorevoli12, a cadenza mensile sul tema IDEE PER SCEGLIERE, in uno spazio di conversazione autentico che stimoli una ri-flessione costruttiva e che trasmetta contenuti da elaborare, confrontando posizioni e conoscenze». Il processo di analisi e di contestualizzazione che l’Associazione ha avviato all’inizio della propria azione si è concretizzato in una voce politica – non partitica – che fornisce al cittadino un confronto di

12 Mentre negli anni precedenti abbiamo avuto ospiti (sempre senza compenso) Battiato e

Travaglio, Ciotti e Righetti, Bertolaso e Sepe ecc. gli ospiti del ciclo 2010 sono stati scelti tra i soggetti della cittadinanza attiva della città (come ad esempio il direttore del giornale quotidiano cittadino, il direttore del carcere, il presedente della Fondazione per il Sud, il direttore dell’urbanistica del Comune ecc.) per dare appunto “Idee per scegliere”.

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libertà e correttezza uniche su temi di grande importanza con esponenti della comunità civile anche in vista del prossimo appuntamento elettorale del 2011 di rinnovo del Sindaco di Napoli.

Ad essa si aggiungono altre iniziative come gli “Incontri con i protago-nisti dell’Arte” e “Radici ed Ali”, che per un triennio, dal 2008 al 2010, hanno coinvolto decine di cultori dell’arte, artisti di chiara fama internazio-nale, genitori e docenti per approfondimenti e dialogo su tematiche culturali e pedagogiche.

Tutto questo ha provocato e provoca rimbalzi giornalistici correnti sulle tematiche dell’impegno civile e di dialogo e di discussione in occasioni di incontro esterne all’attività dei gesuiti e dell’Associazione.

Per contribuire a creare una classe dirigente locale del futuro mediante la formazione della coscienza l’Associazione sta ora avviando un orienta-mento al lavoro, sperimentando all’Istituto Pontano un modello di collabo-razione con i docenti, genitori e alunni, per ricostruire un tessuto sociale passando per la conoscenza del mercato del lavoro e l’apporto innovativo di “testimoni dell’etica delle professioni”. Del resto il documento finale del convegno “Chiesa del Sud, Chiese del Sud” affermò con forza:

«I laici che vivono le nostre comunità e le nostre associazioni dovranno maggior-mente dare ragione della speranza che è in loro nei posti che quotidianamente vivo-no, uscire cioè dalle mura del tempio per incarnare nella società il Vangelo di Cri-sto».

Per evitare che i giovani meridionali “votino con i piedi” In Italia negli ultimi anni 120.000 giovani all’anno emigrano dal Sud al

Nord e solo 60.000 “anziani di ritorno” vanno da Nord a Sud. Questo migra-re è solo una risposta a quanto è noto a tutti: 200.000 meridionali si vanno a far curare a Nord, il tempo della giustizia è in media di 300 giorni a Nord e 1.300 giorni a Sud per un giudizio di cognizione, il turismo attrae 4,4 milio-ni di turisti esteri all’anno contro 5 milioni per il solo Lazio e altrettanti in Lombardia e ancora tanti in Veneto, il PIL del Sud è pari al 56-60% del PIL del Centro-Nord, il 20% dell’occupazione è irregolare, i servizi pubblici es-senziali sono inferiori nel Sud: insomma se è vero che il cambiamento dell’intervento pubblico nazionale nel Sud – iniziato con infrastrutture come

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prerequisito della crescita13 – si è arenato, vi è chi dice autorevolmente che «la nuova politica regionale deve puntare sull’interazione tra le istituzioni e le forze politiche locali, sulla formazione del capitale sociale, sulla moder-nizzazione delle pubbliche amministrazioni, perché finora ha registrato ri-sultati macroeconomici inferiori alle attese»14.

Per uscire dalla situazione in cui si trova il Mezzogiorno non deve a-spettarsi aiuti dall’esterno, ma puntare sulle proprie risorse. E, tra queste, la Chiesa ha un ruolo decisivo. Il recente Documento dei Vescovi sul Mezzo-giorno (febbraio 2010) afferma:

«la comunità ecclesiale, guidata dai suoi pastori, riconosce e accompagna l’impegno di quanti combattono in prima linea per la giustizia sulle orme del Vangelo e opera-no per far sorgere “una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cer-care con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile”. Bisogna dunque favorire in tutti i modi nuove forme di partecipazione e di cittadinanza atti-va, aiutando i giovani ad abbracciare la politica, intesa come servizio al bene comu-ne ed espressione più alta della carità sociale» (p. 11). A patto che sia davvero la comunità ecclesiale a impegnarsi in tal sen-

so, e non solo alcune frange elitarie. Ciò che si richiede è, infatti, uno sforzo corale. Se la priorità è la formazione, in particolare, per l’aspetto socio-politico, in questo sforzo avranno un ruolo di primo piano le Facoltà teolo-giche, gli Istituti di scienze religiose, le scuole degli operatori pastorali e quelle di formazione politica.

«Nella Chiesa, ma questo non riguarda solo il Sud, ci sono come due piani, due li-velli ben distinti e, in larga misura, ben separati: il piano nobile dove si svolgono i convegni, i seminari studio, i dibattiti tra gli esperti da cui la gerarchia ecclesiastica trae il materiale per i propri documenti. E c’è il piano terra della pastorale ordinaria, delle parrocchie, dei gruppi e delle associazioni, della vita quotidiana della comunità credente dove dominano dinamiche e difficoltà diverse da quelle trattate nei docu-

13 Voglio ricordare quanto è stato fatto in termini anche delle infrastrutture culturali dalla

Cassa del Mezzogiorno negli anni cinquanta e sessanta e dall’IRI nei successivi anni settanta-novanta, vero baluardo occupazionale contro il dilagare della malavita orga-nizzata e poi al nascere degli estremismi terroristici degli anni di piombo.

14 G. Iuzzolino e L.Cannari in Banca d’Italia e Università degli studi di Napoli “Federico II”, Istituzioni e politiche per il Mezzogiorno, Napoli, 15 aprile 2010.

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menti e nei convegni da destare negli inquilini di questo pianterreno un senso di to-tale indifferenza o addirittura di sorda irritazione»15. Ricordando Camara e Romero, l’Associazione Laici e Gesuiti per Na-

poli condivide l’assunto che «I laici non devono essere esecutori passivi, ma collaboratori attivi dei pastori, ai quali apportano la loro esperienza e com-petenza professionale e scientifica»16 e sperimenta nuove attività di impegno di formazione del capitale sociale cittadino.

Gli esempi delle azioni dell’impegno dei gesuiti a Milano e Palermo17, vissute e ricordate da P. Sorge s.j.18, sono una traccia. A Napoli si sta ten-tando una metodologia originale di democrazia – com’è l’azione comune di gesuiti e laici – che punti sull’interazione tra le istituzioni e le forze politiche locali, sulla formazione del capitale sociale, sulla modernizzazione delle pubbliche amministrazioni e convinca giovani del Sud a non continuare a “votare con i piedi”. (31 maggio 2010). �

15 Prof. G. Savagnone, relazione al Convegno “Chiesa del Sud, chiese del Sud”, Napoli,

12-13 febbraio 2009. 16 Puebla, Comunione e Partecipazione, Roma 1979, p. 594. 17 L’Istituto di Formazione Politica “Pedro Arrupe” è un’istituzione formativa le cui ori-

gini risalgono al 1958 – anno di fondazione del Centro Studi Sociali da parte dei ge-suiti siciliani – che si ispira all’impianto metodologico della ratio studiorum: analisi rigorosa della realtà, studio qualificato ed esigente, insegnamento efficace, accompa-gnamento personalizzato. L’Istituto Arrupe, ideato come scuola sul modello universi-tario, d’ispirazione cristiana ma non confessionale, non scuola di partito, adottando le scienze sociali come strumento di analisi, ha sempre avuto come oggetto la politica in senso stretto in vista del suo rinnovamento etico.

18 P. Bartolomeo Sorge s.j., La traversata, Milano 2009.

A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II

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Carlo Carretto: figlio scomodo

e fedele alla Chiesa ANGELA ANGIULI GIUSEPPE MOROTTI

enedetto XVI, in questo momento delicato, sta coraggiosamente spro-nando la Chiesa alla conversione e alla penitenza. Il cardinal Bagnasco,

da parte sua, si augura che la Chiesa possa continuare «a servire l’uomo con la simpatia di Dio». Ma di quale conversione ha veramente bisogno la nostra Chiesa per poter servire l’uomo con la simpatia di Dio? La feconda eredità spirituale lasciataci da Carlo Carretto, di cui celebriamo il centenario della nascita, ci possono essere di aiuto nel rispondere a questa domanda. Le origini

Carlo Carretto nacque ad Alessandria il 2 aprile 1910 da una famiglia

di origine contadina. Ebbe da piccolo una educazione austera e vigorosa, tipicamente cattolica, improntata sulla spiritualità salesiana. Ottenuto il di-ploma di insegnante nelle scuole elementari, insegnò per vari anni nelle pro-vince di Novara, Vercelli e Cuneo conseguendo nel frattempo la laurea in filosofia e pedagogia. Si iscrisse alla “Giac” (gioventù cattolica) e ben pre-sto venne nominato presidente diocesano di Torino. Carlo si dimostrò da su-bito oltre che credente entusiasta, uomo battagliero e abile organizzatore, dotato per giunta di un eloquio molto efficace. Dopo una parentesi in cui fu designato come direttore didattico a Bono in provincia di Sassari, fu espulso dalla Sardegna per essersi rifiutato di aderire alle attività della gioventù fa-scista.

Carlo rifiutò il giuramento alla Repubblica di Salò e, finita la guerra, Pio XII lo chiamò a Roma per dirigere la “Giac” nazionale. Le elezioni poli-tiche dell’aprile 1948 andarono bene per il Vaticano, per la netta vittoria del-la Democrazia Cristiana, anche se il “pericolo” comunista stava sempre in agguato. È in questo contesto che Carlo, cavalcando un’idea di Chiesa forte,

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battagliera e trionfalista, organizzò una dimostrazione di ben trecentomila giovani cattolici, i famosi “baschi verdi”, in piazza San Pietro, che suscitò grande scalpore. Carlo era ormai conosciuto e stimato da tutti. Se in quel momento avesse deciso di entrare in politica avrebbe probabilmente avuto tutte le possibilità di ricoprire anche le più alte cariche dello Stato, ciò che fecero in seguito Emilio Colombo, Oscar Luigi Scalfaro e tanti altri che a quel tempo erano suoi assistenti.

Carlo scelse invece di continuare ad animare con grande entusiasmo la gioventù cattolica e accettò di venire ordinato diacono. «Non volli assoluta-mente essere ordinato presbitero per conservare un minimo di libertà nei confronti della gerarchia ecclesiastica», confessò più tardi lui stesso. Nel 1949 pubblicò il libro Famiglia piccola Chiesa. Ispirandosi al “Cantico dei Cantici”, Carlo rifletteva senza tanti giri di parole sull’amore tra l’uomo e la donna vissuto alla luce del sacramento del matrimonio. Anche se l’ambiente cattolico più bigotto si mostrò scandalizzato, il libro fu per molti una auten-tica rivoluzione ed ebbe una grandissima diffusione anche per la sua natura di diario intimo che si appellava all’esigenza profonda di coniugare fede e vita.

Tener sempre la testa alta da uomini liberi Nel 1952 esplosero contrasti che covavano da tempo nella Chiesa. Car-

lo si trovò in disaccordo con una frazione importante del mondo cattolico che progettava un’alleanza con i partiti di destra per contrapporsi frontal-mente al comunismo. Era convinto che l’Azione Cattolica, in particolare, dovesse rimanere essenzialmente una scuola di formazione delle coscienze e non una forza aggregativa a favore di determinate forze politiche. Carlo, da uomo coerente e tutto d’un pezzo, non poté fare a meno di dimettersi da pre-sidente della “Giac” pronunciando le seguenti parole: «Credere in Dio vuol dire non aver paura di nessuno, significa tener sempre la testa alta, significa mantenersi sempre liberi».

Amareggiato, ma non scoraggiato, Carlo si ritirò nel silenzio e nella let-tura. Si imbatté provvidenzialmente nel libro Come loro di Renè Voillaume, fondatore nel 1933 di una Congregazione che si ispirava all’eremita “mis-sionario” Charles De Foucauld. Il libro del religioso lo scosse profondamen-te. Sentì dentro di sé una forza interiore nuova che gli fece esclamare: «parto per il deserto». Il Cardinal Montini, arcivescovo di Milano, a suo tempo suo

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collaboratore e amico, scrisse una lettera di presentazione indirizzata al pa-dre Voillaume: «è una persona di grande sincerità, di ardente vita spirituale, di molta generosità, un uomo veramente innamorato di Dio e della sua Chie-sa».

L’8 dicembre 1954, Carlo partì per il deserto e il giorno di Natale rice-vette nella cappella della fraternità di El-Abiodth, in Algeria, l’abito bianco che significava la sua entrata ufficiale in noviziato. Sentì da subito che stava iniziando per lui una vita nuova. Doveva spogliarsi di tutte le sovrastrutture, di tutta la vanità del passato. Era felice... Scopriva nel silenzio del deserto la povertà vera, quella materiale certo, ma anche la povertà spirituale di chi si mette nudo davanti al Signore: «Né radio, né giornali. Solo preghiera e lavo-ro. Zappo l’orto ma mi prodigo anche come cuoco e panettiere. Notizie non arrivano mai, ma in compenso ho attaccato il filo con la centrale del Paradi-so e mi sfogo a pregare». Il maestro dei Novizi fu categorico: doveva disfar-si perfino della sua agenda, quella dove erano annotati tutti gli indirizzi della Roma che contava. E Carlo lo fece subito.

Sulle orme di Charles De Foucauld Il padre De Foucauld (1858-1916), con la sua vita di monaco missiona-

rio nel Sahara Algerino, dopo una gioventù piuttosto turbolenta e lontana dalla fede, segnò una svolta nella vita religiosa della Chiesa. Il suo messag-gio si riassumeva nel «gridare il Vangelo con la vita e nell’essere piccoli fra-telli e piccole sorelle universali». Fu molto di più che un fondatore. Fu l’iniziatore di tutto un movimento missionario e spirituale. Sarà impossibile scrivere una storia della Chiesa contemporanea senza ricordare il padre De Foucauld e le sue fraternità per la profonda influenza spirituale che hanno avuto nelle comunità cristiane e sullo stesso Concilio Vaticano II.

Nutrito da questa spiritualità, Carlo sentiva ormai come lontani i raduni oceanici dei baschi verdi e i grandi convegni dove i giovani cattolici accor-revano in massa ad ascoltarlo. Circondato solo di sabbia e di vento, lontano dalle tentazioni del potere, Carlo riacquistava familiarità con l’«a tu per tu con il Cielo» ... «Mi pare essere giunto il momento di un incontro con Lui mai conosciuto fino ad ora... uno stare assieme come mai avevo provato... uno spandersi del Suo Amore come mai avevo sentito». Una familiarità nu-trita dalla Parola di Dio che lo farà esclamare: «Basta con un cattolicesimo senza Bibbia, basta con una predicazione senza midollo... Quando bruciò il

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tempio di Gerusalemme, gli Ebrei, che ben se ne intendevano di tesori, ab-bandonarono alle fiamme tutto ma salvarono la Bibbia».

Una Chiesa del dialogo Carlo, vivendo inoltre fianco a fianco con i nomadi musulmani del de-

serto, che pur disponendo soltanto dello stretto necessario apparivano così religiosi, sereni e ospitali, si sentiva sempre più solidale con le persone umi-li, sempre più in sintonia con credenti di diversa religione e di conseguenza sostenitore ancora più convinto della Chiesa del dialogo e non della conqui-sta. È questa la profonda esperienza interiore che Carlo cercò di trasmettere nel libro che lo consacrò come uno degli scrittori più prolifici. Lettere dal deserto diventò un caso letterario anche fuori dall’Italia.

Gli anni di Spello e le “colline della speranza” Dopo dieci anni di deserto, Carlo capiva bene che presto sarebbe dovu-

to ripartire perché i suoi superiori lo avrebbero inviato in qualche altra parte del mondo. E questo perché la vocazione dei Piccoli Fratelli li chiamava sì a essere dei contemplativi, ma “sulle strade del mondo”, nella vita quotidiana dei più umili e dei più emarginati, proprio come Gesù a Nazareth di Galilea. Piccoli, interiormente ed esteriormente, per essere più facilmente accolti come fratelli; in mezzo ai più piccoli, ai più umili, ai più segregati e disprez-zati, proprio per gridare attraverso questa scelta di condivisione che Dio è veramente il Padre di tutti, nessuno escluso.

Nel 1964 i suoi superiori lo incaricarono di dare inizio a una fraternità in Italia. Alcuni amici umbri gli parlarono di un piccolo convento francesca-no abbandonato nel paese di Spello. Carlo intuì immediatamente che questo convento, dedicato a san Girolamo, era il luogo ideale per una nuova frater-nità. C’era vicina Assisi a dieci chilometri, intrisa di spiritualità francescana e nello stesso tempo abbastanza lontana con quel suo ininterrotto turismo religioso che avrebbe potuto disturbare il silenzio di una nascente fraternità. E, soprattutto, il convento di Spello era circondato da famiglie di semplici e umili contadini: «Voglio restare su questa sponda del Subasio, voglio risali-re da questa parte, voglio la Chiesa dei poveri, voglio essere vicino alla gen-te semplice perché è in essa che trovo la vera fede in Dio».

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Tra gli oliveti che circondavano l’eremo di San Girolamo sorsero in poco tempo prima cinque, poi dieci, quindici, fino a venti eremi di preghie-ra, ricavati da antichi casolari o vecchie stalle che gli stessi contadini del luogo avevano donato in uso ai Piccoli Fratelli. Risvegliati dallo Spirito Conciliare e attratti dalla popolarità di Carlo, che con il suo libro Lettere dal deserto si era riproposto con forza all’attenzione di tutti, centinaia, migliaia di giovani e meno giovani iniziarono a riversarsi a Spello. Essi trovavano in Carlo e nei Piccoli Fratelli una comunità che non insegnava, ma condivide-va. Si condividevano, in un clima di semplicità, sobrietà e gioiosa fraternità, la preghiera dei Salmi, la Parola di Dio, lunghi momenti di silenzio contem-plativo in ginocchio davanti all’Eucarestia, ma anche ore di lavoro spesso faticoso, negli eremi o nei campi insieme ai contadini.

Carlo iniziò a chiamare le colline di Spello «le colline della Speranza». Vi si vivevano sempre più, infatti, le beatitudini di una Chiesa vuota di pote-re e ricca di quello Spirito che l’aveva fatta da padrone nel Concilio da poco terminato:

«Il Concilio ci ha apportato una nuova visione di Chiesa, una nuova visione del mondo. Più passa il tempo e più si allontana da noi la concezione della Chiesa della nostra giovinezza. Allora la Chiesa ci appariva come città sul monte; ora la vediamo come lievito nella pasta. Quando eravamo ragazzi la sognavamo forte e servita da tutti... Ora la desideriamo debole, a servizio degli uomini. A quei tempi la vedeva-mo assediata da innumerevoli nemici, ora ci appare come un albero di senape capa-ce di ospitare nidi fra i suoi rami di pace». Carlo era abitato da una profonda spiritualità che proprio perché auten-

tica si coniugava bene con una squisita umanità carica di entusiasmo e di ottimismo. Aveva il pregio di far sentire chiunque già dal primo istante per-fettamente a proprio agio. Come era buffo al mattino presto, quando nel pol-laio dava da mangiare alle galline canticchiando e dialogando a lungo con esse... O quando lavava i piatti con una velocità supersonica rischiando di ritrovarseli spesso rimandati indietro...

Taci, ama, godi... Carlo non aveva perso il piglio del leader, era anche dotato di una buo-

na dose di sana furbizia. Era infatti bravissimo a “ipnotizzare il pubblico”. Era un oratore nato, aveva una voce che accarezzava e scuoteva, e una pen-

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na che metteva i brividi. Mediante la sua parola, il suo gesto, il suo modo di vivere e comunicare, egli trasmetteva agli interlocutori la sua esperienza di comunione con Dio, rendendoli compartecipi di essa. Che dignità quando si inginocchiava facendo fatica per la gravità della gamba semiparalizzata... Stava seduto a terra con le gambe incrociate davanti all’eucarestia come sol-tanto chi ha passato molti anni in quella posizione è capace di fare. Che te-nerezza faceva vederlo addormentarsi durante la preghiera...

A chi gli chiedeva dei consigli per imparare a pregare era solito rispon-dere con parole semplici ma cariche di esperienza: «Sentiti come un bimbo nelle braccia del Padre, taci, ama, godi». «Nella preghiera è richiesta più passività che attività, più silenzio che parole, più adorazione che studio, più disponibilità che movimento, più fede che ragione». O ancora: «La speranza su cui poggia la mia preghiera sta nel fatto che è Lui che la vuole... E se va-do all’appuntamento è perché Lui c’è già ad attendermi».

A Spello Carlo scrisse i suoi libri più belli e più famosi: Ho cercato e ho trovato, Al di là delle cose, Il Dio che viene, Ciò che conta è amare, E Dio vide che era cosa buona, Un cammino senza fine, Io Francesco. Molto significativo fu il suo libro Il deserto nella città:

«Se l’uomo non può raggiungere il deserto, il deserto può raggiungere l’uomo... Fat-ti un piccolo angolo di preghiera nella tua casa, nel tuo giardino, nella tua soffitta... ma poi soprattutto, costruisci il silenzio dove c’è rumore, prova a cambiare il tuo sti-le di vita spesso così chiassoso e frenetico». Per Carlo la contemplazione, questa relazione intima e appassionata

con Dio, per essere autentica e non costituire una fuga o una illusione, anda-va vissuta sulle strade del mondo, nella propria vita quotidiana, nel proprio ambiente di lavoro, nel proprio condominio, nella propria vita familiare. In-sisteva quindi molto sul fatto che dopo avere vissuto qualche giorno nell’eremo

«ognuno di voi dovrebbe sentire la necessità di ritornare con gioia nel ‘proprio Na-zareth’ continuando a vivere di quella relazione d’amore con Dio e di condivisione con i fratelli, che l’esperienza vissuta su queste colline vi ha fatto scoprire con anco-ra più evidenza, come la vera perla preziosa su cui giocare la vostra vita».

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Seguire fino in fondo la propria coscienza Carlo era una persona libera, di una libertà che si era conquistata pezzo

per pezzo nei suoi lunghi momenti di preghiera, vissuti spesso, alla stregua di Giacobbe, come delle lotte con il suo Signore. E ancora nei numerosi con-trasti che si era trovato ad affrontare e che, a costo di pagare di persona, a-veva sempre cercato di risolvere seguendo fino in fondo la propria coscien-za. Non era caratterialmente un personaggio domabile. I suoi superiori lo conoscevano bene e pur stimandolo e amandolo profondamente, lo seguiva-no con una certa apprensione per la paura che il fatto di attirare tutte quelle folle di gente stravolgesse il carisma proprio dei Piccoli Fratelli, votato al nascondimento e alla semplicità della vita quotidiana. La gerarchia ecclesia-stica, salvo eccezioni, lo osservava a distanza, quasi lo temeva e forse lo in-vidiava. Carlo infatti era ormai molto conosciuto e appena scriveva due ri-ghe o rilasciava una dichiarazione, i giornali gli erano addosso. Ma lui, se c’era da battere i pugni sul tavolo, lo faceva, senza mediare troppo.

Ecco una delle sue dichiarazioni che gli procurarono dei richiami dalla parte della Congregazione della dottrina della fede presieduta allora dal Cardinal Ratzinger.

«Il celibato è una sofferenza per me. Non c’è giorno che la mia cella di monaco non conosca l’agonia di sacerdoti che vengono a piangere le contraddizioni di un celiba-to mal capito, mal sopportato, mal vissuto. Premetto che io stesso vivo con gioia il ‘celibato mistico’ che ho scelto liberamente come monaco-religioso e che per di più condivido con una gratificante comunità di confratelli. Ma la maggior parte dei sa-cerdoti, soli nelle loro fredde canoniche, così presi dall’attività frenetica che com-porta la gestione di una o più parrocchie, in contatto così facile con le donne, senza quasi avere il tempo per la preghiera personale, come possono reggere ad un celiba-to prettamente ‘ministeriale’ e ‘giuridico’? Ma come fa la Chiesa a non vedere que-ste cose? Come si possono lasciare in Brasile per esempio, delle comunità senza eu-carestia solo perché non vi è un celibe da consacrare prete? Esistono questioni teo-logiche che impediscono alla Chiesa di ordinare dei padri di famiglia?» Carlo, sapendo bene che il Dio che contemplava ogni giorno e ogni

notte per ore e ore, era il medesimo Dio che si era fatto carne, dalla solitudi-ne dell’eremo non smetteva di interessarsi delle “cose” del mondo. Il 12 maggio 1974, si svolse in Italia un referendum sull’abrogazione o meno di una legge approvata alcuni anni prima che consentiva il divorzio. La Chiesa istituzione era in trincea. Sui muri di alcune parrocchie era stato scritto «se voti no all’abrogazione sei in peccato mortale». Carlo dopo giorni di intensa

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preghiera decise di inviare un articolo sul giornale “La Stampa” proclaman-do che lui avrebbe votato “no” all’abrogazione della legge:

«Chi nega l’unità familiare? Chi pretende che il divorzio sia una cosa buona? La ve-ra questione va oltre. Ti senti tu, fratello, di votare una legge che impedisca il divor-zio a chi non ha la tua fede? Fallo se credi che possa servire, sei libero. Io, non lo faccio perché non credo che una legge possa cambiare le cose, quando la famiglia non esiste più... L’indissolubilità del matrimonio è solo possibile oggi come scelta di fede. E se la fede non c’è come posso imporla con forze religiose? La posso im-porre come legge civile ma allora... non devo sentirmi addosso delle minacce infer-nali... .In tutti i casi io voto no perché voglio essere dalla parte dei peccatori». Successe un pandemonio. Spello fu invaso di lettere che insultavano

senza mezzi termini Carlo anche se, al contempo, ne giunsero molte a soste-gno. Una delegazione di presbiteri portarono a Carlo una lettera di ritratta-zione della sua presa di posizione da parte della Conferenza Episcopale Ita-liana, che lo invitava, o meglio lo scongiurava, a porre la sua firma. Carlo, dopo aver letto la lettera in cappella e averci pregato per un’ora rispose: «Grazie, ma non posso firmare una ritrattazione del mio pensiero rispetto ad una scelta che ho preso in retta coscienza». Un anno dopo, il 3 aprile 1975, giovedì santo, Carlo, inginocchiato davanti al vescovo nella Cattedrale di Foligno, chiedeva umilmente perdono a tutta la comunità per lo scandalo causato per aver ricorso a un articolo sul giornale e, quindi, per il metodo improprio che aveva usato, senza però ritrattare la sua scelta che egli conti-nuava a ritenere coerente con la propria coscienza.

La lettera a Pietro Ci fu un altro fatto che spinse Carlo, nell’anno 1985, a intervenire pub-

blicamente. Con l’elezione di Giovanni Paolo II e la scelta del Cardinal Ca-millo Ruini come presidente della conferenza episcopale, l’ala “conciliare montiniana” venne messa in minoranza. Venne dettata di conseguenza all’Azione Cattolica una linea meno improntata sul dialogo col mondo e più preoccupata di guadagnarsi l’appoggio di coloro che stavano al potere. Car-lo, mosso da santo zelo, prese di nuovo carta e penna e scrisse una delle let-tere destinate a fare più rumore di tutte: La famosa Lettera a Pietro. Rivol-gendosi direttamente a Giovanni Paolo II, affermava:

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«Io quarant’anni fa, figlio del mio tempo e degli errori del pre-concilio, mi sentivo nella Chiesa come arroccato in una fortezza da difendere contro nemici che mi cir-condavano da ogni parte... io vedevo la Chiesa come separata dal mondo, come un esercito perennemente lanciato in crociata, come un partito che doveva diventare sempre più forte e schiacciare il nemico... Ma poi mi sono convertito al Concilio... e quindi ad una attitudine di dialogo fraterno nei confronti del mondo... Ed ora, pro-prio tu, successore di Pietro, ci dai l’impressione di avere paura di questa attitudine di dialogo e di voler rinnegare nuovamente il Cristo nel suo Concilio». Sulla linea di don Milani, don Mazzolari, padre Balducci e padre Tu-

roldo, Carlo nutrì sempre un affetto viscerale e filiale nei confronti della Chiesa. Ma era proprio questo amore immenso che lo spingeva, da vero fi-glio, a metterla in guardia e perfino a rimproverarla ogni qualvolta dall’osservatorio privilegiato dei suoi eremi di preghiera, invasi da tanti ri-cercatori della Verità, si accorgeva che stava deviando dal messaggio evan-gelico.

Carlo il 4 febbraio 1987, dal letto dell’ospedale, sofferente di leucemia, rilasciò una ultima commovente intervista densa di umanità alla sua amata Chiesa:

«Quanto sei contestabile Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua pre-senza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità! Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello. Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima e quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure. No, non posso liberarmi di te, perché sono te pur non essendo com-pletamente te. E poi dove andrei? A costruirne un’altra? Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò, sarà la mia Chiesa e non quella di Cristo». Fratel Carlo tese la mano a Dio nell’eremo di San Girolamo il 4 ottobre

1988, festa di San Francesco. Il funerale fu celebrato nel campo sportivo di Spello come una festa. La Chiesa, quel giorno, perse uno dei suoi figli più scomodi ma senza alcun dubbio più fedeli. Ma, spiritualmente, Carlo conti-nua a essere con noi, attraverso la prolifica eredità umana e spirituale che ci ha lasciato. La sua voce sembra di nuovo raggiungerci oggi, dolce e nel con-tempo chiara e sicura per suggerirci di quale conversione, noi Chiesa, ab-biamo veramente bisogno per continuare a «servire l’uomo con la simpatia di Dio». �

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Gli ultimi giorni del Margine

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La resurrezione nella morte

nella teologia

di Gisbert Greshake

MATTIA COSER a morte getta la propria ombra inquietante sulla vita umana fin dal suo inizio. Essa è la minaccia continuamente incombente sul capo

dell’uomo, minaccia che si preannuncia ogni volta che un ostacolo, di qual-siasi tipo esso sia, si frappone fra lui e la sua sete di vita, di esperienze, di realizzazione. Il teologo cattolico tedesco Gisbert Greshake, docente di teo-logia dogmatica ed ecumenica nelle università di Vienna prima e di Friburgo in Brisgovia poi, nonché professore invitato presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma dal 1999 al 2006, ammette che la morte fa parte della vita e a questo proposito scrive che «le malattie, le sofferenze e le disabilità, la mancanza di successo e la delusione, l’invecchiare e gli addii: tutte queste esperienze non sono soltanto foriere della morte, bensì realtà della morte nella vita»1.

La morte è ineluttabile e ineludibile e ciò getta nello sconforto gli uo-mini, al punto che nella civiltà contemporanea sono sempre più affermate e frequenti vere e proprie forme di rimozione della morte dall’esperienza quo-tidiana. Poiché essa è avvertita come motivo d’inquietudine, viene nascosta all’esperienza attraverso vari meccanismi tesi a favorire quella che il filoso-fo Martin Heidegger chiama la “deiezione”, ovvero la distrazione e disper-sione nella quotidianità, la propria identificazione con le attività con cui ci si tiene quotidianamente occupati, senza pensare al proprio limite più proprio, alla propria possibilità esistenziale più autentica, vale a dire la morte. Eppu-

1 G. Greshake, Warum lässt uns Gottes Liebe leiden?, Herder, Freiburg-Basel-Wien,

2007, tr. it. di A. Bologna, Perché l’amore di Dio ci lascia soffrire?, Queriniana, Bre-scia, 2008, p. 105.

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re, nonostante gli sforzi umani per rimuoverla, essa prima o poi irrompe nel-la vita di ognuno, generando panico e sofferenza. Il panico è legato stretta-mente al timore che essa renda assurda e insensata l’intera esistenza umana. Infatti, se tutto deve finire, se tutto è condannato all’oscurità della morte, che senso ha la vita, con il suo carico di pesi, di impegni e di sofferenze?

A questa domanda Greshake ritiene di poter rispondere attraverso il tratto a suo avviso caratteristico degli uomini di fede, ovvero la speranza nella vita oltre la morte. Il teologo ricorda le parole di Paolo, per il quale i cristiani si distinguono dai non cristiani «che non hanno nessuna speranza» (1Ts 4,13) in ragione della speranza nel fatto che «Dio riporterà alla vita, insieme con Gesù, quelli che sono morti credendo in lui» (1Ts 4,14). La conclusione che Greshake trae da queste citazioni paoline è che «la speranza è l’esistenziale decisivo dell’intera vita cristiana»2.

L’immagine cristiana in cui è rappresentata la speranza della vita oltre la morte è quella della resurrezione del corpo o, detto altrimenti, della carne. Si tratta di un’immagine che viene analizzata in modo approfondito da Gre-shake, che si è imposto largamente all’attenzione dei lettori soprattutto per la sua analisi della speranza escatologica cristiana e per la tesi ad essa colle-gata della resurrezione nella morte. Per questa ragione l’articolo che segue si preoccuperà di analizzare questa parte molto importante – e senza dubbio la più conosciuta – della costruzione teologica di Gisbert Greshake.

La resurrezione del corpo Secondo questa immagine della speranza l’uomo intero è toccato dalla

morte, non c’è un’anima immortale che sopravvive al decesso del corpo. Tuttavia, la morte non è considerata come realtà ultima. Il cristiano muore nella speranza escatologica della resurrezione dei morti alla fine dei tempi, resurrezione dell’uomo concreto, quindi del corpo, o della carne, vale a dire nella speranza che Dio, nel momento del giudizio finale, doni vita nuova ai suoi fedeli defunti. In questa speranza confluiscono, secondo Greshake, quattro elementi fondamentali della fede cristiana:

2 G. Greshake, … wie man in der Welt leben soll. Grundfragen christlicher Spiritualität,

Echter, Würzburg, 2009, p. 165. Il testo citato è disponibile solo in lingua tedesca, la traduzione all’italiano del passo citato è mia.

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«1. la fede che “la carne”, ossia tutta la creazione e tutto l’essere umano sono creati da Dio e trovano compimento a partire da lui; 2. la fede che tutto ciò che è creato è redento, e che questa redenzione si è realizzata proprio per il fatto che il redentore è venuto “nella carne”, l’ha assunta e inserita, anzi trasformata, nella vita di Dio; 3. la fede che redenzione e salvezza sono comunicate mediante la “carne”, ossia at-traverso la chiesa e i sacramenti, particolarmente attraverso l’eucaristia; 4. la fede che un agire giusto “nella carne”, ossia nel mondo materiale-concreto, è di altissima importanza perché proprio “la carne” viene raddrizzata da Dio e ha per sempre futuro»3. Greshake si interroga a proposito di tale immagine della speranza e si

propone di riscoprirne il significato autentico, mettendo fine a quell’interpretazione che egli ritiene erronea e oggi non più accettabile, stando alla quale «alla fine della storia i resti umani, ossa, tendini e muscoli verranno riportati da Dio a una nuova vita, che le tombe si apriranno, che i corpi saranno risvegliati»4.

Il desiderio di un ritorno al messaggio autentico dell’immagine della resurrezione spinge il teologo a porre un forte accento sul fatto che l’uomo non raggiunge il compimento e la pienezza per virtù propria, grazie all’anima immortale, bensì li raggiunge solo grazie a un intervento divino, che dona all’uomo la pienezza di vita. Inoltre, non raggiunge la vita eterna un’anima priva di corpo, ma è l’essere umano tutto intero, nella concretezza delle proprie esperienze e azioni, a sperare nel compimento definitivo in Di-o. Greshake afferma dunque che «la resurrezione del corpo non ha il signifi-cato di un miracoloso evento finale che interessa ossa, pelle e tendini della spoglia mortale, ma “resurrezione del corpo” vuole esprimere che l’essere umano non trova compimento come un io spirituale fuori della storia, ma che anzi ritorna a Dio con tutta la sua vita, con il suo mondo e la sua storia, cioè con tutti gli altri»5. La vita nuova in cui spera il cristiano non è quindi una vita solamente dell’anima, ma la vita di una persona concreta che si è formata e sviluppata nel proprio rapporto con il mondo.

Questo discorso mette in rilievo la dimensione sociale della resurrezio-ne. Infatti, se ogni uomo porta con sé di fronte a Dio quel pezzo di mondo

3 G. Greshake, Leben – stärker als der Tod. Von der christlichen Hoffnung, Herder, Frei-

burg-Basel-Wien, 2008, tr. it. di G. Francesconi, Vita – più forte della morte. Sulla speranza cristiana, Queriniana, Brescia, 2009, p. 92.

4 Ivi, pp. 93-94. 5 Ivi, p. 95.

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concreto in cui è vissuto e ha operato, ne consegue che la resurrezione non sarà solo del singolo ma che la storia intera, il mondo nel suo complesso raggiungerà il proprio compimento nella resurrezione. Nella storia del cri-stianesimo si è cercato di salvaguardare la dimensione comunitaria della re-surrezione ipotizzando un suo compimento alla fine dei tempi. Dunque, nel-la morte l’anima si separerebbe dal corpo e continuerebbe a sussistere presso Dio fino al momento del compimento finale, quando si ricongiungerà al proprio corpo. Si tratta di un’immagine del passato che, secondo Greshake, non è più sostenibile. Al posto di questa immagine, egli avanza la sua tesi più discussa e avversata, ovvero che «si può affermare la resurrezione nella morte e non soltanto nell’”ultimo giorno”»6.

La resurrezione nella morte Per Greshake affermare la resurrezione nella morte significa riconosce-

re che il compimento definitivo dell’uomo in Dio non avviene alla fine dei tempi, bensì immediatamente, nel momento stesso della morte. Ciò, a suo avviso, è perfettamente in sintonia con la prassi e il linguaggio ecclesiale contemporaneo. Infatti, poiché sostenere che la resurrezione avverrà solo alla fine dei tempi comporta la considerazione dell’esistenza dell’anima se-parata dal corpo nel tempo intermedio tra la morte e il giudizio finale, si do-vrebbe parlare di pace delle anime dei defunti. Ciò però non avviene. Gre-shake osserva che nella Chiesa oggi non ci si riferisce alle anime delle per-sone scomparse, non si prega per l’anima dei propri cari, bensì per le perso-ne che sono tornate a Dio nella loro interezza e concretezza. L’atteggiamento ecclesiale che permette a Greshake di formulare l’ipotesi della resurrezione nella morte è del resto riscontrabile anche in un documen-to ufficiale come il Catechismo olandese, in cui si afferma esplicitamente che nella morte avviene già la resurrezione.

Sorge spontanea la domanda se una simile ipotesi non finisca per indi-vidualizzare la resurrezione, perdendo in tal modo la dimensione comunita-ria del compimento. A questa domanda Greshake risponde mettendo in evi-denza come l’immagine della resurrezione del corpo non significhi trasfor-

6 G. Greshake, Auferstehung der Toten. Ein Beitrag zur gegenwärtigen theologischen

Diskussion über die Zukunft der Geschichte, Ludgerus-Verlag Hubert Wingen, Essen, 1969, p. 387. Anche questo testo è disponibile solo in lingua tedesca e la traduzione all’italiano di questo e degli altri passi citati è mia.

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mazione della carne del singolo defunto, bensì compimento della persona nella sua concretezza, ossia nel suo rapporto con il mondo. In questo modo, secondo l’opinione di Greshake, «un elemento della storia viene a compi-mento in lui, ed egli rimane con la sua azione presente nella storia»7. Resur-rezione del corpo non significa il ritorno alla vita delle molecole che com-pongono il corpo umano – idea, questa, giudicata dal teologo un fraintendi-mento dell’autentico significato della resurrezione – bensì il compimento in Dio della vita umana nella sua concretezza, con il suo bagaglio di esperienze e di azioni8. Con la propria resurrezione nella morte ogni singola persona porta con sé verso il proprio compimento in Dio quel frammento di mondo che le è stato affidato, in cui ha agito, di cui, detto con un termine heidegge-riano, si è presa cura. Nell’ottica greshakiana «la resurrezione non è dunque nulla di individuale, ma si pone in un processo universale in cui singolo e comunità, storia e compimento, sono e restano intrecciati l’uno all’altra, un processo nel quale l’intera realtà trova il suo adempimento nell’amore»9. In-fatti, «intendendo la resurrezione del corpo che avviene nella morte come la fedeltà vivificante di Dio verso l’esistenza concreta, diventata nella morte definitiva, allora in questa concretezza è permanentemente raccolto un “pez-zo” del mondo e della storia»10.

Il dibattito tra Greshake e Ratzinger Come conclusione di questo articolo può essere interessante considera-

re un fattore che più di altri ha generato curiosità e attenzione attorno all’opera di Greshake, vale a dire le obiezioni avanzate dal principale detrat-tore dell’ipotesi della resurrezione nella morte, Joseph Ratzinger. Si farà ri-ferimento anche alle risposte offerte da Greshake alle critiche dell’attuale pontefice nei confronti della propria concezione escatologica. Il dissenso di Ratzinger si esplicita essenzialmente attraverso tre obiezioni.

7 G. Greshake, Stärker als der Tod, p. 67. 8 Greshake scrive in merito: «La materia “in sé” (come atomo, molecola, organo…) non è

compiuta. Così come essa acquista senso e finalità quale momento estatico dell’atto della libertà umana, così essa si compie di volta in volta solo quale suo [della libertà umana] momento concretizzante», Auferstehung der Toten, pp. 386-387.

9 G. Greshake, Stärker als der Tod, p. 68. 10 G. Greshake, Auferstehung der Toten, p. 393.

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La prima di esse riguarda il fatto che la sentenza greshakiana sull’incapacità di un compimento della materia in sé introdurrebbe un duali-smo nella creazione, una separazione tra ciò che raggiunge il compimento in Dio e ciò a cui questo compimento è precluso. A ciò Greshake risponde che nella sua ipotesi materialità e corporeità non vengono abbandonate ed esclu-se dal compimento come avviene nelle soluzioni dualistiche. A suo avviso Ratzinger fraintende l’affermazione sull’impossibilità del compimento della materia in sé. Egli afferma di non sostenere che la materia non possa trovare affatto compimento, come lo interpreta Ratzinger, bensì che lo può trovare solamente attraverso il compimento dell’unico e intero essere umano con-creto. Dire che la materia in sé non si compie rimanda semplicemente all’idea del compimento con e attraverso altro, non nega a priori la possibi-lità del compimento.

La seconda obiezione avanzata da Ratzinger riguarda il presunto indi-vidualismo di questa ipotesi e il fatto che essa renderebbe superflua la con-siderazione sullo stato intermedio tra la morte dell’uomo e il giudizio finale. Tuttavia, come si è precedentemente visto nel corso di questo articolo, Gre-shake non intende affatto l’immagine della resurrezione, e quindi della re-surrezione nella morte, come un avvenimento individuale. Al contrario, la concepisce come un accadimento in cui è fondamentale l’elemento relazio-nale. Per quanto riguarda lo stato intermedio, Greshake non ne nega l’esistenza ma ne corregge la concezione. Egli ritiene che esso non debba essere pensato in chiave antropologica come sussistenza dell’anima separata dal proprio corpo fino al ricongiungimento con esso alla fine dei tempi, ben-sì in chiave cosmologica. Ciò significa che nella morte del singolo giunge a compimento solo un determinato “pezzo” del mondo e della storia, mentre alla fine dei tempi il compimento sarà raggiunto dal cosmo intero. Lo stato intermedio è dunque quello che intercorre tra la realizzazione dei singoli “pezzi” del mondo, la quale avviene con la resurrezione nella morte di ogni singolo, e la realizzazione definitiva del mondo intero, la quale avverrà alla fine dei tempi, quando «Dio regnerà effettivamente in tutti» (1Cor 15,28).

La terza obiezione consiste nel fatto che Ratzinger considera indispen-sabile la distinzione tra anima e corpo, distinzione che l’attuale pontefice non considera in senso dualistico ma secondo l’interpretazione che ne ha offerto la tradizione cristiana, in particolare quella tomista, per cui l’anima è la forma del corpo, il quale a sua volta è la visibilità dell’anima. Per Ratzin-ger non si deve rinunciare al concetto dell’anima indistruttibile che vive al cospetto di Cristo nell’attesa del compimento finale in favore di una imme-

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diata resurrezione dell’intera persona. A ciò Greshake risponde affermando che la persona è al contempo tutt’intera anima in quanto interlocutrice di Dio e tutt’intera corpo in quanto attua questa relazione per mezzo di media-zioni intramondane. L’uomo in quanto anima è indistruttibile e immortale come sostiene Ratzinger, però per Greshake questa immortalità è solo un aspetto dell’evento della resurrezione, in quanto è Dio che la sostiene nella morte. Egli afferma che il sostegno dell’uomo in quanto anima e la resurre-zione dell’uomo in quanto corpo, entrambe azioni di grazia di Dio verso l’essere umano, avvengono allo stesso tempo, sono inscindibilmente con-nessi. Inoltre, se Dio vuole l’anima come un Tu a cui rivolgersi ed essa è forma del corpo e non pensabile in maniera dualistica senza di esso, diventa difficile pensare all’esistenza dell’anima come già beata e compiuta in Dio e solo successivamente aggiunta al proprio corpo, riunificata con esso. Con ciò, ad avviso di Greshake, «nulla si oppone alla concezione di una resurre-zione nella morte»11. �

11 G. Greshake, Leben – stärker als der Tod, p. 108.

Appunti

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Federalismo per chi?

EMANUELE CURZEL lla Scuola di formazione della Rosa Bianca di Roncegno, il 29 agosto, alla presenza di amministratori provenienti da tutte le aree del Paese

(Francesca Bonacina, Luisa Filippi, Guglielmo Minervini, Massimo Toschi, Licia Viganò), si è parlato di “federalismo”. Tema attuale, rovente e con-traddittorio: il governo si regge su questa parola d’ordine. Federalismo come “mantra”, dunque, come bandiera: ma federalismo per cosa? Anche la criminalità organizzata persegue, in un certo senso, un modello federale. Il federalismo è solo uno strumento, e andrebbe bene ribadirlo.

A cosa serve il federalismo in salsa leghista? Il fondatissimo timore è che questo “federalismo”, lungi dal federare, sia solo la copertura e la con-ferma di una secessione che è già in atto. Lo smantellamento delle politiche nazionali, lo spostamento massiccio delle risorse a vantaggio di alcune are-e, lo strangolamento di altre attendono il “federalismo” per venire non tan-to attuati quanto confermati. La zona forte del Paese – o quella che si con-sidera tale – rivendica il diritto di fare la propria strada. Questo “federali-smo” favorirà l’approfondirsi delle disuguaglianze: non solo tra Nord e Sud ma anche all’interno delle singole regioni. È quindi al servizio di un proget-to cosciente di conferma e rafforzamento delle gerarchie socio-economiche.

La prova di questo atteggiamento (che abbandona esplicitamente i più deboli al proprio destino) si trova nel fatto che spesso si ragiona come se il federalismo fosse affare delle Regioni, dimenticando che esistono ottomila Comuni. Comuni che il legislatore nazionale sta progressivamente distrug-gendo: l’abolizione dell’ICI, il blocco delle tariffe, la confusione nelle nor-mative legano le mani agli amministratori e li deresponsabilizzano. Il tutto mentre una feroce campagna di stampa colpevolizza gli enti locali in quanto tali e li addita come i responsabili di ogni spreco.

Gridiamolo forte, allora: questo “federalismo” è pericoloso. Ci serve invece un federalismo capace di riconciliare. Un federalismo che parta «da quelli che sono fuori, non da quelli che sono dentro», come diceva Dossetti.

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