I videogiochi: modelli narrativi e rimediazioni tecnologiche

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LIBERA UNIVERSITÀ DI LINGUE E COMUNICAZIONE IULM MILANO Facoltà di Lingue, letterature e culture moderne DOTTORATO DI RICERCA IN LETTERATURE COMPARATE. LE LETTERATURE, LE CULTURE E L'EUROPA: STORIA, SCRITTURA E TRADUZIONE XXI CICLO I VIDEOGIOCHI: MODELLI NARRATIVI E RIMEDIAZIONI TECNOLOGICHE di Valentina Paggiarin Coordinatore del Dottorato: Prof. Giovanni Puglisi Anno Accademico 2008/2009

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LIBERA UNIVERSITÀ DI LINGUE E COMUNICAZIONE IULM MILANO

Facoltà di Lingue, letterature e culture moderne

DOTTORATO DI RICERCA IN

LETTERATURE COMPARATE. LE LETTERATURE, LE CULTURE E L'EUROPA: STORIA, SCRITTURA E TRADUZIONE

XXI CICLO

I VIDEOGIOCHI: MODELLI NARRATIVI E RIMEDIAZIONI TECNOLOGICHE

di

Valentina Paggiarin

Coordinatore del Dottorato: Prof. Giovanni Puglisi

Anno Accademico 2008/2009

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Indice

INDICE ....................................................................................................................................................................3 INTRODUZIONE ........................................................................................................................................................6 CAPITOLO 1 GAMES STUDIES E CRITICA LETTERARIA ......................................................................................................................11

EVOLUZIONE DEI GENERI VIDEOLUDICI...................................................................................................................................................17 NARRATOLOGI E LUDOLOGI.....................................................................................................................................................................39 CRITICA VIDEOLUDICA E FILM STUDIES..................................................................................................................................................53

CAPITOLO 2 NARRAZIONI MODERNE E CONTEMPORANEE ..............................................................................................................65

NARRAZIONI DIGITALI ED EVOLUZIONI NARRATIVE ..............................................................................................................................70 NUOVI STRUMENTI INTERPRETATIVI PER LE NARRAZIONI DIGITALI.....................................................................................................98 PRINCIPI DI ADATTAMENTO...................................................................................................................................................................117

CAPITOLO 3 I TESTI VIDEOLUDICI..............................................................................................................................................128

I TESTI VIDEOLUDICI COME TESTI LETTERARI?.....................................................................................................................................128 TESTI SIGNIFICATIVI E MACRO-CATEGORIE..........................................................................................................................................146

Stati Uniti e Giappone: differenze significative ..................................................................................................155 Single e multi-player, on-line e off-line ..................................................................................................................165 Il fil rouge del fantastico.................................................................................................................................................169

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CAPITOLO 4 OPERE NARRATIVE A CONFRONTO ..........................................................................................................................186

SHADOW OF THE COLOSSUS: UNA FIABA SILENZIOSA SENZA EROE .................................................................................................186 SILENT HILL 2: L’ORRORE PSICOLOGICO E L’ESPLORAZIONE DEL CUORE UMANO.........................................................................227 BIOSHOCK: UN UNIVERSO DISTOPICO TRA (FANTA)SCIENZA ED ETICA ...........................................................................................270

POSTFAZIONE ......................................................................................................................................................309 GLOSSARIO .........................................................................................................................................................315 BIBLIOGRAFIA......................................................................................................................................................321

VIDEOGIOCHI...........................................................................................................................................................................................321

OPERE LETTERARIE..................................................................................................................................................................................322

CRITICA LETTERARIA, NARRATOLOGIA E NARRAZIONE......................................................................................................................324

CRITICA VIDEOLUDICA E MEDIA ............................................................................................................................................................330

RISORSE ON-LINE ....................................................................................................................................................................................335

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Introduzione

Le tracce delle storie raccontate dall’uomo partono da epoche ancestrali, quando il

linguaggio era ancora informe e “semplice”, passano per periodi ricchi di

sperimentazioni, affrontano fasi di consolidamento, si ri-avvicinano a fasi di

evoluzione. Dai dipinti rupestri alle vetrate delle cattedrali, dalla tradizione orale ai

nuovi media, come esseri umani siamo sempre tentati e spinti a narrare, a lasciare una

traccia sia delle nostre esperienze che delle nostre emozioni.

Scegliere un ambito di analisi come quello della narrazione videoludica e cercare di fare

un punto della situazione è stata (è ancora) una sfida, una sorta di quest. Se, infatti, altre

modalità di narrazione, come quella letteraria ad esempio, hanno avuto il tempo e la

possibilità di nascere, evolversi, codificarsi, essere stravolte e trovare, nuovamente, una

forma, la fase che la narrazione sta affrontando nei videogiochi è particolare, tutt’altro

che ben definita, come fosse ancora “di intenzioni” incerte. Il problema fondamentale è

quello di capire come narriamo nei nuovi media e, di conseguenza, cercare di riflettere

sul perché la narrazione segua determinati percorsi e si “adatti” secondo determinate

strategie.

Nell’ambito dei cosiddetti Game Studies, disciplina “iniziata” da studiosi danesi come

Espen Aarseth e Gonzalo Frasca negli anni ’90 e dedicata a un’analisi a trecentosessanta

gradi dei videogiochi, alla narrazione è sempre stato riservato un ruolo alquanto

controverso. Inizialmente, infatti, l’approccio più comune è stato quello di considerare

la narrazione nei videogame come un elemento “accessorio” e, talvolta, addirittura

superficiale. Persino la successiva suddivisione degli studiosi tra “narratologi” e

“ludologi” ha fatto percepire la diatriba sulla storia all’interno del videogioco come una

questione “esclusiva”: da una parte, c’era chi sosteneva la sua centralità (i narratologi),

dall’altra c’era invece chi sosteneva la sola e unica centralità dell’interazione tra utente e

mondo di gioco (i ludologi), squalificando o rendendo fortemente marginale il ruolo

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del racconto. È mia opinione che gameplay*, narrazione e grafica siano componenti

inscindibili che necessitano di essere considerati un sistema complesso di interazione.

Ha piuttosto senso, a seconda delle proprie competenze e dei propri ambiti di

interesse, osservare come le strategie e i funzionamenti di particolari dinamiche siano

mutati e si siano adattati ai nuovi contesti. Questo è l’obiettivo che questo lavoro si

prefigge: cercare di capire in che modo il videogioco continui a raccontare storie (e, per

essere precisi, le stesse storie di sempre) con un linguaggio narrativo nuovo che,

tuttavia, ha la stessa efficacia sul giocatore che il linguaggio letterario ha sul lettore di

romanzi o di racconti (o di fiabe, ad esempio). Le strategie del racconto, i principi su cui

si fonda la storia, le modalità narrative vengono in parte “ereditate” dalla letteratura, in

parte “adattate” e modificate in modo tale da diventare complementari con il nuovo

linguaggio dei videogame: non tutta la narrazione, allora, sarà più verbale, non tutti gli

elementi del racconto, di conseguenza, rivestiranno le stesse funzioni che in passato.

Dopo un necessario excursus sulla situazione della critica videoludica, dell’evoluzione

dei Game Studies a partire dagli approcci basati sul genere, passando per la già citata

diatriba tra narratologi e ludologi, fino ad arrivare ad accennare a contaminazioni da

altre metolodogie critiche, come quella dei Film Studies, questo lavoro affronterà le

modalità più generali in cui la narrazione sta “migrando” da veicoli e media tradizionali

a strumenti e supporti digitali. È importante osservare in che modo il cambiamento del

mezzo utilizzato per veicolare le storie induca a un cambiamento forzato anche negli

elementi centrali delle narrazioni stesse, e nelle funzioni che i diversi elementi del

racconto ricoprono (lo spazio, il tempo, i personaggi). Studi come quelli di Gunther

Kress o Marie-Laure Ryan sulle narrazioni digitali, o Linda Hutcheon sul fenomeno di

adattamento delle narrazioni attraverso i media, sono analisi fondamentali di un

processo in fieri che non può essere ancora completamente compreso ma per cui

possiamo iniziare a gettare le basi di un’analisi sempre più approfondita. Una delle

difficoltà maggiori dello studio della migrazione della narrazione attraverso i media è

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proprio la natura in progress di questo processo: più che in una fase di consolidamento

e di affermazione, ci troviamo ancora in un periodo di sperimentazione per cui, anche

gli approcci critici non possono essere considerati definitivi né tantomeno finali.

Un problema ulteriore (ma forse, nell’ottica di una quest, faremmo meglio a parlare di

“sfida”) è quello di individuare una “famiglia” di opere significative del nostro periodo e

di raggrupparle in modo tale che il metodo di analisi utilizzato sia pertinente e

affidabile. Non tutti i videogiochi, infatti, possono essere analizzati con lo stesso

metodo o paradigma: alcuni giochi sono evidentemente più narrativi, ossia

accompagnano il giocatore attraverso una serie di scenari e di contesti che sono uniti

da un racconto, con un inizio, uno svolgimento e un finale. Altri videogiochi sono più

performativi, ossia attraggono e trattengono il giocatore attraverso la possibilità di

agire: spesso il fascino di questi giochi sta nell’accrescere le proprie abilità,

nell’incrementare i propri riflessi, nella pura e semplice risposta interattiva e sensoriale.

Altri giochi ancora sono delle simulazioni (di vita reale, di contesti fantastici, di corse

automobilistiche e così via) e permettono al giocatore di simulare, appunto,

un’interazione sia con l’ambiente che, eventualmente, con altri utenti reali. Sebbene

quest’ultima tendenza, ossia quella delle narrazioni emergenti, che “emergono” cioè

spontaneamente dall’interazione di un gruppo di utenti in un contesto virtuale

condiviso, sia attualmente molto in voga, ho preferito concentrare la mia attenzione sul

primo tipo di narrazione videoludica, ossia quella che prevede una storia che

accompagna il giocatore attraverso un percorso di scoperta, sorpresa e, in alcuni casi,

consapevolezza. Questa decisione di partenza ha fortemente influenzato la scelta dei

tre videogiochi esemplificativi per l’analisi: sebbene non sia possibile stabilire se questi

titoli diventeranno pietre miliari e punti di riferimento per gli studi a venire, è

sicuramente possibile riconoscere la loro particolarità e, soprattutto, la qualità che sta

alle spalle del lavoro di realizzazione, ma, in misura ancora maggiore, la loro efficacia

narrativa e la loro capacità di riproporre contenuti magari “prevedibili” per la

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narrazione tradizionale ma sicuramente originali e di forte impatto per il mondo dei

videogiochi. Lo studio delle tematiche e della scelta dei temi, l’appartenenza a

determinati sotto-generi del fantastico, l’adattamento armonico delle strategie di

narrazione tradizionale e dell’interattività, rapporto questo fondamentale per

interpretare la migrazione della narrazione da un medium a un altro, sono stati

elementi fondamentali nella scelta dei tre titoli, ossia Shadow of the Colossus, Silent Hill 2 e

Bioshock. Questi tre esempi di narrazione multimediale e videoludica hanno, per via dei

generi a cui appartengono e delle fonti di ispirazione di riferimento, un legame molto

stretto con la tradizione letteraria, e a livello di temi e archetipi, e a livello di strategie

narrative. Shadow of the Colossus, infatti, recupera e stravolge la struttura della fiaba

tradizionale, in cui l’eroe deve salvare la principessa da un destino infausto. Silent Hill 2,

invece, aderisce in pieno agli stilemi della storia dell’orrore, mettendo tuttavia il

giocatore in una posizione “privilegiata” di fruizione e di immedesimazione con il

personaggio principale. Bioshock, infine, è fortemente legato alla fantascienza e alle

narrazioni distopiche tipiche della prima metà de ‘900 e trascina il giocatore in

un’esperienza che dà corpo alle fantasie distopiche della tradizione letteraria.

In apparenza, le storie raccontate da questi tre videogiochi non sono del tutto originali:

Shadow of the Colossus recupera gli stilemi e i temi della fiaba tradizionale, Silent Hill 2

mostra un mondo dell’orrore che maestri come Poe hanno già ben descritto e

rappresentato, Bioshock esplicita ulteriormente i terrori e i timori del controllo e della

sottomissione che, nel corso dell’ultimo secolo, hanno tormentato l’umanità (e quindi

gli scrittori). Il confronto tra gli strumenti e le strategie utilizzate dalla narrazione

tradizionale e quelle tipiche invece dei nuovi media non è fine a se stessa, non serve

cioè solo per individuare il cambio di metodologia. Uno studio di questo tipo, ossia

un’osservazione metodica delle modalità secondo cui le stesse storie (o gli stessi miti, in

generale) vengono riproposti attraverso i media serve principalmente per imparare a

narrare in maniera efficace nei nuovi mezzi di comunicazione. Se è una verità, infatti,

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che le storie che raccontiamo sono sempre le stesse, che i miti che impressionano e

segnano l’animo umano sono ricorrenti e sopravvivono al tempo, è anche vero che le

strategie per trasmettere questi miti, le modalità, cioè, per raccontare queste storie

cambiano e si adattano a seconda del mezzo di comunicazione. Nel caso dei

videogiochi, medium giovane e ancora alla ricerca dei suoi cardini, è fondamentale

osservare casi, come quelli che abbiamo scelto per l’analisi, che siano riusciti con

successo ed efficacia a trasmettere al nuovo pubblico le stesse emozioni e gli stessi

messaggi che le narrazioni tradizionali trasmettevano (e trasmettono tuttora) ai lettori

di libri e racconti. Cogliere gli elementi di emergenza e di originalità negli adattamenti

ci permette quindi non solo di capire, a ritroso, quali sono stati i processi di “scrittura

videoludica” vincenti, nei casi citati, ma ci consente anche di codificare, ricordare e

applicare nuovamente, nelle narrazioni videoludiche del futuro, gli stessi paradigmi in

modo tale da riprodurre l’efficacia dei testi letterari anche nel medium del videogioco.

Se la narrazione è veramente così importante come sembra e se l’uomo non riesce a

fare a meno di narrare, allora varrà la pena capire come farlo nel modo più

coinvolgente, efficace e incisivo possibile, in modo tale da assicurare la sopravvivenza,

attraverso il tempo, di questi “miti” o, più in generale, queste “forme” immortali di

narrazione. Comparare le narrazioni e la loro presenza e forma in due media diversi1 ci

permette di capire fino a che punto la narrazione tradizionale viene preservata e,

invece, secondo quali modalità viene riconfigurata per adattarsi alle necessità

dell’interattività, del gameplay* e della libertà d’azione concessa al giocatore. Osservare

questo fenomeno in tre casi efficaci e di riconosciuto merito ci insegna come

continuare su questa strada in futuro e come realizzare nuove narrazioni che siano, allo

stesso tempo, ricettacolo degli insegnamenti del passato e in grado di parlare a un

pubblico nuovo, che utilizza linguaggi, strumenti e paradigmi che integrano la lettura,

la visione, l’interazione e la libertà d’azione.

1 Ossia comparare narrazioni fantastiche come la fiaba, il racconto dell’orrore e la fantascienza.

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Capitolo 1

Games Studies e critica letteraria A partire dalla “preistoria” del medium e dai primi esperimenti video-ludici (ossia di

apparecchiature video e di calcolatori elettronici utilizzati per realizzare rudimentali

“giochi a schermo”), sono fiorite numerose cronistorie sulla nascita e sull’evoluzione dei

videogiochi. Gli studi che cercano di analizzare in modo più o meno esaustivo la storia

di questo medium partono sempre citando l’esperimento degli anni ’60, a opera di

Willy Higinbotham, su oscilloscopio, trasformato da macchinario in grado di convertire

le vibrazioni in movimenti ondulatori sullo schermo, in rudimentale flipper. L’aspetto

ovviamente più interessante di questo esperimento era la possibilità di interagire, in

tempo reale, con la macchina e la trasformazione culturale e cognitiva di uno

strumento prettamente scientifico e tecnico verso un pubblico “non addetto ai lavori”,

attraverso l’utilizzo di un’interfaccia intelligibile e semplificata.

Accanto allo sfruttamento ludico di materiale scientifico, vengono poi inevitabilmente

citati i giochi da tavolo e dell’infanzia come guardie e ladri o nascondino, ma anche

Monopoli, Risiko e, senza ombra di dubbio, Dungeons and Dragons2. L’influsso di questi

“progenitori” ludici è stato forte sulle evoluzioni sia passate che attuali dei computer

games:

“Aspects such as a complex object system, or the creation of a fantasy world governed by its own social and economic rules, have now become a standard ingredient in many console* and computer games, and can be directly traced back to the rules described in the manual of Dungeons and Dragons and its followers.”3

2 Da Wikipedia.org: “Dungeons & Dragons (abbreviato come D&D o DnD) è un gioco di ruolo (GdR) di genere fantasy pubblicato per la

prima volta da Gary Gygax e Dave Arneson nel gennaio 1974. Inizialmente pubblicato dalla compagnia di Gygax, la Tactical Studies Rules (TSR), ha dato lo spunto alla nascita di tutta l'editoria legata ai giochi di ruolo. D&D è di gran lunga il più diffuso e conosciuto gioco di ruolo con (si stima) 20 milioni di giocatori, traduzioni in molte lingue ed oltre 1 miliardo di dollari di vendite di libri ed accessori fino al 2004.”. http://it.wikipedia.org/wiki/Dungeons_%26_Dragons (ultimoa visita: 12/12/2008)

3 Malliet, Steve and de Meyer, Gust “The History of the Video Game” in Raessens, Joost and Goldstein, Jeffrey (eds) (2005), Handbook of Computer Game Studies, The MIT press, Massachusetts, London, England, p. 24

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Le basi di regole, ambientazioni, dinamiche di intrattenimento, dinamiche ludiche

trovano i loro antenati in queste forme “analogiche” di gioco: inizialmente, infatti, il

videogioco è stato un modo per trasporre su uno schermo meccaniche pre-esistenti

riguardanti attività non virtuali, bensì reali.

Dopo il rudimentale esperimento di Higinbotham, ci sono stati gli esperimenti di Steve

Russell, Ralph Baer e Nolan Bushnell. Steve Russell ha realizzato Spacewar, considerato

“the first computergame, simply because it was the first ‘game’ that was programmed on

a ‘computer’.”4Spacewar è un gioco del 1962, rudimentale, privo di intelligenza artificiale,

in cui due giocatori umani controllano un’astronave ciascuno, la quale si può muovere

sullo schermo accelerando e decelerando e ruotando su se stessa. L’obiettivo del gioco

è quello di distruggere la nave avversaria. Ralph Bear ha sviluppato invece il progetto

per un ping pong virtuale. Prendendo le mosse dalla struttura del gioco per

oscilloscopio di Higinbotham, Baer ha realizzato Tennis for Two nel 1966 . Il contributo di

questo ingegnere e del suo videogioco non è legato alla tecnologia, quanto alla

diffusione e alla commercializzazione del prodotto videoludico: il videogioco, grazie a

Baer, ha assunto per la prima volta una dimensione domestica, uscendo dalle aule

universitarie o dei centri di ricerca dove era nato, per introdursi nella vita di quelli che

diventeranno i videogiocatori. Nolan Bushnell, infine, appassionato scacchista e

appassionato di cultura giapponese, ha realizzato Computer Space, una sorta di coin-op

ante litteram: basato su Spacewar di Russel, Computer Space ha aperto l’era dei

videogiochi come oggetti di consumo, non più quali realizzazioni pratiche e divertenti

di speculazioni teoriche quanto prodotti destinati alla distribuzione e alla vendita. Allo

stesso modo, il successivo Pong, sempre di Bushnell, costituisce un esempio lampante

della decisione di adottare strategie di mercato per divulgare e vendere i videogame.

L’idea alla base di Pong ricalca la dinamica di gioco del ping pong ideato da Baer ma è

stata strutturata da Bushnell in modo semplice, intelligibile, divertente.

4 Ibid. p. 24

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Dagli esperimenti di Bushnell in poi, nel corso degli anni ’70, si sviluppa l’industria

videoludica vera e propria. Le strategie di mercato sono state (e sono tuttora) le più

diverse, talvolta confuse: una costante di tutte le “generazioni” di macchine per

videogiocare è stata la cosiddetta console* war, ossia lo scontro tra le alternative

hardware e software delle varie case di produzione che realizzano standard diversi con

l’obiettivo di ottenere la supremazia commerciale sul mercato internazionale. La

competizione a livello tecnologico tra le varie case (per citare alcune delle storiche,

parliamo di Atari, Nintendo, Namco, Taito) ha portato a evoluzioni tecniche tali da

permettere non solo varianti del modello di gameplay* iniziale (molti dei primi giochi

in commercio erano varianti derivate dalle meccaniche di Pong) ma anche generi

videoludici nuovi, che sarebbero poi diventati “rami” fondamentali dell’albero dei

generi formulaici dei videogiochi contemporanei5. Sono nati quindi i maze games*, le

simulazioni sportive, i platform* e climbing games, poi più lentamente gli adventure*

(prima solo testuali, poi anche grafici), nonché gli shoot ‘em up*, i beat ‘em up* e molti

altri.

Non ci interessa, in questa sede, continuare con la cronologia di una storia dei

videogiochi: esistono volumi e siti web interamente dedicati alla descrizione

dell’evoluzione dei supporti hardware, delle scelte (più o meno fallimentari) del

software, della competizione tra le varie case di produzione (giapponesi e orientali, ma

anche americane e occidentali). Il testo di Jaime D’Alessandro, Play 2.0 – Storie e

personaggi nell’era dei videogame online, è un interessante esperimento italiano di

descrizione dell’evoluzione degli universi videoludici da una prospettiva di narrazione

personale. D’Alessandro, esperto giocatore ma anche e soprattutto giornalista, ha

raccolto in questo libro la propria esperienza personale, sottolineando le fasi salienti e i

passaggi significativi che hanno caratterizzato la storia del medium videoludico nelle

diverse evoluzioni fino ad arrivare alla diffusione di massa dei videogiochi online* e

5 cfr. ibid. p. 27

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“sociali”, che hanno cambiato radicalmente l’universo videoludico. Il passaggio dalla

sperimentazione iniziale (anche D’Alessandro non può evitare di partire da Tennis for

Two e Pong) alla nascita e rapida crescita delle software house giapponesi “madri” dei

videogame, fino ad arrivare al software (sia per console* che per computer) degli ultimi

20 anni, l’attenzione viene inevitabilmente trascinata dalle modalità di gioco in single

player* a quelle in multiplayer* prima e online* poi. L’importanza e a volontà di

concentrarsi sulle dinamiche di gioco online* serve come punto di partenza per

comprendere in che modo i Game Studies abbiano affrontato diverse fasi, più o meno

“integraliste” ed esclusiviste, tutte volte a individuare una metodologia che recuperasse

la teoria dei giochi (e quindi idee riprese da Callois, Huzinga, ecc) e che la

sovrapponesse in modo efficiente alle nuove strategie di comunicazione messe a

disposizione dai nuovi media.

Dalla mera ricostruzione di storie videoludiche (come quella di Malliet e de Meyer, ad

esempio, ma anche come l’esperimento critico-narrativo di D’Alessandro) al tentativo di

applicazione di metodologie pre-esistenti quali la narratologia e la psicologia cognitiva

al novello medium videoludico, dal parallelismo tra cultura e critica filmica alle

sperimentazioni di narrazione ipertestuale e ai nuovi approcci dei mondi virtuali*, i

Game Studies hanno affrontato fasi alterne, forte contrapposizioni e grosse pressioni

critiche: considerata infatti la natura dei videogame, ossia un prodotto di

intrattenimento6, concepito a tavolino per essere creato, distribuito e fruito da target di

pubblico specifico, i Game Studies sono sempre stati accusati di essere eccessivamente

“teorici” e, in alcuni casi, addirittura obsoleti rispetto all’artefatto che si propongono di

analizzare.

6 Non trascurabile è la differenza che intercorre tra l’industria videoludica, assimilabile a quella cinematografica o a quella editoriale, che

ha come scopo principale quella di realizzare prodotti per la vendita, e quindi che abbiano un target specifico, che siano studiati ad hoc per essere immessi sul mercato, e i prodotti videoludici che diventano oggetti prima di distribuzione e consumo, poi artefatti culturali, più o meno complessi, che attirano l’attenzione di critici e studiosi, oltre che degli appassionati e dei fruitori “designati”. Sono pertanto da mantenere distinti i concetti di produzione prima e di fruizione poi, da quello di opera (più o meno artistica) che diventa oggetto di studio e analisi. Il processo di produzione infatti è caratterizzato da particolari passaggi, esigenze, e tipologie, mentre il processo di fruizione in un primo momento e di critica (per non parlare poi di fortuna e successo poi) devono essere analizzati diversamente, con un’ottica più critica e non legata unicamente alle ricerche di mercato e agli studi di settore, bensì con uno sguardo più comprensivo anche verso il contesto culturale e le ragioni che hanno portato alla realizzazione e all’apprezzamento di un videogioco che, sicuramente, come ogni opera d’ingegno, racchiude parte della cultura e della sensibilità di chi lo ha prodotto.

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Il problema fondamentale è stato (ed è tuttora) legato alla forte contrapposizione che

esiste tra le diverse metodologie critiche che si cerca di applicare ai videogiochi:

difficilmente le diverse scuole scendono a “compromessi” e difficilmente le figure che si

formano e che intraprendono la strada della critica videoludica abbracciano più

prospettive per assumere un atteggiamento realmente multi-disciplinare, come invece

ritengo sia fondamentale fare.

Come affrontare, allora, una questione che, dalla metà degli anni ’90, è uscita dalle aule

di quelle università precorritrici, che si erano votate per tempo allo studio e

all’approfondimento delle strategie narrative, interattive e psicologiche, ma anche ai

processi di creazione, produzione, distribuzione e consumo dei videogame e che,

tuttavia, non hanno trovato una soluzione unificatrice e omogenea o un metodo

efficace per far coesistere e cooperare i diversi approcci critici?

Come già anni fa, nell’affrontare la diatriba tra ludologi e narratologi, appariva chiaro

che nessuna delle due scuole di pensiero avrebbe trionfato sull’altra, ma che entrambe

proponevano un approfondimento nell’analisi di alcuni degli aspetti emergenti del

videogame, anche oggi ritengo sia indispensabile cercare un filo conduttore in tutte le

diverse scuole critiche che si sono avvicinate all’analisi del videogame con il loro

bagaglio di competenze e strumenti specifici, per individuare quali, tra queste

competenze e questi strumenti, sono effettivamente funzionali e adatti al tipo di analisi

che ci apprestiamo ad eseguire.

Se lo scopo di questo lavoro è infatti quello di comprendere secondo quali modalità (e,

lateralmente, anche per quali motivi) le strategie narrative dei videogiochi ricalcano,

recuperano, riadattano e innovano le tecniche di narrazione letteraria tradizionale e

come mai il modo fantastico si adatti e venga così spesso recuperato e riutilizzato,

dovremo avere ben presenti, come basi teoriche e come strumenti di lavoro, da una

parte gli studi e le ricerche che si sono occupati di genere letterari e di modi narrativi e i

casi specifici di applicazione delle discipline tradizionali (come la narratologia, appunto)

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al nuovo medium e dall’altra parte l’utilizzo di discipline “nuove” coniate ad hoc per lo

studio dei videogiochi (e comprendere se questo è stato effettivamente fatto o se si

tratta, ancora una volta, della rielaborazione di strumenti critici pre-esistenti e di un

adattamento). Similmente, non potranno essere ignorati i contributi offerti dalla critica

cinematografica e dai Film Studies7 all’analisi delle interfacce visive che hanno portato

allo sviluppo della critica legata all’esplorazione e alla fruizione dei mondi videoludici,

nonché ad approfondimenti sulle strategie di gameplay* in rapporto ai supporti di

produzione, al target, alle possibilità di investimento e distribuzione.

Per questo, nella mia analisi, presenterò una panoramica di alcuni tentativi critici a mio

parere emblematici, mantenendo tuttavia l’attenzione centrata sull’obiettivo della mia

analisi, e cioè sul tentativo di comprendere secondo quali modalità e per quali ragioni

il videogioco recuperi, in modo funzionale e ogni volta diverso, elementi appartenenti

alle tradizioni narrative, estetiche, etiche del passato per re-inventarle, riadattarle e

riproporle a un pubblico sicuramente ricettivo nei confronti di esperienze di

esplorazione, crescita, gioco e apprendimento che sono lentamente diventate il nuovo

veicolo di trasmissione di idee, modelli di pensiero e, perché no, correnti artistiche e

letterarie.

L’importanza dello studio dei videogiochi, ormai indiscussa e apertamente riconosciuta

(nonostante alcune incomprensibili e a volte inutili resistenze) deve spingere

all’identificazione di un metodo che permetta di utilizzare il patrimonio critico già

sviluppato per altre arti, quali la narrazione, la pittura, la performance e così via, per

comprendere le direzioni di un medium che sta ancora sperimentando e che sta ancora

costruendo nuove strade, nuove correnti e nuove tendenze da seguire.

7 Basti pensare all’importanza dell’interfaccia uomo-macchina, ossia all’apparato grafico-interattivo che permette agli utenti di interagire

in modo semplice e trasparente con i computer e con i dispositivi digitali in generale.

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Evoluzione dei generi videoludici Uno degli approcci inizialmente più diffusi della critica videoludica è stato quello

diacronico teso alla ricostruzione storica dell’evoluzione del medium-videogioco nel

corso di questi (circa) settant’anni di vita. Il successo principale di questa prima

tipologia critica deriva da un istinto emulativo e “cronistorico”, nato sulla falsa riga

degli studi dei media e delle forme espressive precedenti (dalla letteratura, al cinema,

alla storia dell’arte) per individuare e fissare un’istanza d’ordine all’interno del vasto,

seppur giovane, oceano di possibilità.

Ricostruire la cronologia e l’evoluzione del videogioco ha lo scopo principale di

individuare una continuità, per capire la situazione attuale riflettendo sul percorso

compiuto sia dall’hardware - e quindi dalle possibilità di utilizzo e distribuzione - sia

dal software - e, quindi, dalle strategie narrative, estetiche, di presentazione, di gioco e

interazione. Questo approccio, che approfondiremo in seguito, ha le sue radici in un

altro metodo di analisi, sicuramente più consolidato, ossia quello dello studio dei

generi letterari: partendo da Aristotele, passando per Vico, Hegel, arrivando a Schaeffer

e Genette, i tentativi di formalizzazione prima e di apertura e inclusione poi sono un

canovaccio significativo seguito anche dai primi Game Studies. Per questo, prima di

passare a illustrare alcuni casi significativi o, in generale, una tassonomia generale

ideata ad hoc per i videogiochi, penso sia utile effettuare una panoramica su alcuni

passaggi fondamentali della critica dei generi (letterari) che hanno sicuramente

influenzato il metodo e l’approccio all’analisi dei videogiochi.

Parlare di Aristotele e della Poetica8 può apparire anacronistico nel contesto di un

discorso sui videogiochi, ma risulta inevitabile se l’analisi si deve concentrare sugli

elementi narrativi, sulla costruzione di storia, ambiente e personaggi e sulla

differenziazione tra generi e modi narrativi. All’interno della qui semplicisticamente

riportata divisione aristotelica dei testi narrativi in tragedia, commedia ed epopea (o

8 Aristotele (2000), Poetica, Bompiani, Milano

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epica), intendo concentrare l’attenzione sulla tragedia, sebbene in realtà Aristotele non

miri alla classificazione globale dei generi esistenti (come accadrà poi, nel corso dei

secoli della critica letteraria), bensì tenda a individuare diversi parametri da sfruttare in

modo funzionale a seconda dell’opera in cui ci si imbatte e secondo cui analizzare e

“gerarchizzare” i generi letterari. Nello specifico, si rifà alla forma metrica, alle qualità dei

personaggi, alla durata e alla tipologia di avvenimenti, all’unità o alla pluralità di azione

per individuare dei parametri comuni da applicare poi alle varie opere letterarie. Questo

metodo, parziale in quanto cronologicamente confinato9, pone tuttavia l’attenzione su

alcuni elementi che resteranno pietre fondanti della narrativa occidentale e con cui

ogni autore si dovrà forzatamente confrontare, sia per supportare che per confutare la

codificazione aristotelica.

L’attenzione di Aristotele si concentra sulla cosiddetta imitazione di un’azione nobile,

ossia la tragedia e sui suoi elementi costitutivi: “o tes opseos kosmos” ossia l’apparato

scenico; la opsis, la visualizzazione della narrazione e, in generale, il “modo” in cui si

imita; la lexis e la melopoiia, ossia l’elocuzione e la musica; il mythos; l’ethos e la dianoia,

ossia il racconto, il carattere e il pensiero, che sono gli oggetti imitati e costituiscono la

struttura narrativa forte. Questi elementi generali e comuni a ogni narrazione tragica,

sono tenute insieme dalla sustasis, ossia dall’intreccio narrativo, che contribuisce a

rimescolare e riadattare i vari elementi, conferendo loro maggiore o minore peso

nell’economia della tragedia. È fondamentale, per la poetica di Aristotele, rispettare una

struttura generale nella formulazione del racconto. Devono esistere un principio, un

mezzo e una fine e le parti devono essere equilibrate e ordinate. Aristotele sostiene che

“La bellezza sta nella grandezza e nell’ordine”. Il racconto (sia tragico che comico, in

realtà) deve avere un’azione centrale intorno a quale vengono agganciati e inseriti gli

elementi secondari. Non tutti gli elementi sopra citati, infatti, rivestono la stessa

importanza: secondo Aristotele, infatti, l’equilibrio ideale vede la concessione di un

9 Aristotele non poteva essere consapevole di tutte le narrazioni e le sperimentazioni che si sarebbero sviluppate in seguito alla sua

Poetica

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maggior spazio al racconto, poi al carattere (o i caratteri), il pensiero, l’elocuzione, la

musica e infine l’apparato scenico. Accanto a questi elementi fissi, ci sono poi le

situazioni, le dinamiche interattive dei personaggi: per Aristotele, infatti, non sono

importanti gli uomini, ma le azioni e le esistenze. In questo modo, le peripezie

(peripeteiai) e i riconoscimenti (anagnorisis) permettono all’opera tragica di trasmettere il

pathos, e cioè quel sentimento di com-passione che funge da base per la successiva

katarsis attraverso esperienze, o meglio, azioni ed esistenze tragiche ma “innocue”, che

smuovono l’animo e la coscienza senza lasciare un vero segno sulla vita di chi guarda.

La presenza o meno di peripezie e riconoscimenti crea due tipologie diverse di

racconto tragico, quello semplice e quello complesso. La pietà (eleeinos) e il terrore

(fobos) sono altri due elementi centrali e imprescindibili della narrazione tragica, in

quanto contribuiscono alla creazione di quell’empatia che mette poi lo spettatore nella

condizione di introiettare gli avvenimenti e il racconto stesso, insieme alle esistenze dei

personaggi, compiendo un’efficace sovrapposizione dell’io del protagonista della

narrazione e di quello dello spettatore. L’ethos, ossia il carattere del protagonista, deve

essere buono, retto e giusto, conveniente e coerente. Oltre alle qualità ovvie di bontà,

rettitudine, giustizia e convenienza, è molto importante il concetto di coerenza. Il

protagonista, verso cui lo spettatore deve attuare il proprio transfer, non può infatti

essere “illogico” o “incoerente”, le sue vicende, le sue esperienze e la sua stessa

esistenza devono essere giustificati in modo razionale, morale ed etico al limite, ma mai

secondo leggi mitiche, dei ex machina che contribuiscono a una salvezza surreale e

irrisoria.

Questo principio di razionalità applicata al protagonista del racconto tragico da

Aristotele trova la sua ragion d’essere nella dinamica dell’anagnorisis, ossia del

riconoscimento, del disvelamento: solitamente questo momento caratterizza la parte

finale dell’opera tragica (si veda l’Edipo Re, piuttosto che Fedra o addirittura le Baccanti)

ed è stato ampiamente anticipato da segnali quali simboli ed oggetti esterni, ma anche

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segni fisici sui corpi dei personaggi, ricordi e visioni, frutti di ragionamenti e

argomentazioni inoppugnabili. Il riconoscimento, che ai giorni nostri diventa il “colpo

di scena” (non più legato unicamente all’identità di un personaggio, ma talvolta anche

alle motivazioni, alle dinamiche e ai fini dell’azione compiuta) è il fulcro centrale della

tragedia, perché accade quando l’autore è riuscito a costruire e a sfruttare il maggior

livello di empatia tra i personaggi in scena (o su carta) e il fruitore. In realtà, il

riconoscimento avviene nella parte finale della tragedia: per “fulcro centrale” intendo

che tutta l’opera è costruita e strutturata in modo da creare un climax ascendente che

porti verso l’anagnorisis, che diventa il punto di arrivo e il momento che dà il via alla

katarsis.

L’anagnorisis è, in pratica, il motivo per cui il lettore affronta il racconto tragico: è ben

consapevole della presenza di una costante “errata”, di un elemento inquietante e

“fuori posto” per tutta la durata della narrazione tragica, e a compiere il processo

catartico fino in fondo. Se l’irrazionale non è contemplato nella tragedia (l’alogon è

infatti una caratteristica dell’epopea), ne fa sicuramente parte il meraviglioso,

thaumaston, ossia quell’elemento di inaspettato e “fantastico” grazie al quale la

percezione umana viene sconvolta e, in alcuni casi, rimodellata.

La narrazione videoludica, seppur non esplicitamente o direttamente connessa e

ispirata a principi aristotelici, porta al suo interno, come ogni narrazione, caratteri

sicuramente individuati da Aristotele salvo, forse, invertire l’importanza degli elementi

che la caratterizzano: l’opsis, ad esempio, ossia il modo in cui si imita il contesto visivo,

assume un’importanza fondamentale, nel racconto videoludico. Spesso è il punto di

partenza per tutta la categorizzazione del prodotto. Musica ed elocuzione, poi, intese

come ritmo (della narrazione e del gioco) e comunicazione uomo-macchina (quindi

interfaccia) sono i due elementi che accompagnano il contesto grafico. Solo in “coda”

troviamo il racconto, il carattere e il pensiero, come conseguenze, spesso strumentali,

dell’apparato ritmico e scenico. A differenza delle narrazioni tradizionali, infatti, il

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mythos, l’ethos e la dianoia sono elementi che a lungo la cultura videoludica ha

considerato “secondari”. Se inizialmente, infatti, i giochi erano visualizzazioni molto

semplificate di ambienti in cui interagire se non addirittura ricostruzioni verbali dei

“campi di gioco” a cui il giocatore aveva accesso10, l’implementazione di grafica e

interattività, così come di ritmo e suspense, è stata al centro dell’attenzione in tutti gli

anni della sperimentazione tecnica “selvaggia”. La lezione di Aristotele è stata filtrata da

anni, o meglio, secoli di letteratura e da una sensibilità canonizzata e ben fissata nel

tempo: quella della narrazione lineare. Dal ‘700 in poi, tuttavia, la sperimentazione

narrativa, la volontà di rompere con gli schemi del passato e, insieme, in una mania

tutta illuminista, di crearne di nuovi, il racconto si è evoluto ed espanso, fino a rompere,

in effetti gli schemi della narrazione tradizionale, per seguire percorsi nuovi, spesso

fallimentari, sicuramente audaci. Lo stesso atteggiamento ha caratterizzato i primi passi

della narrazione videoludica: inizialmente i videogiochi cercavano di riproporre ai

fruitori un modello che fosse noto, conosciuto, quindi dopo gli esperimenti puramente

tecnici di Tennis for Two, Pong e di tutti quei videogiochi essenziali e prettamente

meccanici, si è passati alla narrazione di storie più o meno conosciute, attraverso lo

schermo del computer o della console*. Proprio questa fase iniziale, caratterizzata dalle

cosiddette “avventure testuali”, e la successiva fase di emulazione di generi e modi

letterari mutuati direttamente da letteratura e cinema ha portato i videogiochi a

riconfigurare l’importanza dei sette tratti aristotelici in modo da conferire all’apparato

visivo e al ritmo un ruolo di maggiore importanza rispetto al pensiero, o al racconto

stesso.

Il genere letterario è visto, e parlo in particolare della critica dei generi contemporanea,

come un “luogo dove un’opera entra in una complessa rete di relazioni con altre

opere”11: è partendo da questo punto omnicomprensivo, i critici contemporanei dei

generi letterari osservano come questa particolare branca della letteratura abbia 10 Un esempio ben noto è il videogioco Adventure, che utilizzava un’interfaccia testuale per far muovere il giocatore attraverso un

ambiente virtuale da scoprire. Per ulteriori informazioni, http://en.wikipedia.org/wiki/Adventure_game#Adventure_.281975-1977.29 11 Corti, Maria (1976) Principi della comunicazione letteraria, Bompiani, Milano, p. 151

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seguito, nel corso dei secoli, due correnti distinte: quella di natura più astratta,

atemporale e deduttiva che coinvolge strutture antropologiche e strutture retoriche e

quella di natura storica, diacronica e induttiva. Nel primo approccio o metodo, ossia

quello atemporale e deduttivo, che segue strutture antropologiche, ritroviamo le

classiche differenziazione delle opere in genere lirico, drammatico, epico e nei vari modi

e discorsi letterari. Questo approccio tende a organizzare in modo schematico tutte le

opere già scritte e a incasellare quelle future. L’approccio legato alle strutture retoriche,

invece, presuppone una gerarchia piramidale dei valori dei generi, per cui tematiche,

forma e modelli vincolano l’appartenenza di un’opera a un dato genere (più o meno

alto, nobile, ecc.).

Per quanto riguarda la prospettiva storica e diacronica, invece, l’approccio comune è

quello di affrontare il problema dell’evoluzione dei generi letterari e della loro funzione

analizzando, ad esempio, la presenza di generi diversi in periodi diversi, le

contaminazioni, il collegamento concreto che esiste tra emittenti (autori) e destinatari

(pubblico): da questo tipo di approccio scaturiscono e vengono affrontati i problemi

della comunicazione letteraria in sé e dei rapporti letteratura-società. I generi sono da

intendersi come strumenti utili per gettare uno sguardo d’insieme sulla letteratura, non

sono giudizi ultimi e definitivi né devono diventare criteri universali d’analisi12.

Nonostante per un lungo periodo i generi letterari siano stati direttamente collegati al

valore dell’opera (e, in alcuni casi, lo siano tuttora), nella seconda metà del ‘900 si è

manifestata una chiara avversione per la gerarchia dei generi e ci si è cominciati a

interrogare sulle opere d’arte in sé, non in quanto appartenenti a una certa “famiglia”. Il

problema della classificazione rigida era stato introdotto dai commentatori

cinquecenteschi di Aristotele che avevano estremizzato le sue osservazioni generiche e

pratiche fino a creare delle norme prescrittive, come ad esempio le 3 unità drammatiche

(luogo, tempo e azione): questa normalizzazione e il tentativo di racchiudere tutte le

12 cfr. Fubini, Mario “Genesi e storia dei generi letterari” in Fubini, Mario (a cura di) (1951), Tecnica e teoria letteraria, Marzorati, Milano

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opere in una griglia interpretativa statica e fissata sono state gli elementi messi in

discussione e scardinati dalla critica novecentesca. Già Giordano Bruno, ad esempio,

metteva in discussione l’utilizzo dei generi come regole anziché come strumenti

funzionali affermando che “le regole servono a coloro che sono più atti ad imitare che

a inventare” ed era convinto che “tanti sono i geni e specie di vere regole quanti son

geni e specie di veri poeti”, attribuendo quindi a ogni letterato e scrittore, più in

generale artista, un proprio “codice di genere” che veniva applicato in modo originale e

unico ad ogni opera letteraria. D’altra parte, la classificazione delle opere in base alla

“tipologia di azione” più o meno nobile, più o meno elevata, introdotta in epoca

alessandrina che vedeva la tragedia collegata allo stile sublime, la commedia a quello

umile e il dramma satiresco al medio13 era destinata ad entrare in crisi con il relativismo

morale: come possiamo essere sicuri di cosa è bene e cosa è male, di cosa è triviale e

cosa ricercato? Non possiamo materializzare un metro morale fisso, che comprenda e

codifichi la bellezza, la bontà, la nobiltà. E quindi, con l’ascesa sette-ottocentesca di

nuove classi sociali, il sistema medievale di classificazione di genere è stato rivoltato e

scardinato, proprio perché le basi su cui poggiava erano più fideistiche e quasi

religiose che razionali e “scientifiche”. Vico, ad esempio, cercherà di risolvere l’impasse

legata ai generi introducendo il concetto di contestualizzazione storica: in questo

modo, le strutture di genere possono essere, in alcune circostanze, conservate, ma

vengono appunto contestualizzate in un luogo e in un periodo, applicate a una

determinata classe sociale, collegate a una serie di avvenimenti e a un chiaro contesto.

In questo modo decade la pretesa assolutista, ma i generi letterari cominciano a

diventare, in un’ottica tutta pragmatica e “sperimentale”, quegli strumenti che i critici

potranno usare in modo funzionale applicandoli, con discrezione e criterio, alle varie

opere, che restano però individuali, particolari e autonome. In generale, possiamo

aderire all’affermazione di Segre per cui

13 cfr. Segre, Cesare (1999) Avviamento all’analisi del testo letterario, Giulio Einaudi Editore, Torino

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“Ognuno dei generi e sottogeneri era ricondotto al mondo storico donde erano provenute le opere che esso designava e la loro successione si rivelava un altro degli aspetti del corso che fanno le cose umane”14

Questo approccio verrà mantenuto in epoca romantica: si tornerà a porre l’accento non

sulla struttura fine a se stessa ma sulle opere individuali e si continuerà a sentire il

bisogno di ricorrere ai generi come istanza d’ordine per comprendere appieno la

letteratura e i suoi percorsi. Lontani dall’approccio dogmatico cinquecentesco,

nell’ottocento si pongono le basi per la critica contemporanea ossia si continua a

sottolineare la forte interrelazione tra generi letterari e contesti storico-sociali. De

Sanctis, ad esempio, sostiene la stretta interconnessione della storia dei generi letterari

alla più vasta storia della civiltà umana. Le partizioni dei generi sono un punto di

partenza, uno strumento critico non un fine e punto di arrivo. La realtà individuale

dell’opera è posta al centro dell’analisi e si smette di inseguire l’ideale di una

tassonomia assoluta.

Arrivando al ‘900, Genette dà un contributo, se non risolutivo, quantomeno fortemente

aperto e d’avanguardia: sostiene che

“l’inconveniente teorico sta nel sovrapporre il privilegio di naturalità che appartiene legittimamente ai tre modi di narrazione (puro, misto e imitazione drammatica) sulla triade dei generi, o archigeneri lirica, epica e dramma”15.

Come afferma acutamente parlando dell’architesto e delle influenze, dei rimandi, delle

contaminazioni più o meno dirette tra le varie tipologie di testi letterari e i loro modelli

archetipici (o meglio, architestuali), Genette sostiene:

“Je considère au contraire comme un autre évidence (vague) la présence d’une attitude existentielle, d’une ‘structure anthropologique’ (Durand), d’une ‘disposition mentale’ (Jolles), d’un ‘schème imaginatif’ (Mauron), ou (…) d’un ‘sentiment proprement épique, lyrique, dramatique, mais aussi bien tragique, comique, élégiaque, fantastique, romanesque, etc., dont la nature, l’origine, la permanence et la relation à l’histoire restent

14 Fubini, Mario, op. cit. p. 124 15 A.A.V.V. (1986) Théories des genres, De Seuil, Paris

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(entre autres) à étudier car, entant que concept génériques, les trois termes de la triade traditionnelle ne méritent aucun rang hiérarchique particulier.”16

Oltre alla volontà di emanciparsi dalle gerarchie del passato e di recuperare la struttura

più generale e inclusiva di Aristotele, che ritiene più efficace rispetto ai suoi successori,

Genette sottolinea l’importanza di differenziare i modi e i temi e la loro natura

indipendente: non si auto implicano a vicenda. Hempfer, poi, chiarisce questo concetto

definendo i modi di scrittura come classi inclusive basate su situazioni di enunciazione

(o, con l’espressione coniata da Frye, del “radicale di presentazione”17), mentre i tipi

(eterodiegetico, omodiegetico, ecc.) sono specificazioni dei modi di narrazione. I generi

sono la realizzazione concreta e inserita in un contesto storico-culturale di una

narrazione esistente in teoria come combinazione di modi e tipi. I sottogeneri, infine,

sono specificazioni interne dei generi. Ecco allora che gli strumenti per analizzare

un’opera in modo completo ed esaustivo sono molteplici e variabili, a seconda

dell’opera stessa. “Et que l’étude des transformations implique l’examen, et donc la

prise en considération, des permanences”18. Queste “permanenze citate sono i temi

(ossia la tematica del testo), i modi di narrazione (omodiegetica, focalizzazione interna,

onnisciente, ecc.) e le forme (prosa, poesia).

Perché introdurre lo stato degli studi diacronici e di genere ai videogiochi con un

excursus sulla storia dei generi letterari? La motivazione è legata alla convinzione che

sì, i videogiochi necessitano di strumenti adeguati ad analizzarli e spesso questi

strumenti vanno creati, tuttavia le diverse parti che compongono il videogioco (se

vogliamo generalizzare i concetti aristotelici, l’interfaccia, la trama e l’intreccio, il ritmo, il

linguaggio, e così via) non sono affatto “nuove” o prive di un passato: ogni nuovo

medium che nasce incorpora inevitabilmente i media passati, in parte o per intero,

riconfigurandoli, attribuendo loro nuove funzioni, instaurando nuove “gerarchie” e 16 Ibid. 17 Frye, Northorpe (2000) Anatomy of Criticism, Princeton University Press, New Jersey 18 A.A.V.V. Theorie des genres, op. cit. p. 154

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rapporti di importanza. Per questo, se la storia della critica dei generi videoludici è

breve, la storia della critica dei generi letterari è invece più organica e, in un certo senso,

matura e può aiutarci a velocizzare certi processi, a evitare di ricadere in analisi errate e

parziali e a utilizzare in modo proficuo gli strumenti di analisi più adeguati:

“There are many ways in which games overlap with other areas, such as various forms of storytelling, audio-visual media and arts, science and the art of programming, or various fields in business and marketing. There is therefore no need to reinvent the wheel (…). There is already some existing research to learn and profit from.”19

Se il passato critico di altre discipline (e mi riferisco alla storia della critica dei generi

letterari, ad esempio) ci ha insegnato qualcosa, ossia che cercare di creare griglie omni-

comprensive che includano tutte le opere è a lungo termine fallimentare, e che è più

efficace seguire l’intuizione ancestrale di Aristotele, ossia tentare di individuare dei

principi più ampi da applicare con discrezione e criterio, è importante tenere conto di

questo insegnamento anche quando si passa a ricostruire una tassonomia ordinata dei

generi videoludici. Uno studio aggiornato del 2006 dello studioso australiano Thomas

H. Apperley ci mostra come, forse inconsapevolmente forse consciamente, tutto il

retaggio dei moderni studi sul genere venga applicato anche agli studi sui generi

videoludici. Uno studio aggiornato del 2006 di uno studioso australiano, Thomas H.

Apperley ci mostra come, forse inconsapevolmente, forse consciamente, tutto il

retaggio dei moderni studi sul genere venga applicato, in qualche modo, anche agli

studi sui generi videoludici. Innanzitutto Apperley riconosce che “(videogames) cannot

be regarded as a consistent medium. Certainly, taken as a whole, the field of video

games can hardly be considered to have a uniform – or consistent – aesthetic”20. Detto

questo, è pur vero che “conventional video game genres rely overmuch on games

representational characteristics. Representational in this case refers to the visual

aesthetics of the games”: come accennavo prima, l’ordine di valore delle categorie

19 Bogost, Ian (2006) Unit Operations. An Approach to Videogame Criticism, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, p. 53 20 Apperley, Thomas H. (2006) “Genre and game studies: Toward a critical approach to video game genres” in SIMULATION & GAMING,

Vol. 37 No. 1, March 2006, pp. 6-23

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aristoteliche si è “invertito”, e l’opsis, ossia la rappresentazione, l’apparato “scenico” e il

contesto grafico diventano l’elemento emergente più alla portata (e forse anche più

comodo) per stilare una classifica dei generi videoludici. In realtà, Apperley ammette

che non solo la rappresentazione, ma più profondamente le dinamiche di interazione,

caratteristiche non-rappresentazionali, sono il cuore imprescindibile dei videogiochi.

Aarseth, nel suo Cybertext, critica il concetto di interattività definendolo un “purely

ideological term, lacking any analytical substance” e gli contrappone il concetto di

cybertext, per descrivere l’intricato sistema di feedback che esiste in alcuni tipi di testi

caratterizzati da una “organizzazione meccanica” e da un lettore “integrato”. Sempre

Aarseth, conia il termine ergodico per descrivere il ruolo dell’attore umano nel processo

di creazione del cybertesto: ergodico si riferisce al fatto che un “non-trivial effort is

required to allow the reader to traverse the text”21. Apparley nota che

“the primary problem with conventional video game genres is that rather than being a general description of the style of ergodic interaction that takes place within the game, it is instead loose aesthetic clusters based around video games’ aesthetic linkages to prior media forms.”22

Egli recupera il concetto di remediation introdotto da Bolter and Gruisin nel 1999 e

afferma:

“By examining video games in the context of ergodic rather than representational genre, the ‘neatness’ of Bolter and Gruisin’s (1999) notion of remediation as the recycling of representational aesthetics across mediums is challenged, as something more than the visual is operating, requiring the tracing of genealogical trajectories that looks beyond video games aesthetics borrowing from cinema and television.”23

Se la struttura di rappresentazione del videogioco è dunque presa, d’impulso, come

primo parametro di giudizio per un’analisi dei generi videoludici, Apparley intende

dimostrare come la prospettiva ergodica, e quindi legata all’interattività, al ruolo

21 Aarseth, Espen J. (1997) Cybertext, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, p.1 22 Apparely, op. cit. p. 10 23 Ibid. p. 15

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richiesto al giocatore-fruitore e al sistema di interazione, sia la vera base da cui partire

per catalogare i videogiochi in rapporto a determinati generi.

L’ergodicità, quindi, e non la mera iconografia è alla base della tassonomia dei generi

di Wolf24 che tenta di classificare i prodotti videoludici in base alla tipologia di

interazione presenti nei vari videogiochi. Ci sono tre macro-elementi che condizionano

pesantemente l’ergodicità e l’interattività, e sono la piattaforma, la modalità di gioco e lo

stile grafico-estetico25. La tipologia di piattaforma per cui il gioco è stato concepito, la

modalità (ossia la struttura profonda del gioco, che può essere rizomatica o labirintica,

ad esempio, per uno o più giocatori, on o off-line) e la cornice grafico-stilistica in cui

tutta l’azione è inserita fanno da sfondo ai generi videoludici che quindi sono più vicini

a generi letterari quali la lirica, il dramma, l’epica che ai generi formulaici dell’horror,

detective story e così via.

A questo proposito, è più proficuo analizzare i quattro macro-generi individuati da

Apperley e che, in base a platform, mode e milieu, si differenziano in simulazione,

strategia, azione e RPG*, anziché perdersi nei dettagli della classificazione di Wolf.

Combinando infatti gli elementi “fissi” e inevitabili per ciascun videogame, ossia la

piattaforma, le modalità di interazione e la cornice all’interno della quale viene

collocata l’azione e la performance del giocatore, possiamo individuare i quattro

macro-generi sopra citati e possiamo cercare di analizzare queste quattro macro-

famiglie anziché soffermarci in modo dettagliato su tutte le sotto-categorie e i sotto-

generi proposti da Wolf. In questo modo possiamo tentare di individuare delle

meccaniche più ampie, che diventano dei “contenitori” per le varie modalità e che

costituiscono solo un punto di partenza per una riflessione sui videogame, ma che

ricorrono costantemente in quasi tutte le analisi successive, da quelle dei narratologi e

dei ludologi, a quelle dei film studies a quelle, infine, della narrazione interattiva e dei

24 Wolf, M. J. P. (ed) (2001) The Medium of the video game, Austin, University of Texas Press 25 Apparley, ibid. p. 11

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mondi di simulazione. Il livello di dettaglio della descrizione di Wolf è utile per avere

una panoramica su tanti videogiochi, citati in modo puntuale e funzionale, nel

contesto del sotto-genere a cui appartengono e per recuperare una cronologia

videoludica oltre che per osservare come alcuni meccanismi interattivi abbiano

conosciuto periodi di successo più o meno lunghi e duraturi, ma risulta a lungo andare

limitante ed eccessivamente vincolato ai casi presi in esame. Nel corso della breve ma

intensa sperimentazione dei videogiochi, infatti, sono nati diversi “ibridi” che non

possono tuttavia essere analizzati secondo i parametri dei diversi sotto-insiemi che li

compongono, ma che richiederebbero ulteriori e sempre più specifiche analisi,

destinate a perdere qualsiasi connotato di generalità e a diventare unicamente

“recensioni”. Parlando di simulazione, strategia, azione e gioco di ruolo, invece, si

individuano le dinamiche ludiche che stanno alla base dell’ergodicità, cioè

dell’interazione tra videogioco (o prodotto multimediale) e fruitore e si possono, di

conseguenza, più ragionevolmente individuare le caratteristiche di una o più di queste

quattro modalità nei vari titoli presi in considerazione.

La “simulazione”, ad esempio, include tipi videoludici quali i giochi sportivi, di volo, di

guida e quelli che permettono la “gestione” di ambienti, da città a comunità, da eserciti

a nazioni. In realtà, il concetto di simulazione non è così semplice, soprattutto quando

viene applicato ai videogiochi. Come riporta Apperley, Aarseth26 prima e Frasca27 poi

pensano addirittura che i videogiochi “should be understood as a particular genre of

simulation”28, ossia che qualsiasi tipologia di videogioco rientra nella sfera della

simulazione perché, in effetti, permette di simulare non solo la gestione di un ambiente

o un’esperienza altrimenti lontana dal proprio ambito, ma perché qualsiasi azione,

all’interno di un mondo videoludico, è di per sé la simulazione, che si tratti di

un’esplorazione, di un’interazione sociale, di un apprendimento o di una scoperta, e 26 Aarseth, E. (2004) "Genre Trouble: Narrativism and the Art of Simulation" in Wardrip-Fruin, Noah and Harrigan, Pat (eds) First Person:

New Media as Story, Performance, and Game, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, pp. 45-69 27 Frasca, G. (2003) “Simulation versus narrative: Introduction to ludology”, in Wolf, Mark J. P. & Perron, Bernard (eds), The video game

theory reader, Routledge, New York 28 Apparley, op. cit. p. 12

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così via. Nell’interfacciarci a un mondo digitale, virtuale*, intraprendiamo non una reale

esplorazione, ma una simulazione di esplorazione, che diventa concreta e di primo

livello solo in quanto la nostra alfabetizzazione fa scomparire il mezzo (computer o

console*) alla nostra vista e ci catapulta direttamente nel mondo videoludico: non

dobbiamo dimenticare però che quella che stiamo compiendo e mettendo in atto è la

simulazione di un’attività, che sia ludica, cognitiva, educativa o di intrattenimento che ha

un riscontro e un corrispettivo nella realtà e che, all’interno del contesto digitale, è solo

una simulazione di un’attività reale.

Accanto al concetto di simulazione si colloca perfettamente quello di “rimediazione” di

Bolter e Gruisin, che vedono il videogioco come un esempio della rimediazione di

tecnologie legate alle simulazioni digitali. Come nel caso del cinema, infatti, non è

possibile ridurre l’esperienza filmica a pura “narrazione”, così è assolutamente riduttivo

considerare il videogioco unicamente in base al concetto di simulazione: questa è sì

una parte attiva e, sicuramente, molto presente, ma non è il sostrato costitutivo dei

videogiochi né l’elemento prevalente, in alcuni casi. Il concetto di intrattenimento e i

paradigmi ludici sono la chiave di volta per sfuggire al predominio della simulazione e

per ricontestualizzare questo concetto nell’ambito dei videogiochi: la simulazione non

è esclusivamente l’imitazione di un’attività reale a livello virtuale, bensì la riproduzione

di meccaniche ludiche che tengono fortemente conto dell’intrattenimento e del

divertimento. Accanto a simulazioni di auto semi-serie, come Gran Turismo, troviamo

quindi Burnout le dinamiche di Sim City sono più volte alla simulazione reale della

gestione di un ambiente di quanto non siano quelle di Civilization. In questo modo, la

simulazione diventa un parametro di misura, e cioè un criterio secondo cui viene

classificato, giudicato e “incasellato” un gioco (la simulazione è più realistica o arcade*?),

ma non deve essere trascurato l’elemento di “inverosimiglianza” introdotto per

bilanciare l’eccessiva serietà della riproduzione virtuale di un’azione reale. Questo

bilanciamento relativizza quindi il peso del concetto di simulazione nell’analisi di un

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videogioco: se, come sostengono Aarseth e Frasca, tutti i videogiochi sono simulazione,

allora è altrettanto vero che tutti i giochi contengono al loro interno, per la loro stessa

natura, un elemento sia opposto che complementare alla simulazione, ossia l’elemento

ludico. Nel caso dei videogiochi, infatti, non ci troviamo mai davanti a simulazioni

virtuali* che ricostruiscono perfettamente esperienze reali, abbiamo sempre qualche

elemento arcade* che ha lo scopo di incentivare il divertimento e le meccaniche di

gioco.

Il concetto di ‘strategia’ è il secondo elemento utile a costituire una classificazione dei

videogiochi e che, a sua volta, esattamente come nel caso della simulazione, non può

bastare da solo a descrivere un prodotto videoludico, ma contribuisce a mettere in luce

alcune caratteristiche che, in misura maggiore o minore, sono presenti in ogni

videogame. Innanzitutto, il concetto di ‘strategia’ ci aiuta ad allontanare i videogiochi

dal dominio semiotico e cognitivo non solo del cinema (dominio in cui i videogiochi

sono spesso inclusi), ma anche dai domini “estetici” in cui vengono inclusi (e suddivisi)

abitualmente i videogiochi:

“of all video games strategy games have fewest cinematic associations. The strategy genre is usually divided into two subgenres: real time strategy (RTS) and turn-base strategy (TBS). Both RTS and TBS games have a similar aesthetic, a genera god’s-eye-view of the actions taking place, with a tendency toward a more photorealistic depiction. However, both games, the TBS especially, cannot be considered remediated forms of any other orthodoxly technological medium; rather they remediate the playing of the strategy table-top board game.”29

In questo caso, l’interfaccia utente e l’estetica visiva generale sono completamente

diverse e mirano più a convogliare l’informazione in modo efficace che a provocare un

effetto di immersione (concetto questo legato a quello di rimediazione). Quindi non è

più la simulazione di un evento reale a essere la protagonista dell’esperienza di gioco,

bensì diventano fondamentali il reperimento, la ricezione, la rielaborazione e l’utilizzo

efficace dell’informazione. Il concetto di strategia e, di conseguenza, i giochi di strategia

29 Apperley, ibid. p. 12

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possono essere applicati a giochi non necessariamente nascono come strategici: il

giocatore, cioè, può adottare tattiche di reperimento e sfruttamento dell’informazione

tali da produrre risultati migliori nel gioco. Questa dinamica è direttamente collegata al

gioco “pro”, o esperto. Myers sostiene che:

“Expert players contextualize relationships between certain values within the game-world in order to obtain the best possible outcomes”30,

e, ancora che:

“The expert player (…) is organizing and valuing variables within that system (…). This activity may take place outside of the game per se and involve contextualizing information gleaned from secondary sources – Internet sites, chat rooms, bulletin boards, conversation with other players, game magazines – as well as prior play of the particular game.”31

Questa prospettiva amplia quindi il concetto di “strategia” virtualmente a tutti i

videogiochi: in ogni caso, infatti, è possibile applicare le dinamiche esperte che i

giocatori sfruttano nei giochi di strategia ai contesti videoludici generali. Quindi, per

citare un esempio concreto, un giocatore esperto potrà ricercare online* informazioni

su come ottimizzare la produzione di una determinata risorsa in un gioco strategico

gestionale come Age of Empires, e potrà trovare informazioni a riguardo da aggiungere

alle informazioni veicolate dal gioco e raggiungere quindi un livello molto alto di

efficienza. Con lo stesso approccio, tuttavia, e quindi con lo studio della strategia

ottimale, sarà possibile per un giocatore di giochi di simulazione (come un gioco di

corse come il già citato Burnout) individuare, online*, le strategie più adatte al

raggiungimento di un punteggio elevato e mettere in atto queste strategie durante

una sessione di gioco. In quest’ottica, sarà il giocatore a mescolare, più o meno

consapevolmente, due caratteristiche “di genere” di un videogioco, facendo emergere e

prevalere, all’interno di un gioco di simulazione, la componente strategica anziché

quella esperienziale (che, nella simulazione, è tutto). Alcuni giochi tipicamente strategici

sono Sim City e The Sims: in questi due casi, tuttavia, 30 Myers, D. (2003) The nature of computer games: Play as semiosis, Peter Lang, New York, p. 44 31 Ibid. p. 177

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“the player must integrate information from, and make calibration on, several screens in order to make effective interventions on a process of development that is already underway. The player has to manipulate the simulation as it progresses through time in order to get the result with the most utility.”32

Questa tipologia di gioco di strategia, presuppone una “supervisione” da parte del

giocatore, che deve seguire un processo comunque in atto, e ci permette di individuare

due tipologie ergodiche contrapposte: Apperley definisce il primo gruppo come

“characterized by the players’ crucial role in performing the ergodic process” e parla del

secondo come “characterized by the interventions of the player must take to bring the

ergodic process to the desired end”33. Il giocatore si avvicina quindi ai giochi di

strategia in maniera diversa a seconda della loro tipologia, e in questo processo di

interazione uomo-macchina si instaura una sorta di “loop cibernetico” all’interno del

quale la linea che divide la coscienza del giocatore e l’inizio del mondo digitale viene a

essere meno demarcata, più indefinita.

Al macro-genere della strategia e a quello della simulazione si affianca quello

dell’azione. Una prima suddivisione rudimentale di questo elemento, in un’ottica

prettamente ereditata dal cinema, è quello in first-person shooter* e third-person game*,

ossia di giochi in prima e in terza persona (nel secondo caso, l’avatar* del giocatore è

visibile di spalle durante tutte le sessioni di gioco, nel primo caso il giocatore ha una

soggettiva degli eventi). La prospettiva in first-person* è alquanto rara, nel cinema, e

viene spesso usata in film in cui predomina la visione in terza persona per favorire

l’identificazione e creare particolari momenti di pathos. La visuale in terza persona è

invece quella dominante nel cinema, e permette allo spettatore di osservare l’azione

dall’esterno, senza essere coinvolto direttamente negli avvenimenti, ma mantenendo

uno sguardo d’insieme. Nel caso dei videogiochi first o third person, l’immedesimazione

è totale: “The avatar acts as a virtual prosthetic that acts as the connecting point

32 Apperley, ibid. p. 14 33 Ibid. p. 14

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between the player and the virtual environment”34. Più che di un “connettore”, l’avatar*

svolge il ruolo che negli ambienti virtuali non videoludici ricopre il “cursore”, ossia

collega gli aspetti percettivi a quelli cognitivi e di movimento nel gioco, perché il

giocatore ha bisogno di essere collegato a un elemento fisico all’interno del gioco che

gli permetta di orientarsi e di spostarsi in modo opportuno. Nei giochi in terza persona,

questo elemento è appunto l’avatar* stesso; nei giochi in prima persona spesso questa

funzione viene ricoperta da un puntatore (può essere quello direzionale o il mirino di

un’arma), sebbene talvolta possa risultare superflua, perché la visione in prima persona

permette al giocatore di orientarsi in maniera efficace con i soli oggetti a schermo.

Ancora una volta, l’azione non è né può essere l’unico elemento di genere presente nel

gioco: può essere il “preponderante”, il più presente e necessario per avanzare nei

livelli, ma come nel caso della simulazione e della strategia, non è sicuramente quello

esclusivo. In giochi come Half Life o Bioshock, il giocatore si trova immerso nell’ambiente

di gioco e deve interagire con esso. L’interfaccia che convoglia e comunica le

informazioni è sempre presente, ma a differenza dei giochi di strategia, in cui la

ricezione e l’interpretazione dell’informazione da parte del giocatore passa nettamente

in secondo piano, per lasciare spazio alle competenze e alle skill acquisite o sviluppate

dell'avatar* stesso e, nel contempo, all'abilità del giocatore nel sostenere una

performance ludica che gli permetta di sfruttare al massimo suddette abilità. Per

affrontare in modo congruo il gioco sarà quindi necessario che sia il giocatore che

l'avatar* siano “potenziati” e adeguati al contesto, e che la performance del giocatore

sia tanto efficace quanto l'ambiente richiede (il margine di errore concesso aumenta o

diminuisce a seconda, ad esempio, del livello di difficoltà impostato all'inizio della

partita). C'è chi, come Atkins, descrive il processo di scoperta della performance tecnica

corretta e più adeguata come un “moment of gaming cinema [that] requires the

continuing active participation of the player if it is to be successfully realised”, ossia la

performance diventa un momento quasi “cinematografico” in cui il giocatore riesce a 34 Apperley, ibid. p. 16

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mettere a frutto le abilità e i potenziamenti, suoi e dell'avatar*. In particolare, questo

concetto suggerisce un tipo di padronanza e maestria che rompe in modo netto con le

abilità richieste dai media precedenti e mette in discussione, in qualche modo, il

concetto di rimediazione, quantomeno applicato a questo genere di gioco.

Ancora una volta, come nel caso della simulazione e della strategia, anche il genere

dell'azione non esiste in sé per sé, ma è solamente una tipologia ludica che vede

prevalere l'elemento attivo e performativo sugli altri. Ancora, non è impossibile né

scorretto individuare elementi di simulazione (l'esplorazione, l'utilizzo di armi, la

risoluzione di enigmi in game) o di strategia (gli schemi più efficaci per superare un

dato livello, le armi migliori da utilizzare nelle diverse circostanze, le tattiche più efficaci

per sconfiggere certi nemici), ma a differenza dei casi in cui l'abilità consiste

nell'acquisire e gestire informazioni o nel lasciarsi “trasportare” dall'ambiente

videoludico, nel caso del genere d'azione l'agenza del giocatore diventa fondamentale:

dato che la performance diventa l'elemento discriminante per l’esperienza ludica, il

gameplay* è studiato proprio nell’ottica di dare la possibilità, a ciascun giocatore, di

“personalizzare” il gioco proprio in base alle proprie abilità e di rendere ogni sessione e

ogni partita unica e irripetibile. Nell’affrontare un livello di un FPS* come Half Life o nel

progredire nei “livelli” di un episodio della serie di Metal Gear Solid, ad esempio, il

giocatore compie scelte sia razionali che istintive, dettate sua dalla conoscenza della

mappa che dalle circostanze casuali generate dal livello e non si trova mai nelle

condizioni di affrontare lo stesso percorso secondo gli stessi canoni o le stesse

dinamiche.

La quarta e ultima famiglia di generi videoludici è quella degli RPG*, ossia dei Role

Playing Game*, i giochi di ruolo. La caratteristica emergente di questo genere è quella

di incorporare in maniera armonica ed equilibrata gli altri tre, aggiungendo tuttavia

alcune caratteristiche peculiari che ritornano, a loro volta, negli altri generi. Il gioco di

ruolo è strettamente legato al genere letterario del fantasy: viene spesso definito una

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“rimediazione di Tolkien”35. Nel gioco di ruolo originario, il giocatore assume un'identità

fittizia, senza avatar* né intermediazioni: diventa, letteralmente, il proprio personaggio,

lo interpreta. Inoltre, pur prendendo le mosse da un canovaccio iniziale, la trama è una

costruzione collettiva, a opera sia del master che dei singoli giocatori che partecipano.

La differenza fondamentale tra i giochi di ruolo pencil-and-paper* e quelli digitali è,

innanzitutto, che il mondo-gioco non è una creazione collettiva, basata sulle intuizioni

di fantasia dei partecipanti, ma è definito da una serie di severe e rigide regole e

parametri, pre-determinati dai game designer. Inoltre, l'attenzione viene spostata dal

personaggio e dal suo sviluppo a una serie di scontri puramente funzionali

all'accumulo di premi e punti per accrescere le proprie abilità (non esiste più una vera e

propria personalizzazione del personaggio, esistono piuttosto schemi rigidi e

precostituiti secondo cui i vari personaggi possono evolversi). Queste differenze di

base servono per porre in evidenza le caratteristiche diventate fondamentali dopo lo

sviluppo del GdR* online* e per aiutare a definire il contesto in cui si sono verificate

determinate evoluzioni, in particolare dei personaggi:

“The remediation of role-playing to computers changed the focus of the games from character development to the acquisition of characteristics that are contextualized and valued through play”

Il punto fondamentale non è tanto lo sviluppo in sé del personaggio, quanto

l'acquisizione di caratteristiche valorizzate all'interno del processo di gioco e, in

generale, nella comunità di gioco e dei giocatori. “RPGs operate intertextually, as the

context of the game is often larger than the individual game”36: viene introdotto il

concetto di intertestualità degli RPG*, e quindi il fatto che il contesto secondo cui si

valutano i parametri e gli achievement (gli obiettivi di gioco raggiunti) dei personaggi

non sono più limitati al gioco stesso ma riguardano la contestualizzazione del gioco da

35 Sia King e Krzywinska che Bolter e Gruisin lo chiamano in questo modo. 36 Myers, op. cit. p.12

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parte di molti individui che formano un discorso collettivo che assegna diverso valore

a diverse trasformazioni:

“Websites, fanzines, cheat sheets, walkthroughs, message boards, and a variety of supplemental publications provided further extensions to and reinforcements of the (...) game context”37.

Cosa accade, quindi? Il gioco di ruolo, che aveva inizialmente perso la sua natura

“collettiva” per via delle impostazioni “verticali” impartite della natura stessa del gioco

di ruolo virtuale, ossia un ambiente rigidamente strutturato e “preconfezionato”,

recupera l'elemento collettivo – orizzontale -grazie alla possibilità del gioco di “uscire” e

di insediarsi nella quotidianità dei giocatori, attraverso tutti quegli strumenti

tipicamente deputati ad altro utilizzo e sfruttati, invece, per creare una comunità

consapevole di giocatori che interagisce e crea una scala di valori da applicare al gioco

stesso e attraverso cui motivare o disincentivare le azioni in game mirate all'evoluzione

del personaggio.

In pratica, il gioco di ruolo sfrutta gli elementi di simulazione, strategia e azione,

unendoli in un unico scenario virtuale e lasciando però il giocatore libero di scegliere il

giocatore: i percorsi di potenziamento ed evoluzione dei personaggi sono interamenti

liberi e deputati solo alle scelte personali di ogni fruitore. Ovviamente, il

condizionamento sociale non è evitabile e fa anzi parte integrante di questo processo.

È, anzi, il tratto distintivo del gioco di ruolo rispetto agli altri tre generi citati:

nonostante la struttura rigida e pre-impostata, che talvolta lascia poco

all’improvvisazione, il contatto e l’influenza sociale che le online communities* hanno

sul gioco permette la creazione di quell’elemento di casualità e di personalizzazione

che altrimenti sarebbe assente. Infine, come nota anche Apperley,

“Massive Multi-player Online RPGs (MMORPGs)* blur the boundary between game and community completely; in “Computer Game Studies: Year One” Aarseth (2001, p. 2)

37 Ibid. p. 12

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describes this shift as the social arena of the game becoming the game itself. Thus, I suggest that MMORPGs should be conceptualized as a convergent technology.”38

Dopo la presentazione di questi quattro macro-generi, Apperley sottolinea un concetto

che ritiene fondamentale, anzi, come dice lui stesso, “di cruciale importanza:

“What is crucially important to video game genres is to be able to think of each individual game as belonging to several genres at once”

Torna l’idea, a cui la critica letteraria è arrivata dopo dibattiti e griglie interpretative più

o meno rigide, del “genere” come strumento per l’analisi dell’opera, non come fine

ultimo e come struttura fissa in cui cercare di incasellare i diversi “testi” (siano essi

letterari che, come nel nostro caso, videoludici). A seconda dell’artefatto davanti a cui ci

troviamo, dovremo adottare non una o un’altra interpretazione generica specifica, ma

tutte, cercando di capire quali tra esse predomina nel caso in analisi, quali sono le

motivazioni di questo predominio e quali le conseguenze. D’altra parte, anche nella

critica cinematografica incappiamo in esempi diametralmente opposti: il Western, ad

esempio, o il Noir sono spesso (spesso, non sempre, e soprattutto non unicamente)

caratterizzati da una predominanza dell’iconografia visiva, mentre altri generi come il

melodramma e la commedia non hanno un’iconografia coerente e ripetuta, ma trovano

la loro classificazione di genere nella struttura narrativa.

Lo stesso accade per i videogiochi: per ora ci siamo limitati a parlare di ergodicità,

interazione e gameplay* per definire alcune tipologie generiche funzionali all’analisi

critica che seguirà, tuttavia non è sufficiente, a mio parere, soffermarsi su questi

elementi senza analizzare a fondo l’importanza che ricoprono, ad esempio, gli studi

narratologici, quelli filmici e quelli prettamente legati all’interattività e alla narrativa

digitale per avere un ventaglio di strumenti soddisfacente e completo per analizzare (e

motivare la scelta dell’analisi) dei diversi titoli che più avanti proporrò. A seconda dei

diversi prodotti, verranno quindi recuperati concetti e caratteristiche appartenenti ai

38 Apperley, op. cit. p.18

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diversi generi, non solo: anche alle diverse metodologie. Perché se il problema

fondamentale della critica dei generi, in letteratura, è stata proprio la volontà di aderire

a un unico paradigma per cercare di comprendere un’opera vasta come quella

letteraria, anche per i videogiochi, appaiono sempre più una rimediazione di forme

precedenti di comunicazione, intrattenimento, narrazione e interattività, è necessario

non precludersi alcuna porta e cercare di sfruttare in modo efficiente le risorse critiche

a disposizione, senza trincerarsi dietro posizioni assolutiste.

Narratologi e Ludologi Considerati gli evidenti elementi narrativi, semiotici e letterari sicuramente contenuti

nei videogiochi, parte della critica si è naturalmente rivolta all’analisi dei videogame

con strumenti appartenuti in precedenza ad altre discipline, come appunto la

narratologia, la semiotica e la letteratura. Considerato che, addirittura, alcuni dei primi

videogiochi, come abbiamo già detto, erano interamente testuali e che parte delle

avventure grafiche del primo periodo sono state ispirate a trame letterarie ben note

(dalle avventure di Sherlock Holmes a Blade Runner, da Edgar Allan Poe a romanzi

d’azione), l’istinto di arricchire i game studies di una prospettiva cosiddetta

“narratologica” è stato forte e inevitabile. Un testo cardine, nell’ottica della

sperimentazione sull’acquisizione e definizione di una metodologia per analizzare i

videogiochi è stato senza dubbio un volume pubblicato dalla MIT Press nel 2004 dal

titolo First Person – New Media as Story, Performance and Game e che raccoglie decine di

contributi, più o meno pionieristici, di diversi studiosi interessati a definire gli ambiti di

analisi dei nuovi media, dall’ipertesto al cyberdrama, dalle simulazioni ai videogiochi,

passando per le comunità virtuali, le chat e l’arte digitale in senso stretto.

L’importanza di questo testo è, a distanza di diversi anni, innegabile: i curatori, Noah

Wardrip-Fruin e Pat Harrigan hanno infatti catalizzato e organizzato i contributi di

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ricercatori ed esperti di settori diversi, con esperienze e metodologie tra loro anche

molto distanti, per fornire una panoramica a trecentosessanta gradi sulla ricezione da

parte dei giocatori-fruitori e sull’analisi delle nuove tecnologie. Sebbene il titolo

conferisca equivalente importanza a “storia”, “performance” e “gioco”, quasi tutti i saggi

toccano, in un modo o nell’altro, la tematica della narrazione e dell’importanza

dell’equilibrio tra narrazione, performance di gioco e struttura ludica39: cominciava già a

delinearsi quella che sarebbe stata la problematica più in voga degli ultimi dieci anni

nel campo della critica videoludica, e cioè il bilanciamento effettivo e ideale tra

elemento narrativo, elemento performativo ed elemento ludico all’interno dei prodotti

multimediali e digitali e, in particolare, dei videogiochi. Il testo si suddivide in otto

sezioni, ciascuna contenente tre o quattro contributi accompagnati dalle “risposte” di

altri studiosi: Cyberdrama, Ludology, Critical Simulation, Game Theories, Hypertexts &

Interactivities, The Pixel/The Line, Beyond Chat e New Readings sono le otto macro-aree

tematiche del volume. Argomenti “forti” e decisamente innovativi per il 2004 vengono

affrontati in modo preciso e, spesso, con il “contraddittorio” in calce al testo di

ricercatori o esperiti di materie complementari a quelle trattate. Janet Murray, ad

esempio, scrive di storie videoludiche e della loro potenziale evoluzione nel genere che

lei chiama del cyberdrama e cerca di dimostrare come, in alcune tipologie di

videogiochi, la narrazione emerga dall’interazione più o meno forzata dei personaggi e

come questa interazione (in The Sims, ma anche nel più sperimentale Façade) generi

quella narrazione che poi il giocatore ricorderà. Sempre in linea con la prospettiva della

Murray, e cioè quella di individuare una “nuova” forma di narrazione, a metà tra la

storia tradizionale e il videogioco, diversi autori si interrogano proprio su questa forma

di narrazione intermedia e cercano di capire se esista una “poetica preliminare”40 che sta

alle spalle delle nuove tendenze narrative che sempre di più si diffondono con 39 La struttura ludica è come la struttura narrativa: è una sorta di “linea guida” da cui si parte per far poi dipanare “gli eventi”, siano essi

narrazioni che azioni. Sono comunque strutturate, perché sì, il giocatore ha libertà, ma questa libertà deriva proprio dalla struttura all’interno della quale le sue azioni sono inserite. Senza struttura, in effetti, non esiste gioco, sia nel virtuale che nel reale. Le regole non sono altro che una struttura “rudimentale”. Poi, il buon “gioco” è quello che nasconde il più possibile questa struttura e fa percepire il tutto come un fluire armonico.

40 Mateas, Michael (2004) “A Preliminary Poetics for Interactive Drama and Games”, in Wardrip-Fruin, op. cit.

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caratteristiche quali la pluralità di prospettive, possibilità di scelta, ruolo attivo del

fruitore-giocatore e così via e se, quindi, esiste una base comune da cui le narrazioni

digitali traggono le proprie mosse, per poi differenziarsi in molteplici “generi” e “modi”.

È il secondo capitolo a concentrare le opinioni della scuola che viene definita dei

“ludologi” e di cui fanno parte esponenti di spicco come Espen Aarseth, Markku

Eskelinen e Stuart Moulthrop. Fin dalla pubblicazione, nel 1997, del suo lavoro più

incisivo, ossia Cybertext, Aarseth ha chiarito non solo la propria posizione nei confronti

dell’analisi e dello studio dei videogame, ma ha anche “fatto il punto” sul concetto di

testo digitale (che sia esso un videogioco, un ipertesto o poesia sperimentale):

l’ergodicità è l’elemento chiave dei testi interattivi ed è secondo i criteri dell’interattività

e della simulazione che questi testi vanno analizzati. I ludologi si distaccano

prepotentemente dall’approccio che fino ad allora era stato narrativo-semiotico e

concentrano la loro attenzione sul sistema di azione e risposta che intercorre tra il

videogioco e il videogiocatore (o tra l’ipertesto e il lettore attivo, e così via). La

“situazione” videoludica, il tempo, lo spazio, la possibilità di interagire con l’ambiente e,

in pratica, l’esperienza di simulazione intrapresa e vissuta in modo particolare e

soggettivo da ogni giocatore diventano gli elementi costitutivi del gioco.

Paradossalmente, la trama narrativa, le vicende e la caratterizzazione dei personaggi

vengono considerate come “accessorie”, una sorta di cornice che serve a

contestualizzare la situazione ludica ma che non modifica né scalfisce le dinamiche di

interazione. La tendenza di Aarseth, ma anche degli altri ludologi, a una spiccata

preoccupazione nonché avversione per l’approccio narratologico ai Game Studies è

dovuta al timore che le discipline già consolidate come la narratologia, la semiotica, la

critica letteraria e così via imprimano un’impronta indelebile e troppo profonda

sull’approccio che gli studenti e gli studiosi, nonché i ricercatori e gli accademici, stanno

cominciando ad applicare nell’analisi delle dinamiche ludiche. I ludologi ritengono che

la ricezione, l’interpretazione e l’assimilazione da parte del giocatore delle dinamiche di

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un videogioco passano in misura minima, se non addirittura affatto, dall’elemento

narrativo e risiedono solamente nell’aspetto ergodico-interattivo. La simulazione non è

la ricontestualizzazione e la riproposizione di ambienti e situazioni note, con

meccaniche precipue del mezzo su cui viene effettuata, ma un insieme di “regole” e

“dinamiche” da cui il giocatore attinge tutto: il coinvolgimento, la performance, la

memoria di questa esperienza sono legate alla risposta interattiva e non agli elementi

narrativo-emotivi. Questa, per lo meno, è la posizione iniziale e anche alquanto

“radicale” dei ludologi che, per contrapporsi all’establishment consolidato delle

discipline accademiche pre-esistenti hanno dato un’interpretazione radicale e, in alcuni

casi, eccessivamente ideologizzata. Aarseth stesso ha affermato:

“My warnings about narrativism and theoretical colonialism might seem unduly harsh and even militant. Why not let the matter resolve itself, through scholarly, logical dialogue? The reason for this vigilance, however, is based on numbers. The sheer number of students trained in film and literary studies will ensure that the slanted and crude misapplication of “narrative” theory to games will continue and probably overwhelm game scholarship for a long time to come. As long as vast numbers of journals and supervisors from traditional narrative studies continue to sanction dissertations and papers that take the narrativity of games for granted and confuse the story-game hybrids with games in general, good, critical scholarship on games will be outnumbered by incompetence, and this is a problem for all involved. Hopefully this is just a short-lived phase, but it certainly is a phase we are in right now.”41

Aarseth stesso ammette che concentrare tutta questa attenzione a tener vivo un

dibattito tra due scuole di pensiero e di critica può apparire inutile. Nonostante la sua

preoccupazione, in effetti, lo schieramento così netto degli studiosi era decisamente

destinato ad “ammorbidirsi”. Le posizioni “estreme”, dall’altro lato della spirale, di Janet

Murray, strenua e convinta sostenitrice della “trama a ogni costo nei videogiochi” era

infatti una posizione non realmente motivata, quanto piuttosto ideologicamente

schierata: per garantire ai videogiochi una “dignità”, anche un’importanza artistica,

forse, e per diffondere il concetto che anche i giochi hanno alla loro base una “struttura

nobile”, Janet Murray ha cercato di individuare una trama in ogni videogame,

41 Aarseth, Espen (1997) “Genre Trouble: Narrativism and the Art of Simulation”, in First Person, op. cit. p. 54

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motivando le dinamiche interattive con rocambolesche quanto fantasiose

argomentazioni. L’esempio più noto e anche il più “fallimentare”, che viene

costantemente additato quale contraddizione interna della teoria della Murray, è il

tentativo della studiosa di ricostruire una trama narrativa per il videogioco Tetris. Senza

negare che inevitabilmente il contesto sociale e il background culturale degli ideatori del

puzzle game più diffuso del mondo abbiano avuto una responsabilità nell’ideazione

delle dinamiche interattive che stanno dietro al videogioco, è immaturo e forzato

cercare di identificare l’alienazione del cittadino russo che vive la sua vita “incasellato”

in una sovrastruttura che lo ingloba a forza in quei mattoncini che cadono inesorabili

dall’alto che il giocatore deve posizionare in modo efficace e ordinato sullo schermo. La

visione estrema della Murray non è, tuttavia, la vera prospettiva dei narratologi. In

effetti, studiosi come Jesper Juul, ad esempio, o come Henry Jenkins o Erik Zimmerman,

non parlano mai prettamente e unicamente di “teorie narratologiche” o di critica

letteraria da applicare in modo pedissequo al testo videoludico, non cercano di

individuare e analizzare pattern narrativi all’interno di qualunque opera, ma cercano, a

mio parere correttamente, di individuare quelle analogie a livello strutturale che

possono rendere alcuni videogiochi specifici e alcune parti specifiche di questi videogiochi

assimilabili o comparabili a strutture già presenti in contesti narrativi. Jenkins, ad

esempio, parla del game design come di un’architettura narrativa e cerca di inscrivere il

suo contributo a metà strada tra i narratologi e i ludologi. La prospettiva di Jenkins è

più che ragionevole e ammette sì l’idea che i giochi abbiano intenzioni narrative, ma

anche che non tutti i giochi raccontano storie, afferma che l’analisi narrativa non deve

mai essere prescrittiva, anche se alcuni (come la Murray, appunto) predicano in tal

senso. Il nodo centrale del discorso di Jenkins è che “a story is less a temporal structure

than a body of information”42 e che il fulcro della “narrazione” videoludica non sta

tanto nella sequenzialità o unicamente nella trama (in inglese, plot) quanto nella storia

come insieme di informazioni che l’utente può recuperare a livello spaziale o, meglio, 42 Jenkins, H. (2004) “Game Design as Narrative Architecture” in First Person, op. cit.

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interattivo, ossia attraverso l’esplorazione e l’interazione con lo spazio di gioco che si

trova a disposizione. Il concetto di spazio, quindi, e di esplorazione, la simulazione della

ricerca e l’apprendimento attraverso il recupero degli elementi “sparsi” all’interno del

gioco, a cui è il giocatore stesso ad attribuire un senso, diventa centrale, ancora più del

concetto di narrazione stessa. Non è la narrazione in sé ad essere importante, quanto il

percorso che il videogiocatore si trova a compiere per ricostruire questa narrazione

“spaziale” o distribuita43. Un passo ulteriore viene compiuto da Eriz Zimmerman che

affianca al concetto di gioco e di attività ludica, quella di narrazione e interattività.

Partendo dall’idea più nota e dibattuta, quella della narrazione, Zimmerman dichiara:

“My strategy of discipline for the term narrative is to present a broad and expansive understanding of the concept, to think beyond the normal limits of what we might consider narrative, to help uncover the common tuf of stories and games.”

E ancora, citando J. Hillis Miller44

“1. A narrative has an initial state, a change in that state, and insight brought about by that change. You might call this process the ‘events’ of a narrative.

2. A narrative is not merely a series of events, but a personification of events though a medium such as language. This component of the definition references the representation aspect of narrative.

3. And last, this representation is constituted by patterning and repetition. This is true for every level of a narrative, whether it is the material form of the narrative itself or its conceptual thematics.”

È partendo da queste basi teoriche (anche abbastanza generali) che Zimmerman passa

a definire i criteri della narrativa videoludica: se la storia e il gioco sono due elementi

distinti e se questa storia e questo gioco vengono “intersecati” per creare qualcosa di

nuovo, l’obiettivo non è quello di replicare forme già esistenti di narrazione, ma di

inventarne di nuove. Nel 2004 (anno di pubblicazione del saggio di Zimmerman), la

situazione videoludica appariva, forse, ancora immatura, e sembrava che i videogiochi

soffrissero di una strana forma di “debito” nei confronti della narrazione

43 cfr. ibid. p. 124 44 Miller, J. Hillis (1995) “Narrative”, in Critical Terms for Literary Study, University of Chicago Press, Chicago

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cinematografica (sia da un punto di vista visivo che prettamente di trama). Oggi, nel

2008, i ruoli si sono nettamente invertiti e il cinema è diventato quasi un linguaggio

“codificato” e standard45, mentre i videogiochi hanno preso il sopravvento e sono la

vera forma di “avanguardia” e sperimentazione, sia culturale che economica. Pur

contenendo, a volte in ampia misura, le cosiddette cut scene*, ossia spezzoni non

interattivi e prettamente cinematografici, il videogioco mostra ancora, grazie a tutte le

potenzialità non esplorate dell’interattività, di poter percorrere diversi “rami evolutivi” e

di potersi differenziare come il cinema, ad esempio, ha probabilmente già fatto. Così

come si sono sviluppati linguaggi visivi nuovi per parlare a ceti sociali diversi, a generi,

gruppi di età e culturali differenti, così come i ritmi cinematografici variano in modo

costante e prevedibile a seconda del genere, allo stesso modo tutta questa varietà è

ancora inaspettata, nei videogiochi, tutte queste strategie sono ancora da scoprire.

L’elemento “tridimensionale” fornito dalla possibilità di interazione tra l’uomo e lo

schermo, inoltre, ampliano a dismisura le possibili strade che il mondo dei videogame

può percorrere. Da una passività “vecchio stampo”, più legata alla ricezione e alla

rielaborazione, si può facilmente passare a un’interattività spinta, in cui non solo

l’accumulo e l’interpretazione di informazioni è importante, ma la personalizzazione

dell’esperienza e la fisicità stessa del giocatore diventano fondamentali e

imprescindibili. Allo stesso modo, dall’interattività il discorso si può spostare alla

narrazione videoludica che, fino a qualche anno fa era ancora “traballante” e che

poteva contare solo su rare perle di eccellenza (la saga di Metal Gear Solid ne è un

esempio, ma anche quella di Silent Hill o i vari episodi di Zelda), mentre oggi acquisisce

un ruolo indiscusso, seppure ancora lontano dall’essere codificato. E così le storie si

raccontano in svariati modi, con le parole, con le immagini con il gameplay46*.

45 Perlomeno i linguaggi del cinema occidentale e, più in generale, hollywoodiano sono ormai diventati un codice ben acquisito dagli

spettatori. 46 ll concetto di narrazione laterale e trasmessa attraverso diverse strategie e modalità, non canonizzata o ben codificata, sarà

l’argomento del Capitolo 3 e dell’analisi dei testi videoludici presi in esame.

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Tornando poi al concetto di ergodicità di Aarseth e recuperando la centralità della

narrazione, Zimmerman cerca di mostrare come l’integrazione di quattro elementi porti

al potenziamento (e non allo stallo, come spesso sostenuto dai ludologi) del

videogame stesso. L’interattività videoludica (e, in generale, legata ai media digitali),

infatti per Zimmerman è caratterizzata da quattro modalità,

1- Cognitive Interactivity; or Interpretative Participation with a Text 2- Functional Interactivity; or Utilitarian Participation with a Text 3- Explicit Interactivity; or Participation with Designed Choices and Procedures in

a Text 4- Meta-interactivity; or Cultural Participation with a Text47

Queste quattro tipologie di interazione mettono in chiaro come il giocatore possa

interfacciarsi al videogioco e come l’elemento cognitivo, quello funzionale, quello

esplicito o quello più meta-interattivo possano alternarsi o mescolarsi. Se la Cognitive

Interactivity infatti stimola una risposta psicologica, emotiva ed ermeneutica ed è legata

principalmente al contenuto del testo e alla memoria che di quel contenuto permane

nella mente del giocatore, la Functional Interactivity riguarda maggiormente le

dinamiche con cui il testo è fruito. Il game design in questo caso diventa centrale, in

quanto non conta tanto il contenuto quanto le modalità secondo cui questo

contenuto è esperito. La Explicit Interactivity è l’interazione intesa nel senso superficiale

del termine, ossia la rispondenza da parte del fruitore alle regole esplicite del gioco:

l’adesione a un linguaggio, la scelta di un determinato aspetto, l’organizzazione dei

materiali a disposizione e così via. Infine, ma Meta-Interactivity consiste nell’esperienza

interattiva esterna a un singolo testo. Un esempio di cui abbiamo molteplici prove nella

cultura contemporanea è il processo bottom-up* di formazione dei contenuti (che siano

culturali o di intrattenimento): i lettori-fruitori-giocatori si appropriano dei contenuti,

delle meccaniche, delle dinamiche interattive e partecipano allo sviluppo e alla

modifica di quegli universi on-line che prima sperimentavano passivamente. Queste 47 Zimmerman, Erik (2004) “Narrative, Interactivity, Play, and Games: Four Naughty Concepts in Need of Discipline”, in First Person, op. cit.

p. 158

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quattro categorie, ovviamente, non sono nettamente distinte e si influenzano e si

ritrovano facilmente nel vari contesti (ludici, artistici, comunicativi) che riguardano i

media digitali.

Allo stesso modo, Zimmerman affronta il concetto di play, che è fortemente legato alla

connotazione del verbo inglese to play e che spazia quindi dal concetto di giocare a

quello di suonare a quello di utilizzare uno strumento elettronico. Ancora, con una

normalizzazione del concetto di gioco, Zimmerman ci aiuta a capire in che modo

questo termine sia strettamente connesso con quello di interattività e narrazione.

“Category 1: Game Play, or the Formal Play of Games

This is the focused kind of play that occurs when one or more players plays a game, whether it is a board game, card game, sport, computer game, etc. (…)

Category 2: Ludic Activities, or Informal Play

This category includes all of those nongame behaviors that we also think of as “playing”: dogs chasing each other, two college studentes tossing a frisbee back and forth, a circe of children playing ring-around-the-rosy, etc. Ludic activities are quite similar to games, but generally less formalized.

Category 3: Being Playful, or Being in a Play State of Mind

This broad category includes all of the ways we can ‘be playful’ in the context of other activities. Being in a play state of mind does not necessarily mean that you are playing – but rather that you are injecting a spirit of play into some other action. For example, it is one thing to insult a friend’s appearance, but it is another thing entirely if the insult is delivered playfully.”48

Il gioco consiste nel movimento libero all’interno di una struttura rigidamente

strutturata. Esiste sia grazie che nonostante la struttura sistemica che lo contiene. Il

gioco è, in pratica, la relazione tra gli elementi di un sistema, sia regolata da regole che

regolata dall’infrazione di quelle regole. Il gioco è strettamente legato sia alla

narrazione che all’interattività perché è proprio la sfida che il creatore di una struttura

ludica intraprende quella di costituire un gioco che permetta al giocatore di esplorare,

sia a livello narrativo che interattivo, la struttura ludica e che quindi consenta al fruitore

un’indipendenza e una libertà pur all’interno di un contesto limitato e vincolato.

48 Ibid. p. 159

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Ed è da questo concetto di “ludico” che si passa al concetto di “gioco” vero e proprio,

caratterizzato da sei attributi tendenzialmente imprescindibili, che entrano

alternativamente “in gioco”, appunto, quando si parla di “giocare”:

“Voluntary

If you’re forced against your will to play a game you’re not really playing. Games are voluntary activities.

Interactive

Remember this word? It’s referencing our third mode of interactivity: explicit participation.

Behavior-Constraining Rules

All games have rules. These rules provide the structure out of which the play emerges. It’s also important to realize that rules are essentially restrictive and limit what the player can do.

Artificiality

Games maintain a boundary from so-called ‘real life’ in both time and space. Although games obviously do occur within the real world, artificiality is one of their defining features. (…)

Conflict

All games embody a contest of powers. It might be a conflict between two players as in chess; it might be a contest between several teams, as in a track meet; a game might be a conflict between a single player and the forces of luck and skill embodied in solitaire; or even a group of players competing together against the clock on a game show.

Quantifiable Outcome

The conflict of a game has an end result, and this is the quantifiable outcome. At the conclusion of a game, the participants either won or lost (they might all win or lose together) or they received a numerical score, as in a videogame. This idea of a quantifiable outcome is what often distinguishes a bona fide game from other less formal play activities.”49

Le tipologie della quarta categoria sono quindi definite: è sempre più al centro

dell’attenzione, nell’analisi di Zimmerman, la struttura di forte interrelazione del gioco

con l’insieme di regole che lo compongono, con l’atteggiamento di chi affronta il gioco,

con le dinamiche di assimilazione e interiorizzazione dell’esperienza di gioco stessa. Le

regole, la struttura, l’azione del giocatore, l’interrelazione del gioco con altri ambiti

(come quello cognitivo, culturale, sociale) non sono quindi elementi nettamente

distinguibili, sebbene chiaramente individuabili, e fanno tutti insieme parte di quella

49 Ibid. p. 160

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griglia interpretativa ideale che si deve tenere presente quando si affronta l’analisi di

un processo ludico.

Questa descrizione puntuale dei quattro aspetti più controversi, nella diatriba tra

ludologi e narratologi portano in luce il fatto che i diversi concetti e le diverse “parti

costitutive” del videogame hanno strutture proprie, insiemi di regole rigide, norme e

canoni ben codificati, ma nell’unione di queste parti, i sistemi di regole vengono a

sconvolgersi e riconfigurarsi. Allora, quelle che sono le regole della narrazione

subiscono una contaminazione da parte delle dinamiche ludiche, l’interattività si mette

al servizio del gioco e dell’intrattenimento (non, ad esempio, della comunicazione o

dell’arte fine a se stessa): nel processo di riconfigurazione, nascono regole “nuove” che

è il caso di definire di volta in volta. Come nel caso dei riferimenti iniziali alla Poetica di

Aristotele e al recupero di un certo atteggiamento basato sulla storia della critica dei

generi, ma innovato e adattato ai videogame, così anche nel caso delle norme

narrative, interattive e ludiche che regolano i videogiochi possiamo attingere a

strutture pre-codificate, ma dobbiamo sempre applicarle in modo consapevole a

medium a cui facciamo riferimento.

La diatriba tra ludologi e narratologi è stata quindi, piuttosto, una scusa per chiarire e

definire gli ambiti di influenza interessanti per i Game Studies ma, a differenza di

quanto afferma Aarseth, non si è mai corso un reale pericolo di vedere la critica

videoludica tutta rivolgersi unicamente e rigidamente a strumenti di discipline

precedenti. A seconda del proprio ambito di interesse, ognuno affronterà il videogioco

con gli strumenti più adatti. La critica videoludica, un po’ come sosteneva Genette

riferendosi alla critica letteraria, ha molte analogie con il bricolage: è un processo che

prevede l’utilizzo mirato di determinati concetti, applicati a seconda della circostanza.

La critica letteraria, in effetti, ha fatto proprio questo insegnamento, e la nascita e il

proliferare delle teorie e dei modi comparatisti ne è uno specchio: non si tenta più

unicamente di definire un metodo unico per affrontare l’analisi teorica dei videogame,

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ma si accettano e incoraggiano contributi multidisciplinari. Non si tratta solo di

complessità del mezzo: il videogioco è sì articolato, ma non più di altri artefatti,

costrutti o sistemi umani. Siamo già abituati ad analizzare un oggetto critico da

prospettive plurime: l’emergenza legata al videogioco sta nel fatto che

“Viviamo in tempi interessanti: il medium videogioco comincia a essere abbastanza maturo da potersi permettere il lusso di riflettere sulla natura del suo linguaggio e porsi delle domande esistenzialistiche. Il tempo dei giochini è finito. È ora di iniziare a comunicare con consapevolezza.”50

Si ha la percezione, quindi, di un giro di vite nelle necessità critiche: ad esempio, stanno

radicalmente diminuendo le riflessioni sul medium videogioco in quanto “arte”, perché

la dignità acquisita dal mezzo va al di là del fatto che venga o meno riconosciuto come

oggetto artistico51. Il numero di aprile 2008 dell’edizione italiana di una nota rivista

inglese, EDGE, riporta un contributo che cerca di fare un po’ il punto sulla situazione

della diatriba tra narratologi e ludologi: Matteo Bittanti scrive un articolo dal titolo

“Racconto e gameplay*: separati alla nascita” in cui mette in luce come le posizioni di

alcuni game designer contemporanei tendano a sottolineare che l’assenza di

integrazione tra narrazione e meccaniche di gioco non sia dovuta a una mutua

esclusività di questi due elementi, ma a limitazioni di chi concepisce i giochi. Il tema è

“sempre caldo, anzi, rovente”, tant’è che il tema della Game Developer Conference tenutasi

in California tra il 18 e il 22 febbraio 2008 è stato “The Future of Story in Game Design”.

I contributi contrastanti di due designer quali Matthew Karch e Denis Dyack mostrano

due approcci produttivi diversi. Scrive Bittanti:

“Per quest’ultimo (nda: Karch) la componente narrativa di un videogame è del tutto ridondante. ‘La storia è subordinata al gameplay e non viceversa. È una questione di priorità’. Per Dyack, questo atteggiamento è sintomatico di un equivoco di fondo nonché la causa principale della marginalizzazione del videogame nei bassifondi della cultura.

50 Recchioni, Roberto (2008) “Mosche da bar” in GAME PRO di aprile, n. 11, 2008 51 Anche perché, oggettivamente, è difficile elevare un intero medium ad arte: è più logico e ragionevole individuare quali prodotti,

ideati o realizzati per quel mezzo, emergono e si configurano quali “opere d’arte” (sempre che questo avvenga), evitando tuttavia di concentrarsi sullo studio e l’analisi, ma anche sulla concezione e produzione di videogame avendo solo il criterio dell’opera artistica come riferimento. Il videogioco è, ora più che mai, sperimentazione, e deve evitare di “adagiarsi” in una culla di definizioni. Deve, piuttosto, continuare la sua strada di unificatore di linguaggi e di produttore di nuove strategie interattive, che vengono poi inevitabilmente trasferite e recuperate anche da strutture non tipicamente videoludiche.

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‘Gameplay e storia non sono antitetici: non ha senso attribuire al medium dei limiti che in realtà sono del designer’. Dyack ritiene che il videogame stia oggi vivendo una profonda trasformazione, un’evoluzione paragonabile a quella che il cinema ha sperimentato tra gli anni trenta e quaranta, quando è passato da mera forma di intrattenimento a espressione artistica a tutti gli effetti. ‘La tradizionale distinzione in generi (RTS, RPG, FPS e così via)’, profetizza Dyack, ‘è destinata presto a scomparire, dato che una simile ripartizione enfatizza il datum tecnologico (per esempio, il ruolo della macchina da presa virtuale negli sparatutto in soggettiva) rispetto alle componenti narrative. Ma la tecnologia sta diventando invisibile dato che i designer hanno oggi a disposizione un potenziale di calcolo enorme se paragonato a quello di pochi anni fa’.”52

La vera e propria lite intercorsa tra i due designer di spicco è solo l’indice di

un’insoddisfazione crescente. Se, finora, sono stati più i casi in cui la storia era solo un

“collante” posticcio, applicato al game design per fornire un collegamento tra un livello

e l’altro, ora ci si sta rendendo conto che è vitale coinvolgere lo sceneggiatore sin dalle

prime fasi della produzione.

Viene da pensare, quindi, che quando Gonzalo Frasca scriveva, nel 2003, il suo saggio

“Ludologists love stories, too: notes from a debate that never took place”, per gli atti

del convegno DIGRA 2003, non fosse quindi lontano dall’intuire quello che stiamo

realizzando oggi, con cinque anni di ritardo, ossia che i ludologi e i narratologi non

sono mai stati realmente in guerra e che quello che ognuno dei due gruppi cercava di

comunicare era la legittimità di affrontare un’analisi videoludica da prospettive diverse,

che fossero nuove (quelle dei ludologi) o riadattate. Citando la Marie-Laure Ryan, Frasca

riporta:

“The inability of literary narratology to account for the experience of games does not mean that we should throw away the concept of narrative ludology; it rather means that we need to expand the catalogue of narrative modalities beyond the diegetic and the dramatic, by adding a phenomenological category tailor-made for games”53

Questa diatriba che continua a distanza di anni, è esemplificativa in realtà dello stato

degli studi videoludici, almeno nelle loro fasi iniziali: le diverse scuole di pensiero e di 52 Bittanti, Matteo (2008) “Racconto e gameplay: separati alla nascita” in GAME PRO di aprile, n. 11, 2008 53 Frasca, Gonzalo, “Ludologists love stories too: notes from a debite that never took place.”, in DIGRA Proceedgins (2003)

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approccio alle opere non portano a un vero e proprio interlocutorio, a un dialogo tra le

parti che abbia come scopo finale realmente quello di trovare una metodologia

coerente ed efficace, non universale, ma che si adatti di volta in volta all’oggetto di

analisi. Spesso il contrasto sembra essere “fine a se stesso”, volto all’affermazione di

una scuola (in senso lato) rispetto a un’altra, alla “specializzazione” dei diversi istituti di

ricerca in un campo anziché in un altro, quasi come se lo scopo fosse non sovrapporsi,

ma coprire individualmente quei settori ritenuti vacanti della critica e fornire un

contributo appartenente a un determinato e ben noto filone.

Questo è probabilmente un processo fisiologico nelle prime fasi dell’affermazione di

una disciplina, ma è necessario che vada poi “oltre”: non si tratta di scendere a

compromessi, non si tratta di fare un pastiche di letteratura critica per comprendere

ogni prospettiva. Si tratta, piuttosto, di seguire lo stesso percorso della critica letteraria,

ad esempio, e che dopo aver definito in modo netto una serie di modalità, prospettive

e metodologie distinte e distanti, dopo averle viste affermare individualmente, è

passata all’utilizzo non più esclusivo di tali strumenti critici, ma a un approccio aperto

che utilizzasse di volta in volta gli strumenti analitici più adatti. Non si analizza più,

quindi, un’opera, solo in base a un criterio, a una “scuola” o a un metodo: piuttosto,

ogni critico o appassionato che si avvicini a quell’opera sfrutta gli strumenti che ritieni

più adeguati proprio in ragione dell’opera stessa. Non si cerca più di dimostrare a priori

l’intertestualità di un’opera, o di analizzarla unicamente da un punto di vista

strutturalista, o tematico, o linguistico, e così via.

A tale proposito, è necessario spendere qualche parola su quello che viene considerato

il “cugino” più prossimo del videogioco, ossia il cinema. Per via della loro struttura

prettamente visiva e per le forti e mutue influenze che questi due medium hanno

reciprocamente avuto (e continuano tuttora ad avere) i parallelismi e le analogie,

nonché il recupero di certi strumenti o approcci dei Film Studies, sono quasi d’obbligo. È

importante, tuttavia, mantenere uno sguardo critico e differenziare le due tipologie di

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narrazione e interattività (cinema e videogame) perché sotto l’apparenza di diverse

analogie e similitudini si celano profonde e, per certi versi, incolmabili, differenze.

Critica videoludica e Film Studies Prima di approfondire la questione del legame che intercorre tra i videogiochi e il

cinema e, di conseguenza, tra la critica videoludica e quella cinematografica attraverso

contributi di critici e studiosi, mi preme sottolineare come da diversi anni oramai non

solo la critica e la stampa specializzata, ma anche la stampa generalista e gli stessi

quotidiani dedichino sempre più spazio e riconoscano l’importanza sempre maggiore

della contaminazione che i videogiochi hanno avuto sui media pre-esistenti come

letteratura e cinema.

Nel caso del cinema, in particolare, il riconoscimento della mutua influenza è stato

possibile in quanto sia il cinema che i videogiochi sono prodotti dell’intrattenimento

cosiddetto “popolare” e vengono percepiti come “cugini”, se non addirittura fratelli

anche dai non-specialisti di settore: entrambi sfruttano ampiamente una chiara ed

evidente componente visiva, il cinema d’azione e fantastico-fantasy o addirittura i

lungometraggi animati vengono facilmente assimilati, sia a livello stilistico che

contenutistico, ai videogame, e, infine, i numeri che riguardano sia le spese di

produzione e di incasso dei colossal, sia nel caso dei videogiochi che in quello dei film,

tendono ad avvicinarsi sempre più.

Non è un caso, quindi, che già nel giugno del 2006 un quotidiano nazionale come La

Repubblica dedicasse tutta la prima pagina della sezione “Spettacoli” all’uscita

dell’ennesimo film tratto dai videogiochi. Nel caso specifico, il giornalista si riferisce

all’uscita nelle sale di Silent Hill, film tratto dal primo episodio della saga videoludica e

diretto dal regista Christopher Gans.

“Entro il 2010 quella dei videogiochi diventerà la principale forma d’intrattenimento nel mondo, e il mercato dei ‘games’, dopo aver superato già da qualche anno quello del

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cinema, si avvia a superare anche quello della televisione. (…) L’intreccio tra un linguaggio e l’altro (NdA: cinematografico e videoludico, si intende) è diventato sempre più stretto, moltissimi videogame hanno trovato una nuova vita nel cinema, e quasi tutti i film di maggior successo hanno avuto una versione ‘interattiva’ trasformandosi in videogioco.”54

Le cifre riportate dal giornalista e riferite a uno studio effettuato dalla società Proximity

parlano (ancora, siamo nel 2006) di 30 miliardi di dollari annuali destinati a diventare 60

nel 2010, di incassi triplicati per uscite di “blockbuster videoludici” rispetto a concorrenti

cinematografici (Spiderman ha incassato 40 milioni di dollari nel giorno del lancio,

mentre Halo II ben 125), le console* PlayStation 2 installate nel 2006 erano 100 milioni in

tutto il mondo.

Una buona fonte e decisamente indicativa dell’andamento del mercato videoludico è il

report della Nielsen Interactive Entertainment55 commissionato dalla ISFA (Interactive

Software Federation of Europe), che riguarda sia il mercato generale dei videogame in

Europa sia quello più specifico dell’on-line gaming. Dall’utilizzo alle fasce di età e di

sesso, dal digital downloading alla pirateria, dal PEGI rating alle classificazioni “di genere”

dei videogiochi, questo report lascia trasparire dati significativi, come l’incredibile

incremento di famiglie che possiedono una o più console* per l’intrattenimento

digitale, l’ampliamento del range di età dei giocatori (il core target* sembra passato

dall’età dell’adolescenza a quella adulta, dai 25 ai 40 anni), la diversificazione in generi e

meccaniche ludiche dei prodotti presenti sul mercato, per andare sempre più incontro a

questa “fuga dalla nicchia” del videogioco, che sta passando da esclusiva per Pro

Gamers (Professional Gamers) a Games for Everyone, ossia a giochi per tutta la famiglia e

quindi, al di là degli slogan, a un mercato che può potenzialmente raggiungere tutti.

Anche il rapporto sull’ On-Line Gaming è un documento fondamentale da tenere in

considerazione quando si parla del “sorpasso” del mondo dei videogiochi su quello del

cinema: dall’attrattiva ai rischi dei giochi on-line, dalle meccaniche di coinvolgimento ai

54 Assante, Ernesto “Videogiochi & Cinema” in La Repubblica, martedì 27 giugno 2006 55 ISFE Consumer Research – February 2007, by Nielsen Interactive Entertainment

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I videogiochi: Paggiarin Valentina modelli narrativi e rimediazioni tecnologiche Dottorato XXI Ciclo - Università IULM

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casi “clinici” di dipendenza o, addirittura, di cura fornita dai videogames, questo

secondo report ci mostra come l’impatto dei videogiochi non sia solo commerciale o

legato alla cosiddetta cultura popolare, ma come va a modificare e a far “evolvere”

quello che qui viene chiamato il “virtual lifestyle” verso direzioni ben precise. La

necessità di intrattenimento, di “fuga” anche, di evasione, di fantasia e immaginazione

o di conoscere il mondo attraverso esperienze e storie altrui è un’esigenza immortale,

per lo spirito umano, riflesso anche dalle forme in continuo divenire secondo cui

questo intrattenimento viene fruito. E, in questo periodo storico, sono effettivamente

cambiate. Autorialità condivisa, pluralità di prospettive, finali alternativi, possibilità di

apprendimento innovative: questi sono i nodi chiave che spingono milioni di persone

a preferire un sistema interattivo rispetto a un altro.

La frequenza di resoconti, report e analisi che parlano entusiasticamente della ripresa (o

addirittura della nascita vera e propria) di un mercato videoludico di massa, è oggi

radicalmente maggiore delle analisi sul cinema “vecchio stampo”, che non viene più

percepito in effetti come un medium da esplorare ma come un veicolo codificato di

comunicazione e intrattenimento. In effetti, Greenaway56 stesso ha affermato che

“La morte del cinema risale al 31 settembre 1983, quando il telecomando ha fatto la sua apparizione nei salotti, perché oggi il cinema deve essere un’arte interattiva, multimediale.”57

Con questa ennesima dichiarazione ci accorgiamo che non solo la “letteratura” sembra

additare la cultura interattiva (e i videogiochi, tra gli altri) quali fautori della sua morte,

ma anche il cinema. A quanto pare,

“il cinema contemporaneo si limita a raccontare ‘favole della buona notte per adulti’ e a ‘illustrare romanzi di Jane Austen’ – una totale perdita di tempo. Per superare l’impasse, ha concluso Greenaway, occorre prendere ispirazione dai nuovi media. Dichiarare che il cinema è ‘morto’ in seguito all’introduzione del telecomando presuppone che il medium, per sua

56 La prospettiva di Greenaway è interessante, tanto più se è inserita nella panoramica della sua opera: da autore e cineasta

contemporaneo, forte sperimentatore, Greenaway ha più volte mostrato, attraverso le sue opere, la commistione tra i generi e, in particolare, tra i mezzi di comunicazione. Il suo sperimentalismo è volto al superamento dei singoli elementi che costituiscono l’opera cinematografica, dai personaggi alla narrazione, alla cornice del prodotto cinematografico, e alla fruizione multimediale e multidimensionale.

57 In Bittanti, Matteo (2008) Schermi Interattivi, Introduzione di Matteo Bittanti, Meltemi editore, Roma, p. 9

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natura, precluda al fruitore ogni possibilità di intervento: l’Autore mantiene il controllo totale del testo. Dunque il cinema – che rifiuta a priori qualsivoglia ‘interfaccia di controllo’ si colloca agli antipodi del videogame.”58

Questa prospettiva può sembrare un po’ estrema ma racchiude in effetti una dicotomia

troppo a lungo ignorata in favore di analogie di comodo. Prima parlavo di una chiara

ed evidente componente visiva, se non tematica, che lega spesso il cinema ai

videogiochi e che facilita la loro assimilazione: se da un punto di vista superficiale ed

epidermico questa può essere un’analogia forte, a livello strutturale e contenutistico

tuttavia si notano discrepanze che si trasformano in veri e propri ostacoli in una

comparazione tra cinema e videogame. I criteri che di norma valgono per il cinema, la

riproduzione di determinati ritmi, l’utilizzo delle scene animate, tutto quello che è

fondamentale per la narrazione e per l’evoluzione delle vicende e dei personaggi si trova

in forte contrasto nei due linguaggi. Se nel cinema l’unico atto interattivo richiesto allo

spettatore è quello dell’interpretazione del messaggio, nel caso del videogioco il

fruitore deve letteralmente creare l’informazione che poi andrà a interpretare. Se le

scene clou nel cinema sono pure sequenze di suono e immagini a cui gli spettatori

assistono impotenti, nei videogiochi i momenti salienti sono quelli in cui il giocatore

deve prendere una decisione e contribuire, con la propria coscienza, all’evoluzione

narrativa. Se, ancora, nel cinema realmente riconosciuto come tale (e non nelle vuote

sperimentazioni di cinema d’avanguardia di fine ‘900) la narrazione e la trasmissione

dell’emozione sono due elementi fondamentali, nel videogioco passano in secondo

piano a favore di una più ampia costruzione di uno spazio-tempo all’interno della

quale il giocatore possa muoversi e, solo allora, costruire autonomamente la narrazione

e l’emozione più adeguata e che è più pronto a ricevere.

In che modo, quindi, si possono effettivamente ed efficacemente sfruttare gli strumenti

della critica cinematografica a vantaggio di un’analisi dei videogiochi? Innanzitutto, la

58 Ibid, pp. 9-10

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prospettiva cinematografica è, per sua natura, vicina a quella videoludica perché, a

differenza di quanto può essere una narrazione lineare, un romanzo, una raccolta di

poesie, il cinema è necessariamente un’azione corale, che deriva dall’impegno e

dall’ingegno di molte persone.

“Sono convinto che in ogni film si incrocino diversi percorsi e che ogni film sia il frutto di tutti questi elementi diversi. Il primo percorso è quello dell’autore o degli autori che hanno fatto il film: è la storia del regista, ma può essere anche la storia dello sceneggiatore o, magari, del produttore. In ogni caso, il film entra in relazione con una storia precedente, sia che faccia un passo avanti o uno indietro, una deviazione o un cambiamento, una novità o un ripensamento rispetto a quella storia. Il secondo percorso da tenere presente è quello del rapporto del film rispetto alla storia del cinema, nel senso che non posso far finta, ogni volta che vedo un film, di scoprire certe cose che magari il muto aveva già affrontato ed espresso molti anni fa. (…) Un terzo percorso a cui vorrei prestare attenzione è quello più generale della storia della cultura, della storia delle idee, per cui ci sono dei film che hanno un valore e un’importanza perché recuperano e trasmettono concetti rappresentativi di certi periodi e certi ambienti, un’attenzione che è molto chiara a chi si occupa di storia dell’arte o di critica letteraria.”59

I percorsi di cui parla Paolo Mereghetti in questo breve intervento, mostrano la natura

corale e inevitabilmente culturale del prodotto cinematografico: non solo il

concepimento e la realizzazione, ma anche (come in effetti ogni opera d’arte o di

intrattenimento) la chiara collocazione in un dato contesto storico, sociale. Un

elemento forte nell’approccio critico contemporaneo (perlomeno quello di matrice

italiana) è quello del relativismo nei confronti del testo cinematografico. Da una parte,

infatti, vengono inevitabilmente e giustamente individuate caratteristiche standard e

uniformi con cui affrontare l’analisi di un’opera cinematografica, e riportiamo come

esempio indicativo il concetto di genere, che era inizialmente puro e si è evoluto fino a

diventare, a partire dagli anni Ottanta “contaminato”. Le tipologie di inquadrature, le

convenzioni di linguaggio che aiutano lo spettatore nella comprensione dell’opera, i

ritmi, le citazioni sono tutti elementi codificati a cui ogni regista può decidere di aderire

o che può decidere di scardinare, ma da cui non può comunque prescindere. D’altra

parte, i critici contemporanei ci tengono a sottolineare come il cinema sia un “mezzo di 59 In Alberione, Ezio (a cura di) (1997) Di cosa parliamo quando parliamo di cinema. Riflessioni su cinema critica e quant’altro, Loggia de’

Lanzi, Firenze, pp. 29-31

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comunicazione di massa”, non indirizzato unicamente alla critica, ma teoricamente al

maggior numero di persone. Per questo motivo, critici come Gianni Canova affermano,

parlando di cinema:

“Non mi convincono molto le posizioni di coloro che feticizzano il testo, ritenendolo depositario di un senso unico, definito e definitivo, che a noi poveri spettatori, lettori, critici e interpreti toccherebbe scovare, utilizzando gli strumenti che il testo stesso mette a disposizione. A noi non spetterebbe altro compito che quello di smontare e decostruire il testo nella speranza di poter accedere al miracolo, alla rivelazione del senso depositato al suo interno dalla mano demiurgica dell’autore. Questo atteggiamento era dominante, in anni passati, nelle varie scuole strutturalistiche, semiologiche e semiotiche e aveva un suo rigore e un suo fascino intellettuale che, però, si sgretolava al momento in cui andava a cozzare contro il fatto che ogni testo è terreno d’incontro di una relazione a due: la soggettività creatrice dell’autore o degli autori e la soggettività del lettore, spettatore e critico che entra in contatto con quel testo.”60

Ancora una volta, come nel caso della critica letteraria, ci troviamo di fronte a un

atteggiamento relativista, figlio del postmodernismo, che preferisce considerare

fortemente il contesto in cui l’opera è creata, distribuita e fruita e applicare all’analisi di

quell’opera gli strumenti che il momento, la società e la cultura rendono più adatti, non

cercare forzatamente di dare una interpretazione assoluta dell’oggetto culturale in

questione. Questa tesi è sostenuta anche da un altro critico, Fernaldo Di Giammatteo,

che afferma:

“Quando si fa un’analisi, occorre avere a disposizione molti strumenti e utilizzarli al limite delle loro possibilità. Mi verrebbe da dire che è necessario arrivare ad una sorta di ‘eclettismo’, che non è un disperdersi nella genericità, dove tutto va bene. Anzi, in un momento di crisi radicale della cultura, fra il demenziale decostruzionismo, un ambiguo neostoricismo e un sedicente, velleitario postmodernismo, l’eclettismo può rappresentare una via d’uscita, la minuscola luce che si vede al fondo del tunnel nel quale ci muoviamo.(…) Ora, sono sempre più convinto che nel cinema si annidi – se posso dire così – uno spicchio di realtà culturale che riassume tutte le realtà circostanti. Il cinema è una specie di pozzo in cui è stato buttato e si continua a buttare tutto quello che accade, tutto quello che si pensa, tutto quello che si crede di essere. Nel fare questo, il cinema rivela la sua profonda costitutiva ambiguità.”61

60 Ibid. pp. 29-31 61 Ibid. pp. 119-120

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Le stesse “insofferenze” emerse dalla diatriba tra narratologi e ludologi sono, ancora

una volta, alla base della critica che si occupa della settima arte.

Le analogie con i videogiochi sono evidenti e pesanti: se non da un punto di vista

concreto, da un punto di vista ideale ci sono molti punti di contatto tra questi due

mondi. Innanzitutto, le difficoltà incontrate da entrambi i media nel farsi accettare

come veicolo di cultura e non solo di intrattenimento. Poi, l’approccio inizialmente

superficiale, dovuto proprio al fatto che il cinema/i videogiochi nascono come un

prodotto commerciale e quindi inizialmente sono ricettacolo di sperimentalismi e

mode. Solo in un secondo momento hanno cominciato a essere considerati mezzi per

veicolare una filosofia, un’idea, un messaggio o a essere specchio di una cultura e di

una società. Infine, non vanno dimenticate le difficoltà pratiche nel trovare strumenti

adeguati (inventarne di nuovi? Adattare quelli esistenti? Un po’ dell’uno, un po’

dell’altro?) per parlare di questi artefatti in modo sensato e appropriato sono state e

sono tuttora al centro dell’attenzione.

Se però nessuno si interroga più, veramente, su come analizzare un discorso

cinematografico, perché tutto sommato esistono precedenti tali e una consapevolezza

particolare che ci permettono di dare questo tipo di linguaggio come “acquisito” dai

più, per i videogiochi la strada è ancora lunga e impervia. Se il cinema ha

effettivamente smesso di sperimentare e si è adagiato su format e generi che, seppur

commisti e contaminati, sono ben noti, il videogioco sta ancora affrontando (o, per

meglio dire, sta concludendo) la fase di sperimentazione tecnica per passare a quella

contenutistica.

È per questo che ho ritenuto importante parlare, seppur brevemente, dei numeri che

oggi riguardano i videogiochi nell’ottica di una “comparazione” con il cammino del

cinema che, a sua volta, ha conosciuto un’esplosione e una diffusione dapprima lente,

poi sempre più vertiginose.

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Ritengo sia piuttosto inutile soffermarsi sul timore che i media nuovi soppiantino

quelli vecchi: la letteratura, ad esempio, esiste da sempre e sempre esisterà, il cinema ha

una storia decisamente più breve, ma a sua volta non tenderà a scomparire, casomai ad

adattarsi (un po’ come in effetti hanno fatto letteratura e narrazione): il videogioco è

solo uno dei nuovi media che cerca di rimediare nel modo più personale e originale

possibile quei linguaggi che ben padroneggiamo, dalla narrazione verbale, al

linguaggio per immagini, all’elemento interattivo, e così via.

Pertanto, non bisogna lasciarsi ingannare dalla corazza “di genere” che i videogiochi e il

cinema condividono, ma bisogna capire quanto a fondo è possibile arrivare, nella

comprensione di un’opera videoludica, con gli strumenti della cinematografia. In

precedenza ho affermato che il linguaggio cinematografico è ben codificato, diffuso e

accettato. L’interpretazione di una scena difficilmente prescinde dalla tecnica con cui è

girata: lo spettatore può riconoscere una sequenza onirica, un flashback, una sequenza

di azione o descrittiva anche solo in base alla tecnica con cui la scena è stata realizzata.

Automaticamente, lo spettatore imposta i suoi parametri critici in base al contesto

culturale di cui l’opera fa parte. Il realismo, la fantascienza, il cinema d’azione, la

commedia romantica, e così via, tutti questi generi hanno dei linguaggi specifici che

permettono al regista di sintetizzare in modo efficace la comunicazione verbale e

quella visiva (a favore di quest’ultima).

Il problema reale sta nel differenziare i reali casi di contaminazione videoludica, in cui il

linguaggio visivo e quello interattivo si mescolano in modo adeguato (sia sul grande

che sul piccolo schermo) e i casi in cui, invece, la riduzione cinematografica di un

videogioco o l’utilizzo di cut scene* e sequenze filmiche nei videogame sono

puramente funzionali alle vendite e “alla moda” del momento. Nel suo saggio

“‘Everybody Was Kung-Fu Fighting’. Picchiaduro, film videoludici e genere”, Judd Ethan

Ruggill suggerisce un confronto tra il genere “picchiaduro” dei videogiochi e i film

d’azione e di arti marziali. Pur riconoscendo le necessità di budget e incassi tipicamente

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hollywoodiane, Ruggill individua delle analogie bi-direzionali tra film d’azione e

picchiaduro:

“Ancor più curioso è il fatto che Hollywood abbia a lungo privilegiato un singolo genere – il picchiaduro – nel tentativo di catturare l’attenzione dei fuan e massimizzare così i profitti. (…) La ‘passione’ per Hollywood per i fighting games non è accidentale: fra tutti i generi videoludici, il picchiaduro è quello che meglio si presta a una traduzione filmica. Infatti, i picchiaduro hanno ripreso e rielaborato in forma elettronica molte convenzioni del kung-fu movie, convenzioni che offrono agli spettatori – o, nel caso dei videogame, ai giocatori – una ‘visione rassicurante’ dell’atto violento. (…) Questa fusione non solo rende gli adattamenti videoludici facilmente riconoscibili – e quindi commerciabili – ma produce una apparente confusione tra il testo filmico e quello ludico.”62

L’approccio di questa analisi, che mira a identificare le caratteristiche di un medesimo

genere “attraverso i media”, e quindi a capire come vengano recuperati e riproposti gli

stilemi del genere del “picchiaduro” all’interno dei film e, viceversa, come i videogiochi

importino visioni e prospettive tipiche del cinema di azione o di arti marziali, al di là dei

contenuti del genere trattato, è interessante perché partendo dal concetto di genere, si

allontana dal considerare unicamente la ripresa delle tematiche, e riconosce

l’importanza della diversa applicazione del concetto aarsethiano di ergodicità:

l’interazione, sia reale che cognitiva dello spettatore del film e del giocatore del

videogioco sono radicalmente di tipo diverso, in quanto

“la prassi di giocare richiede strategia, abilità, resistenza, coordinazione, concentrazione, immaginazione. (…) I giocatori non solo devono decodificare ‘le strutture conoscitive’ elaborate dagli sviluppatori (…), ma anche ricodificare queste strutture (o almeno parte di esse), modellando i mondi del gioco e i loro significati in accordo con la strategia, il gusto, lo stile di gioco, e altre risposte culturali acquisite che in generale tutti quei videogame possono offrire. I giocatori contribuiscono attivamente alla creazione del tessuto narrativo e delle strutture tematiche e ideologiche che determinano l’esperienza artificiale. Per converso, il film non è ergodico (…) nell’accezione di Aarseth. (…) ‘La lettura del testo non è impegnativa, in quanto non impone al fruitore delle responsabilità extranoematiche, se si eccettua per esempio, il movimento degli occhi’ o l’abilità di sedersi sulle poltrone del cinema. Il cinema di Hollywood, infatti, lavora strenuamente per eliminare anche questo minimo sforzo cognitivo, ‘immergendo’ lo spettatore nella ‘storia’, esplicitando tutte le informazioni potenzialmente ambigue.”63

62 Ruggill, Judd Ethan “Everybody Was Kung-Fu Fighting’. Picchiaduro, film videoludici e genere”, in Bittanti, Matteo (a cura di) (2008)

Schermi Interattivi. Il cinema nei videogiochi, Meltemi editore, Roma, pp. 171-172 63 Ibid. p. 183

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L’ergodicità, ossia la centralità della rappresentazione della simulazione e il potere

interattivo che il fruitore ha con essa è, anche nella critica cinematografica, la chiave per

analizzare e comprendere le differenze tra i vari media. Come nella scuola dei ludologi

emergeva una forte preferenza degli studiosi per il concetto di interattività e di risposta

alla simulazione da parte dell’utente, che non era più “passiva” come in letteratura (a

detta della scuola danese) ma che diventava finalmente proattiva e con un ruolo anche

“autoriale” decisamente pesante, anche nella cinematografia si identificano differenze

sostanziali nel ripresentare idee e storie “cinematografiche” all’interno dei videogiochi

o, viceversa, nella trasposizione dei videogame in pellicola. L’ambiente della

simulazione, infatti, in un caso (quello del cinema) fa da sfondo tematico, contestualizza

le azioni dei protagonisti, prepara letteralmente lo spettatore a determinati codici e

linguaggi, rendendo così tutto il film comprensibile, rapidamente interpretabile e “alla

portata di tutti”. D’altra parte, l’esperienza filmica è di per sé ancora una delle poche

esperienze, insieme al teatro e ai concerti, veramente corali: quando si assiste a una

proiezione in una sala cinematografica, in effetti, non si ha la possibilità di rivedere, di

fermare la pellicola, di riavvolgerla, e quindi, seppure con la giusta dose di “mistero” e

di elementi da interpretare, il film deve essere un’opera di immediata comprensione.

L’esplorazione è quindi guidata e anche la simulazione è solo un percorso lungo il

quale lo spettatore viene abilmente condotto dal regista. Non esiste libertà, non esiste

autonomia, a livello cognitivo il film è indiscutibilmente più “su binari” di quanto non

lo sia l’ambiente simulativo del videogioco. Nel caso di quest’ultimo, infatti,

l’esplorazione e l’esperienza simulativa sono completamente a carico del

videogiocatore: ovviamente, più curata sarà la “regia” del videogame (ossia il game

design) più la sensazione di “simulare” un’esistenza sarà forte per chi gioca. È

inevitabile che ci siano limiti, obblighi, vincoli all’interno del mondo di gioco, ma a

differenza del film il videogioco permette di sperimentare, di simulare, di “provare a

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vedere cosa succederebbe se”. È questo il divario dei due sistemi cognitivi: in uno la

passività è un obbligo, nell’altro è letteralmente vietata.

In base a queste riflessioni appare evidente che una stessa storia raccontata tramite un

videogioco o tramite un film (o attraverso un libro, un fumetto, un’opera teatrale)

assume connotazioni completamente diverse e, per essere realmente efficace, deve

adattarsi agli stilemi e al linguaggio del medium che la ospita. Il passaggio da un

medium all’altro non è mai indolore, o meglio, non concede mai di sopravvivere ai

contenuti quali si configuravano in partenza: inevitabilmente avvengono modifiche,

stravolgimenti, cambiamenti e soprattutto adattamenti64.

Visti e considerati gli apporti costruttivi che derivano dai Game Studies fino ad oggi e

dalle critiche più classiche di “media narrativi”, come nel caso del genere letterario e

dell’approccio filmico, ma tenute anche ben presenti le inevitabili limitazioni che i vari

approcci critici portano con sé, la scelta del taglio da dare a un’analisi videoludica che

sia insieme letteraria, comparata e ovviamente fortemente legato al medium

innovativo di cui tratto si è lentamente indirizzata verso uno studio che cerca di unire

sia le sopra citate scuole critiche (quella letteraria, quella comparatista, quella

cinematografica e quella narratologica-ludologica dei Game Studies) con quello che, a

mio parere, appare essere il modo narrativo più “emergente*” e preponderante nei

videogiochi: il fantastico.

Non solo da un punto di vista delle tematiche, della simbologia, del recupero di

ipertesti65 da cui trarre ispirazione, spunto da plagiare letteralmente, ma anche da un

punto di vista delle strutture, delle meccaniche narrative adottate, degli espedienti per

creare affezione, suspense, terrore per emozionare e comunicare, le analogie che si

possono identificare tra il fantastico letterario e il fantastico videoludico (ma ancora più

64 Più avanti, in effetti, esporrò la cosiddetta “Theory of Adaptation” ben formulata nell’omonimo testo da Linda Hutcheon: le storie che

vengono raccontate, i generi che vengono utilizzati, le tematiche che ricorrono sono sempre le stesse (non siamo d’altra parte esseri umani con un forte background di cultura e archetipi che ci influenzano sempre e comunque?). Quello che cambia sono le modalità in cui queste storie vengono raccontate, e quindi lo spirito di adattamento di certi concetti e nuclei di informazione nel corso del tempo e in base ai mezzi di comunicazione a disposizione.

65 Nell’accezione genettiana del termine.

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in generale, tra il fantastico letterario e la struttura videoludica) sono decisamente

emergenti e notevolmente significative. In effetti, il videogioco come medium sembra

essere una sorta di terreno ideale per narrare in modo fantastico e per recuperare gli

stilemi, i modi, i tempi, le voci narranti di un modo letterario tanto antico quanto

recente.

Nel seguente capitolo cercherò di tracciare un “profilo” globale del modo fantastico,

attingendo a diversi contributi critici e cercando di individuare un filo conduttore

funzionale alla successiva descrizione e analisi delle opere videoludiche selezionate. In

questo modo spero di chiarire perché un’analisi del fantastico è centrale per

comprendere le tematiche e le meccaniche del videogioco e di individuare le modalità

secondo cui, per mezzo di evoluzioni non solo del genere ma delle forme narrative in

generale, certi archetipi narrativi classici vengono recuperati e ri-adattati ai nuovi mezzi

e alle nuove strategie di comunicazione, fatti evolvere e raccontati in maniera diversa.

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Capitolo 2

Narrazioni moderne e contemporanee

I videogiochi e le narrazioni videoludiche possono essere considerate narrazioni

digitali. Le conseguenze della rivoluzione digitale nella fruizione dei contenuti da parte

degli utenti sono numerose e diversificate: da una maggior rapidità nella creazione e

nella diffusione dei contenuti a un maggior controllo e possibilità di riscontro e

interazione tra autori e lettori fino a un cambio radicale nelle metodologie di

comunicazione che in molti casi da analitiche sono diventate sintetiche. Sicuramente,

l’importanza assunta dall’immagine rispetto alla parola e il passaggio da una cultura

dominata dal medium del libro a una dominata dallo schermo sono stati due degli

elementi nodali in quella che, inizialmente, possiamo definire come una “evoluzione”

letteraria contemporanea. Ovviamente, davanti a cambiamenti così radicali, ci si pone

interrogativi su quale sia oggi il corso nuovo e quindi quale potrebbe essere un

possibile scenario futuro della letteratura. Da una parte si può ipotizzare che il

linguaggio, inteso come comunicazione verbale e orale, manterrà il suo predominio in

tutte le modalità comunicative, dall’altra che la scrittura verrà (viene già, in effetti)

affiancata dalle immagini. Questo accade in molti domini della comunicazione dalla

pubblicità all’intrattenimento, dal cinema alla narrativa popolare e la profonda

ingerenza di questo cambiamento socio-cognitivo comporta una serie di conseguenze

che naturalmente vanno a influenzare non solo il destinatario, ma soprattutto il

mittente, che si trova a fare interagire metodi e mezzi comunicativi diversi e quindi a

produrre dei messaggi che, ancora oggi, possiamo definire ‘ibridi’.

I media digitali che si sono fatti portavoce e che incarnano in modo irrefutabile questa

tendenza sono di vario tipo, rivestono diversi ruoli e svolgono diverse funzionalità. In

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una prima fase grazie alla diffusione del personal computer, ha preso il via un processo

tale per cui la lettura quotidiana66 è passata da supporti esclusivamente cartacei a

supporti anche digitali: la lettura di documenti di testo, di interi volumi di opere

classiche digitalizzate, di quotidiani on-line e, attualmente, di qualsiasi tipologia di

informazione un tempo accessibile unicamente nei luoghi in cui veniva custodita

(biblioteche, emeroteche, e così via) è diventata un’abitudine quotidiana, per diverse

generazioni ed è oggi il metodo più diffuso per accedere alla conoscenza. Con questo,

e ci teniamo a ricordarlo, non è affatto detto che le modalità legate a strumenti e mezzi

più tradizionali siano stati totalmente soppiantati: c’è stato un affiancarsi di due canali

di comunicazione che hanno imparato (e stanno tuttora imparando) a integrarsi. Un

esempio ben noto è quello del giornalismo: nonostante la quantità di informazioni a

disposizione degli utenti on-line sia pressoché sconfinata, nonostante si possano, in

brevissimo tempo e con uno sforzo minimo, reperire su Internet una serie di notizie

immediate su un’ultim’ora, i giornali cartacei continuano a rivestire in modo egregio e

irrinunciabile il loro ruolo. Anzi, per maggior precisione, gli articoli di approfondimento

più esclusivi e curati, le firme più note continuano a trovarsi sulle pagine dei quotidiani

cartacei e non unicamente su quelle on-line. I quotidiani online, appunto, forniscono

una serie di valori aggiunti che, per motivi economici, pratici o semplicemente per

“tradizione” i quotidiani tradizionali non possono offrire: visualizzazioni interattive,

grafici chiari e personalizzabili, ultim’ore aggiornate con uno scarto minimo rispetto alle

notizie reali, pluralità ed effettiva libertà dei contenuti (chiunque può scrivere e

pubblicare), interattività. Allora, non si tratta più di profetizzare terribili perdite da parte

dell’editoria tradizionale in funzione di quella digitale, piuttosto, oggi che questo

processo è chiaramente in atto e che non ci suggerisce più una deriva verso

l’annullamento di uno dei due settori in favore dell’altro, dobbiamo analizzare in modo

66 Non considero, in questa sede, casi particolari come la fruizione di microfiche nelle biblioteche o di supporti digitali e

audio-visivi di vario genere. Il cambiamento sostanziale nel paradigma cognitivo e percettivo è, infatti, cambiato principalmente grazie all’accessibilità e alla diffusione sempre maggiore delle tecnologie che ci accingiamo a descrivere brevemente.

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coerente ed efficace quali siano le influenze che i due settori mutuano reciprocamente

l’uno dall’altro.

L’esempio del giornalismo e della diffusione in generale di contenuti verbali tramite

supporti digitali non deve distoglierci, tuttavia, dal nostro reale centro d’attenzione: le

storie e le narrazioni, che sono ancora elementi imprescindibili per una comunicazione

“letteraria” contemporanea che sia appropriata, diffusa e coinvolgente. Ancora oggi

costruiamo mondi, li popoliamo di personaggi che agiscono secondo motivazioni e

valori, che danno voce a determinati pensieri, che ci trasmettono o meno una morale,

un sistema di regole e di priorità, che ci fanno confrontare con le culture e l’alterità.

Tuttavia, dobbiamo sempre tenere bene presente che la nostra attenzione deve restare

concentrata su una differenza fondamentale, questa sì esistente e importante, che

intercorre tra quella narrazione verbale (sia scritta che orale) a cui siamo stati nei secoli

abituati (epica, romanzo, racconto, teatro, e così via) e quella narrazione interattiva e

fortemente visiva a cui stiamo andando incontro oggi: il mondo “raccontato” a parole è

diverso dal mondo “mostrato” attraverso immagini (o attraverso strutture che siano più

prettamente visuali che verbali). Questo è il nodo fondamentale da tenere a mente

quando si parla di narrazione oggi. Quello che succede, infatti, per la scrittura in

generale, accade sicuramente anche nello specifico delle logiche del racconto. A questo

punto, è necessaria una premessa contenutistica e metodologica: pensare che queste

nuove narrazioni contemporanee e fortemente legate all’immagine e alla medialità

riescano a innovare prima di tutto i contenuti è un errore. Sicuramente, quello che

viene comunicato oggi non è originale tout court, non è innovativo di per sé. A

un’approfondita analisi, infatti, scopriremmo che le tematiche, i miti, i temi e gli

archetipi affrontati oggi dalle narrazioni sono gli stessi di un tempo: vengono

semplicemente (e ciclicamente) riproposti quei principi che nel corso della storia umana

sono stati fondanti dei nostri modelli gnoseologici. Frye descrive il “Mythos” come

“The narrative of a work of literature, considered as the grammar or order of words (literal narrative), plot or ‘argument’, (descriptive narrative), secondary imitation of action (formal

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narrative), imitation of generic and recurrent action (archetypal narrative) or imitation of the total conceivable action of an omnipotent god or human society (anagogic narrative).”67

Per la nostra analisi, è utile considerare in particolare l’approccio al mito come

“imitazione di un’azione generica e ricorrente”, ossia la narrazione archetipica, o

“l’imitazione dell’azione di una divinità o di una società umana che siano onnipotenti”,

che si incarnano nella narrazione anagogica. Nel videogioco, infatti, questi due approcci

narrativi sono i più frequenti: il giocatore viene messo nelle condizioni di dover

affrontare un percorso che si basa sull’individuare il meccanismo sotteso al gioco e

ripeterlo in modo efficace fino alla fine, oppure, alternativamente, si trova a rivestire il

ruolo di una sorta di “divinità” realmente onnipotente che deve capire come sfruttare i

propri poteri per ottenere quello che desidera. Si trova, in effetti, a ricoprire il ruolo di

narratore della storia. Queste due modalità non sono esclusive, anzi spesso si

affiancano per costruire un contesto interattivo-narrativo che permetta al giocatore di

sperimentare meglio l’avventura in cui è inserito e, di conseguenza, di interiorizzare

meglio il mito che in quella sede viene riproposto. Il bisogno di comunicare dell’uomo

non è cambiato, tuttavia entrando nel merito di quello che sta succedendo alla

narrazione oggi sono cambiate le modalità e gli strumenti con cui raccontare .

I nuovi media hanno apportato cambiamenti che riguardano il passaggio dalla pagina

stampata allo schermo come supporto/piattaforma per la lettura/scrittura, hanno

instaurato (e stanno tuttora creando) nuovi codici e modalità di comunicazione, ma

non si sono limitati a questo:

“They make it easy to use a multiplicity of modes, and in particular the mode of image – still or moving – as well as other modes, such as music and sound effect for instance. They change, through their affordancies, the potentials for representational and communicational action by their users; this is the notion of ‘interactivity’ which figures so prominently in discussion of the new media.”68

67 Frye, Northorpe (1990) Anatomy of Criticism, Princeton University Press, Princeton and Oxford, p. 366 68 Kress, G. (2003) Literacy in the New Media Age, Routledge, London and New York, p. 5

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L’interattività69 è centrale per due motivi: è fortemente interpersonale, nel senso che

l’utente può replicare e interagire con il testo, ed è strettamente legata all’ipertestualità,

che consiste, in questo caso, nella molteplicità di percorsi che è possibile seguire per

approfondire o arrivare “alla fine” di un’opera. L’interattività si rivela la chiave di volta

per comprendere appieno quelle narrazioni che ci interessa analizzare, ossia le

narrazioni contenute nei videogiochi: essa, infatti, costituisce l’elemento di aggiunta

alla “semplice” multimedialità. Se, infatti, i contenuti che noi fruiamo su supporti digitali

on/off-line non hanno necessariamente una struttura sia multimediale che interattiva,

nel caso dei videogiochi ci troviamo a dover strettamente collegare questi due elementi

ed entrambi diventano indispensabile per permetterci di categorizzare una narrazione

come videoludica.

Questi presupposti generali vanno sicuramente approfonditi: analizzeremo quindi, in

modo dettagliato, innanzitutto le caratteristiche emergenti delle nuove narrazioni e

forme di scrittura che riguardano i nuovi media e le applicheremo al contesto dei

videogiochi. In particolare, approfondiremo il cambiamento fondamentale che la

narrazione ha subito passando dal mezzo privilegiato del libro (e quindi della pagina)

al mezzo interattivo che è, in generale, il computer ma che, nel nostro caso specifico,

sono le piattaforme per l’intrattenimento digitale. Ancora, è importante comprendere

quali siano i cambiamenti radicali a cui le forme narrative stanno andando incontro

passando da un contesto prettamente verbale (il mondo della parola) a un contesto più

legato all’immagine (lo schermo e l’immagine come veicoli centrali di comunicazione).

In pratica, è fondamentale cogliere e definire la trans-medialità della narrazione per

poter passare alla seconda parte dell’analisi, ossia alla definizione di quegli elementi di

analisi costanti che però si sono, per così dire, “mutati” per permettere ai nuovi narratori

di rendere le proprie narrazioni altrettanto efficaci rispetto a quelle del passato. Lo 69 Nel primo capitolo sono state descritte quattro modalità fondamentali di interattività, ossia quella funzionale, cognitiva,

esplicita e la meta-interattività, ognuna delle quali stimola e riguarda dinamiche differenti, eppure tutte fondamentali nell’ambito dei videogiochi. Questa categorizzazione dell’interattività deve essere sempre tenuta presente, in quanto a seconda dell’opera che viene analizzata si avrà una preminenza di una di queste modalità. È ovvio quindi come non tutte le opere possano essere analizzate secondo gli stessi parametri.

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spazio e il tempo, i personaggi, il ritmo generale del racconto sono ancora gli elementi

centrali su cui l’autore (o gli autori) deve costruire la struttura e il progetto della propria

opera, ma si sono “evoluti” in modo tale da adattarsi ai nuovi scopi a cui vengono

chiamati.

Parleremo, infine, brevemente, proprio del concetto di “adattamento”, perché questo

termine ricorre spesso nelle analisi legate alla migrazione della narrazione in modo

“stabile” verso altri media che non siano la letteratura tradizionale ma è, forse, un

termine errato. Parlare di “adattamento” anziché di “evoluzione” è sicuramente più

corretto e pertinente, quando ci riferiamo alla narrazione: se l’evoluzione presuppone

infatti un passaggio irreversibile a uno stadio successivo della forma che si evolve, il

termine adattamento lascia aperte più possibilità e prevede, soprattutto, una

simultaneità (e, in caso, una reversibilità) degli elementi. Non ci sembra corretto

presupporre che la narrazione compia un percorso lineare e irreversibile. Piuttosto, è

interessante osservare come i miti di cui parlavamo prima vengano continuamente

rielaborati e raccontati, alle nuove generazioni, in modo tale da essere recepiti e

interiorizzati. L’adattamento, fondamentalmente, consiste nel processo di modifica e

adeguamento delle convenzioni letterarie, dei linguaggi, delle dinamiche narrative a

nuove sensibilità epocali e/o all’evolversi dei mezzi di comunicazione allo scopo di fare

arrivare la storia narrata a un pubblico che nel tempo rinnova le sue esigenze fruitive e

culturali. Ritengo che il racconto videoludico contiene in sé traccia di questo

adattamento della letteratura al nuovo contesto comunicativo.

Narrazioni digitali ed evoluzioni narrative Il nuovo ambiente della scrittura e il contesto sia tecnico che sociale in cui nascono le

nuove narrazioni è il punto di partenza per cominciare a costruire il contesto all’interno

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del quale si sviluppano gli adattamenti narrativi di cui abbiamo accennato sopra e che

andremo ad analizzare nell’ultimo capitolo70. Due aspetti sono fondamentali:

“The first relates to the media of communication: the effects of the ubiquity and dominance of the ‘screen’, and its effect on writing. The second concerns not the media but the modes of communication: the ever-increasing presence of image – in all forms – in contemporary messages.”71

Il libro, inteso come piattaforma di trasmissione del sapere, non è solo il mezzo di

comunicazione privilegiato della conoscenza, ma ha anche determinato il nostro modo

di ordinare e organizzare i contenuti e quindi il mondo, come molti studiosi hanno

ampiamente messo in evidenza:

“The logic of the mode of writing shaped and organised the book and its pages. The potentials of the medium of the book and the page gave rise both to the shaping of the knowledge and ideas and to the distributions of power between those who could produce the written text and distribute the book and those who received the book and its text as authoritative objects.”72

La stampa ha modificato il modo di utilizzare la scrittura e di organizzare e produrre il

sapere; l’enorme fortuna e diffusione che il libro ha avuto nel corso dei secoli ha

impostato uno standard di invenzione, organizzazione e comunicazione dei contenuti

che ha fortemente influenzato sia gli autori che i lettori. In seguito alla rivoluzione del

digitale, lo schermo è diventato73 il luogo primario dell’informazione, della narrazione e

della comunicazione in generale. È nel rapporto tra parola e immagine che si ‘gioca’ il

passaggio dalla pagina allo schermo: la logica della scrittura è, infatti, temporale e

sequenziale, mentre la logica che governa l’uso dell’immagine è spaziale e simultanea.

Gli elementi della scrittura (e della lettura) si susseguono con un ordine prestabilito e

ben preciso, visto che l’ordo verborum è quello che, in una frase, in qualsiasi lingua, ci fa 70 Per un ulteriore approfondimento sul concetto di “adattamento” letterario, si rimanda al paragrafo conclusivo di questo

capitolo, “Principi di adattamento”. 71 Kress, op. cit. p. 19 72 Ibid. p. 19 73 Lo ribadiamo: non in maniera esclusiva. È fondamentale, in questo discorso, non dimenticare che non stiamo parlando di

una “mutazione genetica” della letteratura e della narrazione che abbandonano un “corpo” per passare a un altro, stiamo parlando di una co-esistenza e di un mutuo scambio di spunti e ispirazioni tra due diversi modi narrativi, uno più giovane (quello legato all’immagine e alla visualizzazione) e uno più tradizionale (quello, ovviamente, più prettamente letterario)

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attribuire valore agli elementi comunicativi: senza una precisa gerarchia spazio-

temporale delle parole all’interno di una frase non potremmo comprenderne il

significato. Diversamente “image is the ordering of elements (‘depictions’) in a more or

less conventionalised and spatially simultaneous ‘display’.”74 La scrittura, invece, è

strutturata in maniera diversa:

“Writing is the ordering of elements (syntactic/grammatical and lexical) in the conventionalised sequences of syntax; image is the ordering of elements (‘depictions’) in a more or less conventionalised and spatially simultaneous ‘display’.”75

Un elemento importante della “scrittura” interattiva è quello della organizzazione e

della semantica degli elementi: se, infatti, tipicamente una parola in un testo scritto ha

un valore in quanto inserita in un sistema sintattico e lessicale che la contestualizzano,

le informazioni a schermo sono di natura più “rizomatica” e devono essere sia redatte

che soprattutto interpretate in base al ruolo visivo che giocano. Al posto della sintassi,

che regolava le relazioni tra le parole, e quindi il loro significato, il loro ritmo, la loro

connotazione, abbiamo ora la relazione spaziale che intercorre tra i vari elementi visivi

presi nel loro insieme, non in sequenza, non uno alla volta, ma come un quadro da

guardare nel complesso. Quindi, l’adattamento verso media visivi e multi-mediali, ha

portato a una riorganizzazione dei contenuti di due tipi: innanzitutto, la priorità, anche

per gli elementi di scrittura, diventa l’inserimento di tali contenuti in un contesto spaziale

dominato dall‘immagine. Pensando, in particolare, agli spazi virtuali*, alle forme

narrative e di comunicazione più prettamente legate all’intrattenimento (i videogiochi)

o all’arte (la video-arte, la sperimentazione ipertestuale, e così via), gli elementi verbali

tendono o a farsi sempre più da parte in favore di elementi più visivi, o ad assumere un

valore estetico visivo più che poetico poiché è importatne lo ‘spazio’ che esse occupano

all’interno dello schermo oltre al loro contenuto semantico. L’idea dell’immagine come

elemento legato alla narrazione non è certo stato introdotto dai nuovi media: i libri

74 Ibid. p. 20 75 Ibid. p. 20

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illustrati, ma anche i dipinti religiosi nelle chiese, i fumetti, sono tutti esempi di come

l’immagine abbia sempre affiancato e accompagnato la scrittura e la narrazione

tradizionali. L’acquisizione di un ruolo più centrale da parte dell’immagine rispetto alla

parola è dovuto alla nascita e alla diffusione di media come il cinema, la televisione,

internet e, ovviamente, i videogiochi.

È necessario, inoltre, tenere in considerazione i cambiamenti che riguardano il contesto

in cui la narrazione si manifesta e le modalità in base alle quali questi due elementi

(narrazione e contesto, appunto) si influenzano a vicenda:

“The changes in the conditions surrounding literacy are such that we need to reconsider the theory which has, explicitly or implicitly, underpinned conceptions of writing over the last five or six decades. (…) A linguistic theory cannot provide a full account of what literacy does or is; language alone cannot give us access to the meaning of the multimodally constituted message; language and literacy now have to be seen as partly bearers of meaning only.”76

I cambiamenti nelle condizioni in cui la scrittura e la letteratura si manifestano

presuppongono una riconsiderazione delle teorie riguardanti la scrittura in generale, in

quanto una teoria linguistica non può essere sufficiente a contestualizzare tutte le

nuove forme narrative e comunicative davanti a cui ci troviamo. Ora, tuttavia,

dobbiamo necessariamente ampliare questo concetto di analisi della scrittura, della

letteratura e della narrazione in generale a campi che, in precedenza, erano inclusi in

maniera marginale nelle teorie letterarie. In realtà, come vedremo anche dall’analisi dei

tre prodotti videoludici selezionati, non esiste un criterio univoco di bilanciamento dei

contenuti verbali e di quelli visivi ma, ogni prodotto multimediale, ogni nuovo “modo”

narrativo introdotto dai nuovi media, ogni nuovo medium stabilisce in modo discreto e

particolare l’equilibrio che deve intercorrere tra questi due elementi affinché la

trasmissione delle informazioni sia produttiva sia dal punto di vista comunicativo che

estetico.

76 Ibid. p 35

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Stiamo sicuramente assistendo a un cambiamento del paradigma secondo cui si

fruiscono, ma anche creano, i nuovi “testi” letterari, ossia i prodotti multimediali,

videoludici e interattivi:

“The theoretical change is from linguistics to semiotics – from a theory that accounted for language alone to a theory that can account equally well for gesture, speech, image, writing, 3D objects, color, music and no doubt other. Within that theory, the language-modes – speech and writing – will also have to be dealt with semiotically; they are now a part of the whole landscape of the many modes available for representation – though of course special still in that they have a highly valued status in society and, in the case of speech, certainly still carry the major load of communication.”77

L’opinione di Kress è chiara: il cambiamento teorico riguarda la possibilità di

ridimensionare l’approccio linguistico in favore di un approccio più legato alla

semiotica, e quindi a tutti quegli elementi non-verbali che, tuttavia, costituiscono dei

“segni” di comunicazione fortemente utilizzati nel linguaggio multimediale. Tuttavia,

piuttosto che concentrare l’attenzione sull’ambito della semiotica, che è solo una delle

discipline potenzialmente coinvolte nell’analisi della comunicazione attraverso i nuovi

media, riteniamo sia più importante e interessante concentrarsi sui concetti di

transduzione e sinestesia:

“While transformation operates on the forms and structures within a mode, transduction accounts for the shift of ‘semiotic material’ – for want of a better word – across modes. This relates entirely to the process of synaesthesia, which clearly have a semiotic analogue. It is in the realm of synaesthesia, seen semiotically as transduction and transformation, that much of what we regard as ‘creativity’ happens.”78

La sinestesia va intesa come quel territorio all’interno del quale avviene il processo

creativo, che coinvolge l’utente/lettore/fruitore nella ricezione, esplorazione e utilizzo

dell’opera multimediale e interattiva. La sinestesia, in questo contesto, viene recepita in

maniera sempre più naturale e riguarda principalmente la capacità del fruitore di

integrare suggestioni visive e uditive, ma anche di fornire attivamente input creativi (o

77 Ibid. p. 37 78 Ibid. p. 36

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quantomeno generici) che facciano “funzionare” l’opera digitale interattiva.

.L’esperienza globale, (inter)attiva e anche emotiva e “sensoriale” che il fruitore si trova a

vivere interagendo con il testo è inizialmente resa possibile e poi potenziata da questa

struttura che coinvolge tutti i “sensi” e le capacità cognitive più o meno consapevoli

dell’utente.

Il videogioco incarna in modo coordinato e completo le caratteristiche che abbiamo

finora descritto: integra in modo di volta in volta diverso il testo e l’immagine, spinge il

fruitore ad avere un ruolo attivo di interpretazione dei segni che veicolano il messaggio,

ma non costruisce un contesto “forzato” che costringa a un approccio analitico,

piuttosto costruisce un universo sinestetico all’interno del quale, muovendosi, agendo,

interagendo e decidendo, il giocatore può ritrovare quel significato che sicuramente è

presente.

Si può dire che, sfruttando questo principio sinestetico, per cui l’azione e l’emozione

vanno di pari passo nella comprensione dell’opera con la “lettura” e l’interpretazione

oggettiva, i videogiochi si inseriscano nei “casi paradigmatici” di nuove forme di

narrazione e scrittura:

“Paradigm cases of new literacies have both ‘technical stuff’ (digitality) and new ‘ethos stuff’. Peripheral cases of new literacies have new ‘ethos stuff’ but not new ‘technical stuff’. In other words if a literacy does not have what we call new ethos stuff, we do not regard it as a new literacy, even if it has new technical stuff. (…) The significance of the new technical stuff has mainly to do with how it enables people to build and participate in literacy practices that involve different kinds of values, sensibilities, norms and procedures and so on from those that characterize conventional literacies.”79

I videogiochi rientrano sicuramente in questa tipologia di caso paradigmatico della

narrazione contemporanea: sfrutta le potenzialità tecniche che gli sono proprie, come

l’organizzazione visiva su schermo dei contenuti, la forte interattività, l’effetto di

“sinestesia” globale dell’esperienza videoludica, ma sicuramente si fa portatore di

79 Knobel, Michele and Lankshear, Colin (eds) (2007) A New Literacies Sampler, Peter Lang, New York, p. 7

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contenuti “etici”. È utile recuperare il concetto di “etica” (l’ethos stuff citato dall’autore)

come lo intende Frye, anche se Knobel non fa riferimento diretto allo studioso:

“[Ethos is] the internal social context of a work of literature, comprising the characterization and setting of fictional literature and the relation of the author to his reader or audience in thematic literature.”80

In effetti, l’ethos stuff comunicata dai videogiochi, nell’ottica di una nuova

caratterizzazione e definizione del contesto sociale o, ancora, del rapporto tra l’autore e

il lettore nelle opere di finzione è un fenomeno degno di nota: da una parte vengono

recuperati archetipi narrativi che la letteratura ha coltivato e che ora nei videogiochi

sembrano “novità”, mentre in realtà sono semplicemente la riproposizione di un’etica

antica per un pubblico moderno. D’altra parte, però, alcune problematiche e alcuni

dilemmi vengono accentuati, se non addirittura creati, proprio dall’utilizzo dei nuovi

mezzi di comunicazione81 e allora l’autore e il fruitore si trovano ad avere un contesto

etico nuovo e caratterizzato da problematiche nuove, che vanno sviscerate e analizzate

da più punti di vista, sicuramente dal punto di vista critico (e quindi sociologico,

semiotico e così via), ma anche e soprattutto, a mio parere, letterario e narrativo. Il

discorso, insomma, non è così semplice come può apparire, ancor più nello stato

attuale di transizione, in cui la letteratura ha una complessità che il videogioco ancora

non sa raggiungere poiché si trova ancora ad agire in un contesto sperimentale.

In generale, possiamo considerare un punto cardine il fatto che le storie vengano

trasmesse indipendentemente dagli espedienti narrativi che utilizzano e dai linguaggi e

dai media che le veicolano:

“[Story] is independent of the techniques that bear it along. It may be transposed from one to another medium without losing its essential properties: the subject of a story may serve as argument for a ballet, that of a novel can be transposed to stage or screen, one can

80 Frye, op. cit. p. 365

Il concetto di etica nella letteratura e nei videogiochi può essere assimilabile: in entrambi i casi, l’ethos è un ambiente entro cui vigono una serie di valori e di codici di interazoine tra I personaggi e tra il lettore, i personaggi e il contesto narrativo fittizio.

81 Mi riferisco, in particolare, al fatto che l’assenza di narratore, nei videogame, e l’azione diretta da parte del fruitore arriva a coinvolgere il giocatore e a fargli vivere le problematiche proposte dal gioco in modo diverso da quanto avviene, di fronte alle stesse tematiche e problematiche, nel caso della letteratura.

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recount in words a film to someone who has not seen it. These are words we read, images we see, gesture we decipher, but through them, it is a story that we follow; and it could be the same story.”82

Sebbene Chatman non parli esplicitamente di videogiochi, la sua affermazione include

chiaramente, almeno in potenza, questo medium negli esempi da lui citati come

possibili nuovi e molteplici veicoli di narrazione. Da tempo, e in particolare in seguito

alla rivoluzione digitale, ci siamo resi conto che non tutti i media forniscono gli stessi

strumenti narrativi e che, in base al medium di riferimento, cambiano le strategie di

rappresentazione e, addirittura, le conseguenze cognitive:

“When it comes to narrative abilities, media are not equally gifted; some are born storytellers, others suffer from serious handicaps. (…) The study of the realization of narrative meaning in various media provides an opportunity for a critical re-examination and expansion of the analytical vocabulary of narratology. The study of narrative across media is consequently beneficial to both media studies and narratology.”83

Innanzitutto quindi non dobbiamo generalizzare: non tutti i media sono “born

storytellers”, alcuni sono semplicemente comodi veicoli di informazione, ma refrattari a

contenere narrazioni84. Il caso dei videogiochi è, a nostro parere, emblematico di come

un medium nato con lo scopo di intrattenere, che ha avuto, almeno in una fase iniziale,

strutture ludiche analoghe a quelle di alcuni giochi da tavola o ad alcuni giochi e

racconti popolari o, ancora, sport rudimentali (dal gioco dell’oca al monopoli,dal ping

pong ai giochi di abilità ai puzzle), si sia poi sviluppato e sia diventato un medium in

grado di accogliere un complesso sistema di meccaniche ludiche e dinamiche di

82 Chatman, Seymour (1990) Coming to Terms. The Rhetoric of Narrative in Fiction and Film, Ithaca, NY Parleremo più avanti del processo di adattamento che una storia subisce passando da un medium a un altro. 83 Ryan, Marie Laurie “Foundation of Transmedial Narratology” in Meister, J. C. (ed) (2005) Narratology beyond Literary

Criticism, Walter de Gruyter, Berlin, New York, p. 2 84 Si pensi, ad esempio, ai cellulari: come non mai si sono fatti veicolo di informazione (tra utenti, di notizie, ultim’ore,

filmati) ma non sono mai diventati un vero e proprio ricettacolo di storie o di narrazioni (come, invece, sono diventati alcuni lettori Mp3 in grado di supportare non solo veri e propri libri interattivi, ma anche serial TV ri-mediati e riadattati per essere trasmessi su quei supporti). I media “naturally gifted” sono quelli che mettono a disposizione dell’utente (e anche dell’autore) un elevato grado di complessità e di inter-operabilità. Non a caso, le console* videoludiche aumentano progressivamente la potenza del motore di calcolo e della scheda grafica, così come i personal computer. Il cinema è costantemente alla ricerca di tecniche per rendere più immersiva la rappresentazione, e così via. I “naturally gifted” media sono, in pratica, quelli che offrono un buon margine di libertà sia all’autore che concepisce e realizza l’opera, sia allo spettatore che ne fruisce.

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gameplay* diversificate, di generi e modi narrativi, di temi e tematiche. Il primo, grosso

elemento di rottura rispetto alle narrazioni tradizionali e, in generale, rispetto agli studi

canonici sulla narrativa che si può riscontrare nei videogiochi è l’assenza di un

narratore. Secondo Gerald Prince, infatti, la figura del narratore che presentasse eventi

passati a un narratario era un elemento indiscutibile del concetto di “storytelling” e

narrazione. Nel caso delle narrazioni videoludiche, la figura del narratore viene, in molti

casi, a mancare completamente. Il punto di vista di Prince era basato sul linguaggio,

ossia presupponeva l’elemento linguistico e non quello sinestesico a cui abbiamo

accennato in precedenza, legato a un’interazione più empatica e coinvolgente del

sistema parola-immagine-azione come veicolante la narrazione. Parlando del teatro,

Prince sostiene: “A dramatic performance representing many fascinating events does

not constitute a narrative, since these events, rather than being recounted, occur

directly on stage.”85 In base a questa definizione, non potremmo considerare i media

diegetici, come i videogiochi, veicoli di narrazione. Ci si è tuttavia resi conto che anche

narrazioni visive o drammatiche potevano assolutamente essere considerate narrative,

anche se, per lungo tempo, si è cercato di applicare la stessa griglia di strumenti

narratologici anche a narrazioni che non aderivano completamente al modello

linguistico e verbale. Proprio questo è stato uno dei problemi riscontrati nelle prime

fasi della critica narratologica applicata ai videogame: si tendeva a ricercare gli stessi

identici elementi nei testi letterari e nei testi videoludici, finendo per trovarli in modo

forzato86 o per non comprendere la natura comunicativa e trans-mediale delle

narrazioni videoludiche. Lungi dal voler far sfumare il concetto di “narrazione” in senso

stretto in altri concetti più vaghi come quello di “credenza”, valore”, “esperienza” e

“interpretazione” o “contenuto”, dobbiamo concentrarci piuttosto su strutture di

85 Prince, Gerald (1987) Dictionary of Narratology, Lincoln, Neb., p. 58 86 Si ricordi l’ipotesi dell’estrema narrativizzazione di Janet Murray, che ha individuato una struttura narrativa anche in un

gioco chiaramente non narrativo come Tetris, salvo poi ammettere che l’esempio, che prendeva in considerazione contesti completamente diversi, serviva in modo provocatorio per dimostrare che con l’analisi narratologica si poteva incorrere in grosse problematiche o errori

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significato quali i concetti di “azione”, “temporalità”, “causalità” e realizzazione e

costruzione di un mondo.

Le narrazioni videoludiche, che intendiamo analizzare, si collocano in una fase in cui la

narrazione in generale supera le barriere della mono-medialità e si situa in un contesto

multi-mediale che fa fortemente leva su elementi che non sono prettamente narrativi,

ma che concorrono in misura sempre maggiore alla narrazione della storia.

Secondo Marie-Laure Ryan, una definizione esaustiva della narrazione videoludica è

legata a tre elementi:

“1. Narrative involves the construction of the mental image of a world populated with individuated agents (characters) and objects (spatial dimension).

2. This world must undergo not fully predictable changes of state that are caused by non-habitual physical events: either accidents (happenings) or deliberate actions by intelligent agents (temporal dimension).

3. In addition to being linked to physical states by casual relations, the physical events must be associated with mental states and events (goals, plans, emotions). This network of connections gives events coherence, motivation, closure, and intelligibility and turns them into a plot (logical, mental and formal dimension).”87

Abbiamo, in primo luogo, la costruzione di un’immagine mentale: nel caso del

videogioco l'immagine ha una funzione su un livello duplice, ossia ha la sua forma e la

sua valenza sullo schermo, ma si riflette anche nella mente del giocatore, diventando,

da immagine oggettiva e sullo schermo, una proiezione mentale che il giocatore fa di

quella stessa immagine. Il concetto di “immagine mentale di un mondo popolato di

agenti e oggetti specifici” rimane, ma non bisogna sottovalutare il valore fortemente

soggettivo e personale che assume l'immagine. Da una parte, infatti, abbiamo il valore

oggettivo dell’immagine e il contesto estetico e artistico all’interno del quale è inserita:

la direzione artistica del videogioco serve proprio per creare un ambiente esteticamente

coerente e che trasmetta in modo più o meno univoco il messaggio che la squadra di

sviluppo vuole veicolare. D’altra parte, l’immagine ha, in ogni caso, un valore

87 Ryan, op. cit. p. 4

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fortemente soggettivo, e il giocatore può, nel limite del lecito e del ragionevole,

assegnare a quello che vede a schermo un significato individuale. Inoltre, l’autrice

pensa alla memoria del giocatore, che dopo aver visto oggettivamente l’immagine a

schermo, conserva comunque un’immagine funzionale nella memoria (per sapere come

muoversi nello stesso contesto oppure dove ritrovare delle informazioni). Quindi,

immagine reale e immagine mentale dell’utente giungono a sovrapporsi. Tuttavia, la

forza del contesto creato dagli autori del gioco mantiene sempre un’oggettività

superiore, perché per proseguire in modo efficace nella scoperta degli eventi il

giocatore deve utilizzare lo spazio (e quindi l’immagine) in modo funzionale e

“oggettivo”, rifacendosi non a quello che ha percepito individualmente o che ricorda,

ma all’immagine reale che l’ambiente di gioco propone. Il mondo di gioco ha, in fondo,

un valore principalmente oggettivo, in quanto popolato di personaggi creati

verticalmente dall’autore e all’interno del quale il giocatore si può muovere più o meno

liberamente. All’interno di questo mondo (che è la dimensione spaziale sopra citata)

avvengono degli eventi imprevisti e inaspettati che ci costringono a reagire: è a questo

punto che entra in gioco la componente temporale, che permette alla narrazione

videoludica di svilupparsi. L’integrazione del contesto spaziale (che è quello all’interno

del quale il giocatore viene catapultato all’inizio) con l’elemento temporale, per cui la

“normalità” dello spazio della narrazione viene infranta da un evento inaspettato,

costituisce quella che definiamo l’azione del videogame. Infine, il terzo punto è una

conseguenza diretta dei primi due (non necessariamente di entrambi, anche di uno

solo dei due punti): il giocatore-fruitore-lettore capisce di avere degli obiettivi, vive

un’esperienza, prova delle emozioni. Tutti e tre questi punti devono essere presenti in

un testo perché questo possa essere definito narrativo. Tuttavia, a seconda del genere

o del modo narrativo del testo, potremo notare un’enfasi differente di uno dei tre

elementi. In particolare, dice la Ryan:

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I videogiochi: Paggiarin Valentina modelli narrativi e rimediazioni tecnologiche Dottorato XXI Ciclo - Università IULM

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“With their detailed construction of an imaginary world, science fiction and fantasy over fulfil condition 1, and they often treat the plot as a mere discovery path across fictional space.”88

Questa affermazione risulta perfetta per comprendere appieno la struttura dei tre

videogame esemplificativi che andremo ad analizzare più avanti in dettaglio.

Appartenenti tutte a quello che, in modo comprensivo e non esclusivo, Rabkin

individua come “modo narrativo fantastico”, il mondo fiabesco di Shadow of the Colossus,

quello dell’orrore di Silent Hill e quello fantascientifico di Bioshock vedono come reale

protagonista delle vicende non il giocatore, non uno dei personaggi chiave, ma

l’ambiente da esplorare. Il mondo stesso, e cioè quella costruzione dell’immagine

mentale di un mondo popolato da agenti ben definiti (i personaggi) e oggetti

(dimensioni spaziali), è il protagonista delle vicende. Questo passaggio in primo piano

dell'ambiente, che solitamente nelle narrazioni tradizionali fa da sfondo alle vicende dei

personaggi, contribuisce a caratterizzare meglio le figure che popolano il racconto e a

creare una certa atmosfera, ha un impatto anche sull'etica della narrazione videoludica

e sul rapporto che si crea tra autore e lettore del videogioco. Se, in un'opera come un

romanzo o un racconto, il rapporto tra autore e lettore è costantemente visibile e chi

fruisce dell'opera ricorda, in ogni momento, la presenza di chi l'ha creata, nel caso del

videogioco, grazie all'illusione di libertà che l'esplorazione dell'ambiente concede, il

giocatore dimentica spesso di trovarsi in un percorso predefinito e vive le proprie

avventure e le proprie azioni come se fossero auto-determinate: si sente effettivamente

autore della narrazione che sta creando attraverso le sue azioni.

Se, in narrazioni di altra natura, come i thriller e le storie d’azione, o ancora le detective

stories o le commedie degli errori, troviamo una prevalenza, rispettivamente, di

caratterizzazioni che rimandano al punto 2 e al punto 3 della definizione di narrazione

della Ryan, nel nostro caso l’attenzione sarà fortemente concentrata sul primo punto, in

88 Ibid. p. 6

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I videogiochi: Paggiarin Valentina modelli narrativi e rimediazioni tecnologiche Dottorato XXI Ciclo - Università IULM

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quanto, per loro stessa natura, i videogiochi con una forte componente narrativa

tendono a focalizzare l’attenzione del fruitore sullo spazio e sull’esplorazione.

Ora, in questo contesto narrativo, non è possibile individuare la narrazione nell’atto del

racconto, ma è possibile piuttosto individuare due “sfere semantiche” di influenza: da

una parte, la narrazione è da considerarsi un atto testuale di rappresentazione e di

presentazione, è un testo che racchiude un determinato significato. Dall’altra, la

narrazione diventa un’immagine mentale costruita da chi fruisce della storia in risposta

al “testo” e quindi un’interpretazione soggettiva del giocatore, che osserva con più

attenzione gli elementi che l’autore ha messo in posizione predominante ma che

ricorda in realtà quegli elementi che, soggettivamente, lo hanno colpito maggiormente.

L’oggettività dell’ambiente e della struttura di gioco si interseca con quello che il

giocatore percepisce, che ricorda e che “trattiene” (sintesi memoriale), per così dire, del

gioco. Tuttavia, gli elementi veramente significativi spesso sono anche gli elementi

centrali per proseguire nel gioco, quindi vengono sottoposti forzatamente

all’attenzione del giocatore che, se in un primo momento può ignorarli perché non li

ritiene significativi, arriva a considerarli tali nel momento in cui quegli stessi elementi

gli servono per proseguire nel gioco e nella narrazione .

È interessante elencare alcuni dei modi attraverso cui la narrazione si può concretizzare

e che si possono considerare generalmente validi indipendentemente dal mezzo su cui

la narrazione si manifesta:

“This list, which I regard as open-ended, consists of binary pairs. In each case the left term can be regarded as the unmarked case, because the texts that presents this feature will be much more widely accepted as narrative than the texts that implement the right-hand category (…).”89

Le categorie sono90:

89 Ibid. p. 11 90 cfr. Ryan, “Introduction” in Ryan, M. L. (ed.) (2004) Narrative Across Media: The Languages of Storytelling, Lincoln, pp.1-

40

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I videogiochi: Paggiarin Valentina modelli narrativi e rimediazioni tecnologiche Dottorato XXI Ciclo - Università IULM

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1- Esterno – interno: nella prima modalità, la narrazione è codificata in segni

materiali. Nel secondo caso, non prevede una testualizzazione e avviene

unicamente nella mente del giocatore.

2- Diegetico – mimetico: questa distinzione rimanda alla Repubblica di Platone: una

narrazione diegetica è l’atto verbale e diegetico di un narratore. Presuppone un

linguaggio che funga da veicolo, sia esso orale o scritto. È la modalità di

narrazione tipica del romanzo, del racconto e, in generale, delle narrazioni orali.

Un narrazione mimetica, invece, è una rappresentazione degli eventi, consiste

nel mostrare, non nel trasmettere verbalmente. Tutte le arti drammatiche sono

chiari esempi della narrazione mimetica: i film, il teatro, la danza, l’opera e,

ovviamente, il videogioco. Queste due modalità non sono esclusive e possono

convivere nella stessa opera.

3- Autonomo – illustrativo: nel modo autonomo, il testo trasmette una storia

nuova per l’ascoltatore-lettore-giocatore. La logica e la struttura della storia

devono quindi essere ben presenti all’interno del testo stesso. Nel modo

illustrativo, il testo ripete, racconta di nuovo e, a volte, completa una storia che

l’ascoltatore-lettore-giocatore già conosce. Questo tipo di narrazione è tipico,

ad esempio, dei dipinti ispirati a vicende bibliche che si possono trovare nelle

chiese. Un altro esempio sono i miti riattualizzati e riportati in epoca

contemporanea.

4- Ricettivo – partecipativo: nel modo ricettivo, il destinatario non ha un ruolo

attivo negli eventi della narrazione: semplicemente, riceve il resoconto

dell’azione narrata e si immagina come un testimone esterno. Il destinatario

diventa, invece, attivo quando contribuisce alla produzione dell’intreccio.

Questa seconda modalità è utilizzata, oltre che nelle sessioni di teatro

interattivo, nei giochi di ruolo, anche e soprattutto nei videogiochi. In questi

ultimi, infatti, l’utente è rappresentato come un avatar* immerso nel mondo di

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gioco e, risolvendo problemi in tempo reale, determina il successo o il

fallimento dell’avatar* in questione, e tutta una serie di altre conseguenze.

5- Determinato – indeterminato: nel modo determinato il testo specifica un

numero sufficiente di punti sulla traiettoria narrativa per fornire un chiave di

interpretazione degli eventi al lettore. Nel modo indeterminato, vengono

invece forniti meno punti di riferimento e viene richiesta una partecipazione

più attiva da parte del fruitore nell'ermeneutica del testo. Questa seconda

modalità è tipica di quelle rappresentazioni pittoriche che ritraggono un

“momento pregnante”, che descrivono un evento in medias res: lo spettatore è

trascinato al centro dell'azione e della narrazione senza punti di riferimento

precisi sul significato reale di quello che sta guardando e deve immaginare il

passato e il futuro remoto di quell'interazione di cui vede solo un frammento.

6- Letterale – metaforico: la narrazione letterale è sicuramente più definita e

risponde precisamente alla sua definizione: riguarda, cioè, eventi e situazioni

che non intendono rimandare ad altro, ma che si riferiscono esattamente a

quanto è narrato. Più complicato è invece per la narrazione metaforica, in

quanto, in base al grado di metaforicità del testo, cambia anche la sua

struttura. Il grande vantaggio del modo metaforico è quello di permettere alla

narratologia di comprendere molte delle estensioni contemporanee del

termine “narrazione”.

In queste coppie, il primo modo narrativo è sempre quello più legato a strutture del

discorso letterario tradizionali mentre la seconda modalità è quella più innovativa,

sfruttata maggiormente (ma, comunque, in modo non esclusivo) dalle narrazioni trans-

mediali. Il caso del medium del videogioco è particolare perché tende ad aderire

sempre al secondo opposto delle coppie presentate e quindi a configurarsi come un

sistema narrativo fortemente innovativo e fortemente (apparentemente) separato da

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quello originario e più tradizionale. I videogiochi, per via della fortissima componente

partecipativa (interattiva) che portano con sé, recuperano strutture narrative tradizionali

solo in una loro prima fase, quando ancora si tentava di “emulare” la linearità delle

narrazioni tradizionali su supporti digitali e interattivi. Oggi, il videogame non deve più

prendere in prestito le modalità della narrazione tradizionale o della letteratura ma,

piuttosto, cerca di imparare a ricostruire determinate suggestioni, a riproporre

determinate emozioni e, per fare questo, deve ripresentare ai fruitore tematiche

“classiche” rivestite di un abito comunicativo nuovo. Per questo, quindi, l’adesione alle

modalità narrative è più svincolata dal passato: il videogioco sta cercando la propria

strada per un giorno riuscire a riprodurre in modo efficace quel ritmo tanto centrale in

tutte le narrazioni tradizionali che permetterebbe all’utente di concentrarsi sia

sull’azione (più avanti parleremo di narrazione e gamplay) sia sulla narrazione in senso

stretto. Questo non significa che il ritmo della narrazione sia appannaggio esclusivo

dell'azione: ovviamente, i realizzatori di particolari videogiochi (come quelli che

analizzeremo) raccontano la storia sia attraverso il ritmo imposto dal gameplay* che

attraverso espedienti più prettamente narrativi e mutuati dalla narrazione tradizionale.

Tuttavia, non sono più gli elementi verbali (le parole) o visivi (le immagini) in senso

stretto a determinare il ritmo narrativo: è la loro combinazione nell'ottica della

performance messa in atto dal giocatore. Gameplay* e narrazione insieme, se bilanciati

correttamente, riescono a ricreare quell'emozione, quella comunicazione e

quell'efficacia che sono tipiche della narrazione letteraria. Proprio questo concetto di

“ritmo narrativo” è importante: i sopra citati modi devono integrarsi ed essere sfruttati

in modo tale non solo per proporre i contenuti interattivi in forma originale, ma per

fare sì che le storie raccontate dai nuovi media abbiano lo stesso impatto cognitivo ed

emotivo sui fruitori. Attraverso l’analisi dei tre titoli scelti, ossia Shadow of the Colossus,

Silent Hill 2 e Bioshock esamineremo più avanti quali forme e modi letterari stanno

influenzando i videogiochi e in che modo questo nuovo medium aderisca alle strategie

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narrative del passato o le innovi per renderle funzionali alla trattazione di tematiche

classiche, sotto vesti nuove.

Ora, questo concetto di “medium” in cui la narrazione tradizionale “migra” e a cui si

deve “adattare” presuppone una definizione, o almeno un tentativo di definizione, di

medium stesso, perché se le categorie sopra citate si possono riferire a svariate

tipologie di narrazione, indipendentemente dal loro legame con media specifici, non

dobbiamo comunque dimenticare che la nostra analisi si concentra su un medium in

particolare, e cioè quello del videogioco. Se la sociologia o la critica culturale definirà

“media” la TV, la radio, il cinema, Internet, i videogiochi, la critica dell’arte parlerà di

musica, scultura, pittura, letteratura, teatro, opera, fotografia e architettura. Un artista

parlerebbe di materiali, come la creta, il bronzo, l’olio, gli acquarelli e potrebbe arrivare a

includere vari tipi di materiali “quotidiani”, addirittura. Un teorico dell’informazione o

uno storico della scrittura potrebbero pensare alle onde sonore, ai papiri, ai codici, ai

chip di silicio. Un filosofo o uno studioso appartenente alla scuola fenomenologica

dividere i media in visivi, orali, verbali e forse addirittura tattili, gustativi e olfattivi.

Quindi, in generale, possiamo dire che la definizione dell’oggetto “medium” dipende

dagli obiettivi e dal taglio dell’indagine. In realtà, possiamo individuare tre ampie

categorie di studi che analizzano in modo peculiare i media: “semiotic, material-

technological, and cultural”91.

“The semiotic approach looks at the codes and sensory channels that support various media. It tends to distinguish three broad media families: verbal, visual and aural. (…) The groupings yielded by the semiotic approach broadly correspond to art types, namely literature, painting and music, but they extend beyond the aesthetic use of sings; language, for instance has both literary and non-literary uses; pictures can be artistic or utilitarian. In its narratological application, the semiotic approach investigates the narrative potential and limitations of a given type o signs.”92

91 Ryan, “Foundation of Transmedial Narratology”, op. cit. p. 14 92 Ibid. p. 14

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L’approccio semiotico prevede che l’attenzione resti concentrata sui codici e i canali che

supportano i vari media. L’approccio “material-technological” si concentra invece sulla

tipologia dei supporti che il medium (o i media) utilizzano: identifica una netta

differenza tra le varie tecnologie per la produzione, la riproduzione, la conservazione e

la trasmissione del messaggio. Il linguaggio, il suono, l’elemento visivo sono vincolati

dai supporti e dai materiali che li veicolano. Dai primordi della comunicazione al

presente, i supporti sono cambiati: “The digital encoding of images has also brought

new expressive possibilities”93. L’approccio culturale ai media è, per così dire, l’approccio

dominante negli studi sui media. Si è analizzato e si continua fortemente a indagare

l’impatto culturale e sociale che i media hanno su diverse tematiche e problematiche

contemporanee:

“These studies will ask for instance about the social impact of film violence, Internet

pornography, television news reporting, or multi-user computer games”94.

Per chiudere il discorso strettamente legato a cosa sia la narrazione trans-mediale

rispetto alla narrazione tradizionale concentrandosi, questa volta, in modo particolare

sulla narrazione videoludica, e non in generale sulla transliteracy in generale, è quindi

necessario elencare delle caratteristiche e delle proprietà che possono potenzialmente

essere applicate indiscriminatamente a tutte le tipologie di narrazioni digitali. Le

caratteristiche sono:

“ – Spatio-temporal extension. Media fall into three broad categories: purely temporal ones, supported by language or music exclusively; purely spatial media, such as painting and photography; and spatio-temporal media, such as cinema, dance, image-language combinations, and digital texts. One could however argue that oral storytelling and print narrative involve a visual, and consequently spatial component; this would leave only long-distance oral communication such as radio and telephone as language-supported example of the purely temporal category.

- Kinetic properties. A spatio-temporal medium can be static (i.e. combination of still pictures and text) or dynamic (moving pictures, or media relying on the human body as means of expression, such as dance or the theatre). By contrast, all purely temporal media are dynamic, and all purely spatial media are static.

93 Ibid. p. 15 94 Ibid. p. 16

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- Number of channels. In the spatial category there is only one channel, unless one considers that sculpture and architecture have a tactile dimension. In the temporal category we have either one-channel media (language or music), or combinations of the two temporal media, language and music, in songs and sung forms of poetry. Most media of the spatio-temporal category have multiple channels, but mime and silent pictures use only visual data. Combinations include: image-language (in illustrated books); image-music (in silent films); or image-music-language (in film, the opera, and digital media).

- Priority of sensory channels. Thus the opera should be considered distinct from a theatre production that makes use of music, even though the two media include the same sensory dimension and semiotic codes, because the opera gives the sound channel higher priority than the theatre.”95

Queste caratteristiche sono, di per sé, molto chiare e non necessitano di un’ulteriore

spiegazione. Quello che è tuttavia necessario e utile alla nostra analisi è abbinare in

modo preciso ciascuna di queste categorie al medium dei videogiochi, perché finora

abbiamo parlato più genericamente di retaggi o differenze tra narrazione tradizionale e

nuove forme di narrazione e literacy in generale, mentre la nostra attenzione vuole

concentrarsi sul medium del videogame e su quello che, narrativamente parlando,

avviene al suo interno.

Nel caso del concetto di estensione spazio-temporale, il videogioco rientra nella

tipologia di media spazio-temporali che combinano l’elemento linguistico (temporale) e

quello visivo (spaziale) insieme: sono una combinazione inestricabile di spazio e tempo,

finalizzati, come accade anche, ad esempio, nel cinema a riprodurre una chiara

sensazione e una chiara sequenza di emozioni nel fruitore attraverso il combinarsi e

l’alternarsi armonico ed efficace dei due elementi. Le proprietà cinetiche del videogioco,

inteso come medium spazio-temporale, sono fortemente dinamiche, in quanto

prevedono un movimento visivo ma, anche, un cambio di stato, sia dell’immagine che

del contenuto. Il numero di canali, poi, è a sua volta molteplice: per interagire con il

videogioco, infatti, non è coinvolto solo il canale della vista (che appare il più ovvio,

visto che, come abbiamo già detto, il luogo dell’interazione è diventato lo schermo), ma

95 Ibid. p. 20

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anche, ad esempio, quello dell’udito e, inaspettatamente, quello del tatto. L’interazione

che il videogioco prevede forzatamente con l’utente (attraverso un pad, un controller, la

tastiera e il mouse e così via) è un elemento molto particolare rispetto al concetto di

“canale”, perché costringe ad attivare canali che, abitualmente, non sono coinvolti nella

fruizione di una narrazione. Questo elemento, l’interattività, influenza anche la priorità

della sensorialità legata ai canali. Vista e tatto sono i sensi privilegiati, seguiti dall’udito.

Anche se l’aspetto visivo è importante nella lettura di un testo su supporto cartaceo,

quando ci si trova davanti a un videogioco l’apparato visivo diventa imprescindibile e

letteralmente al centro dell’attenzione, perché senza di esso il giocatore non ha alcun

modo per proseguire nell’esperienza narrativa. Se, nel caso della lettura, esistono

strategie compensative (la verbalità scritta può essere convertita in orale, quindi se

siamo impossibilitati a leggere possiamo sopperire ascoltando), nel caso del

videogioco, che presuppone un connubio di visualizzazione e interazione costante, non

esistono strategie compensative tali per cui possiamo fruire allo stesso modo della storia

presentata.

Riassumendo, in base a questi canoni, il testo videoludico è un testo interno, mimetico,

illustrativo e partecipativo, e coinvolge il fruitore in modo molto diverso dai testi

letterari che, nella più parte, sono invece esterni, prevalentemente diegetici, spesso

autonomi e principalmente ricettivi. In pratica, i videogiochi propongono un

potenziamento dei contenuti da un punto di vista spazio-temporale, in quanto

presuppongono un’integrazione efficace tra l’elemento temporale (linguistico-

simbolico) e quello spaziale (visivo-esplorativo), sono sicuramente anche fortemente

cinetici e dinamici, perché vengono fruiti in modo attivo e partecipativo, e uniscono

diversi canali, rendendo primari quello della vista e del tatto, ma non escludendo gli

altri.

Un passo successivo nell’analisi delle tipologie di narrazioni digitali è quello di parlare

del rapporto che intercorre tra il medium in questione, il videogioco, e il genere. Sia il

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medium che il genere influenzano i tipi e le modalità delle storie che è possibile

raccontare ma, se il genere può essere definito in modo piuttosto libero da convenzioni

sia personali che culturali, il medium impone le sue potenzialità e le sue limitazioni

all’utente. Il genere è determinato dall’uomo, mentre il medium è fortemente vincolato

alla sua natura intrinseca. In questa prospettiva, più un medium permetterà di utilizzare

diversi canali comunicativi in modo integrato, più sarà adatto a ospitare generi diversi,

mantenendo tuttavia una chiara caratterizzazione di questi ultimi. Allora, ogni storia

può essere raccontata attraverso ogni linguaggio e tramite diversi media, tuttavia per

essere (o restare, nel caso di una narrazione reiterata) veramente efficace, la storia dovrà

essere adattata e cucita su misura per il medium su cui viene trasportata. I media

impongono dei vincoli che non sono mai esclusivi, ossia non impediscono mai la

narrazione di determinate storie, tuttavia si dimostrano più versatili ad accogliere

determinati generi a seconda delle meccaniche che regolano il processo di fruizione

della narrazione. In generale il concetto di multi-medialità e di multi-device prevede

proprio questo, ossia che una stessa storia possa essere raccontata su diverse

piattaforme in modo diverso96. I nuovi media, ad esempio, danno la possibilità di creare

nuove forme di “testo” e nuove forme di narrazione che, in seguito, possono essere ri-

codificate in base ai generi pre-esistenti, tenendo però presente che le strategie

narrative sono cambiate e che la struttura del racconto non è più la stessa, sebbene

l’esito (a livello comunicativo, linguistico ed emotivo voglia essere lo stesso). La

narrazione, in effetti, non è mai vincolata al supporto su cui viene espressa, ma tende

ad adattarsi e a trovare il metodo più efficace per manifestarsi. Possiamo sicuramente

aderire con l’affermazione per cui

96 Un esempio può essere quello del licensing dei videogiochi tratti da film di successo: la stessa storia (con gli stessi

ambienti, protagonisti e temi) vengono riproposti in media diversi. Tuttavia, questi “porting” da un medium all’altro sono spesso mossi unicamente dall’interesse economico di sfruttare un marchio “alla moda”. Più interessanti, sicuramente, sono le esperienze interattive, come The Lost Experience, infrastruttura narrativa multimediale creata attorno al fenomeno mediatico e narrativo del serial Lost: in The Lost Experience, i fan di Lost hanno potuto scoprire elementi della trama del serial in modo alternativo e fruendo media diversi dal serial trasmesso in televisione. I contenuti distribuiti sulle diverse piattaforme (Internet, Mobile, ecc.) sono stati selezionati, differenziati e strutturati proprio in base al medium a cui erano destinati. In questo modo la stessa trama narrativa richiedeva, per essere scoperta, la fruizione di contesti mediatici diversi, e quindi anche di strutture, di modi e di generi differenti.

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“First, narrative may go with its medium and take full advantages of its affordances. This would be the case of a computer game in which players manipulate an avatar and create its destiny through their actions. Computer games are so dependent on the interactive nature of their digital environment that they cannot be taken out of the computer.”97

Questa affermazione supporta l’ipotesi secondo cui in un videogioco ci siano tre

elementi che concorrono a creare la narrazione e che, in assenza di uno di questi tre

elementi, la narrazione videoludica non possa avere luogo. C’è, innanzitutto, il medium,

che impone i vincoli formali e tecnici da cui non è possibile prescindere: questo non

significa che il medium renda impossibile l’atto di raccontare una determinata storia o

una storia appartenente a un determinato genere piuttosto che le storie non possono

essere raccontate più nella stessa maniera ma, ancora di più, che a seconda del medium

più diffuso e attuale, vengono scelte e privilegiate alcune narrazioni piuttosto che altre,

perché più facilmente abbinabili e adattabili al medium98. L’interattività, ad esempio, è

uno dei vincoli più importanti in base al quale le storie vengono modellate e adattate

ed è un elemento su cui si innesta il terzo elemento fondamentale dell’adattamento,

ossia il genere99, che condiziona profondamente il tipo di interazione che si deve

andare a implementare sul medium di riferimento per rendere efficace la narrazione. È

importante ricordare che, nel passaggio da una narrazione prettamente letteraria a

quella videoludica, gli strumenti con cui avverrà questa l’adattamento saranno non più

linguistici, bensì quelli messi a disposizione dal mezzo (nel caso dei videogiochi,

l’interattività primariamente). C’è quindi una strettissima interdipendenza tra questi

elementi e non può esistere un sistema “univoco” di analisi: ogni opera è costruita ad

hoc in base al target e in base agli obiettivi che si pone. Quello che è interessante fare (e

che costituirà anche il lavoro di analisi di questa tesi) è proprio affrontare i singoli

97 Ibid. p. 20 98 Questa affermazione, in effetti, è valida per qualsiasi genere. Come il libro e la stampa in generale determinavano un

certo modo di ordinare e trasmettere il sapere, così il video determina I suoi processi di ordinamento e trasmissione della conoscenza. L’obiettivo di questo lavoro e, in particolare, dell’analisi dei videogiochi contenuta nell’ultimo capitolo, è di capire come il videogioco si colloca in questo contesto e come condiziona il nostro modo di concepire il reale e il racconto del mondo.

99 Nel senso di genere formulaico, non come genere letterario, quindi inteso come temi e motivi e struttura della narrazione.

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videogiochi in quest’ottica, ricordando che la loro narrazione dipende dal medium su

cui si trovano, dall’interazione che mettono a disposizione e dal genere a cui cercano di

appartenere, e, attingendo di volta in volta agli strumenti più adeguati e pertinenti, alle

fonti più affini ed esplicitamente correlate, cercando di individuare le analogie e le

differenze nella strutturazione del ritmo narrativo tra le opere testuali e quelle

videoludiche. Questo metodo non vuole proporsi come univoco e “finale”, ma

sicuramente permette di analizzare i videogiochi narrativi in modo completo, almeno

da un punto di vista narratologico, e permette di gettare una nuova luce anche su altri

aspetti del videogioco, come il gameplay* e l’interattività, sempre partendo da un

contesto prettamente “letterario” e da una forte adesione al testo (cioè al videogioco) di

riferimento. Ogni rappresentazione viene studiata così da essere strutturata nel modo

più efficace e artisticamente coerente, dal punto di vista del genere, dei modi e delle

circostanze in cui viene fruita:

“In that new communicational world there are now choices about how what is to be represented should be represented: in what mode, in what genre, in what ensembles of modes and genres and on what occasions.”100

È esattamente quello che deve accadere: come nel processo diacronico della critica dei

generi letterari si è arrivati ad accettare una prospettiva prettamente genettiana

secondo cui non si devono forzatamente individuare le occorrenze di un determinato

genere in un testo ma, al contrario, è più proficuo osservare quali rimandi (intertestuali,

paratestuali, ipertestuali, ecc.) un testo abbia rispetto a un insieme prestabilito di

canoni, noi, davanti ai videogiochi e alla novità ermeneutica che rappresentano,

dobbiamo applicare ad hoc quegli strumenti che ci paiono più adatti per capire la loro

struttura e non, forzatamente, cercare di farli rientrare in un genere o in un modo pre-

esistenti. Possiamo quindi individuare analogie, rimandi ipertestuali, identificare

100 Kress, op. cit. p. 117

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parallelismi e accertare il recupero di determinate strategie, ma non potremo

concentrarci unicamente sull’elemento verbale a scapito di quello visivo o interattivo.

Per concludere questa panoramica sulle caratteristiche della nuova “letteratura”, vorrei

tornare brevemente sul discorso, molto importante, che vede come centrale il

passaggio che si è verificato, con l’avvento dei nuovi media, da “mondo raccontato” a

“mondo mostrato”. Se, infatti, questo cambiamento è stato fondamentale nella nostra

fruizione dei contenuti, io vorrei aggiungere un ulteriore passo: dal mondo raccontato

si è passati al mondo mostrato e ora si sta passando a mondo “personalizzato” tramite

l’interazione e, appunto, la costruzione personale del contenuto.

“New forms of reading, when texts show the world rather than tell the world have consequences for the relations between makers and remakers of meaning (writers and readers, image-makers and viewers). In this it is important to focus on materiality, on the materiality of the bodily senses that are engaged in reading - hearing (as in speech), sight (as in reading and viewing), touch (as in the feel of Braille) – and on the materiality of the means for making the representations that are to be ‘read’ – graphic stuff such as letters or ideograms, sound as in speech, movement as in gesture.”101

Questo riconoscimento di nuove modalità di “lettura” che dipendono, in realtà, dalle

nuove forme di scrittura, riguarda la testualità digitale in generale e non si concentra in

modo particolare sui videogiochi. A noi, allora, aggiungere che se è importante

concentrarsi sulla materialità dei sensi coinvolti, oggi, nella lettura dobbiamo precisare

che anche e soprattutto nei videogiochi queste sollecitazioni e queste “integrazioni

sensoriali” rivestono un ruolo primario. La vista è sfruttata sia per la lettura di

informazioni che per l’osservazione del mondo e l’esplorazione, l’udito è sollecitato da

musiche e suoni creati appositamente per rendere più intensa l’esperienza di gioco (la

“lettura”), il tatto è fondamentale nel momento in cui diventa il veicolo primario di

risposta e interazione con il mondo di gioco. D’altra parte, la “forma” di quello che viene

letto ha un forte impatto sulle modalità di lettura, e questo vale nella letteratura in

generale, al di là dei videogame. L’elemento fortemente visivo e l’elemento interattivo 101 Kress, op. cit. p. 140

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rendono l’interpretazione del “mondo” che deriva dalla “lettura” dei videogiochi un

terreno semi-sconosciuto d’analisi, che merita attenzione e che riserva diverse difficoltà

metodologiche e che va anche al di là della critica che riguarda le nuove forme di

scrittura e lettura fortemente dipendenti dai nuovi media perché aggiunge l’elemento

dell’interattività applicandolo non solo al testo, ma alla spazialità e alla temporalità102.

L’utilizzo simultaneo di immagini e parole, nonché di audio e interattività, ci porta a

considerare la narrazione digitale come un insieme complesso non solo di segni, ma

anche di modi e canali e soprattutto di significati che devono essere interpretati.

Tornando al caso del videogioco, ci troviamo di fronte a un insieme di segni che

devono tutti essere interpretati simultaneamente, non consequenzialmente. Un

determinato input audio avrà un significato se si verifica in un momento o in un altro.

Un particolare testo che visualizziamo a schermo può non avere senso nelle fasi iniziali

di un’avventura ma, lo stesso identico testo può essere ritrovato e re-interpretato,

stavolta con successo, dopo l’esplorazione e il ritrovamento di altri segni che ci danno

più strumenti per interpretare il contesto. Questo avviene perché, in realtà, la narrazione

di cui stiamo parlando è più un elemento interattivo inserito all’interno di un contesto

fatto di immagini e di riferimenti visivi che un testo vero e proprio nell’accezione

classica del termine.

“The syntax which gives order to the elements of the text, the sentences, is also clear, and strictly given: I cannot read elements ‘out of order’, in the sentences or parts of sentences (…). The image by contrast does not have such a clearly set reading path (…). With more complex images, the question of the reading path becomes, if anything, more free.”103

102 Nelle forme di scrittura legate ai media troviamo, ad esempio, i blog, i forum, e tutti quegli spazi interattivi di

condivisione dell’informazione. Anche in questo caso l’utente può interagire e fornire feedback in modo libero e totalmente personale. Tuttavia, in questi casi, l’elemento centrale resta, ancora una volta, la verbalità e, al limite, l’integrazione del testo con immagini. Nel caso dei videogame, invece, cambia totalmente l’approccio interattivo perché non si deve interagire parlando o raccontando ma mostrando o agendo: cambiano, quindi, le strategie per trasmettere le informazioni, perché non si può più unicamente fare leva sulla trasmissione di un messaggio “oggettivo”, perlomeno, semioticamente ben definito. Si deve, ora, creare un “ritmo” e suggerire un’esplorazione del “testo” interattivo tale per cui attraverso la visualizzazione e l’azione il giocatore comprenda il messaggio che l’autore (il game designer) ha voluto trasmettergli.

103 Ibid. p. 154

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È questo che accade in una narrazione videoludica: la “sintassi” canonica della

narrazione è sovvertita o, per meglio dire, sostituita da una sintassi rizomatica legata

alla natura stessa di ciò che è “scritto” e che si “legge”: l’esplorazione di un ambiente

costituito da rappresentazioni iconiche e da immagini risulta più libera rispetto alla

lettura lineare o meno di un testo vincolato alla sintassi della frase. Sebbene espedienti

di questo tipo popolino i testi letterari dal modernismo in poi (con qualche illustre

progenitore antecedente al ventesimo secolo, addirittura) è importante essere

consapevoli del fatto che, nel caso della narrazione videoludica o interattiva, il

giocatore non si trova ad affrontare in modo ordinato una semplice sequenza sintattica

da esplorare, approfondire e al termine della quale avere una visione globale dell’opera

che ha letto. Il giocatore si trova da solo davanti a porzioni di narrazione e deve

interpretarli nel modo più corretto e “autonomo” possibile, così da capire qual è il

percorso su cui l’autore lo vuole condurre e arrivare in fondo a quel percorso con

quella illusione di libertà che è tipica dei videogame. Se, quindi, nella narrazione

tradizionale abbiamo un autore/narratore che ci porta per mano attraverso la storia,

pur ricordandoci di continuo che la verità non esiste e che esistono solo i punti di vista,

nella narrazione videoludica l’autore costruisce una struttura e poi “abbandona”, per

così dire, il giocatore e lo lascia esplorare in autonomia il suo mondo. È fondamentale,

tuttavia, ricordare che questo processo di “sovversione” di una struttura più vincolata

come può essere quella della narrazione tradizionale non porta affatto a un’opera priva

di struttura: gli ipertesti e le narrazioni rizomatiche sono tali (ipertesti e narrazioni)

perché comunque rispondono a una serie precisa di regole e a un’impostazione logica

che consente la trasmissione di un significato. L’ordine che sta alle spalle di queste

strutture che suggeriscono un’illusione di libertà all’utente è fondamentale perché

altrimenti, se il lettore non riesce a riconoscere a interpretare l’ordine e il sistema di

regole sotteso alla narrazione, viene frustrato e non solo non riesce a proseguire nella

fruizione, ma non riesce nemmeno a cogliere il messaggio che vuole essere veicolato.

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Anche il videogioco e la sua struttura “visiva” sono legati a delle ricorrenze, a una

grammatica, a un ben preciso insieme di norme. Semplicemente, le convenzioni che

regolano questo sistema sono più “personalizzabili” e configurabili rispetto alle

convenzioni che regolano la scrittura. È questa la prassi a cui ci riferiamo quando

parliamo di “game design”: esattamente come la scrittura prevede una serie di norme,

di regole e di vincoli per la comprensione del messaggio che sta trasmettendo, allo

stesso modo il videogioco implica una struttura globale di “scrittura” alle proprie spalle.

La differenza che riguarda la scrittura videoludica è la sua formulazione su due livelli: il

livello “emergente” e quello “strutturale”. Il livello emergente della scrittura videoludica

è quello visibile anche al giocatore: i testi nel gioco, la verbalità (scritta o orale) che si

trova nel corso dell’esplorazione e della narrazione, tutti gli elementi linguistici in cui il

giocatore incappa, che siano o meno centrali per il proseguire delle vicende. Il livello

“strutturale” della scrittura videoludica riguarda invece tutto il resto del gioco: per

arrivare a realizzare un ambiente, e quindi gli elementi grafico-visivi, gli avatar*, i

personaggi, ma anche l’interattività, la reazione dei singoli elementi ai singoli input e

così via, il game designer deve redigere centinaia di pagine di quella che potremmo

chiamare una “sceneggiatura” ma che, allo stato dei fatti, è meramente una descrizione

verbale di quello che dovrà poi essere tramutato in elementi non-verbali. Allora, a

livello strutturale, appunto, tutto quello che vediamo come prodotto finito in un

videogioco è stato concepito, in origine, sotto forma verbale e scritta, salvo poi essere

“trasformato” e “adattato”104: il sostrato del videogame è quindi ancora una volta

formato da una verbalità legata alla sintassi della frase e alla semantica delle parole, che

deve essere poi letteralmente “trasmutata” e “tradotta” in un altro linguaggio.

Parzialmente, forse, il processo che porta dal game design teorico e astratto alla

visualizzazione concreta del gioco è un processo di “traslazione” e adattamento che

coinvolge diversi mediatori: i grafici, i programmatori, i sound artist e, ovviamente, il 104 Questo termine è di fondamentale importanza, perché questo processo che parte dal game design verbale e arriva alla

realizzazione del videogioco o del prodotto interattivo come concepito nella mente dell’ideatore è un passaggio fondamentale per l’adattamento del “testo” in “testo videoludico”.

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“coordinatore” di tutto, il game designer. In questo contesto, in cui un’idea che nasce

sotto forma verbale e viene trasformata in qualcosa che usa la verbalità (e le sue

strutture) in modo nuovo, è importante mantenere chiaro il concetto di “livelli di

rilevanza” degli elementi:

“The screens of computer (or video) games are multimodal – there is music, soundtrack, writing at times – yet overwhelmingly these screens are dominated by the mode of image. As the graphics become ever more sophisticated, the forms of reading necessary to play at least some of the games successfully become more subtle and demanding. (…) Linearity is certainly not a useful approach to the reading of these screens – it is visual clues such as silence, colour, texturings, spatial configurations of various kinds, the meaning of specific kinds of element either natural or human-made, which allow the player to construct a reading path, which tracks the path of the narrative.” 105

L’aspetto visivo assume, fondamentalmente, più rilevanza ma, in generale, va sempre

inserito all’interno di un contesto di interpretazione che prevede nuove strategie di

approccio al testo: “Readers of such screens are used to a different strategy”106. Questa

“strategia diversa” rimanda ancora all’idea di sinestesia, perché è la sommatoria degli

elementi messi in gioco per trasmettere il significato che diventa realmente

coinvolgente ed efficace. Il principio legato alla rilevanza viene seguito

automaticamente dagli utenti, che si concentrano in modo diverso sui diversi elementi

a seconda delle informazioni che stanno cercando. Se, ad esempio, stanno cercando la

risoluzione di un enigma o delle informazioni che permettano loro di proseguire nella

vicenda, si soffermeranno in modo più attento e accurato sugli elementi verbali. Se,

invece, cercano di compiere un percorso particolare o di portare a termine un compito

che richieda principalmente abilità di movimento e di azione, si concentreranno

fortemente sugli elementi visivi, spaziali e interattivi. Non esiste più, come nella pagina,

un’organizzazione vincolata e prioritaria, non c’è più un percorso preciso da seguire. Il

compito del “lettore” moderno è, sempre più, quello di interpretare quello che vede e di

trasformare i segni in strutture di significato. Nel caso della testualità tradizionale, il

105 Ibid. p. 160 106 Ibid. p. 161

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lettore doveva “seguire gli ordini” e intraprendere l’interpretazione nel limite di quegli

“ordini”. Ora, sullo schermo, il compito del lettore è quello di stabilire un ordine tra i

principi di rilevanza degli elementi e di costruire il proprio significato da questo nuovo

ordine. La libertà non è ancora completa e totale, ma è sicuramente maggiore107.

Constatato e descritto questo cambiamento nel paradigma di lettura e di scrittura nei

nuovi media e, nel nostro caso, nei videogiochi, è adesso importante parlare di quegli

elementi chiave che caratterizzano le narrazioni (sia classiche che videoludiche)

sottolineando come la loro funzione sia radicalmente mutata perché, appunto, è stato

scardinato il principio della linearità che governava l’organizzazione del testo e l’utilizzo

degli strumenti narrativi, ed è avvenuta una riconfigurazione di questi elementi così da

farli diventare funzionali al nuovo modo di narrare.

Nuovi strumenti interpretativi per le narrazioni digitali Il quadro generale di mutamento e adattamento delle narrazioni digitali descritto porta

a interrogarsi sugli strumenti e sulle istanze narrative che vengono riprese dalle

narrazioni tradizionali e ri-utilizzate, in modo originale e innovativo, nelle narrazioni

videoludiche di cui affronteremo l’analisi nel capitolo conclusivo.

In particolare, è importante osservare come, da una parte lo spazio e il tempo, sia del

racconto che della fruizione, vengano modificati e adattati al contesto videoludico,

dall’altra comprendere come i personaggi, e quindi il loro rapporto con il lettore cambi,

nei media digitali.

Lo spazio e il tempo arrivano, anche nel caso del videogioco, a superare la

configurazione che avevano nel contesto letterario e a integrarsi tra di loro in modo

107 Questi due metodi di “allenamento alla lettura” non sono affatto esclusivi: il lettore che apprenda entrambe le strategie

di lettura e interpretazione, infatti, saprà riconoscere agilmente i diversi contesti, modi o canali in cui si trova e saprà adattare il suo metodo di interpretazione alla lettura che sta eseguendo. Più problematica si rivela la situazione in cui, per motivi culturali ed educativi, nell’epoca contemporanea si stia letteralmente perdendo il paradigma di lettura classico in favore unicamente di quello multi-modale. Ma non è questa la sede per affrontare questo discorso che più che letterario è prettamente sociologico.

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tale da creare un contesto “ritmico” per le azioni dei personaggi e, al tempo stesso, in

modo tale da creare la struttura che guiderà il giocatore all’esplorazione dell’opera, pur

lasciando sempre quell’illusione di libertà che fa percepire il mezzo digitale e interattivo

come “potenzialmente infinito”.

La concezione di spazio e tempo varia, principalmente, nei mondi digitali, perché sono

variati i mindset108, ossia le strutture mentali attraverso cui interpretiamo il reale. In

letteratura, allora, abbiamo anche in epoca moderna e contemporanea una concezione

di spazio e di tempo che, per quanto sperimentali e ardite, resta comunque fortemente

legata al paradigma di cui è figlia, ossia quella sequenzialità imprescindibile che

presuppongono i media narrativi intesi fino a oggi. La comunicazione a stampa (sia

libro, rivista, fumetto, libro-game, e così via) ha contribuito a codificare e standardizzare

lo spazio e il tempo. Lo spazio letterario è sia intra-testuale che extra-testuale: lo spazio

intra-testuale a cui ci riferiamo è quello proprio della narrazione, ossia il contesto e le

ambientazioni all’interno del quale avvengono le vicende dei protagonisti. Da “luogo”

puramente funzionale alla narrazione, nel corso delle evoluzioni della letteratura, lo

spazio si è evoluto, assumendo valenze metaforiche, diventando secondario o del tutto

“interiore”, mutando in base al punto di vista dei personaggi, e così via. Da uno spazio

descritto, con la funzione di sfondo degli eventi, si è passati a uno spazio caratterizzato

in modo realistico ma con alcuni elementi indicativi della psicologia o dello stato

d’animo dei personaggi che lo popolavano e, ancora, a un paesaggio tutto interiore,

oggettivo solo all’apparenza ma in realtà filtrato dalla percezione del personaggio che

lo sperimentava. Esso ha mantenuto, tuttavia, una natura “oggettiva”, anche nella fase

di scardinamento della verità univoca (il modernismo e il post-modernismo); esso è

rimasto un luogo oggettivo anche nelle sperimentazioni letterarie più recenti, come il

cyberpunk, perché è sempre stato il contesto più o meno visibile che faceva, in un modo

108 Il termine “mindset” ci aiuta a condensare l'idea di contesto culturale del giocatore ma anche di formazione personale e

di percezione soggettiva dell'opera/della comunicazione. È utilizzato, tra gli altri, da Knobel e Lankshear in A New Literacies Sampler, op. cit.

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o nell’altro, da sfondo alle vicende dei protagonisti109. Questa oggettività e, in generale,

questo realismo della descrizione dipendono dal fatto che lo spazio non è mai il vero

protagonista, nella narrazione tradizionale: lo spazio è sempre funzionale ai movimenti,

alle azioni, ai sentimenti, all’introspezione e alla simbologia dei personaggi. Lo spazio

extra-testuale è invece lo spazio fisico della lettura: la pagina è diversa dallo schermo e

prevede un ordine principalmente sequenziale degli elementi, dall’alto in basso, da

destra a sinistra110. Sperimentazioni di integrazioni linguistico-spaziali, come quelle del

futurismo o di altre avanguardie di inizio del secolo scorso, servono per

ricontestualizzare in minima parte lo spazio della lettura, ma falliscono, almeno in

epoca contemporanea, nel riprodurre una sensazione di vera sinestesia e, soprattutto,

nel fornire un contesto realmente “spaziale” da esplorare per il lettore. L’idea di spazio

nella letteratura tradizionale si scontra con l’impossibilità del fruitore di sperimentare

ed esplorare liberamente lo spazio parzialmente descritto dal testo.

Lo spazio, nel videogioco, serve anche come elemento primario per creare un contesto

che risponda all’orizzonte di attesa del giocatore: la sola ambientazione di un gioco, che

sia fantasy, horror, fantascientifica, serve a contestualizzare fortemente l’azione che il

giocatore si troverà a svolgere e serve sempre e comunque per dare un contesto chiaro

in cui il personaggio si muove. Questo contesto chiaro ha lo scopo di creare o

situazioni coerenti, in cui il protagonista è in sintonia e armonia con l’ambiente

circostante, o situazioni di rottura, in cui il protagonista si trova a disagio ed è un

elemento estraneo rispetto all’orizzonte di attesa creato dal contesto estetico e spaziale.

Nei videogiochi che analizzeremo lo spazio ha una funzione di coerenza nel caso di

Shadow of the Colossus, in quanto è in linea con il contesto fiabesco di cui il personaggio

109 Si potrebbe obiettare che lo spazio, in alcune narrazioni (si pensi, ad esempio, a The Waves di Virginia Woolf) non è

affatto uno spazio oggettivo, ma è uno spazio interiore e tutto personale, distorto quasi, che ognuno dei personaggi esplora e narra a modo suo. Il vincolo a cui ci riferiamo si riferisce all’utilizzo forzatamente strumentale dello spazio da parte dell’autore: per forza di cose, le descrizioni dello spazio sono limitate, l’esplorazione non è totale, lo sguardo che, da lettori, possiamo gettare sullo spazio del racconto è sempre vincolato dai limiti descrittivi a cui l’autore, a sua volta forzatamente, deve aderire.

110 Nel caso, ovviamente, della scrittura occidentale. Analogamente, tuttavia, ogni alfabeto e ogni lingua hanno regole fisse per l’organizzazione della scrittura che possono essere infrante solo in quanto fortemente codificate.

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principale e la trama generale fanno parte. Il giocatore vede il proprio personaggio

inserito all’interno di un mondo di fiaba e agisce comportandosi come il contesto della

fiaba si aspetta che faccia (salvo poi scoprire, al termine dell’avventura, che il contesto

in cui era inserito non era quello supposto). In Silent Hill 2 e in Bioshock lo spazio ha la

funzione di rafforzare la sensazione di disagio e disorientamento del giocatore:

ambienti teoricamente comuni (come una normale cittadina americana) o utopico-

fantascientifici (come la città sommersa di Rapture) sono in realtà luoghi dove si celano

terribili orrori e all’interno dei quali i giocatori e i loro personaggi si trovano

costantemente ad affrontare elementi disturbanti, disorientanti e disagevoli. La

presentazione oggettiva dello spazio spinge i giocatori a crearsi un orizzonte di attesa

ben preciso: nel caso della fiaba, il giocatore pensa di essere l’eroe e che tutti i

personaggi che incontra sulla propria strada siano il male da sconfiggere. Nel caso

dell’horror, il giocatore attraversa scenari decadenti e attribuisce la colpa di questa

decadenza a qualche oscura creatura, mentre in realtà l’oscurità proviene dal suo cuore.

Nel caso dell’utopia fantascientifica il giocatore si aspetta di essere un elemento

casuale, piombato per caso in un ambiente che chiaramente non riconosce e a cui

sembra non appartenere, salvo poi scoprire che quel luogo che ritiene tanto mostruoso

ed estraneo è in realtà il suo luogo di nascita. Insomma, lo spazio non fa solo da

sfondo, diventa attore insieme ai protagonisti perché è costantemente sotto gli occhi

del giocatore e perché continene letteralmente elementi funzionali per il prosieguo

della storia.

Allo stesso modo, il tempo nella scrittura è sottoposto, nella narrazione tradizionale, a

vincoli da cui cerca di liberarsi nelle narrazioni digitali. Anche in questo caso, ci

troviamo di fronte a due tipologie temporali: il tempo del racconto e il tempo della

lettura. Il tempo del racconto non ha, virtualmente, limiti neanche nelle narrazioni

tradizionali: se, da una parte, esiste la trama con la sua consequenzialità logica, ogni

narrazione più incarnare quella trama in un intreccio particolare, rendendo

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imprevedibili e potenzialmente infinite le possibilità di combinazione degli eventi

narrati111. Il tempo della lettura, tuttavia, è necessariamente lineare. Un lettore deve

procedere con ordine e secondo una precisa sequenza temporale per affrontare con un

testo tradizionale. L’ordine della fabula, per quanto vario e non lineare, è comunque

inoppugnabile: per comprendere quella determinata narrazione, in quel determinato

momento, il lettore deve seguire pedissequamente la temporalità extra-testuale che

l’autore gli impone, ossia deve seguire l’ordine prestabilito con cui le parole sono

ordinate, l’ordine dei capitoli, delle pagine e così via. Non possiamo saltare da un

capitolo all’altro se l’autore non l’ha previsto; ogni singola pagina va letta secondo un

ordine preciso (da in alto a sinistra a in basso a destra, se non diversamente specificato

dall’autore che, comunque, resta l’unico detentore dell’ordine razionale e reale della

temporalità della lettura); le vicende devono essere affrontate in una determinata

sequenza perché anche solo anticipare o trascurare un evento potrebbe modificare

totalmente la percezione del lettore.I media digitali, invece, attribuiscono una funzione

radicalmente diversa allo spazio e al tempo (sia intra- che extra-testuali). È necessario

premettere che non vogliamo suggerire una totale libertà di azione e di movimento

(nello spazio e nel tempo) quando parliamo della diversa funzione di questi elementi

nella narrativa interattiva. È logicamente necessaria una struttura di fondo, predisposta

dall’autore (o dagli autori) e che il giocatore deve essere in grado di comprendere e

interpretare, pena l’impossibilità della lettura dell’opera. Tuttavia, ancora, l’illusione di

libertà concessa dallo spazio e dal tempo virtuale scatenano dinamiche nuove e

riconfigurano il bilanciamento degli elementi narrativi e la loro percezione da parte

dell’utente. Innanzitutto, lo spazio diventa uno spazio navigabile, esplorabile e carico di

significati, anche nascosti, che sta al giocatore trovare. Quello che accadeva, a livello più

linguistico-citazionistico con riferimenti testuali emergenti all’interno delle descrizioni,

ora avviene in modo visivo, attraverso tutto l’ambiente “consegnato” letteralmente

111 Borges racconta bene questa potenzialità nel suo racconto “La Biblioteca di Babele”, luogo mitico che contiene le

redazioni di ogni possibile combinazione delle lettere e dei segni di interpunzione utilizzati dall’uomo per scrivere.

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nelle mani del giocatore, che può disporne a proprio piacimento112. Sebbene l’autore sia

sempre alle spalle dell’opera, il giocatore non percepisce più la sua presenza, così come

quella del narratore/autore. L’attenzione è tutta concentrata sulla prospettiva (o le

prospettive) del personaggio (o dei personaggi) attraverso i cui occhi il lettore-

giocatore guarda: il personaggio di gioco diventa un “organismo” autonomo, grazie al

quale il giocatore ha libertà assoluta di interagire (ha anche, addirittura, la possibilità di

non interazione). Il tempo, a sua volta, diventa come lo spazio: pur mantenendo dei

vincoli di ritmo narrativo o di presentazione degli eventi, il giocatore può seguire la

narrazione secondo il proprio ritmo, e cioè attraversando “sequenze narrative” in modo

più rapido e sbrigativo o più lento e approfondito, ma può spesso costruire il proprio

intreccio (plot), senza dover sottostare ai vincoli temporali imposti dall’autore. Non solo

la fruizione, quindi, ma tutto il concepimento di narrazioni di questo tipo prevede una

narrazione che sia più assimilabile a un’esplorazione: spaziale, perché lo spazio deve

essere tutto a disposizione del giocatore, che poi decide secondo quali modalità e con

quale profondità esplorarlo, e temporale, perché gran parte dell’organizzazione degli

elementi (non tutti) che costituiranno la trama non potrà essere “temporalmente”

vincolata dalla fruizione (o meno) del lettore, ma dovrà essere libera. Questo significa

che l’autore non può più presupporre che il lettore incapperà forzatamente in

un’analessi o in una prolessi, addirittura non può presupporre che esplori forzatamente

un ambiente prima di giungere a un altro, e così via113.

Il cambiamento di questi due elementi narrativi è fortemente legato al mezzo su cui la

narrazione avviene e all’interattività, considerata un elemento intrinsecamente

imprescindibile per i videogiochi. Tuttavia, anche a livello più generale, possiamo dire

112 Permangono, ovviamente, dei vincoli “fisici” legati all’impossibilità di realizzare uno spazio infinito e alla necessità di

rispettare le regole fisiche imposte dal mondo virtuale. Tuttavia, l’ampiezza di interazione concessa dal giocatore è, sia praticamente che concettualmente, molto superiore di quella concessa al lettore.

113 Ovviamente, esistono senza dubbio dei vincoli che gli autori di trame videoludiche e i game designer devono tenere in considerazione: se la finalità del gioco è quella di far vivere al giocatore un’esperienza e di fargli attraversare una storia, ci devono essere degli elementi chiave, collocati sia a livello spaziale che temporale in “nodi” di gioco attraverso cui il giocatore deve passare forzatamente. Di solito, tuttavia (e questo vale, in particolare, per i tre videogiochi che analizzerò in seguito), questi elementi sono notevolmente ridimensionati e limitati rispetto, invece, alla libertà di azione, esplorazione e movimento concesso al fruitore.

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che la riconfigurazione dello spazio e del tempo narrativi sia legata a un cambiamento

nella forma mentis dei “lettori” contemporanei.

Di seguito riporto una tabella comparativa114 tra i due mindset, quello che ha convissuto

con la narrazione tradizionale (Mindset 1) e quello, invece, che ha cominciato ad

affiancare e a presupporre, addirittura, narrazioni digitali basate su principi e cardini

diversi o, quantomeno, evoluti rispetto alla mono-canalità e alla mono-modalità della

carta stampata (Mindset 2). Quello che emerge da questa tabella è che le

caratterizzazioni dello spazio e del tempo nei media digitali non dipendono solo dalla

nuova possibilità di interagire in maniera realmente attiva (non solo con

un’interpretazione attiva, ma con una e vera e propria costruzione attiva del testo) con il

medium di riferimento, ma derivano da un mutamento nella sensibilità, nelle esigenze

e nelle modalità di interpretare la realtà in generale dei lettori.

Tabella tratta da A New Literacies Sampler115

114 Knobel, Michael and Lankshear, Colin (eds) op. cit. p. 11 115 Ibid. p. 11

Mindset 1 Mindset 2 The world basically operates on physical/material and industrial principles and logics. The world is centered and hierarchical.

1- Value is a function of scarcity 2- Production is based on “industrial” model 3- Products are material artifacts and

commodities 4- Production is based on infrastructure and

production units and centers (e.g., a firm or company)

5- Tools are mainly production tools 6- The individual person is the unit of

production, competence, intelligence 7- Expertise and authority are “located” in

individuals and institutions 8- Space is enclosed and purpose specific 9- Social relations of “bookspace” prevail; a

stable “textual order”

The world increasingly operates on non-material (e.g, cyberspatial) and post-industrial principles and logics. The world is “decentered” and “flat”.

1- Value is a function of dispersion 2- A “post-industrial” view of production 3- Products as enabling services 4- A focus on leverage and non-finite

participation 5- Tools are increasingly tools of mediation

and relationship technologies 6- The focus is increasingly on “collectives” as

the unit of production, competence, intelligence

7- Expertise and authority are distributed and collective; hybrid experts

8- Space is open, continuous and fluid 9- Social relations of emerging “digital media

space” are increasingly visible; texts in change

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Allora, questi due mindset messi a confronto ci aiutano a capire perché l’interazione e la

riconfigurazione dei parametri narrativi funzionali a trasmettere un racconto in modo

efficace o a comunicare dei contenuti in modo comprensibile sia un processo ormai

completamente in atto, cercando sempre di sfruttare l’elemento artistico ed estetico per

creare un’opera che non sia solo funzionale ma che sia anche bella, emozionante ed

esteticamente connotata. In particolare, è interessante notare come concetti quali

“Tools are increasingly tools of mediation and relationships” vanno a sostituire il

concetto di centri deputati alla produzione, sia essa di manufatti che di idee: non c’è più

una divisione in compartimenti stagni ma “Space is open, continuous and fluid”, perché

non ci sono virtualmente (almeno secondo la nostra percezione) barriere o limitazioni.

In realtà, non possiamo parlare di assenza totale di barriere o limiti, quello che

possiamo certamente constatare è un cambiamento nell’orizzonte di attesa dei fruitori,

di qualunque media si parli, al di là della narrazione: ci si aspetta, si presume e,

letteralmente si esige di poter interagire con le situazioni, non ci si accontenta più di

ricevere ma si vuole scambiare. La partecipazione a qualsiasi tipo di processo è

diventata una conditio sine qua non: le persone decidono di “mettersi in gioco”. Le storie,

il racconto, le narrazioni non sono da meno: la volontà, sia in fase produttiva che in

quella di fruizione, è di modificare il processo davanti a cui ci si trova con le proprie

scelte, con le proprie “personalizzazioni”. Il cambiamento che si sta verificando in questi

anni è un cambiamento profondo, che non riguarda la struttura superficiale delle cose

ma che tocca il cuore dell’organizzazione dei pensieri e della visione del mondo. Anche

oggi, il paradigma sta cambiando: la nuova frontiera della rete, ad esempio, il concetto

di Web 2.0, è un chiaro esempio di questa tendenza. Non è più sufficiente ricevere

informazioni, non è più nemmeno sufficiente produrne e inviarne a proprio piacimento:

possiamo, dobbiamo e vogliamo gestire a nostra discrezione il flusso di informazioni e

personalizzare totalmente i servizi di cui disponiamo. Allo stesso modo, le storie, la

narrazione, l’intrattenimento in generale deve avere un’elasticità tale per cui non ci

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sono più vincoli (o, per lo meno, l’utente li percepisce molto meno). È in quest’ottica che

lo spazio e il tempo modificano la loro funzione: non più strutture lineari e forzate, ma

ambienti rizomatici, ipertestuali e, sicuramente, ludici per trasmettere sempre più a un

fruitore “ben educato” quel senso di esplorazione e libertà piuttosto che di “percorso

guidato” e coercizione.

Spazio e tempo diventano centrali anche nel momento in cui la verbalità va

ridimensionata a favore di altre caratteristiche del testo: nei videogiochi, ad esempio, e

come vedremo nei casi presi in analisi, la narrazione non avviene necessariamente a

livello verbale: è la libertà concessa dal designer (ossia da quell’autore che diventa poi

invisibile e che, durante la fruizione dell’opera, il giocatore tende a dimenticare

completamente) al personaggio interpretato dal giocatore, di muoversi, vagare,

curiosare, scoprire, vedere e interagire che costruisce le vicende.

L’elemento verbale è solamente uno dei tanti canali narrativi a disposizione per

comunicare il messaggio. Raramente (sicuramente non nei nostri casi) il canale per

trasmettere la storia è uno solo: nei casi più fortunati esiste un’integrazione armonica

tra gli elementi. Ci riferiamo a elementi come lo spazio, il tempo, il ritmo, l’apparato

sonoro, le potenzialità dell’interazione, e così via: tutti quegli elementi che permettono

di costruire uno spazio virtuale da esplorare, che sia un mondo fantasy o un portale di

contenuti, che si parli di una fiaba dell’epoca moderna o di un’enciclopedia virtuale.

All’interno di queste tipologie diversissime di ambiente virtuale, poi, gli espedienti

comunicativi e le strategie narrative verranno applicate in modo diverso per

raggiungere il massimo valore estetico. Comunque, la creazione di uno spazio, che sia

condivisibile, personalizzabile, interattivo e virtualmente infinito è diventato ormai un

presupposto fondamentale per la narrazione videoludica. Lo diventa ancora di più se

tale narrazione rimanda al genere fantastico.

La dinamica che innesta questa esigenza di avere un nuovo tipo di narrazione verbale e

non verbale tra mittente e destinatario può essere considerata, in qualche misura,

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analoga alla dinamica del romanzo moderno116, che andava a collocarsi in un contesto

di lettura nuovo rispetto a quello del passato: dall’oralità e dalla lettura condivisa e

comunitaria, intesa come un momento sociale, si stava passando alla lettura

individuale. Osserva Rosamaria Loretelli:

“Il novel è infatti la risposta ad un’esigenza nata con le nuove modalità di lettura, e precisamente il bisogno di catturare dei lettori che ora si trovano soli davanti a un testo, vis ò vis con questo. (…) Ora, una semplice fila di parole, segni neri su fogli bianchi, dovrà costituire la fonte – fonte unica – di interesse e di emozione; dovrà, cioè, convincere i lettori ad andare avanti nella lettura fino alla fine del libro, fino alla sua ultima parola.”117

Questo è lo stesso processo che sta seguendo il videogioco: nasce come risposta a

un’esigenza nata con le nuove modalità di comunicazione e interazione. Visto che

nasce come prodotto di intrattenimento, il videogioco, proprio come il romanzo, deve

trovare il modo per incuriosire e invogliare prima, trattenere e accattivare poi quel

giocatore che dovrà arrivare alla sua fine. Le domande che si sono posti gli autori che

cominciavano a vivere nel periodo di cambiamento di paradigma cognitivo della

lettura del romanzo sono le stesse che i game designer si fanno oggi:

“Come può un autore attrarre e suscitare la curiosità del suo lettore (…)? Come trattenere attenzione e curiosità fino in fondo? Come indurre a leggere e (implicitamente) a comprare? Questo è, a mio avviso, il senso del cambiamento formale che il novel apporta alla narrativa. Il novel, cioè, risponde a quell’esigenza e quella domanda.”118

E così fa il videogioco: inventa un nuovo linguaggio che si adatti al nuovo medium che

esso è, grazie alla possibilità di continui feedback da parte degli utenti si adatta, migliora,

si adegua.

Cosa avviene, esattamente? Se, lo ripetiamo nuovamente, il romanzo e il videogioco

non possono essere assimilati o paragonati, è però possibile riferirsi agli stessi principi 116 Il paragone non riguarda i media interattivi rispetto al romanzo, ma vogliamo mostrare come il discorso che la studiosa

Rosamaria Loretelli fa parlando dei cambiamenti dei meccanismi cognitivi della lettura che abbiamo attraversato, come società letteraria, con l’avvento del romanzo moderno si stanno ripetendo, con modi e forme differenti, con l’avvento de nuovi media.

117 Loretelli, Rosamaria “Psicologia della lettura e nascita del romanzo moderno” in Le origini e le forme del romanzo inglese. Teorie a confronto, a cura di D. de Filippis e C. M. Laudando, Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’, Napoli 2005, p. 108

118 Ibid. p. 108

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regolatori per spiegare in che modo e perché entrambe queste forme di narrazioni si

sono adattate e sono diventate119 due dei veicoli più diffusi delle loro rispettive epoche

per trasmettere storie. È nel testo di Hume, Enquiry Concerning Human Understanding che

si può trovare un’interessante analisi di narrazione e immaginazione, tempo e spazio,

causa ed effetto:

“Hume assimila la lettura al pensiero. Per lui la lettura è pensiero guidato da un testo. Si sviluppa secondo la medesima combinazione associativa, possiede la stessa temporalità e intrattiene un uguale rapporto con le passioni.”120

L’universalità del pensiero di Hume è tale che è possibile, a secoli di distanza, applicare

nuovamente questa prospettiva allo shift che i processi di lettura stanno subendo

passando dal libro ai media digitali: la multimodalità e la multimedialità sono pensiero

(come lo intendeva Hume nel caso della lettura) guidato dall’interattività. Il nostro

pensiero è formato e plasmato sulle modalità dell’interazione (così come, nel caso del

romanzo, era plasmato sulla lettura). Hume afferma:

“A man is a reasonable being and is continually in pursuit of happiness, which he hopes to attain by the gratification of some passion or affection, he seldom acts or speaks or thinks without a purpose and intention. He has still some object in view; and (…) he never loses view of an end (…). In all composition of genius, therefore (…) there must appear some aim or intention.”121

Quindi c’è bisogno di uno “scopo”, di un obiettivo, di qualcosa che tenga legato il

lettore (o il giocatore) al gioco fino alla fine: questo qualcosa è proprio la narrazione

che, con la sua capacità di attrarre e suscitare stati affettivi, fa leva sulla simpathy e “fa

scattare” un coinvolgimento, un interesse e un’immedesimazione nei confronti dei

personaggi narrati e delle situazioni. Come nel caso del romanzo, che ha sviluppato le

sue dinamiche narrative in modo tale da tenere stretta l’attenzione e l’interesse del

lettore, allo stesso modo il videogioco sviluppa le sue strategie narrative attorno a 119 Il processo del romanzo ci risulta piuttosto chiaro, mentre quello del videogioco è ancora confuso, perché in fieri, non

ancora stabilizzato o concluso. 120 Ibid. p. 111 121 Hume, David (1964) The Philosophical Works, vol. IV, Hill Green, T. (ed), T. Hodge Grose, Darmstadf, Scientia Verlag

Aalen, p. 19

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questa necessità: la narrazione è ancora quello “scopo” di cui parla Hume, che serve per

suscitare l’empatia nel lettore e però, adesso, non abbiamo solo un sottile filo nero di

parole per interessare il fruitore, bensì possiamo sfruttare la multi-medialità e

l’interattività, adoperando la narrazione come “collante” e come elemento

contenutistico per giustificare l’attività e l’azione del giocatore. Il problema della

temporalità, a cui abbiamo prima accennato, non è di per sé nuovo, in quanto

riguardava già il romanzo: bisognava (e bisogna tuttora) trovare un modo per

“sincronizzare”, per così dire, i due elementi che riescono a trattenere il lettore avvinto al

testo, ossia la stimolazione dell’immaginazione e dell’emozione. Quando ci si trova a

interagire con l’immaginazione e con la volontà di suggerire o suscitare determinate

emozioni, ci si trova davanti a un problema legato all’asincronia proprio di

immaginazione ed emozioni:

“The imagination is extremely quick and agile; but the passions, in comparison, are slow and restive: For which reason, when any object is presented, which affords a variety of views to the one and emotions to the other, thought the fancy may change its views with great celerity; each stroke will not produce a clear and distinct note of passion.”122

Si deve trovare un modo di “colmare” questo scarto temporale tra immaginazione ed

emozioni. La varietà della prima deve essere in sincronia con la “riflessività” su cui so

fondano le seconde. Hume afferma che, per risolvere questo problema:

“(…) in narrative compositions, the events or actions, which the writer relates, must be connected together, by some bond or tie: They must be related to each other in the imagination, and form a kind of Unity, which may bring them under one plan or view.”123

E precisa Loretelli:

“Non una caratteristica da introdurre nel racconto sulla base di elementi oggettivi, e che starà là fuori, immobile, nel testo; ma un’unità la cui sede è la mente di chi legge. Dunque un’unità prodotta, nella mente del lettore, dalla sua relazione con il testo durante l’atto della

122 Ibid. vol II, part II, section IX. 123 Ibid. p. 19

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lettura. (…) concilierà le esigenze dell’immaginazione con quelle delle emozioni, tenendo queste accese e quella viva.”124

Ancora, l’ambiguità del discorso (sempre riferita al romanzo) ci mostra come le

caratteristiche necessarie per una narrazione lineare efficace siano passate, quasi in

modo ereditario, a quelle rizomatiche e ipertestuali: il principio di fondo resta invariato

anche se cambia la sua applicazione:

“The sympathy between the passion and imagination will, perhaps, appear remarkable; while we observe that the affections, excited by one object, pass easily to another connected with it; but it transfuses themselves with difficulty, or not at all, along different objects, which have no manner of connexion together. By introducing into any composition, personages and actions, foreign to each other, and injudicious author loses that communication of emotions, by which alone he can interest the heart, and raise the passion to their proper height and period.”125

Hume sostiene che la sympathy tra le passioni e l’immaginazione e quindi il legame, il

coinvolgimento del lettore debbano avvenire attraverso le connessioni, ossia attraverso

strutture narrative che facciano capire a chi legge che ci sono dinamiche di causa-

effetto tra i personaggi, le situazioni e le emozioni che questo insieme suscita. Allo

stesso modo, ci interessiamo di videogiochi narrativi nel senso che è stimolante vedere

in che modo un prodotto fortemente impostato sull’interazione, sull’interattività, su

qualcosa che potrebbe essere meramente tecnico utilizzi invece le trame, i racconti, le

narrazioni per creare quel legame, quella connessione tra il testo e il fruitore. Si può

dire che, grazie alla narrazione, l’interattività e i contenuti del gioco diventino parte di

un grande affresco, che stimola l’immaginazione ma concede tempo alle emozioni, le

quali non devono per forza basarsi unicamente su impulsi e attimi. Le peculiarità

narrative di giochi come Shadow of the Colossus, Silent Hill 2 e Bioshock non stanno né solo

nelle loro forme di interattività né solo nelle tematiche: stanno nella perfetta

integrazione tra le due, processo grazie al quale il giocatore può farsi coinvolgere, a

livello immaginativo, da quello che vede, dagli elementi con cui interagisce, e che,

124 Loretelli, Rosamaria op. cit. p. 114 125 Hume, David, op. cit. p. 23

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comunque, parlano al fruitore con un linguaggio (interattivo ed emotivo) tale per cui le

emozioni si creano e si sedimentano durante tutta la sessione di gioco.

La connessione di cui parla Hume è lo stretto rapporto causa-effetto che persiste nel

videogioco: il giocatore sa come agire perché è inserito in un sistema di situazioni

regolamentate da norme ma che, allo stesso tempo, gli conferiscono un’illusione di

libertà, perché riesce ad attribuire un valore e un ruolo a tutti i personaggi, perché

impara, progressivamente, come sfruttare a proprio vantaggio tutte le connessioni che

il gioco, la narrazione e l’interattività gli mettono a disposizione. Connessione, quindi,

da un punto di vista contenutistico che, per forza di cose, diventa un punto di vista

strutturale nel momento in cui i contenuti vanno veicolati non più solo a livello verbale

ma anche, e soprattutto, all’interno di un ambiente interattivo, dove le connessioni

devono sempre e comunque essere sottoposte a regole.

I personaggi, a questo punto, risultano essere una delle chiavi di volta per attivare

queste connessioni fondamentali per l’esperienza di gioco. Il rapporto che si instaura tra

il giocatore e i personaggi del gioco è vario e dipende, in buona misura, da un

parametro ben definito: la possibilità o meno di controllare i determinati personaggi.

Per chiarezza e semplicità, definiremo avatar* quei personaggi, più o meno

personalizzabili o standard, che il giocatore può interpretare durante le sessioni di gioco,

mentre parleremo di NPC* quando ci riferiremo ai personaggi con cui il giocatore ha

contatti e interazioni ma che vengono gestiti unicamente tramite un sistema di calcolo.

Partiamo analizzando il ruolo e le caratteristiche degli avatar, perché sono questi i

personaggi che, più degli altri, aiutano il processo di connessione del giocatore con il

mondo di gioco e con gli altri personaggi, eventi e situazioni, e che, in generale,

aiutano a dare un senso alle azioni. Gli avatar* protagonisti di videogiochi fortemente

narrativi hanno, come elemento comune, quella di essere fortemente caratterizzati in

funzione del contesto della storia e in funzione della narrazione: in Shadow of the

Colossus abbiamo un piccolo principe che cerca un modo per salvare la propria

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principessa. Brandisce una spada, ha uno scudo e attraversa lande desolate da solo con

il suo fedele destriero. In Silent Hill 2 vediamo James, un personaggio che incarna

appieno lo spirito gloomy e opprimente del racconto dell’orrore. Infine, in Bioshock,

interpretiamo un personaggio anonimo, con un passato che scopriremo fittizio e

costruito ad arte affinché il giocatore si possa immedesimare in modo totale con le

vicende. In tutti e tre questi casi notiamo come l’aspetto del nostro avatar* sia

funzionale al contesto della narrazione: nei panni di Wander il giocatore si sente

sempre più coinvolto nell’avventura, perché, oltre che a livello iconografico, anche a

livello interattivo il piccolo principe attinge al nostro immaginario della fiaba e ci ricorda

quei principi guerrieri che lottano per ottenere il loro trono o per salvare la loro amata.

James è un uomo fragile e insicuro che ci ispira comprensione, quasi compassione, e

che vogliamo aiutare ad andare in fondo alla dolorosa vicenda della morte della

moglie. Jack è un personaggio in pericolo, un “uomo come noi” e ci immedesimiamo

nella sua situazione, condividiamo la sua spinta all’incredulità e alla sopravvivenza. I

nostri avatar* devono essere, in qualche modo, “attraenti”. Questo concetto di

“attraente” riferito all’avatar* o personaggio principale, però, non ha un significato

univoco, ma si lega strettamente a quello di “stereotipo”: non in tutti i videogiochi, non

in tutte le narrazioni ci aspettiamo personaggi di un certo tipo, non in tutti i contesti un

protagonista o un avatar* hanno la stessa efficacia. In una fiaba, avremo bisogno dello

stereotipo di un principe. In un racconto dell’orrore sarà più efficace avere un eroe

combattuto o, addirittura, un anti-eroe, affinché la narrazione risulti adeguatamente

coinvolgente. In una narrazione di fantascienza la definizione del personaggio potrà

essere meno vincolata a criteri di generi, tuttavia l’atteggiamento del personaggio in

questione dovrà rispondere a stereotipi abbastanza definiti: accettazione e

comprensione totale del mondo in cui si trova, disorientamento e rifiuto della realtà e

così via.

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In un testo fondamentale per la realizzazione di personaggi videoludici, Katherine

Ibister afferma:

“Stereotypes are a sensitive subject, and for good reason – they are powerful social tools that guide unconscious decision that can perpetuate an inequitable situation. Once a stereotype has been ‘primed’ in a person mind, he or she tends to look for and mostly see the qualities in a person that support that stereotype, overlooking qualities that do not fit. (…) [Stereotypes] help people make quick assessments so that they do not have to evacuate each person completely ‘from scratch’. (…) Game character designers rely heavily on stereotypes. (…) Yet in a fast-paced game environment it can be helpful for a player to draw upon stereotypes to gauge a character’s intentions and likely actions.”126

Pertanto, i personaggi, che siano avatar* o NPC*, sono spesso stereotipi per aiutare il

giocatore a immedesimarsi più rapidamente nel ruolo che deve interpretare: il fatto di

fornire personaggi di questo tipo aiuta il giocatore a imparare ad interagire più

rapidamente con l’ambiente circostante. Sarà più facile, ad esempio, riconoscere i

nemici, e lo stereotipo avrà una funzione chiarificatrice, oppure (e penso al caso di

Silent Hill 2) sarà più difficile e lo stereotipo avrà una funzione ingannatrice e servirà per

creare disorientamento nel giocatore che presupporrà di aver agito bene salvo poi

scoprire che tutti gli stereotipi (di personaggi, ma anche di situazioni) su cui ha fatto

affidamento per tarare il proprio metro di giudizio erano, in realtà, falsati. L’interattività,

in effetti, “smorza” il senso di banalità dei personaggi. Sebbene nei videogiochi i

personaggi non siano ancora caratterizzati profondamente e in modo variegato ed

evoluto come nelle opere letterarie, la loro “semplicità” è, in realtà, un punto di forza,

perché permette ai giocatori di “riempire” con la loro personalità, adattata al contesto

ludico, il vuoto lasciato dallo stereotipo. Lo stereotipo, insomma, è una forma di libertà

per il giocatore che si trova a interagire con una “base” di personaggio su cui può

“costruire” a proprio piacimento (nei limiti, ovviamente, del contesto di gioco).

Ovviamente, ci sono degli elementi da tenere sempre in considerazione, sia che si stia

creando che si stia analizzando un personaggio: per quanto riguarda i videogiochi, sono

fondamentali le istanze culturali della squadra che ha realizzato il prodotto, ma anche il 126 Ibister, Katherine (2006) Better Game Characters by Design, Morgan Kaufman Publishers, p. 12-13

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genere (maschile, femminile) del target di riferimento, in quanto questi due contesti

influenzano notevolmente la creazione o l’interpretazione. In generale, come vedremo, i

videogiochi che andremo ad analizzare sono rivolti a un pubblico internazionale e,

anche se concepiti, rispettivamente, da team giapponesi o statunitensi, sono stati

comunque realizzati per di essere facilmente comprensibili da tutti. I contenuti e le

tematiche, nonché gli ambienti e la caratterizzazione dei personaggi, sono tutti volti a

un tentativo di “universalità”. Tuttavia, non è mai totalmente possibile liberarsi dai

propri paradigmi cognitivi e, sicuramente, alcune delle soluzioni adottate dai vari

videogiochi ricalcano la nazionalità o il target virtuale che i realizzatori avevano in

mente durante la lavorazione. Gli elementi che possono essere influenzati dalla cultura

sono, in effetti, tutti gli elementi caratterizzanti non solo il personaggio in sé, ma anche

la percezione che, a livello mediatico, si ha di quel personaggio. Parliamo, ad esempio,

delle caratteristiche fisiche: l’aspetto, la razza, il colore della pelle, il genere, e ancora le

fattezze corporee, l’equipaggiamento, lo stile dell’abbigliamento, la voce e la lingua, le

armi, fino ad arrivare ai valori, all’etica, agli obiettivi e alle relazioni che ha con gli altri

personaggi e con il mondo di gioco. In realtà, tuttavia, questa problematica risulta

secondaria nell’ottica di quello che abbiamo detto poco sopra, ossia nell’ottica di

quell’elemento di “unità” che il giocatore trova, in maniera individuale, all’interno della

propria immaginazione, e non, in modo oggettivo, all’interno del testo: ogni giocatore

interpreta e recepisce i personaggi e gli avatar* in modo tale per cui trova al proprio

interno le motivazioni profonde per affezionarvisi e per stabilire un legame con essi.

Non è possibile determinare un unico criterio per cui i giocatori arrivino in fondo a

un’opera: a volte è per curiosità, a volte è per un morboso legame con il personaggio, a

volte, ancora, è per via dell’interattività che permette loro di proseguire nella narrazione

senza coinvolgersi veramente eppure riuscendo ad arrivare al termine della storia.

Quello che è sicuramente interessante è che, nonostante tutti questi elementi “casuali”,

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il rapporto tra giocatore e personaggio sia uno degli elementi fondamentali del

videogioco:

“Player-characters are the heart of the interactive experience of gaming. They are the interface though which players experience both the physical and social landscape of the game world.”127

Vengono individuati quattro livelli su cui avviene l’interazione tra l’esperienza

psicologica del giocatore con il personaggio e, l’articolarsi organico e personalizzato, in

base al gioco, di questi livelli costituisce il fondamento alla base del rapporto, caso per

caso, tra giocatore e avatar*128.

– Feedback istintivo: è legato alla sperimentazione del mondo da parte dell’uomo

attraverso i sensi. La mente filtra un’incredibile quantità di informazioni e il corpo

reagisce costantemente adattandosi a quello che incontra. Il livello viscerale di

legame tra giocatore e personaggio è l’esperienza sensoriale che il giocatore ha di

quel personaggio e il feedback che riceve quando, attraverso di lui o lei, agisce.

Quando una persona “interpreta” un personaggio, veste i suoi panni nel mondo di

gioco e sottostà alle sue reazioni e alle sue capacità in quel mondo. Il feeback

viscerale riguarda quindi i poteri fisici del personaggio, i suoi movimenti, e, in

generale, gli effetti che le azioni hanno sui sensi (principalmente vista e udito). Nei

giochi di sport, nei platform o nelle avventure il feedback viscerale cambia, e viene

posto l’accento rispettivamente sul livello atletico, sull’agilità e sulle competenze

analitiche.

– Immersione cognitiva: le persone non reagiscono semplicemente a stimoli sensoriali

in modo automatico, ma considerano le informazioni che recepiscono in modo

individuale e decidono come procedere. Il problem solving richiede che il giocatore si

immedesimi nel mondo di gioco per esplorare tutte le possibilità che quel mondo

mette a disposizione del suo personaggio. Che tipo di azione può eseguire, che

127 Ibid. p. 203 128 La seguente suddivisione è tratta da Ibister, op. cit. p. 204

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interazione può avere con gli altri personaggi, e come può costruire una strategia? Il

giocatore si deve legare, anche a livello cognitivo, al suo avatar*. Cercare di

dialogare con un NPC* o premere un bottone sbagliato per eseguire un’azione

impossibile nel mondo di gioco sono due esempi tipici di un giocatore che non si

riesca a calare cognitivamente nel mondo virtuale* su cui deve interagire.

– Possibilità sociali: dato che il personaggio-giocatore fa parte di un mondo di gioco

sociale, è necessario considerare il livello di interazione che può e deve esistere tra

l’essere umano e i NPC*. La lettura degli indizi sociali è un esempio di adattamento

evolutivo molto importante, che testimonia come gli esseri umani siano esseri

sociali. Così, il giocatore si troverà a dover interagire con altri personaggi nel mondo

di gioco, in base ai propri contesti culturali, di genere, e ad altre variabili. L’avatar*

del giocatore diventa un ponte per la realizzazione delle interazioni sociali nel

mondo di gioco: dà un forte senso di presenza nell’universo virtuale* al giocatore, il

quale si sentirà più immerso nel ruolo che il suo avatar* deve interpretare. Infine, le

relazioni sociali all’interno del gioco aiutano il giocatore a consolidare la propria

“posizione” e il proprio ruolo: il feedback degli altri personaggi conferma la bontà

delle scelte attitudinali e comportamentali del giocatore e del suo avatar*.

– Potenzialità dell’immaginazione: le fantasie dei giocatori sono delle importanti

finestre sui “paesaggi mentali” del loro passato e, di conseguenza, sulle possibilità

di azione del loro futuro. Questo aspetto del legame tra personaggio e giocatore

sconfina nell’ambito della psicologia e riguarda principalmente l’importanza delle

storie e di altri veicoli di immaginazione nell’esplorazione, da parte di adulti o

bambini, di emozioni dolorose o di situazioni traumatiche, perché contribuiscono a

uno shift della personalità e dell’emotività e all’effetto catartico del racconto.

Attraverso il gioco e attraverso le fantasie che esso suggerisce, il giocatore può

esplorare quelle zone cieche della propria psiche che sarebbero altrimenti

irraggiungibili, sia perché troppo dolorose, sia perché completamente ignorate.

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“Powerful player-characters are often those that speak to many players’ real-life

hopes, fears, and issues. They offer players a chance to enact them and explore

possibilities.”

Questi sono i principi secondo cui, in maniera differente a seconda dei videogiochi, si

articola il rapporto tra personaggio e giocatore nelle nuove narrazioni. È importante

sottolineare come questi elementi entrino in gioco in maniera diversa, a seconda dei

casi specifici ma come, in ogni caso, costituiscano un fortissimo trait d’union che collega

la percezione del giocatore, effettivamente esterno alle vicende che accadono a schermo,

agli eventi di cui non solo è testimone ma, attraverso il suo avatar*, diventa

concretamente fautore. L’elemento dell’azione e quindi dell’interattività – in sostanza,

quello che continuiamo a definire gameplay* – sono il fulcro dell’immedesimazione del

giocatore e dell’efficacia nella trasmissione di “significato” da parte dei videogiochi.

Alcuni personaggi, infatti, che normalmente non ci causerebbero empatia o in cui non

ci immedesimeremmo, arrivano a stringere una sorta di “patto” col giocatore, che si cala

completamente nei loro panni, guarda la realtà virtuale in cui è immerso con i loro

occhi e agisce secondo un misto del proprio e del loro sistema di valori. Nelle analisi

che seguono e nel capitolo conclusivo vedremo come, in base al modo narrativo di

ispirazione, cambiano anche le modalità di interazione e, quindi, di “affezione”, tra il

giocatore e il suo avatar*.

Principi di adattamento La tematica dell’adattamento della letteratura ai nuovi media e alle nuove forme di

comunicazione è un argomento molto controverso. Più che risolvere una questione,

vorrei, con queste riflessioni, affrontare delle problematiche che, a mio parere, non

possono trovare una risposta univoca qui e in questo momento perché riguardano

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fortemente un processo ancora in corso, che ci “circonda” e su cui non possiamo avere

ancora una vera e propria visione d’insieme, ma di cui possiamo cominciare a cogliere

delle tendenze.

Linda Hutcheon, nel suo libro A Theory of Adaptation, parla di come, in epoca

contemporanea, tutti quei contenuti che fino a poco meno di un secolo fa erano

appannaggio esclusivo della letteratura (in cui include anche il teatro) abbiano

cominciato ad essere “presi in prestito” dagli altri media e dalle altre forme di

comunicazione:

“Adaptations are everywhere today: on the television and movie screen, on the musical and dramatic stage, on the Internet, in novels and comic books, in your nearest theme park and video arcade. (…) Adaptations are obviously not new to our time, however; Shakespeare transferred his culture’s stories from page to stage and made them available to a whole new audience. (…) Adaptations are so much a part of Western culture that they appear to affirm Walter Benjamin’s insight that ‘storytelling is always the art of repeating stories’ (1992:90). (…) Stories are born of other stories.”129

È importante precisare subito che questo concetto di adattamento non è una novità

del nostro secolo, ma, semplicemente, in questo periodo di innovazione verticale dei

mezzi di comunicazione, può essere uno strumento utile per osservare in che modo le

storie si modifichino passando da un medium all’altro. Bisogna cercare di distaccarsi

dall’idea di adattamento come da quella di “imitazione”. L’adattamento è la

trasposizione di una storia (o dei nuclei centrali di quella storia) da un medium all’altro:

l’obiettivo è quello di trasmettere le stesse emozioni130 della storia di partenza, spesso a

un nuovo pubblico e spesso secondo nuove modalità. Quello che importa, all’interno di

questo che noi considereremo come un processo e non come un prodotto, è osservare in

che modo la narrazione preservi i suoi “memi” originali e “costringa” l’autore ad

adattare i propri strumenti narrativi per ottenere la stessa comunicazione. Prima di

129 Hutcheon, Linda (2006) A Theory of Adaptation, Routledge, p. 2 130 È la stessa Hutcheon a parlare esplicitamente di emozioni e in particolare di emozioni veicolate da narrazioni. L’elemento

centrale, per l’autrice, non è tanto analizzare la forma che veicola i nuovi messaggi, quanto il fatto che l’efficacia comunicativa rimanga invariata. L’adattamento di cui parla la Hutcheon si concentra proprio sulla “sopravvivenza” della trasmissione di determinate emozioni attraverso costrutti e opere narrative, non importa quale su medium o sotto quale genere o forma.

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passare al concetto di meme, però, è utile definire l’adattamento come processo. Un

autore che adatta non è un semplice “copiatore”, non si limita a riproporre la stessa

storia in maniera diversa, è, a sua volta, un “creatore” che si impossessa di una storia (o

delle emozioni che quella storia trasmette) e, filtrandola attraverso i propri interessi, la

propria sensibilità, i propri mezzi crea una nuova storia, che ha come ipertesto o

palinsesto (nel senso genettiano del termine) quella vecchia ma che, di fatto, è qualcosa

di nuovo e autonomo, con forti elementi di innovazione al di là del contenuto. Un altro

elemento importante, oltre all’individualità dell’autore, è la scelta del mezzo:

“E. H. Gombrich offers a useful analogy when he suggests that if an artist stands before a landscape with a pencil in hand, he or she will ‘look for those aspects which can be rendered in lines’; if it is a paintbrush that the hand holds, the artist’s vision of the very same landscape will be in terms of masses, not lines (1961:65). Therefore, an adapter coming to a story with the idea of adapting it for a film would be attracted to different aspects of it than an opera librettist would be.”131

Nel processo di adattamento descritto dalla Hutcheon, l’elemento centrale non è la

storia in sé, bensì il mezzo su cui si desidera trasportare questa storia. Se la natura

fortemente analitica del romanzo non viene imitata da molti altri strumenti, risulta una

conseguenza diretta il fatto che per adattare una storia dalla letteratura a qualsiasi altro

medium (cinema, televisione, videogame, eccetera) bisogna operare per sottrazione:

ridimensionare i contenuti e renderli adatti ai tempi e ai ritmi del nuovo mezzo. D’altra

parte, però, questo processo di “elisione” non è così semplice come appare: se da una

parte è necessario “accorciare” dall’altra è necessario “intensificare”, per riuscire a

riprodurre in modo efficace le sensazioni e le emozioni che una determinata storia

suscita in tutti i media per cui viene adattata. Non è detto che questo accada sempre:

quando accade, però, è interessante notare come e perché l’adattamento è stato di

successo e, in generale, quali sono state le ragioni “vincenti” che hanno fatto scegliere

quella determinata storia all’autore (o agli autori) in modo da trasportarla in quel

determinato mezzo. 131 Ibid. p. 19

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Ovviamente, la scelta della storia da adattare non è casuale ed è possibile individuarne

le cause nel contesto sociale, artistico e addirittura economico:

“Of course, there is a wide range of reasons why adapters might choose a particular story and then transcode it into a particular medium or genre. As noted earlier, their aim might well be to economically and artistically supplant the prior works. They are just as likely to want to contest the aesthetic or political values of the adapted text as to pay homage. This, of course, is one of the reasons why the rhetoric of ‘ fidelity’ is less than adequate to discuss the process of adaptation. Whatever the motive, from the adapter’s perspective, adaptation is an act of appropriating or salvaging, and this is always a double process of interpreting and then creating something new.”132

I motivi sono di tipo diverso, quindi, e riguardano in parte la fortuna avuta dalle opere

adattate, che rendono quindi i contenuti ben riconoscibili e, in generale, apprezzati.

Nondimeno esiste quella spinta che i latini chiamavano di imitatio ac emulatio, che

prevede una condivisione di valori e di ideali con l’opera di partenza ma anche una

sorta di desiderio di “migliorare”, attualizzare e superare133 l’opera stessa:

“If this sounds somewhat familiar, there is good reason, given the long history in the West of imitation or mimesis – imitation – as what Aristotle saw as part of the instinctive behaviour of humans and the source of their pleasure in arte (Wittkower 1965 143). (…) Like classical imitation, adaptation also is not slavish copying; it is a process of making the adapted material one’s own. In both, the novelty is in what on does with the other text.”134

Quello che il nuovo autore fa del testo, ovvero della narrazione, questo è il fulcro

dell’idea di adattamento della Hutcheon. Trovo questo processo particolarmente

interessante nel contesto di una disamina sulle narrazioni moderne applicate ai

videogame perché questi ultimi sono l’esempio di come una narrazione possa essere

adattata, e quindi essere imitazione di una narrazione precedente, ma anche di come

questa imitazione porti a una totale novità, di come vengano riconfigurati gli strumenti

narrativi considerati classici e di come le stesse suggestioni, emozioni e gli stessi

132 Ibid. p. 20 133 Il concetto di imitatio ac emulatio prevedeva che l’opera di “arrivo” fosse superiore, in stile, contenuti ed efficacia

artistica, a quella a cui si ispirava. Molto interessanti sono i dibattiti sull’effettivo raggiungimento di tale obiettivo da parte delle opere latine rispetto a quelle greche: dibattiti che, in effetti, non possono trovare una vera e propria conclusione univoca.

134 Ibid.

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contenuti possano essere trasmessi con linguaggi molto distanti da quelli tradizionali

da cui, tuttavia, recuperano l’efficacia e l’effetto sul lettore-giocatore.

Il processo di adattamento che ha portato gli autori a trasporre storie e generi ben noti,

come la fiaba, il racconto dell’orrore o il racconto distopico di fantascienza in un

medium come il videogioco è molto particolare e interessante. Non ci troviamo, infatti,

davanti a veri e propri adattamenti di storie pre-esistenti, bensì assistiamo al recupero

di “nuclei fondamentali” di narrazione (i cosidetti “memi”, di cui parleremo a breve) che

vengono ri-applicati e ricontestualizzati in uno scenario multi-mediale e interattivo

come quello del videogame. L’originalità dell’adattamento, in particolare da un medium

linguistico come la letteratura a uno visivo-performativo come il videogioco sta nel

fatto che cambia radicalmente il modo di raccontare: in misura minore di quanto

avviene nel teatro, ad esempio, nel videogioco ci troviamo davanti a un’interfaccia

visiva che non è più linguistica e assistiamo a un’azione che non è passiva (come quella

dello spettacolo teatrale, in cui il fruitore è uno spettatore) ma è attiva e, anzi, non può

prescindere dalla partecipazione diretta del giocatore. Le differenze tra la dimensione

del racconto e la dimensione dell’azione sono evidenti:

“In the telling mode – in narrative literature, for example – our engagement begins in the realm of imagination, which is simultaneously controlled by the selected, directing words of the text and liberated – that is, unconstrained by the limits of the visual or aural. We can stop reading at any point; we can re-read or skip ahead; we hold the book in our hands and feel, as well as see, how much of the story remains to be read. But with the move to the mode of showing, as in film and stage adaptations (nda: e, aggiungo, nei videogiochi) we are caught in an unrelenting, forward-driving story. And we have moved from the imagination to the realm of direct perception – with its mix of both detail and broad focus. The performance mode teaches us that language is not the only way to express meaning or to relate stories. Visual and gestural representations are rich in complex associations; music offers aural ’equivalents’ for characters’ emotions and, in turn, provokes affective responses in the audience; sound, in general, can enhance, reinforce, or even contradict the visual and verbal aspects. (…) Telling a story in words, either orally or on paper, is never the same as showing it visually and aurally in any of the many performance medium available.”135

135 Ibid. p. 23

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C’è quindi sempre una differenza sostanziale quando si racconta una storia a parole o

quando la si propone come una performance e, ancora di più, quando si inserisce un

elemento di interattività forzata da parte dell’utente. Se molte pratiche

dell’adattamento dalla letteratura ad altri media sono stati già ampiamente esplorati e

analizzati, gli adattamenti delle narrazioni videoludiche hanno subito una sorte diversa:

inizialmente venivano considerate (e in alcuni casi, in effetti, erano) semplici

trasposizioni lineari di storie dal supporto cartaceo a quello digitale. Con l’incremento

della complessità della tecnologia, però, anche le modalità di racconto videoludico si

sono notevolmente diversificate. Si è attraversato (si veda il dibattito tra narratologia e

ludologia nel primo capitolo) un approccio “esclusivo”, in cui la narrazione veniva o

anteposta o messa in secondo piano rispetto all’interattività e si è giunti, attualmente, a

considerare in modo più equilibrato e “lucido” la funzione della narrazione nei giochi e,

di conseguenza, anche i retaggi che essa porta con sé dalla narrazione classica e gli

elementi di novità e di scarto, legati comunque principalmente al concetto di

interattività. D’altra parte, l’intromissione dell’informatica nella vita di tutti i giorni ha

provocato conseguenze dirette e facilmente riscontrabili:

“The human-computer interface offers yet another kind of engagement in a feedback loop between our body and its extensions – the monitor, the keyboard, the joystick, and the mouse, and the processing computer. (…) Each mode of engagement therefore also involves what we might call a different ‘mental act’ for its audience, and this too is something that the adapter must take into account in transcoding. Different modes, like different media, act dissimilarly on our consciousness (M. Marcus 1993: 17). Telling requires of its audience conceptual work; showing calls on its perceptual decoding abilities. (…) In reading, we gather details of narrative, character, context, and the like gradually and sequentially; in seeing a film or play or musical, we perceive multiple objects, relations, and significant signs simultaneously, even if the script or music or soundtrack is resolutely linear. In interactive media, both the simultaneity of film and the sequentiality of texted narrative come together in the game world and its rules/conventions.”136

Senza aderire totalmente alla scuola di pensiero che analizza le opere secondo il criterio

della adaptation, penso che sia importante tenere sempre presente questo processo

136 Ibid. p. 129-130

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quando si parla di videogiochi e ancora di più quando si parla di trame narrative

recuperate, di modi (come il fantastico) riproposti e di strategie “evolute”: non si deve

mai perdere di vista il fatto che le storie e i racconti sono e sono sempre stati le stesse

storie e gli stessi racconti, sono gli stessi “miti” riproposti in chiave sempre più

moderna, adattando il linguaggio che non è più solo verbale e non prevede più solo

un ruolo “da spettatore” per il lettore ma che lo rende parte attiva del processo. È in

quest’ottica che prendo in esame i tre videogiochi, Shadow of the Colossus e i suoi retaggi

fiabeschi, Silent Hill 2 e la sua chiara appartenenza al mondo del racconto dell’orrore,

Bioshock con i rimandi alle distopie fantascientifiche di metà del secolo scorso:

l’originalità di questi giochi non sta nelle loro storie, che a un’attenta analisi risultano

essere riproposizioni di miti, racconti e narrazioni pre-esistenti. L’interesse nell’analisi

sta nell’osservare come questi “nuclei di narrazione” vengano ripresi e riadattati per

essere funzionali a un contesto interattivo in cui il “linguaggio” evidente primo non è

quello verbale ma quello del gameplay*, ossia delle regole e delle meccaniche che

permettono al giocatore di muoversi, esplorare e scoprire, nonché modificare il mondo

di gioco.

Vorrei, prima di passare al capitolo sull’analisi, fare un breve cenno a un’altra teoria

contemporanea che ci aiuta, in parte, a capire meglio questo processo di adattamento,

e mi riferisco alla teoria della cosiddetta “memetica”. Ancora una volta, non intendo

aderire in modo pedissequo alla teoria espressa da Dawkins, che ha formulato per la

prima volta il concetto di “meme” nel suo testo del 1976 The Selfish Gene: inserire, a

questo punto, alcuni rimandi dal capitolo intitolato “Memes: the new replicator” ha la

sola funzione di mostrare come ci sia una percezione chiara di elementi extra-testuali e,

anche, extra-letterari che sopravvivono sempre, al di là delle generazioni, al di là dei

mezzi di comunicazione, e che riescono, proprio come hanno fatto i geni nel corso

dell’evoluzione, ad adattarsi per sopravvivere e per continuare a diffondere il loro

“messaggio”.

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Sostiene Dawkins:

“Most of what is unusual about man can be summed up in one world: ‘culture’. (…) Cultural transmission is analogous to genetic transmission in that, although basically conservative, it can give rise to a form of evolution. (…) Language seems to ‘evolve’ by non-genetic means, and at a rate which is orders of magnitude faster than genetic evolution.”137

La trasmissione della cultura è un processo che ha delle analogie con il processo di

trasmissione genetica ma che, essendo più rapido, è visibile anche dall’uomo (mentre ci

è impossibile osservare sostanziali evoluzioni genetiche, ad esempio, tra una

generazione e l’altra, possiamo ben notare cambi di paradigmi cognitivi o, ancora più

semplicemente, di linguaggio). L’analogia tra evoluzione genetica e culturale è una

tematica frequente che è stata analizzata spesso con toni eccessivamente “mistici”:

“The analogy between scientific progress and genetic evolution by natural selection has been illuminated especially by Sir Karl Popper. I want to go even further into directions which are also being explored by, for example, the geneticist L. L. Cavalli-Sforza, the anthropologist F. T. Cloak, and the ethologist J. M. Cullen.

As an enthusiastic Darwinian, I have been dissatisfied with explanations that my fellow-enthusiasts have offered for human behaviour. They have tried to look for ‘biological advantages’ in various attributes of human civilization.”138

Da studiosi di narrazione e letteratura non possiamo che aderire a questa

“insoddisfazione” nell’individuare vantaggi biologici da pratiche culturali. Se si può

infatti stabilire un’analogia tra le forme di trasmissione dei contenuti e la trasmissione

dei geni, non si possono certamente individuare le ragioni della sopravvivenza di

alcune specie o, parallelamente, di alcuni miti negli stessi elementi. Un mito, infatti, non

sopravvive certo perché apporta un beneficio biologico all’uomo, piuttosto la sua

importanza è culturale.

Allora,

“for understanding the evolution of modern man, we must begin by throwing out the gene as the sole basis of our ideas on evolution. (…) Darwinism is too big a theory to be

137 Dawkins, Richard (1976) The Selfish Gene, Oxford University Press, p. 189 138 Ibid. p. 190-191

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confined to the narrow context of the gene. The gene will enter my thesis as an analogy, nothing more.”139

Coerentemente con quanto sostiene Dawkins, il gene e il meme entreranno nella

nostra analisi solo come un’analogia in sottofondo, non come un protagonista di

primo piano ma come un esempio che ci può aiutare a comprendere meglio alcuni

processi, senza tuttavia presupporre di poterli spiegare in pieno.

Cos’è, allora, questo “meme” che si assume, da un punto di vista culturale, alla funzione

che ricoprono i geni a livello biologico? Il meme è, come il gene, un replicatore di parti

di informazione che servono all’individuo che detiene tale informazione per

sopravvivere e tramandare la propria specie in modo efficace. Torna, come nel caso

della Hutcheon, il concetto latino di imitatio:

“We need a name for the new replicator, a noun that conveys the idea of a unit of cultural transmission, or a unit of imitation. ‘Mimeme’ comes from a suitable Greek root, but I want a monosyllable that sounds a bit like ‘gene’. I hope my classicist friend swill forgive me if I abbreviate mimeme to ‘meme’.”140

Esempi di meme, per Dawkins, sono le musiche, le idee, frasi ad effetto, le mode, la

foggia di alcuni oggetti o utensili. Noi aggiungiamo, le storie e i miti, senza alcun

dubbio. I memi si propagano tra gli uomini come i geni, ossia passando da un

organismo all’altro, da una mente all’altra, tramite un processo che è tipicamente quello

di imitazione e adattamento. L’uomo percepisce una struttura, un’idea, una storia, una

forma, una musica come “vincente”, come efficace, e tende a recuperarla, trasformarla,

adattarla e trasmetterla a sua volta. I memi affiancano a pieno diritto i geni, soprattutto

in una società come la nostra, che è ormai diventata ufficialmente una società basata

sull’informazione. L’accesso all’informazione, prima, e il suo adattamento in modo da

renderla funzionale al contesto e al target a cui è diretta, poi, sono allora la chiave di

trasmissione di queste “unità minime di informazione”. Quello che succede nelle 139 Ibid. 140 Ibid. p. 192

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narrazioni videoludiche è esattamente questo: esistono, indubbiamente, dei “memi”

forti che vengono colti, a livello culturale, dagli autori. Questi memi, in modo più o

meno consapevole, devono essere necessariamente adattati al medium in cui vengono

importati e che si fa ora carico di trasmetterli “alle generazioni future” (che sono, in

realtà, sempre generazioni presenti, visto e considerata la maggiore rapidità di

trasmissione “memetica” rispetto a quella genetica). I memi sono “self perpetuating

ideas”, perché, come i geni dominanti, attecchiscono maggiormente nella mente umana

e possono quindi essere imitati e tramandati più semplicemente. Per questo è

interessare analizzare il modo narrativo fantastico nei videogiochi: è costruttivo

osservare come, alla base di queste narrazioni, ci siano “memi” forti e ben radicati sia

nella società occidentale che in quella orientale (l’idea di bene e di male, l’ossessione

della morte e dell’immortalità, la ricerca della verità, l’amore, solo per citarne alcuni) che

hanno però bisogno di “essere adattati” e di migrare nel nuovo mezzo per poter

sopravvivere (il videogioco, in questo caso, è visto come veicolo “forte” che

consentirebbe ai memi di sopravvivere e di arrivare alle generazioni successive che, non

a caso, sono quelle dei giovani videogiocatori che più utilizzano il medium

videoludico). I memi, più dei geni insomma, ci permettono di cercare quell’immortalità

che finora è stata deputata alla riproduzione: tramandare informazione non genetica,

bensì memetica è la strada che, secondo Dawkins, l’umanità sta seguendo.

Come ha ben sostenuto Rabkin, l’idea di “meme” è una bella suggestione, ma ancora

nulla di più, in quanto è un’unità completamente astratta e, a differenza del suo

parente più prossimo, il gene, non è misurabile né effettivamente definibile. Più che un

parametro effettivo, l’idea di meme va considerata come una utile e poetica analogia

volta a comprendere l’importanza che ha assunto, oggi più che mai, la trasmissione di

informazioni, siano esse verbali, iconografiche, performative, interattive e così via.

Studiare come queste informazioni vengono trasmesse è sicuramente interessante.

Impossibile, invece, è concentrarsi su tutti gli elementi trasmessi in una volta sola. Per

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questo, parlando di videogiochi, concentro la mia attenzione sulla narrazione che

veicolano e sui retaggi più o meno diretti che hanno con i loro “ipertesti” di riferimento:

sicuramente, a livello di narrazione, è interessante vedere come questi “memi” o, in

generale, i temi e i motivi classici, si adattino ad essere veicolati dal nuovo mezzo e

come alcuni elementi restino invariati mentre altri vengano assorbiti da linguaggi non-

verbali diversi.

In fondo, lasciare il segno è sempre possibile, solo in modo diverso:

“But if you contribute to the world’s culture, if you have a good idea, compose a tune, invent a sparking plug, write a poem, it may live on, intact, long after your genes have dissolved in the common pool.”141

141 Ibid. p. 199

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Capitolo 3

I testi videoludici

I testi videoludici come testi letterari? La critica videoludica, le varie correnti emerse e i dibattiti che si sono svolti e che sono

tuttora in corso, come descritti nel primo capitolo, sono questioni che riguardano

principalmente il prodotto finito, ossia il videogioco come oggetto “concluso” e come,

idealmente, limitato solo dalla creatività di chi lo ha realizzato. In realtà, per poter

effettuare una critica a tutto tondo di uno o più aspetti di un videogame è

fondamentale tenere presente anche del ciclo produttivo (letteralmente, industriale) che

ha portato alla sua realizzazione. Per chiarire meglio questa affermazione, porterò

l’esempio di un flusso di lavoro per la creazione di un videogioco che una nota casa di

produzione internazionale utilizza per partire da un’idea, passare per un concept,

stabilire un work order e dedicarsi, infine, alla produzione, alle varie tappe nella

produzione e alla verifica del prodotto. Innanzitutto, bisogna precisare che l’idea

motrice per un gioco non scaturisce dall’ispirazione di un singolo che, grazie alla

propria sensibilità, riesce a convogliare lo “spirito di un’epoca” in un’opera d’arte. La

spinta iniziale per cominciare a riflettere su un’idea videoludica viene, praticamente, da

analisi di mercato. L’atteggiamento pragmatico che sta alle spalle di questo metodo di

indagine è dovuto al fatto che gli investimenti per la produzione di un videogame

sono decisamente alti e che è un rischio impensabile quello di affidare a un unico

individuo, con la sua idea e la sua visione del mondo, la possibilità di disporre di un

budget di milioni di euro per guidare una squadra. I metodi di controllo sono

stratificati ed è necessario ottenere l’approvazione di numerose cariche “commerciali”

prima che i creativi possano mettersi al lavoro. Anche quando poi il processo creativo

viene messo in moto, esso è sempre guidato, indirizzato, corretto e orientato dal team

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“editoriale”, che ha una chiara conoscenza di quello che è in voga o di quello che non

lo è, dei settori di mercato coperti o meno. Tutto quindi comincia con una richiesta

commerciale, si esegue un’analisi di mercato e si individuano, alternativamente, le fasce

di mercato in cui il bisogno è ancora scoperto e in cui ci si può introdurre con la

consapevolezza di non produrre un videogioco che non vada incontro agli interessi dei

più (o che non vada incontro all’interesse di nessuna nicchia).

Il concept è la fase che segue la proposta di un’idea: la squadra o lo studio a cui viene

affidata l’idea iniziale prepara una bozza del gioco, partendo dalle tematiche che

verranno affrontate, passando per le dinamiche ludiche con cui queste tematiche

verranno proposte al giocatore, arrivando alla costituzione di un documento o di una

presentazione che dovrà ancora essere vagliata. In questa seconda fase di controllo,

ancora, le decisioni verranno prese in base al rapporto efficacia/costi: molto spesso le

idee creative vengono infatti fortemente ridimensionate perché, per quanto avvincenti,

non rientrano in un quello che deve essere un piano di produzione. La struttura del

gioco quindi, viene definita solo in minima misura in base a esigenze creative e

artistiche: più che altro, si può dire che, all’interno di una rigida struttura produttiva,

con numerose limitazioni dovute alle tempistiche, ai costi, alle limitazioni dell’hardware

(console*, console portatile, computer) su cui il videogioco andrà sviluppato, e ad altre

motivazioni tecniche e pratiche, il team di produzione dovrà cercare di creare un

prodotto coerente, divertente, che abbia una coerenza artistica e contenutistica e che

cerchi di “scansare” e aggirare tutte le limitazioni imposte. Il work order è una

formalizzazione ufficiale delle priorità del gioco: le feature che non possono mancare,

quelle accessorie ma accessibili per la produzione, quelle divertenti ma superflue.

Terminata la fase di pre-produzione in cui vengono prese le decisioni di massima e in

base all’insieme di priorità stabilito, il gioco comincia a prendere forma: si passa alla

fase di produzione e si parte con la stesura completa ed esaustiva dei documenti di

design, che conterranno tutte le funzionalità che dovranno essere poi sviluppate dai

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programmatori e degli elementi (narrativi, grafici, interattivi) che dovranno essere

prodotti dai vari reparti. Vengono realizzati prototipi e versioni demo, la struttura da

embrionale si espande sempre più, si aggiungono mano a mano quelle feature

fondamentali, alcune di quelle accessorie, e si cominciano a superare le varie milestone

di qualità, ossia fasi in cui il gioco deve superare delle certificazioni, deve avere degli

standard minimi di giocabilità e di completezza. Localizzazione, testing, fase di bug fixing

(individuazione e risoluzione dei bug) costituiscono le ultime rifiniture di un prodotto

che, in tempi competitivi e rapidi, deve essere immesso sul mercato.

Da questa breve panoramica sulla realizzazione standard di un videogioco, possiamo

vedere come tra la produzione di un videogame e quella di un’opera letteraria

intercorrano differenze pressoché abissali. Innanzitutto, la produzione videoludica può

essere più facilmente assimilata a quella cinematografica che a quella letteraria: le

competenze necessarie per sviluppare un software (d’altra parte, è questo che è il

videogioco) sono molto più articolate e richiedono un vero e proprio lavoro di

squadra, mentre per la scrittura, ipoteticamente, è sufficiente un’unica persona. La

differenziazione delle competenze è tale che ogni figura è fondamentale (o quasi) nel

processo di produzione. Anche per quanto riguarda l’idea, non abbiamo più un’unica

personalità che, in seguito a un’ispirazione o a una riflessione (magari lunga una vita,

come quella di certi romanzieri) decide di mettere nero su bianco il proprio pensiero. La

mediazione che esiste nelle fasi di ideazione, concezione, produzione e rilascio di un

videogioco è sicuramente inferiore nel caso di un’opera narrativa tradizionale, mentre è

analoga a quella che esiste nel cinema (in cui, ancora una volta, l’investimento di

denaro è tale che raramente un singolo individuo ha il veto su ogni decisione e può

decidere in completa autonomia l’indirizzo della propria opera).

Certo, in letteratura la figura dell’editore ha sicuramente ricoperto (più in passato che

nell’epoca contemporanea) un ruolo di guida, collaborando in modo più o meno

“pacifico” con gli autori per definire alcuni standard, per andare a soddisfare certe

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esigenze di mercato e per “modellare” l’opera a seconda dei propri interessi e della

politica editoriale della casa editrice, tuttavia non possiamo ignorare che il lavoro,

peraltro nettamente solitario, della scrittura sia paragonabile a quello della

realizzazione di un videogioco, perché sarebbe inverosimile.

Tuttavia, per la natura stessa dei progetti videoludici, come abbiamo detto, i ruoli dei

singoli componenti che letteralmente “producono” il prodotto finale sono ben

differenziati, certo non indipendenti, ma sicuramente autonomi per diversi aspetti. È

quindi possibile analizzare da vicino la figura di quello che viene definito come

interactive writer nel mondo dei videogame e compararla con quella dell’autore

tradizionale per trovare, in qualche modo, analogie ma anche differenze, tra i due tipi

di scrittura. I testi videoludici non sono sicuramente testi letterari, ma le strutture

profonde della scrittura restano, e restano inevitabilmente anche tutti gli elementi del

discorso del racconto tradizionale, semplicemente declinati e adattati a seconda degli

elementi con cui devono andare a integrarsi (grafica, programmazione, limitazioni

tecniche, ecc.).

Banalmente, possiamo iniziare dicendo che la differenza sostanziale che intercorre tra

un testo tradizionale e un testo videoludico è l’interattività. Il giocatore ha un ruolo

completamente attivo all’interno del contesto della fruizione, diversamente da quanto

accade nella lettura di un libro, nella visione di un film o di un programma tv. Anche il

DVD, ad esempio, per quanto sfrutti in minima parte il concetto di interazione nei

menu, resta principalmente un supporto lineare, che consente la visione di un prodotto

assolutamente tradizionale (il film). Il videogioco, invece, è per sua natura interattivo:

bisogna interagire con quello che appare a schermo per far procedere la narrazione.

Questo è uno dei primi elementi cardine dell’analisi comparativa tra un testo letterario

e uno videoludico: nel primo caso il lettore è consapevole della natura verbale del

supporto che sta andando a esplorare. Si pensi a un prodotto culturale contemporaneo

come i fumetti e alla loro struttura tipica che vede il testo integrarsi con l’immagine,

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esserne didascalia o, letteralmente, “voce”: la diffusione globale e notevole che questa

tipologia narrativa ha conosciuto nell’ultimo secolo è la prova tangibile che la

comunicazione narrativa ha sentito la necessità di affiancare un elemento iconico e

visivo alla verbalità che prima tutto inglobava. Tuttavia, il fumetto in sé e, più in

generale, la semplice interazione tra testo e immagine non genera automaticamente

una struttura ipertestuale: si continua a leggere parole, seppur riferite a immagini, e ci

si affida alla mano dell’autore che, attraverso il narratore, conduce il lettore dalla prima

pagina all’ultima142. L’orizzonte di attesa di un fruitore davanti a un videogioco è,

invece, molto diverso: innanzitutto, ci si aspetta di avere un ruolo attivo nella

costruzione degli eventi. Poco importa che questo ruolo sia reale o simulato, poco

importa che l’istanza di libertà sia rimpiazzata da una simulazione di essa: il giocatore

vuole essere co-autore (o credere di esserlo) dell’esperienza ludica che sta affrontando.

Inoltre, e questa è la riflessione che ci interessa maggiormente in questo contesto, nel

caso il giocatore si trovi a interfacciarsi con una narrazione, egli si aspetta che tale

narrazione non avvenga unicamente per mezzo della parola, ma che sia alternata

all’immagine, all’esplorazione, alle cut scene*, all’azione. Narrare, quindi, non attraverso

interminabili monologhi, non attraverso centinaia di righe che si giustappongono l’una

all’altra, bensì con l’ambiente, con i personaggi e con tutte le combinazioni tra questi

elementi messe a disposizione. Le combinazioni e l’effettivo grado di interazione tra il

gioco e il giocatore viengono determinati da una parte dal genere a cui il gioco

appartiene, dall’altra dalle scelte di design, cioè dalle scelte creative e produttive alla

base del gioco.

“The nature of a game’s challenge to the player means that no game can be all things to all players. The hardcore challenges in high-action games regularly fail to appeal to those who prefer a more cerebral challenge or those whose reactions and dexterity prevent them from mastering the key or button combinations require to develop the game’s moves. The labelling of games into types or genres is a hotly-debated topic, but one that enables the

142 Per quanto questa precisazione possa essere leziosa, ci teniamo a dire che in questo contesto stiamo parlando di letteratura di

finzione e non di supporti cartacei con altre finalità, quali i saggi, i dizionari e le enciclopedie, che pur fornendo una struttura lineare, non hanno a che fare con narrazioni e sono strutturate in modo tale da essere ipertestuali.

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potential player to judge whether they are likely to enjoy the gameplay experience or not.”143

È la stessa regola non scritta che, in effetti, accompagna il genere letterario: serve per

creare quell’orizzonte di attesa che permette al lettore di orientarsi a priori nei confronti

dell’opera che si appresta a leggere. Da determinati generi letterari ci si aspetta, grosso

modo, determinati contenuti ma anche determinate meccaniche narrative. Lo stesso

accade per i generi videoludici e, come per i generi letterari, non sono i contenuti a

determinarne la natura, bensì la struttura: è la caratterizzazione dei personaggi, gli

equilibri e ruoli tra di essi, l’atmosfera, il ritmo della narrazione e soprattutto il modo

della narrazione che costituiscono un genere letterario e, specularmente, sono le

possibilità di azione, di movimento e di interazione dei personaggi, gli scenari, i ritmi di

gioco e le modalità di gioco che caratterizzano un genere videoludico. L’analogia

regge, quindi, ma in apparenza ci troviamo più davanti a una “metafora” che a un

parallelismo, in cui gli elementi caratterizzanti di un medium vengono sostituiti dagli

elementi fondanti dell’altro. Ovviamente, come abbiamo visto nel primo capitolo,

nell’accezione contemporanea di genere, che sia letterario o videoludico, non ci

troviamo più di fronte a una serie di norme che l’artista deve seguire pedissequamente.

Si tratta, piuttosto, di considerazioni a posteriori, che servono per inserire un

determinato artefatto all’interno di una “famiglia”, per, da una parte, trovare gli

elementi che quell’opera ha in comune con i suoi predecessori, dall’altro per

individuare invece gli elementi di innovazione che porta con sé. Certo, nella fase di

lavorazione, il game designer o, in generale, la squadra che sta realizzando il

videogioco ha un’idea ben chiara dell’obiettivo che è necessario raggiungere: la

differenza sostanziale sta nel fatto che i videogiochi che vengono considerati

“autoriali” (come, ad esempio, quelli che andremo più avanti ad analizzare) non sono

concepiti e realizzati con vincoli di genere, ma vengono piuttosto creati per rivolgersi a

143 Ince, Steve (2006) Writing for Videogames, A&C Black, London, p. 13

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un certo pubblico. In questo modo le priorità cambiano: non c’è più un’esigenza solo

formale che spinge e motiva tutta la lavorazione, l’attenzione e gli sforzi vengono

indirizzati alla realizzazione di un “contesto” o “mondo di gioco” che sia il più efficace

possibile per comunicare il messaggio o i messaggi, le suggestioni. Quello che colpisce

il giocatore (e la critica), soprattutto in una fase del mercato videoludico come quella

attuale, non è l’adesione a norme ben codificate o a generi ben fissati: il problema dei

videogiochi è che queste “norme” e questi “generi” sono ancora in fase di definizione.

È, allora l’originalità a essere fondamentale, perché il vero apporto che ogni gioco può

dare è quello di definire nuovi standard in un sistema che sta ancora esplorando tutte

le sue potenzialità. Spesso, infatti, sono proprio gli elementi di scarto rispetto al canone

e al genere che permettono a un sistema di progredire verso la fase successiva non

necessariamente migliore o più evoluta, semplicemente successiva, a livello diacronico.

Parlando del settore videoludico, tutte le evoluzioni nel design, nella grafica e nella

programmazione sono state “lineari” nel senso che in seguito alla scoperta e

all’applicazione di ciascuna, tutto il mercato ha reagito rendendo quella determinata

evoluzione centrale nei prodotti del periodo. Si veda, ad esempio, l’introduzione della

prospettiva “in prima persona”, oltre a quella isometrica, nell’ambito della grafica, o i

fondamenti di ergonomia per i menu nel design o, ancora, l’introduzione dell’elemento

narrativo.

Il lavoro di un autore, in qualunque contesto si trovi, è quello di mescolare ad arte gli

elementi che ha a disposizione per creare un mondo che il lettore, di qualsiasi tipo,

possa esplorare a proprio piacimento (pur nei limiti dell’illusione di libertà che ogni

struttura autoriale prevede). La tipologia di interattività che l’autore metterà a

disposizione del lettore sarà diversa a seconda degli scopi; la verbalità non sarà più un

elemento centrale; sarà l’integrazione e il bilanciamento tra elementi verbali, visivi,

sonori e interattivi a costruire una struttura che consentirà al fruitore di sentirsi

illusoriamente libero. L’utilizzo della narrazione interattiva dipende dai nostri scopi:

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“How we want to use interactive storytelling will depend on the type of story we want to tell and the type of game in which we are telling it. Is our story going to be linear or non-linear? Is the player able to interact with and affect the story or the plot, or both?”144

In questo caso, riferendosi al “tipo di storia che vogliamo raccontare”, l’autore di questo

testo sulla narrazione interattiva applicata ai videogiochi non vuole riferirsi unicamente

al genere e alle tematiche che la storia vuole trattare, ma alla tipologia di interattività

messa a disposizione del giocatore. Tralasciando, per un momento, il gameplay*, e

quindi le dinamiche di azione non verbale, già a livello narrativo e testuale ci si trova

davanti a scelte diverse:

“In linear storytelling, at its most basic, the player interacts with a game in some way that reveals the next piece of the story. If the trigger is the successful completion of a level (defeating all the opponents, say), which launches a cut-scene where the story information and development is shown to the player, the game’s story is likely to be linear and mostly simplistic. The purpose of the story in this situation could be little more than a way to link the gameplay sections or create a background setting for the various levels, though it is possible to tell a more involving story if enough of these cut-scenes are triggered. The downside of this method can be to give players the impression that they are not really interacting with the story, which is true, but merely triggering a series of ‘chapters’.”145

In questo caso, più che di interattività possiamo parlare di multimedialità: il ruolo

dell’autore (e del testo) sono pressoché identici, in quanto viene studiata una struttura

lineare che viene fruita “a puntate”, inframezzate da sessioni di gioco. Paradossalmente

tuttavia, come afferma bene Ince, è la narrazione a essere cornice e contesto di sfondo

del gioco, non il contrario. Innanzitutto, la storia non è passibile di modifica, quello che

la caratterizza semmai è la natura multimediale, e quindi il fatto che prima ci si trovi a

leggere parte della storia, poi a guardare cut-scene con i personaggi che agiscono e a

sentire, eventualmente, il loro doppiaggio.

“(…) The only way for the story to respond to the actions of the player is if there is a choice the player must make that affects the story. For example, it could be that the player, during an interactive dialogue scene, must choose between lying to the police and telling the truth. Whatever the player decides to do alters the flavour of the game by changing the story or plot, which has now branched. This branching could have a subtle affect that does

144 ibid. p. 19 145 Ibid. p. 19

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not affect the gameplay and ultimately does not change the story’s ending – in which case the player has interacted with the plot – or it could have a major affect where the whole experience is altered depending on the choice. Gameplay and story could be markedly different in one branch than in the other, which in turn could lead to two very different endings.”146

In questo passaggio vengono descritte strategie narrative più prettamente interattive,

ossia quelle in cui il giocatore può influenzare sia la trama che l’intreccio del racconto a

cui assiste: in un caso, influenza solo l’intreccio nel senso che non cambia l’esito degli

eventi (non è possibile farlo, magari), ma che si “inventa” un percorso personale per

affrontare le varie esperienze narrative, ludiche ed emotive che il gioco promette.

Nell’altro caso, invece, è letteralmente la story a essere sconvolta o, per meglio dire,

indirizzata: il giocatore, con le sue scelte, i suoi comportamenti, i dialoghi con gli altri

personaggi, il reperimento o meno di indizi, può modificare l’esito degli eventi, non

solo le modalità secondo cui questo esito gli viene presentato.

Per comprendere meglio questa dinamica, che sarà poi centrale nella trattazione delle

opere specifiche prese in esame,in particolare Silent Hill, porterò l’esempio di un

videogioco tratto dalla versione cinematografica di un romanzo: Blade Runner. Sia nella

versione letteraria che nel suo corrispettivo filmico, la trama di Blade Runner è lineare e

univoca. Restano aperti dei dubbi, al termine della narrazione, sulla natura più o meno

umana di certi personaggi, restano sicuramente in sospeso le motivazioni di altri,

tuttavia la trama è definita, immutabile e, in una parola, chiusa. Nel videogioco Blade

Runner invece, prodotto dai Westwood Studios e distribuito nel 1997, la story e il plot

sono “relativi” e possono essere modificati dal giocatore in base alle sue scelte e alle

sue abilità di gioco. Se la prima parte è all’incirca comune per tutti, dopo circa un terzo

della partita le scelte di ogni singolo giocatore vanno a modificare la fruizione del

gioco (gameplay*) e dell’intreccio: ci si trova in contesti più o meno di azione o di

avventura (in cui si deve o agire o dialogare con altri personaggi), ci si trova ad

146 Ibid. p. 20

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affrontare un finale anziché un altro (e il gioco ne prevede ben tredici). In questo caso

si può effettivamente parlare di narrazione interattiva, perché non solo il giocatore

modifica la sequenza con cui il giocatore affronta gli avvenimenti e con cui deve

interagire con i personaggi viene modificata. Vengono, in sostanza, modificati l’ordine,

la durata, in una parola l’intreccio del racconto, non il modo né la voce narrante, che

restano sempre uguali, qualsiasi percorso narrativo (a livello di intreccio) venga

intrapreso, per far percepire al giocatore la continuità e la fluidità del sistema, che si

“adatta” in modo coerente alle sue scelte, senza però effettivamente modificare il tipo di

gioco o di interazione. Cambiano, insomma, i contenuti e la loro presentazione, non le

strategie narrative con cui vengono comunicati. In base ai percorsi scelti, infatti, le

analessi, le prolessi, le anacronie saranno diverse. La durata stessa verrà modificata,

perché in base a certe scelte del giocatore, il personaggio principale dovrà o meno

interagire con altri personaggi nel corso della sua ricerca. Il modo e la voce narrante,

invece, non cambiano: il protagonista resta lo stesso; la focalizzazione e il narratore,

nonché le istanze narrative in generale restano invariate. A differenza della trama

originale, nel caso del videogioco il protagonista, Ray McCoy, scopre e denuncia i

replicanti, oppure scopre di essere a sua volta un replicante e si schiera con loro,

oppure decide di restare neutrale e di andarsene dalla città.

L’interattività, in pratica, non mette a repentaglio l’utilizzo delle istanze narrative

classiche, le vede solo “adattarsi” al contesto e diventare versatili secondo modalità

diverse rispetto alla narrazione tradizionale. In realtà, le differenze sono più che altro

adattamenti, e gli elementi che mutano funzione nella narrazione interattiva, quali ad

esempio i dialoghi accessori, le trame e le quest secondarie che vengono assegnate al

personaggio, gli ambienti che si “sbloccano” e che diventa possibile esplorare, vanno

semplicemente a inserirsi in un complesso di pluralità di scelta per il lettore e in

un’apertura maggiore della struttura per l’autore, ma non introducono veramente nulla

di nuovo, di per sé. L’autore, in effetti, è libero di inserire più riferimenti “colti” o

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citazioni che non tutti i giocatori coglieranno, può arricchire il videogioco con “Easter

Eggs” o semplicemente sbizzarrirsi e creare scenari, ambienti, situazioni, dialoghi e

interazioni che non sono totalmente plausibili con la storia, ma che risultano, agli occhi

del fruitore esperto che riesce a scorprirli, dei piacevoli divertissement, che tuttavia non

devono essere spiegati o contestualizzati, perché sono delle specie di “camei”, degli

abbellimenti superflui ma che, ancora, a un occhio esperto, permettono di percepire

una notevole profondità nella struttura di gioco. Prendiamo, ad esempio, un flashback,

una (analessi): in una narrazione tradizionale, se un autore inserisce un’analessi in un

determinato punto del racconto, lo fa perché è l’inserimento di quell’istanza narrativa

può sollecitare riflessioni nel lettore, suscitare emozioni, instillare dubbi. Ogni elemento

in una narrazione tradizionale ha il peso e la funzione che l’autore decide di attribuirle.

Nel caso della narrazione interattiva, tuttavia, il bilanciamento degli elementi e la loro

stessa funzione nell’economia della struttura del racconto cambiano radicalmente: ci

saranno degli elementi “vincolati”, ossia quelli che fanno parte della narrazione minima

essenziale che permette al fruitore di capire il contesto, i personaggi e la trama, ma ci

saranno elementi “liberi” che, pur conservando la loro funzione narrativa classica

(un’analessi resterà pur sempre un’analessi), avranno un ruolo “ridimensionato”

all’interno del testo particolare. In una narrazione interattiva, infatti, un elemento che

non fa parte della narrazione principale può essere fruito in una fase iniziale o finale

della lettura, può essere addirittura non fruito affatto, il fruitore può riuscire a

collegarlo al contesto generale (perché magari lo ha incontrato troppo presto e non

può contestualizzarlo).

Chris Crawford scrive, in un saggio del 2003:

“Since computer games are such a successful genre, quite a few companies have attempted to enhance their products by building a story into the game. The first attempts in this direction were commercially successful if only for their novelty value, and every few years somebody comes along with an interesting new twist that sells. But these products fall well short of interactive storytelling – they are more accurately termed ‘games alternating with stories’. (…) The story itself is non-interactive, and the game itself lacks dramatic content.”

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La preclusione di Crawford a considerare la narrazione videoludica interattiva deriva

dal fatto che si concentra sugli elementi verbali ed esclude che l’interazione derivata

dall’esplorazione e dall’interazione con l’ambiente possa trasformarsi in istanza

narrativa. In realtà, questa visione appartiene a una scuola più “vecchia”, forse oggi

superata, che considerava la narrativa ipertestuale come un’avanguardia letteraria

contemporanea. Sebbene questa tipologia di scrittura che ha conosciuto un certo

fiorire negli anni ’90, sia accademicamente interessante e permetta di individuare

strutture e metodologie chiaramente influenzate dalla Rivoluzione Digitale, non ha

raggiunto mai un successo di massa ed è, ad oggi, praticamente estinta. In quel caso,

l’istanza di libertà concessa al lettore dall’autore era molto ampia: all’interno di un

sistema di “lessie” collegate in modo rizomatico ad altre lessie, il lettore poteva decidere

il percorso da affrontare per assorbire la narrazione. A lungo andare, ci si è resi conto

che più che di narrativa “ipertestuale” ci si trovava davanti a un’organizzazione

narrativizzata dell’informazione, a una struttura in cui il lettore-autore doveva decidere

cosa conservare del proprio viaggio “di conoscenza” attraverso le informazioni

individuate dall’autore reale. L’autore “cede” parte della sua autorialità al lettore, per

così dire si “relativizza”:

“Quando oggi pensiamo alla lettura e la scrittura, le concepiamo come processi seriali o procedimenti svolti a intermittenza dalla stessa persona: si legge, si scrive, e poi si legge ancora. L’ipertesto, che crea un lettore, attivo, forse anche un po’ invadente, spinge tale convergenza di attività ancora più avanti; ma in questo modo usurpa il ruolo dell’autore, affidandone una parte al lettore.

Un segno evidente di questo spostamento di potere si esplica nella facoltà del lettore di scegliere il proprio cammino attraverso il metatesto, e di annotare e creare collegamenti fra documenti scritti da altri. (…) Riducendo l’autonomia del testo, l’ipertesto diminuisce anche l’autonomia dell’autore. (…) È vero che gran parte di quella cosiddetta autonomia era apparente ed esisteva solo nella difficoltà da parte dei lettori di vedere i legami tra i documenti, tuttavia l’ipertesto – che qui considero come il punto di convergenza fra le idee post-strutturaliste sulla testualità e le sue materializzazioni elettroniche – elimina certi aspetti dell’autorità e autonomia del testo, trasformando così la figura e la funzione dell’autore.”147

147 Landow, George P. (1998) L’ipertesto. Tecnologie digitali e critica letteraria, Bruno Mondadori, Milano p. 127

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Questa osservazione che Landow formulava già nel 1994 riferendosi al genere

dell’ipertesto più che a quello del videogioco, ci fa capire come si ridimensioni non solo

il ruolo di chi scrive, ma anche la funzione degli elementi che vengono utilizzati per la

narrazione. A questo punto, è forzato cercare di definire “narrazione interattiva”

solamente quelle narrazioni che vedono il testo come interattivo, perché è questo il

senso dell’affermazione di Crawford. Egli sostiene che solo quando il testo è veramente

ipertestuale, allora si parla di interattività autore-testo-lettore. In realtà, quello che è

stato dimostrato è che la narrazione può benissimo essere interattiva e che il tentativo

di interfacciare la narrazione con l’interattività videoludica, di unire dramma e

gameplay* non è un tentativo di “pochi” ma una tendenza naturale che si è sviluppata

nel medium videogioco dopo le prime (e fisiologiche) fasi di sperimentazione tecnica,

grafica e interattiva. Si è sentito forte il bisogno di convogliare significato e di

raccontare storie, sfruttando strategie in parte mutuate dalla narrazione tradizionale e

in parte innovate (anche forzatamente) dal mezzo di comunicazione su cui si stava

lavorando148.

Il punto fondamentale resta la maggiore istanza di libertà concessa a questa nuova

figura di lettore, il fatto che a differenza dei romanzi, dei racconti, e di tutte le forme di

narrazione contemporanea primariamente considerate “letterarie” il videogioco utilizza

strategie comunicative che sono visive, e multimediali e che, infine, il workflow* che

parte dal concepimento e arriva alla produzione e alla distribuzione di un prodotto

videoludico sono fortemente condizionati dai piani per le vendite.

148 Sebbene consapevoli del fenomeno del casual gaming* e del filone di games for everyone sviluppatosi a partire dal 2006 con il lancio

delle nuove console* Nintendo Wii e DS, non affronterò l’argomento in questa sede. Ritengo infatti che questa fase attraversata attualmente dal videogioco sia solo transitoria e serva per rendere più accessibili quei contenuti che, fino a poco tempo fa, erano riservati unicamente ai cosiddetti hardcore gamers, ossia ai giocatori assidui. Attualmente, attraverso il casual gaming* sta avvenendo una sorta di seconda alfabetizzazione digitale che porterà, tuttavia, nel futuro, alla richiesta di contenuti di spessore, che attualmente mancano a questo filone di intrattenimento. È quindi fondamentale, in questo momento di passaggio, concentrarsi sulle strategie adottate dai giochi della “vecchia scuola” e di imparare dalle nuove metodologie di gameplay introdotte dai games for everyone per affrontare in modo efficace la nuova ondata di richiesta di contenuti “complessi” che seguirà a questa fase di adattamento e di alfabetizzazione videoludica di massa.

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Allora, è ancora possibile veramente considerare la narrazione interattiva, nello

specifico, la narrazione videoludica e analizzarla con gli strumenti e i parametri critici

utilizzati per la narrazione tradizionale? Se, in effetti, l’autorialità è cambiata e sta

tuttora cambiando in modo così radicale, se, ancora, tanti dei prodotti multimediali e

interattivi e, sopra tutti probabilmente i videogiochi, sono prima di tutto prodotti e

non “opere d’arte”, la domanda in questione risulta pertinente. Tuttavia, se è vero che i

videogiochi possono essere considerati un prodotto (e gli studi di marketing alle spalle

di ogni titolo, piuttosto che i compromessi che si devono accettare durante la

produzione vera e propria ne sono un chiaro esempio) non dobbiamo dimenticare

sono comunque prodotti “composti” da più parti, affidati a professionisti, ovvero artisti,

che cercano di trasmettere per quanto possibile la loro sensibilità, il loro patrimonio

culturale. I ruoli, anche nell’industria, sono ben chiari e un game designer non è un

interactive writer. Più in generale, bisogna specificare che l’applicazione del concetto di

narrazione non può avvenire per tutti i videogiochi: esistono generi, prodotti ed

esperimenti che si avvicinano più o meno al concetto di narrativa tradizionale (o che,

per meglio dire, ne recuperano le strutture, i modi e le strategie), mentre esistono

esempi di videogame che tutto sono fuorché istanze narrative. La trama, è vero, non è

un elemento imprescindibile per un videogioco. Sebbene critici come Janet Murray, a

nostro parere in modo più provocatorio che sensato, abbiano sostenuto che anche in

puzzle game come Tetris potessero esistere istanze narrative nascoste, è un dato di

fatto che alcuni giochi possono solo far scaturire narrazioni emergenti e non narrazioni

integrate nella struttura dell’opera: posso divertirmi con gli amici e ricordare

un’esperienza di gioco condivisa, raccontarla anche, ma non posso effettivamente

individuare una storia all’interno della sessione di gioco in sé. Tuttavia, proprio perché

la trama non è un elemento imprescindibile diventa un elemento di spicco, quando

presente. Se un gioco possiede una solida struttura narrativa, abbinata a un’ovvia

struttura di gameplay*, allora si può definire narrazione. Se la narrazione viene a

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mancare, allora si torna nella dimensione di interattività pura, di intrattenimento anche.

La storia intrattiene, ma come nei casi che più avanti citeremo e in molti altri, trasforma

il videogioco in un oggetto che convoglia e veicola significato, che si fa carico di quelle

“unità minime di informazione” che abbiamo precedentemente definito come “memi”,

permettendo di identificare anche la cultura e di trarre informazioni sulla nazione che

lo ha prodotto e sul riutilizzo che chi lo ha prodotto ha fatto degli ipertesti, nel senso

genettiano del termine, che aveva a disposizione quando ha realizzato quell’opera.

Perché, nonostante tutte le limitazioni del caso, è impossibile negare che ogni storia

abbia degli ipertesti alle sue spalle: poco importa se questi testi sono verbali e se l’opera

in questione è multimediale. Le strutture per rendere efficace il racconto restano sempre

e comunque le stesse. Si può affermare che alcune di esse siano “scardinate”, ma anche

questa affermazione presuppone che ci sia una “normalità” nella narrazione

videoludica e che ci siano poi delle eccezioni particolari.

Con un’immagine metaforica e decisamente poetica, si può dire, forse, che i videogiochi

sono la reale concretizzazione di quella tipologia di “ipertesto” ipotizzata da Borges nel

suo “Il giardino dei sentieri che si biforcano”. La figura di Ts’ui Pên è assimilabile a

quella di un narratore che decide di sperimentare un nuovo medium per raccontare

una storia.

“Non invano sono bisnipote di quel Ts’ui Pên che fu governatore dello Yunnan e che rinunziò al potere temporale per scrivere un romanzo che fosse ancor più popoloso del Hung Lu Meng, e per costruire un labirinto in cui ogni uomo si perdesse. Tredici anni dedicò a queste eterogenee fatiche, ma la mano di uno straniero lo assassinò e il suo romanzo era insensato e nessuno trovò il labirinto. (…) Pensai a un labirinto di labirinti, a un labirinto sinuoso e crescente che abbracciasse il passato e l’avvenire, e che implicasse in qualche modo anche gli astri.”149

Descritta così, l’opera di Ts’ui Pên è in effetti antesignana e letteralmente visionaria.

Semplicemente, il governatore cinese può essere annoverato come il primo game

designer di cui la letteratura parli. Il suo progetto era da una parte quello di scrivere un

149 Borges, Jorge Luis (1995) Finzioni, Giulio Einaudi editore, Torino, p. 84

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libro, dall’altra quello di costruire un labirinto. Entrambe queste attività sono ben note

e ben strutturate: un libro è, solitamente, una narrazione lineare, mentre un labirinto è

una costruzione apparentemente confusa ma, in effetti, con una solida struttura alle

spalle. L’autore del libro e del labirinto è quindi tacciato di follia dai suoi eredi, che non

capiscono cosa stesse effettivamente scrivendo o costruendo:

“Noi del sangue di Ts’ui Pên, - replicai, - continuiamo a esecrare quel monaco. La pubblicazione fu insensata. Il libro è una confusa farragine di varianti contraddittorie. Una volta l’esaminai; nel terzo capitolo l’eroe muore, nel quarto è vivo. E quanto all’altra impresa di Ts’ui Pên, al suo Labirinto…”150

Il personaggio che parla è il passato: è la tradizione, è l’ancorarsi alla forma e alla

consuetudine conosciuta. Il personaggio che invece scopre la verità è un “illuminato”,

uno studioso ma anche un viaggiatore, un “marinaio” (probabilmente in senso più

figurato che letterale). La rivelazione per il lettore, in questo racconto, è scoprire che,

per Ts’ui Pên, libro e labirinto erano in realtà la stessa cosa:

“- Ecco il Labirinto, - disse indicandomi un alto scrittoio di lacca.

Un labirinto d’avorio! – esclamai. – Un labirinto minimo…

Un labirinto di simboli, - corresse.- Un invisibile labirinto di tempo. A me, barbaro inglese, è stato dato di svelare questo mistero diafano. A distanza di più di cent’anni, i particolari sono irrecuperabili, ma non è difficile immaginare ciò che accadde: Ts’ui Pên avrà detto qualche volta: ‘Mi ritiro a scrivere un libro’. E qualche altra volta: ‘Mi ritiro a costruire un labirinto’. Tutti pensarono a due opere; nessuno pensò che libro e labirinto fossero una cosa sola. Il Padiglione della Limpida Solitudine sorgeva nel centro di un giardino forse intricato; il fatto può aver suggerito agli uomini l’idea di un labirinto fisico. Ts’ui Pên morì; nessuno, nelle vaste terre che erano state sue, trovò il labirinto; fu la confusione del romanzo a suggerirmi che il labirinto fosse il romanzo stesso.”151

Ecco davanti a cosa ci troviamo: davanti a qualcosa che una volta non si riusciva a

“comporre” (non si poteva contemplare che una storia avesse una struttura labirintica,

che fosse tale nel tempo e non necessariamente nello spazio), oggi dobbiamo

necessariamente credere che una struttura “labirintica” o, comunque, non lineare, possa

benissimo contenere una storia. La narrazione videoludica è questo: una narrazione

150 Ibid. p. 86 151 Ibid. p. 86

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che deve per forza conservare le basi derivanti dalla narrazione tradizionale ma, questa

volta, inserirla e modellarla su una struttura complessa, che non è né infinita né

casuale, e da cui forzatamente la narrazione viene contaminata, pur mantenendo quei

caratteri distintivi che la rendono pressoché “immortale”. Il videogioco consente al

lettore di scegliere, temporalmente, tra tutti gli “infiniti” universi che possono scaturire

dalle decisioni prese durante la narrazione dal protagonista.

“’Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano’. Quasi immediatamente compresi; il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerirono l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio. Una nuova lettura di tutta l’opera mi confermò questa idea. In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang – diciamo – ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti possibili; Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti; e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni.”152

È chiaramente impossibile costruire un’opera umana reale che, come nel racconto di

Borges, abbia biforcazioni infinite e permetta sia all’autore che al lettore di vagliare e

seguire ogni singola biforcazione narrativa ipotizzabile. È però vero che quello che

succede, in teoria e in modo astruso, nell’opera di Ts’ui Pên, accade in modo

ridimensionato nei videogiochi: non esiste, in questo tipo di narrazioni, un tempo

“uniforme” ma esistono serie infinite di tempo, che creano, come dice Borges, tempi

divergenti, convergenti e paralleli. Ogni singola partita di un videogioco che abbia una

narrazione al proprio interno porta a esiti diversi, non solo: porta a tempi diversi,

percorsi diversi e situazioni diverse. Non sono certo comprese tutte le possibilità, ma

sono sicuramente contemplate le varianti più probabili per le azioni chiave del nucleo

narrativo.

152 Ibid. p. 88

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145

Anche se l’analogia tra il videogioco come esiste oggi e la “teorizzazione

inconsapevole” di Borges può essere ardita, i videogiochi, con tutte i loro limiti,

possono essere considerati senza dubbio alcuno veicolo di narrazione e, di

conseguenza, le loro trame possono essere analizzate con gli strumenti tipici della

narratologia. È pur vero che la preponderanza “letteraria” degli elementi narrativi

contenuti è fortemente ridimensionata dal fatto che il ritmo, la descrizione degli spazi e

dei personaggi, le suggestioni non avvengono attraverso istanze verbali, ma è altresì

vero che l’utilizzo di tematiche e motivi, la ricorrenza di simboli e di manifestazioni

culturali tipiche degli autori, l’utilizzo di un ordine per definire il tempo la durata e la

frequenza di un racconto, i modi, le focalizzazioni, le istanze narrative che includono

voce narrante, persona, funzioni del narratore sono necessariamente recuperate

(perché stiamo parlando di narrazione e non di generi specifici).

Quando Ts’ui Pên diceva che andava a scrivere una storia, allora pensiamo a quella

parte del videogioco che identifichiamo prettamente come narrativa. Quando invece

affermava che andava a costruire un labirinto, dobbiamo pensare al concetto di

gameplay* e cioè alla struttura para-narrativa grazie alla quale il “raccontare” del

videogioco acquisisce la sua efficacia. Non solo parole scritte su fogli (o su uno

schermo), ma ambienti, fisica, spazialità e temporalità modificate e adattate ad hoc al

“testo” in questione.

Ben consapevoli della diatriba tra narratologi e ludologi, ossia tra sostenitori della

struttura narrativa come elemento portante del videogioco e detrattori di questa

visione, che propongono invece la struttura interattiva e di gameplay* come base

fondante di questo medium, dobbiamo anche tenere conto del fatto che esistono

diversi equilibri tra questi due macro-elementi, nei vari videogiochi che, dalla nascita di

Pong, hanno affollato il mercato e sono arrivati a un audience molto ampia e variegata.

È per questo che, dopo aver contestualizzato la natura letteraria e narrativa del

videogioco, è necessario definire i criteri di selezione con cui sono state scelte delle

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I videogiochi: Paggiarin Valentina modelli narrativi e rimediazioni tecnologiche Dottorato XXI Ciclo - Università IULM

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opere videoludiche significative da analizzare e che lasciano trasparire chiari influssi

letterari e narrativi, abbinati in modo efficace e innovativo a strutture e meccaniche che

rendono tipologie di narrazione canoniche, magari anche “storiche”, adattabili a questo

mezzo di comunicazione. L’idea di fondo è che, se in passato la letteratura e i generi

letterari tradizionali erano il veicolo privilegiato di determinate forme di narrazione,

oggi la ricezione della narrativa è cambiata e la letteratura è stata affiancata da altri

media153 che, inglobando retroattivamente le caratteristiche forti degli altri, si sono fatti

a loro volta portatori di quelle storie che erano in passato esclusivo appannaggio

letterario.

Testi significativi e macro-categorie Non tutti i videogiochi sono uguali. Questa affermazione banale è tuttavia

fondamentale per introdurre il discorso e la motivazione della scelta dei tre titoli che

andremo in seguito ad analizzare.

In particolare, uno dei problemi fondamentali che tocca ogni singolo tentativo di

definizione di un metodo univoco di analisi dei videogame è quello di scontrarsi,

inevitabilmente, con differenze sostanziali che intercorrono tra un gioco e l’altro.

L’utopia, in un certo senso, è sempre stata (e forse è tuttora) quella di identificare una

metodologia univoca o quantomeno trasversale, una sorta di “nuova disciplina”, da

alcuni identificata nella ludologia, che permetta l’analisi di questo nuovo medium in

modo costante e sistematico. Purtroppo o per fortuna, il videogioco è troppo

poliedrico per essere analizzato da un’unica disciplina di quelle esistenti: in realtà, il

videogioco è come un testo letterario. Nel corso dei secoli si sono sviluppate diverse

scuole di pensiero, diversi approcci di analisi, tra cui quello strutturalista, sociologico,

semiotico, e così via. Allo stesso modo, per i videogiochi, sia nella fase di creazione che

153 E in effetti, sempre forti sono le analogie tra videogiochi e cinema, per citare solo due dei media “narrativi” più in auge, passando

anche dai fumetti e dalle narrazioni distribuite.

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in quella di analisi si attraversano fasi alterne, che privilegiano ora uno, ora un altro

elemento che compone il prodotto: la trama, la grafica, le meccaniche di gioco,

l’impatto sociale, sono tutti elementi che sono sempre presenti in un videogame e che

possono sempre essere analizzati ma, a seconda dei casi, con equilibri differenti.

Nel nostro caso, vogliamo analizzare se e in che modo diversi elementi provenienti

dalla narrazione tradizionale quali trama, intreccio, personaggi, ambientazioni,

tematiche, temi e motivi in genere stiano migrando verso nuovi media e con quali

modalità lo stiano facendo, se innovandosi completamente o se, comunque e in che

misura, conservando strutture ed elementi tradizionali che sono codificati non solo

nella mente del lettore tradizionale, ma anche nella mente del giocatore e che,

semplicemente, sono vecchie strutture riproposte per mezzo di un nuovo linguaggio.

Per parlare quindi di narrazione era necessario scegliere dei videogiochi la cui struttura

fosse, tra l’altro, ovviamente narrativa. È importante precisare che la narrazione è uno

degli elementi preponderanti di questi videogame, ma che non è il più importante né

tantomeno quello su cui si fondano: uno dei punti cardine per definire e differenziare

un videogioco rispetto ad altre forme di intrattenimento e di comunicazione è la sua

natura fortemente interattiva e basata su un sistema di regole, costituito da obiettivi da

raggiungere, ostacoli, premi e così via, che deve coinvolgere il giocatore in un processo

che sia attivo non solo a livello cognitivo, ma anche e soprattutto nel senso che implica

un’azione concreta da parte del giocatore. Il gameplay* è sempre fondamentale, perché

definisce le meccaniche interattive, il sistema di regole, propone l’orizzonte di attesa e

condensa le dinamiche ludiche. A un livello superficiale di analisi si può dire che la

narrazione, nello specifico dell’ambito videoludico, assuma il ruolo di cornice

caratterizzante dell’esperienza del giocatore: apparentemente, infatti, le vicende narrate

diventano la cornice (temporale, spaziale e tematica) in cui inserire l’interattività sopra

citata. Di fatto, esistono gradi diversi di interazione tra narrazione e interattività: ci sono

casi in cui l’elemento narrativo costituisce il fulcro della comunicazione e su di esso

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vengono progettate le prassi ludiche più adeguate; altri in cui predomina l’elemento

interattivo a discapito della fascinazione narrativa che diventa meramente strumentale

o secondaria. Quello che è corretto affermare, è che in alcuni videogiochi l’interazione

tanto auspicata tra gameplay* e narrazione avviene in modo veramente efficace ed è

quindi possibile individuare le metodologie in base alle quali la storia e la meccanica

con cui viene raccontata diventano completamente complementari, si compenetrano e

si rafforzano a vicenda, invece di annullarsi o squalificarsi.

In base a quest’ottica, i giochi presi in esame non saranno giochi unicamente basati sul

gameplay*: Tetris, Geometry Wars, Pac Man, e tanti altri puzzle game sono esempi di

modalità di interazione, ma completamente svuotate di un significato. Sono

esperimenti o punti di arrivo, sono utili perché aiutano a rendere universale un

linguaggio, a concretizzare dinamiche che da elitarie diventano diffuse. La storia è

imprescindibile se, oltre al come, vogliamo capire perché un giocatore (o meglio,

determinate tipologie di giocatori) vogliano così fortemente giocare e farsi emozionare

dai videogiochi. La trama esiste, è fortemente radicata nella struttura di gioco e

costituisce un motivo che il giocatore può anche, occasionalmente, dimenticare, ma che

è tutto sommato alla base di ogni singola sua azione. I picchi emotivi significativi

vengono raggiungi da una cooperazione reale tra meccaniche di gioco e messaggio

trasmesso: è questo il buon gameplay*, dopotutto, quello in cui gli elementi fluiscono

senza “incastrarsi”, in cui l’interfaccia e la sospensione dell’incredulità diventano

trasparenti (o vengono addirittura “dimenticate”) e in cui il giocatore si lascia trascinare

dall’esperienza, vivendo la storia narrata come se fosse l’unica verità possibile.

I videogiochi selezionati forniscono ciascuno un esempio diverso di adattamento di

trame narrative più o meno tradizionali, di generi e sotto-generi più o meno noti e

diffusi all’interno di un medium che sicuramente non è solo narrativo (né tantomeno

testuale) ma che, altrettanto sicuramente, sa raccontare storie ai suoi fruitori in modo

alternativo rispetto a quanto fanno, oggi, racconti e romanzi. Non stiamo quindi

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parlando di esclusione, sostituzione, cancellazione, ma di affiancamento, interscambio

mutuale, influenze e ispirazioni che, se inizialmente (come viene sottolineato

nell’excursus sulla storia dei videogiochi del Capitolo 1) era unilaterale e andava dalla

letteratura verso il videogame, ora è completamente biunivoco, nel senso che la

direzione iniziale esiste ancora, ma che è affiancata dall’influenza che il videogioco ha

non solo a livello narrativo e strutturale sulla letteratura, ma anche a livello simbolico,

tematico e di motivi sull’immaginario collettivo.

Shadow of the Colossus è il primo videogioco significativo che andremo ad affrontare.

Ideato e sviluppato in Giappone per piattaforma Playstation2, presso gli studi di Sony

Computer Entertainment, questo gioco è stato diretto da Fumito Ueda e dal suo team,

già realizzatori in passato di Ico. Sviluppato presso Sony dal 2002 al 2005 e distribuito

(sempre da Sony) in Giappone e negli Stati Uniti nell’ottobre dello stesso anno (mentre

in Europa nel febbraio 2006), il gioco è nato come sequel del primo episodio (Ico

appunto), salvo poi cambiare la propria configurazione durante la lavorazione. Questo

videogioco viene comunemente classificato come un Adventure-Platform*, il suo target

primario è “T (Teen)”154 e prevede unicamente la modalità single player* off-line. Lo

sviluppo che sta alle spalle di Shadow of the Colossus è particolare, rispetto ai trend

moderni e agli iter classici che seguono i videogiochi: il designer Ueda ha di solito

“campo libero” per concentrarsi sulla qualità e sull’unicità del gioco che sviluppa,

lontano (o quantomeno con molti meno limiti rispetto al solito) dalle logiche

tradizionali di vendita. Con Ico così come con Shadow of the Colossus e, probabilmente,

con il prossimo titolo sviluppato da Ueda (in lavorazione, per PS3*), la casa di

produzione Sony ha deciso di dedicare spazio a prodotti realmente artistici, che siano

di alta qualità e che raggiungano un pubblico di “nicchia”. Le vendite dei giochi, infatti,

se pur positive, non si avvicinano minimamente a quelle dei “blockbuster” prodotti per

il pubblico di massa. Ci troviamo piuttosto davanti a videogiochi che sono stati creati

154 Per ulteriori informazioni sul sistema di rating americano, consultare il sito http://www.esrb.org

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con una “direzione artistica” forte, al cui team di sviluppo è stato concesso di

concentrarsi non tanto sulle eventuali vendite o su ipotetici risultati di mercato, quanto

sulla qualità e sulla coerenza dell’opera in lavorazione155. Per questo il caso di Shadow of

the Colossus è particolare. Gli studi di mercato che stanno alle spalle del gioco

sicuramente ben sapevano che, come il predecessore, questo episodio non avrebbe

stra-venduto. Tuttavia, il team di sviluppo ha ricevuto carta bianca a partire dalla

concezione, passando poi per lo sviluppo e il “cesellamento” dell’opera. A questo punto

è necessario inserire una precisazione sulle diverse tipologie di approccio alla

realizzazione di un videogioco: soprattutto nella ultima decade, per via dell’enorme

successo commerciale e di pubblico che i videogiochi hanno raggiunto, la produzione

di questi prodotti, da una fase sperimentale e anche piuttosto creativa iniziale, si è

letteralmente massificata e la realizzazione e la distribuzione di un videogioco sono

diventate, da fenomeni sperimentali e, in alcuni casi, anche amatoriali, dei veri e propri

prodotti “in serie”, che devono rispondere a determinati standard, rientrare in

determinati budget ed essere distribuiti quasi “ad ogni costo”. Le pressioni sempre più

forti del mercato hanno portato a una deriva particolare: da una parte ci sono le grandi

multinazionali come Sony, Electronic Arts, Ubisoft e altre che producono prodotti di

massa, di discreta qualità ma finalizzati principalmente alla vendita. Dall’altra parte,

grazie anche all’abbattimento recente dei costi per lo sviluppo, si sono sviluppate

migliaia di software house indipendenti e minori che puntano a loro volta a invadere il

mercato con i propri prodotti, ma che spesso hanno un approccio più creativo e audace

nei confronti dei videogiochi che realizzano. Proprio questo atteggiamento ha spinto le

major a tornare a dedicarsi, almeno in parte, alla “ricerca” e quindi alla produzione di

titoli che non sono convenienti da un punto di vista economico, ma che contribuiscono

al prestigio della casa che li produce. Se, quindi, da una parte resta fortemente radicato

155 Coerentemente con l’incredibile ampliamento della sua diffusione, infatti, il settore della produzione videoludica tende a concentrarsi

maggiormente sul target e sul mercato piuttosto che sulle idee, sui contenuti e sulla qualità. Più raro, ma molto significativo, come nei casi che andremo ad analizzare, è il fatto che ad alcuni game designer e ad alcuni team di sviluppo venga lasciata la libertà di sviluppare opere sia sperimentali che “controcorrente” e che abbiano come priorità l’originalità, la qualità e, in molti casi, anche un messaggio forte.

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il concetto di prodotto videoludico come qualcosa nato per essere venduto, in alcuni

casi (tre dei quali sono, sicuramente, quelli di cui affronteremo l’analisi) ci troviamo di

fronte a opere svincolate dall’idea di profitto e che sono nate ancora dall’ingegno e

dalla volontà forte di uno o più autori di comunicare una loro “visione”.

Per tornare al caso specifico di Shadow of the Colossus, in effetti, lo studio e la ricerca che

stanno alle spalle della realizzazione del titolo (a livello contenutistico ed estetico, oltre

che meramente tecnico) sono analoghe a quelle che un autore può compiere per la

stesura di un romanzo, e non superficiali come in molti casi si rivela essere

l’investimento di tempo dedicato ai contenuti di molti altri videogame. Per di più, il

game designer che ha diretto i lavori di realizzazione del gioco ha potuto indirizzare a

proprio piacimento gli sforzi e decidere quali elementi potenziare e raffinare nel gioco.

Ancora, paradossalmente, non sempre nello sviluppo di un videogame il game

designer, che è un po’ il “regista cinematografico”, ha piena facoltà di decidere quali

sono gli elementi chiave dell’opera che sta realizzando: il marketing, il budget, le

ingerenze da parte dei dirigenti dell’azienda spesso pongono veti a cui gli artisti (o,

comunque, chi in quell’ambito ha una visione più artistica e creativa) devono

sottostare. Nel caso di Shadow of the Colossus (ma, sicuramente, anche di Silent Hill 2 e di

Bioshock) la libertà messa a disposizione della squadra di sviluppo è stata notevole e il

risultato è stato un gioco che è solo un prodotto commerciale, ma un’opera di ingegno,

alla stregua dei romanzi o del cinema d’autore156.

Sempre tornando a parlare di Shadow of the Colossus, il fascino di questo videogioco sta

anche nel fatto che è stato realizzato in Giappone da un team principalmente

nipponico, ma che recupera strutture estetiche e narrative tipiche delle fiabe

occidentali. È quindi interessante osservare in che modo avvenga la contaminazione di

156 Non è certo facile definire le caratteristiche di un’opera di qualità come fossero assoluti, tuttavia è possibile identificare la presenza o

l’assenza di alcune “condizioni”, nel corso della lavorazione di un’opera, che la rendono più o meno orientata al mercato o legata a un progetto artistico. La possibilità, ad esempio, di compiere accurati studi di design, la possibilità di inserire dinamiche di gioco che appaiono semplici nella fruizione ma che sono altamente complesse nella realizzazione (parliamo di programmazione e implementazione nel motore di gioco), la cura linguistica, sia nel testo originale che nella localizzazione, la direzione artistica nelle mani di un creativo e non di un produttore: tutti questi sono elementi che sicuramente contribuiscono alla maggior riuscita di un’opera videoludica che abbia un impatto artistico ed emotivo prima che commerciale e di mercato.

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un sotto-genere come la fiaba nella costruzione di un’opera narrativa e interattiva

digitale che nasce in Giappone ma che ha come pubblico virtuale tutti i giocatori del

mondo157. In particolare, è interessante analizzare la narrazione archetipica e, appunto,

fiabesca, e lo stile fortemente non verbale della struttura del racconto, che si rivela

fortemente emotivo e comunicativo seppure utilizzi in minima parte una componente

di narrazione diretta.

Passando a un altro videogioco in single player* e off-line, ancora giapponese, e

sviluppato da Konami, parleremo di Silent Hill 2, fortunato episodio di una fortunata

serie inserita nel genere del survival horror. La storia della serie comincia nel 1999, con la

distribuzione del primo episodio, Silent Hill, per Playstation, ma continua fino ad oggi

con numerosi sequel per diverse piattaforme (ed è in produzione un nuovo capitolo in

distribuzione a partire da novembre 2009). In particolare, all’interno dell’intera serie,

concentreremo l’attenzione sul secondo capitolo, Silent Hill 2, perché è considerato, sia

dalla critica che dai giocatori, uno degli esempi più di successo e una delle trame più

raffinate che siano comparse, a oggi, nei videogiochi. Il successo di Silent Hill 2 è dovuto

a diversi fattori: oltre alla scelta di un sotto-genere quale l’horror, i numerosi rimandi

alla letteratura di genere, al cinema e a una serie di archetipi (e in alcuni casi, anche, di

stereotipi) afferenti all’ambito dell’ignoto e del mostruoso hanno contribuito a rendere

Silent Hill 2 un prodotto quasi di culto, un videogioco ben riconoscibile, emozionante

dal punto di vista narrativo e accessibile a diversi livelli. Il gameplay* prevede, infatti,

diverse combinazioni di difficoltà. Essendo inscritto nel genere dei survival horror, le

dinamiche interattive sono un misto tra quelle tipiche del gioco di avventura e quelle

di azione. Il giocatore deve quindi sia risolvere enigmi, sia affrontare e sconfiggere i

nemici attraverso lo scontro “fisico”, ma i gradi di difficoltà sono assolutamente

modulari e permettono a qualsiasi giocatore (da quelli più intuitivi e riflessivi, ma meno

capaci dal punto di vista dell’interattività e meno rapidi nel fronteggiare situazioni di

157 Questa osservazione ha particolarmente senso se si considera che non tutti i videogiochi hanno lo stesso target e che non sempre un

prodotto videoludico ha l’ambizione di insediarsi in mercati esteri.

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azione, a quelli più reattivi e che tuttavia trovano maggiori difficoltà nell’affrontare

enigmi logici) di vivere l’esperienza di gioco e seguire il protagonista, James. La vera

forza di questo videogioco è che permette, finalmente, e dopo anni di tentativi più o

meno fallimentari, di vivere una di quelle storie letterarie (o anche cinematografiche)

tanto diffuse e coinvolgenti per un pubblico abituato alle letture fondate

fondamentalmente su due generi, quello dell’horror e il giallo (guarda caso entrambi

iniziati da Poe, che sarà uno dei punti di riferimento e confronto per l’opera in

questione). Il coinvolgimento del giocatore è pressoché totale, in un videogioco con

queste meccaniche e con questa trama: con un abile uso della mise en abîme, il giocatore

si trova a mettere in discussione la propria sanità mentale, perché la struttura del gioco

è, in “piccolo”, la ricostruzione di una spirale di terrore e disorientamento che trascina

con sé non solo i personaggi del racconto, ma costringe il giocatore stesso a

interrogarsi sulla propria integrità. Il giocatore si trova nel finale a corrispondere a una

tipologia di protagonista che ha determinato egli stesso con le proprie azioni durante

la sessione di gioco. Anche Silent Hill 2 può vantare (come Shadow of the Colossus, nella

nostra “case history”), un design e una direzione artistica ben definiti: Masashi

Tsuboyama alla regia e Masahiro Ito sono i due “direttori generali”, mentre molto forte

e presente è il contributo di Akira Yamaoka alle musiche. Questi nomi non

compariranno sempre nei sequel della saga e sia la critica che i giocatori sentiranno la

mancanza di queste figure chiave, che hanno contribuito a creare un’opera dell’orrore

che è diventata, a soli 7 anni dalla sua uscita, un classico pressoché insuperabile nel

mondo videoludico.

L’ultimo videogioco che introdurremo e di cui analizzeremo ricorrenze narrative e

stilistiche, è un videogioco appartenente al genere Sci-Fi, un videogioco di

avventura/azione in cui il protagonista deve affrontare un percorso alquanto “forzato”

per sfuggire da una città distopica e salvare la propria vita e quella di alcuni tra i

personaggi che incontra durante la sua avventura. Sviluppato da 2K Interactive, casa di

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sviluppo americana, per piattaforma XBox 360* e PC, il gioco ha riscosso un enorme

successo e, pur vantando meccaniche di gioco non proprio originali e una struttura

alquanto “a corridoio”, la trama, ma soprattutto la ricerca estetica e la tematica

affrontata (quella della bioetica e della manipolazione genetica non a fini terapeutici,

ma a fine di potenziamento del corpo umano) hanno contribuito in primo luogo alla

sua diffusione meramente commerciale, in seconda istanza anche a renderlo uno dei

giochi con un contenuto quantomeno “provocatorio” negli ultimi anni. Se, infatti, la

narrazione è un elemento comuni a molti videogame, la qualità dei contenuti è spesso

molto “mass-market” e raramente si affrontano tematiche nuove, come avviene in

questo caso. Il direttore creativo nonché autore, Ken Levine, ha deciso di affrontare in

modo trasversale i temi della chirurgia estetica e della bioetica sperimentale,

ambientando gli eventi in una vera e propria distopia: in una realtà “alternativa” alla

nostra, e quindi assolutamente verosimile, ma decisamente inesistente (ci troviamo

negli anni ’50, ma l’esperimento di cui parla il videogioco non è mai esistito, nella nostra

realtà, bensì esiste nel multi verso videoludico), il protagonista, di cui condividiamo una

visuale in soggettiva, si avventura attraverso i meandri di Rapture, novella Atlantide,

dopo un incidente. I nemici in cui si imbatte il protagonista (e noi con lui) altri non

sono che gli abitanti della città di Rapture rovinati dalla droga che doveva renderli

onnipotenti e che li ha semplicemente devastati: proprio come i loro corpi disgustosi

nascondono un segreto che verrà rivelato solo nel corso delle vicende, anche la

“nostra” missione non è esattamente quella che ci appare all’inzio dell’avventura…

Recuperando le atmosfere e le ambientazioni di fantascienza di Alien, ad esempio, o di

film classici come Logan’s Run, Bioshock trasporta il giocatore-protagonista in un contesto

impossibile che serve però a ricordare i limiti che la scienza e l’uomo devono sempre

tenere a mente: come in Frankenstein, che costituirà il testo letterario principale per il

raffronto con questo videogame, l’uomo non deve pensare di sostituirsi alla Natura e

di creare (o manipolare) la vita a suo piacimento. Lezione che il protagonista (e i milioni

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di giocatori che hanno acquistato il gioco) imparerà a proprie spese. Il messaggio quasi

“sociale” diventa quindi l’elemento interessante di questo videogioco: a differenza delle

altre narrazioni video ludiche prese in considerazione, questa si può definire tetica, cioè

con un fine, chiaramente tesa a dimostrare qualcosa (ossia ad attualizzare il mito

dell’eterna giovinezza e della sperimentazione sulla vita con un linguaggio, dei simboli,

un’estetica e delle meccaniche che siano funzionali e comprensibili oggi). A differenza

degli altri videogiochi analizzati, Bioshock si schiera e dimostra che anche un videogioco

“di massa” (i numeri delle vendite sono stati talmente buoni che si è immediatamente

iniziata la lavorazione di un seguito) può farsi portavoce di un’idea o di un’ideologia, o

quantomeno far riflettere su tematiche fortemente contemporanee (e, si recupera, qui, il

vero valore della fantascienza: affrontare mondi “lontani”, dispersi, inesistenti, per

parlare, in realtà, di quello che ci circonda).

Questi, in breve, sono i titoli che andremo a esaminare.

Gli elementi da tener presente, tuttavia, nel corso dell’analisi, sono diversi: innanzitutto

la diversificazione tra prodotti realizzati in Giappone e negli Stati Uniti158. Passeremo

quindi a una rapida disamina delle differenze tra prodotti occidentali e “orientali”159, per

poi passare alle considerazioni sulle differenze che intercorrono tra prodotti on-line e

off-line e, infine, alle declinazioni del modo narrativo fantastico a cui ciascuno dei titoli

sopra citati aderisce, a modo suo.

Stati Uniti e Giappone: differenze significative

Storicamente i mercati più fertili di produzione di videogiochi sono quello giapponese

e quello statunitense. Negli ultimi anni Giappone e USA hanno perso il monopolio che

avevano conquistato all’inizio della storia dei videogame, e le case di produzione sono 158 Sebbene ci siano altri mercati, questi due sono predominanti e vantano alcune differenze. 159 In effetti, anche il Giappone ha sicuramente un approccio più vicino a quello occidentale che a quello orientale, per citarne uno, della

Cina, ad esempio. Tuttavia, sono chiaramente percepibili, all’interno dei videogame prodotti in Giappone alcuni elementi della tradizione e alcune prospettive tipicamente nipponiche o, in generale, orientali. Per questo, “orientali” è virgolettato, perché se non si può certo definire occidente, il Giappone mantiene una certa distanza anche dall’idea di oriente che possiamo avere noi occidentali.

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ora sparse in modo equilibrato in tutto il cosiddetto mondo industrializzato. Ciò

nonostante, affrontando un discorso di tipo trans-culturale e trans-mediale e cercando

di capire se e in che modo si passa dal narrare in maniera tradizionale al raccontare con

nuovi linguaggi interattivi, è necessario, per ora, concentrarsi principalmente su

prodotti di massa, o quantomeno molto diffusi e prodotti da quei due poli tanto vicini

quanto contrapposti che sono il Giappone e gli Stati Uniti.

Due dei titoli presi in esame (Shadow of the Colossus e Silent Hill 2) sono stati sviluppati da

team nipponici, mentre Bioshock è principalmente di matrice americana. Un discorso

approfondito sulle differenze culturali che intercorrono tra le due tipologie di

produzione sarebbe molto lungo e complesso160, tuttavia è importante citare, almeno

en passant, alcune differenze che ci aiutano a inserire in un’ottica più ampia i

videogiochi scelti.

Innanzitutto, entrambi i mercati hanno produzioni di tipo diverso, e in particolare

videogiochi destinati a un commercio prettamente “interno” e videogiochi orientati

all’esportazione e alla vendita in tutto il mondo. Questa differenziazione riguarda sia

generi che tematiche: gli hentai161, ad esempio, sebbene abbiano raggiunto una certa

diffusione anche in Europa o negli USA nell’ultimo periodo, sono un genere

prettamente giapponese, ideato e concepito appositamente per quel mercato, e quindi

rispondente a precisi dettami che li rendono in linea con l’orizzonte di attesa del

giocatore. Allo stesso modo, la cultura dei cosiddetti picchiaduro162: questo è un genere

ben diffuso sia in tutto il mercato videoludico, tuttavia la permeanza che ha in

Giappone (ma anche in Corea) è nettamente superiore a quella degli altri paesi. Non si

tratta solo del numero di videogiochi di questo genere prodotti e venduti, si tratta

anche delle manifestazioni pubbliche, dei tornei, degli incontri e delle fiere che si

160 Sarebbe in effetti necessario un lavoro di ricerca molto approfondito, per confrontare fonti e strategie, tematiche e generi. 161 Hentai è una parola giapponese che significa “anormalità” o “metamorfosi”. In Giappone si utilizza anche con il significato di

“sessualmente perverso”, ed ha una connotazione molto negativa, in quanto indica forme di “anomalia sessuale, o di perversione. Al di fuori del Giappone viene usato per riferirsi a opere a sfondo pornografico, divise principalmente tra hentai anime, hentai manga e videogiochi contenenti riferimenti sessuali o espliciti.

162 Termine che definisce i videogiochi in cui lo scopo principale è quello di affrontare i nemici in incontri di lotta di vario genere sia a mani nude che attraverso l'utilizzo di armi da mischia.

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sviluppano attorno a questo genere particolare, e che in Giappone riscuotono un

enorme successo (meno, anche se presenti, nel resto del mondo). Allo stesso modo ci

sono videogiochi, generi e tematiche che riscuotono maggior successo negli Stati Uniti

ed esiste quindi un folto mercato di titoli declinato specificamente per andare incontro

alle richieste del mercato interno: i videogiochi di azione, ad esempio, o di corse (di

automobili, principalmente) sono tra i più gettonati. A differenza del Giappone, il

mercato statunitense è comunque più aperto, ossia è più probabile che un europeo o

un giapponese riescano ad apprezzare un prodotto americano “di nicchia” anziché

l’opposto.

In questi casi, ovviamente, la componente “nazionale” si fa pesantemente sentire:

quando i giochi vengono concepiti e realizzati per un mercato limitato e identificato

unicamente in una nazione (gli Hentai sopra citati sono un esempio), le squadre di

sviluppo tendono a evitare una sorta di “mediazione culturale” che invece avviene in

altre tipologie di gioco di cui a breve parleremo. In particolare, il Giappone, a differenza

degli USA, è un paese con una storia decisamente antica e i richiami alle tradizioni, le

differenze dei simboli, dei ritmi, del gameplay* e dell’organizzazione dei contenuti sono

profonde, rispetto ai prodotti “occidentali”. L’America, invece, sia per la sua storia più

“recente” e per il suo minore rifarsi a epoche antiche, sia per la propria indiscussa

egemonia culturale, perlomeno a livello di diffusione dei contenuti (non parliamo di

qualità ma unicamente di diffusione), vede i suoi videogiochi diffondersi in modo più

capillare, in quanto riesce a raggiungere maggiormente le masse sia sfruttando il

linguaggio di nuova codifica dei videogame in modo efficace, sia puntando su

contenuti e modalità di comunicazione più “canonizzate” e quindi interpretabili dai

fruitori.

Tra i videogiochi che abbiamo selezionato, infatti, quelli che vantano i maggiori volumi

di vendita sono, senza dubbio, la saga di Silent Hill (presa nel suo insieme) e Bioshock,

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rispettivamente con 1,4 e 2 milioni di copie vendute163: l’impatto che questi giochi

hanno avuto sul mercato, è stato impressionante. Non si tratta solo di numeri, ma di

diffusione di paradigmi (o di messaggi). Bioshock, ad esempio, è stato prodotto e

distribuito con il chiaro intento di far passare l’immagine di un’identità artistica della 2K

e di comunicare un messaggio ben chiaro che ricalca quello di Frankenstein e, per

raggiungere lo scopo, utilizza un’estetica, un ritmo, una simbologia ben chiara e che

permette ai giocatori (non importa se americani, europei, giapponesi) di calarsi

nell’azione e di vivere a fondo l’esperienza di gioco.

I giochi giapponesi, invece, soprattutto se studiati per un mercato non tanto interno

quanto internazionale, hanno di solito un impatto differente. I numeri sono

relativamente inferiori rispetto ai “colleghi” americani (la saga di Silent Hill 2 vanta un

milione e mezzo di copie vendute, mentre Shadow of the Colossus viene considerato

letteralmente un gioco “di nicchia”, perché ha venduto circa 700.000 copie nel mondo)

sia per strategie di marketing meno pressanti di quelle americane, sia perché i giochi

hanno comunque un taglio particolare e sono spesso di difficile assimilazione per un

europeo o un americano. Silent Hill 2 è l’esempio emblematico della volontà di

adattamento, da parte della squadra giapponese di Konami, di tematiche prettamente

occidentali a un’ottica prettamente occidentale, che mescolano elementi culturali

appartenenti alla storia letteraria occidentale (Poe per primo) a una sensibilità estetica,

un ritmo e un gameplay* che hanno un taglio chiaramente nipponico (per la lentezza

dei tempi, per gli elementi simbolici, per la costruzione dei ritmi).

Shadow of the Colossus, infine, è un gioco d’avventura in cui il protagonista si trova

sempre solo e in cui vanno affrontati solo quelli che, nei videogiochi più tradizionali,

vengono chiamati “boss”*. L’impatto di un gioco di questo tipo è stato strano: la critica

e i giocatori appassionati lo hanno elogiato e lo hanno innalzato immediatamente a

un classico, mentre il vasto pubblico lo ha praticamente ignorato, perché esula dai

163 Fonte: Wikipedia - http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_best-selling_video_games (15 settembre 2008)

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canoni di genere a cui è abituato. In effetti, anche nei casi in cui le software house

giapponesi producano qualcosa che è chiaramente indirizzato all’estero, è

letteralmente impossibili che gli elementi di emergenza e di rottura con la tradizione

occidentale non emergano.

Le differenze tra i due approcci sono quindi non solo contenutistici, ma anche

metodologici: per affrontare l’analisi è bene ricordare quindi la mole delle vendite di

questi giochi, l’impatto che hanno avuto sul pubblico, il fatto che abbiano o meno

determinato la nascita di filoni al loro seguito. A quanto detto finora, l’approccio

americano è quello di una maggior diffusibilità164: tutto quello che viene inserito nel

gioco, dalla trama, ai personaggi, alle meccaniche, viene pensato in un’ottica globale,

tale da garantire un maggior successo di vendita. Il gioco americano è quello “che fa

notizia”, che arriva sulle pagine anche delle riviste della stampa non specializzata, che

raggiunge bene o male tutti. Con un’osservazione un po’ provocatoria, il videogioco

americano è spesso tanto chiassoso, visibile e diffuso quanto lo è il cinema d’azione

prodotto a Hollywood: segue dei canoni (che vanno dalla produzione al marketing)

così definiti e così universali è che impossibile non conoscerlo (e riconoscerlo).

Il videogioco giapponese è invece più “di nicchia”: in realtà, anche diversi (molto più di

quanto non si percepisca da occidentali) videogiochi giapponesi lanciano mode,

diventano pervasivi e costringono tutti a parlare di loro, ma questo avviene più spesso

all’interno del solo Giappone. Le mode non vengono spesso esportate e generi come

quello degli RPG*, se pur diffusi, diventano secondari, nel resto del mondo, alla

declinazione statunitense (perché, appunto, più accessibile, meno macchinosa e più

“occidentale”). Detto, questo i due giochi di produzione nipponica che andremo ad

affrontare sono interessanti proprio perché, sebbene non abbiano raggiunto una

diffusione pari a quella dei loro “cugini” americani, sono comunque giochi che hanno

164 Non a caso, a volte, le versioni giapponesi dei giochi vengono letteralmente “semplificate” per il mercato americano, in modo che gli

utenti trovino i prodotti videoludici di importazione altrettanto divertenti e non eccessivamente frustranti o complessi.

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avuto sia un successo che una fortuna molto ampi e che hanno, in qualche modo,

cambiato per sempre certi stilemi del videogioco, costringendo i “posteri” a tenere

conto delle pietre miliari che gli “antenati” avevano posto.

Come ho già detto, un’analisi approfondita delle differenze tra queste due culture e il

riflesso di tali differenze nel medium videoludico va affrontato in altra sede: è tuttavia

importante che manteniamo sempre un occhio vigile e aperto sul luogo di nascita dei

videogiochi che analizziamo per cercare di individuare gli elementi che hanno

un’importanza maggiore rispetto agli altri, nell’economia di insieme. Di certo, ad

esempio, il successo di Silent Hill 2 o Shadow of the Colossus non è stato dovuto alla

strategia di marketing adottata durante la distribuzione165, perché i loro punti di forza

sono l’originalità, la raffinatezza e anche la ricerca di un punto di unione tra due culture

e sensibilità tanto distanti (quella orientale e quella occidentale): la rilettura delle

suggestioni di un autore come Poe da parte di una squadra giapponese è sicuramente

diversa da qualsiasi esperimento di riadattare l’autore di Providence su qualunque

media conosciuto. Allo stesso modo, la fortuna dei prodotti americani sta,

probabilmente, nella loro capacità di sfruttare memi efficaci e di massa in modo da

raggiungere più persone possibili: la capacità di riadattare contenuti, di riproporre

modalità di gioco che permettano al giocatore di concentrarsi, liberamente, sugli

elementi che ritiene più importanti, è infatti un grosso plus da riconoscere all’industria

americana. Bioshock è l’esempio di come la semplicità della struttura di gioco venga

preferita per facilitare la trasmissione di un messaggio e l’immersione del giocatore in

una struttura “a tesi” in cui il team di sviluppo vuole far vivere un’esperienza di gioco

che sensibilizzi, almeno in misura minima, oltre che a intrattenere, il giocatore su

tematiche di attualità e affrontate in modo più “neutrale”, magari, da diversi media,

presi più di petto (grazie anche alla cornice di finzione e Sci-Fi in cui sono inseriti) dal

videogioco.

165 Non è il “marchio” o la pubblicità che hanno fatto la fama di questi giochi, ma la sensibilità e lo sperimentalismo, sia narrativo sia

estetico, che li caratterizza.

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Culturalmente, i videogiochi che prenderemo in analisi sono stati concepiti e realizzati

per raggiungere il pubblico più vasto possibile: non sono, cioè, rivolti solo alla cultura

di appartenenza della squadra di realizzazione ma tendono ad avere un approccio

trans-culturale. Tuttavia, com’è ovvio, ognuno di questi videogiochi porta al suo

interno degli elementi fortemente legati alla cultura d’origine. Nonostante, cioè, i

tentativi di rendere queste opere “universali” o, quantomeno, fortemente

internazionali, è inevitabile che alcuni elementi di rottura emergano, comunque,

nell’opera stessa.

Partendo, ad esempio, dal caso di Bioshock possiamo constatare come il team di

sviluppo del titolo abbia cercato di creare un luogo distopico come Rapture in modo

che fosse universalmente percepita da tutti come la degenerazione di principi liberali e

progressisti universali. Se gli Stati Uniti hanno percepito, nella seconda metà del secolo

scorso, il regime e l’ideologia comunista come una delle minacce più manifeste e da

avversare con più energie possibili, visto che venivano interpretate dall’America come

l’esatto opposto della filosofia liberista fondata sul capitalismo su cui quei paesi si

basano, questo elemento emerge prepotentemente in Bioshock: le fondamenta su cui

si basa la filosofia che sta alle spalle di Rapture, infatti, è una nemmeno troppo velata

metafora del pensiero comunista. Partendo da questo presupposto, si giustifica la

natura distopica della città. Dal punto di vista tematico, quindi, l’invenzione di questo

mondo di oppressione non riesce a prescindere da quella che gli americani stessi

hanno considerato una duplice oppressione: da una parte, il fenomeno di avversione al

Comunismo e la demonizzazione di questa corrente politica; dall’altra, la cieca fede nel

Capitalismo e, tuttavia, le sue drammatiche conseguenze che nell’epoca

contemporanea hanno causato tutte quelle nevrosi, quei disagi e quelle forme di

disadattamento sociale che caratterizzano molti stati occidentali oggi. Quindi,

nonostante il tentativo di ricostruire un “archetipo” assoluto e legato a ogni potenziale

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forma di governo degenerato nella storia dell’uomo (dal Capitalismo al Comunismo,

passando per la religione), Rapture è comunque l’incubo dell’americano, e sicuramente

poco ha a che vedere, ad esempio, con una percezione più “europea” del problema. A

livello di gameplay*, ancora, noteremo come la pro-attività e il concetto di self-made

man siano fondamentali, in Bioshock: il protagonista è costretto a compiere una

parabola ascendente di potenziamento individuale e di crescita ipertrofica per

raggiungere il proprio scopo (la libertà, la salvezza, la felicità e il completamento di se

stesso, tutti temi, questi, molto cari all’America). Tuttavia, la strada che percorre è una

strada solitaria, individualista, in cui il sistema va contrastato e l’individuo va innalzato

a divinità onnipotente. L’utilizzo dei Plasmidi, l’accanimento a volte eccessivo contro i

nemici ma, soprattutto, la strutturazione del percorso del protagonista, Jack, come una

missione individualista per la salvezza del “bene” sono elementi fortemente mutuati

dalla cultura americana. Nell’avventura di Jack non c’è spazio per l’angoscia: i momenti

di “riflessioni”, l’intimismo e la non-azione sono ridotti al minimo. Avviene sempre

qualcosa, c’è sempre un “movimento”, e tutto questo è un retaggio evidente sia di una

forma mentis molto americana che di una volontà di potenza che prevede che l’attacco

sia la miglior difesa, ancora oggi.

Ancora più chiaro risultano queste osservazioni sull’unico videogioco americano dei tre

che andremo ad analizzare, se confrontato con gli altri due titoli sviluppati da squadre

giapponesi. La “fiaba” che andremo a scoprire con Shadow of the Colossus e l’avventura

tutta psicologica che attraverseremo con James in Silent Hill 2 sono, invece, esempi di

una sensibilità narrativa molto diversa. Shadow of the Colossus è, infatti, una fiaba.

Apparentemente, questa fiaba ricalca temi e topoi tipici della fiaba occidentale: un

giovane principe deve salvare una principessa da uno spirito malvagio. Come vedremo

in dettaglio nell’analisi, tuttavia, l’approccio narrativo di questa fiaba è molto più lento

e, soprattutto, non-verbale. Se la cultura occidentale della fiaba è storicamente basato

su un passaggio aurale dei contenuti da chi narra a chi ascolta e, ancora, da chi ascolta

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e diventa narratore a un nuovo ascoltatore, nel caso della cultura giapponese, e nel

caso specifico di Shadow of the Colossus, l’elemento che diventa centrale non è più la

verbalità ma è l’azione e il comportamento dei personaggi. Le gesta di Wander sono a-

verbali, la narrazione che riguarda questo piccolo principe in cerca della salvezza per la

sua principessa non sono arricchite di retrospezione psicologica, non sono appesantite,

anche, da un oralità incapace di sopravvivere ai secoli: l’approccio giapponese alla

fiaba, in questo caso, è quello di renderla il più archetipica possibile e di universalizzare

il suo contenuto attraverso l’universalizzazione della forma: tutti, orientali e occidentali,

possono comprendere e seguire le vicende di Wander, qualsiasi sia la lingua che le

descrive, perché proprio la lingua è diventato elemento accessorio e invisibile. Questo

può sicuramente accadere grazie alla struttura fortemente non-verbale del videogioco:

l’immagine parla da sola e, in questo senso, avvicina questa esperienza del giocatore

molto di più all’osservazione delle vicende bibliche narrate nelle vetrate delle cattedrali

o ai dipinti rupestri degli uomini primitivi. La fiaba di Shadow of the Colossus non è la

fiaba disneyana che affascina, insegna e comunica chiaramente solo con chi è in grado

di ascoltare (non a caso, nelle riadattamenti disneyani delle fiabe spesso ci troviamo di

fronte a canzoni, musiche, parole, filastrocche, formule magiche e così via), ma è rivolta

a tutti quelli che siano in grado di vedere. La decontestualizzazione politica fa risultare

realmente universali i motivi e il messaggio dell’opera. Inoltre, la struttura ambigua

della narrazione di questo gioco di Fumito Ueda, come approfondiremo in seguito,

annulla anche quel bisogno fortemente occidentale di identificazione del “Bene” e del

“Male”: le motivazioni, le ragioni e gli schieramenti si confondono e, in linea anche con

la concezione della natura del popolo giapponese, ci troviamo di fronte a forze

indescrivibili che non possono essere rinchiuse o caratterizzate con una sola parola.

Infine, anche con Silent Hill 2 ci troviamo di fronte a una forte innovazione narrativa che

deriva proprio dalla diversa sensibilità della squadra di sviluppo del gioco: anziché

percorrere, per l’ennesima volta, la strada dell’orrore “epifanico”, dello spavento

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all’improvviso, del terrore dettato solo dalla presenza inaspettata della mostruosità, i

designer di Silent Hill 2 hanno attinto a tutto il background della cultura giapponese

che prevede che la mostruosità non sia, necessariamente, il monstrum manifesto e

visibile a tutti che attraversa le vite dei personaggi “normali” come un fulmine a ciel

sereno: la mostruosità che tentano di ricostruire con Silent Hill è quella dell’abisso della

coscienza umana. Niente più eroi d’azione, allora, come Jack di Bioshock: ci troviamo

piuttosto di fronte a eroi timidi, spaventati, deboli, anche colpevoli (riemerge la

tematica dell’insondabilità e dell’impossibilità di definire cosa è veramente buono e

cosa malvagio), uomini senza qualità che devono affrontare nemici più grandi di loro:

l’orrore non è l’orrore lovecraftiano e di alcuni filoni (sia letterari che filmici) occidentali

in cui il mostro spunta inaspettato e noi non possiamo far altro che fuggire o cercare di

salvarci: in questo caso, la narrazione dell’orrore è un processo di catarsi che prevede di

immergersi completamente nella città malata e di uscirne o vincitori, avendo espiato i

nostri peccati, o vinti, essendo i nostri peccati impossibili da espiare. I mostri di Silent

Hill, che descriveremo nei capitoli seguenti, non sono il vero ricettacolo dell’orrore:

quello che terrorizza, nella visione nipponica della storia dell’orrore, è la mancanza di

una certezza di salvezza, la possibilità di una redenzione mancata. Se, in Bioshock,

possiamo impegnarci, combattere, lottare e ogni nostro sforzo è teso a una liberazione

finale, nel caso di Silent Hill non abbiamo questa certezza e nemmeno questo scopo: il

gameplay* non è impostato in modo tale da “potenziare” il personaggio, ma da farlo

sentire sempre più inadeguato alla situazione che affronta. I nemici non sembrano

crudeli avversari da sgominare, ma mostri attirati dalla nostra stessa presenza, che ci

vogliono trascinare nel loro abisso.

Questa panoramica delle differenze tra un approccio orientale e uno occidentale nella

costituzione del gioco ci permette di cominciare a riflettere sulle macro-differenze tra i

vari videogame, non solo dal punto di vista contenutistico ma anche da quello

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strutturale. In seguito, vedremo più approfonditamente secondo quali modalità queste

opere videoludiche abbiano da una parte recuperato elementi della tradizione,

dall’altra scardinato o meglio ricontestualizzato le strategie narrative per raccontare le

loro storie.

Single e multi-player, on-line e off-line

Una delle evoluzioni che il videogioco ha avuto dalla sua nascita a oggi è stata quella

legata alla modalità di fruizione: uno o più giocatori? E ancora, off-line, e quindi senza

connessione alla rete globale, o on-line, e quindi con possibilità relazionali e di

interazione tra individui molto più ampie?

I tre videogiochi selezionati per l’analisi propongono modalità single-player e off-line:

sono, per così dire, molto “tradizionali” e propongono delle strutture narrative che

riescono a sovrapporsi agilmente con quelle letterarie pre-esistenti con cui

effettueremo il confronto. In realtà, alcuni dei criteri applicabili ai giochi single-player e

off-line vengono, oggi, pedissequamente ripresi dai videogiochi multi-player e on-line,

perché questi ultimi sono composti, nella maggioranza dei casi, sia da elementi

derivanti dalle prime due tipologie che da “integrazioni”, espansioni e punti di forza

che invece dipendono dalle maggiori potenzialità messe a disposizione dall’elemento

relazionale.

Le caratteristiche generali di seguito elencate servono per contestualizzare le opere che

poi andremo ad affrontare, perché è necessario capire, a livello puramente “di

contesto”, quali sono le direzioni prese dai vari videogiochi e come queste direzioni

influenzino sia il contesto narrativo che quello interattivo.

Quando parliamo di gioco sinlge player ci riferiamo a un prodotto di cui è previsto

l’utilizzo da parte di un unico fruitore per sessione di gioco: un giocatore (o una

giocatrice) si interfaccerà con il gioco, agirà, si emozionerà, il tutto in una dimensione

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molto privata. Che siano in gioco l’abilità, l’emotività, l’approfondimento, la scoperta,

l’impostazione di un gioco single player* è quella di mettere l’esperienza del giocatore

singolo al centro di tutto. Quello che importa è che la comunicazione gioco-giocatore

sia efficace e che il fruitore sia messo nella condizione di vivere l’esperienza più

immersiva e “appagante” possibile. Tutto quello che avviene, in un gioco in single

player* passa unicamente dal gioco al giocatore (o almeno questo è il processo ideale).

Il single player* è anche la modalità più “antica” di gioco e la prima vera impostazione

dei giochi “narrativi” (quelli con una trama) che, diversamente dai giochi performativi

(di competizione, di abilità e così via) ricalcavano e ricalcano tuttora maggiormente

schemi e strategie narrative mutuati da altri media166. Si tratta di un primo passo, di un

adattamento funzionale e tranquillo di modalità di gioco “analogico” e di modalità

narrative, interattive e mediali classiche per renderle accattivanti per un pubblico che

comunica in un modo nuovo.

La modalità multiplayer*, che è da considerarsi, in parte, una pietra miliare

nell’evoluzione dei videogiochi, è invece una modalità orientata al gioco “collettivo”,

che sia competitivo o collaborativo. Considerato che il gioco è un’attività fortemente

sociale, l’inserimento di questa possibilità di interazione nei vari titoli è stata una sorta

di svolta: a livello di gameplay*, ovviamente, la modalità multipla offre tante dinamiche

diverse (non necessariamente migliori o peggiori, quanto veramente più variegate e

differenti) e può, soprattutto, contare sull’elemento emergente* che deriva dalle

relazioni tra i giocatori. Non sono più solo la struttura, la trama e, più in generale,

quello che accade all’interno del gioco ad avere un impatto sull’esperienza ludica ma

sono anche, ovviamente, la relazione e le interazioni tra i giocatori nella vita reale

(completamente fuori dalla portata effettiva del gioco) che concorrono a creare una

percezione, un’emotività e una fruizione particolare. L’esperienza di gioco quindi varia

non solo perché noi stessi variamo, nel corso delle varie partite, ma anche il gruppo di 166 Diciamo che questa tipologia di gioco è quella che incarna in modo più “pacato” la teoria dello specchietto retrovisore di McLuhan:

un videogioco single player recupera vari elementi di interattività e multimedialità, nonché strutture comunicative già di altri media, e li ripropone in una cornice unica, amalgamati e resi accattivanti (e anche più comprensibili) per il pubblico contemporaneo.

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gioco varia e, di conseguenza (proprio come nei giochi reali) le singole individualità

apportano modifiche sostanziali a quello che, altrimenti, sarebbe una struttura più

banale o, quantomeno, prevedibile.

A queste due modalità si vanno ad aggiungere e integrare quella on-line e quella off-

line. La prima prevede la fruizione del gioco solo e unicamente in locale, ossia sulla

piattaforma di riferimento, e senza possibilità di interazioni con l’esterno. Un gioco off-

line è un gioco auto-sufficiente, che non concede al giocatore (o ai giocatori) di

affrontare partite “distribuite” (ossia tramite la rete di Internet). Se in passato, e per

l’esattezza prima della diffusione capillare della Rete, la modalità off-line era l’unica

contemplata dai giochi (sia per console* che per PC), oggi viene fortemente affiancata

(e, nel futuro prossimo, probabilmente, superata) dalla modalità on-line, che prevede

un contatto “esterno” da parte del giocatore, sia questo contatto con altre persone, sia

questo contatto volto unicamente a aggiornamenti di sistema o a invio e ricezione di

dati da server che hanno la funzione di far proseguire il fruitore nell’esperienza di

gioco.

Queste quattro modalità possono essere tutte combinate tra loro: in una scala di

“frequenza”, direi che è molto probabile avere giochi single player* e off-line, giochi

multiplayer* on-line, ma anche single player* on-line e multiplayer* off-line. In

particolare, tutti i tre titoli che andremo ad analizzare sono videogame single player* e

off-line167. La forza di questi tre videogiochi è sicuramente legata al loro impatto

comunicativo, estetico ed emotivo: attraverso il recupero di stilemi classici appartenenti

alla fiaba, all’horror, alla fantascienza, essi ricreano mondi e contesti che permettono al

giocatore di muoversi più o meno liberamente e di sperimentare la storia in modo attivo

e di determinarne il corso attraverso un’azione esplicita. In generale, i titoli multiplayer*

on-line invece sono di solito costruiti in modo tale da creare un contesto all’interno del

167 In realtà, questi tre giochi off-line hanno una parte on-line in back-end, che serve per eventuali aggiornamenti e modifiche o

integrazioni per rendere il gioco maggiormente stabile. Considerato, tuttavia, che questa parte on-line non è mai visibile dall’utente e che le modifiche apportate non sono percepibili a livello di gioco o di esperienza ludica in generale, inscriviamo questa tipologia di gioco nel settore del’off-line.

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quale i giocatori possono agire liberamente. Recuperano, a loro volta, gli stilemi e i

dettami di un genere (dal fantasy alla fantascienza, dalla detective story allo sport), ma

li sfruttano non per “narrare” direttamente, come avviene invece negli altri giochi, bensì

per costruire la cornice che permetterà ai giocatori di interagire e di far emergere le loro

personalissime narrazioni nel corso delle sessioni ludiche. Questa seconda tendenza, è

sicuramente nuova e non può essere affrontata, in modo efficace, in questa sede, in

quanto richiederebbe un lavoro di analisi ad hoc e sicuramente rivolto unicamente alla

narrazioni che scaturiscono da videogiochi come World of Warcraft, Ultima On-line,

Warhammer e perché no anche Second Life. Tuttavia sarebbe errato attribuire un giudizio

quantitativo di valore all’approccio interattivo e all’innovazione narrativa apportata:

sebbene la narrazione emergente* sia una sfaccettatura contemporanea e più “evoluta”

della narrazione interattiva pura e semplice, non dobbiamo dimenticare che proprio

alla base di questa nuova narrazione emergente* stanno i principi di interattività,

esplorazione degli ambienti, multimedialità derivanti dalla narrazione interattiva più

“semplice” che, con questo lavoro, intendiamo analizzare. In parole povere, senza la

trasposizione in digitale di alcuni principi narrativi assoluti (che è quello che fanno i

giochi in single player*), non saremmo giunti a un’articolazione così complessa delle

narrazioni relazionali che emergono dai rapporti e dalle “avventure” condivise dai

giocatori. Al di là dell’analisi del trend del momento (non è questo né deve essere

l’obiettivo di questo lavoro), è importante differenziare le tipologie di interazione

previste da un gioco per andare a esaminare gli elementi salienti e non elementi

marginali o trascurabili, e centrare il “nocciolo della questione” ma bisogna sempre

evitare di quantificare questi elementi. Piuttosto, è meglio sottolineare le differenze

nella qualità dei testi videoludici e, in particolare, attraverso i tre selezionati, mostrare

come diversi aspetti del racconto vengano, di volta in volta, resi centrali e

indispensabili: la natura prettamente non verbale della narrazione di Shadow of the

Colossus è abbinata a una modalità di gioco singola proprio per accrescere, in questo

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modo, le sensazioni che il gameplay* vuole trasmettere al giocatore. Il riproporre

situazioni classiche (come quella dell’orrore di Silent Hill 2 o quella fantascientifico-

distopica di Bioshock) ha bisogno, ancora una volta, di una dimensione solitaria, che

solo in apparenza è verticale e lineare ma che comunque, per convogliare il messaggio

nel modo più efficace, racconta al giocatore una storia che ha sì un inizio e una fine, ma

che si costruisce in base alle azioni, alle decisioni e anche all’abilità di chi gioca. Ognuna

di queste differenze, che andremo ad approfondire in sede di analisi, unisce diversi

aspetti: come abbiamo già detto, la nazione di sviluppo del gioco ha una certa

importanza (anche se ci troviamo di fronte a prodotti realizzati per un target variegato

e sicuramente internazionale), ma altrettanto fondamentali sono le strutture

“primordiali” che vengono applicate al gioco. Infatti, solo in seguito alla scelta della

tipologia di interazione si potrà costruire nel modo più corretto e funzionale possibile

la narrazione di cui rivestire il gioco. Non solo: la modalità di interazione dovrà anche

ben sposarsi con le tematiche affrontate e queste ultime si dovranno “declinare” in

modo diverso a seconda che ci si trovi davanti a un’interazione più esplicita o più

sperimentale.

Il fil rouge del fantastico

Uno dei criteri di selezione delle opere è stata la loro appartenenza al filone del

fantastico.

Quando ci si interfaccia con un’opera di finzione, che sia un romanzo, un racconto, un

film o uno spettacolo teatrale, si decide consapevolmente di aderire all’insieme di

norme che regolano quell’universo e di credere a quello che vi accade, insomma, ci si

immerge totalmente, mantenendo tuttavia in parte la consapevolezza che quanto

stiamo vedendo non sta accadendo realmente e che è tutto una finzione. Ovviamente,

anche il videogioco è finzione: è la natura stessa del gioco che lo caratterizza, ossia

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essere un insieme di regole che vanno rispettate, sfruttate o infrante per godere al

massimo della performance ludica che da esse deriva. Tuttavia, la consapevolezza di

finzione che ha un lettore o lo spettatore di un film è ancora superiore a quella di un

fruitore di videogiochi: il “problema” con i videogame è proprio che si diventa parte

attiva dell’azione, che non ci si limita a guardare e a interagire con l’opera a livello

cerebrale e cognitivo, ma che si deve letteralmente agire all’interno del mondo di

simulazione proposto dal videogioco. Cosa implica, questo? Che, come abbiamo già

detto parlando di autorialità distribuita in precedenza, il “lettore” diventa “autore” e

diventa, in fondo, anche attore, ossia elemento attivo all’interno della performance

videoludica. Questa attività o agenza creano un disorientamento maggiore di quanto

non avvenga attraverso la semplice lettura o visione: il giocatore non solo deve credere

a quello a cui assiste, ma deve anche credere che le sue azioni possano in qualche

modo influenzare il mondo di gioco e deve, man mano, trovare le strategie più efficaci

per raggiungere il proprio obiettivo. Accade, quindi, come emergerà più chiaramente

attraverso l’analisi di Silent Hill, che il giocatore si trovi a dover vivere un’incertezza,

un’indeterminatezza, e che debba decidere di aderire completamente o meno al

sistema di regole, talvolta analoghe a quelle reali, talvolta completamente stravolte,

talvolta, ancora, semplicemente “incompatibili” con quelle del mondo cosiddetto reale.

Questo processo, che è sia cognitivo che emotivo, può essere visto in parallelo con

quello che è il fantastico: la difficoltà di definizione di questo modo narrativo e la

quantità di generi e testi che sconfinano al suo interno sono notevoli. Tuttavia, dopo i

vari tentativi di definizione168 e di schematizzazione nel corso della storia moderna della

critica letteraria, in cui permane la struttura di Todorov, che affianca al fantastico anche

lo strano e il meraviglioso, con le rispettive gradazioni, vogliamo aderire a quanto

suggerisce Remo Ceserani nel suo testo del 1996, ossia credere che sia necessario, per

168 Un breve excursus sulla critica sul fantastico è presente nel paragrafo riguardante Silent Hill.

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chiunque affronti l’argomento, dichiarare ogni volta le proprie intenzioni e i propri

ambiti di discorso.”169

In particolare, Ceserani, che non ritiene di dover trovare un chiave di lettura risolutiva

per il fantastico, cita come fondante l’opinione critica di Irene Bessière, la quale applica

il concetto di “controforma” al modo fantastico:

“Non esiste un linguaggio fantastico in se stesso. A seconda del periodo storico, la narrazione fantastica può essere letta come rovescio del discorso teologico, illuminista, spiritualista o psico-patologico ed esistere solo grazie a quei discorsi che esso decostruisce dall’interno. (…) La narrazione fantastica si presenta come il simmetrico negativo del racconto di miracoli e di iniziazione, del racconto di desiderio e della follia.”170

Dobbiamo, quindi, individuare la forma del “linguaggio” contemporaneo del fantastico

e cercare di interpretare il significato di questa forma.

L’approccio al fantastico a cui è sensato aderire, allora, nell’ottica di una comparazione

tra opere videoludiche e opere letterarie è, a mio parere, quella di considerare il

fantastico come un genere che ha una funzione duplice: da una parte porta con sé una

struttura (apparentemente) eversiva, dall’altra continua ad essere un veicolo di

divulgazione/trasmissione di miti, archetipi e narrazioni classiche rivisitati, riformulati e

riproposti secondo un linguaggio più accessibile e più comprensibile ai lettori-

giocatori contemporanei.

Per capire in che modo la struttura del fantastico applicata al contesto videoludico

assuma una valenza di originalità, dobbiamo comunque partire considerando la

definizione generica del modo fantastico in letteratura.

“As a critical term, ‘fantasy’ has been applied rather indiscriminately to any literature which does not give priority to realistic representation: myths, legends, folk and fairy tales, utopian allegories, dream visions, surrealist texts, science fiction, horror stories, all presenting realms ‘other than the human. (…)”171

169 Ceserani, Remo (1996) Il fantastico, Società editrice Il Mulino, Bologna, p. 11 170 Bessière, Irene (1974) Le Recit fantastique. La poetique de l’incertain, Larousse, Paris, pp. 10-12, cit in Ceserani, op. cit. 171 Jackson, Rosemary (1986) Fantasy. The Literature of Subversion, Routledge, London, New York, p. 14

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La definizione di Rosemary Jackson include nei sotto-generi del fantastico tutti i generi

a cui appartengono le tre opere su cui concentrerò la mia analisi: Shadow of the Colossus

rientra nel genere della leggenda e della fiaba, Silent Hill 2 è chiaramente una horror

story mentre Bioshock può essere annoverato nel genere della fantascienza. La

creazione, in generale nel fantastico ma, a livello più specifico nei videogiochi presi in

esame, di uno spazio fortemente caratterizzato da elementi, da una fisica e da percorsi

che vanno al di là “del lecito”, ossia di quello che, normalmente, viene considerato

accessibile e possibile, è fondamentale per far indossare al giocatore l’abito cognitivo

della sperimentazione172.

“A fantasy is a story based on and controlled by an overt violation of what is generally accepted as possibility; it is the narrative result of transforming the condition contrary to fact into ‘fact’ itself”173

Come ogni sistema (sia letterario che reale che ludico), il fantastico ha bisogno di

norme da seguire: nel caso specifico, la norma della violazione, l’alternativa ai

comportamenti sia fisici che sociali, l’infrazione delle regole precostituite del mondo

costituiscono il sostrato su cui si costruisce tutta la filosofia di questo modo narrativo.

Non è lo scardinare sia le norme che regolano il mondo reale, sia quelle narrative su cui

la narrazione è costruita, in sé che fa del fantastico un modo eversivo: è la sua

refrattarietà alla riproposizione di regole e di modalità realistiche di rappresentazione.

L’eversività del fantastico si applica, infatti, alle regole della rappresentazione mimetica

e della riproduzione del reale tipicamente intese. Il fantastico smantella le regole e le

leggi della natura per sostituirle con altre che hanno una ragion d’essere solo nel

mondo specifico in cui sono inserite. Sovvertendo le nostre certezze, ci fa percepire di

essere catturati da sovrastrutture culturali o naturali. È eversivo nella misura in cui,

sconvolgendo le regole a cui siamo abituati, ci fa prendere coscienza dei nostri limiti, di

172 È molto importante non confondere il concetto di reale con quello di realismo: nel caso del fantastico, la contrapposizione è sempre

con l’idea di reale, perché è questa la cifra interpretativa forte che dobbiamo tenere presente. Il fantastico non si contrappone al realismo narrativo, bensì al reale e a tutte le norme restrittive o disorientanti che questo comporta. Più avanti parleremo infatti della relazione tra fantastico e reale.

173 Irwin, William R. (1976) The Game of the Impossible: A Rethoric of Fantasy, Illinois, p. 57

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cui probabilmente non riusciamo ad avere consapevolezza perché siamo abituati a

osservare, interpretare e agire sul mondo attraverso essi. Il punto di forza dell’unione

tra fantastico e videogioco sta nel fatto che il mondo videoludico riesce a creare

situazioni ben strutturate che il giocatore riconosce, all’interno delle quali riesce a

inserirsi, ma che, tuttavia, lo portano a confrontarsi con un diverso paradigma di realtà,

con diverse abilità, caratteristiche e potenzialità dei protagonisti. L’idea di “fuga” dal

mondo reale è un elemento chiave sia della letteratura fantastica che, in periodi più

recenti, dei cosiddetti “mondi virtuali*” (tra cui annoveriamo sicuramente i videogiochi

come maggiori esponenti di questa corrente): il lettore o il giocatore amano, hanno

letteralmente bisogno, di farsi coinvolgere e trasportare “altrove”, che sia un luogo

letterario o un luogo virtuale, inteso come spazio tridimensionale all’interno di un

supporto digitale, da esplorare, scoprire, con cui interagire. Infatti,

“The most common of the marks by which we recognize a work that has passed through the world of Fantasy is the vision of escape. As the fantastic involves a diametric reversal of the round rules within a narrative world, a narrative world itself may offer a diametric reversal of the round rules of the extra-textual world. If those external round rules are seen as a restraint on the human spirit – be they, for instance – the belief that there is no excitement in life, the belief in the decline of man, the belief in the lawlessness of the universe – then a fantastic reversal that offers a narrative world in which these round rules are diametrically reversed serves as a much needed psychological escape. By examining so-called ‘escape literature’ we can see what it reveals about man.”

Boredom is one of the prisons of the mind. The fantastic offers escape from this prison.”174

Questa riflessione di Rabkin sulla funzione, oltre che sulle modalità, del fantastico, è

fondamentale per capire perché analizzare proprio questa modalità narrativa all’interno

dei videogiochi. Innanzitutto, è vero che se la vita e le sue regole sembrano

eccessivamente vincolanti e limitanti, è quasi un fenomeno “naturale” tendere a

inventare spazi (narrativi o videoludici) in cui concedere al lettore e al giocatore tutta

quella libertà di cui, di solito, non gode. La possibilità di sperimentare situazioni al di là

della nostra portata, di calarci in contesti che non ci saranno mai, realmente, accessibili,

di vivere circostanze e di comportarci secondo modalità che non ci riguarderanno mai 174 Rabkin, Erik (1977) The Fantastic in Literature, Princeton University Press, Princeton

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veramente è un modo per “evadere”, per andare al di là, per “giocare” con qualcosa di

più grande di noi che altrimenti ci sarebbe precluso.

Il punto nodale della questione che lega a doppio filo il modo fantastico ai videogiochi

è, però, anche un altro, e riguarda i contenuti, ossia le storie raccontate, le tematiche

sviscerate e i miti di riferimento. L’elemento di reale innovazione dei videogiochi non è

quello di aver introdotto tematiche veramente nuove né, tantomeno, quello di aver

innovato generi che fino a vent’anni fa erano appannaggio esclusivo della letteratura

(e al limite, del teatro e del cinema): l’innovazione che i videogiochi ci hanno fatto

percepire, in modo più marcato di quanto era successo con l’avvento del cinema, ad

esempio, è stata quella di mostrarci con quanta facilità e versatilità i contenuti riescono

ad adattarsi e a migrare da un medium all’altro, mantenendo, pur attraverso modalità

diverse, la stessa efficacia comunicativa.

Le storie, i miti e gli archetipi cari all’uomo sono ancora gli stessi: uno dei grandi pregi

della letteratura è stato quello, tra gli altri, di preservare e tramandare proprio quelle

narrazioni significative per l’essere umano, quelle storie universali che vengono

recepite e interiorizzate, al di là del tempo e del contesto, e che propongono i limiti, le

paure, le aspirazioni, i desideri di ogni uomo. Calvino diceva che un “classico” è

un’opera che non ha mai finito di dire quello che vuole dire: questo ha fatto la

letteratura, ci ha aiutato a individuare e a conservare gelosamente quelli che sono i

“classici”, ossia quelle storie che continuano a parlare a tutti. Certo, c’è sempre bisogno

di un adattamento della narrazione al contesto di “arrivo”: la nascita del romanzo, ad

esempio, è emblematica del cambiamento di modalità. Da una narrazione più collettiva

si è passati a una dimensione più intimista e raccolta175. Allo stesso modo, l’esigenza di

fuga dalla realtà, di ricerca di dimensioni ulteriori, che sfuggano alle ferree leggi fisiche

e alle dinamiche di causa ed effetto, da una parte, o all’imponderabile casualità e

arbitrarietà della nostra realtà è rimasta e ha trovato uno sfogo perfetto nei videogiochi.

175 cfr. Loretelli, Rosamaria “Psicologia della lettura e nascita del romanzo moderno” in Le origini e le forme del romanzo inglese. Teorie a

confronto, a cura di D. de Filippis e C. M. Laudando (2005), Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’, Napoli

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“In attesa che gli intellettuali si decidessero ad uscire dalle tane di carta stampata, nell’ambito della cultura giovanile ed in quella parte della comunità scientifica collegata in rete si è assistito ad un proliferare di iniziative spontanee, maturate prevalentemente in ambiente elettronico, che hanno assunto una crescente importanza in virtù del numero di persone che ne condividono l’esperienza e della quantità di fenomeni originali che si registrano nella sfera dell’elaborazione culturale.”176

Quello che è importante è vedere come “il Fantastico, finora inteso come strategia

terapeutica della crisi sociale, possa assurgere a categoria interpretativa

dell’Umanesimo Tecnologico”177. È questo, infatti, quello che sta accadendo: grazie alla

sua strutturazione, alla sua componente fortemente eversiva rispetto ai canoni di

“normalità” e ai vincoli di rappresentazione imposti dalla realtà contingente, il

fantastico diventa la forma ideale per mostrare quale sia la reale motivazione e

percezione degli universi virtuali* all’interno dei quali, oggi, molti “nuovi lettori”

sempre più si rifugiano. Se i contenuti sanno adattarsi in modo più o meno efficace,

quello che interessa a noi è, allora, capire quali siano le modalità secondo cui questo

adattamento avviene, quali gli elementi più esplicitamente mutuati dalla letteratura e

quali invece quelli nuovi introdotti dal medium in questione. Quindi, quali retaggi

narrativi il fantastico porta con sé dalla narrazione letteraria? Quali innovazioni e

stratagemmi gli autori sono “costretti” a inventarsi o a quali strategie sono costretti ad

aderire con il passaggio a un mezzo diverso, che permette sempre la creazione di

“mondi”, ma che ha come caratteristica fondante non più la verbalità, bensì

l’interattività?

“Giustamente, il consenso ottenuto da queste esperienze fortemente interattive è stato interpretato come una reazione all’impotente passività della visione televisiva. Ma c’è una motivazione più profonda, sfuggente e sostanziale che giustifica il successo di tali creature virtuali e che mostra evidenti analogie con le dinamiche di elaborazione del genere fantastico nell’immaginario collettivo. Come attraverso la narrativa fantastica si scongiura la paura ancestrale dell’unheimliche (sia l’interdetto lo scatenarsi di forze ctonie, la perdita di identità culturale, il diverso, la malattia, la morte) così nell’esistenza elettronica si trovano le risposte all’inquietudine ed all’incertezza post-moderne, poiché proprio il carattere

176 Somma, Lisa, “ Cronache dall’ultramondo: comunità virtuali, identità mutanti, corpi cibernetici” in Runcini, Romolo (a cura di) (1999)

Metamorfosi del fantastico. Luoghi e figure nella letteratura nel cinema nei massmedia, Lithos Editrice, Roma, p. 225 177 Ibid. p. 226

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immateriale ed indifferenziato dell’esperienza virtuale costituisce la componente terapeutica di rassicurazione.”178

In questo senso, il fantastico rafforza la sua funzione “terapeutica” di fuga dalla realtà,

sia perché fornisce un’alternativa “virtualmente concreta” alla passività di altri media in

auge oggi ma che non sopperiscono più alle esigenze dei fruitori179, sia perché

ripresenta, in chiave nuova, quei miti e quelle storie che i “lettori” contemporanei si

aspettano: se, a livello contenutistico, le esigenze dei lettori non sono cambiate, e

quindi l’interesse per miti ancestrali e storie consolidate è ancora fortemente vivo

perché questi miti e queste storie sono ancora i più adatti al nostro immaginario, anche

l’esigenza di continuare a immaginare, sperimentare, sognare forse è radicata ma,

sicuramente, risulta frustrata da mezzi eccessivamente verticali e “pornografici”180 come

la televisione, nel senso che non c’è più spazio per l’immaginazione, che il racconto

diventa oggettivo, inoppugnabile e immodificabile. Con i videogiochi e con i mondi

virtuali* riusciamo a recuperare sia i contenuti (quei miti che non possono andare

perduti) sia le meccaniche, per cui la dimensione sociale e individuale del “sogno” e

della fantasia viene fortemente riproposta e incoraggiata. Il videogioco, in un certo

senso, pur essendo fortemente basato sulla grafica e sulla componente visiva,

piuttosto che sulla verbalità, riesce in ogni caso più del cinema o della televisione a

coinvolgere e a stimolare in modo attivo l’immaginario dei giocatori, perché nonostante

proponga un contesto chiaro e ben definito, lascia poi la libertà di esplorazione, di

scoperta e di approfondimento degli elementi al giocatore. Ogni indizio, ogni

elemento, in un videogioco, può potenzialmente assumere molteplici significati, in

base al percorso pregresso del giocatore, e non ha necessariamente un significato

univoco. Certo, anche all’interno di un film la simbologia e i significati possono avere

una profonda ambivalenza, tuttavia la struttura di un’opera cinematografica resta

178 Ibid. p. 226 179 Mi riferisco, in questo caso, alla televisione e non certo alla letteratura. 180 Nel senso di troppo esplicito e che non lascia spazio all’immaginazione.

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lineare e “a tesi”, ossia costruita in modo tale che lo spettatore abbia, in sequena, tutti

gli elementi necessari per compiere l’interpretazione. Questo non avviene nei

videogame, in cui la struttura narrativa e interattiva non può prevedere una linearità

confortante e, in molti casi, spinge letteralmente il giocatore a costruire una propria

versione del percorso e dell’avventura, un po’ come accade quando, leggendo un libro,

si immaginano i volti dei personaggi, i luoghi e così via.

La funzione catartica, inoltre, tipica della tragedia greca è riproposta ai videogiocatori

in modo molto diretto e in modo tale da contribuire alla costituzione di quella

“componente terapeutica” che ci fa affrontare esperienze traumatiche e dolorose senza

però pagarne le conseguenze.

“La narrazione fantastica utilizza dei quadri socioculturali e delle forme dell’intelligenza che definiscono i domini del naturale e del sovrannaturale, del banale e dello strano, non per pervenire a una qualche certezza metafisica ma per organizzare il confronto degli elementi di una civiltà relativi ai fenomeni che sfuggono all’economia del reale e del surreale, la cui concezione varia a seconda delle varie epoche. Corrisponde alla messa in forma estetica dei dibattiti intellettuali di un particolare momento, relativi al rapporto del soggetto con il sovrasensibile o del sensibile; presuppone una percezione essenzialmente relativa delle convinzioni e delle ideologie del momento, messe in opera dall’autore.”181

Come afferma anche Sherry Turkle182, quello che il videogiocatore trova “accogliente”

nel mondo virtuale* è la presenza di regole ben definite che fanno ben comprendere a

chi gioca il meccanismo di causa-effetto: pur trascinando il giocatore in un universo

dove non vigono le leggi fisiche, etiche e relazionali tipiche della realtà tangibile, il

videogioco presenta al fruitore un sistema logico, in cui una volta apprese e

interiorizzate le regole le azioni e le reazioni sono prevedibili e “oneste”, non confuse e

randomiche come gli eventi della vita reale, che non possono essere veramente

controllati o manipolati. Il giocatore sa che sullo schermo esistono delle regole e sa che

il risultato finale della sua esperienza sarà dettato unicamente dalla sua ricezione e

applicazione di quelle regole. Il fantastico non è una valvola di sfogo, il fantastico

181 Ceserani, op. cit. p. 14 182 Cfr. Turkle, Sherry (1984) The Second Self: Computers and the Human Spirit, Simon & Schuster, New York

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diventa nel contesto videoludico una modalità di strutturazione dei contenuti e di

comunicazione con l’utente che permette di mantenere un’oggettività del mondo

(comunque, i mondi videoludici fantastici sono strutturati in modo univoco e chiaro)

pur consentendo al giocatore di interpretare, nei limiti del possibile, un ruolo e di

gestire le azioni e le situazioni in modo da arrivare a una conclusione (narrativa) che sia

personale e fortemente individuale, comprendendo una buona dose di creatività.

“Tornando alle analogie tra esperienza del Fantastico e vissuto elettronico, sappiamo che dal Gothic Romance alla Fantascienza, il Fantastico materializza paure e fobie epocali in incarnazioni ai limiti dell’incubo, interpretabili come proiezioni simboliche delle ansie dell’esserci storicamente. Parallelamente, nelle rappresentazioni elettroniche l’immaginario sociale influenza le tendenze, i percorsi e le aspettative, adombrando, dietro le richieste di approccio al virtuale, il desiderio di superare l’esperienza della morte.

In entrambe le situazioni attraverso un rituale di passaggio fra reale ed irreale si tenta un esorcismo, ma la differenza fondamentale è riscontrabile nella forma di partecipazione del lettore/utente, in senso extra-diegetico.

Nel fantastico letterario irrompe il mistero, si incontrano creature soprannaturali e si affrontano situazioni estreme secondo uno stereotipo strutturale che confluendo in un finale riparatorio disinnesca il carattere minaccioso dell’evento terrificante. Dal punto di vista delle fruizione, la minaccia ‘deve coinvolgere non solo il personaggio della storia ma il suo stesso lettore, il quale non può identificarsi nell’atto decisivo di una prova da superare ma resta inchiodato nell’attesa. Il fantastico è soprattutto negazione di esperienza’. Nell’esperienza virtuale, al contrario, il meccanismo di identificazione è parte integrante del rapporto utente/ipertesto, fino a costituire una modalità preliminare alla partecipazione. “183

Il coinvolgimento presupposto da parte del lettore dall’interattività del mezzo (il

videogioco) non è solo un espediente per rendere la comunicazione più efficace, è

anche un requisito fondamentale affinché la narrazione fantastica sia veramente

efficace. Il soggetto, che è insieme utente e autore dell’opera, si ritrova ad avere una

funzione attiva nella costruzione narrativa dell’opera che sta fruendo ed è quindi

coinvolto a un livello più profondo: quello che voglio mostrare, attraverso l’analisi, è

che questo coinvolgimento determinato, in prima istanza, dalla natura interattiva degli

ipertesti, dei videogiochi e di tutti i prodotti multi-modali, viene accentuato e acuito

proprio dalla modalità narrativa del fantastico. La proiezione del nostro avatar* nel

183 Somma, Lisa, op. cit. p. 229

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mondo di gioco prevede che la realtà narrativa che stiamo sperimentando non sia

un’alternativa alla realtà, ma sia una parte della nostra realtà, parallela e contemporanea

a quello che definiamo reale e, di conseguenza, ha degli effetti diretti non solo sul

mondo di gioco, ma anche su di noi.

Non dobbiamo infatti dimenticare una delle proprietà delle narrazioni fantastiche:

“La narrazione fantastica non definisce una qualità effettiva degli oggetti o degli esseri esistenti, e tanto meno costituisce una categoria o un genere letterario; essa piuttosto presuppone una logica narrativa al tempo stesso formale e tematica che, sorprendente o arbitraria per il lettore, riflette, sotto il gioco apparente dell’invenzione pura, le metamorfosi culturali della ragione e dell’immaginario sociale.”184

È il concetto di “logica narrativa” che è fondamentale, quando si parla di fantastico, ed

è questo concetto su cui intendo basare l’analisi delle opere e il raffronto tra la

narrazione tradizionale e quella interattiva: è importante osservare le diverse modalità

secondo cui viene riprodotto e riproposta la stessa logica narrativa, nel nostro caso

quella della narrazione fantastica.

Il già citato Eric Rabkin, che nella sua carriera e attraverso le sue pubblicazioni è stato in

grado, se non di risolvere la questione della definizione di questo modo narrativo,

quantomeno di collegare tra di loro opere letterarie che possono ben definirsi

fantastiche sebbene provenienti da tempi, generi e culture diverse, afferma,

introducendo l’argomento:

“The real world is a messy place where dust accumulates and people die for no good reason and crime often pays and true love doesn’t conquer much. In one sense all art is fantastic simply because it offers us worlds in which some order, whatever that may be, prevails. In our real lives street noises occur randomly; they are indifferent to the shape we try to sense in our lives. But in a novel, street noises may keep the hero awake just before some crucial task in order to heighten the fear in the reader that the hero may be unready to meet his test or in order to justify his failure at the crucial task. (…) The fact that traffic and crying neighbor babies and bowling sirens should coordinate themselves in order to add shape to the life of our hero is fantastic, a true alternative to the real world.”185

184 Ceserani, Remo, op. cit. p. 12 185 Rabkin, Eric (ed.) (1979) Fantastic Worlds. Myth, Tales and Stories, Oxford University Press, Oxford, p. 4

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È esattamente questo che accade nelle narrazioni fantastiche tradizionali di cui parla

Rabkin e nelle narrazioni fantastiche video ludiche che ci apprestiamo ad analizzare: il

concetto di videogioco coincide perfettamente con quello di creazione di un mondo

all’interno del quale vigono determinate regole e dove per lo più nulla accade per caso.

“Such worlds are not merely different from our own, but alternative to our own. Fantastic worlds – perhaps paradoxically – are defined for us and are of interest to us by virtue of their relationship to the real world we imagine to have been thought normal when the story was composed.”186

Il concetto di narrazione, e nello specifico, di narrazione fantastica, si sovrappone al

concetto di videogioco, in cui nulla accade per caso, in cui ogni elemento che nella

realtà potrebbe essere accessorio, superfluo, insignificante, assume un significato, che

sia esso implicito o esplicito. La visione del fantastico secondo Rabkin, e questa pare

essere una prospettiva decisamente affascinante, prevede che la ricezione da parte dei

lettori di questi mondi fantastici sia varia e mutevole proprio in base alla loro

esperienza reale del mondo reale: per questo, nella sua antologia Fantastic Worlds e, in

generale, nel suo lavoro di ricerca, Rabkin tende a cercare di contestualizzare la genesi

di diversi aspetti del fantastico, ritrovando elementi comuni a diversi sotto-generi di

questo modo narrativo e confrontandoli tra loro.

Decidere di includere, in questo percorso di adattamento e migrazione del fantastico,

anche i videogiochi è, a mio parere, una scelta coerente con la progressione e con la

migrazione della letteratura che nell’epoca digitale sta trovando sbocchi ulteriori ai

canali che sempre l’avevano privilegiata. I testi scelti per l’analisi si inscrivono,

idealmente, nel percorso individuato dallo studioso americano, e che prevede una

suddivisione del fantastico in macro-aree: Rabkin individua, infatti, diverse macro-

famiglie di narrazioni fantastiche, ordinate sia in modo diacronico che tematico. Lo

studioso parte parlando in modo diacronico del fantastico delle origini, soffermandosi

sui miti, sulle leggende e sulle fiabe, sulla loro evoluzione e sulla loro trasmissione

186 Ibid. p. 4

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attraverso i secoli, per passare poi a parlare, di diversi modi (o generi formulaici) del

fantastico come il fantastico puro, storie dell’orrore e di fantasmi, fantascienza, e, infine,

fantasy moderno. Abbiamo seguito questa traccia ideale per selezionare e analizzare le

opere videoludiche in questo contesto. Partendo dall’idea di mito, di leggenda e di

fiaba abbiamo Shadow of the Colossus: una tipologia di narrazione molto vicina agli

stilemi della narrazione fiabesca e che ne recupera ambientazioni, personaggi, finalità e,

in parte, insegnamenti. Un bambino (un principe, forse, non lo sappiamo) deve

combattere contro immensi colossi per salvare una principessa. Fonti di ispirazione per

questa vicenda sono state sicuramente le fiabe come La Bella Addormentata nella

versione di Charles Perrault, o il racconto biblico di Davide contro Golia. Elementi della

tragedia greca, e in particolare dell’Antigone si possono ritrovare nella caratterizzazione

del personaggio protagonista. Il concetto del sublime e della natura madre e matrigna,

intese come forze affascinanti e irresistibili, eppure orrende e mostruose, permea tutta

l’estetica del gioco. Miti forti come quelli del Minotauro, ripresi anche da Borges, sono

raccontati in modo nuovo, più metaforico e allusivo che diretto e recuperano tutto il

loro fascino di miti ancestrali: i livelli di lettura sono stratificati, come in alcune opere

letterarie di rilievo, e ogni giocatore può, a seconda della propria formazione,

individuare le diverse emergenze presenti nel testo e interpretarle a seconda dei propri

strumenti culturali. In generale, Shadow of the Colossus si pone a cavallo tra un mito e

una fiaba, in quanto parte degli elementi sono archetipi, dogmi inattaccabili che

costituiscono il fondamento della civiltà di cui il protagonista fa parte; in parte è una

fiaba, perché racconta gli eventi e le avventure di un eroe che deve salvare una

fanciulla. Oltre ai riferimenti letterari più diretti, sarà utile un confronto della struttura

narrativa con la Morfologia della fiaba di Propp e un raffronto tematico riguardante la

simbologia che ognuno dei colossi affrontati dal protagonista porta con sé.

Con la saga di Silent Hill e, in particolare, con Silent Hill 2, si passa invece a un altro

genere di fantastico, quello delle storie di orrore e di fantasmi, che anziché abbracciare

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la scuola di Hoffman o Le Fanu, si spingono più verso il padre dell’orrore moderno,

ossia Poe, e del suo emulo, Lovecraft. Silent Hill 2 è un gioco dall’insolita profondità

narrativa, in cui tutti gli elementi interattivi sono volti e ideati in modo tale da essere

un complemento alla caratterizzazione dei personaggi, alla costruzione coerente della

trama, alla modellazione dell’ambiente e delle circostanze all’interno delle quali il

giocatore (che veste i panni del protagonista della vicenda) si muove. Più che un

confronto diretto con opere letterarie, anche in questo caso, sarà interessante osservare

come un certo tipo di sensibilità e di ritmica, di caratterizzazione e di struttura narrativa,

che in letteratura sono consolidate da più di un secolo, siano state importate, e con

successo, in un nuovo medium, per raccontare una storia “vecchia” ma con un

linguaggio nuovo. Linguaggio che, tuttavia, non può evitare di imparare da quello che

c’è stato in precedenza. Come iniziatore di diversi generi, Poe ha gettato basi

impossibili da ignorare, soprattutto quando, come nel caso di Silent Hill, si cerca di

ricostruire con un linguaggio nuovo atmosfere, suggestioni, inquietudini e si cerca di

scandagliare l’orrore presente nell’animo umano come ha fatto il grande autore

statunitense. Comparare quindi la tecnica narrativa utilizzata in Silent Hill 2 con alcuni

racconti di Poe come Berenice, The Fall of the House of Usher, King Pest, e irrobustire questo

confronto con elementi contrastanti e talvolta opposti, presi da scritti di Lovecraft

come The Shunned House e At the Mountains of Madness ci aiuterà a capire in che direzione

è andato il team di sviluppo di Silent Hill e in che direzione sarà possibile o opportuno

andare in futuro per creare opere interattive di pari suggestione e fortuna.

La fantascienza, infine, con la particolare declinazione della distopia e della bio-etica

sperimentale sono il cuore di Bioshock, videogioco che unisce un’estetica e un’etica

appartenenti all’America anni ’50-’60 e che mostra, recuperando l’idea del monstrum e

del super-uomo, un ipotetico percorso dell’essere umano che decide di andare contro

la natura e di potenziare a dismisura l’uomo. Frankenstein della Shelley è il progenitore

più ovvio. Non potranno mancare però alcune riflessioni sulla società “ideale”, come

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Utopia di Thomas Moore, ma anche 1984 di George Orwell: sebbene, come

probabilmente avviene in tutti gli altri casi citati, il livello di complessità e di profondità

toccato da questi videogiochi, non ultimo Bioshock, può apparire superficiale rispetto

agli ipertesti187 con cui vengono confrontati, l’idea fondamentale che ci interessa

esaminare è come, nonostante la novità del linguaggio mediatico utilizzato, le

meccaniche di base utilizzate per costruire la storia prima e la narrazione vera e propria

poi rimandino sempre a riferimenti classici. Trasformare quello che una volta era un

uomo in un individuo mostruoso, deturparlo e dissacrarlo in nome della scienza e,

ancora più in profondità, la volontà dell’uomo di giocare a fare Dio è un sentimento e

una problematica oltre la quale non riusciamo ancora ad andare: così, Frankenstein,

seppur scritto nel 1818 è ancora attuale, ha solo bisogno di un'altra “veste” per essere

presentato al pubblico. Lungi dall’affermare che Bioshock sia il moderno equivalente del

romanzo della Shelley, quello che voglio sottolineare è come alcuni memi che

riguardano l’essere umano non muoiano mai e vengano solamente rivestiti di abiti

nuovi per essere presentati, accettati e compresi dal pubblico a cui sono rivolti.

Oltre a questa panoramica sulle caratteristiche specifiche dei videogiochi (che verrà

approfondita, per ciascun titolo, nella parte a esso dedicata), è importante sottolineare

quali siano gli elementi cardine che vengono recuperati, in generale, dal modo

narrativo fantastico. Innanzitutto, i personaggi sono costruiti per essere compresi e

“interiorizzati” dal giocatore: sono uomini in difficoltà, personaggi basso-mimetici che

vivono e attraversano condizioni particolari, che si trovano davanti ad aut aut tragici,

che hanno trascorsi difficili oppure, più in generale, un passato misterioso e oscuro che

permette al giocatore di identificarsi più facilmente con il personaggio con cui si ritrova

a condividere emozioni e dilemmi. Lo spazio non è un semplice sfondo, anzi in tutti e

tre i casi presi in esame, come più in generale nello storico dei videogiochi fantastici,

ricopre un ruolo fondamentale, ossia quello di una sovra-struttura che contribuisce al

187 Nel senso genettiano del termine.

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significato del racconto. Lo spazio, l’ambientazione e il contesto dei videogiochi

fantastici, infatti, è protagonista delle vicende tanto quanto i personaggi: veicola

messaggi, è stratificato e viene percepito in maniera diversa dai giocatori a seconda

della loro sensibilità e del loro approccio all’opera. È, in sostanza, quell’alternativa reale

al nostro mondo (non semplicemente una variazione o un’aberrazione, ma un vero e

proprio universo alternativo, quello di cui parlano Rabkin e Ceserani). Il ritmo del

racconto, infine, sia nello specifico dei casi sopra citati sia, più in generale, nel caso del

fantastico nei videogiochi è dettato da una commistione delle regole del mondo di

gioco e delle scelte individuali e fortemente personali dei giocatori che, trovandosi

davanti a diversi problemi, enigmi, ostacoli, possono scegliere un approccio diverso per

affrontarli e superarli.

È la percezione dei contenuti che cambia, la modalità di fruizione del contesto e del

messaggio, ma non “il mito” che sta alla base del racconto. È questo che è interessante

osservare nel fantastico letterario che si adatta al fantastico videoludico: non ci

troviamo di fronte a uno sconvolgimento dei significati, quanto dei significanti. Dato

che il giocatore trova “noiosa” (e qui, mi ricollego alla riflessione più sopra riportata di

Rabkin) la narrazione letteraria, se non riesce a “interiorizzare” i messaggi veicolati dalla

parola, dato che la mancanza di interattività (del cui ruolo fondamentale abbiamo

parlato nel secondo capitolo) fa percepire il racconto come un veicolo parziale e

inefficace per coinvolgere il lettore, il fantastico ha dovuto adattarsi e ha dovuto

imparare a riproporre tutte quelle caratteristiche che lo rendono efficace per il pubblico

letterario anche a un pubblico non-letterario ma, più che altro, videoludico e multi-

modale. La migrazione e l’adattamento di alcune forme di comunicazione dalla

letteratura cosiddetta “tradizionale” a quella multimediale e interattiva è ormai sotto gli

occhi di tutti: analizzare nello specifico quali siano i passaggi, quali meccanismi

prettamente letterari vengano, sempre più frequentemente, trasformati in meccanismi

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di gameplay*, è non solo interessante ma anche fondamentale per comprendere

appieno quello che sta accadendo alla narrazione oggi.

Tenendo comunque presente il dibattito di cui ho riportato nel primo capitolo, ossia

ancora quello di narratologia come contrapposta alla ludologia, di trame narrative

come “ospiti” scomodi dei videogame, voglio continuare ad affermare, innanzitutto,

che le varie parti costitutive del videogioco sono più “tradizionali”, in sé, di quanto non

lo sia il prodotto finito e credo anche fortemente che solo un’integrazione sempre

migliore tra queste parti possa portare a un utilizzo realmente complesso di questo

nuovo linguaggio su cui abbiamo da poco messo le mani (e la “penna”). Per questo,

nelle seguenti pagine, cercherò di individuare le analogie tra le strutture narrative dei

videogiochi con i loro ipertesti letterari, concentrandomi in modo diversificato su

elementi diversi, a seconda del videogioco preso in analisi: non tutti, infatti, recuperano

allo stesso modo meccaniche o strutture narrative, ognuno di essi lo fa, piuttosto, in

modo funzionale a quello che vuole comunicare al moderno “lettore”. Anche questo, in

fondo, è un chiaro indicatore di come si evolve la narrazione: se alcuni elementi che in

passato erano fondamentali oggi diventano accessori o se, al contrario, alcuni elementi

prima assenti o sottovalutati, fanno il loro ingresso “da protagonisti” nelle narrazioni

digitali, è un’ulteriore riprova del fatto che raccontare storie oggi sta assumendo una

forma nuova, che solo tra diversi decenni potremo veramente comprendere e

codificare: per ora possiamo osservare e riflettere, senza avere l’illusione di capire

completamente questo processo di cui, in quanto in fieri, ci sfugge ancora la visione

globale.

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Capitolo 4

Opere narrative a confronto

Shadow of the Colossus: una fiaba silenziosa senza eroe Già il suo predecessore, ICO, era stato definito “una favola dell’era digitale”. Noi, per

aderire a una terminologia corretta, parleremo di Shadow of the Colossus in termini di

fiaba, non di favola. Se, infatti, la favola è un componimento letterario che fornisce

insegnamenti morali e didascalici e ha come protagonisti animali antropoformizzati,

che rappresentano i vizi e le virtù degli uomini, la fiaba è una tipologia narrativa che ha

origine nella tradizione popolare e ruota intorno a storie brevi che si concentrano su

personaggi fantastici come fate, orchi, giganti e così via. Le fiabe hanno sicuramente

una funzione di intrattenimento, ma non solo. L’antropologo russo Vladimir Propp,

infatti, vede le origini ancestrali di questa forma narrativa nelle società tribali e nei riti

di iniziazione: non a caso, i suoi studi antropologico-letterari lo hanno portato a

formulare una strutturazione tipica della fiaba che si presta, in parte, ad analizzare

anche questa “fiaba silenziosa” contemporanea che è Shadow of the Colossus.

Wander, un bambino quasi adolescente che porta come molti personaggi, un nomen-

omen in cui è inscritto un intero destino, deve salvare Mono, una ragazza caduta vittima

di un sortilegio e che giace morta-addormentata in un enorme tempio di pietra. Poco

sappiamo della maledizione che ha colpito Mono: sappiamo solo che la sua vita è

appesa a un filo e che Wander si sente responsabile per lei, che deve salvarla. Dal

tempio disperso nel nulla di un mondo verdeggiante e disabitato, Wander

accompagnato solo dal fidato Agro, un cavallo nero e veloce come il vento, deve

esplorare la terra circostante e obbedire gli ordini di Dormin, lo spirito del Sacrario del

Culto che gli chiede di uccidere, uno dopo l’altro, i sedici Colossi che abitano quelle

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terre. Wander è evidentemente combattuto e si rende conto di stare per intraprendere

una strada rischiosa. Oltretutto, Lord Emon, custode della landa all'interno della quale

Wander si è avventurato, è scosso e spaventato dalla missione intrapresa dal giovane, e

durante tutta la vicenda il giocatore/spettatore percepisce una strana tensione, come se

anziché incamminarsi verso la salvezza di Mono, Wander stesse percorrendo la strada

della rovina. Tuttavia, Wander sente di non poter evitare di salvare la fanciulla che giace

incosciente sulla fredda pietra del Sacrario.

Wander, che sarà poi l'avatar* attraverso cui il giocatore vivrà questa avventura, si trova

quindi da solo al cospetto di una fanciulla senza vita e con le sole indicazioni e aiuto di

uno spirito ambiguo, terrificante quanto invisibile, che gli descrive, di volta in volta, il

Colosso che dovrà affrontare. Quella di Wander è un'avventura che parte come ogni

avventura di un principe destinato a salvare una principessa. Solo, accompagnato dal

fido destriero Agro, armato solo di uno scudo e di una spada magica che lo aiuta a

individuare prima e a uccidere poi i colossi, Wander comincerà a esplorare la terra

misteriosa per portare a termine la missione che egli stesso ha cercato e a cui non può

sottrarsi. I colossi sono sedici: Valus il Minotauro, Quadratuso il Toro, Gaius il Cavaliere,

Phaedra il Cavallo, Avion l'Uccello, Barba il Gigante, Hydrus la Torpedine, Kuromori la

Lucertola, Basaran la Tartaruga, Dirge il Verme della sabbia, Celosia la Tigre, Pelagia il

Mostro marino, Phalanx il Serpente volante, Cenobia il Leone, Argus il Guerriero, Malus il

Mago.

Wander comincia la sua missione e immediatamente il giocatore ha la sensazione di

trovarsi di fronte a un giovane eroe che sta per affrontare una prova di iniziazione. In

un paesaggio incontaminato, Wander si scontra con le forze della natura: incontra

esseri enormi fatti di carne, roccia, erba e antichità, e per sconfiggerli si trova costretto

ad aggredirli e a “scalarli” letteralmente, per giungere a colpire i loro punti deboli così

da annientarli, strappando loro quell'essenza vitale nera che va, a ogni uccisione, a

contaminare però il suo corpo rendendolo sempre più l'ombra di se stesso. In effetti,

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Dormin, lo spirito nel Sacrario, avverte Wander che il prezzo da pagare per la sua

richiesta sarà alto, ma l'eroe non può far altro che accettare questo patto, perché è nella

sua indole e nel suo destino di principe il compito di salvare la giovane principessa.

Lentamente, tuttavia, dopo l'uccisione di ogni colosso, resa ancora più toccante e

struggente dalla musica e dal dolore con cui quegli enormi ammassi di pietra viva

sembrano cadere sotto i colpi di Wander, il giocatore si rende conto che non sta

uccidendo delle creature malvagie direttamente responsabili della “malattia” di Mono:

quelli contro i colossi sono veri e propri “omicidi su commissione”. Più che mostri,

infatti, i colossi sono figure a metà tra spiriti e folletti un po' troppo cresciuti, sono

incarnazioni della Natura, placida e disinteressata nei confronti dell'essere umano, ma

che sa reagire con violenza e potenza quando stimolata o infastidita. Wander uccide

tutti i colossi: dopo ogni uccisione il suo corpo si vena sempre più di nero, assorbendo

l'anima nera che fuoriesce dal corpo e dagli occhi dei giganti quando muoiono. Dopo

ogni uccisione, Wander si ritrova nel Sacrario del Culto, incosciente e attorniato da

strane ombre, come di bambini: sono gli animi dei colossi che lo vegliano, nonostante

tutto, e che cercano, nel dormiveglia, di riportarlo alla ragione. Tutto è però vano,

perché Wander segue fino alla fine le istruzioni di Dormin. Lord Emon, lo stregone e

custode di quelle terre, arriva quando ormai la metamorfosi di Wander è completa:

dopo l'uccisione dell'ultimo colosso, il Mago accusatore, Dormin si impossessa del

corpo martoriato di Wander e libera tutta la propria potenza a discapito della vita del

ragazzo. Si viene a scoprire, infatti, che i colossi erano frammenti dello spirito malvagio

di Dormin che Lord Emon aveva separato e affidato ai giganti affinché li costudissero

in loro ed evitassero che quello spirito possente riacquistasse la sua forza distruttrice.

Grazie alla disperazione e all'opera di Wander, tuttavia, Dormin ha riacquisito tutta la

sua antica potenza e può tornare a dominare. Lord Emon non riesce a impedire a

Wander di portare a termine la riunificazione di Dormin, ma arriva in tempo per punire

il ragazzo e per intrappolare sia lui che lo spirito all'interno del Sacrario del Culto,

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ancora e per sempre. Wander muore, ma Mono è salva: Dormin ha infatti mantenuto la

promessa e una volta riacquistati i suoi poteri ha risvegliato la principessa dal suo

sonno senza fine. L'eroe è quindi morto, la principessa è guarita. Proprio Mono, alla fine

della distruzione del Sacrario, all'interno del quale rimane intrappolato lo spirito di

Dormin, trova un bambino con le corna, in fasce, fuori dal tempio crollato: quel

bambino è la reincarnazione di Wander, che dovrà espiare la sua colpa passata

proteggendo e, forse, salvando nuovamente la principessa o una sua discendente.

Questo finale aperto si ricollega al primo episodio, la “favola dell'era digitale” di cui

abbiamo parlato all'inizio, ICO. Lì, infatti, il protagonista Ico, un bambino con le corna

isolato dalla sua gente perché incarnazione di uno spirito colpevole, deve salvare la

principessa Yorda dal castello in cui la Regina nera la tiene rinchiusa. Ma questa è

un'altra storia. Quello che ci interessa è che il nostro eroe muoia. E, soprattutto, che sia,

da un certo punto di vista, colpevole, o quantomeno, “moralmente discutibile”.

Per parlare di Shadow of the Colossus in termini di fiaba è necessario procedere su due

fronti: dapprima è fondamentale individuare le caratteristiche strutturali della fiaba

all'interno di questa narrazione. Anche se l'applicazione delle funzioni di Propp a tutte

le trame videoludiche è fortemente sconsigliata188, in questo caso riteniamo che possa

essere utile osservare in che modo quella che noi crediamo essere realmente una fiaba

moderna ricalchi, recuperi e, in alcuni casi, adatti e modifichi alcune delle 31 funzioni

individuate dallo strutturalista russo. In seguito, sarà interessante osservare come

vengono recuperati alcune tematiche e simbologie cardine dei racconti fiabeschi e di

magia, osservando come le ambientazioni, i personaggi e in particolare i colossi

abbiano un legame diretto con quelli che storicamente e trans-culturalmente sono

considerati degli archetipi “magici” che racchiudono riferimenti e rimandi all'animo

umano. In altre parole, vedremo come la scelta di Ueda di aderire a una struttura

188 Tendenzialmente, è rischioso applicare pedissequamente strutture e metodologie concepite per altri medium o altri linguaggi a un

mezzo nuovo e in progress come il videogioco. Infatti, nonostante si percepisca una chiara e forte componente narrativa, la narratologia, di qualsiasi scuola, non è né può essere l’unico parametro in gioco quando si effettua un’analisi di questo tipo. Molte delle scelte narrative, infatti, sono influenzate da elementi completamente extra-testuali che non rientrano sicuramente negli schemi narratologici.

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tipicamente fiabesca (con ovvi adattamenti) e a tematiche classicamente magiche

rendano Shadow of the Colossus un titolo fortemente innovativo, perlomeno per il

mondo digitale, perché diventa portatore di quei valori e di quei parametri

comunicativi che sono tipici del mito, della fiaba e della leggenda in letteratura.

I personaggi di Shadow of the Colossus, tra cui si ripartono le funzioni che più sotto

andremo a descrivere, sono: l'eroe, l'aiutante, la principessa, il mandatario, l'antagonista,

il falso aiutante e il falso antagonista. In particolare, l'eroe della nostra fiaba è Wander:

giovane “principe” armato di spada e destriero che sfida le forze del “male” per

risvegliare la bella addormentata. Il destriero è l'aiutante, animale magico ed empatico

che accompagna l'eroe nelle sue avventure e che risulta indispensabile per il

superamento delle prove più ardue. La principessa è Mono, la ragazza addormentata (o

in fin di vita) che l'eroe Wander deve salvare. Caratterizzata come la principessa delle

fiabe, Mono incarna anche lo spirito femminile dell'attesa, mentre Wander è quello

maschile del viaggio e dell'avventura. Il mandatario, ossia colui che dà il via alla vicenda

e che dà l'incarico a Wander, nonché falso aiutante e vero antagonista è Dormin, lo

spirito del Sacrario del Culto che non vuole tanto aiutare Wander nel salvare Mono

quanto essere liberato dalla sua prigione magica. La figura di Dormin è molto ambigua

e meriterà, più avanti, un approfondimento, perché incarna tre ruoli che abitualmente

vengono suddivise in altrettanti personaggi. In effetti, parlare di “antagonista” in

questa fiaba non è propriamente corretto: dal titolo di questo approfondimento infatti

si desume che non è possibile identificare in maniera univoca la moralità dei

personaggi. Semplicemente ognuno degli attanti sta perseguendo un proprio scopo e

tutti possono essere visti come “buoni” o “cattivi”. I colossi e Lord Emon, infine, sono i

falsi antagonisti: entrambi vengono percepiti come nemici di Wander perché

ostacolano (in modo più o meno attivo) il conferimento dell'incantesimo proibito e

quindi il risveglio di Mono. In effetti, però, sia i colossi che Lord Emon non sono

“cattivi” né stanno effettivamente “ostacolando” Wander: il loro compito non è infatti

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quello di ostacolare l'eroe quanto quello di preservare un grande potere che, nelle

mani sbagliate, può portare morte e distruzione più che salvezza e felicità. Già da

questa panoramica è evidente come questa fiaba sia impregnata di relativismo. Le

fiabe classiche, quelle appartenenti alla tradizione popolare, avevano sempre la

funzione di testimoniare strutture sociali e sistemi di valori del passato. Propp stesso

scrive:

“Ne deriva la premessa che bisogna mettere in rapporto la fiaba con le istituzioni sociali del passato e cercare in queste le sue radici storiche (...). Inoltre vediamo, ad esempio, che l'eroe molto spesso viene fatto re. Ma di chi è il trono al quale ascende l'eroe? Risulta che l'eroe non occupa il trono del padre, ma quello del suocero che spesso egli stesso ha ucciso. Ci si domanda allora, a questo punto, quali sono le forme di successione al potere che trovano riflesso nella fiaba. In breve, noi partiamo dal presupposto che nella fiaba si siano conservate tracce di forme di vita sociale scomparse, che bisogna studiare questi resti e che questo studio rivelerà le fonti di molti motivi della fiaba.”189

Il sistema di valori secondo cui è possibile uccidere il proprio il padre della fanciulla per

impossessarsi del suo regno è un chiaro indicatore della bilancia per misurare il bene e

il male. Quando un eroe era ritenuto tale nonostante uccidesse vecchie malvagie (le

streghe), rapisse fanciulle inconsapevoli, ingannasse sovrani, la comunità manifestava

una chiara tendenza e una chiara idea di cosa fosse “bene” e cosa fosse “male”. Nel caso

di Shadow of the Colossus, invece, questa ambiguità non viene risolta. Certo, la giovane

fanciulla alla fine viene salvata, e tutto sommato l'eroe ha una seconda possibilità In

effetti, però, l’eroe non è realmente ‘eroico’ e l’alternativa concessagli non è così

allettante: sia egli che la sua stirpe saranno dannati per i secoli a venire, fino a quando

uno dei discendente non riuscirà a espiare la colpa del’avo. I colossi, che si rivelano

essere figure animiste veramente buone e indifferenti all'uomo, placide e pacifiche che

conducono la loro esistenza e adempiono al loro compito senza né danneggiare né

disturbare nessun altro essere vivente, sono alla fine tutte annientate dal Wander-

giocatore. Lo spirito di Dormin, che sembra avere mire malvagie è, in realtà, solo in

189 Propp, Vladimir J. (2006) Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton Editori, Roma, p. 144

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cerca del bene supremo, ossia della libertà. Lord Emon a sua volta, proprio come i

colossi, vuole solo adempiere al suo ruolo di custode nel migliore dei modi possibili.

Già questo punto di partenza ci porta a rivisitare completamente il senso di questa

fiaba moderna: il bene e il male, il sistema di valori della comunità di riferimento non

sono più così definiti da diventare uno dei possibili punti di arrivo dell'analisi, come lo

erano nello studio di Propp. Possiamo parlare allora di manifestazione del rito, forse?

Esiste una ritualità all'interno della fiaba di Ueda? La risposta è sicuramente sì, ma non

è una ritualità emblema del popolo o del contesto che hanno prodotto l'opera, bensì è

una ritualità “letteraria”, che vuole innanzitutto manifestare un chiaro legame tra

questa fiaba moderna e quelle classiche e folcloriche del passato. Propp afferma:

“La fiaba ha conservato traccia di molti usi e riti; molti motivi trovano la loro spiegazione genetica soltanto se confrontati con i riti (...). Se ci riuscisse di mostrare quali motivi attengono a questi riti riusciremo in certa misura a spiegare l'origine di questi motivi. È necessario studiare sistematicamente questo nesso tra fiaba e riti.”190

Seppure Shadow of the Colossus non ci permetta di gettare luce sul legame che intercorre

tra i riti e i motivi classici, tuttavia ci permette di compiere questo ambizioso confronto

tra fiaba canonica e fiaba moderna: infatti, la ripetitività e la strutturazione della

narrazione, e quindi la ritualità che sta alle spalle della narrazione, ci aiutano a capire

come strumenti quali la multimedialità e l'interattività sono stati declinati per

raccontare una fiaba secondo la struttura tipica delle fiabe classiche. In altre parole, il

rito di Wander, ossia l'uccisione dei sedici colossi, è un rito che diventa sia motivo che

struttura portante del racconto: attraverso il suo agire configuriamo una storia ma,

sempre attraverso il suo agire, questa storia viene percepita dal giocatore nello stesso

modo in cui una fiaba veniva percepita da un ascoltatore (o da un lettore). La funzione

di “litania” religiosa e la struttura fortemente formulaica tipica delle fiabe ha, come

obiettivo primario, quello di facilitare la comprensione dell’ascoltatore: le ripetizioni, le

formule fisse, i patronimici, e così via, sono tutti elementi che aiutano nell’ascolto e che

190 Ibid. p. 145

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assicurano la ricezione del messaggio. Allo stesso modo, il gameplay* ricorsivo su cui si

basano le azioni di Wander, svolge lo stesso ruolo in questa “fiaba moderna”: Wander

deve ripetere per sedici volte (fino all’uccisione dell’ultimo colosso) il rituale che lo

conduce al ritrovamento del colosso, alla sua sconfitta e all’acquisizione dei poteri.

Questa ricorsitivà ha, in effetti, anche la funzione di “distrarre” il giocatore dalle azioni

dell’avatar*: la ripetizione diventa così “scontata” che il giocatore smette, per un po’, di

interrogarsi sulla bontà delle azioni che sta compiendo, salvo poi rendersi conto che

l’automatismo che governava le sue scelte non era così innocente come poteva

sembrare.

In realtà, l'apertura all'incertezza e all'indeterminazione è una caratteristica già presente

in ICO e quindi, probabilmente, è una connotazione autoriale e stilistica di Ueda più che

un nuovo motivo inserito nella trama della fiaba. Altrettanto tipica dell'autore è,

tuttavia, l'aderenza alle funzioni di Propp:

“Forse l'originalità di ICO sta proprio qui, nella sua apertura, incertezza, indeterminazione (...). Ci sono pochi dubbi che in ICO l'effettivo percorso della storia ricalchi certamente le teorie proppiane sulla struttura narrativa, esposte in Morfologia della Fiaba.

In particolare, Propp indica la ricorrenza di tre grandi prove: una prova qualificante nella quale il soggetto si rende competente, atto a fare, attraverso esami e riti di iniziazione; una prova decisiva nella quale il soggetto si realizza portando a termine un certo numero di azioni; una prova glorificante nella quale il soggetto ottiene il riconoscimento di ciò che ha fatto e di conseguenza di ciò che è. All'eroe non è lasciata alcuna libertà di scelta: deve sottoporsi a tali prove. Dalla loro articolazione prende forma una storia completa. In ICO troviamo sia la prova qualificante sia la prova decisiva descritte da Propp. E gli indizi di quel retaggio genetico che lega Ico allo sventurato ruolo di vittima sacrificale designata rinforzano il valore funzionale della prova glorificante – ovvero spezzare quella maledizione che ha afflitto il ragazzo, relegandolo ai margini dell'interazione sociale.”191

I riferimenti a ICO non sono accessori: Shadow of the Colossus costituisce, in un certo

senso, una sorta di mitopoiesi delle vicende davanti a cui il giocatore si era trovato

affrontando ICO: se in ICO le funzioni di Propp erano rispettate in modo più

pedissequo e l'eroe era effettivamente un eroe fiabesco, in Shadow of the Colossus, opera 191 Mottershead, Ben (2007) Ico. Una favola dell'era digitale, Edizioni Unicopli, Milano, p. 40

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più matura e precorritrice di ICO, le funzioni di Propp sono lievemente distorte, perché

l'eroe non è effettivamente un eroe positivo e, in generale, nessuno degli attanti ha un

ruolo fisso e ben determinato. Per capire meglio e argomentare questa affermazione è

il caso di passare alla ricostruzione della trama di Shadow of the Colossus in base alle

funzioni della Morfologia della Fiaba: potremo così constatare che, seppur presenti, le

funzioni sono ricontestualizzate e i personaggi tra cui queste funzioni sono ripartite e

gli attributi stessi di questi personaggi sono in un certo senso “deviati”, rimodellati in

base a una sensibilità più contemporanea e postmoderna che folclorica e classica192.

La situazione iniziale prevede che all'eroe venga fatta una proibizione (I, 1): in

particolare, l'eroe non deve interagire con lo spirito del Sacrario del Culto né,

ovviamente, obbedire ai suoi comandi. La proibizione viene violata (III): “entra in scena

ora nella fiaba un nuovo personaggio che può essere chiamato il cattivo”, ma che

nell'economia del nostro racconto non è facile definire tale. Infatti, come nel caso di

un'altra fiaba moderna, Il labirinto del Fauno193, il “cattivo” è definito come tale solo da

prove “indiziarie”: il tono della sua voce, le richieste che fa all'eroe e l'atteggiamento che

ha nei suoi confronti. In realtà, “il suo ruolo è quello di guastare l'atmosfera di pace

nella quale vive felice la famiglia e di provocare una certa sciagura, di infliggere un

danno o di pregiudicare la situazione”. In realtà, nel nostro caso, non è Dormin (o,

perlomeno, il lettore-giocatore non ne ha alcuna prova né indizio) a causare la morte

apparente di Mono, la principessa da salvare. L'avventura dell'eroe parte, in effetti, in

medias res e l'entrata in scena del “cattivo” è tale solo perché, fino a quel momento, è

l'unica figura mancante nell'orizzonte di attesa del giocatore. Più avanti osserveremo

come la figura dell’antagonista ricopra una valenza ambivalente all’interno della

narrazione e di come contribuisca alla messa in discussione del sistema di valori della

fiaba, solitamente fondato sugli opposti bene-male. Allo stesso tempo, il cattivo tenta

di eseguire un'investigazione (IV): l'investigazione, nel nostro caso, ha lo scopo di 192 Nelle seguenti righe, verrà citato il testo di Propp, La Morfologia della Fiaba, nelle pagine che vanno dalla 32 alla 57 dell'edizione

Newton Compton (2006). Il numero e i sotto-numeri delle funzioni sono indicate tra parentesi. 193 El Labirinto del fauno (2006), Guilliermo del Toro.

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ritrovare tutti i colossi e di annientarli, in quanto (ma questo non lo scopriremo fino

alla fine) essi sono i baluardi del potere di Dormin, che vuole reimpossessarsi delle sue

proprietà magiche. A questo punto il cattivo tenta di ingannare la sua vittima (VI, 3):

Dormin inganna Wander (che quindi non è più solo eroe, ma anche vittima) con la

coercizione morale e l'inganno. Sotto questo aspetto, in particolare, la “fiaba moderna”

di Shadow of the Colossus introduce un pesante elemento di rottura con la fiaba

tradizionale: i confini tra bene e male sono confusi e non nettamente individuabili

come nelle fiabe classiche, in cui, attraverso un percorso di formazione, il protagonista

doveva arrivare a uno stato finale di maturità ed esperienza eticamente e moralmente

accettata, partendo da uno stato iniziale confuso, immaturo e discutibile. Wander viene

convinto da Dormin che l'unico modo per risvegliare Mono sia l'annientamento dei

Colossi. L'eroe-vittima, a questo punto, cade nel tranello e aiuta involontariamente (o

meno) il nemico (VII) e sottostà a tutte le condizioni del cattivo. Le proibizioni vengono

sempre violate, le proposte insidiose, inversamente, sono sempre accolte ed eseguite.

Wander sa di commettere un “reato” ascoltando la voce e gli ordini di Dormin,

ciononostante la ritiene l'unica strada praticabile. In sostanza, il consenso vien ottenuto

perché il “cattivo” si avvale della situazione difficile nella quale si trova l'eroe: la sua

principessa è malata e deve essere guarita, ad ogni costo. L'ottava funzione di Propp

(VIII, 6 e 14) costituisce la prima “incongruenza” di questa fiaba con la struttura canonica

formulata dallo studioso. Infatti, possiamo presupporre che il cattivo abbia

volontariamente danneggiato Mono in modo poi da sfruttare Wander per i propri

scopi, però innanzitutto questa è la vera funzione preparatoria del racconto (mentre

Propp individua come preparatorie le precedenti sette sopra descritte) e, oltretutto, non

abbiamo né resoconto né prove concrete che accusino Dormin. Ancora, torna il

leitmotiv dell’assenza di morale oggettiva, che invece non manca nella fiaba: qui il

“cattivo” non solo è “giustificato”, ma sembra addirittura non essere un vero

antagonista. In ogni modo, per rispondere a questa ottava funzione, possiamo dire che

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il “cattivo” compie un'azione intermedia tra l'arrecare una lesione fisica e il commettere

un omicidio. Questa, in effetti, è una forma collaterale che si associa ad altre forme di

danneggiamento e serve a rafforzarlo. A ben vedere, Dormin non solo, probabilmente,

ha “ucciso” Mono, ma perpetra un abuso nei confronti di Wander e lo danneggia

fisicamente contaminandolo con la propria essenza (che l'eroe sottrae, di volta in volta,

ai singoli colossi). A questo punto riprende la struttura proppiana del racconto. Il fatto

che la fiaba non segua punto per punto le funzioni di Propp è un processo che lo

stesso Propp aveva messo in luce. In realtà, quello che ci interessa osservare non è solo

un utilizzo coerente delle funzioni di Propp da parte del videogioco, ma come queste

funzioni vengano completamente messe in discussione dall’ambiguità del ruolo dei

personaggi. Se, appunto, le fiabe non sempre seguono tutte le funzioni di Propp,

sicuramente però mantengono i ruoli dei personaggi chiave molto chiari e ben definiti.

Questo non accade in Shadow of the Colossus. È questa, in fondo, la sua originalità:

relativizzando tutti i personaggi (anche l’avatar* attraverso cui il giocatore sperimenta il

mondo di gioco), la narrazione diventa ambigua e le azioni intraprese dal giocatore

vengono caricate di significati che possono essere diametralmente opposti: cerca di

salvare la vita all’amata oppure cerca di ottenere uno smisurato potere per sé? È aiutato

dallo spirito guida o è manipolato dallo spirito malvagio? E così via.

L'eroe riceve un ordine e viene lasciato andare a esplorare le terre del regno che fu di

Dormin per trovare e uccidere i colossi (IX, 1, 2). Ci troviamo davanti a un eroe

“ricercatore” che parte per assolvere il compito che gli viene assegnato direttamente. La

promessa che accompagna l'invito, da parte dello spirito del Sacrario del Culto, è di

salvare la principessa. Ancora una volta ci sono degli sconvolgimenti: l'eroe è sia eroe

che vittima. Il “cattivo” è mandante, re e antagonista insieme. In ogni caso, la figura di

Wander è quella di eroe ricercatore e attivo, perché sebbene subisca l'inganno, decide

in ogni caso di agire e di pagare “l'elevato prezzo” prospettato dal mandante: non

sappiamo, in effetti, se Wander sia consapevole fin dall’inizio del ruolo che Dormin gli

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sta facendo ricoprire. Non sappiamo se il protagonista abbia chiare le intenzioni dello

spirito che lo comanda. Wander (e con lui anche Dormin e i colossi) sono caratterizzati

da una indeterminatezza dei ruoli e delle identità. Wander, infatti, acconsente alla

partenza (X). L'eroe abbandona il tempio e intraprende la sua ricerca: Propp individua

questa come funzione univoca, mentre in Shadow of the Colossus questa funzione è

ricorrente e serve per creare una sorta di “formula” della fiaba stessa: per sedici volte

l'eroe sarà sottoposto a una richiesta e per sedici volte egli partirà dalla casa per

andare, sempre con maggiore fatica, ad assolvere al suo compito. La partenza dell'eroe

ricercatore194 ha come scopo la ricerca. L'eroe non incontra alcun donatore sulla propria

strada, in quanto è già in possesso dell'artefatto magico che gli permetterà di porre

rimedio alla sciagura: la spada con cui può individuare i colossi e annientarli è una

dotazione iniziale di Wander e né Dormin né altri personaggi lo dotano di altri oggetti

o artefatti magici. Mancano, quindi, tutte le funzioni che vanno dalla XII alla XIV, e che

riguardano l'oggetto magico necessario a Wander per la sua ricerca. Si passa alla fase in

cui l'eroe si dirige sul luogo in cui si trova l'oggetto (gli oggetti) della sua ricerca (XV, 2):

grazie al fedele Agro, l'eroe viene trasportato sulla terra e sull'acqua e raggiunge,

ancora ricorsivamente i sedici luoghi in cui si trovano i sedici “finti cattivi” da

combattere, i colossi (XVI, 1). L'eroe e il nemico si battono in uno scontro diretto e l'eroe

entra in possesso di parte del “mezzo” di cui necessita per portare a termine la sua quest.

Per sedici volte Wander dovrà affrontare il nemico e per sedici volte dovrà

impossessarsi del mezzo per salvare Mono. La lotta con i colossi ha un carattere

prettamente fisico, di scontro diretto, e l'eroe deve vincere non solo grazie alla sua

forza ma anche all'astuzia. Il cattivo è vinto (XVIII, 1, funzione questa che viene prima

della XVII, in questa fiaba) A Wander, dopo ogni scontro, viene impresso un marchio

(XVII, 1): tra atroci sofferenze, che paiono essere tali sia a livello fisico che mentale, il

corpo dell'eroe viene marchiato, nonostante vinca il nemico. Tale marchiatura è solo

194 Questo, ovviamente, presupponendo una “ingenuità” di Wander e la sua natura, come descritta dal nome, di “eroe errabondo” che

cerca qualcosa.

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una marchiatura preliminare. Vedremo infatti che, alla conclusione della vicenda,

Wander riceverà un'ulteriore marchiatura di cui si dovrà fare carico per le generazioni a

venire e che sarà la testimonianza tangibile della vicenda che ha vissuto. In effetti, a

questo punto, viene posto riparo alla sciagura iniziale (XIX, 8-9) ossia il personaggio

stregato è liberato dall’incantesimo o, alternativamente, l’uccisa ritorna in vita: Mono

infatti si risveglia veramente, Dormin mantiene la sua promessa e tuttavia a questo

punto l’eroe, Wander, è perseguitato (XXI, 5) perché il persecutore-antagonista Dormin

invade il corpo dell’eroe e lo “inghiotte”, per così dire, impossessandosi di lui e

completando il suo piano, che tale era fin dall’inizio, vale a dire liberarsi dal giogo e

dalla prigionia dei colossi che racchiudevano ognuno una parte del suo spirito. A

questo punto abbiamo quindi la fase del riconoscimento: innanzitutto, i colossi

vengono identificati, a loro volta, come vittime e non come antagonisti, mentre il

cattivo è finalmente smascherato (XXVIII) e l’eroe assume un nuovo aspetto (XXIX): in

questo caso particolare, tuttavia, la funzione di Propp non viene del tutto rispettata.

Wander infatti trasmuta e assume le sembianze del demone Dormin, tuttavia questa

trasmutazione non coincide con il suo trionfo, bensì con la sua dannazione. Da questo

momento in avanti, infatti, è l’eroe a diventare il “cattivo” e la sequenza finale delle

funzioni di Propp che solitamente viene applicata all’antagonista è invece assegnata a

quello che per tutta la vicenda è stato l’eroe. Alla fine del racconto, il cattivo è punito

(XXX): Dormin, incarnato in Wander, viene “condannato a morte” e debellato da Lord

Emon che non risparmia neppure il ragazzo: l’eroe muore insieme al cattivo. Tuttavia,

proprio in questa funzione, convivono la punizione impietosa (la morte) e una sorta di

“magnanimo perdono”: a Wander viene data una seconda possibilità, in quanto rinasce

(e qui abbiamo la seconda comparsa della funzione XVII, 1 in cui all’eroe viene impresso

un marchio sul corpo) e si reincarna nel corpo di un bambino con le corna e viene

affidato alle cure di Mono, che, per affetto e debito di riconoscenza, si prenderà cura di

lui così che una volta cresciuto possa espiare la sua colpa. In effetti, considerato che

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Shadow of the Colossus è un prequel di ICO, noi sappiamo che Wander espierà la sua

colpa solo in un lontano futuro, attraverso uno dei suoi discendenti (Ico, appunto)

salvando una principessa di luce, Yorda, dalle oscure brame della Regina Nera che,

come già era successo a Wonder, sta cercando di impossessarsi del corpo di Yorda per

rinascere ed essere pienamente potente.

Abbiamo così una fiaba vera (ICO) e quelli che sembrano i “prodromi” di una fiaba

(Shadow of the Colossus):

“Rispetto alla serie di Harry Potter (J. K. Rowling) e Final Fantasy (Squaresoft, 1987), in ICO il senso della narrazione fiabesco è snellito al massimo. Il gioco rimanda ad un'epoca in cui le fiabe erano parte integrante della cultura folk e non di industrie culturali capaci di sfornare merchandise, tie-in e spin-off alla velocità della luce.”195

Se ICO era una fiaba “semplice”, ossia rispetta in modo alquanto definito i dettami e la

struttura della fiaba tradizionale, con Shadow of the Colossus ci troviamo di fronte a

un'evoluzione della fiaba digitale: la semplicità è ancora un elemento chiave della

narrazione, tuttavia i topoi ricorrenti e le figure fisse, nonché le formule e le funzioni,

come abbiamo sopra visto, vengono riconfigurate. Non vengono stravolte tanto da

diventare irriconoscibili: restano le stesse, ma vengono applicate in modo nuovo.

“La popolarità che la fiaba conserva tutt'oggi, nell'era di internet e della televisione satellitare da 500 canali, non si spiega certo con l''originalità' delle trame, ma con il bisogno sociale che esse espletano (...). A nostro avviso, il gioco di Ueda ha contribuito a svecchiare e insieme aggiornare la favola tradizionale. E nel contesto videoludico – medium relativamente acerbo – ICO è forse il solo videogame capace di distinguersi dagli scenari zuccherosi della premiata factory Nintendo, la cui serie Zelda lancia messaggi più rassicuranti e confortanti. Zelda condivide molti temi della fiaba tradizionale. È un gioco avvincente, ma tutt'latro che imprevedibile, basato com'è su modelli narrativi rigorosi. Come una leggenda che si tramanda di generazione in generazione, anche gli episodi di Zelda formano una sorta di mitologia digitale, raccontano storie che rincuorano, anziché destabilizzare. Storie che non potranno che concludersi positivamente. ICO, al contrario, tiene con il fiato sospeso fino all'ultima schermata.”196

195 Mottershead, Ben op. cit. p. 28 196 Ibid. p. 29-30

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Se la funzione della fiaba non è messa in discussione attraverso i secoli e se già ICO

“svecchiava” la fiaba trasportandola nel mondo videoludico in modo immediato e

originale, Shadow of the Colossus continua questa tendenza e si propone, ancora una

volta, come fiaba in cui il lieto fine non è d’obbligo e in cui, soprattutto, i valori, i

simboli e le funzioni dei personaggi vengono “sovvertite”.

Questo “sovvertimento” è strettamente legata all’elemento interattivo che il videogioco

porta necessariamente con sé: nella fiaba tradizionale il sistema di valori era chiuso.

L’autore presentava un racconto “a tesi” con una morale ben definita che linearmente e

passivamente il lettore recepiva e, attraverso la reiterazione, interiorizzava.

Diversamente, nel caso della narrazione digitale e di una fiaba concepita per un

pubblico moderno, che crede più nell’indeterminatezza postmoderna che in una Verità

assoluta, la “lezione” impartita dalla fiaba stessa non può essere meramente legata al

semplice contenuto oggettivo (la trama o l’intreccio): i messaggi devono essere

ambigui e i personaggi non devono rivestire ruoli “univoci” e “assoluti”, o il giocatore si

troverebbe in un contesto “confortevole” dal punto di vista ontologico ed

epistemologico. Nel caso specifico, è interessante esaminare il personaggio di Wander,

prima in un’ottica più classica e tradizionale, quella cioè del principe deputato a salvare

la principessa con cui vivere “per sempre felici e contenti”, poi nell’ottica del gioco, ossia

come personaggio che compie scelte “al di là del bene e del male” e che non è più

caratterizzato in modo univocamente positivo.

Wander è un eroe dalla duplice natura: da una parte è l’archetipo dell’eroe classico,

dall’altra, invece, porta con sé caratteristiche contrapposte a questa figura. Come ogni

eroe classico è giovane, bello, coraggioso. Rispecchia, in effetti, la definizione greca

originaria, che vedeva gli eroi come semi-dei. È un principe azzurro e gli elementi come

la spada, lo scudo, il destriero servono per rimarcare il suo status. Ha una principessa da

salvare, la quest di solito prestabilita per il principe, affinché compia il suo percorso di

iniziazione, sconfigga il nemico e conquisti il trono che gli spetta e insieme ad esso la

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sua amata. Wander è un avventuriero che ci ricorda il principe delle fiabe, che attraversa

lande desolate, scala montagne, uccide mostri e che si aspetta come premio finale la

bella addormentata riportata in vita. Wander, però, è una figura più ambivalente: se

all’inizio è caratterizzato, sia eticamente che soprattutto esteticamente, come il “principe

senza macchia e senza paura”, a differenza degli eroi tipici delle fiabe, nel corso della

vicenda egli “degenera” fino ad andare a rispecchiare, almeno a livello estetico se non

anche etico, una sorta di “angelo caduto”, di anti-eroe disperato. Il suo corpo si

“macchia” dopo ogni uccisione, il suo spirito appare sempre più stanco, l’eroe è sempre

più solo. Più che compiere un percorso di “formazione”, come appunto accade nelle

fiabe, o di “redenzione”, Wander passa da eroe a mostro. In questo caso, facendo leva

sul nostro patrimonio culturale, il fiabesco è stato solo una fascinazione letteraria

utilizzata per condizionare il nostro immaginario: uno spazio, un tempo, dei caratteri

codificati e facilmente riconoscibili ci fanno piombare irrimediabilmente in una realtà

all’insegna dell’aporia, della indeterminatezza e, perché no, del trompe l’œil.

Come abbiamo accennato durante l’analisi, Wander è sia eroe che vittima, i colossi sono

dei falsi antagonisti, mentre il mandatario Dormin è in realtà il vero antagonista.

Tuttavia, ancora una volta, anche l’attribuzione del ruolo di “cattivo” è forse fuori luogo.

Abbiamo già detto che Dormin cerca solo il bene supremo, ossia la propria libertà:

certo, in questa ricerca egli strumentalizza e sfrutta la morte di una giovane fanciulla,

costringe un principe con l’inganno a scagliarsi contro le leggi naturali, spinge un

innocente dal cuore puro ad aggredire spiriti pacifici e abbandonati nell’oblio, ma tutte

queste azioni abiette sono compiute, in effetti, da Wander, e non dal demone, e allora

nell’ottica delle funzioni dei personaggi abbiamo un ribaltamento e Dormin può essere

considerata la vittima, Wander l’aiutante, e i colossi i veri antagonisti. Ovviamente non

c’è una risposta univoca, né giusta, né sbagliata: uno degli scopi degli autori di questa

fiaba digitale era proprio quello di creare un fortissimo senso di disorientamento. Non

a caso, diversi giocatori hanno abbandonato l’esperienza ludica dopo alcune uccisioni

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di colossi perché si sentivano “in colpa”. Nel suo articolo “Shadow of the Colossus. L’amore

giustifica tutto?” la giornalista videoludica Alessandra C scrive:

“Fino a che punto possiamo spingerci per amore?

Per amore possiamo giustificare, perdonare, comprendere, anche se non approvare, i peggiori gesti dell’uomo.

La letteratura è costellata di antieroi, che di positivo non hanno nulla ma, per il solo fatto di essere profondamente innamorati, diventano figure mitiche agli occhi del lettore. (…)

Così quando Wander, giovane protagonista del videogame “Shadow of the Colossus” raggiunge il tempio della terra proibita e chiede all’entità Dormin di riportare in vita una cadaverica fanciulla, nessun giocatore si cura dell’avvertimento sul prezzo che dovrà pagare per raggiungere lo scopo.

(…) Per riportare in vita la bella defunta, il nostro prode è chiamato a uccidere sedici colossi nell’immenso silenzio di una landa sconfinata. Wander monta su Argo, inseparabile destriero, e nel momento in cui individua il suo primo obiettivo inizia il vero strazio.

I Colossi sono creature possenti e enormi, ma non hanno niente di malefico, siamo noi, eroi pronti a tutto, a distruggere l’equilibrio del loro silenzioso mondo.

Siamo noi che abbiamo una missione da compiere e facciamo finta di non provare nulla quando, pesantemente, cadono sotto i nostri colpi. Uno, due, tre, i Colossi muoiono, lo sguardo triste, rassegnato, a volte stupito. Scusate, io non ho portato a termine la missione, perché Fumito Ueda, già creatore di quel capolavoro intitolato “Ico”, con me ha centrato il colpo.

“Shadow of the Colossus” è un gioco incredibile, è il primo videogame che fa provare esattamente quello che stai facendo. Tutto il mondo dei Colossi è progettato per questo scopo. Colori, musica, gameplay, sono studiati per empatizzare, comprendere, sentire non l’eroe, ma la sua vittima. Fumito Ueda ha imboccato una strada proibita nell’intrattenimento elettronico, quella di non giocare la carta del divertimento. Probabilmente solo lui poteva permetterselo e creare un secondo capolavoro.”197

L’analisi dell’autrice è alquanto sbrigativa, ma dobbiamo tenere in considerazione il

contesto: l’articolo è apparso su un quotidiano on-line ad ampia diffusione, ed è quindi

comprensibile che il livello di approfondimento non sia elevato. Ciononostante,

Alessandra C. individua a colpo sicuro la caratteristica principale di questo gioco, che è

quello di mettere il giocatore nei panni di quello che non si capisce se sia un eroe o un

197 Alessandra C, “Shadow of the Colossus. L’amore giustifica tutto?” in LaStampa.it del 9 marzo 2006,

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giochi/grubrica.asp?ID_blog=35&ID_articolo=29&ID_sezione=49&sezione= (29/09/2008)

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anti-eroe: la missione che stiamo portando a termine è veramente nobile o stiamo solo

biecamente ed egoisticamente perseguendo uno scopo personale?

Quello che è interessante è osservare come il coinvolgimento diretto del giocatore sia

più “compulsivo” rispetto a quello del lettore: non solo, è sicuramente più “subdolo”, in

questo caso più che in altri. In altri videogiochi, infatti (si pensi, ad esempio, alla saga di

GTA, per citare un esempio estremo e ben conosciuto) non solo la caratterizzazione del

personaggio, ma lo stesso contesto ci indicano quale siano l’etica e la morale

dell’avatar* di cui vestiamo i panni. Il contesto (lo spazio di gioco) tematizza i contenuti

e noi siamo consapevoli fin dall’inizio di quale sarà il nostro “ambito” d’azione e le

modalità secondo cui agiremo. Nel caso di Wander, invece, il contesto è letteralmente

fuorviante: ci troviamo davanti, almeno esteticamente, a uno spazio e a un

personaggio che, tradizionalmente, incarnano valori positivi e le cui vicende, sempre

secondo la tradizione, portano a conclusioni in cui il “bene” trionfa chiaramente sul

male. In questo caso, invece, il primo impatto e la percezione che il giocatore ha nelle

prime fasi di gioco è quella di vestire i panni dell’eroe positivo che lotta contro la forza

malvagia. Lentamente, com’è ovvio che sia, tuttavia, questa sicurezza vacilla. La

maschera di “eroe innamorato” non basta a non far vacillare l’oggettività della vicenda

ed entra a forza il concetto di relativismo. Alla fine della vicenda, in effetti, ci rendiamo

conto che sì, Wander può essere un eroe, che ancora, sì, i suoi scopi sono nobili ma che

effettivamente i mezzi che usa per raggiungere il suo obiettivo e i compromessi a cui

decide di sottostare sono atroci e, tutto sommato, crudeli, sia verso se stesso

(ricordiamoci che il suo corpo si rovina e “contamina” dopo l’uccisione di ogni colosso)

sia verso i colossi che muoiono con uno sguardo triste e pietoso. Tuttavia, non

dobbiamo indulgere nemmeno nel considerare Wander (e noi stessi, che lo abbiamo

aiutato a compiere il suo “misfatto”) un eroe veramente cattivo: innanzitutto il nostro

scopo è quello di salvare una fanciulla indifesa. In secondo luogo, noi stessi ci facciamo

carico della sofferenza che infliggiamo e ci abbandoniamo nella solitudine e

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nell’isolamento del nostro viaggio. In effetti, alla fine di tutto, persino Lord Emon ci

concederà (a noi, a Wander), una seconda possibilità, facendoci capostipiti di quella che

sarà la discendenza del ragazzo cornuto e che porterà alla nascita di Ico, il quale espierà

finalmente la nostra “colpa” salvando Yorda. Al di là del bene e del male, quindi, perché

l’obiettivo finale di questa fiaba non è insegnarci chi è buono o chi è cattivo, né

impartirci un insegnamento “univoco”: non ci sono situazioni che dobbiamo

costantemente rifuggire né ideali da perseguire. In Shadow of the Colossus, invece, esiste

solo un relativismo assoluto e non ci sono più modelli, eroi, bene e male. Diciamo che

Ueda non vuole che il suo pubblico aderisca biecamente a una determinata morale:

vuole stimolare ognuno a riflettere sulla propria e a capire che il “bene” assoluto non

esiste.

È importante citare un altro autore nipponico che mette il rapporto tra l’uomo e la

Natura e la lotta tra “bene” e “male” al centro delle proprie opere: Hayao Miyazaki. Nelle

sue produzioni, che lo coinvolgono sia come sceneggiatore che come regista, la visione

che Miyazaki dà del mondo è quello di un uomo aggressivo e “disarmonico” che

spesso si trova a scontrarsi con una Natura assoluta e, apparentemente, soggiogata. Le

vicende dei suoi personaggi, oltre che a riguardare sentimenti umani come l’amicizia e

l’amore, sono fortemente imperniate su un conflitto tra il “bene”, che è

tendenzialmente un’attitudine naturale di armonia e convivenza, e il “male”, che è la

tensione alla sopraffazione, all’iper-tecnologicizzazione e alla repressione dello spirito

naturale. Tra Miyazaki e Ueda possiamo ritrovare delle analogie che sicuramente sono

di stampo culturale: entrambi tendono a sentire molto forte l’importanza dell’elemento

naturale ed entrambi tendono a vedere l’uomo come un agente di disturbo e di

pericolo, almeno fino a quando non acquisisce consapevolezza. Entrambi recuperano

fortemente una mitologia e un mondo fantastico che propone figure mitiche, esseri

sovrannaturali, confronti e scontri improbabili e apparentemente insuperabili. Tuttavia,

in Miyazaki, a differenza che in Ueda, c’è una ferma convinzione che ci possa essere un

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conclusione armonica delle vicende e che il rapporto tra uomo e natura possa essere

ripristinato, riportando così l’ordine delle cose a una prevalenza del “bene” sul “male”. Si

pensi, ad esempio, a Nauscaa nella valle del vento, a Il castello errante di Owl e, anche, alla

Città incantata, dove l’acquisizione della consapevolezza da parte dei protagonisti e il

completamento del percorso di iniziazione ristabiliscono l’ordine e portano al lieto fine.

Ben lontano è il messaggio di Shadow of the Colossus da quello di Miyazaki e da quello

della fiaba tradizionale, sia orientale che occidentale. Nata come prodotto del folclore,

spesso serviva proprio per “formare” gli animi, per incentivare o scoraggiare

comportamenti, per tramandare di generazione in generazione in sistema di valori ben

preciso e codificato. Oggi questa non è più, tuttavia, la funzione di questo tipo di

narrazione: la fiaba, il racconto fantastico fiabesco non vogliono più essere, almeno

nella declinazione di Fumito Ueda, un sistema metaforico e accessibile per comunicare

dei valori prestabiliti. Vogliono invece riportare un elemento di indeterminatezza e

aprire gli occhi del “lettore” su situazioni che forse un tempo potevano essere

“univoche” ma che ora non lo sono più. I “buoni” e i “cattivi” delle fiabe classiche non

esistono più198.

Un elemento, tuttavia, dell’opera di Ueda, resta fortemente universale: il linguaggio

utilizzato per “comunicare” questa fiaba. Innanzitutto, la decisione di utilizzare la

struttura del racconto fiabesco, con tutti i suoi assoluti, i suoi dogmi indiscutibili, la

presenza di artefatti ed esseri magici, la presenza di un obiettivo, di una quest ben

definita e che appare impossibile per l’eroe sono elementi che tendono a

universalizzare il racconto. Ancora più universale è, però, il “linguaggio” con cui questa

fiaba è narrata. Non esiste, se non per brevissimi tratti, una vera e propria narrazione

198 La fiaba giapponese, ad esempio, è molto legata ad elementi tradizionali quali i fantasmi, i demoni e, in generale, spiriti e forze

sovrannaturali che si divertono a interferire con la vita degli uomini. A differenza delle fiabe della nostra tradizione popolare che, pur conservando senza dubbio un sostrato mistico e magico, si concentrano spesso su vicende più concrete (principesse da salvare, regni da riconquistare, nemici in carne e ossa da sconfiggere), la fiaba giapponese recupera continuamente i demoni della tradizione: gli eroi sono sempre in lotta contro uno spirito ribelle, magari intrappolato per lunghi anni e accidentalmente liberato, o ancora con forze ancestrali che minacciano l’intera Terra. Un esempio rinomato e assolutamente efficace di fiaba giapponese nei videogiochi è il caso di Okami, un videogioco prodotto dai Clovers Studios e distribuito nel 2007: la dea Amaterasu deve riportare la vita e il colore sulla terra, scacciando nell’ombra la divinità oscura che, liberatasi dalla sua prigionia ancestrale, sta contaminando il regno del Giappone. Questo è solo un esempio: di sicuro, un interessante spunto di ricerca è proprio quello che riguarda la fiaba popolare giapponese e il suo recupero e adattamento nei “racconti” (videoludici o meno) contemporanei.

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verbale: abbiamo solo Lord Emon che, con due frasi brevi e incisive, ci presenta una

situazione di pericolo e, in conclusione, ci fa capire che il suo movente non era la

collera, ma il rispetto del suo ruolo di custode, e abbiamo Dormin, che prima

dell’uccisione di ogni colosso dà una sorta di aiuto criptico e sibillino a Wander. Tutto il

resto della fiaba è narrato unicamente attraverso le azioni del protagonista, che sono

poi le azioni del giocatore. È questa, in effetti, la cifra particolare di Shadow of the

Colossus: tutta la struttura tipica della fiaba è riprodotta attraverso un accurato e

raffinato studio di gameplay*. La semplice narrazione di questa fiaba attraverso

strumenti verbali e non visivo-attivi sarebbe stata solamente l’ennesima trasposizione

di un contesto fantastico/fiabesco con, unico elemento di originalità, la “sconfitta” del

personaggio protagonista e il relativismo spinto dei ruoli dei personaggi. Non avrebbe,

tuttavia, fatto veramente presa e comunicato in maniera efficace con l’audience e il

target di riferimento: questo videogioco, infatti, non è un gioco per bambini, ma è stato

studiato per un pubblico adulto. Ritorna necessario il paragone con Il labirinto del Fauno:

sebbene anche in questo caso la protagonista sia una bambina che deve superare tre

ardue prove per tornare a rivestire il suo ruolo di principessa, la storia è strutturata e

raccontata a degli adulti. La reiterazione delle formule fisse tipiche della fiaba, ma

anche dell’epica, viene riprodotta attraverso la ricorsività delle azioni richieste al

giocatore. Così, anziché recitare ripetutamente nenie e filastrocche, il giocatore deve

concretamente compiere il rito che lo porterà a liberare il demone Dormin e a salvare

Mono.

“Tutti i giorni la figlia del RE andava da Re Pipi nella nicchia, e gli diceva:

Re Pipi fatto a mano Senza penna e calamaro, Sei mesi a setacciarti,

Sei mesi ad impastarti, Sei mesi per spastarti, Sei mesi per rifarti, Sei mesi alla nicchiola E ti viene la parola!

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E per sei mesi, la ragazza continuò a cantagrli questa canzoncina. Alla fine del sesto mese, Re Pipi cominciò a parlare.”199

Queste poche righe di una fiaba originaria della Calabria e riportata da Calvino nella

sua raccolta Fiabe Italiane è uno dei mille esempi che si possono addurre per mostrare

la struttura ricorsiva e sicuramente rituale applicata dai protagonisti/eroi per

raggiungere i loro scopi. Le formule fisse, le filastrocche, le formule magiche, le parole

segrete, tutti questi elementi servivano al narratore (le fiabe nascono da una tradizione

prettamente orale) per ricordare con più facilità gli elementi della storia e all’ascoltatore

per avere la certezza di recepire e comprendere gli elementi salienti della storia stessa.

La reiterazione è un meccanismo che veicola l’apprendimento, la ripetizione sia attiva

che passiva porta all’acquisizione di una consapevolezza che sia più o meno conscia e

che comunque lasci all’ascoltatore, al lettore e, oggi, al giocatore un messaggio che non

sia necessariamente univoco, ma che ognuno possa adattare al proprio contesto, alla

propria situazione e alle proprie circostanze. La fiaba, infatti è anche questo: conferisce

strumenti di interpretazione nuovi a chi potrebbe non averne, o averne di obsoleti,

aiuta ad acquisire consapevolezza e insegna una lezione senza però la pretesa di essere

didascalica o eccessivamente scolastica.

“La fiaba – intesa come mezzo di comunicazione – ha svolto la funzione fondamentale di disciplinare la sfera sociale per mezzo di una sana e consapevole gestione dell’immaginario. In epoca contemporanea, Disney ha rilanciato questo approccio, ammodernando la narrativa fiabesca con l’ausilio del medium cinematografico.

D’altra parte, questo approccio ortodosso al genere fantasy è ormai diventato inconsueto poiché la funzione delle fiabe continua ad evolversi con il mutare delle condizioni socio-culturali.”200

L’efficacia di Shadow of the Colossus (come, sicuramente, del suo predecessore ICO) sta nel

riuscire a mantenere questo ruolo didattico e sociale adattando il proprio linguaggio ai

media contemporanei (e quindi anche ai potenziali ascoltatori contemporanei,

sicuramente diversi da quelli del passato). 199 Calvino, Italo (ed) (1993) Fiabe Italiane, Palomar e Arnoldo Mondadori Editore, Milano, pp. 764-765 200 Mottershead, op. cit. p. 29

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La litania di Shadow of the Colossus, la sua formula magica ripetuta per ben sedici volte

durante il racconto, è il compito di Wander di uccidere i sedici colossi. Dormin fornisce

un’indicazione sibillina (e verbale) all’inizio di ognuna delle missioni di Wander, ma il

significato vero di quelle parole viene compreso sia da Wander che dal giocatore solo

nel momento in cui si trovano faccia a faccia con il nemico e devono studiare la

strategia migliore per sopraffarlo. Il ritmo ha un altalenare sempre ben preciso:

inizialmente Wander è solo nel Sacrario del culto con la presenza ingombrante di

Dormin (che tuttavia è invisibile), il cadavere di Mono sull’altare e il cavallo Agro che

accorre ogni qualvolta l’eroe lo chiami. Poi arriva il momento del viaggio,

dell’esplorazione, ed è il momento in cui Wander deve attraversare sterminate e

affascinanti lande completamente spopolate per raggiungere il rifugio del colosso

successivo. Infine il sublime: Wander si trova al cospetto del colosso, enorme uccello o

terrificante gigante, leone assetato di sangue o gallo dalle dimensioni sovrumane, e

deve, come Davide contro Golia, trovare il punto debole dell’avversario e abbatterlo

senza pietà. Nel primo libro di Samuele leggiamo la presentazione del gigante filisteo

Golia:

“Dall’accampamento dei Filistei uscì un campione, chiamato Golia, di Gat; era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. L`asta della sua lancia era come un subbio di tessitori e la lama dell`asta pesava seicento sicli di ferro; davanti a lui avanzava il suo scudiero. Egli si fermò davanti alle schiere d`Israele e gridò loro: ‘Perché siete usciti e vi siete schierati a battaglia? Non sono io Filisteo e voi servi di Saul? Scegliete un uomo tra di voi che scenda contro di me. Se sarà capace di combattere con me e mi abbatterà, noi saremo vostri schiavi. Se invece prevarrò io su di lui e lo abbatterò, sarete voi nostri schiavi e sarete soggetti a noi’. Il Filisteo aggiungeva: ‘Io ho lanciato oggi una sfida alle schiere d`Israele. Datemi un uomo e combatteremo insieme’. Saul e tutto Israele udirono le parole del Filisteo; ne rimasero colpiti ed ebbero grande paura.”201

A differenza dell’episodio biblico, tuttavia, i colossi non sono entità aggressive, né

appare esserci un conflitto o una guerra in corso. Il fatto che sia l’eroe a doverli andare

201 Bibbia, Samuele, Libro I, Cap. 17

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a cercare, consapevolmente e reiteratamente, che essi stiano in disparte, isolati, e che

ignorino Wander a meno che questi non li aggredisca esplicitamente li fa percepire al

giocatore come esseri buoni, quasi degli spiriti animisti della natura che vagano per un

mondo dimenticato dall’uomo. È a questo punto che, attraverso l’incalzare dell’azione

che il giocatore deve assecondare, grazie alle musiche e alla frenesia con cui sia Wander

che il cavallo Agro, si comportano, il giocatore viene travolto da quella che appare

essere una sorta di furia omicida immotivata: nonostante infatti si trovi davanti a esseri

che incarnano letteralmente il senso del sublime e che sono vere e proprie meraviglie

della natura, il Wander-giocatore non resiste alla situazione che il game designer nella

realtà e Dormin nella finzione hanno creato a bella posta per lui e cede al peccato

supremo di hybris, arrivando a uccidere delle creature innocenti.

“il Sublime trascina gli ascoltatori, non alla persuasione, ma all’estasi: perché ciò che è meraviglioso s’accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore.”202

I colossi incarnano questo “potere e forza invincibili” e tuttavia i giocatori non

capiscono davanti a quale artificio meraviglioso si trovano. Solo alla fine, quando

ormai è troppo tardi, ci si rende conto di essere stati manipolati. Da ascoltatori attivi

della fiaba ci rendiamo conto di aver sbagliato e non perché, come nelle fiabe classiche,

qualcuno ce lo racconta: abbiamo vissuto in prima persona l’esperienza catartica e

abbiamo veramente imparato la lezione, agendo, emozionandoci, commuovendoci e

scoprendo di aver sbagliato.

Wander è un viaggiatore solo, ed è il giocatore che affronta la sua esistenza e che ha

degli ideali: vuole salvare una giovane, vuole strapparla alla morte. La solitudine dura

per tutto il viaggio, diventa un fardello sempre più pesante e insopportabile, la

marchiatura e le venature nere che compaiono sul corpo di Wander è l’angoscia, il

senso di colpa, la disperazione per non vedere una via d’uscita a quello che sta facendo 202 Pseudo Longino, Trattato sul Sublime

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e per non poter più tornare indietro né smettere, tuttavia, di farlo. L’apice dell’angoscia

e della solitudine viene raggiunto prima dello scontro con l’ultimo colosso. Agro, il

fedele destriero che ha accompagnato Wander attraverso tutte le lande e in tutti gli

scontri contro i giganti muti, si sacrifica per permettere al suo padrone di raggiungere

la sponda opposta del burrone che stanno attraversando insieme: Agro, il nostro unico

appoggio, l’unico essere vivente che ci ricordava ancora la nostra umanità, il più fedele

compagno che ci ha accompagnato attraverso vicissitudini incredibili, cade e scompare

rovinosamente. Restiamo soli, e il peso di questa solitudine è forte, quasi

insopportabile. Il Mago, l’ultimo colosso, è immobile e giudicatorio, un enorme statua

che ci punta il dito contro e ci accusa: noi sappiamo di essere colpevoli, ma dobbiamo

andare fino in fondo. O meglio, è Wander che lo deve fare, ma ormai, continuando ad

agire insieme a lui, continuando a ripetere il rito che il nostro oscuro narratore ci ha

affidato, ormai noi siamo diventati lui e ci rendiamo conto che non è stato lui,

veramente, a compiere tutto il percorso, ma che siamo stati noi. Wander è solo uno

sfortunato strumento nelle mani di tutti: nelle mani di Dormin, innanzitutto, che lo usa

per conquistare la sua libertà, ma anche nelle nostre, che lo usiamo per “vedere come

andrà a finire”.

Tutte queste emozioni, tutte queste riflessioni e suggestioni vengono suggerite al

giocatore in modo rigorosamente e unicamente in modo non verbale. Oltre alle frasi

iniziali e finali di Lord Emon e alle indicazioni “poetiche” di Dormin, il giocatore è

immerso in un ambiente unicamente visivo, musicale e interattivo. È il fare, non la

parola, che veicolano tutti i significati e che fanno emozionare e reagire e intraprendere.

E tutta la struttura non verbale si innesta alla perfezione sull’impostazione teorica della

fiaba, scardinata però dal fatto che il protagonista della narrazione arriva ad essere il

giocatore stesso, non più Wander. L’immedesimazione è totale, e totale è anche il senso

di ricezione del messaggio e di catarsi. Ci fideremo ancora del “diavolo” e stringeremo

ancora un patto con lui in futuro? Forse se Faust avesse potuto vivere quello che lo

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attendeva nel momento della morte e della dannazione eterna della sua anima non

avrebbe fatto la stessa scelta. Forse noi, a questo punto, rifletteremo prima di

danneggiare qualcosa (o qualcuno) perché ricorderemo il brivido freddo dell’emozione

di scoprire di essere dei mostri, e non degli eroi. O forse Faust, come noi, come Wander,

faremmo tutti ancora la stessa scelta: d’altra parte, è tramontata l’era socratica della

conoscenza, in cui si pensava che per fare il bene bastasse conoscerlo. Siamo

sicuramente in una fase più euripidea in cui possiamo decidere, più o meno

consciamente, di fare del male perché, in effetti, bene e male non esistono davvero: alla

fine i colossi sono stati annientati, la nostra anima, anzi quella di Wander, è dannata,

ma Mono è salva.

È questo che Shadow of the Colossus cerca di insegnarci, nel silenzio delle sue iperboliche

emozioni: che non esiste il bene, che non esiste il male. Esistono solo delle scelte ed

esistono solo mondi ed eternità in cui pagheremo queste scelte. È forse un

insegnamento vecchio come il mondo, questo, ma Shadow of the Colossus lo rende “a

misura del nostro tempo”: toglie le parole, ma racconta comunque tanto, e lo fa nel

modo più comprensibile per noi oggi, con immagini, azioni, suggestioni e un intero

universo ai nostri piedi che aspetta solo di essere scoperto e violato. L’insegnamento di

Ueda è così delicato e metaforico che potrebbe essere applicato a qualsiasi aspetto

della vita contemporanea: dalle relazioni personali all’ecologia, dall’economia alla

società e ai paesi. Fortunatamente, nessuna di queste declinazioni viene esplicitamente

inclusa all’interno del gioco, così che le avventure di Wander e Agro possano assumere

quella dimensione metafisica e fortemente universale che caratterizza da sempre le

fiabe e che, anche nel caso di questa fiaba digitale contemporanea, non manca.

Dopo questa analisi più legata alla struttura della fiaba e alle metodologie con cui

veicola i contenuti recuperando e innovando, in parte, i lasciti della fiaba tradizionale, è

interessante passare all’analisi della scelta della simbologia adottata per i nemici. I

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sedici colossi, infatti, sono ipostasi di altrettanti animali o esseri mitici: il Minotauro

(Valus), il Toro (Quadratus), il Cavaliere (Gaius), il Cavallo (Phaedra), l'Uccello (Avion), il

Gigante (Barba), la Torpedine (Hydrus), la Lucertola (Kuromori), la Tartaruga (Basaran), il

Verme della sabbia (Dirge), la Tigre (Celosia), il Mostro marino (Pelagia), il Serpente

volante (Phalanx), il Leone (Cenobia), il Guerriero (Argus), il Mago (Malus).

Le figure presenti in questo elenco si differenziano in due tipologie principali, ossia le

figure tratte dal mondo animale e quelle tratte dal mondo umano203. Tutte, però,

indistintamente, hanno un egual peso all’interno della vicenda e il loro significato e la

loro simbologia ha lo stesso significato, per cui di seguito andremo a dare una

spiegazione.

La struttura di Shadow of the Colossus è quella di un rito: il Wander-giocatore non fa altro

che portare a termine, dall’inizio alla fine, un vero e proprio sacrificio rituale. Nel

momento in cui si capisce che è Dormin il “malvagio” (relativamente parlando) e che i

colossi sono solo ipostasi di porzioni del suo potere, risulta anche chiaro che per

risvegliarlo Wander doveva proprio sacrificare uno a uno i colossi e accumulare, dentro

di sé, le loro energie vitali, fino a liberare quello spirito troppo a lungo represso. È,

metaforicamente parlando, quello che si suppone succedesse alle origini della tragedia

greca: il termine tragedia nasce dal canto, dall’ode (ado) intorno al sacrificio di un capro

(tragos) in onore del dio Dioniso. Il dio, che nell’iconografia classica è rappresentato

proprio con le sembianze metà antropomorfe e metà di un capro, riceveva in dono e

sacrificio un’ipostasi di se stesso. Allo stesso modo, Wander porta a compimento un

sacrificio in cui lo spirito Dormin si vede sacrificare sedici delle sue ipostasi terrene,

grazie alle quali riesce a riacquisire tutta la sua potenza. Allora, i sedici colossi altro non

sono che simboli di qualcosa di ulteriore, nemici (e ostacoli, sia reali che metaforici) che

Wander deve superare per riuscire a diventare quello che è destinato ad essere: un eroe

della decadenza, della morte dell’innocenza e della sofferenza.

203 Per le figure animali, si userà come riferimento il compendio variegato e verificato Rangoni, Lucia (2005) Gli Animali Magici, Xenia

Edizioni, Milano

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Il primo nemico di Wander è il Minotauro. Si sa che l’incipit di una storia (come, a volte,

l’opera prima di un autore) è una sorta di chiave di volta per tutto il racconto

successivo. Così è sicuramente per Shadow of the Colossus. Non sappiamo a quali fonti

abbia effettivamente attinto Ueda nella realizzazione di questo primo colosso, ma

sicuramente la scelta di questa figura mitologica e il fatto che sia assolutamente poco

aggressiva, anche se fortemente inquietante, ce la fa vedere in un’accezione “moderna”:

nel corso dei secoli, partendo dalla mitologia greca, appunto, il Minotauro è stato visto

come un mostro spietato e assetato di sangue, figlio di un’unione scellerata. In tempi

più moderni, tuttavia, è stato, per così dire, “rivalutato”. Borges parla del Minotauro in

due occasioni, principalmente. Nel suo Manuale di zoologia fantastica lo descrive così:

“L’idea di una casa fatta perché la gente si perda è forse più singolare di quella d’un uomo con testa di toro; ma le due reciprocamente s’aiutano, e l’immagine del labirinto conviene all’immagine del minotauro. Ci sta bene, nel centro d’una casa mostruosa, un abitante pure mostruoso.

Il minotauro, mezzo toro e mezzo uomo, nacque dagli amori di PAsifae, regina di Creta, con un toro bianco che Poseidone fece uscire dal mare. Dedalo, autore dell’artificio che permise a quegli amori di realizzarsi, costruì il labirinto per rinchiudervi e occultarvi il figlio mostruoso. Questo mangiava carne umana; (…) Teseo decise di liberare la sua patria da quel gravame e si offrì volontariamente. Arianna, figlia del re, gli dette un filo perché non si perdesse nei corridoi; l’eroe uccise il minotauro e potè uscire dal labirinto. “204

Questa visione rispecchia quella classica, ed è in maniera analoga che Ueda ha

ricostruito il suo colosso, un enorme gigante apparentemente spietato con il corpo

antropomorfo (se non per le dimensioni abnormi) e la testa di toro. Sempre Borges,

tuttavia, parla ancora del Minotauro in Aleph, nel racconto “La casa di Asterione” ed è

proprio a partire da questo racconto che è possibile avere una visione più verosimile

del Minotauro, sia come figura mitologica che, soprattutto, come “primo nemico” di

Wander.

“So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (…) sono ridicole. È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi

204 Borges, Jorge Luis e Guerrero. Marguerita (1962) Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino, p.95

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donneschi né la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce n’è altre sulla faccia della terra. (…) Un’altra menzogna è che io, Asterione, sia un prigioniero (…) Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch’egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. (…) La casa è grande come il mondo. (…) Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto l’intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.(…) So che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d’uomo? O sarà come me?

Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.

‘Lo crederesti, Arianna?’ disse Teseo. ‘Il Minotauro non s’è quasi difeso’.205

È così che il Teseo di Borges vede il Minotauro ed è così che noi vediamo il Minotauro

di Ueda: è un gigante solo, che l’opinione comune identifica come “mostruosità”, che

trascorre la sua vita isolato e di cui, a un primo livello, noi sembriamo non percepire

altro che la mole e la crudeltà. In realtà, però, i suoi occhi ci parlano e ci mostrano una

creatura molto più simile ad Asterione che alla figura della mitologia classica. È un

essere che ha memoria di un potere infinito (è figlio di un dono di Poseidone, è in

fondo parte di un dio) ma che ora è costretto in un corpo “deforme” o quantomeno

non tanto potento quanto era in passato. Allo stesso modo, il nostro colosso, Valus, è

l’incarnazione di una parte di quello spirito potentissimo che è Dormin, in grado di

dare la morte e la vita ma ormai imprigionato nei sedici giganti. Valus vaga, è solo,

come Asterione, in una casa infinita, che è la natura, e aspetta il suo redentore: sì,

perché sia Asterione che Valus stanno aspettando di espiare una colpa che non

appartiene loro. Asterione deve pagare il fio dell’essere figlio illegittimo di un toro e di

una regina, mentre Valus deve custodire per l’eternità parte del potere di un grande

malvagio imprigionato. È così che la fiaba di Shadow of the Colossus ci fa capire, fin

dall’inizio, quello che stiamo facendo. Ci dà degli indizi. I sedici colossi che dobbiamo

uccidere sono tutti, chi più, chi meno, un Asterione smarrito, un povero essere reietto e

205 Borges, Jorge Luis (1989) L’Aleph, Feltrinelli, Milano, pp. 65-68

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rinnegato, frutto di una colpa che non può essere espiata. E Asterione, così come Valus,

così come tutti i colossi, aspetta un vendicatore o meglio un redentore che ne faccia

giustizia e che lo liberi, alla fine, dal giogo della sua solitudine e della sua colpa

inconsapevole. Come Teseo, che non ha una vera consapevolezza, ma un dubbio, un

sussulto, anche noi, nei panni di Wander, abbiamo, in effetti, l’opportunità di capire la

verità della situazione dagli occhi di questo primo gigante innocente: gli occhi sono

azzurri e inermi, quasi dolci. Lo sguardo che percepiamo all’inizio e la facilità con cui

riusciamo ad abbattere questo primo colosso ci dovrebbero far riflettere sulla sua

natura sicuramente non malvagia. Però noi, come Wander, come Teseo, siamo accecati

dalla storia che ben conosciamo e non riusciamo a vedere al di là delle apparenze.

Valus muore, e con lui comincia davvero il nostro “viaggio di formazione” che altro non

è che una vera e propria discesa agli inferi.

Il secondo colosso affrontato da Wander è il toro: questo animale è un animale

archetipico che già in periodo preistorico veniva raffigurato nei dipinti rupestri di

grotte e caverne. Gli è attribuita una forza creatrice e di reggitore del mondo (si veda il

mito). Numerosi sono i miti in che vedono tori unirsi a umani e generare divinità. Oltre

alle famose leggende di Zeus ed Europa (in cui il dio si sarebbe trasformato in toro per

sedurre la bella giovane) e di Dioniso, trasformatosi in toro durante la fuga dai Titani e,

sotto quella forma, da loro sbranato, ricordiamo il culto dei misteri di Cibele e Attis, che

prevedeva l’inondazione rituale con il sangue del toro: questo rito permetteva

all’iniziando di accedere a una “nuova vita”. Oltre all’immagine aggressiva dell’animale

che Wander si trova ad affrontare, quindi, c’è anche questo retroscena simbolico del

lavaggio con il sangue: dopo l’uccisione di ogni colosso, Wander viene come investito

da un vischioso liquido nero, che lo penetra e lo contamina sempre più. “Rinasce a

nuova vita” nel senso che acquisisce, a ogni uccisione, un po’ del potere distribuito nei

vari colossi. Secondo la cultura indiana, il toro è simbolo di abbondanza, vita e fertilità.

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È quindi questa la seconda forza che Wander contrasta e sconfigge: l’idea stessa della

nascita e della vita naturale.

Il Cavaliere è il terzo avversario di Wander: questo “nemico” non appartiene al regno

animale, ma è comunque un archetipo forte delle narrazioni fiabesche. Anche questa

figura ci dovrebbe far mettere in discussione il nostro ruolo di “eroi”: il cavaliere è

solitamente senza macchia, senza colpa, e insegue ideali nobili. Noi ci troviamo a

contrastare una figura di questo tipo, dimenticandoci ancora una volta che siamo noi

ad essere andati in cerca della singolar tenzone e che il vero “buono” è lui, che viveva

come guardiano silente della sua terra, isolato da tutto e da tutti. Wander (noi) non si fa

scrupolo ad abbatterlo, e trova piuttosto stranamente disturbante la forma vagamente

antropomorfa di questo colosso (come sarà anche poi per il Gigante, il Guerriero e il

Mago). Nonostante questo, non ci è dato altro appiglio per ulteriori riflessioni: il

Cavaliere è nostro nemico e dobbiamo annichilirlo in ogni modo. Ci riusciamo e

passiamo oltre, dimenticando quekl senso di confusa incertezza.

Il Cavallo, è un animale particolare: è sia il quarto nemico del nostro eroe che suo

aiutante. Il quarto colosso, infatti, è un cavallo, ma anche Agro è un cavallo (nel senso

stretto del termine). Il cavallo è un animale dalla simbologia ambivalente: da una parte

è considerato intelligente e nobile, dall'altro è il simbolo della forza istintuale. Come

compagno del cavaliere, il cavallo è un animale nobile, forte e coraggioso: Agro, infatti,

compagno di avventure di Wander, vanta proprio queste caratteristiche. Segue il suo

cavaliere ovunque, lo spalleggia nella battaglia, corre in suo aiuto in caso di bisogno. In

realtà, il cavallo, nella mitologia classica, riveste anche il ruolo di psicopompo, e

trasporta le anime dalla terra all'aldilà. Questa proprietà particolare dell'animale va più

applicata ad Agro che al colosso: è infatti sulla groppa di Agro che Wander attraversa

tutte le Terre proibite ed è sempre e solo grazie ad Agro se riesce ad accedere alla

“prova finale”: il cavallo compie la sua missione fino in fondo e si sacrifica per

permettere al cavaliere di raggiungere l'ultimo nemico. In altre tradizioni, tuttavia, come

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in quella celtica, il cavallo è simbolo ctonio e della morte (non più solo mezzo, ma

essenza stessa). Demetra stessa, nel mondo greco, era rafficurata con una testa di

cavallo. Il cavallo collegato alla morte è nero: Agro è Nero, ma anche lo sguardo del

colosso Cavallo è nero, con piccoli occhi azzurri che spuntano da una maschera di

annientamento. Il colosso è istintivo e violento, rapido e scaltro, ha un portamento

nobile e serve da ulteriore “gradino” nella dannazione di Wander, che lo uccide,

portando a termine in questo modo una sorta di “sacrificio alla Morte”. Ancora una

volta, le metafore sono pregnanti: Wander uccide il portatore di morte, e lo uccide per

scacciare proprio la morte (dal corpo di Mono). A poco vale tuttavia questo animale

nella simbologia del gioco, per far acquisire consapevolezza al giocatore: non passa il

messaggio che si sta letteralmente lottando contro la morte e che quest'ultima ha

sempre il predominio. Wander, infatti, salverà la vita di Mono in cambio della propria.

Il quinto avversario di Wander è il Corvo: un enorme uccello lugubre che sta a guardia

di un lago malsano e pieno di rovine annegate. La simbologia legata a questo uccello

varia tra le culture: è visto come un animale profetico e divinatorio, oppure come

lugubre e funesto, talvolta messaggero divino, talvolta rinnegato da Dio, come nella

Bibbia. Il corvo ha una fama sinistra probabilmente perché si nutriva dei cadaveri sui

patiboli, è stato spesso paragonato al demonio perché mangia carne putrefatta e

simbolo di peccato perché cavava gli occhi, specchio dell'anima, e strappava il cervello,

ossia la sede della coscienza dell'uomo. Questo Corvo non arriva a tanto: si limita a

volteggiare funereo sopra il lago in cui Wander si avventura e a cercare di intimorire

l'eroe planando verso di lui. Tuttavia, la funzione che questo colosso ricopre è proprio

quello di presagio funesto e di “dissuasore”: Wander dovrebbe capire, a questo punto,

che tutti i colossi che incontra hanno forma di animali in qualche modo collegati con la

morte, con la necrofagia, con “lo spingersi oltre i limiti umani”. Tuttavia, questi segnali

non vengono colti e per l'ennesima volta Wander pecca di hubris e uccide il Corvo,

addirittura saltandogli addosso e diventando corvo in volo. Certo, il senso di atroce

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tristezza e di orrore che ci pervade mentre attraversiamo le sponde del lago, il brivido

di inquietudine indimenticabile che ci attraversa quando vediamo il corvo in mezzo al

lago, immobile sul suo enorme trespolo, e quando poi spicca il volo verso di noi, sono

tutte sensazione che dovrebbero farci desistere dall'impresa. Ma siamo eroi disperati e

non abbiamo il tempo per ascoltare.

Il Gigante è il sesto colosso: questo, come in fondo tutti i colossi antropomorfi, sono

alter-ego di Wander. Il messaggio da questo, come dalle successive figure, è che

l'esagerazione è, in ogni caso, male. Wander non è malvagio in sé, ma lo può diventare

se interagisce con forze più grandi di lui, allo stesso modo il Gigante è “malvagio”

perché smisurato, fuori scala, abnorme. Tutto quello che è assoluto, nel mondo di

Shadow of the Colossus ha un'accezione negativa, mentre quello che è dimensionato,

quello che è ambivalente anche, che non è un assoluto, insomma, continua ad avere

una speranza di “bontà” e salvezza.

Il settimo colosso è la Torpedine, un animale acquatico che cela un pericoloso potere,

quello dell'elettricità. Questo animale gioca su un territorio completamente estraneo e

ostile a Wander, perché si muove ininterrottamente nuotando forsennatamente in un

lago sconfinato ed emana periodicamente scosse elettriche che stordiscono e

confondono l'eroe. La simbologia che sta alle spalle di questo animale riguarda

l'ostilità della situazione in cui Wander si è addentrato: non è il suo terreno di gioco

quello su cui si trova (l'acqua, metaforicamente) e sta sfidando potenze incontrollabili e

contro le quali può ben poco (le folgori e le scosse elettriche sottacqua sono

confondenti e angoscianti). Tuttavia, ancora una volta, e come succederà fino alla fine,

Wander ignora questi avvertimenti, anzi: affronta ogni prova con maggior

determinazione perché non legge negli ostacoli insormontabili che si trova davanti un

insegnamento utile da imparare. Vede solamente un'ulteriore occasione per dimostrare

la sua caparbia e per portare a termine quella missione che sta, sempre più, diventando

l'unico obiettivo della sua intera esistenza.

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I colossi che vanno dall'ottavo al dodicesimo sembrano tutti ribadire lo stesso

messaggio: Wander sta affrontando un percorso inutile e vanamente testardo. L'ottavo

colosso, ad esempio, è la Salamandra: dall'acqua, si passa al fuoco. Questa creatura era

considerata magica e proverbiale era la sua resistenza al fuoco. Per questa sua capacità

di sopportare il bruciore delle fiamme, nel Medioevo e nel Rinascimento è diventata il

simbolo della pazienza nelle avversità e della castità. Le sue carni (gli occhi, i fluidi)

avevano tutte proprietà magiche. La Salamandra è un colosso scaltro e aggressivo, che

sembra voler testardamente opporsi a Wander per mostrargli l'inutilità del suo

percorso, nonché l'errore e la strada senza uscita in cui si sta addentrando sempre più.

Ancora, il nono colosso, la Tartaruga, cerca di insegnare a Wander i pregi

dell'immobilità e della lentezza, cerca forse, ancora, come già aveva fatto il minotauro,

di impietosirlo e di risvegliare in lui quell'umanità che a ogni uccisione va persa sempre

più.

Il Verme della sabbia, decimo nemico dell'eroe, ricorda un po' la Torpedine: sfida

Wander su un terreno che non è il suo, quello del sottosuolo. Wander deve sfruttare

tutta la sua astuzia e la velocità del fido Agro per tendere dolorose e ripetute

imboscate al Verme della sabbia fino a che questo, stremato, non si fa raggiungere dal

ragazzo e finire con il solito colpo di grazia: uno o più colpi di spada che fanno

fuoriuscire tutta la vita.

La Tigre, undicesimo avversario, così come il Leone, quattordicesimo colosso, sono

l'emblema della potenza e del predominio: Wander si trova a combattere contro due

archetipi del potere e del controllo. Una volta eliminati questi, l'eroe vede come

legittimato il proprio potere di Re all'interno delle Terre proibite che sta esplorando. Sia

la Tigre che il Leone richiedono più astuzia che forza, più riflessi che cattiveria e

vengono, in fondo, annientati, dalla loro stessa rabbia che diventa incontrollabile

quando si rendono conto di stare per essere sopraffatti. Allo stesso modo, Wander

dovrebbe rendersi conto che i suoi desideri, le sue pulsioni e la sua ambizione lo

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stanno facendo spingere troppo oltre. Durante lo scontro con questi ultimi colossi,

l'obiettivo finale della sua missione non sembra nemmeno più quello di salavare

Mono, ma quello di completare un task, un insieme di compiti precostituito, per

arrivare a dimostrare la sua supremazia su quelle forze incontrollate e grottesche che

sono i colossi (e quindi la Natura, di cui sono evidenti servi).

Il Mostro marino è il dodicesimo colosso: anfibio, questo mostro ricorda molto le rane e

i ranocchi, di dimensioni ovviamente spropositate. La sua natura a metà tra terrestre e

acquatica non gli consente di avere alcuna conntazione positiva. Come il rospo è

velenoso, pericoloso, i suoi fluidi (urina, alito, bava) sono letali, acceca e confonde

l'eroe, è un po' l'anticamera di tutto il male incontro a cui l'eroe sta andando. Senza

tralasciare il fatto che, a questo punto, sia Wander che il giocatore sono stremati, il

corpo dell'eroe è corrotto, il giocatore vuole vedere come finisce la storia di questo

sfortunato ragazzo e prova un sottile e innegabile senso di colpa per tutte le uccisioni

che ha commesso.

Prima degli ultimi due colossi, ossia il Guerriero e il Mago, abbiamo il Serpente volante,

il quattordicesimo colosso, forse il più spettacolare di tutti: è un adattamento di quello

che nella cultura classica è il Basilisco. A differenza del Verme della sabbia, il Serpente

volante non striscia sulla terra ma procede austero e indifferente nel cielo. Plinio, nel

Naturalis Historia lo descrive così:

“È un serpente lungo solo dodici dita. Ha una macchia bianca sulla testa a forma di diadema. Il suo sibilo fa fuggire tutti i serpenti. Non striscia sinuosamente come tutti gli altri rettili, ma avanza con il corpo eretto a metà. (...) È accaduto veramente che un uomo a cavallo uccise un Basilisco colpendolo con la lancia, ma il veleno seguì la lancia come se fosse di un materiale conducente e uccise non soltanto il cavaliere, ma anche il cavallo.”

Il Basilisco, tradizionalmente, è un essere pericoloso: il solo sguardo, il solo alito sono

letali. Nell'iconografia medievale il Basilisco si ibrida e diventa un mostro con cresta di

gallo, corna, ali e coda di serpente. Questa creatura risiede nel deserto, o meglio, crea il

deserto intorno a sé.

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Ancora Plinio riporta: “Ai suoi piedi cadono morti gli uccelli e imputridiscono i frutti;

l'acqua dei ruscelli a cui s'abbevera rimane avvelenata per secoli.”

È la manifestazione ultima della morte e della distruzione. È l'emblema della fine della

vita. E nonostante questo, l'eroe deve andare a scovarlo nel suo sconfinato deserto,

deve attirarlo a sé e dominarlo, soggiogarlo e infine ucciderlo, senza farsi contaminare

dalle enormi sacche di fluidi venefici che il Basilisco produce e sprigiona in sua difesa. È

proprio Wander,l' “uomo a cavallo” che uccide il Basilisco (che, più che una

connotazione classica, nel gioco ha un'estetica medievale). Tuttavia, come narra la

leggenda, l'uomo e il cavallo non possono sopravvivere al veleno del mostro, che li

segue come un ombra e che decreta la loro fine. Rapido e mostruoso, gigantesco e

terrificante, il Basilisco è l'ultima porta che Wander deve attraversare prima di arrivare

agli ultimi due custodi del potere a cui tanto agogna.

Oltre al Leone che, con la Tigre, come abbiamo già visto, rappresentano l'ultimo

disperato e violento tentativo della Natura di fermare Wander, arrivando addirittura

all'aggressività e alla violenza pure (il Leone è uno dei colossi più terrificanti perché a

differenza degli altri è agile e insegue Wander fino a lasciarlo senza fiato), abbiamo

infine il Guerriero e il Mago. Queste due figure sono complementari e rappresentano i

due poteri, quello militare e quello spirituale/religioso.

Il Guerriero infatti è un colosso che vive nei pressi di un enorme palazzo diroccato, che

Wander deve utilizzare come base d'appoggio per sconfiggere l'avversario. È il potere

fisico e materiale, militare appunto, la forza umana che tenta, senza riuscirci, di

ricacciare l'invasore che ha superato tutte le altre barriere. Questo è decisamente

aggressivo. A differenza degli altri colossi di enormi dimensioni che vagavano

pressoché indifferenti all'interno del loro spazio (la prerogativa della rapidità e

dell'aggressività erano riservate ai colossi più piccoli, come il Toro o il Leone), il

Guerriero è sia enorme che aggressivo e rapido. Insegue Wander con la sua arma e non

gli dà tregua. Quando Wander riesce a fargli distruggere la spada contro un costone di

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roccia il colosso diventa ancora più assetato di sangue e cerca in ogni modo di colpire

l'eroe. Gli occhi di questo nemico, a differenza degli occhi di tutti gli altri, sono meno

docili e compassionevoli. Si scorge però un sentimento che è più cieca disperazione che

crudele malvagità. Questo non ferma Wander, che fa crollare il palazzo addosso al

mostro e che arriva, ormai senza forze, corrotto nel corpo e nello spirito, al cospetto del

Mago, l'ultimo nemico e barriera tra l'eroe e la salvezza della giovane Mono.

Trovarsi al cospetto del Mago, sia per Wander che per il giocatore, è un'esperienza

emotiva forte: Wander ha appena perso l'unico compagno della sua avventura, quel

cavallo che lo faceva ancora sentire umano. Il giocatore è consapevole che è giunto al

termine del proprio percorso, e tuttavia sa che ora dovrà affrontare sicuramente il

nemico più ostico di tutti (è sempre così, nei videogiochi come nelle fiabe: l'ultimo

l'avversario è sempre il più temibile e il più acerrimo). Il Mago è immobile. Un enorme

ammasso di cingoli, meccanismi, ferro e volontà piazzato in mezzo a una sorta di

labirinto crollato. Indica Wander con il dito, da cui partono spietate saette che uccidono

in un sol colpo l'eroe, qualora lo colpiscano. Il Mago è la manifestazione della coscienza

di Wander, è il senso di colpa, è la vergogna. Il giocatore, così come Wander,

acquisiscono la consapevolezza, affrontando il Mago, che il loro percorso è stato

“sbagliato”. Per la prima volta Wander percepisce il proprio peccato di hubris, ha paura,

si sente “in trappola” e in effetti lo è: in tutte le altre circostanze poteva temporeggiare,

poteva esplorare il territorio, qui non può. Deve solo progredire passo dopo passo, in

questo labirinto di muri crollati e scale che non portano da nessuna parte fino ad

arrivare ai piedi del colosso. Arrampicarsi su questa struttura, a metà tra un'opera di

ingegno e creatività architettonica e un essere malato e disperato è una vera e propria

agonia. Uccidere questo colosso, una volta arrivati in cima, è quasi facile. Il suo crollo è

il crollo di un mondo. Viene infranta nuovamente quella barriera che racchiudeva lo

spirito di Dormin, il potere viene convogliato tutto all'interno del corpo di Wander che

dapprima diventa onnipotente, poi soccombe e viene distrutto da Lord Emon,

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guardiano di quel potere che era stato solo suddiviso tra antiche figure archetipiche di

un'umanità ormai scomparsa e che ora deve essere totalmente cancellato.

Mono si risveglia, ma Wander è dannato. Paradossalmente e con un'ironia tipica solo

del fantastico, l'eroe muore ma si reincarna in un bambino con le corna, di cui si

prenderà cura Mono stessa e che darà via a una stirpe di bambini con le corna uno dei

quali dovrà, un giorno, espiare l'atroce colpa di cui si è macchiato l’antenato Wander.

Ecco che allora Wander era davvero il “redentore” che Asterione/Valus si aspettava,

all'inizio del gioco. Ecco che la similitudine con la vicenda di Teseo e del Minotauro

torna a manifestarsi. Anche questa volta, come allora, l'eroe trionfa e vince, ma la sua è

una vittoria di Pirro: Teseo perderà il padre e l'amore, mentre Wander perderà la vita e

dannerà la sua stirpe per i secoli a venire.

Prima di terminare l’analisi per passare alle conclusioni, è necessario riflettere sullo

spazio del gioco e sulla caratterizzazione estetica di Shadow of the Colossus che porta con

sé una determinata funzionalità e un determinato gameplay*. Lo spazio in cui il

giocatore si muove ha, come il protagonista stesso, una caratterizzazione chiara e

tuttavia una funzionalità duplice, quasi antitetica. Abbiamo già parlato dell’analogia

che intercorre tra le lande di Shadow of the Colossus e, ad esempio, i mondi à la Miyazaki:

come nella cultura giapponese, ma come anche nelle fiabe occidentali, la natura è

percepita e, quindi, rappresentata, come una forza enorme, possente, sconfinata.

L’uomo, al suo cospetto, è piccolo, infinitesimale, disperso quasi. La natura è sovrana,

incontrastata, ma soprattutto imprevedibile. Pertanto, da una parte l’ambiente di gioco

e lo spazio della finzione contribuiscono a rimarcare il sentimento della quest,

dell’esplorazione e del viaggio, dall’altra la varietà di ambienti, che è peraltro pari alla

varietà di creature che l’eroe incontra nel suo cammino, è disorientante e ha una

funzione ben precisa e opposta a quella “confortevole” di rinforzare nella mente di chi

gioca l’archetipo del viaggio di iniziazione. Wander affronta sedici colossi, ognuno dei

quali vive in un ambiente diverso: un altopiano in cima a una montagna da scalare,

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una depressione che sembra arrivare al centro della terra, il parco di un tempio, una

torre, un lago, il deserto, e ancora il cielo stesso, una tomba, un’isola sospesa in mezzo a

un lago scuro. La varietà di elementi naturali in cui Wander si deve “immergere” per

portare a termine la propria missione toglie un contesto preciso alle sue avventure, ma

fa, in effetti, risaltare il ruolo centrale della natura: il giocatore, accompagnato

dall’avatar* dell’eroe, è sfidato a cimentarsi con diversi elementi e sostanze naturali ed è

sfidato ad adattarsi, a capire come reagire agli stimoli, a trovare le strategie più efficaci

per sconfiggere non solo i singoli colossi, ma per confrontarsi anche con le forze della

natura sotto forma di manifestazioni contingenti. Il viaggio di Wander prevede che egli

passi dal freddo dell’acqua di un lago al caldo di un deserto senza vita, dalle profondità

marine alle vette degli altipiani, dai labirinti ai sacrari, e così via. L’alternanza di luoghi

contribuisce ad accentuare il senso del viaggio del nostro protagonista ma, in fin dei

conti, è fondamentale anche per influenzare il gameplay*: tocca la narrazione e,

insieme, le dinamiche di gioco. La nostra percezione è quella di affrontare un’avventura

vera e propria, di girare il mondo e, anche se comunque sappiamo che siamo in una

terra ben delimitata, ci dimentichiamo di questo vincolo e viaggiamo con la mente

attraverso tutti gli scenari attraverso cui il gioco ci porta. D’altra parte, la varietà dei

colossi serve anche ad aggiungere difficoltà alla sfida: ognuno di essi, infatti, deve

essere affrontato e sconfitto secondo regole particolari, che variano di volta in volta e

che dipendono, in parte, anche dalla fisica e dagli elementi naturali del contesto in cui

Wander si trova ad affrontarli. Lo spazio allora, non veicola solo una componente

narrativa, quella cioè che ci fa percepire questo spazio virtuale* come un immenso

mondo da esplorare e che, proprio come il nostro mondo ideale delle fiabe, è pieno di

luoghi diversi e possibili, anche opposti e molto lontani tra loro. Lo spazio ci fornisce

anche il sostrato per i cambiamenti del gameplay* del gioco: affrontare un nemico

nell’acqua o sconfiggerlo nella sabbia, adattarsi alla fisica del volo o avere l’aiuto del

nostro destriero, tutte queste variabili ci fanno affrontare ogni colosso in modo unico,

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perché unico è sia il messaggio che quel colosso porta con sé a livello simbolico (e li

abbiamo precedentemente analizzati) sia il gameplay* e le meccaniche che l’ambiente

in cui il colosso vive ci impongono.

Nonostante la sua natura di eroe “ambiguo”, Wander porta a termine, proprio grazie

allo spazio della narrazione, il suo percorso di iniziazione. La varietà dei luoghi, oltre a

conferire una notevole varietà al viaggio dell’eroe, sia dal punto di vista estetico che da

quello funzionale e di gioco, fa letteralmente viaggiare tanto l’avatar* quanto il

giocatore attraverso un percorso che porta ai confini dei propri limiti: chi affronta

l’iniziazione e il viaggio viene sottoposto a ogni contesto, ogni possibilità, ogni dura

prova, e ogni contesto, possibilità e prova vengono superati con successo.

L’interrogativo, tuttavia, rimane: il nostro viaggio è stato di salvazione o di dannazione?

C’è del buono in quello che abbiamo cercato di fare, o si è trattato solamente di un

peccato di superbia?

Chi trionfa in questa storia? Chi ha la meglio? Chi vince, al di là di tutto? Ovviamente,

nessuno. Al di là del mondo delle fiabe, l'insegnamento che Shadow of the Colossus e

Fumito Ueda intendono trasmettere è che non possiamo ribellarci al nostro percorso,

per quanto discutibile, relativo ed eticamente criticabile esso sia. Ognuno di noi ricopre

un ruolo, che appare fisso e ben caratterizzato all'inizio ma che si rivela pieno di

sfaccettature e di ombre, soprattutto, con l'andare del tempo. La vicenda di Wander e la

triste fine dei Colossi ci fa vivere un'esperienza di profonda solitudine e fatalismo, che

riusciamo a interiorizzare tanto meglio quanto più il linguaggio con cui ci viene

comunicata è interattivo e coinvolgente (e più visivo che verbale), ma anche grazie al

fatto che gli archetipi e le figure di questa storia sono quelle che tutti noi conosciamo

bene, quelle delle fiabe, e tuttavia vengono stravolte o, meglio, viste sotto una nuova

luce, più relativista.

Impariamo (o forse, solamente, ci ricordiamo) che anche se assistiamo a narrazioni di

fantasia, le emozioni che proviamo sono reali e i pensieri, i dubbi, le perplessità che ci

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attraversano la mente mentre leggiamo, mentre guardiamo, mentre soprattutto

giochiamo e agiamo restano con noi anche quando la storia è finita, i personaggi

scomparsi nella nebbia delle parole “The End” e quello che abbiamo imparato,

attraverso tutta questa storia e questa emozione, resterà con noi anche in quel mondo

dove, davvero, non esistono eroi, né principesse da salvare, né nemici chiari e

inequivocabili da affrontare. Al di là del bene e del male, capiamo che non c'è una

verità e che sono solo le nostre scelte che contano: sono le nostre scelte che ci possono

salvare o dannare. O entrambe le cose insieme.

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Silent Hill 2: l’orrore psicologico e l’esplorazione del cuore umano L’analisi di una serie come quella di Silent Hill risulta una scelta quasi obbligata quando

si parla di videogioco e narrazione. Ancora di più risulta fondamentale nell’ottica di un

discorso legato alla narrazione fantastica attraverso i generi, dalla letteratura al

videogame. Le ambizioni con cui questa serie è nata sono state, infatti, tra le altre,

quelle di conciliare l’orrore e l’azione nel videogame con il concetto di avventura,

esplorazione e risoluzione degli enigmi e, in secondo luogo, è stata centrale la volontà

di costruire un cosmo coerente, popolato di personaggi che fossero individui, e non

solo tipi, e di riprendere e riutilizzare in modo efficace suggestioni, emozioni, tecniche e

strategie che facilitassero l’immersione e il coinvolgimento emotivo, più che razionale,

del giocatore nel mondo di gioco.

Per capire a fondo l’importanza che rivestono la trama, i personaggi e la stessa

ambientazione nell’intera saga di Silent Hill, è necessario tracciare una breve

panoramica della serie, soffermandosi sugli elementi principali, per poi passare a

esaminare nel dettaglio il secondo episodio della saga con i suoi parallelismi ed

elementi di novità rispetto al (neo)gotico e horror letterario.

Silent Hill è un’anonima cittadina americana emblema della semplicità e dell’ordine,

infrastruttura ideale per condurre vite quiete, metodiche e prevedibili. La scuola,

l’ospedale, la chiesa, le vie con i negozi, gli appartamenti e le villette, tutti questi

elementi costituiscono lo scenario comune degli eventi dei diversi episodi del gioco.

Un ambiente in teoria confortevole, rassicurante, familiare per certi versi, se si pensa

che il target medio di questo prodotto dovevano essere americani ed europei, che

potevano ritrovare elementi della propria quotidianità in questa lineare e accogliente

struttura urbana. L’approccio al fantastico, in questo caso, prende in considerazione la

sua declinazione “horror”, che, da Edgar Allan Poe in avanti, ha contribuito a creare

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universi in cui elementi apparentemente “normali” e ordinari diventano, tutto d’un

tratto, inquietanti e morbosi. È la concretizzazione di quello che descriveva Eric Rabkin

parlando del fantastico: il ritrovare un “ordine” a ogni costo, anche un ordine

inquietante e raccapricciante:

The real world is a messy place where dust accumulates and people die for no good reason and crime often pays and true love doesn’t conquer much. In one sense all art is fantastic simply because it offers us worlds in which some order, whatever that may be, prevails.206

Inizialmente (sia in Silent Hill 2 che nei mondi dell’orrore in generale) questa istanza

d’ordine sembra mancare completamente: sembra che il personaggio sia in balia del

caso, che le leggi naturali, più che stravolte, siano annullate. In realtà, questo non è

esattamente quello che accade: il giocatore che esplora Silent Hill si renderà conto che

non si trova davanti a un sistema aleatorio e casuale, ma che esistono leggi e

motivazioni ben precise alla base della sua esplorazione e degli avvenimenti davanti a

cui si trova.

Silent Hill è una città deserta, abbandonata, dove la “normalità” è un lontano ricordo e

le persone, i mestieri, i luoghi un tempo popolati, vivi e vitali si sono trasformati in

ombre e pallidi fantasmi. Silent Hill però non è una semplice città di fantasmi, è una

città tentacolare, una spugna che assorbe gli incubi di chi la visita, trasformandosi di

volta in volta in percorso di scoperta e catarsi.

Nel primo episodio della saga, seguiamo Harry Mason che cerca sua figlia Cheryl,

misteriosamente scomparsa nei pressi di Silent Hill dopo un incidente in auto con il

padre. L’angoscia dell’esplorazione per la ricerca di una bambina di sette anni viene

rimarcata dall’orrore in cui Harry incappa vagando per le strade della città. Cadaveri e

mutilazioni sembrano essere la norma e il disgusto e l’orrore si affiancano al terrore

della scoperta della vera storia di Cheryl, orfana trovata da Harry e sua moglie sette

anni prima, per caso. Tra spaventosi colpi di scena, svenimenti, Harry si trova a cercare

la figlia in preda a un continuo stato confusionale: la città si “modifica” ripetutamente, 206 Rabkin, Eric (ed.) (1979) Fantastic Worlds. Myth, Tales and Stories, Oxford University Press, Oxford, p. 4

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non nella struttura ma nell’apparenza, i luoghi restano gli stessi ma divengono via via

più mostruosi, devastati, sempre più macchiati di sangue e di angoscia. Harry scoprirà

che la figlia Cheryl è in realtà la “parte buona” di un’altra bambina, Alessa Gillespie:

Alessa, adottata anni prima da un’abitante di Silent Hill di nome Dahlia, ha subito le

angherie della madre adottiva e della setta di cui era a capo, fino a essere bruciata viva

per venire purificata e per permettere a Dahlia di raggiungere i suoi obiettivi, dettati

dalla follia esoterica di cui era schiava. Nel finale, più o meno amaro a seconda delle

scelte dei giocatori, vediamo Harry morire, oppure salvarsi e portare con sé in salvo non

più Cheryl, bensì Alessa che, completa e “riunificata”, finalmente, può avere un padre

vero, pronto a sacrificarsi per lei.

Con un salto temporale passiamo al terzo episodio, in cui una giovane adolescente,

Heather, vede un normale centro commerciale trasformarsi in un luogo di orrori e cerca,

collaborando con un ambiguo investigatore che non capisce se sia un aiutante o un

antagonista, di tornare a casa dal padre, per cercare aiuto. Il padre di Heather altri non è

che Harry Mason, il protagonista del primo episodio: grazie a questo collegamento, il

giocatore capisce immediatamente che il personaggio con cui sta affrontando questa

avventura, ossia Heather, altri non è che Alessa, la bambina dannata e salvata da Silent

Hill. Consapevole del proprio destino, Heather/Alessa tornerà a Silent Hill per affrontare

la setta religiosa che ancora una volta la sta tormentando e, attraverso immani

sofferenze e affacciandosi sull’orlo della follia, riuscirà nel suo intento di cancellare i

fantasmi del proprio passato, per vivere una vita libera.

Il quarto episodio risulta essere uno spin off della serie e non è collegato in alcun modo

al primo e al terzo. Il protagonista, Henry, si trova a fronteggiare un serial killer, Walter

Sullivan, che cerca di tornare in vita attraverso un macabro rituale di sangue, sfruttando

il corpo di un bambino per compiere gli atroci delitti. In parte ambientato in un

appartamento, in parte di nuovo legato all’esplorazione della cittadina, questo

episodio è particolarmente claustrofobico e recupera diversi elementi di genere horror

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in modo molto più esplicito che in tutti gli altri episodi della serie. Anche in questo

caso, il finale dipende da alcune scelte del giocatore e varia dalla morte del

protagonista, che vede vanificati i suoi tentativi di fermare il redivivo omicida, alla

sconfitta dell’assassino che viene relegato nel suo limbo di non-vita, incapace di

nuocere ai vivi.

L’ultimo episodio finora distribuito, Silent Hill Origins per PlayStationPortable, permette

al giocatore di seguire le vicende di Travis, un camionista che salva una bambina da un

incendio e si trova, ancora, intrappolato nelle spire della malsana cittadina. Dopo una

lunga e angosciosa esplorazione dell’ospedale, del motel, del teatro, Travis riesce a

scoprire la verità sia sulle sue origini che sul destino travagliato di Alessa, osservando

prima il suo dolore e la sua rabbia, infine la sua liberazione nelle “reincarnazioni”

successive (in particolare in Heather, che riesce veramente ad emanciparsi dalla

maledizione che ha accompagnato il suo spirito).

Questa breve e generica panoramica sui vari episodi della saga serve per fornire un

accenno alle tematiche forti della serie e per inquadrare, all’interno di un genere già

definito come “horror” in cinema e letteratura e che diventa invece “survival horror” nei

videogiochi, i capitoli della serie che ripropongono in modo più “tradizionale”

argomenti, personaggi e storie appartenenti a questo genere. Tematiche quali la

religione, l’ossessione per l’immortalità, la maternità e la paternità, l’aberrazione e la

mostruosità di creature che appaiono infantili e innocenti ma che sono in realtà

demoniache e perfide, serial killer che tramano vendetta dall’oltretomba, sono comuni

per letteratura e cinema. Tuttavia, l’originalità della saga di Silent Hill è duplice: da una

parte, è riuscita a portare un determinato tipo di tematiche (quelle dell’orrore, appunto)

nei videogiochi, là dove altre saghe, come quella di Resident Evil o Alone in the Dark

avevano già dato o si apprestavano a dare un contributo significativo. Dall’altra, la

peculiarità di Silent Hill sta nel fatto che queste tematiche vengono comunicate al

giocatore non unicamente in modo spettacolarizzato e diretto, ma attraverso la

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creazione di un’atmosfera analoga a quella delle opere letterarie dell’orrore di livello

più alto. La struttura narrativa del gioco, il ritmo, l’introduzione di personaggi e

situazioni: questi sono gli espedienti narrativi attraverso cui Silent Hill costruisce

l’orrore, e non attraverso apparizioni subitanee e inaspettate. In realtà, Resident Evil e

Alone in the Dark sono saghe più prettamente “di azione”, in cui l’orrore scaturisce

principalmente da elementi disgustosi, da colpi di scena inaspettati o dalla costante

situazione di pericolo legata alla difficoltà vera e propria del gioco in cui il giocatore si

trova. Temere per l’incolumità del personaggio, trovarsi faccia a faccia con mostri

raccapriccianti senza il minimo preavviso, dover ripetere più e più volte lo stesso

percorso di terrore per riuscire, solo dopo innumerevoli tentativi, a sconfiggere

l’avversario sono i punti nodali su cui si basa il terrore di queste due saghe. Silent Hill si

comporta diversamente: cerca, letteralmente, di trasmettere una sensazione di orrore

psicologico e interiore al giocatore, non unicamente di spaventarlo con trovate da

Grand Guignol ma di inquietarlo facendo intravedere scenari macabri e disturbanti,

non solo violenti o gore. Per opporsi come contraddittorio di classe e d’atmosfera a

prodotti più chiassosi come Resident Evil, Silent Hill doveva impostare la propria

struttura, sia narrativa che di gameplay*, in modo diverso dai predecessori e doveva

avvicinarsi di più alle suggestioni derivanti dall’horror classico, per apprendere

un’importante lezione, che pare aver ben assimilato: il fruitore non deve essere

solamente investito di un’estetica mostruosa, di un’apparire sanguinolento e

inaspettato. Il vero orrore è sempre più quello psicologico ed è proprio questo tipo di

orrore che Silent Hill vuole trasmettere ai propri fruitori. Quindi l’oggetto della nostra

morbosa curiosità e del nostro morboso desiderio di essere spaventati non sono né

devono essere il mostro e la mostruosità in sé, piuttosto l’intera struttura narrativa

all’interno della quale il mostro è inserito: non è quindi l’apparizione inaspettata di un

orrore “trascendente” che invade la percezione (e lo schermo) del giocatore, ma è

l’immanenza del disagio, del disgusto e dell’inquietudine che riescono a trasmettere

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una sensazione di paura al fruitore. Il contesto, il mondo e, per così dire, l’universo

costruito e alimentato con Silent Hill sono allora la patria dell’orrore psicologico, che

scava nella psicologia dei personaggi (che quindi devono avere una psicologia, devono

essere dei personaggi e non dei semplici tipi) e in quella del giocatore.

Nella breve panoramica sulle vicende dei quattro episodi della serie, spicca l’assenza del

secondo, Silent Hill 2, che sarà l’oggetto dell’analisi delle prossime pagine. Sviluppato

dal Team Silent di Konami e rilasciato nel settembre del 2001, il gioco è un single-player

off-line giapponese. La scelta di questo titolo rispetto agli altri della serie è legata alla

sua natura più “raffinata”, all’enorme e fondamentale importanza che ha la trama sul

gameplay* e alla delicatezza delle tematiche affrontate, nonché dal fatto che,

dall’analisi di ambiente, personaggi, simbologia di questo titolo si possono riscontrare

confortanti analogie con le strutture narrative tipiche dei racconti dell’orrore da Poe a

Lovecraft, per citare due fonti primarie, passando per Stephen King, fino ad arrivare a

registi cinematografici quali Lynch e Romero, ma anche innovazioni ed espedienti

narrativi per suscitare orrore e inquietudine che derivano invece dal nuovo mezzo su

cui queste storie e queste tematiche, ormai sdoganate e affermate in altri media,

vengono affrontate.

Il giocatore veste i panni di James Sunderland, un protagonista combattuto ed

evidentemente problematico: James è un giovane uomo, rimasto vedovo in seguito

alla morte per malattia della moglie Mary. Nonostante siano passati tre anni dalla

morte di Mary, James vive ancora in uno strano limbo di attesa, come se la situazione

non fosse realmente risolta. Intrisa di dolore, la vita di James continua nella

rassegnazione fino a quando non riceve una lettera firmata dalla moglie defunta, che

dice di aspettarlo a Silent Hill, cittadina sul lago Toluca che per loro ha significato tanto.

Consapevole dell’impossibilità della situazione, James non riesce a resistere alla

tentazione di scoprire la verità e si reca a Silent Hill. È qui che il giocatore comincia

realmente a seguire la vicenda di James. Tutto il resto, narrato in voice over, è quasi un

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sogno, una visione, mentre l’arrivo nella cittadina rende tutto reale. La realtà, tuttavia,

non è mai stata messa tanto in discussione: esplorando la città, il giocatore (la cui

esperienza, d’ora in avanti, identificheremo con quella di James) si rende conto che la

fitta nebbia che avvolge ogni cosa è troppo vischiosa e inesauribile e che tutto ciò che

viene visto o intravisto, sentito o percepito è insieme confuso e ambiguo. Non c’è

oggettività a Silent Hill, che James dovrebbe conoscere alla perfezione sebbene egli

non sembri minimamente in grado di orientarsi. L’obiettivo esplicito della vicenda è

quello, da parte di James, di scoprire la verità sulla misteriosa lettera e, eventualmente,

di riunirsi e riabbracciare la tanto amata Mary che egli credeva morta.

La caratterizzazione dei personaggi è uno degli elementi chiave della vicenda.

Innanzitutto, il protagonista James non è un super-eroe videoludico dotato di poteri o

abilità particolari, ma è un uomo comune, quasi senza qualità e anzi annullato e perso

nel dolore mai superato per la morte della sua compagna. Come uno dei personaggi di

Poe, e quindi, in generale, come il protagonista di un racconto dell’orrore ben

caratterizzato, James è un uomo diverso dagli altri, inquieto, si potrebbe dire che è un

personaggio basso-mimetico che vive una condizione particolare. È un uomo alto, sui

trent’anni, apparentemente sano ma con un’ombra sul viso, con un’evidente

inquietudine addosso. La vicenda è ambientata in epoca contemporanea, come lo

testimoniano le tecnologie presenti e utilizzate dai personaggi, quali l’automobile, il

telefono, l’elettricità, ma anche l’edilizia e la configurazione urbana di Silent Hill, di cui

parlerò più avanti. Tuttavia James non sembra quasi essere un uomo post-illuminista,

una mente razionale. Pur essendo stato presente al capezzale della moglie, morta senza

dubbio alcuno tre anni prima, James si fa irretire e trascinare nella inquietante cittadina,

nella speranza di ritrovare Mary: per lui,

“The realities of the world affected me as visions, and as visions only, while the wild ideas of the land of dreams became, in turn,—not the material of my every-day existence-but in very deed that existence utterly and solely in itself.”207

207 http://en.wikisource.org/wiki/Berenice_(Poe)

“Le realtà del mondo m’impressionavano come visioni e niente più che visioni, mentre le folli idee della regione dei sogni erano

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James è un personaggio che fin da subito ci appare visionario, inquieto, disturbato208. È

costruito in modo tale da suscitare un atteggiamento empatico nel giocatore-

spettatore e mantiene senza dubbio una forte coerenza con il genere a cui appartiene

(l’orrore): insicuri, fragili, ossessionati, impegnati solitamente in una quest che è al

confine della morale e del lecito, i personaggi protagonisti di storie dell’orrore si

trovano spesso in situazioni angoscianti e, in apparenza, fortemente legate

all’elemento del sovrannaturale. Malati fisicamente o psicologicamente, sono dotati di

una sensibilità e di una psicologia più raffinata rispetto ad altri personaggi. Sembrano,

in un certo senso, dotati di una spiccata sensibilità artistica e, insieme, afflitti da

qualche insondabile malattia dell’anima. James è la trasposizione videoludica di diverse

proiezioni di personaggi di Edgar Allan Poe: confonde l’incubo con la realtà, vive in

un’alternanza di emozioni prima positive poi negative, nell’angoscia di strane pulsioni

che inizialmente sono completamente represse e che poi, nel corso dell’esplorazione di

Silent Hill (e, parallelamente, del suo inconscio) James vedrà riemergere in modo chiaro

e oggettivo, fino a scoprire la verità sia sulla misteriosa lettera che sulla reale sorte della

moglie Mary.

Durante l’avventura, James può rileggere di continuo le poche e malinconiche righe

inviategli da Mary:

“In my restless dreams I see that town, Silent Hill. You promised you’d take me there again someday. But you never did. Well I’m alone there now… In our ‘special place’… Waiting for you.”209

e fin dall’inizio cercherà di capire quale sia questo “posto speciale”: tutta la città è in

effetti un luogo di ricordi condivisi e proprio la città diventa una antagonista-aiutante

divenute, più che la materia della mia esistenza quotidiana, la mia esistenza per se stessa in assoluto.”207” Tr. “Berenice”, p. 90, in Racconti di Poe, Edgar Allan (1971), Arnoldo Mondadori Editore, Milano

208 La caratterizzazione di personaggio “disturbato” che James, così come molti altri protagonisti di storie horror, si vede attribuire, riguarda principalmente i meccanismi narrativi che regolano il genere stesso: la rappresentazione del reale, infatti, in questi casi, è completamente distorta. Si considera realtà non solo quello che è tangibile (da res, cosa), ma anche quello che è esistente, la cui ontologia è reale. Nel caso di James, quella che vedremo essere la realtà della sua mente e del suo inconscio è andata a sostituire anzi, meglio, a modificare e plasmare con un nuovo volto, la realtà tangibile.

209 Silent Hill 2, 2001, Konami, Intro

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del protagonista, nella scoperta della verità celata sotto la nebbia e sotto tutti le

grottesche vicende e avvenimenti attraverso cui James dovrà avventurarsi per far

riemergere la verità.

“Stay for me there! I will not fail

To meet thee in that hollow vale.”210

È questo l’urlo di aiuto che Mary lancia a James ed egli, prontamente lo accoglie. Lo

accoglie, carico di inquietudine e disagio, proprio come il protagonista de La rovina della

casa degli Usher raccoglie il grido di aiuto del suo amico di vecchia data:

“Its proprietor, Roderick Usher, had been one of my boon companions in boyhood; but many years had elapsed since our last meeting. A letter, however, had lately reached me in a distant part of the country—a letter from him—which, in its wildly importunate nature, had admitted of no other than a personal reply. The MS. gave evidence of nervous agitation. The writer spoke of acute bodily illness, of a mental disorder which oppressed him, and of an earnest desire to see me, as his best, and indeed his only personal friend, with a view of attempting, by the cheerfulness of my society, some alleviation of his malady.”211

La costruzione della suspense e del terrore avviene allo stesso modo, in Poe e in Silent

Hill: una richiesta grottesca e improbabile, una coercizione interna eppure un costante

senso di disagio, come se dovessimo assistere a qualcosa di atroce o venire a

conoscenza di un angoscioso segreto:

“I got a letter. The name on the envelope said ‘Mary’. My wife’s name… It’s ridiculous, couldn’t possibly be true. That’s what I keep telling myself… A dead person can’t write a letter… Mary died of that damn disease three years ago. So then why am I looking for her? Our ‘special place’… What could she mean? This whole town was our special place. Does she mean the park on the lake? We spent the whole day there. Just the two of us, staring at the water. Could Mary really be there? Is she really alive… Waiting for me?”212

210 Exequatur di Henry King, vescovo di Chichester, per la morte della moglie. 211 http://en.wikisource.org/wiki/The_Fall_of_the_House_of_Usher

Tr. “Il proprietario, Rodercik Usher, era stato fra i più cari compagni della mia infanzia, sebbene parecchi anni fossero trascorsi dall’ultimo nostro incontro. E tuttavia, una lettera mi aveva ultimamente raggiunto in una lontana regione del paese, una lettera di lui, il disperato tono della quale non ammetteva altra risposta che la mia presenza. La calligrafia palesava una agitazione nervosa. Ed Usher mi parlava di una acuta malattia fisica, d’uno squilibrio mentale che l’opprimeva, e d’un ardente desiderio di vedermi, chiamandomi il suo migliore ed anzi unico amico.” “La rovina della casa degli Usher”, p. 264, in Racconti di E. A. Poe, Arnoldo Mondadori Editore, 1971 Milano

212 Silent Hill 2, 2001, Konami, Intro

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È questo infatti il motore principale del gioco, la ragione superficiale che spinge sia

James che il giocatore ad affrontare i meandri di Silent Hill (o dell’incontro con Roderick

Usher). La figura di James è completamente funzionale alla dinamica del terrore che

pervade tutto il gioco e che è volta a creare inquietudine e angoscia (in alcuni momenti

letteralmente fisica, in altri più subdolamente psicologica) all’interno del giocatore.

Vengono mischiate due tipologie di “paura”, quella legata all’orrore e quella legata al

terrore: l’orrore è vissuto, attraverso gli occhi di James, nell’incontrare mostri e abomini

fisicamente compromessi, esseri violati nella carne che lo aggrediscono senza lasciargli

altra alternativa se non quella della bruta violenza o della fuga. Tutta Silent Hill è

costellata di questi esseri (di cui parleremo meglio più avanti) e al disgusto e alla

repulsione provata da James (e dal giocatore) si aggiunge l’orrore del fatto che questi

esseri sembrano antropomorfi, e più che “alieni” o esseri provenienti da un’altra

dimensione, paiono esseri umani deturpati e orridamente sfigurati e massacrati.

L’orrore per il sangue suscita l’orrore per la carne, e l’orrore per la carne, per la propria

carne, è il sintomo epidermico del giocatore che affronta Silent Hill. Il disgusto travalica

i confini dello schermo e va a toccare qualcosa che ben conosciamo, ossia la nostra

integrità fisica che, se minata in modo così pesante come sullo schermo, può arrivare a

privarci della nostra umanità.

Recuperando, tuttavia, Lovecraft, leggiamo:

“La vera storia del mistero si basa su elementi che non sono semplicemente un omicidio segreto, ossa insanguinate o un fantasma simile a un lenzuolo che scuote le catene interpretando il suo ruolo canonico. Deve essere presente un’atmosfera mozzafiato, un sentimento di orrore e terrore legato a forze oscure e misteriose; e deve esserci un indizio che, in tono grave e minaccioso, diventa il fulcro della vicenda: un indizio che riguarda qualcosa di inarrivabile per la mente umana, una sospensione della realtà, malefica e surreale, o la sconfitta delle leggi di Natura che sono il nostro unico baluardo a difesa dall’assalto del caos e dei demoni che abitano lo spazio inesplorato.”213

213 Lovecraft, Howard Phillips (1973) Supernatural Horror in Literature, New York, Dover Publications, p. 15

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È esattamente questa sensazione che si cerca di riproporre in Silent Hill. Oltre all’orrore

repentino e “fisico” per il disgusto di ciò che è corrotto (e che tuttavia ci può riguardare

direttamente), l’atmosfera generale crea un forte senso di inquietudine e la trama e i

personaggi agevolano notevolmente questo compito al gioco. James, come è stato

detto finora, è uno degli strumenti principali attraverso cui viene convogliata

l’inquietudine del giocatore: spaventato, disorientato, per alcuni versi appare anche

“malato” (è pallido e ha un’ombra scura sullo sguardo), ma non è l’unico personaggio

della vicenda. L’immedesimazione da parte del giocatore con questo personaggio

problematico avviene grazie a due processi paralleli e complementari. Da una parte, il

giocatore si lascia coinvolgere dalla motivazione che muove l’azione di James: è

necessario scoprire la verità sulla defunta Mary e questa è la quest che sia James che il

giocatore decidono consapevolmente di intraprendere. Il secondo elemento che

contribuisce al legame tra chi gioca e il personaggio è, sicuramente, la condivisione

della responsabilità: il giocatore si accorge che James è “passivo”, spaventato, che ha

bisogno di una guida: si instaura in questo modo un meccanismo per cui il turbamento

e le inquietudini del personaggio diventano uno stimolo al pensiero “razionale” del

giocatore. Il problem solving e l’atteggiamento energico e costruttivo di chi gioca

servono, quindi, per compensare il senso di confusione mentale e il disorientamento

del personaggio. Proprio questo interscambio e questa distribuzione dei ruoli, in cui il

giocatore è praticamente responsabile di quello che accade e accadrà a James,

contribuisce, nella fase finale del gioco, contribuisce a suscitare le emozioni più

disparate: se la vicenda ha un esito positivo per James, il giocatore si sente incredulo e

sorpreso (perché non pensava di pervenire alla verità che scoprirà attraverso le sue

azioni) ma gratificato; se l’esito sarà negativo, il giocatore resterà basito e interdetto,

perché proprio il suo comportamento e il suo “stile di gioco” ha condannato il

personaggio. Il legame tra i due è quindi molto forte.

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Un personaggio che con la sua assenza costruirà un buon clima di tensione e disagio è

proprio Mary, la moglie morta (o solo scomparsa?). Da James sappiamo che “Mary died

of that damn disease three years ago” e che quindi non può essere viva, che il dolore

della perdita dovrebbe essere stato interiorizzato. La malattia di Mary, come scopriremo

nel corso della storia (e in particolare durante il finale), è stata una malattia fortemente

degenerativa, che l’ha ridotta, sempre più lentamente all’inedia, all’immobilità e infine

alla morte, consumandola ogni giorno di più con una lentezza inesorabile.

“—and then—then all is mystery and terror, and a tale which should not be told. Disease—a fatal disease—fell like the simoom upon her frame, and, even while I gazed upon her, the spirit of change swept, over her, pervading her mind, her habits, and her character, and, in a manner the most subtle and terrible, disturbing even the identity of her person! Alas! the destroyer came and went, and the victim—where was she, I knew her not—or knew her no longer as Berenice.”214

Parafrasando con le parole di Poe, è questo quello che accade a Mary: da amante e

sposa, si trasforma in essere orribile e non riconosciuto da chi le sta intorno, e trascina

con sé, in un abisso di tristezza e pietà, tutto quel mondo solare e positivo che le era

stato attorno. James assiste la moglie nella malattia, ma si rende conto che tutto è solo

un’inesorabile scorrere del tempo verso il momento in cui lei morirà e lui, pur nella sua

solitudine, sarà di nuovo libero da quel pesante fardello. Mary è invisibile, eppure

sempre presente: è la causa scatenante del viaggio di James, è identica a Maria, una

giovane donna che James incontra a Silent Hill; si scopre che era amica di Laura, una

dispettosa e malinconica bambina che si aggira da sola per le strade della cittadina e

che per James funge un po’ da guida, un po’ da distrattore. Quella della presenza-

assenza e della “monomania” è in effetti una tematica ricorrente nel racconto d’orrore:

pallide ed emaciate dame che si rivelano vampiri, giovani donne in piena salute che

improvvisamente vengono a mancare, sorelle, cugine, amiche o spose che costellano di

214 http://en.wikisource.org/wiki/Berenice_(Poe)

“E poi, poi non c’è altro che mistero e terrore, ed ecco una novella da non raccontarsi. Un male, un male fatale si abbatté come il simun su di lei; e mentre ancora la stavo guardando, lo spirito della trasformazione scorreva su di lei e pervadeva il suo essere, le sue abitudini, il suo carattere, e alterava, nel più sottile e tremendo dei modi, anche l’identità della sua persona. Ahimè! Il distruttore venne e andò! – e la vittima – dove era lei? Io non la conoscevo più per Berenice.” Tr. Poe, Edgar Allan op. cit. p. 91

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fantasie le menti dei protagonisti. Tutte queste figure, dal Vampiro di Polidori alla

Berenice di Poe, sono accomunate dalla loro presenza-assenza e dal diventare una vera

e propria ossessione per i protagonisti delle narrazioni che sentono una pulsione

irrefrenabile a riavvicinarsi a loro (pur nell’orrore della morte), a esigere un pegno

d’amore (siano essi i denti o quant’altro) o a sacrificare letteralmente loro stessi pur di

scoprire l’atroce segreto dell’amata.

“Ligeia! Buried in the studies of a nature more than all else adapted to deaden impressions of the outward world, it is by that swee torld alone – by Ligeia – that I bring before mine eyes in fancy the image of her who is no more. (…)

There is one dear topic, however, on which my memory fails me not. It is the person of Ligeia. In stature she was tall, somewhat slender, and, in her latter days, even emaciated. I would in vain attempt to portray the majest, the quiet ease of her demeanor, or the incomprensible lightness and elasticity of her footfall. She came and departed as a shadow. I was never made aware of her entrance into my closed study, save by the dear music of her low sweet voice, as she placed her marble hand upon my shoulder.It was the radiance of an opium-dream – an airy and spirit-lifting version more wildly divine than the phantasies which hovered about the slumbering soulse of the daughters of Delos.”215

Questa descrizione che Poe ci fa attraverso il narratore interno di Ligeia sembra, quasi,

una descrizione di Mary-Maria all’interno di Silent Hill: nel gioco, si recuperano infatti

questi stilemi classici di connotazione del personaggio che causa l’ossessione del

protagonista nelle narrazioni dell’orrore. Leggiadria e aspetto malato, dolcezza e

apparente innocenza, bisogno di protezione ma anche fascino morboso: sono queste

caratteristiche che troviamo in questa Ligeia (ma anche, ad esempio, in Berenice) e che

la Mary-Maria di Silent Hill fa sue.

Maria è una donna che James trova a Silent Hill e che, in evidente difficoltà, decide di

aiutare. In realtà, nel corso della storia, il giocatore si rende conto che Maria è l’alter ego

di Mary: sembra essere tutto quello che la moglie di James non era più stata, per colpa

della malattia. Una bellissima donna, spregiudicata, sicura di sé (lavora come ballerina

di lap dance), ammiccante e fortemente attratta da James, è un personaggio molto

ambiguo perché ispira sentimenti contrastanti: da una parte è fortemente attraente e 215 http://en.wikisource.org/wiki/Ligeia

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sembra essere potenzialmente una buona compagna per James, una persona che può

ridonargli un po’ di serenità e di passione; dall’altra, James è sempre inquieto quando si

trova a tu per tu con Maria, la guarda di soppiatto, ne è attratto ma anche ossessionato,

la deve salvare ma, fondamentalmente, non ne è in grado (o, forse, più semplicemente,

non vuole davvero).

Laura, Eddie e Angela sono poi tre personaggi che il protagonista (e il giocatore)

intravede più volte durante lo svolgimento della vicenda e che più che rivestire un

ruolo di aiutanti o antagonisti, contribuiscono al senso di grottesco e inquietante

terrore che, nel corso dello sviluppo degli eventi attanagliano in modo sempre più

serrato James. Laura, una bambina in tenera età, afferma di essere stata compagna di

stanza della defunta Mary e vaga cercando la donna (quasi come se fosse sua madre)

per la nebbiosa e pericolosa città. Angela è una giovane donna, tornata a sua volta a

cercare la madre a Silent Hill: Angela è stata vittima di abusi sessuali da parte del padre

(con cui confonde James più di una volta) ed è chiaramente segnata da questa

esperienza. Eddie è un ragazzo con problemi psichici e fisici: la sua goffaggine e la sua

innocenza lo hanno a lungo reso oggetto di impietosi scherzi e derisioni. È di natura

apparentemente mite, salvo diventare feroce e violento contro chi lo sbeffeggia o lo

schernisce, tant’è che ucciderà brutalmente un uomo, trovato poi da James sul suo

percorso.

Questi personaggi fanno perfettamente parte dell’orizzonte di attesa che circonda

Silent Hill 2 e il genere a cui appartiene: è un videogioco survival horror (in cui, cioè, il

protagonista deve arrivare alla fine della vicenda sopravvivendo a una serie infinita di

orrori e mostruosità) ed è caratterizzato secondo gli stilemi classici delle narrazioni

dell’orrore, gotiche e neo-gotiche. In particolare, il “personaggio” che fa da collante e da

unificatore tra questi attanti comprimari e il protagonista, ossia lo spettatore-giocatore,

è la città stessa che funge, solo in apparenza, da mero teatro degli avvenimenti.

“Benvenuto a Silent Hill! Silent Hill, una tranquilla cittadina in riva al lago, ideale per un po’ di relax. Siamo felici di avervi qui. Con le sue casette tipiche, con il suo splendido paesaggio

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incorniciato dalle montagne e con il suo lago, bello e diverso in ogni momento del giorno, dall’alba al tramonto, Silent Hill vi commuoverà e vi farà emozionare pervadendovi con la sua pace assoluta e la sua tranquillità. Speriamo che possiate trascorrere dei bei momenti e che conserverete il ricordo di questo luogo per sempre.”

Così recita un anonimo depliant trovato in un complesso residenziale della cittadina, in

una delle prime fasi del gioco. Se fin dall’inizio, sia James che il giocatore vengono

pervasi da una molesta sensazione di “sbagliato”, da un costante sentimento di

corrotto, è solo leggendo questo testo che ci si può rendere conto della “perversione”

della situazione: questa descrizione “erronea” o comunque molto distante dal vero è la

prova oggettiva e tangibile che, un tempo, Silent Hill è stata diversa - è stata davvero

un’amena cittadina - e che ora qualcosa di marcio e di disgustoso sta serpeggiando per

le sue strade. Perché è così che vediamo la città, esplorandola sempre più

approfonditamente: come un enorme contenitore vuoto, metafora della vita “normale”

degli uomini, ma anche simbolo di una decadenza e di una marcescenza interiore. Le

nebbiose strade della città ricordano The Mist di Stephen King, ma anche le

ambientazioni dei romanzi neo gotici di McGrath, in cui pallidi e spesso folli

protagonisti si aggirano per scenari inglesi (che siano la città di Londra o la campagna)

nascosti dalla vischiosità della nebbia, persi in questo alone bianco di semi-

(in)coscienza.

La nebbia di King arriva come una sorpresa, ed è il fulcro del racconto: i personaggi,

fino a poco prima abituati al paesaggio che li circondava, si ritrovano disorientati e

spaventati da quello che dovrebbe essere un evento naturale, ma che essi

percepiscono chiaramente come sovrannaturale:

“Billy went for the flag - then stopped. At the same moment I felt Steff go rigid against me, and I saw it myself. The Harrison side of

the lake was gone. It had been buried under a line of bright-white mist, like a fair-weather cloud fallen to earth.

My dream of the night before recurred, and when Steff asked me what it was, the word that nearly jumped first from my mouth was

God.

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"David?"

You couldn't see even a hint of the shoreline over there, but years of looking at Long Lake made me believe that the shoreline wasn't

hidden by much; only yards, maybe. The edge of the mist was nearly ruler-straight.

"What is it, Dad?" Billy yelled. He was in the water up to his knees, groping for the soggy flag.

"Fogbank," I said.”216

A Silent Hill, come in The Mist, è accaduto qualcosa di disumano, pur in un contesto che

ricorda in tutto e per tutto la normalità.

“Il senso di ‘stranezza’ di cui parlava Masashi Tsuboyama è suscitato innanzitutto dalla scoperta di una città desolata, abbandonata dai suoi abitanti (in questo caso, abitanti normali), piombata in una nebbiosa oscurità, un luogo in cui per giunta, nevica fuori stagione. Ci si sente spaventati e disorientati, nel mondo reale, perché è possibile paragonare questa situazione a circostanze quotidiane e si può immaginare quello che proveremmo in una situazione simile. È quello che si prova quando ci si alza la mattina presto e ci si aggira per le strade deserte. È la sensazione di inquietudine che ci assale quando un calo inaspettato di tensione fa cadere la casa in un buio completo.”217

La nebbia, in Silent Hill, ha una storia curiosa, alle spalle. Il motivo principale per cui la

nebbia è stata inserita nel gioco dagli sviluppatori era legato alla potenza di calcolo del

processore della PlayStation, prima piattaforma per cui il primo episodio della serie è

stato sviluppato. Vista, infatti, la possibilità di calcolare e riprodurre, in tempo reale,

tutto l’ambiente 3D circostante al personaggio che poteva muoversi liberamente, gli

sviluppatori hanno aggiunto questo vincolo, questa limitazione: grazie alla nebbia,

infatti, il campo visivo del protagonista (e, di conseguenza, del giocatore) si riducevano

notevolmente. Vista l’efficacia che ha dimostrato nel primo episodio, l’espediente della

nebbia è stato utilizzato ripetutamente anche negli episodi successivi (nonostante

alcune limitazioni tecniche fossero venute meno). In Silent Hill 2, in particolare, l’utilizzo

della nebbia permette di lasciare il giocatore (e il protagonista) sospeso in una

dimensione di insondabile solitudine, in una sorta di limbo all’interno del quale si

affacciano le mostruosità e gli orrori. I suoni e le immagini sono attutite, le sagome che

216 King, Stephen (1980) The Mist, Viking Press, Signet, p. 10 217 Perron, Bernard (2006) Silent Hill. Il motore del terrore, Costlan Editori, Milano, p. 48

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compaiono risultano più inquietanti delle visioni vere e proprie e, non ultimo, il

pesante senso di isolamento che avvolge tutta la città arriva a contaminare anche il

protagonista, proprio grazie alla nebbia.

La nebbia, assimilata alle nuvole, da alcuni critici, è vista come qualcosa che,

primariamente, “impedisce la visione” ma che è anche portatrice di morte:

“A cloud can be anything that prevents vision. Since in Greek terms life is seeing the light, as well as being in the light, death comes as a cloud: ‘the black cloud of death concealed him’ (Homer, iliad 16.350) (…). Perhaps because one is blinded by griefs or sorrows they come in clouds as well.”218

In Silent Hill la morte è ovunque e ancora di più nel cuore dei personaggi che

incontriamo (anche di James), ma viene celata da questo velo biancastro che sembra

innocuo e ordinario mentre, in realtà, è l’unica sottile barriera che ci separa dall’orrore.

Più che a creare terrore, la nebbia serve per far rabbrividire il giocatore, per farlo

sussultare, per privarlo delle certezze e dell’oggettività e trascinarlo in un contesto in

cui tutti gli elementi di quello che abitualmente si configura come “reale” vengono

stravolti e ricontestualizzati, diventando parti inquietanti e mostruose, cariche di

significati nascosti e potenzialmente pericolose, di una realtà completamente distorta. È

la contingenza della normalità che ci fa rabbrividire mentre giochiamo a Silent Hill.

Tutto quello che sperimentiamo, in modo estremo, sullo schermo, lo possiamo

agilmente ricondurre a momenti della vita reale, gli edifici che visitiamo fanno parte

della quotidianità degli individui, le lievi inquietudini che sperimentiamo nella vita

reale sono sollecitate e amplificate nel contesto di gioco. I Wood Side Apartments,

l’ospedale di Brookhaven, l’Historical Society Museum, le Toluca Prison e il Lakeview

Hotel219 sono “tasselli di un incubo fisico e metafisico, psicologico e topologico”220, ma

sono anche semplici luoghi per le vacanze, case di cura, scuole, luoghi di culto e così

via, che tutti ben conoscono. Vederli mutati e riconfigurato in una veste di orrore,

218 Ferber, Michael (1999) A Dictionary of Literary Symbols, Cambridge University Press, Cambridge, p. 44 219 Queste sono le principali ambientazioni di Silent Hill 2, ma la città, come emerge negli altri episodi, è anche dotata di una scuola

elementare, la Midwich, di un manicomio, l’Alchemilla, di un parco dei divertimenti e di una chiesa, tra gli altri. 220 Perron, Bernard, op. citi. p. 49

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completamente al degrado, con muri che occasionalmente grondano sangue, con

ferraglia arrugginita che spunta dalle pareti, questo è il primo elemento che colpisce e

inquieta il giocatore, ancor più dei “mostri” e delle orripilanti visioni che avrà nel corso

dell’avventura:

“I muri e i pavimenti sono ricoperti di macchie e schizzi di sangue. Le pareti sanguinano, crepitano e brulicano in tempo reale, come tizzoni ardenti (…). Ci sono grate, inferriate e imbottiture simili a quelle dei manicomi. Le stanze sono in completa rovina. Dal soffitto della scuola elementare pendono catene di ferro (…). I lavandini e i water grondano sangue. Sui muri ci sono bambole e cadaveri crocifissi. Gli oggetti sono collocati in strane posizioni, come la sedia a rotelle rotta (un elemento che torna ripetutamente all’interno della serie) (…).”221

Questo è l’ambiente terrificante che il giocatore deve esplorare. La costruzione così

dettagliata dell’ambiente, tanto da renderlo quasi un personaggio, non è una scelta

casuale o puramente estetica: la natura interattiva del videogioco costringe il giocatore

non solo a osservare questo mondo da incubo che è la città di Silent Hill, ma ad

attraversarla, a viverla, a esplorarla esaminando con attenzione gli oggetti,

soffermandosi su quei dettagli macabri che costituirebbero, in altre circostanze, un

semplice scenario. Nei racconti o nei romanzi dell’orrore, in effetti, la descrizione

dell’ambiente costituisce un “valore aggiunto”, uno dei vari elementi di suggestione

attraverso il quale l’autore contestualizza la situazione al lettore e dal quale fa scaturire

le emergenze più efficaci e funzionali alla narrazione. Nel racconto “King Pest” di Poe,

ad esempio, c’è un’efficace descrizione di un ambiente che serve a introdurre la famiglia

malata e grottesca che i due protagonisti incontrano:

“The air was cold and misty. The paving-stones, loosened from their beds, lay in wild disorder amid the tall, rank grass, which sprang up around the feet and ankles. Fallen houses choked up the streets. The most fetid and poisonous smells everywhere prevailed;—and by the aid of that ghastly light which, even at midnight, never fails to emanate from a vapory and pestilential at atmosphere, might be discerned lying in the by-paths and alleys, or rotting in the windowless habitations, the carcass of many a nocturnal plunderer arrested by the hand of the plague in the very perpetration of his robbery.”222

221 Ibid. p. 49 222 http://en.wikisource.org/wiki/King_Pest

“L’aria era fredda e nebbiosa. I ciottoli, scalzati dal lastrico, giacevano in selvaggio disordine fra l’alta erba tenace che saliva fino alle caviglie. Case crollate ostruivano le vie. I più fetidi e deleterio odori regnavano dappertutto; e grazie alla luce spettrale che anche in

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Questa prima panoramica ci aiuta a contestualizzare la situazione in cui i due sventurati

marinai protagonisti si muovono, ma di per sé non costituisce motivo di terrore223. Il

lettore comincia a temere per l’incolumità dei personaggi, prova disgusto e repellenza

per l’ambiente malsano, ma si concentra esattamente sugli elementi che l’autore vuole

mettere in luce, ossia la peste e la solitudine del luogo. Continua con la descrizione del

luogo dove invece si trovano i sei commensali macabri:

“The room within which they found themselves proved to be the shop of an undertaker; but an open trap-door, in a corner of the floor near the entrance, looked down upon a long range of wine-cellars, whose depths the occasional sound of bursting bottles proclaimed to be well stored with their appropriate contents. In the middle of the room stood a table—in the centre of which again arose a huge tub of what appeared to be punch. Bottles of various wines and cordials, together with jugs, pitchers, and flagons of every shape and quality, were scattered profusely upon the board. Around it, upon coffin-tressels, was seated a company of six. This company I will endeavor to delineate one by one. (…)Before each of the party lay a portion of a skull, which was used as a drinking cup. Overhead was suspended a human skeleton, by means of a rope tied round one of the legs and fastened to a ring in the ceiling. The other limb, confined by no such fetter, stuck off from the body at right angles, causing the whole loose and rattling frame to dangle and twirl about at the caprice of every occasional puff of wind which found its way into the apartment. In the cranium of this hideous thing lay quantity of ignited charcoal, which threw a fitful but vivid light over the entire scene;”224

La descrizione di questi due ambienti trascina il lettore in una spirale di orrori sempre

più accentuati: dapprima c’è solo la paura del contagio, della pestilenza. Man mano che

la descrizione prosegue, l’autore evidenzia come ci sia stato letteralmente un

sovvertimento del rapporto con la morte: non necessariamente qualcosa di temuto e

piena notte emana sempre da un’atmosfera impregnata di vapori pestilenziali, si potevano scorgere per le vie ed i vicoli, o in putrefazione dentro le case dalle finestre prive di imposte, i cadaveri dei tanti ladri notturni che la mano della peste aveva fermato nel corso delle loro delittuose gesta” Tr. Poe, Edgar Allan. op. cit. p. 169

223 Cfr. “Poe’s aesthetic theory” di Tomc, Sandra in Hayes, Kevin (ed.) (2002) The Cambridge Companion to Edgar Allan Poe, Cambridge University Press, Cambridge

224 http://en.wikisource.org/wiki/King_Pest “La stanza nella quale così vennero a trovarsi era la bottega di un impresario di pompe funebri; ma una botola aperta in un angolo del pavimento presso la porta, dava accesso a una serie di cantine, le cui profondità, a un occasionale rumore di bottiglie infrante, si rivelarono provvedute del loro appropriato contenuto. In mezzo alla stanza c’era una tavola, al centro della quale sorgeva una gigantesca caraffa piena in apparenza di punch. Bottiglie di vini svariati e di cordiali, insieme a caraffe, boccali e flaconi d’ogni forma e quantità, erano sparse a profusione per tutta la distesa dell’asse, intorno al quale, su delle bare, sedeva una compagnia di sei persone che io mi sforzerò di descrivere una per una. (…) Davanti ad ogni convitato era posato un mezzo cranio, ed ognuno se ne serviva come coppa. Su per aria era sospeso uno scheletro umano, tenuto per una gamba da una corda fissata a un anello del soffitto, e come l’altra cambia era libera e ricadeva ad angolo retto, quella carcassa disarticolata e risonante si agitava tutta, danzando e piroettando, ad ogni soffio di vento che s’infilava dentro il locale. Nel cranio di quell’orribile cosa era stata introdotta una certa quantità di carbone acceso che gettava sprazzi di vivida luce su tutta la scena;” Tr. Poe, Edgar Allan, op. cit. pp. 173-174

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da rifuggire, ma una specie di “porto franco” in cui rifugiarsi. I cadaveri, l’odore di

morte, il rosso del supposto punch, il cranio con i tizzoni ardenti, tutta questa

mostruosità costituisce l’elemento di spicco di uno scenario su cui si concentra lo

sguardo prima dell’autore, poi forzatamente del lettore, e dal quale la descrizione

seguente delle vicende prende le mosse, in modo funzionale. In pratica, l’autore ha

descritto un ricco (ma non completo) ambiente, incentrando l’attenzione e

trasformando in emergenti quegli elementi che ritiene funzionali a soddisfare

l’orizzonte d’attesa del lettore che sta affrontando un racconto dell’orrore. D’altra parte,

la costruzione dell’atmosfera attraverso l’architettura, il contesto e l’ambiente sono uno

dei punti di forza di Poe che il videogioco (in generale, non solo nel caso specifico di

Silent Hill) non può che recuperare: l’elemento fondamentale, nel racconto dell’orrore, è

“an atmosphere conductive to anxieties in the protagonist and, depending on the situation in the story, among other characters in general. The literal haunted castle, cathedral, monastery was often transformed into some natural setting conductive to unrest and fears, or, in yet another kind of development, to a haunted mind which required no castle or frowning mansion to stimulate terrors, the corridors of the psyche sufficing to engender such frisson.”225

La struttura della narrazione, in questo caso, e la funzione dello spazio della narrazione

sono utilizzati in modo strumentale e utilitaristico sia dall’autore che dal lettore, in

quanto non ci è dato sapere cosa ci sia, ad esempio, sul pavimento, o quale sia l’odore

che permea l’aria, o ancora se ci siano degli ulteriori elementi di malata perversione

della vita all’interno della stanza sopra descritta.

In realtà, lo spazio in letteratura non ha quasi mai un ruolo unicamente funzionale a

suscitare un’atmosfera: il suo ruolo profondo è quello di permettere la

contestualizzazione, lo svolgimento dell’azione e, in generale, di costruire il contesto

all’interno del quale avverrà l’azione stessa. Il “movimento”, nello spazio letterario, non

è solo fisico (i personaggi agiscono in un determinato ambiente, il narratore

contestualizza determinate situazioni, eccetera) ma è anche temporale: è attraverso lo 225 Fisher, Benjamin. F. “Poe and the Gothic tradition”, in in Hayes, Kevin, op. cit. p. 75

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spostamento, il cambio “di scena” (di spazio, appunto) che il lettore capisce, tra le altre

cose, che la vicenda si sta evolvendo. Non solo: il contenuto stesso è veicolato dallo

spazio e dagli “attori” che si muovono al suo interno.

Anche in Silent Hill, lo spazio non è utilizzato in modo unicamente funzionale, ma ha

letteralmente uno spessore: anche qui, come nel caso di Poe, l’autore (o gli autori) ha

creato un contesto in cui gli elementi emergenti siano quelli funzionali alla

prosecuzione della storia: le chiavi o gli oggetti fondamentali rilucono di una strana

luce, quando il protagonista vi passa accanto con la sua torcia elettrica, le porte dei vari

edifici esplorati da James-giocatore non sono tutte apribili, anzi parecchie sono “rotte”

e inaccessibili, alcune stanze non contengono nulla, in apparenza. In realtà, tuttavia, il

giocatore ha la piena libertà di allontanarsi da questo percorso guidato che gli fa

attraversare la narrazione in modo più rapido, e si può concentrare su un’esplorazione

minuziosa dell’ambiente alla ricerca di dettagli e documentazione che colmino la sua

brama di sapere e conoscere cos’è successo a Silent Hill e com’era la città un tempo. È

esattamente così che il giocatore approfondisce aspetti legati all’ambiente che non

sono minimamente centrali, dal punto di vista della storia, ma che contribuiscono

sicuramente a un senso di immersione e di “legame” con il mondo malato della città.

Nessuno ci obbliga a leggere i depliant sul tavolo della reception dell’hotel o a

spulciare gli annunci nella bacheca dell’ospedale, eppure, se decidiamo di farlo,

possiamo contare sul fatto che anche quegli elementi sono messi lì a bella posta per

costruire e incentivare la sensazione di disagio e di disorientamento di James-

giocatore. Non avremo un autore che ci evidenzia gli elementi più inquietanti, ma

avremo la libertà di esplorare a diversi livelli dello spazio e di decidere, in base al nostro

gusto e alle nostre capacità videoludiche, il nostro grado di coinvolgimento. Lo spazio

non è solo un contesto, ma anche un vero e proprio “meccanismo” attraverso cui il

James-giocatore può proseguire le sue azioni e le sue vicende. Come nel caso dello

spazio letterario, questo spazio ha una funzione “informativa”: da una parte mette a

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disposizione delle informazioni, appunto, degli indizi, e diventa il catalizzatore delle

emozioni, dall’altra però assume un ruolo attivo nel dipanarsi della vicenda,

nell’attraversamento della storia da parte del fruitore. Lo spazio diventa a tutti gli

effetti un personaggio, perché le sue “ragioni”, e gli elementi che lo caratterizzano

possono essere più o meno approfonditi, a seconda della volontà stessa del giocatore:

ci saranno gli achievers che cercheranno di raggiungere lo scopo nel modo più efficace,

rapido e “violento” possibile, mentre gli explorers si soffermeranno su tutti quei dettagli

completamente accessori per la prosecuzione all’interno della storia ma fondamentali

per l’incremento dell’atmosfera e per l’immersione nel mondo di gioco.

Un esempio letterario efficace che ha sicuramente ispirato gli ideatori di Silent Hill è

stato Lovecraft. In At the Mountains of Madness e The Shunned House abbiamo due esempi

di descrizione dell’ambiente funzionali a mostrare come, nel primo caso, ci sia una

descrizione dettagliata e inquietante che porterà il lettore al raccapriccio e alla paura,

ma di un “fossile” appartenente a una specie non umana in un contesto tutt’altro che

usuale (un’esplorazione al polo). Nel secondo caso, invece, l’inquietudine e il terrore

vengono suscitati dalla familiarità degli oggetti e degli ambienti descritti, esattamente

come accade in Silent Hill.

Ecco come viene descritto, a poche pagine dall’inizio del racconto, il ritrovamento di

questi “fossili disumani” nel corso di una spedizione in Antartide:

“"Later. Examining certain skeletal fragments of large land and marine saurians and primitive mammals, find singular local wounds or injuries to bony structure not attributable to any known predatory or carnivorous animal of any. (…)Orrendorf and Watkins, working underground at 9:45 with light, found monstrous barrel-shaped fossil of wholly unknown nature; probably vegetable unless overgrown specimen of unknown marine radiata. Tissue evidently preserved by mineral salts. Tough as leather, but astonishing flexibility retained in places. Marks of broken-off parts at ends and around sides. Six feet end to end, three and five-tenths feet central diameter, tapering to one foot at each end. (…)Complete specimens have such uncanny resemblance to certain creatures of primal myth that suggestion of ancient existence outside antarctic becomes inevitable. Dyer and Pabodie have read Necronomicon and seen Clark Ashton Smith's nightmare paintings based on text, and will understand when I speak of Elder Things supposed to have created all earth life as jest or mistake. Students have always thought conception formed from morbid

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imaginative treatment of very ancient tropical radiata. Also like prehistoric folklore things Wilmarth has spoken of—Cthulhu cult appendages, etc. (…)Job now to get fourteen huge specimens to camp without dogs, which bark furiously and can't be trusted near them.”226

Notiamo qui come l’orrore sia determinato da diversi elementi, tutti esterni alla natura

umana e legati tipicamente alla situazione e all’ambiente in cui i protagonisti si

trovano: i personaggi si trovano isolati in Antartide, nel corso di una missione difficile

per il reperimento di materiale di studio. Sono soli, lontani dalla società civile e alle

prese con forze già di per sé terrificanti, quelle del freddo estremo e del ghiaccio. Come

se questo non bastasse, il ritrovamento chiave della loro missione è costituito da

questo fossile-barile, che i cani sembrano non sopportare e che disorienta tutti i

biologi e gli scienziati presenti. L’inquietudine è quella di trovarsi di fronte a qualcosa

di “innaturale”, di “non umano”, quasi un reperto ancestrale legato alle leggende e ai

miti dei libri oscuri (viene citato il Necronomicon, la cui emergenza contribuisce

all’aumento della tensione e dell’inquietudine). Infine, la forma e l’essenza stessa

dell’essere ritrovato fa accapponare la pelle ai protagonisti: è un essere completamente

lontano e diverso da un essere umano, senza nulla di antropomorfo ma, ancora di più,

senza nulla di vagamente “animale” o terrestre. Il mistero legato all’altrove,

all’inesplorato (in questo caso, a territori e tempi inesplorati, perché si scoprirà che

questa razza appartiene al passato remoto della terra), l’ulteriore inspiegabile e quasi

inavvicinabile all’uomo, questi sono i punti nodali su cui fa leva la narrazione di

Lovecraft in questo racconto. Tutti gli elementi giustapposti, seppure lontani dalla

sensibilità del lettore (e, nel periodo della scrittura, ancora più di ora, in cui abbiamo

226 http://en.wikisource.org/wiki/At_the_Mountains_of_Madness

“Più tardi, esaminando i frammenti scheletrici dei grossi sauri marini e terrestri e di alcuni mammiferi primitivi, abbiamo trovato singolari tracce di ferite locali, o danni alle ossa, che non si possono attribuire a predatori o carnivori di nessuna epoca conosciuta. (…) Orrendorf e Watkins, che sono scesi nel sottosuolo con le torce alle 9:45, hanno rinvenuto un fossile mostruoso, a forma di barile e del tutto sconosciuto; probabilmente si tratta di una forma di vita vegetale o d i un esemplare super-sviluppato di organismo marino sconosciuto. È duro come il cuoio, ma a tratti conserva una stupefacente elasticità. Alle estremità e intorno ai alti sono evidenti i segni di parti mancanti. Misura più di un metro e ottanta da un’estremità all’altra e circa un metro di diametro al centro, ma si restringe a ciascuna estremità fino a circa trentacinque centimetri. (…) La struttura complessiva ricorda le creature mostruose di certi antichi cicli mitici, e in particolare gli Esseri antichi di cui parla il Necronomicon. Le ali sembrano membranose e sorrette da un’intelaiatura di aste ghiandolari. Alle estremità delle ali sembra di notare minuti orifizi nelle aste. (…) Abbiamo sempre problemi con i cani: non sopportano la vista del nuovo esemplare e se non lo tenessimo a debita distanza lo farebbero a pezzi” Tr. Lovecraft, Howard Phillips (1994) Le montagne della follia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano

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almeno una conoscenza scientifico-divulgativa della materia in questione, ossia i viaggi

ai poli) contribuiscono a creare un quadro di disagio e inquietudine nei lettori, che pur

sono consapevolmente distanti da quella vicenda e non si sono mai trovati né,

teoricamente, si troveranno mai nel corso della loro vita a confrontarsi con

un’esperienza del genere.

Nel caso di The Shunned House, invece, la strategia per costruire il terrore è parallela e

probabilmente ispiratrice di quella che troviamo in Silent Hill. Viene presentata una casa

anonima, un po’ isolata rispetto all’altrettanto anonimo paese di cui fa parte (se si

esclude il soggiorno di Poe e le sue, a detta di Lovecraft, abituali passeggiate davanti a

quella casa). Anche se, alla fine del racconto, la causa prima dell’orrore sarà identificata

in una sorta di mostro ectoplasmatico che ha corrotto, nel corso degli anni, la salute

mentale e fisica degli abitanti dell’oscuro edificio, in questo caso è proprio attraverso la

descrizione di un luogo universalmente considerato come un posto sicuro, a cui

tornare, in cui sentirsi protetti (la propria casa, appunto) che Lovecraft fa crescere

l’inquietudine del lettore:

“In my childhood the shunned house was vacant, with barren, gnarled and terrible old trees, long, queerly pale grass and nightmarishly misshapen weeds in the high terraced yard where birds never lingered. We boys used to overrun the place, and I can still recall my youthful terror not only at the morbid strangeness of this sinister vegetation, but at the eldritch atmosphere and odour of the dilapidated house, whose unlocked front door was often entered in quest of shudders. The small-paned windows were largely broken, and a nameless air of desolation hung round the precarious panel ling, shaky interior shutters, peeling wallpaper, falling plaster, rickety staircases, and such fragments of battered furniture as still remained. The dust and cobwebs added their touch of the fearful; and brave indeed was the boy who would voluntarily ascend the ladder to the attic, a vast raftered length lighted only by small blinking windows in the gable ends, and filled with a massed wreckage of chests, chairs, and spinning-wheels which infinite years of deposit had shrouded and festooned into monstrous and hellish shapes.

But after all, the attic was not the most terrible part of the house. It was the dank, humid cellar which somehow exerted the strongest repulsion on us, even though it was wholly above ground on the street side, with only a thin door and window-pierced brick wall to separate it from the busy sidewalk.”227

227 http://en.wikisource.org/wiki/The_Shunned_House

“Durante la mia infanzia, la casa abbandonata era rimasta vuota, con i suoi raccapriccianti alberi spettrali, il suo prato selvaggio e scolorito, e le erbacce incolte – come quelle di un incubo – che avevano ricoperto la terrazza sulla quale non si posavano mai gli

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È così che il narratore introduce la casa. Non è casuale che la narrazione sia interna, in

prima persona: il coinvolgimento da parte di chi ha vissuto i fatti (e quindi la situazione

di pericolo) deve essere completo. La suspense, in questo caso, è creata da molteplici

fattori: la natura “ordinaria” della casa, ossia l’aspetto analogo alle diverse case

diroccate che un potenziale lettore di Lovecraft poteva aver visto; la natura ordinaria

dei protagonisti: non speleologi né scienziati, solo un ragazzo con degli amici e suo zio.

Gli aspetti inquietanti dell’edificio sono accuratamente scelti in modo da esasperare

caratteristiche comunque comuni a diversi edifici: tutti hanno avuto a che fare con

alberi dai rami rattrappiti, a ragnatele lugubri, all’odore di muffa delle cantine, al

marcire inesorabile del legno delle fondamenta. Ed è proprio su questi elementi di

“quotidianità” che sia Lovecraft che gli ideatori di Silent Hill puntano: non siamo, come

in Resident Evil, i membri di una squadra speciale che si trova all’improvviso nel mezzo di

una catastrofe biologica e deve arginare i danni. Non siamo supereroi dotati di poteri

che possono salvare le sorti del mondo. Siamo dei ragazzi, dei giovani uomini, persone

normali, abituati a una calda e confortevole normalità, che si ritrovano in un luogo

apparentemente familiare ma in cui le regole del buonsenso e del raziocinio vengono a

mancare. È questo che è la città di Silent Hill: come la casa stregata di Lovecraft, è la

cittadina a diventare la protagonista della vicenda, la “Gaia disumana” all’interno del

quale il protagonista, fin troppo umano, si trova a muoversi suo malgrado. La città è

l’amalgama dei personaggi, è l’elemento di coesione, insieme il luogo in cui si svolgono

gli avvenimenti e il luogo grazie al quale si svolgono, è l’alcova “magica” e incantata, o

uccelli. Noi ragazzi ci recavamo spesso nei dintorni a giocare, e ricordo ancora il mio terrore non solo per la sinistra stranezza della torva vegetazione, ma soprattutto per l’odore e l’atmosfera soprannaturale che incombevano sull’edificio diroccato, nel cui portone principale, rimasto aperto, entravamo alla ricerca del brivido. Le finestrelle pennellate erano quasi del tutto rotte, ed un senso indefinibile di desolazione aleggiava sulle persiane in equilibrio precario che si muovevano nell’interno, sulla carta da parati strappata, sull’intonaco cadente, sulle scale traballanti e sui resti di mobilio tarlato che ancora rimanevano in piedi. La polvere e le ragnatele aggiungevano un ultimo tocco all’aspetto terribile dell’insieme, e da considerarsi veramente coraggioso era quel ragazzo che fosse salito di sua spontanea volontà sulla soffitta, un ampio spazio sostenuto dalle travi e illuminato soltanto dal debole chiarore delle finestre del frontone, pieno di sedie, cassetti rotti e macchine per filare, che infiniti anni di disuso avevano trasformato e deformato in sagome mostruose e diaboliche. Ma, dopotutto, la soffitta non era la parte più spaventosa della casa. Era invece la cantina umida e fradicia ad ispirarci la maggior repulsione, nonostante si trovasse a livello della strada, con la sua fragile porta e il muro di mattoni eretto per separare la finestra dal marciapiede chiassoso” Tr. Lovecraft, Howard Phillips (1998) La casa stregata, Newton & Compton, Roma, p. 22

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meglio, appunto, “stregata”, in cui gli orrori partoriti dal cuore del protagonista

vengono a galla e si materializzano.

È solo grazie al personaggio della città (peraltro costante e coerentissimo in tutti gli

episodi della serie) che l’esperienza del giocatore si concretizza:

“L’esperienza emotiva si basa su un coinvolgimento privo di rischi. Grazie all’effetto diegetico, come, per esempio, l’illusione di trovarsi realmente in un mondo fittizio, il giocatore crede di essere fisicamente presente in un mondo che si autocompleta e che esiste a prescindere dal momento del suo accesso e crede di assistere realmente all’azione che si svolge intorno a lui. Ma il giocatore è, in realtà, un ‘testimone manipolato’, dato che l’intreccio determina tanto l’azione che i personaggi si trovano ad affrontare, quanto la sua rappresentazione. (…) La risposta emotiva del giocatore consiste in un attaccamento quasi morboso alla componente narrativa del gioco.”228

Ed è proprio quello che succede: il giocatore diventa letteralmente dipendente dalla

trama, deve sapere come si svilupperà la vicenda, deve scoprire la verità sulla morte di

Mary e sulla reale relazione che intercorreva tra James e la moglie. È proprio nell’ottica

della comprensione della trama narrativa che un altro ruolo di fondamentale

importanza viene ricoperto dai mostri e dalle figure terrificanti che si aggirano per la

città. Niente, all’interno di Silent Hill, è fine a se stesso: prima abbiamo accennato al

disgusto che travalica lo schermo, che investe il giocatore: a differenza della

strutturazione dell’orrore nella tragedia greca, ad esempio, in cui la mostruosità veniva

magari descritta a parole, ma mai mostrata, a Silent Hill ci troviamo davanti a una

schiera di esseri mostruosi e ripugnanti:

“I mostri di Silent Hill (come tutti quelli dei survival horror) sono stati concepiti con l’obiettivo primario di terrorizzare. Eseguono azioni letali e disarmanti. Da soli o in gruppi, assaltano il giocatore, gli si avventano letteralmente contro, lo spingono per terra, lo colpiscono, lo mordono, lo afferrano, lo bloccano e lo divorano, lo feriscono a morte, lo infilzano, lo fanno soffocare, gli sparano, gli sputano addosso fuoco, gli lanciano contro scosse elettriche e così via.”229

228 Perron, Bernard. op. cit. p. 45 229 Ibid. p. 53

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Non è certo un caso, ancora, che i racconti di Poe e i fantastici resoconti di Lovecraft

siano in prima persona e non è certo un caso che le analogie tra le dinamiche narrative

di quei racconti e le dinamiche ludiche del survival horror siano così affini: il

protagonista, nel racconto, e il giocatore, nel videogame, subiscono direttamente o

rischiano di subire le atrocità perpetrate dai mostri. È questo il vero orrore, non la sola

vista dell’atrocità, ma il timore per la propria incolumità, la possibilità che quell’orrore si

riversi su di noi, sia che siamo lettori che giocatori.

“Non bisogna poi dimenticare che i mostri sono ‘impuri’, e quindi disgustosi. Generati da una mutazione inaspettata, dal conflitto tra due o più categorie bioculturali, le creature non rispettano le distinzioni canoniche dentro-fuori, vivo-morto, animale-uomo, carne-macchina e animato-inanimato.”230

Insetti enormi, manichini che si muovono a quattro zampe con un raccapricciante

scricchiolio di arti e giunture, cani a due teste, infermiere devastate e rovinate che

aggrediscono a colpi di bisturi: l’analogia antropomorfa con l’essere umano è la chiave

per mettere in evidenza l’orrore e il disgusto che tali mostri causano. Non sono come il

“fossile mostruoso” del Lovecraft de La montagna della follia ma sono come gli spettri

partoriti dalle menti malate e dalle visioni deliranti dei protagonisti di Poe:

“His face was as yellow as saffron—but no feature excepting one alone, was sufficiently marked to merit a particular description. This one consisted in a forehead so unusually and hideously lofty, as to have the appearance of a bonnet or crown of flesh superadded upon the natural head. (…)indeed the acute Tarpaulin immediately observed that the same remark might have applied to each individual person of the party; every one of whom seemed to possess a monopoly of some particular portion of physiognomy. With the lady in question this portion proved to be the mouth. Commencing at the right ear, it swept with a terrific chasm to the left—the short pendants which she wore in either auricle continually bobbing into the aperture.”231

230 Ibid. p.56 231 http://en.wikisource.org/wiki/King_Pest

“Aveva un viso giallo come lo zafferano; ma i suoi lineamenti, uno eccettuato, erano di così scarso rilievo da non meritare una descrizione specifica. L’unica anormalità consisteva nella fronte, che appariva tanto straordinariamente e orribilmente alta da far pensare a un’aggiunta artificiale di carne sopra la testa vera e propria. (…) Tarpaulin aveva subito notato che si poteva dire la stessa cosa di tutti quei personaggi, ognuno dei quali pareva si fosse preso il monopolio di un determinato pezzo fisionomico. Nella dama in questione, questo pezzo era la bocca, una bocca che cominciava dall’orecchia destra e correva sino alla sinistra disegnando un pauroso abisso, dentro al quale i corti orecchini pendenti si tuffavano di continuo” Tr. Poe, Edgar Allan, op. cit. p. 170-174

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Questi sono solo alcuni dei personaggi descritti da Poe in “King Pest”, già citato in

precedenza per le atmosfere efficaci nella creazione di un senso di forte disagio.

L’elemento comune al terrore, che vuole essere più psicologico che fisico o per

l’incolumità, è proprio quello di innestare, su un corpo più o meno “normale” degli

elementi di forte mostruosità. Così come avveniva per l’ambiente, anche i mostri e i

personaggi secondari vengono investiti da un’aura di disgusto, sia esso legato alla

carne e alla deformità (i mostri) o alla psicologia rovinata e martoriata, come nel caso di

Eddie ed Angela. Queste due figure, insieme all’ancora mai citato, eppur fondamentale,

Pyramid Head, sono in un certo senso la chiave di volta per interpretare in modo

efficace tutta la vicenda nella quale James e il giocatore sono stati trascinati. Dato come

un fatto assodato che, nel corso del gioco, tra il giocatore e James si sviluppano una

sorta di morbosa identificazione ed empatia, personaggi quali Eddie, Angela e Pyramid

Head servono per suggerire la verità celata sotto gli orrori della città di Silent Hill: la

città altro non è che una proiezione immaginifica e repressa del profondo senso di

colpa di James, il quale non ha mai ricevuto alcuna lettera dalla presunta defunta

moglie Mary, in quanto la donna è realmente morta, e proprio per mano del marito.

Incapace di tollerare oltre le sofferenze della moglie ma anche sentendosi rubare di

dosso gli anni più vitali della propria esistenza al capezzale di una malata terminale e

incurabile, James ha soffocato Mary con un cuscino, liberandosi di lei e

dell’oppressione della sua malattia. È per questo che, dopo tre anni, James intraprende

questo viaggio nei propri inferi personali per cercare di redimersi affrontando tutto

l’orrore che ha causato, sprofondando negli abissi della disperazione per riuscire a

riemergerne finalmente mondato dal suo peccato.

Allora rileggiamo tutto in chiave simbolica o, meglio, quasi psicanalitica: la città è sia il

luogo dei momenti felici che la tomba dell’angoscia di un uomo che spinto dalla pietà

e forse anche dall’egoismo ha ucciso la persona che amava. I mostri e gli orrori che

James incontra sul proprio percorso sono l’ipostasi del senso di colpa e della sua voglia

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di auto-punirsi per quanto ha fatto. Maria, la provocante e seducente alter-ego di Mary,

è la tentazione, quel desiderio di vita passionale, sana e attraente che ha spinto James a

uccidere Mary. Eddie, il ragazzo disturbato e con eccessi di violenza è la proiezione

dell’io violento di James, in apparenza innocuo, quasi da compatire (proprio come

Eddie, per il suo ritardo fisico e mentale), ma in realtà feroce e incontrollato. Angela, che

scambia continuamente James per il padre che da bambina la molestava, è la

concretizzazione della bramosia sessuale di James: non solo, questo forte desiderio di

prevaricazione sessuale, questa ossessione per il coito e l’amplesso è metaforizzato

anche dal mostro più tremendo (e, peraltro, imbattibile) con cui James si scontrerà: un

energumeno sovrumano con, al posto della testa, un’enorme piramide di ferro nera,

arrugginita e sporca di sangue. Pyramid Head non è solo la parte più profonda e

colpevole di James, è anche il simbolo della potenza sessuale e del desiderio di

sopraffazione e di prevaricazione, è il giustiziere proveniente dal passato.

James dice: “Sono stato debole. Ecco perché avevo bisogno di te… Avevo bisogno di

qualcuno che mi punisse per i miei peccati… Ma ora è tutto finito… Ora conosco la

verità… Ora è il momento di porre fine a tutto questo”.

La città era solo una “porta”, un varco per una discesa agli inferi personale di un uomo

tormentato dal rimorso eppure incapace di riconoscere la propria colpa. La molteplicità

dei finali del gioco permette una notevole pluralità di interpretazione: i finali più “seri”

e legati a filo doppio con lo sviluppo della trama sono quelli in cui James ricostruisce il

delitto della moglie ma, a seconda della motivazione, prende decisioni diverse. Nel caso

il delitto sia stato perpetrato per pietà e per porre fine alle sofferenze dell’amata, James

se ne andrà da Silent Hill incolume, portando o meno con sé Laura, la bambina che

anche Mary avrebbe voluto adottare e che lo ha guidato, in un certo senso, attraverso

le vie della città. Nel caso in cui, invece, il movente del delitto fosse stata la bramosia

sessuale, la volontà di essere ancora e di nuovo un uomo libero e di riconquistare la

vita e il sesso, completamente accantonato a causa della mostruosità di Mary, James si

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troverà davanti a due scelte: in un caso, si suiciderà, facendosi dominare dallo

sconforto e dal senso di colpa, e resterà per sempre preda delle spirali della città.

Nell’altro, riuscirà a fuggire con Maria, l’alter-ego erotico della moglie morta, con cui

progetterà di iniziare una nuova vita, pur con la consapevolezza del delitto sulla

coscienza. La strana tosse di Maria alla fine della narrazione fa però presagire un

“eterno ritorno” della sciagura di James, come se, ancora una volta, la felicità dovesse

essere soppiantata dalla malattia e poi dalla follia.

Le analogie con l’orrore letterario, soprattutto con quello classico dei maestri del

genere, in cui il terrore e lo smarrimento dell’uomo derivano da elementi interni alla sua

psiche e alla sua essenza, e non più a “fantasmi” esterni o ad apparizioni estemporanee,

sono evidenti: i parallelismi con le strategie di presentazione di personaggi e ambiente

di Poe e Lovecraft fanno intuire che gli autori della saga e in particolare dell’episodio

conoscessero bene i due autori e abbiano recuperato, in modo funzionale e alquanto

fedele, le atmosfere e le situazioni che sono state spesso riproposte nelle opere dei due

scrittori. Tuttavia, con Silent Hill 2 ci troviamo davanti a un’opera multimediale e

interattiva in cui la componente strettamente narrativa perde, per così dire, il suo

monopolio e la sua unicità e le sensazioni di coinvolgimento, empatia, ritmo della

narrazione, e tempi (sia narrativi che di gioco) vengono determinati non solo dalla

parola o dalla descrizione (numerose, anche se non eccessive, sono le cut scene*) ma

anche e soprattutto dalle modalità secondo le quali i principi basilari di gameplay*

permettono al giocatore di addentrarsi nell’atmosfera e nell’intreccio. Molte scelte, in

Silent Hill, sono funzionali alla creazione di questa atmosfera. Abbiamo già detto che, a

differenza delle descrizioni “verticali” effettuate dagli autori classici, più o meno

dettagliate, più o meno allusive, nel caso del videogame la creazione dell’atmosfera e

del contesto spaziale non sta affatto nella descrizione verbale dell’ambiente all’interno

del quale il personaggio si muove, ma nella sua visualizzazione e libera esplorazione da

parte del fruitore. La caratterizzazione stessa dei personaggi non avviene a parole, ma

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in base al ritmo e alla frequenza e alle modalità con cui appaiono. Prendiamo, ad

esempio, la nebbia: paradossalmente, questo elemento che è una caratteristica chiave

del gotico, dell’horror e del neo-gotico, in quanto è l’elemento naturale (insieme

all’acqua) che più e meglio cela la mostruosità, è stato inizialmente aggiunto per motivi

tecnici: era più semplice ridurre la visuale del giocatore a uno stretto cono d’azione

(quello nelle vicinanze del personaggio virtuale) evitando di mostrare tutto lo scenario.

In questo modo, un espediente tecnico è diventato anche un elemento simbolico del

gioco. La nebbia che cela i mostri, ma anche la verità che James ha deciso di reprimere e

nascondere, è uno degli elementi che più rimane impresso di Silent Hill. I personaggi,

per quanto verosimili e umani, si muovono in modo diverso a seconda della loro

caratterizzazione psicologica, ma non vengono mai presentati da un narratore

onnisciente o attraverso una panoramica esterna (cut scene*): sono sempre visti in

medias res, a interagire con James, ed è da quelle interazioni che il giocatore deve e può

capire che “individui” sono. Mary è eterea e invisibile, mai eppure sempre presente,

impalpabile, irraggiungibile, la “donna angelo” che diventa il simbolo dell’amore

platonico e puro di James. Maria, invece, è la donna provocante e sensuale, opposto

speculare di Mary e personaggio che mette continuamente in crisi il James-giocatore:

egli infatti si trova a dover decidere se perseguire ottusamente nella ricerca della

moglie e della verità, o se cedere alle lusinghe e al fascino di questa donna diabolica

ma che gli può assicurare quella passione e quella vitalità sopita di cui ha tanto

bisogno. Un personaggio che è sia principessa da salvare sia antagonista, Maria

manipola i ritmi di gioco di James costringendolo a rallentare, a tornare indietro, ad

affrontare scale scoscese e corridoi infiniti, lo spinge a vivere le sue peggiori paure

scontrandosi con Pyramid Head, rischia continuamente di morire, è quasi un trofeo da

portare in salvo per poter dire di avercela fatta.

Come avviene, tuttavia, lo scontro con i personaggi e con la città? In che modo il ritmo

narrativo dell’orrore viene recuperato e riproposto a Silent Hill? Una delle dinamiche più

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efficaci, per l’orrore che vuole essere anche psicologico e non solo gore o splatter è

quello di calare il lettore-giocatore all’interno di un contesto, creare uno spazio che

abbia regole ben precise (consuete come quelle di The Shunned House o meno, come

quelle di At the Mountains of Madness) e cominciare a far muovere i passi della scoperta al

personaggio, affiancato dallo sguardo (e dall’agenza) attenta e costante del giocatore.

In Silent Hill, come abbiamo visto, questa creazione dello spazio avviene fin da subito in

modo diretto ed efficace: il giocatore si trova direttamente all’interno della città e, senza

spiegazioni, particolari strumenti esplicativi, aiuti o suggerimenti si trova a doversi

muovere per questo ambiente. Il gameplay* di Silent Hill 2 appare scarno, essenziale

quasi, forse un po’ “retrò” rispetto ad altri videogiochi dello stesso periodo232 non è del

tutto immotivato. La lentezza con cui si muove James, la difficoltà talvolta di eseguire le

azioni più banali (come selezionare e sfoderare un arma, aprire una porta, voltarsi e

fuggire), l’estrema semplicità ed essenzialità di azioni a disposizione del giocatore

servono a un duplice scopo: da una parte il giocatore capisce che la sua concentrazione

non deve soffermarsi sull’apprendimento del linguaggio di gioco, cioè che la

complessità e la profondità del gioco non stanno affatto né nel sistema di

combattimento né nella manipolazione dell’ambiente circostante ma, letteralmente,

nell’esplorazione. Non importa quanti oggetti il giocatore riuscirà a trovare durante il

suo percorso, non importa con quanta perizia e precisione imparerà ad uccidere i

mostri e gli abomini che incrocia, non importa nemmeno quanti mostri ucciderà. Il

gioco diventa trasparente, sono l’azione e l’interazione a diventare la chiave di volta,

nel contesto di Silent Hill. Allo stesso modo, non è il cogliere i riferimenti colti, non è

l’utilizzo di un linguaggio inutilmente arzigogolato né la costruzione astrusa e

incomprensibile della narrazione, lo scopo primario dei racconti dell’orrore, anzi. Il

giocatore (e il lettore) devono calarsi completamente nell’ambiente ed esplorarlo,

visitarlo, scoprirlo, lasciarsi trascinare nei suoi meandri, perdersi e, a un certo punto,

232 La complessità, ad esempio, di un prodotto quasi contemporaneo a Silent Hill 2, ossia Metal Gear Solid 2, di Hideo Kojima, è una prova

concreta dei livelli di complessità e articolazione che poteva raggiungere la struttura videoludica.

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quando l’immersione è totale e il giocatore (lettore) si sente davvero parte del mondo

che sta esplorando, comincia l’orrore. Vagare è come leggere lunghe descrizioni. Le

parole, scelte con cura certosina in modo tale da ricostruire fedelmente un’atmosfera

che funga da anticamera per la rivelazione (macabra) sono sostituite dai dettagli visivi e

dal comportamento del personaggio-avatar* che il giocatore si trova a manipolare.

Allora, se in Berenice ci accorgeremo di stare ascoltando la vicenda dalla bocca di un

narratore mentalmente instabile, che cela un drammatico segreto e che ci trascina nel

suo vortice di follia raccontando lentamente di una situazione che dalla normalità si

trasforma in morbosa ossessione, a Silent Hill seguiremo James Sunderland nelle sue

zoppicanti esplorazioni, costellate di visioni oscure, accompagnati continuamente da

una sensazione di sfiducia e di sospetto nei confronti di quello che dovrebbe essere la

nostra guida, che costituisce i nostri occhi e le nostre mani. Come non possiamo affatto

fidarci dei narratori interni di Poe, che sono sempre individui chiaramente sull’orlo della

follia e che colgono al volo la loro occasione di raccontarci, di condividere e di

trascinarci nel loro mondo di orrore, allo stesso modo il protagonista di Silent Hill 2,

nostro Virgilio in questa terra infernale, si rivela inaffidabile, letteralmente crudele,

disturbato e folle. Non solo, è in effetti l’origine prima di tutto il male a cui stiamo

assistendo. La narrazione prettamente verbale lascia spazio a quella non verbale, legata

all’esplorazione dell’ambiente e alla vastità della mappa che garantisce un senso di

smarrimento: se nel racconto o nel romanzo dell’orrore, leggendo e scorrendo le

pagine, ci rendiamo conto di starci dirigendo nella direzione giusta per la scoperta sì

dell’orrore, ma anche della verità e della salvezza, nel corso di un survival horror la

percezione che abbiamo di continuo è che il nostro percorso viene allungato dalla

nostra inesperienza e dalla nostra stessa paura. Siamo liberi di esplorare, sì, ma questo

significa anche che più la nostra esplorazione si protrae, più possiamo incappare in

eventi sgradevoli, più possiamo restare terrorizzati. Incontrare Eddie che, riverso su un

water, vomita dopo aver ucciso un uomo, è una scena che il gioco non ci risparmia e

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che ci fa capire che più esploriamo, che più indaghiamo in quel mondo di orrore,

peggio sarà per noi. I binari della narrazione esistono, ma sono ben celati dalla

struttura della città. Possiamo camminare per lunghi minuti nella direzione sbagliata e

incontrare mostri deformi, abissi senza fine che ci sbarrano la strada, anguste botteghe

da attraversare nell’oscurità più completa, e tutto questo può essere completamente

inutile ai fini narrativi. Sappiamo, insomma, che il narratore c’è, ma che sta a noi elidere

(o immergerci, a seconda del nostro più o meno marcato sadismo) quelle situazioni che

non sono funzionali alla storia e che ci causano solo sobbalzi e incubi notturni. Il

giocatore si rende conto (ben prima di James, in effetti) che si trova all’inferno e che

deve trovare la via d’uscita al più presto e nel modo più indolore possibile.

“Come sottolinea il direttore Tsuboyama, la squadra di Imamura ha deciso di compiere una scelta rischiosa, riguardo la meccanica di gioco, che è molto lenta per un prodotto videoludico di questo tipo. Ma la scommessa si è rivelata vincente, in quanto è riuscita a rendere SH2 l’eccezionale gioco che si è rivelato. Non sto parlando di un semplice insieme di azioni da eseguire. I mostri non sono così numerosi e possono essere facilmente evitati. La meccanica di gioco di SH2, però, è basata su una delle caratteristiche fondamentali: il tempo, il tempo reale. Un esempio emblematico è l’impossibilità di uccidere Pyramid Head. È possibile solo far passare abbastanza tempo in modo che il mostro se ne vada o si uccida da solo.(…) Alcune sequenze che possono sembrare eccessivamente lunghe (…), sono state inserite appositamente per suscitare un sentimento di solitudine e isolamento.”233

Il tempo e il ritmo che questo tempo diegetico costringe il giocatore a mantenere

costituiscono un ottimo strumento attraverso cui rendere sempre più ansiogeni i

personaggi e l’ambientazione.

“Il giocatore corre e corre, sempre più giù, ma le scale sembrano non avere mai fine. In effetti ci vuole un minuto per raggiungere la porta successiva. Personalmente, mi sono fermato ben due volte sulle scale. La prima volta James era senza fiato per la corsa, mentre io stavo soffocando. (…) Anche se, nella vita quotidiana, non ho mai sofferto di claustrofobia, su quelle scale mi sono sentito davvero male. Ero al culmine della tensione.”234

Non solo quindi un disagio psicologico ma, come spesso accade quando si tratta di

videogame, un reale malessere fisico, che si trasforma in sudore, irrequietezza, lievi

233 Perron, Bernard op.cit. p. 120 234 Ibid. 121

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attacchi di panico eppure incapacità di smettere di giocare, assuefazione in qualche

modo. Il giocatore vuole sempre e comunque essere padrone della situazione, non

smettere mai di agire, perché il ritmo narrativo di gioco non glielo consente e

soprattutto perché la corrispondenza tra il tempo diegetico e quello reale fa percepire

l’urgenza al fruitore come se fosse vera: mollare il colpo, distrarsi un attimo, prendersi

una pausa non sono opzioni contemplabili durante la sessione di gioco perché non lo

sarebbero nella vita vera. La sovrapposizione tra personaggio protagonista e giocatore

avviene in modo perfetto (anche se non c’è una vera e propria identificazione).

L’obiettivo di queste scelte, dei percorsi esasperati, della lentezza del protagonista, del

sentimento di smarrimento e continuo pericolo (non c’è un posto che si possa ritenere

sicuro, a Silent Hill), questo incedere che si fa sempre più lento, faticoso, l’inutilità delle

azioni, come se il fine ultimo non fosse scoprire qualcosa ma solamente vagare,

richiama la metafora dei gironi infernali. I luoghi della città sembrano divisi per

evidenziare, ognuno, un peccato capitale o, quantomeno, per prospettare un’atroce

punizione per i suoi abitanti: Pyramid Head fa scempio dei manichini nell’ospedale,

mentre James e Maria cercano di fuggire, Angela, nelle catacombe, affronta un mostro,

che suo padre, e confessa gli abusi subiti nell’infanzia, Eddie è costretto nei Wood Side

Apartments, condannato a provare un atroce senso di colpa per la sua ira violenta,

Laura vaga continuamente tra un “girone” e l’altro, guidando e aiutando o ostacolando

James. Siamo davanti a un carosello di figure che vivono condannate nei loro gironi, e

la cui unica funzione, in questo viaggio catartico del protagonista, è aiutarlo a

diventare consapevole delle sue colpe e dei suoi lati oscuri, per poi tornare alla loro

non-esistenza in quell’inferno che è Silent Hill.

L’immagine dell’inferno è proprio uno degli archetipi che questa città evoca, sia in

questo episodio che in tutta la serie di Silent Hill. Il viaggio di James che, come abbiamo

detto, è un viaggio della coscienza alla scoperta (o meglio, per ricordare) la verità sulla

morte della moglie Mary, che egli stesso ha assassinato in preda a un attacco di follia, è

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simile a un viaggio nel regno dei morti: tutta la situazione evocata è surreale e

simbolica, ogni personaggio, ogni luogo, ogni simbolo che il James-giocatore incontra

durante l’avventura sono in realtà un indizio subliminale che converge verso la verità

finale. Il personaggio di Angela, ad esempio, fortemente disturbante, è l’ipostasi del

senso di colpa di James per la memoria della sua bramosia sessuale nei confronti di

altre donne nel periodo in cui sua moglie Mary giaceva sfigurata e in fin di vita in un

letto di ospedale. Angela è una donna fragile, spaventata, ispira pena a James che cerca

di aiutarla e di proteggerla, ma che nel contempo sembra terrorizzarla più di tutte le

altre inquietanti figure di Silent Hill. Angela è l’idea dell’amore, contrapposta al puro

sesso e istinto che sono invece simboleggiati da Maria, provocante donna consapevole

che mette alla prova il James-giocatore per capire fino a che punto l’esperienza di

catarsi all’interno di Silent Hill sta funzionando. È questo che è la città, un luogo di

espiazione, catarsi e rinascita: teoricamente James dovrebbe sprofondare negli abissi

del proprio inconscio (memorabile è la scena in cui scende negli scantinati in cui è

prigioniera Maria e affronta una scala che appare innaturalmente lunga, che sembra

portarlo al centro della terra e invece lo conduce al cuore del problema), il viaggio di

James è a metà tra un viaggio nell’inconscio e un viaggio iniziatico, in cui egli deve

dimostrare (a se stesso e a nessun altro) di accettare quanto è successo e di vivere una

vita di consapevolezza con il peso della sua colpa e, più in generale, della miseria

umana.

L’analisi di Silent Hill 2 fin qui condotta e, in particolare, la molteplicità di finali in cui il

giocatore può incappare, a seconda delle sue scelte durante le sessioni di gioco ci

portano ad affrontare un aspetto più “teorico”, ossia la collocazione di quest’opera

all’interno del genere fantastico di cui senza dubbio il racconto dell’orrore, a cui Silent

Hill si ispira fortemente, fa parte. In effetti, far aderire o meno Silent Hill 2 al modo

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narrativo fantastico in generale non è semplice, soprattutto perché il fantastico stesso

non è riuscito ad avere, negli anni, una definizione univoca e chiarificatrice.

Per una panoramica sul genere fantastico è quasi scontato partire dal già citato testo di

Todorov, La letteratura fantastica. Saggiamente, Todorov non dà una definizione “da

dizionario”, neppure enciclopedica, ma generalizza il fantastico recuperando il concetto

di reale e di immaginario. Egli afferma:

“In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che non conosciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che, appunto, non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote. O il diavolo è un’illusione, un essere immaginario, oppure esiste realmente come tutti gli altri esseri viventi, salvo che lo si incontra di rado.

Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza: non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale.”235

Partire da questa definizione ci dà la possibilità di osservare come questo, che Ceserani

definirà più un “modo letterario” che un genere, venga circoscritto da Todorov a

quell’intervallo di tempo che intercorre tra la percezione dell’evento “fantastico” e la

sua accettazione. L’essere che “conosce soltanto le leggi naturali” deve infatti dare

un’interpretazione del reale che lo circonda e, a seconda di questa interpretazione, la

narrazione prenderà una piega diversa e il testo in questione aderirà a un genere o

modo differente. Questo è quello che accade al nostro protagonista, cioè a James: da

uomo qualunque (senza qualità, ancora) egli si trova faccia a faccia con un

sovrannaturale che non si aspetta e che non sa interpretare. I personaggi di Poe o

Lovecraft o, in generale, del filone di horror fantastico, sono scienziati, uomini colti e di

raziocinio; allo stesso modo James è un uomo del ventesimo secolo lontano dal

mondo dell’esoterismo e del meraviglioso e tutto concentrato su un’esistenza

235 Todorov, Tzvetan (2000) La letteratura fantastica, Garzanti Editore, Milano, p. 34

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dolorosamente normale. I diavoli, le silfidi e i vampiri “deprecati” da Todorov che James

incontra durante il suo viaggio negli abissi del proprio cuore (ma questo lo scoprirà

solo alla fine del suo vagare) sono esattamente quell’elemento che permette al

giocatore di sperimentare l’incertezza se questo avvenimento sia prodotto

dell’immaginazione o sia realmente accaduto.

Questa condizione non è comunque sufficiente a rendere un’opera fantastica. La stessa

lettura, l’interpretazione che si dà al testo non deve essere “né ‘poetica’ né ‘allegorica’”,

in quanto un’interpretazione di tale natura porterebbe a snaturare l’essenza fantastica

della narrazione per rileggerla in chiave solo simbolica o, appunto, allegorica, e

individuando quindi parallelismi tematici e contenutistici tra le vicende “inspiegabili” e

il contesto reale del lettore. In effetti, Todorov continua, il fantastico necessita di tre

condizioni, per essere definito veramente tale.

“In primo luogo, occorre che il testo obblighi il lettore a considerare il mondo dei personaggi come un mondo di persone viventi e ad esitare tra una spiegazione naturale e una spiegazione soprannaturale degli avvenimenti evocati. In secondo luogo, anche un personaggio può provare la stessa esitazione; in tal modo la parte del lettore è per così dire affidata a un personaggio e l’esitazione si trova ad essere, al tempo stesso, rappresentata, diventa cioè uno dei temi dell’opera. (…) È necessario infine che il lettore adotti un certo atteggiamento nei confronti del testo: egli rifiuterà sia l’interpretazione allegorica che l’interpretazione ‘poetica’. La prima e la terza condizione costituiscono veramente il genere; la seconda può non essere soddisfatta.”236

Anche in questo caso, Silent Hill soddisfa appieno queste tre richieste: la città di Silent

Hill si rivela essere un luogo di aberrazione e mostruosità, ma fin dall’inizio del gioco è

in teoria una normale cittadina americana. Sia il giocatore che il personaggio provano

la stessa inquietante esitazione nell’incontrare i mostri e nell’affrontare imprese

“fantastiche”, perché si interrogano continuamente sulla verosimiglianza di quanto sta

succedendo. Il giocatore è fortemente condizionato dall’atteggiamento del

personaggio principale, che non affronta con naturalezza e disinvoltura le mostruosità

in cui incappa, ma che non smette di interrogarsi, angosciato, sulla loro natura. Infine, il 236 Ibid. p. 36

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giocatore non capisce (almeno, non fino alla fine della partita) la motivazione

dell’esistenza delle creature corrotte e, in generale, dell’assurdo viaggio di James, che da

quest per la ricerca di una persona scomparsa si è trasformato in viaggio per la scoperta

di una verità celata. Alla fine della narrazione, le motivazioni di tutti i personaggi

(compresa la città stessa) appaiono chiare e sia James che il giocatore non pensano

nemmeno per un momento che quanto hanno vissuto sia stato un’allegoria, una

“licenza poetica”: pensano piuttosto entrambi che quello che è accaduto è stato

un’irrazionale concretizzazione e ipostasi reale dei sensi di colpa e delle pulsioni di

James, ma non sotto forma di “metafora”, bensì sotto forma di esseri reali che, all’interno

di una città da incubo hanno fatto affrontare a protagonista e giocatore un’avventura

onirica per ricondurre entrambi sulla “retta via”, tramite la catarsi.

Il soprannaturale, la percezione che il lettore ed, eventualmente, un personaggio hanno

di questi avvenimenti eccezionali e l’eliminazione dell’interpretazione poetico-

allegorica ci portano quindi sulla strada giusta per individuare il fantastico, tenendo

però presente che non bastano uno o più elementi soprannaturali per rendere

“fantastica” una narrazione (altrimenti diventerebbe un genere pressoché omni-

comprensivo). È l’esperienza particolare del lettore a rappresentare una “chiave di volta”

per leggere il fantastico. Sempre Todorov riporta definizioni e osservazioni Lovecraft,

Penzoldt e Callois, che indicano tutte l’atmosfera e la percezione “sublime” del lettore

come indicatore del modo letterario.

“L’atmosfera è la cosa più importante, poiché il criterio definitivo di autenticità (del fantastico) non è la struttura dell’intreccio, ma la creazione di un’impressione specifica. (…) Ecco perché dobbiamo giudicare il racconto fantastico non tanto dalle intenzioni dell’autore e dai meccanismi dell’intreccio, ma piuttosto in funzione dell’intensità emozionale che provoca. (…) Un racconto è fantastico semplicemente se il lettore avverte profondamente un senso di paura e di terrore, la presenza di mondi e di potenze insolite.”237

Pur aderendo in parte alle affermazioni di Lovecraft, è necessario effettuare due

precisazioni importanti. Innanzitutto bisogna sottolineare che un racconto fantastico 237 Lovecraft, Howard Phillips (1945) Supernatural Horror in Literature, New York, Ben Abramson, cit. in Todorov, Tzvetan, op. cit. p. 38

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non è tale semplicemente se suscita un senso di disagio o straniamento nel lettore. A

volte, infatti, nella letteratura fantastica (nella fiaba, nel racconto dell’orrore, nella

fantascienza) il giocatore sa esattamente cosa aspettarsi e, anzi, il racconto e la

narrazione vanno perfettamente incontro al suo orizzonte d’attesa. Insomma, a volte,

nei racconti fantastici, il lettore spera e sa che si troverà di fronte a mondi e potenze

insolite. Inoltre, è molto importante ridimensionare lo scetticismo riguardo la struttura

e i meccanismi dell’intreccio: sicuramente, in alcuni casi, come quello che stiamo

prendendo in esame, la percezione del lettore/fruitore dell’opera fantastica è quella di

disorientamento, smarrimento quasi e, di conseguenza, necessità di interpretare e quasi

“schierarsi” nei confronti delle vicende lette. Tuttavia restiamo profondamente convinti

che questo senso di disorientamento e i conseguenti meccanismi di interpretazione e

ricezione si fondino assolutamente sulle meccaniche narrative e sulle strategie di

esposizione della trama, non unicamente sulle tematiche affrontate o sulle suggestioni

create. Più specificamente, le suggestioni in questione, di disagio, confusione, sorpresa

e terrore sono proprio quello verso cui la strutturazione del racconto fantastico tende.

Appaiono più ragionevoli, per quanto più ridimensionate, le affermazioni di Penzoldt e

Caillois, che mettono al centro della loro definizione il fatto che ”tutte le storie

soprannaturali sono storie di paura che ci costringono a chiederci se quel che crediamo

pura immaginazione non sia, dopo tutto, realtà.”238 E, infine, Callois definisce il

fantastico come caratterizzato fortemente da “un’impressione di stranezza

irriducibile.”239

Tornando all’analisi di Todorov240, non possiamo evitare di riportare le riflessioni su

quella gradazione che il critico effettua del fantastico, che va dallo strano al

meraviglioso, passando per il fantastico puro. Queste distinzioni non sono tanto

238 Penzoldt, Peter (1952) The Supernatural in Fiction, London, Peter Nevill, in Todorov, Tzvetan, op. cit. 239 Callois, Roger (1965) Au coeur du fantastique, Paris, Gallimard in Todorov, Tzvetan, op. cit. 240 Forti sono state e sono tuttora le controversie sui diversi approcci al fantastico. Todorov, ad esempio, tende a concentrare tutta la

pregnanza della questione sull’ambito puramente letterario dell’opera, decidendo di tralasciare consapevolmente gli aspetti sociologici, psicologici e simboliche. Egli riconduce tutto a un’analisi del testo senza spaziare verso le influenze extra-letterarie.

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tematiche (la forza di Todorov sta appunto nella genericità delle sue affermazioni)

quanto nell’interpretazione a cui sia l’autore che il lettore decidono di aderire.

“Alla fine della storia, il lettore, se non il personaggio, prende comunque una decisione, opta per l’una o l’altra soluzione e quindi, in tal modo, evade dal fantastico. Se decide che le leggi della realtà rimangono intatte e permettono di spiegare i fenomeni descritti, diciamo che l’opera appartiene a un altro genere, lo strano. Se invece decide che si debbono ammettere nuove leggi di natura, in virtù delle quali il fenomeno può essere spiegato, entriamo nel genere del meraviglioso.”241

Come esempio per avvalorare questa affermazione, Todorov riporta il caso del

romanzo nero (o Gothic Novel) in cui si osservano le tendenze del “fantastico spiegato”

(strano) e del “fantastico accettato” (meraviglioso). Questa struttura diventa modulare,

partendo dallo strano puro, passando per il fantastico strano e il fantastico

meraviglioso e arrivando fino al meraviglioso puro. Come si può collocare l’opera presa

in esame, in questo schema? In base al finale che, in ogni caso, prevede una presa di

consapevolezza del personaggio e del giocatore che motiva tutta l’avventura vissuta in

ottica di proiezione psichica e di catarsi, non possiamo dire di trovarci davanti a un

fantastico puro, perché viene comunque fornita una spiegazione. alla fine della

vicenda. Nonostante ci sia una motivazione conclusiva che getta luce sull’intera

vicenda, non ci troviamo di fronte nemmeno a uno strano puro, in quanto la

spiegazione non è decisamente razionale: se si capisce infatti perché il protagonista viva

questa esperienza, non si capisce come l’esistenza di un luogo come Silent Hill (e, di

conseguenza, dei suoi abitanti mostruosi) sia possibile. Ci troviamo probabilmente

davanti a quella che Todorov definirebbe una narrazione appartenente al fantastico

meraviglioso, perché seppure non ci sia una spiegazione per gli eventi sovrannaturali

della vicenda, il protagonista comunque non smette mai di interrogarsi sulla natura di

questi fenomeni e non arriva mai ad accettarli come normali, ma continua a inscriverli

nel limbo dell’irrazionale e dell’immotivato. Manca comunque quella sospensione tra il

fantastico strano e il fantastico meraviglioso, quell’incertezza che resta addosso al

241 Todorov, Tzvetan, op. cit p. 45

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lettore e lo fa alambiccare su soluzioni egualmente possibili e altrettanto indefinite, il

fantastico puro, insomma. Il giocatore però non resta deluso da questa spiegazione,

perché ha potuto sperimentare, credendoci e immergendosi consapevolmente,

l’esplorazione di un universo comunque fantastico. Poco importa che tutto fosse, alla

fine, l’ipostasi di una proiezione mentale del protagonista: a differenza di un film o di

un libro, in cui ci si rende conto che quello che ci è stato raccontato era tutta una

menzogna o meglio, un’illusione, nel caso di Silent Hill 2 e dei videogiochi in generale,

l’esperienza non è più solo una narrazione, che viene quindi squalificata dal fatto di

essere completamente fittizia, ma è, appunto, un’esperienza fisica, reale, che sia il

protagonista che, soprattutto, il giocatore, hanno alla fine affrontato realmente. La

paura, l’inquietudine, il disagio, la discesa nell’incubo, la rivelazione e la scoperta, a caro

prezzo, della verità, rendono questo fantastico meraviglioso molto efficace e

sicuramente indimenticabile.

In realtà, tuttavia, come abbiamo affermato in precedenza, non possiamo più limitare la

definizione del fantastico alla struttura proposta da Todorov. La prospettiva della

Bessière pare essere non solo più ragionevole, ma anche più adeguata. Tuttavia, è pur

vero che la struttura di Silent Hill 2 e la decisione di far ruotare tutta la narrazione

intorno a una colpa da espiare, a una “falsa” follia del protagonista che si rivela invece

percorso catartico e di purificazione o di dannazione eterna, riporta fortemente a

un’ambiguità di tipo todoroviano. Sia la narrazione e il gameplay* gravitano infatti

totalmente intorno all’ambiguità finale e alla diversa possibilità di interpretazione della

vicenda che viene concessa al fruitore. In questo senso lo schema di Todorov viene

rispettato. L’approccio più legato invece alla natura di “controforma” del fantastico sta

proprio nelle tematiche affrontate e nelle modalità di raccontare la storia: la

conclusione della vicenda non è quella psico-patologica in cui il protagonista è un

pazzo irrecuperabile tormentato dalle proprie visioni, ma è una fine riflessione sulle

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tematiche del “delitto e castigo” o della “colpa ed espiazione” attraverso cui il

personaggio principale, accompagnato dal giocatore, passa.

Silent Hill è dunque un ibrido, che unisce tematiche canoniche del gotico e dell’orrore,

conservando un bilanciamento tra elementi “d’impatto” ed elementi più raffinati: in

questo modo i livelli di lettura si fanno molteplici e c’è chi vive la storia dell’orrore

lasciandosi trasportare (e spaventare) dalle ambientazioni, dai ritmi o dall’estetica dei

mostri e chi, invece, approfondendo la lettura e comprendendo appieno la psicologia

dei personaggi, le loro ragioni e i loro percorsi, arriva a considerarli non più semplici

fantocci che ci permettono di esplorare un mondo dell’orrore, ma individui a tutto

tondo che, come alcuni personaggi dei racconti di Poe, ci ricordano continuamente che

“non siamo loro” ma sottolineano continuamente che, in fondo, siamo esseri umani in

situazioni di vita che possono essere analoghe. Come nella tragedia greca, allora, il

processo di immedesimazione e catarsi è totale, a un livello approfondito di gioco, e

anzi, è proprio attraverso questa nuova tipologia di comunicazione interattiva che noi,

giocatori contemporanei abituati a certi tipi di linguaggio, riusciamo a comprendere

realmente le inquietudini provate dai personaggi. Se un tempo l’idea e la narrazione

dell’orrore che ogni uomo porta dentro di sé veniva meglio convogliato tramite trame

convenzionali, ora è la costruzione di un mondo liminale tra i realia e il meraviglioso e

che possiamo esplorare fisicamente e che però porta con sé tutti quei retaggi, quella

simbologia, quelle tematiche e quei motivi che sono stati costitutivi delle narrazioni del

terrore tradizionali.

Cambia quindi il mezzo, ma non il significato convogliato né gli strumenti

dell’immaginario utili per farlo. Piuttosto, il linguaggio è diverso, perché ci troviamo

davanti a una storia “del passato” raccontata con mezzi del presente. D’altra parte, non

è questa la genialità? Raccontare in modo nuovo e più efficace per i contemporanei

quelle trame e quelle vicende che fanno parte del patrimonio degli esseri umani.

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Bioshock: un universo distopico tra (fanta)scienza ed etica Bioshock è il titolo sviluppato dalla 2K Boston / 2K Australia e distribuito nell’agosto

2007 in tutto il mondo. Il videogioco, a lungo atteso dalla comunità dei videogiocatori

appassionati, si è proposto come un titolo di elevata qualità e con una direzione

artistica molto particolare nel panorama delle action-adventure* first-person shooter*

degli ultimi anni. Se, da una parte, è stata introdotta l’innovazione delle possibilità

combinatorie per l’utilizzo delle armi a disposizione del protagonista (più avanti

descritte in dettaglio), dall’altra il gioco è stato anche fortemente caratterizzato sia dal

punto di vista artistico sia da quello contenutistico, in quanto impone al giocatore di

riflettere su tematiche quali la sperimentazione scientifica e i suoi limiti etici e morali:

“My name is Andrew Ryan, and I’m here to ask you a question: Is a man not entitled to the sweat of his brow?

NO! Says the man in Washington. It belongs to the poor.

NO! Says the man in the Vatican. It belongs to God.

NO! Says the man in Moscow. It belongs to everyone.

I rejected those answers. I chose the impossible. I chose Rapture.

A city where the artist would not fear the censor. Where the scientist would not be bound by petty moralità. Where the great would not be constrained by the small. With the sweat of your brow, Rapture can become your city, as well.”242

Con queste parole si apre l’esperienza di Bioshock: un dis/utopico mondo all’interno del

quale la creatività, la sperimentazione e l’intelletto umano non sono fermati dal

governo, dalla religione o dalla politica. Come ogni meraviglioso assoluto, Rapture, la

città fondata da Andrew Ryan, è un luogo all’apparenza incantato e realmente

futuribile, una sorta di Atlantide contemporanea, culla di una nuova civiltà umana

progredita ed evoluta. È per questo che il giocatore accede affascinato a questo

mondo: l’aereo del protagonista, Jack, si schianta nell’oceano Atlantico e il ragazzo 242 Introduzione a Bioshock, Manuale utente.

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riesce fortuitamente a raggiungere uno strano faro che sorge in mezzo al nulla.

Disorientato e spaventato, Jack entra nel faro per scoprire che è, in realtà, la porta di

ingresso a un batiscafo. Tutto intorno ci sono enormi striscioni inneggianti a Rapture e

alla libertà di pensiero. Senza altra possibilità di salvezza e cercando qualcuno che lo

possa aiutare, Jack sale sul batiscafo che comincia a immergersi nelle profondità degli

abissi. Uno strano filmato ci introduce a quello che sta per succedere: Andrew Ryan ci

parla di Rapture con le parole visionarie e ideologizzate prima citate e, dopo pochi

minuti, ci compare davanti agli occhi questa superba città subacquea, costruita

secondo i più moderni ritrovati della scienza e della tecnica, per quanto ambientata

negli anni ’50 del secolo scorso, e apparentemente popolata da persone finalmente

libere da qualsiasi vincolo morale o da qualsiasi limitazione etica, che possono godere

appieno del tanto adorato “intelletto umano”.

La realtà, purtroppo, è ben diversa dalla teoria: come ogni buona distopia che si

rispetti, Rapture non è più l’incarnazione di quel sogno ideale che era stata all’inizio

della sua esistenza. È ormai diventata un’immensa tomba nascosta nei meandri

dell’oceano all’interno della quale giacciono morti i cadaveri dei suoi abitanti e per le

strade della quale vagano i poveri reietti sopravvissuti. È in questo scenario

apocalittico, ostile e invalicabile che si trova proiettato Jack, sul fondo degli abissi e

senza via di fuga. L’unico aiuto a disposizione di Jack sembra essere Atlas, un cittadino

di Rapture sopravvissuto alla catastrofe che guida noi e il protagonista attraverso le

zone contaminate e infestate di “mostri” affinché possiamo aiutarlo a salvare la sua

famiglia, rimasta intrappolata nella città e affinché possiamo giungere al punto di fuga

da cui potremo risalire in superficie e lasciarci alle spalle gli obbrobri di Rapture.

Cosa è successo in questa città ricca di speranze e ormai cannibalizzata dai suoi stessi

abitanti? Lo sperimentalismo senza freni promosso e incoraggiato da Andrew Ryan si è

rivoltato contro i propri creatori, la creatura si è ribellata al proprio creatore.

“Plasmids are special serums made from processed ADAM that introduce special stem cells into your system, allowing for genetic modification and real time mutation, giving you what

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some might call "super powers". Plasmids are powerful, but their development and overuse have caused the downfall of Rapture.”243

La sperimentazione genetica è stato il caposaldo di Rapture. Quello che gli scienziati

mettevano a disposizione dei cittadini erano, letteralmente, miglioramenti genetici che

apportassero dei miglioramenti nella qualità della vita. Il problema è che per

funzionare queste modifiche genetiche prevedevano l’introduzione nell’organismo

ospite di due diversi “sieri”, l’ADAM e l’EVE, complementari ed entrambi necessari

affinché il soggetto potesse realmente utilizzare i poteri conferiti dalla modificazione.

Di questi due, l’EVE è una sorta di “ricarica”, che permette alle modificazioni genetiche

ridotte a “Plasmidi” di essere attive. L’ADAM, invece, è molto più “invasivo” e, in

sostanza, è l’entità prima che, scoperta dagli scienziati di Rapture, ha reso possibili le

mutazioni genetiche di massa:

“ADAM is the raw form of the unstable stem cells harvested and processed from a type of sea slug parasite. It acts like a seemingly benign form of cancer, destroying native cells and replacing them with the unstable stem versions. While it is this instability that gives it its amazing properties, it is also what causes the cosmetic and mental damage.”244

Nulla di “magico” o “alieno”, quindi: ci troviamo davanti a un essere delle profondità

marine la cui composizione cellulare permetterebbe di generare una sorta di “cancro

benigno” nell’organismo ospite, così da sostituire letteralmente le cellule originarie con

cellule più instabili. È la scienza, quindi, non Dio né la magia, ad aprire la strada verso

l’evoluzione dell’uomo. Evoluzione che, ovviamente, porta con sé atroci conseguenze: i

corpi che subiscono questa mutazione sono, inizialmente, più potenti e “performanti”

di prima. Lentamente, tuttavia, avviene una strana degenerazione che riguarda sia il

fisico che la mente: il corpo comincia a diventare mostruoso, le cellule mutano in modo

incontrollato e irreversibile, mentre a livello psicologico si sviluppa una sorta di

243 Come avviene, ultimamente, per ogni videogioco che abbia un notevole impatto e apprezzamento, sia di pubblico che di critica,

vengono sviluppati “centri autorevoli” di raccolta delle informazioni e degli approfondimenti riguardanti il gioco. In questo caso, la fonte più autorevole (compilata sia dagli utenti che dagli sviluppatori stessi) è un Wiki, http://bioshock.wikia.com/, dal quale, a nostra volta, attingeremo le informazioni più aggiornate e attendibili utili alla nostra analisi.

244 Ibid.

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assuefazione e di dipendenza tale per cui tutti i mutati cercano sempre più ADAM e

sempre più EVE, accelerando quindi il compromettersi dei loro tessuti e della loro

integrità. L’aggressività e la follia sono due degli effetti collaterali più visibili, insieme

alla degenerazione fisica. Tutti gli abitanti di Rapture sono infatti esseri mostruosi che

si aggirano in branchi per questa città morta alla ricerca di quelle sostanze che hanno

causato la loro rovina, ma di cui non possono più fare a meno.

In questo scenario terrificante, ci troviamo con Jack a dover affrontare un percorso

sconosciuto per giungere al punto di fuga, guidati dalla sola voce di Atlas, un cittadino

rimasto immune all’effetto dell’ADAM che si offre di aiutarci, dalla sala di comando in

cui si trova, per farci giungere incolumi alla libertà. Andrew Ryan, che minaccia

continuamente Jack dalla sua postazione invisibile, accusa il protagonista di essere un

agente del governo giunto per distruggere il suo “sogno”, ossia la città che sta già

divorando se stessa. Atlas, per fortuna, è dalla parte di Jack e lo aiuta in ogni modo

guidandolo attraverso i cunicoli e i passaggi della città. Durante il cammino, Jack trova

dei diari e delle registrazioni audio: questi sono elementi fondamentali per

comprendere appieno la trama leggendoli e ascoltandole riesce a ricostruire quello che

è realmente successo nella città e a individuare i “veri responsabili” di quella rovina.

Viene a conoscenza dei nomi dei responsabili dell’introduzione dell’ADAM tra la

popolazione della città: il dr. Steinman, il chirurgo plastico che ha trovato il modo di

innestare le cellule di ADAM negli esseri umani e Diane McClintock, una delle sue

pazienti. Proprio il dott. Steinman diventa uno dei “nemici” che Jack deve eliminare, su

consiglio di Atlas, per riuscire a fuggire dalla prigione subacquea. Dopo la morte del

dottore, Jack prosegue la sua esplorazione, venendo a conoscenza delle cosiddette

“sorelline” e dei “Big Daddies”: questi esseri sono esseri simbiotici che si aggirano per la

città per mantenere una parvenza di controllo e per evitare che i mutati si impossessino

in modo scellerato dell’ADAM che resta a disposizione. Le “sorelline” sono delle

bambine con un altissimo livello di ADAM nel proprio corpo, eppure senza vere e

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proprie modificazioni genetiche. Sono una sorta di “depositario” mobile di ADAM.

Vagano insieme ai Big Daddies, che le difendono, e prelevano l’ADAM dai cadaveri in

putrefazione dei mutanti morti che trovano sul loro cammino. La “madre” putativa di

queste bambine è la dottoressa Tenembaum, una scienziata vittima dell’olocausto che

si è salvata solo grazie alla sua collaborazione con i nazisti in ambito medico-scientifico.

La dottoressa spiega a Jack (e al giocatore) il “funzionamento” delle sorelline: dato che

contengono ADAM puro, non sono realmente e irrimediabilmente corrotte: è possibile

prelevare l’ADAM dal loro corpo uccidendole, ottenendo così una quantità massima del

fluido, oppure “purificandole”, ottenendo metà della quantità che possiedono ma

lasciandole in vita.

Questa spiegazione è fondamentale in quanto pone il giocatore davanti al dilemma

morale che condizionerà tutta la linea narrativa: se Jack deciderà di uccidere le sorelline

e di impossessarsi di tutto il loro ADAM, sarà sicuramente più potente e riuscirà ad

arrivare al termine del suo percorso. Se le risparmierà e prenderà meno ADAM, rischierà

di non riuscire a contrastare i nemici che man mano incontrerà nel suo cammino, ma

ridarà la vita e la libertà a degli esseri completamente innocenti. Il dilemma è più

complesso di quanto appaia e lo analizzeremo meglio più avanti.

Jack continua a esplorare la città cercando una via d’uscita e viene a conoscenza

dell’esistenza di Fontaine, un uomo d’affari spietato e senza scrupoli che ha sfruttato

l’ADAM per arricchirsi, pur essendo consapevole dei rischiosi effetti collaterali. Andrew

Ryan inizialmente appoggiava Fontaine, perché vedeva in lui il simbolo della libertà

imprenditoriale che doveva essere Rapture, ma ben presto si rende conto che è una

figura troppo potente e che va eliminata. Ryan è quindi, apparentemente, il “nemico”

da affrontare: lo diventa ancora di più quando Jack, sempre guidato da Atlas,

raggiunge la batisfera all’interno della quale si trova la famiglia di quest’ultimo e tenta

invano di salvarla, in quanto Ryan fa esplodere il veicolo, uccidendo la famiglia di Atlas

e impedendo a Jack di fuggire. Ryan diventa il bersaglio successivo in questa lotta

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contro nemici invisibili, di cui non conosciamo nemmeno troppo bene la

colpevolezza…

La ricerca di Ryan porta Jack a scoprire ambiguità sul passato di Atlas: nessuno,

all’interno di Rapture, è veramente quello che sembra, soprattutto ognuno ha un

passato discutibile ed eticamente problematico da nascondere. Le perplessità di Jack (e

del giocatore) sul suo aiutante sono però accantonate nel momento in cui Ryan

avvelena l’Arcadia, enorme foresta di Rapture che fornisce ossigeno all’intera città.

Grazie alla guida di Julie Langford, la scienziata madre dell’Arcadia, Jack riesce a

sventare la distruzione della foresta, ma Julie muore uccisa da Ryan. Sempre alla ricerca

di Ryan, Jack si imbatte in un suo “secondo”, Sander Cohen, un folle artista visionario

che costruisce statue con i cadaveri degli abitanti: questo personaggio, insieme alla

dottoressa Tenembaum, rappresenta l’orrore psicologico che contamina e abbrutisce il

fisico. La follia di questo personaggio è infatti manifesta e lo scempio che compie con i

cadaveri è innominabile. Jack dapprima asseconda le morbose ossessioni di Cohen,

procurandogli cadaveri per le sue sculture, poi capisce che se vuole raggiungere Ryan

deve liberarsi anche di questo nemico e, dopo uno scontro rocambolesco, lo uccide.

Ormai ossessionato dal desiderio di fuga e, insieme, dalla volontà di uccidere Ryan, che

sembra il responsabile di tutto quello che è successo, Jack cerca di violare il suo rifugio

con un impulso elettromagnetico volto a mettere fuori uso tutti i macchinari di Rapture

e a far aprire i portelloni del nascondiglio di Ryan. Questi ammette, stranamente, di

essere ormai allo stremo delle sue forze e di non poter più contrastare né Jack né Atlas

(che continua a seguire Jack dalla torretta di comando).

Il confronto tra Jack e Ryan ha finalmente luogo, ma rivela una verità decisamente

inquietante, che getta una nuova luce su tutta la vicenda. Una delle scoperte

scientifiche “collaterali” e non troppo pubblicizzate degli scienziati di Rapture era il

condizionamento verbale. Gli scienziati di Rapture avevano, in pratica, scoperto come ri-

programmare gli individui, non solo dal punto di vista genetico, ma anche da quello

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cognitivo, emotivo e comportamentale: Jack è un esempio di questi esperimenti. Nato e

cresciuto a Rapture, dotato di falsi ricordi e “confinato” nel mondo reale, Jack è in realtà

uno strumento di Fontaine (che non è affatto stato sconfitto da Ryan e che si rivela

essere Atlas, la voce che ha guidato Jack attraverso tutta l’avventura) creato

appositamente per distruggere Ryan e permettere a Fontaine stesso di acquisire il

pieno controllo sulla città. Le parole che Atlas-Fontaine ha ripetuto per tutto il

percorso, “Would you kindly…” sono in realtà una formula ipnotica che spinge il

soggetto (Jack, in questo caso, ma anche il giocatore) a compiere gli atti più scellerati

considerandoli normali o addirittura “necessari”: è per questo che Jack si è modificato

geneticamente senza nemmeno pensarci due volte, che ha ucciso persone che

nemmeno conosceva e che, chiaramente, lottavano solo per la propria sopravvivenza.

Tuttavia, la consapevolezza non annulla il controllo psicologico che Fontaine ha sul

protagonista e, all’ennesima richiesta cortese, Jack uccide Ryan completando il piano di

Fontaine. D’altra parte, e queste sono le parole con cui Ryan accetta la propria morte, “A

man chooses, a slave obeys!”. E Jack, e con lui il giocatore, è lo schiavo. Dopo l’uccisione

di Ryan, Fontaine cerca di sbarazzarsi di Jack il quale viene salvato in extremis proprio

da una delle sorelline a cui, nel corso del gioco, ha risparmiato la vita245.

A questo punto, prima dello scontro finale con Fontaine, Jack ha la possibilità di parlare

con la dottoressa Tenembaum, creatrice delle sorelline e dei guardiani Big Daddies, e di

constatare come non tutto a Rapture sia perduto: le bambine si possono salvare e con

loro anche Jack. La Tenembaum, infatti, aiuta Jack a liberarsi del gioco psicologico di

Fontaine e a crearsi un’individualità e una coscienza. Per raggiungere Fontaine, aiutato

ancora una volta dalle “sorelline”, Jack deve vestire i panni proprio di uno di quegli

atroci Big Daddies che ha combattuto per tutta la durata della sua esplorazione: questa

volta, a differenza delle altre, però, è in seguito a un atto volontario che Jack decide di

equipaggiarsi come un Big Daddy. Lo scontro finale è a base di sola forza bruta: le

245 In realtà, questo esempio si lega alla scelta, nel corso del gioco, di non uccidere nessuna (o, al limite, di uccidere solo una) delle

sorelline.

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mutazioni genetiche subite sia da Fontaine che da Jack li fanno scontrare con forza e

spietatezza. Jack riesce ad avere la meglio, sconfigge Fontaine, e ha salva la vita solo

grazie, ancora una volta, a una delle “sorelline”.

I nemici sono stati tutti sgominati ed è ora di affrontare la conclusione della storia:

avremo due finali diversi, a seconda delle scelte compiute da Jack nei confronti delle

“sorelline”, nel corso del gioco. Nel caso Jack fosse stato travolto dalla brama di ADAM e

abbia ucciso le “sorelline” per averne un maggior quantitativo, dopo lo scontro con

Fontaine Jack non riuscirà a reprimere la sua natura e ucciderà ancora le “sorelline”,

anche quella che lo ha salvato dal nemico finale. Jack morirà in una Rapture ormai in

disfacimento, mentre un gruppo di mutati riuscirà a uscire sulla terra dove non ci è

dato sapere quello che succederà.

Se, invece, Jack ha conservato la sua umanità, durante l’avventura, evitando di uccidere

le sorelline, a questo punto riuscirà, grazie al loro aiuto, a fuggire da Rapture,

portandole con sé. La dottoressa Tenembaum resterà nella città ormai in disfacimento,

per espiare le proprie colpe e sacrificarsi. Jack, con le bambine tratte in salvo, vivrà

invece la sua vita da uomo (e non da schiavo) sulla terra, con una nuova (e questa volta

reale) famiglia al suo fianco.

Un elemento, all’interno di questa panoramica del gioco, è fondamentale per la nostra

analisi. Da questa breve descrizione della trama, ci rendiamo conto di diversi aspetti che

riguardano, innanzitutto, la caratterizzazione dei personaggi. Il protagonista è un uomo

qualunque, senza una caratterizzazione particolare, senza un chiaro passato, senza delle

attitudini o delle particolarità di spicco. Per la precisione, Jack ha una storia alquanto

ricca: è figlio illegittimo di Andrew Ryan e di una sua compagna, è stato “acquistato”

segretamente dalla dottoressa Tenembaum e sottoposto a trattamenti sperimentali per

conto di Fontaine, il capitalista arrivista nemico sia di Ryan che di Rapture. Questi

dettagli sulla vita di Jack, tuttavia, sono “interlocutori”: emergono, cioè, solo a uno

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studio approfondito e non sono minimamente influenti a livello di gioco. La

narrazione della storia passata del protagonista, in sostanza, non serve per capire

veramente il suo presente e le sue azioni nel contesto dell’avventura che sta vivendo. I

mostri-nemici, denominati Splicers, che si incontrano continuamente nel corso del

gioco, sono mostruosità senza un passato, personaggi che servono solo a rafforzare

l’estetica della città (sono infatti tutti vestiti e agghindati in modo coerente con lo stile

Art Decò di Rapture):

“Splicers, also known as Aggressors, are the main enemies that Jack encounters over the course of the game. The remains of Rapture’s human population, they are the result of a planned attack by Fontaine on New Year's Day, 1959 to end the civil war between him and Ryan. They apparently murdered the sane population. Many of them still wear Masquerade Ball masks, and Atlas asks, ‘Why do they wear those masks? Maybe there's a part of them that remembers how they used to be, how they used to look. And they're ashamed.’”246

Sono degli spettri, delle parvenze aggressive che vengono classificate in base alle loro

abilità genetiche e non in base a motivazioni o personalità, che sembrano non esistere.

I nemici che costituiscono la “mente” del piano sono stereotipati. Fin dalla citazione

iniziale, dal motto di Andrew Ryan inneggiante alla libertà dell’individuo, possiamo ben

classificare il suo personaggio come un dittatore illuminato, che cerca di concretizzare

un’utopia umana che, seppur potenzialmente positiva, viene contaminata proprio dagli

uomini che dovevano portarla a termine.

Ryan è un ex cittadino sovietico, fuggito dal suo paese in seguito all’uccisione della sua

intera famiglia. La sua filosofia prevede che l’uomo non debba avere vincoli (sociali,

politici, religiosi) per potersi esprimere appieno e per poter concretizzare quello che in

fondo è il sogno americano del successo nonostante tutto. Dopo essere emigrato in

America, Ryan dedica la sua vita alla realizzazione del suo sogno: la distruzione di

Hiroshima durante la Seconda Guerra Mondiale gli fa capire che nessuno dei paesi noti

poteva essere la patria del nuovo impero che voleva costruire. Decide allora di costruire 246 Ibid.

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Rapture, una città isolata dal mondo, praticamente irraggiungibile e, paragonandola a

una novella Atlantide sottomarina riversa tutti i suoi sogni di gloria in quella comunità,

concentrandovi i migliori scienziati e uomini di affari dalla moralità discutibile. Grazie

alla scoperta dell’ADAM, Ryan riesce a rendere Rapture un luogo veramente particolare e

a dare vita a quella comunità “per famiglie speciali” che ha sempre sognato. Purtroppo,

tuttavia, le ambizioni personali di Fontaine (uno degli uomini d’affari più influenti della

città) spingono Ryan e Fontaine a uno scontro diretto che sfocia letteralmente in una

guerra civile e che conduce Rapture sull’abisso in cui la trova Jack.

Il personaggio di Ryan è, insieme alla dottoressa Tenembaum, quello meglio

caratterizzato: uomo dai forti ideali, ripete continuamente di essere un uomo, appunto,

e non uno schiavo e, una volta constato il completo fallimento della propria “Grande

Opera”, Ryan decide consapevolmente di morire per mano di Jack, decidendo ancora

una volta il proprio destino, non subendolo.

La dottoressa Tenembaum è una scienziata sopravvissuta all’olocausto grazie alle

proprie intuizioni e alla collaborazione con i nazisti. Le sue intuizioni scientifiche e la

sua applicazione l’hanno resa una preziosa risorsa per gli scienziati di Hitler, ma anche

una perfetta collaboratrice al progetto di Ryan: entusiasta, geniale e spregiudicata, la

dottoressa Tenembaum è la prima a scoprire l’ADAM sulle lumache di mare che analizza

a Rapture ed è la madre-creatrice di quegli esseri che sono le “Sorelline”, piccole

bambine in grado di spostarsi agilmente per la città e di impossessarsi dell’ADAM

estratto dai cadaveri. Il personaggio con cui Jack e il giocatore si confrontano durante

l’avventura è una donna attanagliata dai sensi di colpa, che ha sviluppato un istinto

materno nei confronti delle creature sventurate a cui ha dato i natali e che cerca l’aiuto

di Jack (e del giocatore) per salvarle e redimerle.

Atlas è un cittadino di Rapture che promette di aiutare Jack a fuggire dalla città e

chiede il suo aiuto per salvare la propria famiglia. Atlas è l’ennesimo personaggio di cui

Jack ascolta solo la voce, per lungo tempo, e di cui si deve ciecamente fidare, perché

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non ha altri appigli o possibilità concrete di salvezza. Atlas condivide, per tutto il

viaggio di Jack attraverso la città, lo sdegno e il disgusto per quanto è successo e per la

trasformazione di Rapture da luogo utopico e idilliaco247. In realtà, il personaggio di

Atlas, con tutta la sua storia e il suo contesto, non esiste: o meglio, non esiste più. Atlas

era infatti un cittadino di Rapture, sindacalista e difensore strenuo dei diritti degli

abitanti, ucciso durante uno dei primi scontri della guerra civile tra Ryan e Fontaine.

Atlas è, in effetti, Fontaine stesso che ha guidato, non visto e non riconosciuto, i passi

di Jack sulla strada che egli voleva che il protagonista (e con lui il giocatore)

percorresse. Fontaine, che può essere considerato il vero antagonista di questa vicenda,

è un uomo d’affari che ha investito nel piano visionario di Ryan e che ha sviluppato, in

parte, l’alta tecnologia necessaria alla costruzione e al mantenimento della città.

L’atteggiamento di Ryan nei confronti di Rapture è stato di protezionismo e

intransigenza estrema: non solo aveva costruito la città per liberarsi dal giogo e

dall’oppressione di stato e religione, ma non voleva nemmeno che i suoi abitanti

potessero in alcun modo avere contatto con artefatti (quali, ad esempio, la Bibbia) che

potessero influenzare negativamente il loro pensiero o condurre alla riproduzione di

una situazione analoga a quella sulla terra. Fontaine sembra contrapporsi a questa

visione assolutista e cerca di ridimensionare (soprattutto attraverso il contrabbando)

l’assolutismo di Ryan. In realtà, quello che interessa a Fontaine è acquisire il controllo

sulla città nel suo insieme, non liberarla dal “giogo del nuovo tiranno”, e per farlo

mette in atto un piano lungo e complesso: rapisce segretamente Jack, il figlio

illegittimo di Ryan, e grazie alla dottoressa Tenembaum e a un suo collaboratore lo

sottopone al lavaggio del cervello, in modo tale da avere un “braccio armato” che,

provenendo dall’esterno e inconsapevole dei giochi di potere di Rapture, lo aiutasse

passivamente a soverchiare il regno di Ryan. Per sviare ulteriormente i sospetti da sé,

247 Solo verso la parte finale dell’esplorazione sia Jack che il giocatore cominciano a notare delle stranezze: in particolare, la formula fissa

utilizzata continuamente da Atlas quando dà consigli o suggerimenti a Jack, ossia “Would you kindly…” comincia a suonare stonata e fuori luogo, soprattutto quando Atlas la ripete meccanicamente in quelle situazioni di tensione o pericolo in cui una richiesta tanto cortese pare assurda.

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Fontaine inscena la sua morte: in questo modo nessuno arriva a sospettare di lui, né

Jack (i cui ricordi sono comunque distorti e plagiati) né Ryan, che capisce solo alla fine

che Jack è un burattino nelle mani del suo vecchio nemico.

La trama di Bioshock si presenta in modo diverso a seconda delle sessioni di gioco: nel

corso della prima esperienza, l’attenzione del giocatore è agli enigmi più superficiali e

alle meccaniche più evidenti, che servono strumentalmente per proseguire nella storia,

per superare tutti gli sbarramenti e per arrivare alla fine della vicenda, scoprendo così il

colpo di scena finale. Affrontando di nuovo il percorso248, tuttavia, l’attenzione del

giocatore si può concentrare su elementi apparentemente secondari, ma che a livello

critico e di analisi sono fondamentali: tutto il mondo, con gli infiniti dettagli, con le

infinite sfumature, costruito intorno a Jack racchiude una narrazione parallela, che può

essere ignorata in prima istanza dal giocatore frettoloso che cerca solo la conclusione

delle vicende, ma che diventa invece fondamentale, conferendo profondità ai

contenuti del gioco, agli occhi di quei giocatori che vogliono vivere appieno

l’esperienza di Rapture. Per questo motivo, la trama, più che in altri casi, ha due evidenti

livelli di lettura e può essere raccontata diversamente, in modo più o meno superficiale,

in base all’esperienza di gioco che il giocatore ha avuto.

Il gameplay* è costruito in modo tale da avvincere il giocatore, in una prima fase di

gioco, perché è fondato su un sistema combinatorio aperto, nel senso che è il singolo

giocatore a decidere come equipaggiare il proprio personaggio con i Plasmidi di cui

abbiamo parlato, in base alle scelte strategiche che ritiene più opportune, ma anche in

base all’abilità di esplorazione che ha dimostrato: i Plasmidi, infatti, sono sparsi per

tutto il mondo di gioco. Alcuni sono di fondamentale importanza (ossia, senza di essi il

248 I motivi che spingono un giocatore a ri-giocare un gioco sono molteplici: da una parte, ci sono quelli comuni al processo di rilettura di

un libro o di visione di un film, ossia il fruitore cerca di approfondire la propria conoscenza di un’opera che ha suscitato in lui emozioni particolari. Questo meccanismo non è nuovo ed è comune a tutte le opere di finzione, d’arte o di comunicazione in generale. D’altra parte, il mezzo interattivo del videogame sfrutta anche la componente della competitività: pur essendo Bioshock un gioco fruibile esclusivamente in modalità single player, è possibile inviare i dati dei propri successi e dei propri traguardi (in gergo, “achievements”) a un server centrale che, in seguito, li rende comuni a tutti i giocatori della comunità on-line di quel gioco specifico. Gli achievements non possono essere tutti sbloccati nel corso della prima sessione di gioco, quindi si sviluppa un circolo virtuoso per cui i giocatori spontaneamente curiosi rigiocheranno il gioco in ogni caso, mentre quelli più “pigri”, ma più attaccatti al loro punteggio on-line decideranno di giocarlo anche solo per sbloccare tutti gli achievements presenti.

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giocatore non riesce a proseguire), altri invece sono opzionali, e possono o meno

costituire la dotazione di Jack. La combinatoria dei Plasmidi, tuttavia, dopo una prima

fase in cui al giocatore viene richiesto l’apprendimento, la sperimentazione e

l’individuazione delle combinazioni più efficaci, diventa, per così dire, trasparente, e

passa in secondo piano rispetto alla trama e a tutti i dettagli che raccontano qualcosa

di Rapture o dei suoi abitanti. Se, da una parte, una delle limitazioni del gioco è il suo

gameplay* molto facilmente assimilabile e piuttosto ripetitivo (ossia combinare i

plasmidi in modo diverso e uccidere i nemici che si incontrano in una logica da FPS*)

bisogna anche osservare come proprio questa ripetitività delle azioni necessarie per

progredire nel gioco permetta al fruitore di concentrarsi su altri elementi, che non

siano necessariamente quelli di abilità legati al gameplay* ma, piuttosto, quelli di

intelligenza e capacità di osservazione legati agli enigmi e alle informazioni sparse in

tutta Rapture. Più che “carenze” dal punto di vista del gameplay*, allora, dovremmo

parlare di bilanciamento dell’elemento interattivo e di quello narrativo in favore di

quest’ultimo. D’altra parte, la scelta della semplificazione del gameplay* si affianca a

quella della caratterizzazione dei personaggi (i cosiddetti “nemici” che Jack affronta

continuamente sul suo percorso) e all’ambientazione che fa da sfondo agli eventi.

La scelta di far vivere al giocatore un’esperienza che sia prima di tutto narrativa, e solo

in secondo luogo interattiva nel senso videoludico del termine si affianca alla tipologia

di nemici che il giocatore deve affrontare: i personaggi sono maschere, sono stereotipi

portatori di significato che servono per aiutare il fruitore a concentrarsi sulle idee

veicolate più che sugli eventi o sui singoli “tipi” presentati:

“Science fiction has often been criticized as a literature more concerned about ‘ideas’ than about ‘characters’ – as if that were an obvious fault! Science fiction is often about ideas, just as a science is about knowing and the quest for knowing. The quest for knowing is the theme of much of our literature, a fundamental aspect of the tale of the Fall, of the myth of Prometheus, of the version of Faust, and of all narratives of initiation and coming of age. Who would complain that the character of Prometheus is not drawn in the manner of the psychological realist or that we have no hints of Faust’s toilet training? In fact, many science fictions do deal with subtly defined characters, but the special hallmark of the field is that

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the characters live in dramas that speak to our whole culture or to whole aspects of the human condition, rather than to the particularities of a brief cultural moment intersecting a person at a fleeting stage of life.”249

La scelta di ambientare Bioshock in una piega della contro-storia, in un luogo remoto e

isolato come una città subacquea, allontanando quindi i fatti dal momento attuale e

dai luoghi a noi ben noti, è una scelta che va di pari passo con la caratterizzazione

“superficiale” dei personaggi. A differenza di quanto accade in Silent Hill 2 o in Shadow of

the Colossus, qui il giocatore non è portato a immedesimarsi con uno o più personaggi e

a simpatizzare con essi, ma a riflettere sull’ambiente, sulle circostanze e sulle

motivazioni che spingono i personaggi ad agire – ma non sui personaggi stessi.

Anziché affermare che questa cifra stilistica del gioco costituisca un “problema” o una

limitazione di Bioshock, preferiamo aderire alla prospettiva di Rabkin e considerare

questo un segnale di adesione al genere della fantascienza. Il protagonista delle

vicende è Jack, accompagnato dal giocatore, ma l’attenzione e il focus principali sono

sicuramente sulla città di Rapture come fallimento di un ideale e distopia.

D’altra parte, la definizione di fantascienza che dà Rabkin è chiara e molto ampia:

“My definition of science fiction as the branch of fantastic literature that takes scientific knowledge a sits background is useful if we wish to emphasize the literary techniques and reader responses associated with much science fiction. While no single definition seems to have been fully satisfactory for all discussions, all definitions rely on the recognition that the worlds of science fiction are, often aggressively, not our world and yet, often quite subtly, the worlds of our inner doubts and wishes.”250

La definizione di fantascienza si adatta perfettamente al concetto di distopia, incarnato

dalla città protagonista in Bioshock: non è sicuramente il nostro mondo, ma è di certo

uno dei mondi che vivono nei nostri dubbi e nelle nostre domande. Cosa

succederebbe, in realtà, se venissero liberalizzate in modo folle e scellerato, a metà tra

un’ideologia malata e il capitalismo ad ogni costo, le ricerche medico-scientifiche? La

249 Rabkin, Eric (ed.) (1983) Science Fiction. A Historical Anthology, Oxford University Press, Oxford, New York, pp. 6-7 250 Ibid, p. 5

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fantascienza si è sempre posta questa domanda, in effetti, fin dal suo primo

“esemplare” letterario, ossia dal romanzo Frankenstein, generalmente considerato

l'iniziatore ufficiale di questo genere. Nel corso di questa analisi individueremo

parallelismi strutturali e tematici tra Bioshock e opere quali, appunto, Frankenstein di

Mary Shelley, 1984 di George Orwell e, in generale, con i concetti di utopia e distopia in

ambito letterario. Prima di addentrarci in questa analisi, tuttavia, è importante mostrare

come Bioshock risponda a molti dei requisiti o, in generale, delle caratteristiche

individuate da Rabkin nei suoi studi sulla fantascienza e nelle evoluzioni che questo

genere ha subito nel corso dei secoli.

Rabkin individua cinque periodi ben distinti eppure “comunicanti”251 tra di loro che ci

aiutano ad avere una visione globale della fantascienza. Innanzitutto, questa

“declinazione” del fantastico che oggigiorno pare permeare ogni singolo aspetto della

nostra vita, è un'invenzione letteraria moderna, nata nel secolo dei lumi a seguito

dell'affermazione del metodo scientifico. Non a caso, alcune tra le opere che possiamo

ritenere precorritrici della fantascienza sono opere di satira nate per fare leva sui timori,

decisamente irrazionali, nati proprio dalle infinite possibilità messe a disposizione

dell'uomo proprio dalla scienza:

“Science fiction is particularly well suited to such contrasts because it simply postulates the most dramatic alternative worlds one might wish, and beginning in the seventeenth century science itself made such postulation seem worth considering.”252

Le proposte e le possibilità prospettate dalla scienza sei-settecentesca hanno

sicuramente avuto un grande impatto sull'immaginario degli autori del periodo. Il

Rinascimento e la “normalizzazione” di quelle discipline che erano state prima più

legate alla magia e all'alchimia, la definizione di un metodo, la scoperta (dal Novum

Organum di Francis Bacon in poi) che la scienza non era un semplice “dono divino” ma

uno strumento da utilizzare a discrezione dell'uomo, che ha dato un giro di vite alla

251 Cfr. paragrafo “Il fil rouge del fantastico”. 252 Rabkin, Eric, op. cit. p. 7

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percezione dell'uomo delle proprie potenzialità e dei propri confini. Figure come quelle

di Copernico, Keplero e Galilei hanno contribuito ad affrontare la scoperta di “settori”

che prima erano inesplorati, sconosciuti o dominio della religione: la scoperta che lo

spazio, sia terrestre che celeste, è uno spazio fisico, regolato da leggi ben precise che

nulla hanno a che vedere con Dio o con l'intervento divino, ha modificato la sensibilità

per sempre e ha portato alla “liberalizzazione” del pensiero fantastico. Opere come

Other Worlds di Cyrano de Bergerac o Gulliver's Travels di Johnatahn Swift sono state

concepite, in parte, proprio grazie alla scoperta e alla divulgazione di questi nuovi

paradigmi scientifici. Forte è, sicuramente, la componente filosofica e speculativa, oltre

che satirica, presente in queste prime opere. In generale, questa prima fase si situa a

cavallo tra la nascita e lo sviluppo vero e proprio della fantascienza come genere

autonomo ed è servita per “creare” le basi su cui si fonderanno le opere successive.

L’introduzione della scienza nella quotidianità ha cambiato tutto:

“The emergence of modern science threw human understanding into question, and the fiction that responded to these new uncertainties and certainties, both true and false, addressed a world in which the nature of things required discussions. The extreme contrast of scale that astronomical distances encourage led to the most dramatic commentaries, philosophical humour, satire. From its birth, the, science fiction has responded to science – and to the questions science raises – with speculation, adventure, invention, and satire.”253

Dopo una fase più disimpegnata di sperimentazione delle potenzialità della scienza, si

è passati all'affrontare le problematiche etiche e morali che da questa sperimentazione

derivano. La natura umana diventa la protagonista indiscussa dei racconti e da

allegoriche le vicende descritte diventano metaforiche. In effetti, la seconda fase della

fantascienza attraversa gli anni dell’Ottocento che vedono, tra le altre, scoperte quali i

mezzi a vapore e la fotografia: queste innovazioni hanno contribuito alla modificazione

non solo della rappresentazione, a livello di arti grafiche e riproduzioni, ma anche a

livello di preservazione e trasmissione delle informazioni e, di conseguenza, dell’utilizzo

della memoria: 253 Ibid. p. 12

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“(...) the first two decades of the century saw the development of large and reliable steamboats, allowing commercial, military, and personal transportation to be put on a cheap and scheduled basis free of the accidents of wind; the advent of photography in 1835 drastically diminished the utilitarian role of graphic art, changing the relationship of art to skill and in one important function superseding human memory.”254

È in un contesto di questo tipo, in cui all'uomo vengono affidate le chiavi e le

potenzialità della scoperta, che si sviluppano figure di individui dalla forte volontà che

cercano una verità che vada al di là della comprensione umana: il senso della vita, del

tempo, l'immortalità, la capacità di creare sono solo alcune delle tematiche toccate in

opere come The Time Machine di Wells, o Frankenstein della Shelley:

“The figure of the private seeker for power too great for his own good goes far back in legend and in literature, perhaps to Adam seeking god-like knowledge by eating the forbidden apple, certainly to Prometheus stealing fire for the benefit of mankind. Like Adam and Prometheus, the lone, bold scientist is an ambiguous figure, expressing by his intellectual struggles one of the most prized aspects of human beings and yet, in the vanity of his striving, demonstrating the pride that goes before the fall.”255

L'individualismo dell'uomo, la possibilità di essere autori e artefici del proprio destino,

l'intolleranza romantica alle regole precostituite e la volontà di individuare un nucleo

privilegiato di sensibilità dell'essere umano erano tutti motivazioni e mezzi abbastanza

forti da portare alla nascita di opere quali quelle già citate, ma anche “A Descent into

the Maelstrom” o “The Facts in the Case of M. Valdemar” sono esempi significativi di

come l'uomo abbia cominciato a osare avvicinandosi ai limiti del lecito e dell'illecito, a

livello morale, solo perché la scienza gli poneva queste alternative e possibilità davanti.

Anche gli “esseri” prodotti dalla scienza o dalla brama dell'uomo di oltrepassare i

confini conosciuti (e, quindi, l'incontro con gli alieni) sono esemplificativi del ruolo di

cartina tornasole morale e sociale che la fantascienza sta assumendo. Spesso, gli “alieni”

(che siano essi provenienti da altri pianeti o realizzati in provetta) sono una sorta di

doppio dei protagonisti umani e questo appare tanto più evidente quando essi sono

254 Ibid. p. 71 255 Ibid. p. 72

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la creazione diretta dell'umano protagonista (si veda Frankenstein e Valdemar): “When

the alien shows the blindness of the human, science is implicitly criticized; when the

alien shows the goodness of the human, science is implicitly praised.”256

L'inizio del '900 ha portato a un'ulteriore evoluzione nelle tematiche e nei centri di

interesse della fantascienza: dopo aver affrontato e interiorizzato i pericoli legati a un

uso e un abuso individuale della scienza, ai limiti oltre i quali i singoli uomini non

devono spingersi, ci si è cominciati a interrogare sulle eventuali conseguenze “globali”

per l'umanità di un potere assoluto e scellerato collegato a nuove invenzioni,

macchinari o formule. In particolare, l'apertura della letteratura a strati più popolari e la

nascita di quella che Rabkin definisce “pulp writing” hanno permesso una divulgazione

di queste tematiche, prima trattate solo dagli autori propriamente “letterari” (e quindi

attraverso romanzi o racconti), anche agli strati medi (o semplicemente più giovani)

della popolazione. Da un approccio più elitario e circoscritto si è passati a una

diffusione di massa sia dei contenuti che dei modi narrativi: il periodo dell’auto-

referenzialità della comunità letteraria (della fantascienza, ovviamente) cominciava a

lasciare spazio a quella che saranno le tendenze della fantascienza di tutta la seconda

metà del secolo. In realtà, proprio a causa di questo processo, la letteratura

fantascientifica ha subito negli anni iniziali del '900 un processo di “degradazione” da

parte della critica:

“At this period in which science itself began to fall into disdain among certain sorts of intellectuals, science fiction fell too. In one sense, the best human hopes for dealing with our fears were being relegated to the literature of the socially weak.”257

In realtà, il processo di ghettizzazione della letteratura fantascientifica a un pubblico

limitato e di nicchia ha portato a una maggior consapevolezza e una partecipazione e

un interscambio diretto tra autori e lettori:

256 Ibid. p. 73 257 Ibid. p. 220

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“The sense of ghetto life, a small group of writers and readers known to each other and excluded from the mainstream, became strong, fostered highly sophisticated literary conventions, and gave science fiction a feeling of warmth, the special preserve of a special band. Thus through the creation of a literate lower class and the subsequent creation of a literary community, publishing technology provided a sense of place for science fiction readers that technology threatened to obliterate in the larger world.”258

È proprio in questo periodo che la fantascienza assume quella connotazione da

“appassionati”, un misto di nomea che varia dalla letteratura di basso profilo

all'esperienza per adepti: fama, questa, che questo genere porta con sé ancora oggi, in

quanto viene considerato un genere popolare sebbene sia ormai diventato oggetto di

un vero e proprio culto in ogni media (dalla fantascienza letteraria, a quella filmica a

quella videoludica) e sebbene la qualità dei prodotti non sia assolutamente più

“amatoriale” o “popolare”. Le tematiche, allora come ora, cominciano a riguardare più

direttamente i conflitti mondiali, le diverse possibilità di universi paralleli, la

“controstoria” o storia alternativa e le possibili degenerazioni del nostro mondo in

un'ottica distorta di controllo globale.

Conseguenza inevitabile di questi anni di “preparazione” è il cosiddetto periodo d'oro

della fantascienza, che viene fatto coincidere solitamente con gli anni che vanno dal

1940 al 1965 e che vede una vera e propria esplosione di questo genere in tutte le sue

forme, e la nascita e la fortuna di quegli autori che diventeranno capisaldi non solo di

questo genere, ma della letteratura in generale come Orwell, Asimov, Bradbury tra gli

altri. Questo periodo, definito da alcuni gli “anni d'oro”, vede il vero e proprio

consolidarsi della centralità della scienza, sia in senso positivo che negativo: “The

period prompted many readers to reject science, or to embrace it thoughtlessly in a bid

for personal power.”259

In realtà, proprio per via della seconda guerra mondiale, la superiorità tecnologica ed

economica di stati quali l'America e l'Inghilterra diventò il fulcro di attrazione e

interesse da parte dei lettori che, cercando conferme e rassicurazioni, intravedevano 258 Ibid. p. 220 259 Ibid. p. 316

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nello sviluppo e nella diffusione di ritrovati scientifici la possibilità di una vita migliore.

In particolare, è interessante introdurre il concetto legato all'affermazione

dell'individuo tramite la conoscenza:

“For the general reading public, science, when dealt with in any fiction, was shown as a part of great social movements; a sense of mission and progress was abroad again, harkening back to the optimism of Edward Bellamy's time.”260

Un esempio letterario di questa tendenza è la “psicostoria” di Asimov: l'autore dipinge,

nel suo ciclo de Le Fondazioni, non solo un mondo iper-tecnologizzato e

completamente affidato alla scienza, ma inventa la psicostoria, scienza di nuova

concezione basata su calcoli matematici, statistici e probabilistici attraverso cui l'uomo

può letteralmente prevedere il futuro. Si ha, in un certo senso, un ritorno alla visione

scientista e fideista nei confronti del progresso razionale analogo a quello che si era

avuto nel 1700, con, questa volta, la contaminazione dell'elemento capitalista a legare il

tutto.

Il periodo degli “anni d'oro”, in cui la comunità degli scrittori di fantascienza si sentiva

forte e si riferiva sì al proprio pubblico, ma principalmente a se stessa e a chi, tra gli

autori, era disposto a percorrere quel percorso di auto-celebrazione e superomismo, è

fortemente legata a Bioshock, in quanto dall'analisi che seguirà intendiamo mostrare

come non solo questo videogioco “incarni”, per così dire, varie fasi del progresso della

letteratura fantascientifica, ma di come sia una sorta di emblema contemporaneo di

quello che erano i racconti di fantascienza in quegli anni, unito a uno scetticismo e a

un timore di fondo recuperato sia dalle fasi storiche antecedenti sia da quelle

successive. La fantascienza di Bioshock, in pratica, sembra essere un concentrato del

percorso della fantascienza letteraria stessa attraverso gli ultimi secoli.

La fase finale della fantascienza, quella in cui ci troviamo anche oggi, teoricamente

prevede che “Science fiction has become our reality.”261 In effetti, dalla minaccia della

260 Ibid. p. 316 261 Ibid. p. 427

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guerra nucleare al mistero degli alieni, dall'atterraggio sulla luna alla gara allo spazio,

tanti di quei fenomeni che venivano prima considerati “fantascienza” sono divenuti

parte della nostra realtà quotidiana. Anche nel mondo letterario, quella

“ghettizzazione” conosciuta dal genere all'inizio del secolo sta venendo sempre meno:

“While some mainstream writers assuredly eschew science fiction and while some science fiction writers still write for the ghetto, the boundaries have become vague and the works mix.”262

La percezione della fantascienza, oggi, è più matura e a tutto tondo: viene utilizzata

non più solo per descrivere eventi fantastici (anche se questa componente rimane), non

più solo per esprimere dubbi individuali sulla morale o paure collettive sull'ignoto

(anche se sicuramente questa è una delle sue funzioni), non unicamente per far

immergere il lettore-spettatore-fruitore in un mondo alternativo, ma per comunicare in

modo più efficace messaggi che un tempo erano veicolati da altri generi o, magari,

dallo stesso, ma in modo differente, più mono-mediale. Più specificamente, la

fantascienza si fa veicolo contemporaneo per indagare l’uomo, il suo comportamento e

il suo sistema di valori: con protagonisti che si trovano spesso in condizioni estreme e

che devono sovvertire il loro sistema di interpretazione della realtà per riuscire a

portare a termine il percorso che hanno intrapreso, il genere della fantascienza diventa

un modo moderno per analizzare la società, l’uomo e il suo contesto.

La fantascienza oggi continua a popolare i romanzi (un esempio italiano di grande

successo sono le vicende dell'inquisitore Eymerich, di Valerio Evangelisti), i fumetti (e

potremmo parlare di Nathan Never o di Brad Barron, delle riduzioni di classici di Dino

Battaglia, e così via), nel cinema (e, al di là dei colossal americani, da Alien ad

Armageddon, per citare generi di diverso impatto, passando poi per produzioni europee

più autoriali come Sunshine) nei serial TV (da Heroes a Fringe, per citare alcuni dei più

recenti) e sembra essere il genere che meglio si rapporta con i lettori, gli spettatori e,

infine, i videogiocatori contemporanei. 262 Ibid. p. 427

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Sì, perché tutta questa “intrusione” della fantascienza trova uno sbocco letteralmente

privilegiato in un medium come il videogioco: terreno tecnologico per eccellenza, ha

come fruitori una generazione cresciuta con robot, viaggi interstellari, miti che vanno

dai cartoni animati giapponesi iper-tecnologici a saghe cinematografiche come Star

Wars. Inoltre, il meccanismo stesso del videogioco richiama una struttura

“fantascientifica”: attraverso una periferica possiamo comunicare e agire all'interno di

un mondo che, come abbiamo già detto citando Rabkin all'inizio di questo capitolo, è

“not our world and yet, often quite subtly, the worlds of our inner doubts and wishes”.

La scelta di Bioshock quale videogioco esemplificativo del genere fantascientifico in

ambito videoludico è legata a diversi fattori. In base all'excursus sull'evoluzione della

fantascienza, Bioshock incarna numerose delle diverse fasi attraversate da questo

genere. Per capire meglio, passiamo a una descrizione dettagliata dell'universo di

gioco263, confrontando l'universo di Rapture con alcune utopie e distopie letterarie ben

note. In questo modo potremo osservare come le fasi “storiche” dell'evoluzione della

fantascienza individuate da Rabkin vengano ripercorse, con una nota d'innovazione

finale, da questo gioco che, seppure non rivolto a un “ghetto” (ha venduto quasi due

milioni di copie264), si inserisce a pieno titolo tra i capolavori contemporanei della

fantascienza.

Il mondo di Rapture è una distopia che, a un occhio estraneo (sia alla città, che alla

fantascienza, ma anche, in generale, ai videogiochi), pare assurda e illogica: è un

esperimento ai limiti della moralità umana, condotto sottacqua e portato a termine

grazie a finanziamenti di dubbi uomini d'affari e alla collaborazione di scienziati correi

di aver partecipato agli eccidi dei nazisti265. Ignorata dagli stati pre-esistenti, Rapture è

263 Le dinamiche narrative riguardanti i personaggi e più sopra anticipate sono da ritenersi complete, in quanto l'attenzione totale sia

degli sviluppatori che, in seguito, dei giocatori, viene riversata sugli elementi ambientali, sul contesto e sul sistema di norme e di regolamentazione che governa la città subacquea, più che sulle dinamiche che intercorrono tra i protagonisti. Tali dinamiche, sono, infatti, una sorta di formula fissa necessaria per accompagnare il giocatore attraverso la storia ma non vogliono (né devono) diventare centrali in quanto il messaggio e le idee veicolate raggiungono il fruitore tanto più diretto quanto più quest'ultimo riesce a concentrarsi sulla scoperta dell'ambiente che sta esplorando e non sulle dinamiche umane che stanno alle sue spalle.

264 Fonte: http://www.vgchartz.com

265 La presenza dei nazisti è strumentale: contribuisce a creare una dimensione ideologicamente condizionata. La sola presenza di riferimenti all’ideologia nazista risveglia nel giocatore la memoria della Shoa e contestualizza immediatamente le vicende, facendo

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stata libera di svilupparsi esattamente secondo quei principi superomistici e visionari di

Andrew Ryan, e non è stato posto alcun vincolo né alcuna limitazione: già questi

presupposti rendono questa città utopica molto diversa da fonti utopiche più classiche,

quali possono essere la Repubblica di Platone o Utopia di Thomas Moore. In entrambi

questi casi, infatti, la città ideale si fondava su principi classici e illuminati legati

all'equilibrio e al rispetto, da parte di una classe illuminata e dei cittadini tutti, di una

serie di normative fondamentali, quali la sapienza, il coraggio, la temperanza e la

giustizia. Nella Repubblica di Platone, ad esempio, vigevano dei principi molto

“anticonformisti” e in rottura con la sensibilità dell'epoca:

“innanzitutto nessuno possieda personalmente alcuna sostanza, se non in caso di assoluta necessità: in secondo luogo nessuno abbia abitazione o dispensa dove non possa entrare chiunque voglia: il vitto, quanto è necessario ad atleti di guerra saggi e valorosi, secondo gli accordi, lo riceveranno dagli altri cittadini quale ricompensa per la guardia, e tanto quanto è necessario per un anno, sì che non ne avanzi o non manchi”266

Questa base non è assolutamente una delle basi di Rapture, anzi. Questa frase,

pronunciata dal fondatore Ryan in uno dei suoi diari-audio sparsi in giro per la città in

rovina, si contrappone nettamente all'idea platonica di stato ideale:

“On the surface, the Parasite expects the doctor to heal them for free, the farmer to feed them out of charity. How little they differ from the pervert who prowls the streets, looking for a victim he can ravish for his grotesque amusement.”267

Coerentemente con i principi del più ferreo capitalismo, Ryan rinnega qualsiasi forma

di assistenza e sussistenza e considera “parassiti” tutti coloro che non sono in grado di

provvedere a se stessi e di fornire servizi o beni alla comunità.

Addirittura, il concetto stesso di “verità” e di esperienza promulgati da Platone, e

famoso è il mito della caverna, sono fortemente contrastati da Ryan. Sentendosi egli

intuire al fruitore l’orrore della situazione in cui si trova. La sperimentazione genetica e scientifica in generale non è, infatti, deprecabile di per sé: sono il contesto in cui la sperimentazione è inserita, il sistema di valori regolatore, le finalità e le modalità che rendono la scienza aberrante. Il contesto del nazismo è sicuramente aberrante e gli autori lo hanno sfruttato per suscitare in modo immediato e inequivocabile una suggestione nel giocatore.

266 Platone, Repubblica, 416 d-e 267 Diario-audio di Andrew Ryan, Medical Pavillion, “Parasite Expectations”

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depositario di una verità assoluta, tuttavia minacciata dalla stoltezza della natura

umana, egli impone il divieto totale di contatti con la superficie per la sua città: non

solo quindi una comunità diversa e lontana dagli stati pre-esistenti, ma una realtà

completamente isolata e avulsa che, come tutti i regimi dittatoriali, ha bisogno di una

cortina di ignoranza e di isolamento per mantenersi forte:

“ The death penalty in Rapture! Council's in an uproar. Riots in the streets they say! But this is the time for leadership. Action must be taken against the smugglers. Any contact with the surface exposes Rapture to the very Parasites we fled from. A few stretched necks are a small price to pay for our ideals.”268

L'insegnamento platonico sembra chiaramente dimenticato e anche la simbologia

legata al “salire in superficie” è utile per stabilire un confronto e per ribadire

l'opposizione della filosofia ryaniana rispetto a quella del filosofo greco:

“(...) alla dimora della prigione, e la luce del fuoco che vi è dentro al potere del sole. Se poi tu consideri che l'ascesa e la contemplazione del mondo superiore equivalgono all'elevazione dell'anima al mondo intelligibile, non concluderai molto diversamente da me (...). Nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedere è l'idea del bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello, e nel mondo visibile essa genera la luce e il sovrano della luce, nell'intelligibile largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto.”269

Similmente, anche Utopia di Thomas Moore, che in modo più provocatorio dell'opera di

Platone vuole descrivere uno stato “ideale” inesistente, è lontana dal modello di

Rapture. Anche qui, ad esempio, non è concesso ai cittadini di possedere beni personali

(e quindi viene disincentivato l'arricchimento e la competizione capitalista a ogni

costo), il lavoro è il valore principale che muove tutta l'economia e lo scambio, il baratto

sono le uniche forme economiche contemplate. Non è certo lo stesso a Rapture, dove il

capitalismo sfrenato è anzi incoraggiato: ricordiamo che il personaggio di Fontaine, il

“cattivo” di tutta la vicenda, è un imprenditore della superficie che ha deciso di

contrastare Ryan e di rubargli il predominio ideologico ed economico sulla città. Le

268 Diario-audio di Andrew Ryan, Neptune's Bounty, “Death Penalty in Rapture” 269 Platone, ibid. 517 d-e

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stesse alterazioni genetiche permesse dall'ADAM e dai plasmidi, venduti a caro prezzo

in giro per tutta la città, sono l'ennesima dimostrazione di come il capitale sia un

aspetto fondamentale di questa società che di ideale, scopriamo, ha ben poco. In

particolare, l'aggressività e l'utilitarismo fomentato dalle potenzialità di queste

modificazioni genetiche ci tratteggiano un quadro chiaro della situazione a Rapture:

“Fight your enemies on fire with just your finger tips!” (Incinerate Plasmid)

“Teach your enemies a lesson they'll never forget with Cyclone Trap from Ryan Industries. (Ryan Industries is not liable for damage done to ceiling fans, chandeliers, or other ceiling fixture.)” (Cyclone Tap Plasmid)

“Enemies on your back? Distract their attention with a helpful decoy. They take the heat... so you don't have to!” (Target Dummy Plasmid)

“Pick up big stuff with your mind. Throw them at your enemies. What else do you need to know?” (Telekinesis Plasmid)

Questi sono solo alcuni delle “pubblicità” fittizie che si incontrano durante il gioco e

che ricostruiscono, seppure solo in parte, la deriva del sistema socio-economico della

città. I brillanti scienziati chiamati a esprimere liberamente tutte le loro velleità, le loro

idee e le loro sperimentazioni si sono, infine, ridotti a creare “armi” assecondando lo

sviluppo a Rapture di quella che è comunemente conosciuta come “legge del più forte”.

Da un'ipotetica Utopia passiamo a una situazione alla Il signore delle mosche, per cui i

tentativi di imitazione di modelli ideali degenera in distopie fuori controllo. Tutti questi

dettagli, che possono sembrare sfumature secondarie emergono durante le sessioni di

gioco e sono, in effetti, molto importanti: la situazione sociale, l’estetica del periodo

(siamo negli anni ’60), le storie secondarie che emergono solo attraverso

un’esplorazione attenta servono per costruire il contesto sociale delle vicende e per

aiutare il fruitore a identificare in modo più chiaro e univoco le circostanze in cui si

trova. Siamo davanti a modelli ideali di contenuti che, quasi come stereotipi,

tratteggiano con pennellate più decise o più accennate lo sfondo delle vicende.

Quali sono, però, questi “modelli ideali” a cui i realizzatori di Bioshock si sono ispirati per

riprodurre l'ideologia forzata e malata di Andrew Ryan? La filosofia in questione è

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l'Objectivism e la portavoce principale di questa corrente è l'autrice e filosofa Ayn Rand.

La dottrina dell'oggettivismo è fortemente imperniata sull'individualismo e sul

capitalismo. La Rand, attraverso opere sia di finzione che di critica, ha supportato e

diffuso un'idea liberalitaria che prevedeva uno stato poco “invadente” che lasciasse

spazio all'iniziativa del singolo. Tale singolo, tuttavia, doveva completamente integrarsi

e diventare motore egli stesso del meccanismo capitalista e produttivo di cui aveva il

privilegio di fare parte. Il razionalismo stretto è un altro dei vincoli seguiti dalla Rand,

sia nella sua opera letteraria che in quella di critica e filosofica: il Secolo dei Lumi,

Aristotele e Locke erano alcuni delle sue fonti primarie. L'oggettivismo da lei

promulgato prevedeva di rinnegare in modo totale la religione e di ridimensionare

fortemente il ruolo dello stato e della società nella libera iniziativa dell'individuo.

Da questo breve quadro su una delle principali figure che hanno ispirato i realizzatori

di Bioshock per la loro critica sociale-videoludica emerge come tutti i principi espressi in

maniera radicale ma non ossessiva dalla Rand siano, invece, diventati i capisaldi

imprescindibili del suo omonimo anagrammatico Andrew Ryan: le parole iniziali con cui

Ryan accoglie tutti i visitatori di Rapture sono decisamente emblematiche per

comprendere come la strada che quest'uomo ha seguito sia un'esasperazione

oltranzista dell'apprezzamento dell'individualità e del capitalismo espresso dalla Rand e

dai suoi sostenitori.

L'obiettivo raggiunto di Bioshock è infatti quello di mostrare una distopia macroscopica

nata, come tutte le distopie, su modelli potenzialmente positivi e da ideali

potenzialmente (meglio, sulla carta) liberali. L'atteggiamento illuminista che vede

l'uomo al centro della “macchina socio-statale” è, di per sé, un valore positivo. In

particolare, la Rand veniva dall'esperienza sovietica in cui il Comunismo (a sua volta,

aberrazione e declinazione umana di un ideale in teoria positivo) aveva annichilito

l'individualità a favore di uno stato mastodontico che soffocava l'iniziativa privata.

Sbarcata in America e venuta a contatto con gli ambienti della cultura e della filosofia

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newyorkesi, la Rand si è fatta portavoce della superiorità dell'individuo rispetto a tutto,

anche alle regole e alla morale.

A Rapture ci troviamo in un contesto dove “l’artista non avrebbe dovuto temere la

censura; in cui lo scienziato non sarebbe stato incatenato da un’etica spicciola, in cui i

grandi non sarebbero stati trattenuti dai piccoli. E col sudore della tua fronte, Rapture

può diventare anche la tua città.” Tuttavia, come è sempre accaduto nella storia umana

e come, anche questa volta, Bioshock ciclicamente ci mostra, è impossibile vivere in un

mondo “senza regole”: si è ormai passati a una concezione euripidea del bene e del

male, non più socratica. Se, infatti, Socrate affermava che fosse sufficiente conoscere il

bene per compierlo, Euripide (nella Fedra) ci mostra che questo non corrisponde a

verità e che anzi l'animo umano di quello che sarà l'uomo occidentale non è spinto

naturalmente verso il bene, una volta che lo vede, ma ha sempre e comunque la

possibilità di decidere.

Quella di Rapture è una vera e propria degenerazione: questa nuova Atlantide non

nasce, infatti, con intenti repressivi come il mondo di 1984 di Orwell. Qui il motto non è:

“LA GUERRA È PACE

LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ

L'IGNORANZA È FORZA”270

come recitano gli slogan sulla facciata del Ministero delle Verità orwelliano. Qui non

abbiamo nessun Winston Smith che, per amore, cerca di andare contro al sistema che

ha sempre tollerato. Alla fine del romanzo, Winston viene chiamato “l'ultimo uomo”:

“Se tu sei un uomo, Winston, tu sei l'ultimo uomo. La tua specie è estinta; noi ne siamo gli eredi. Ti rendi conto che sei solo?”271

La situazione di Winston e quella di Jack sono apparentemente speculari: Winston ha

compiuto un percorso credendo di passare dalla condizione di schiavo a quella di

270 Orwell, George (1989) 1984, Arnoldo Mondadori, Milano, p. 30 271 Ibid. p. 283

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uomo libero, salvo rendersi conto che non poteva essere libero e che, forse, non poteva

più nemmeno essere uomo. Jack intraprende la sua avventura pensando di poter

tornare alla propria situazione iniziale, ossia quella di uomo libero che, a sua memoria,

lo ha sempre caratterizzato. Alla fine della sua avventura, tuttavia, proprio come

Winston, scopre di non essere più un uomo e di non essere mai stato libero. Le

“mutazioni” dei due personaggi sono diverse, eppure analoghe. Entrambi hanno un

obiettivo chiaro (quello di “rovesciare” uno status quo che giudicano immorale e

alienante), entrambi, nel corso del loro cammino, cedono a qualsiasi mezzo pur di farlo.

Entrambi, infine, sono “prigionieri” dei loro carnefici e la loro lotta per la libertà è una

finzione all'interno della quale chi li comanda li lascia dimenare per accontentarli e far

loro subire una frustrazione ancora più dolorosa una volta scoperta la verità. Entrambi,

in particolari, scendono a terribili compromessi con l'ambiente che li circonda. Jack

accetta (sotto condizionamento mentale) di attivare sul suo corpo le immonde

mutazioni genetiche che hanno portato alla pazzia e alla rovina gli abitanti della città

di Rapture. Winston, invece, cercando quella “società segreta” che avrebbe potuto

rovesciare il regime, promette

“di mentire, di rubare, di falsificare, di assassinare, di incoraggiare la diffusione degli stupefacenti e la prostituzione, di seminare malattie veneree, di gettare il vetriolo sulla faccia d'un bambino.”272

La diversa situazione iniziale non porta i due protagonisti a subire un'evoluzione

diversa. Nel caso, infatti, in cui Jack decida di non aiutare le “sorelline” a liberarsi dalla

loro assuefazione all'ADAM e le uccida per impossessarsi di tutta la preziosa sostanza, il

giocatore, insieme a Jack, si troverà alla fine del gioco privato della propria umanità,

abbandonato, solo e, in un certo senso, “morto”.

La trasformazione “manifesta” causata da Rapture nei suoi abitanti, la contaminazione

tra distopia e animo umano, è spettacolarizzata. D'altra parte, se in diverse distopie

letterarie come quelle di Orwell o di Bradbury (Farenheit 451 è sicuramente un'altra 272 Ibid. p. 284

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fonte di ispirazione per il mondo malato di Bioshock) sono più metaforiche e

“psicologiche” e i cambiamenti evidenti riguardano la mente e lo spirito dell'uomo, a

Rapture l'orrore e la degenerazione della mente vengono riflettute anche dal corpo.

Oltre alla “liberalizzazione” delle idee, infatti, un altro tabù di Rapture era quello della

“bruttezza” e della malattia: nessuno può essere malato, in una società perfetta273.

Ovviamente, per la legge del contrappasso, proprio questa esasperata ricerca della

bellezza e dello splendore porteranno gli scienziati di Rapture a compiere immorali

esperimenti sugli esseri umani, storpiando sia le cavie che i “consumatori” dei tanto

decantati Plasmidi. L'orrore fisico è lo specchio dell'orrore morale: come sostiene

Rabkin, gli “esseri alieni” (in questo caso gli abitanti stessi della città, diventati stranieri

a loro stessi) possono svolgere la funzioni sia di ambasciatori positivi per la scienza

(che, in effetti, se usata con il concetto di farmakon greco, ossia “nella giusta dose”, può

salvare vite umane) sia come manifeste aberrazioni dell'essere umano che, volendo

sentirsi Dio, ha oltrepassato il punto di non ritorno dell'etica e del rispetto per l'uomo,

giungendo a creare esseri mostruosi. E proprio a un mostro classico rimandano

l'aspetto e la genesi delle creature che troviamo in giro per la città:

“I saw the dull yellow eye of the creature open; it breathed hard, and a convulsive motion agitated its limbs.

How can I describe my emotions at this catastrophe, or how delineate the wretch whom with such infinite pains and care I had endeavoured to form? His limbs were in proportion, and I had selected his features as beautiful. Beautiful! Great God! His yellow skin scarcely covered the work of muscles and arteries beneath; his hair was of a lustrous black, and flowing; his teeth of a pearly whiteness; but these luxuriances only formed a more horrid contrast with his watery eyes, that seemed almost of the same colour as the dun-white sockets in which they were set, his shrivelled complexion and straight black lips.

The different accidents of life are not so changeable as the feelings of human nature. I had worked hard for nearly two years, for the sole purpose of infusing life into an inanimate body. For this I had deprived myself of rest and health. I had desired it with an ardour that

273 Questo concetto, peraltro, è ribadito con vigore attraverso numerosi riferimenti al regime nazista. La dottoressa Tenembaum, in

effetti, ha lavorato sia per i nazisti che per Andrew Ryan con lo stesso obiettivo: quello di debellare la malattia e di creare una “razza superiore” di esseri umani. L'orrore dell'olocausto e delle scellerate sperimentazioni dei tedeschi sulle loro vittime ritorna continuamente anche se non viene mai citata direttamente come una “fonte di ispirazione”. Certo è, tuttavia, che Ryan non rinnega nemmeno mai il Terzo Reich né le atrocità da esso compiute. Forse, in fondo, il suo spirito di superomismo arriva a giustificare anche gli scempi di quell'oscura pagina della storia umana.

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far exceeded moderation; but now that I had finished, the beauty of the dream vanished, and breathless horror and disgust filled my heart.“274

Se il dottor Frankenstein prova orrore e pentimento per il suo atto tracotante, il dottor

Steinman, chirurgo plastico di Rapture, non prova invece il benché minimo rimorso per

tutte le vittime della sua chirurgia plastica “alla ricerca della perfezione:

“When Picasso became bored of painting people, he started representing them as cubes and other abstract forms. The world called him a genius! I've spent my entire surgical career creating the same tired shapes, over and over again: the upturned nose, the cleft chin, the ample bosom. Wouldn't it be wonderful if I could do with a knife what that old Spaniard did with a brush?”275

L'esaltazione e il delirio di onnipotenza, già interiorizzato da un personaggio come lo

scienziato di Mary Shelley sembra oggi venire a mancare. In effetti, il dottor Steinman è

la concretizzazione della cieca fede in un sistema di valori e ideali distorti: la ricerca di

una bellezza artificiale, a discapito della felicità dell'individuo, della vita stessa, sono

una potente critica che la fantascienza muove, ancora e con un linguaggio più vicino ai

nostri tempi, agli abomini dettati dall'ideologia dell'apparenza.

L'orrore provato dal dott. Frankenstein in seguito alla creazione del mostro, il disgusto

e la presa di coscienza di essersi spinto oltre i limiti concessi all'uomo sono sentimenti

ben noti anche alla dottoressa Tenembaum, scienziata responsabile della scoperta

dell'ADAM e, soprattutto, della creazione di quelle aberrazioni che sono le “sorelline”,

esseri senzienti con le sembianze di bambine e affamate del liquido genetico. Tuttavia,

la dottoressa, a differenza del dottore di Mary Shelley, non abbandonerà né rinnegherà

274 http://www.gutenberg.org/files/84/84-h/84-h.htm

“Vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; respirò a fatica, e un moto convulso le agitò le membra. Come descrivere le mie emozioni dinnanzi a questa catastrofe, o come dare un'idea dell'infelice che, con cura e pene infinite, mi ero sforzato di creare? Le sue membra erano proporzionate, e avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di un nero lucido, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma tutti questi particolari non facevano che rendere più orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi, i quali apparivano quasi dello stesso colore delle orbite, di un pallore terreo, in cui erano collocati, con la sua pelle grinzosa e con le sue labbra nere e diritte. I casi della vita non sono così mutevoli come i sentimenti della natura umana. Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo mi ero negato riposo e salute. Avevo desiderato il successo con un ardore che trascendeva ogni moderazione; ma ora che vi ero giunto, la bellezza del sogno svaniva, e il mio cuore era pieno di un orrore e di un disgusto indicibili.” Tr. It. Shelley, M. (2002), Frankenstein,Ovvero il Prometeo moderno, RCS Libri, Milano, pp. 58-60

275 Diario-audio del dottort J. S. Steinman, Medical Pavillion, “Surgery's Picasso”

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le proprie creature, piuttosto si colpevolizzerà per le mostruosità che ha creato e

cercherà, attraverso Jack, di trovare per loro una strada di redenzione:

“What makes something like me? I look at genes all day long, and never do I see the blueprint of sin. I could blame the Germans, but in truth, I did not find tormentors in the Prison Camp, but kindred spirits. These children I brutalized have awoken something inside that for most is beautiful and natural, but in me, is an abomination... my maternal instinct.”276

L'istinto materno è una sorta di “evoluzione” di questa nuova “dottor Frankenstein” al

femminile: consapevolmente colpevole del suo scempio, la dottoressa Tenembaum ha

già interiorizzato la lezione del suo antenato putativo e sa che anche le mostruosità

che ha creato soffrono, anzi, che probabilmente soffrono più di lei:

“And do you dream?" said the daemon. "Do you think that I was then dead to agony and remorse? He," he continued, pointing to the corpse, "he suffered not in the consummation of the deed. Oh! Not the ten-thousandth portion of the anguish that was mine during the lingering detail of its execution.”277

Questa è la lezione che il giocatore impara, proprio grazie alla dottoressa che gliela

insegna: e il giocatore (e Jack) che salveranno le sorelline, avranno allora conservato

parte di quella umanità che invece sembra aver perso chi non comprende la sofferenza

del mostro (sia egli ancora il giocatore nei panni di Jack o il dottor Frankenstein) e

potranno salvarsi, evitando i laceranti sensi di colpa o, addirittura, la morte.

I mostri di Bioshock sono molto diversi dai mostri di Silent Hill 2: in quel caso, era

l'ossessione repressa di James che aveva creato un mondo fittizio e visionario popolato

dai suoi sensi di colpa e dalle sue Nemesi personali. Nel mondo di Bioshock il

protagonista si trova ad affrontare un universo che non dipende da lui, creato a

immagine e somiglianza delle manie di grandezza di un uomo folle, insoddisfatto e

visionario che ha corrotto prima la carne e poi la mente. Rapture, paradossalmente, è

una città peggiore di Silent Hill: quest'ultima, infatti, concede al proprio “creatore”, 276 Diario-audio della dottoressa Bridgette Tenembaum, Arcadia, “Maternal Instinct” 277 http://www.gutenberg.org/files/84/84-h/84-h.htm

“E immagini tu forse – disse il demone,- credi tu forse che io fossi insensibile all'angoscia e la rimorso? Egli – continuò indicando il cadavere – (...) non ha sofferto neppure la millesima parte dello strazio che mi ha torturato nell'esecuzione delle mie gesta.” Tr. it. Shelley, Mary, op. cit. p. 236

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colpevole di bramosia sessuale e di aver ucciso la moglie, di avere una seconda

occasione per vivere. Rapture, invece, affonda portando con sé tutti i suoi creatori,

senza alcuna pietà, permettendo solo a chi non era mai stato veramente e

consapevolmente correo dei misfatti lì compiuti di salvarsi.

Raputre è frutto della follia umana, ma di una follia che ha una “sede” diversa

nell'animo dell'uomo. Silent Hill proveniva dal rimosso, dal cuore nero, dal senso di

colpa. Rapture proviene dall'hybris, dalla tracotanza, dall'arroganza di un uomo (e di più

uomini) che pensavano ancora una volta in modo fallimentare di potersi sostituire a

Dio o alla Natura, e di cambiare il corso dell'evoluzione dell'umanità a proprio

piacimento.

Come altre illustri uto-distopie, Rapture è collegata all'elemento dell'acqua: per la

precisione, ne è avvolta, in quanto è una città costruita sul fondale marino. L'acqua,

nella psicanalisi in primis, ma anche nella fantascienza, assume la valenza dello spazio

profondo, dell'universo inesplorato, dell'ambiente “ai confini della realtà”, ostile

all'uomo ma potenzialmente ricco di scoperte.

Scrive Jung parlando dell'archeitpo dell'acqua:

“L'acqua è il simbolo più corrente dell''inconscio'. Il lago della valle è l'inconscio che giace, per così dire, al di sotto della coscienza; perciò è spesso indicato come 'subconscio', non di rado con la tonalità negativa di coscienza di qualità inferiore. L'acqua è lo 'spirito della valle', il drago acquatico del Tao, la cui natura assomiglia all'acqua, uno Yang accolto nello Yin. Psicologicamente, quindi, l'acqua significa: spirito divenuto inconscio. (...) La discesa nel profondo sembra precedere sempre l'ascesa.”278

Rapture è la città che si trova sul fondo del “lago della valle” descritto dallo psicanalista.

È l'emblema ancestrale di quello che si cela al di sotto della coscienza. Jack e il giocatore

decidono, più o meno consapevolmente, di avventurarsi in questo mondo sommerso,

nascosto sotto una superficie implacabile e apparentemente normale, come quella

278 Jung, Carl Gustav (1972) Gli archetipi dell'inconscio collettivo, Bollati Boringhieri Editore, Torino, p. 36

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dell'oceano, e arrivano a esplorare i meandri più oscuri dell'ambizione e del cuore

umano279.

“Ora, l'inconscio abitualmente appare come una specie d'intimità personale incapsulata, che la Bibbia chiama 'cuore' e che interpreta, tra l'altro, come l'origine di tutti i cattivi pensieri. I recessi del cuore sono abitati da malvagi spiriti assetati di sangue, da furia repentina e debolezza sensuale. Così appare l'inconscio alla coscienza che l'osserva. La coscienza sembra essenzialmente un fatto cerebrale che tutto dissocia e vede per particolari, e quindi fa così anche con l'inconscio, considerato perciò assolutamente come il 'mio' inconscio. Perciò si pensa generalmente che chi scende nell'inconscio cada nelle tormentose pastoie della soggettività egocentrica e sia esposto, in quella via senza uscita, all'assalto di tutte le belve che si suppone popolino l'antro del mondo psichico sotterraneo.

Chi guarda nello 'specchio' dell'acqua vede per prima cosa, è vero, la propria immagine. Chi va verso sé stesso rischia l'incontro con sé stesso. Lo specchio non lusinga; mostra fedelmente quel che in lui si riflette, e cioè quel volto che non mostriamo mai al mondo, perché lo veliamo per mezzo della persona, la maschera dell'attore. Ma dietro la maschera c'è lo specchio che mostra il vero volto.”280

È interessante notare come la descrizione che Jung fa dell'inconscio si adatti, in modo

metaforico eppure puntuale, alle vicende affrontate dal giocatore e da Jack in Bioshock:

c'è un “corpo”, che è Rapture, il cui “cuore nero” abitato da malvagi spiriti assetati di

sangue sono Andrew Ryan e Fontaine, e l'osservatore esterno (Jack, in questo caso) non

può fare a meno di rimanere inorridito e allibito da ciò che vede, che scopre in questo

articolato e complesso viaggio nell'inconscio umano. Cade, in effetti “nelle tormentose

pastoie della soggettività egocentrica”, e non si rende nemmeno conto di essere un

burattino manipolato proprio da quell'inconscio che si arroga di giudicare. Lo

“specchio” dell'acqua, al quale il protagonista si è avvicinato, al quale il giocatore ha

ceduto, mostra (o almeno, questo è il suo intento ultimo) quello che si è veramente e

“riflette quel volto che non mostriamo mai al mondo”: se, durante l'esplorazione,

decidiamo di non salvare le “sorelline”, ad esempio, possiamo avere, almeno

virtualmente, una proiezione di alcuni dei nostri istinti più animaleschi di possesso e

279 La presenza di uno Yang inestirpabile dalla nostra natura di esseri viventi sembra una costante tematiche di tutte le opere che

abbiamo preso in analisi finora. Si rimanda alle conclusioni per osservazioni più approfondite in merito. 280 Ibid. p. 38

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controllo, di supremazia, e scopriamo solo alla fine dell'osservazione, cioè

dell'esplorazione, il nostro vero volto, e quello del nostro “avatar*” Jack con noi.

Attraverso Rapture, gli ideatori di Bioshock hanno voluto creare uno strumento per

veicolare, forte e chiaro, un messaggio che non potesse essere frainteso. Per questo,

l'utilizzo della fantascienza come genere è stato fondamentale per costruire una cornice

narrativa che fosse abbastanza coinvolgente e nondimeno efficace nel trasmettere tale

messaggio al giocatore. La fantascienza è un genere formulaico ben codificato: a

renderlo un “sotto-genere” è stata, principalmente, la sua veste “estetica” e le tematiche

che, apparentemente, erano solo di intrattenimento: alieni, tecnologia futuristica,

contesti lontani dal realismo, meccaniche narrative mutuate da altre tipologie di

narrazione. In effetti, la fantascienza non è un vero e proprio sotto-genere, ma come

abbiamo già detto citando Rabkin, è un modo per riprodurre in maniera sicura le

nostre paure, le nostre aspettative e le nostri inquietudini riguardo la società (e la sua

eventuale deriva) in forma estrema. La grandezza di autori quali Philip Dick, di Isaac

Asimov o di Douglas Adams, non è quella di aver parlato di alta tecnologia, di

astronavi, di alieni e viaggi interstellari, ma di aver affrontato in modo talvolta

metaforico, talvolta allegorico, talvolta satirico i problemi della società loro

contemporanea, rendendoli sia estremi che accessibili, unendo l'elemento

dell'intrattenimento e della curiosità per il nuovo a quello dell'analisi e della denuncia.

Spesso la critica specializzata ha definito la struttura di Bioshock troppo lineare, “a

corridoio”, manchevole di quella complessità che, almeno attualmente, si richiede a un

mondo virtuale* e ancora di più a un mondo videoludico. Tuttavia, esattamente come

la percezione superficiale della caratterizzazione dei personaggi (dal protagonista agli

antagonisti ai mutati che si incontrano per la città) ha la funzione di far concentrare

sulle idee e sul contesto all'interno del quale l'ideologia e i messaggi sono inseriti, allo

stesso modo la decisione di articolare l'avventura di Jack in modo più lineare che

ipertestuale e rizomatico ha la funzione di non distrarre il giocatore/lettore dalla

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comprensione e dalla concentrazione sugli elementi veramente fondamentali. Come

accade, ad esempio, nel ciclo delle Fondazioni di Asimov, infatti, lo stile è semplice, i

personaggi sono appena tratteggiati, l'intreccio si sovrappone quasi alla fabula,

procedendo secondo un ben preciso ordine e senza troppi sbalzi temporali.

Solitamente, le vicende si concentrano su gruppi ben definiti di personaggi, le figure

chiave sono identificate in modo immediato e tuttavia non arrivano mai a oscurare lo

svolgimento dei fatti. Allo stesso modo, il ritmo narrativo di Bioshock è frenetico solo

nei momenti d'azione, quando il protagonista deve capire rapidamente come risolvere

una situazione d'emergenza, altrimenti la storia procede placida, quasi, cullata e

ovattata dal contesto: la città sommersa nell'oceano. Certo, c'è un sentimento di

urgenza: Jack deve fuggire da Rapture “prima che sia troppo tardi”, tuttavia non ci

troviamo sicuramente davanti a una narrazione sperimentale e complessa come quella

della serie di Forbidden Siren (un survival horror di grande successo): nella fantascienza è

come se anche la scrittura risentisse del “metodo scientifico” che tanto si invoca e che si

adduce a scusante e giustificazione per ogni cosa. La formulaicità e la ricorsività della

fantascienza e dei suoi meccanismi servono proprio a portare “per mano” il lettore

verso la risoluzione emotiva desiderata dall'autore. In Bioshock questo avviene, appunto,

attraverso un gameplay* lineare e attraverso l'utilizzo di un sistema combinatorio di

armi, i Plasmidi, che rende il tutto ancora più fintamente tecnico-tecnologico. I Plasmidi

sono le “armi genetiche” a disposizione del giocatore all'interno di Rapture. Grazie alla

scoperta dell'ADAM, il liquido in grado di modificare e adattare geneticamente il corpo

umano a impianti genetici, chiunque a Rapture può equipaggiarsi con queste armi.

L'utilizzo dei Plasmidi è a totale discrezione del giocatore: gli approcci al gioco possono

essere diversi. Alcuni giocatori (gli explorers, ad esempio) tenderanno a equipaggiarsi

solo con i plasmidi indispensabili. Sperimenteranno tutti quelli che trovano in giro, ma

non cercheranno a ogni costo di sbloccare o di impossessarsi di tutti quelli presenti nel

gioco. Gli achievers, invece, cercheranno di potenziarsi al meglio, di scegliere i Plasmidi

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più adatti alle diverse situazioni e più spettacolari, anche, se non addirittura rari. In

realtà, queste diverse (e innumerevoli) configurazioni di armi non modificano

minimamente la strutturazione del gioco e l'impianto narrativo resta totalmente

immune da qualsiasi scelta del giocatore, eccezion fatta per l'uccisione o meno delle

“sorelline”, che porta a un cambiamento di finale. Anche in questo caso, tuttavia, il

messaggio che arriva al giocatore resta invariato, grazie proprio alla linearità e

all'essenzialità del linguaggio narrativo adottato.

Dopo questa analisi, risulta allora possibile inserire Bioshock in quell'excursus sulla

fantascienza articolato da Rabkin: sicuramente questo videogioco si colloca nell'epoca

finale, ma, probabilmente, compie un passo in più. Quest'opera, in effetti,

analogamente a tante altre opere (non solo videoludiche) di recentissima produzione,

stanno ancora una volta riconfigurando i temi e i modi della fantascienza, portandola

probabilmente a una “fase” successiva. Ancora, certo, non siamo all'interno di quei

mondi che gli autori descrivono (come, secondo Rabkin, presto avverrà), tuttavia grazie

agli sconvolgimenti mediatici il nostro modo di percepire il reale, ma anche i problemi

stessi che riguardano la contemporaneità, sono cambiati e gli autori (che siano scrittori

o game designer) devono adattarsi e comunicare le emozioni che vogliono trasmettere

ai lettori o ai giocatori nel modo più efficace.

In Bioshock troviamo la meraviglia e la satira dei primissimi periodi: la critica feroce fatta

da Swift alle assurdità del suo mondo, attraverso la descrizione dei mondi scoperti da

Gulliver nei suoi viaggi sono ricalcati, con la stessa flemmatica assurdità, dal contesto

Art Decò e dalle centinaia di pubblicità progressiste sparse in giro per la città di

Rapture. Oltre all'ideologia di Ryan, infatti, è anche da elementi minori, quali appunto le

pubblicità o i prodotti in vendita nei negozi della città, che il giocatore viene calato

sempre più nell'assurdità del culto oggettivista e scientista che si è impadronita degli

scienziati e dei cittadini di Rapture. È proprio questo background socio-filosofico che

rimanda fortemente all'approccio settecentesco alla fantascienza: l'entusiasmo per la

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novità e la scoperta, una cieca fede nel progresso tecnologico e scientifico, una volontà

di arrogarsi qualsiasi diritto e di oltrepassare qualsiasi limite, sia etico che morale, in

nome di un obiettivo alto come l'evoluzione dell'umanità, l'eterna giovinezza e

l'immortalità (tematiche, queste, che si ritrovano in classici del periodo ma, sicuramente,

anche in Bioshock). La stessa figura dello scienziato che gioca a fare Dio è ispirata,

almeno in parte, a quella del dottor Frankenstein di Mary Shelley. Come la fantascienza

di inizio '900, poi, i realizzatori di Bioshock hanno saputo sfruttare il contatto con la

comunità di utenti: grazie a internet, è stato possibile uno costante scambio di

feedback, di richieste, preferenze e aspettative sono state tenute in considerazione e

hanno sicuramente, in un modo o nell'altro, avuto un riscontro all'interno del gioco.

Una tematica interessante, ad esempio, è proprio quella legata all'apparenza, alla

bellezza e alla chirurgia plastica: l'attitudine di Bioshock nei confronti della perfezione

dell'avatar* del giocatore e anche delle figure che incontra lungo il suo cammino è

chiara. Tutto quello che vediamo a Rapture è bruttura, rovina e storpiatura, sia della

fisicità che della morale umana. Sicuramente questa è una scelta controcorrente

rispetto a quella di tanti altri mondi virtuali* o videoludici all'interno dei quali è

possibile personalizzare il proprio aspetto e dove, in generale, si è incentivati ad aderire

a un modello estetico precostituito e standard, in linea con i canoni contemporanei più

fasulli. L'eccesso di orrori che incontriamo in Bioshock invece, l'impossibilità di costruirsi

un personaggio che ci metta a nostro agio o che, semplicemente, rispecchi i nostri

desideri virtuali, il tutto, ovviamente, accompagnato dalla tematica esplicita della

chirurgia estetica e della vana ricerca dell'eterna giovinezza. Anche la decisione di non

dare alla comunità di riferimento esattamente quello che si aspetta è una decisione

autoriale forte.

Il fatto, poi, che la vicenda sia ambientata negli anni '50-'60 è un chiaro riferimento e

una dichiarazione di appartenenza a quegli anni d'oro del genere fantascientifico in cui

è fiorita la sperimentazione e la diffusione di tutte quelle opere e di quelle saghe

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diventate poi storiche. Anche il concetto di distopia è strettamente connesso con

questo periodo storico: da 1984 al mondo di Farenheit 451, a numerosi altri, Rapture è

un omaggio alla critica letteraria nei confronti dei regimi dittatoriali e dimostra, per

l'ennesima volta (ma a un pubblico probabilmente nuovo) che l'oltranzismo, il

proibizionismo e il culto dell'individuo (o, alternativamente, dello stato o della religione

o dell'ideologia) non sono la soluzione alle incertezze e all'imprevedibilità

dell'esistenza. Se per un pubblico di un'altra epoca romanzi come quelli di Orwell e

Bradbury sono stati illuminanti, Bioshock, con tutti i limiti del mezzo su cui è stato

ideato, si propone, in qualche modo, di farsi loro erede. In effetti, la complessità del

mondo di Rapture non è certo inferiore a quell'universo misto tra capitalismo,

comunismo, nazismo e fascismo in cui si muove Winston Smith. Semplicemente, è stato

trovato un nuovo modo per raccontare la stessa storia, si trovano continuamente

nuovi modi per raccontare quelle storie (archetipiche) che servono ancora e sempre

all'umanità per imparare dal passato e per evitare di commettere gli stessi errori in

settori nuovi e, magari, ancora inesplorati.

Infine: forse Bioshock non rappresenta né il nostro passato (sebbene sia ambientato nel

nostro mondo, nella metà del '900) né, fortunatamente, il nostro presente. Potrebbe,

tuttavia, rappresentare il nostro futuro: è questa una delle funzioni più importanti e

pregnanti della fantascienza, in effetti, ossia la capacità di parlare dell'umanità, del

mondo e dei rischi che entrambi possono correre proiettando il lettore (o il giocatore, o

lo spettatore) in un universo tanto alternativo quanto plausibile e chiaramente

sovrapponibile con quello in cui realmente ci troviamo. Il potere di universalizzazione

tipico della letteratura e delle opere di finzione viene, in questo caso, amplificato: la

sfida di un autore di fantascienza che voglia comunicare un messaggio, che voglia

utilizzare la sua scrittura, la sua opera, come un'arma sociale per comunicare con la

gente, sta soprattutto nel creare un universo che sembri lontano, remoto, diverso, ma

che sia, in realtà, una proiezione di tutto quello che il nostro mondo potrebbe

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diventare, se non diventiamo consapevoli delle direzioni che, come umanità, stiamo

prendendo. Bioshock non dà risposte sull'etica e sulla moral: è un videogioco, non può

arrogarsi il diritto di detenere una risposta a una tematica così delicata. Può, però,

instillare i dubbi e riesce a farlo tanto meglio quanto più riesce a suggerire e a mostrare

le assurdità del mondo in cui viviamo non descrivendolo direttamente, ma

metaforizzandolo in un mondo di finzione, futuribile, del passato, in ogni caso estremo.

È questo l'obiettivo di Rapture e si può dire con sicurezza che venga raggiunto con

efficacia.

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Postfazione

Questo percorso di studio non vuole essere conclusivo. Lavorando a questa tesi mi

sono resa conto che l’analisi della narrazione, le storie, la medialità e la commistione tra

il mondo dell’intrattenimento più “commerciale”, delle modificazioni narrative e

dell’arte è un processo che non può mai, veramente, definirsi concluso e che quindi

non posso arrogarmi il diritto di definire in modo univoco.

“Ho passato la vita a leggere, ad analizzare, a scrivere (o a tentar di scrivere) e a gioirne. Ho scoperto che quest’ultimo punto è la cosa più importante. A forza di leggere e rileggere poesia, sono arrivato a una conclusione definitiva sull’argomento. Ogni volta che affronto una pagina bianca, sento di dover riscoprire la letteratura da solo. Il passato non mi è di alcun aiuto. Sicché, come ho già detto, ho solo le mie perplessità da offrirvi. Sono prossimo ai settant’anni, ho dedicato la maggior parte della mia vita alla letteratura e posso offrirvi solo dubbi. Il grande scrittore e sognatore inglese Thomas De Quincey ha scritto – in una delle migliaia di pagine dei suoi quattordici volumi – che scoprire un nuovo problema è importante quanto trovare la soluzione di uno vecchio.”281

Con queste parole, Borges racconta la sua esperienza con la letteratura: domande,

quindi, non risposte. Tentativi e pagine bianche, cioè ogni volta un nuovo punto di

partenza. Non esiste un paradigma oggettivo e univoco, non esiste un metodo solo.

Ognuno si trova di fronte all’opera (che sia letteraria o videoludica, che sia da scrivere o

da analizzare) con una serie di strumenti che appartengono alla sua cultura, con la

propria sensibilità e con la propria memoria. Combinando questi strumenti, un autore

o un critico cercano (probabilmente invano) di compiere un lavoro “oggettivo” e di

trovare una strada per analizzare i videogiochi, che si configurano come opere nuove

sia interattive che narrative e che creano, in un certo senso, un forte senso di

disorientamento, rispetto ai media narrativi tradizionali davanti ai quali ci siamo

sempre trovati.

281 Borges, Jorge Luis (2001) L’invenzione della poesia. Le lezioni americane, Mondadori, Milano, p. 5-6

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Non potendo trovare una soluzione o un metodo univoci282, ho deciso di seguire il

consiglio di De Quincey e ho cercato individuare un problema chiaro che fosse cioè

quello di capire quali siano i punti di contatto tra la narrazione fantastica tradizionale e

quella videoludica. Interrogandomi e ricercando i punti di contatto, ho visto emergere i

punti di separazione e differenza, le strategie nuove, gli espedienti integrati in base ai

quali la narrazione non segue più un iter prettamente verbale, ma si districa e

manifesta attraverso l’azione e la partecipazione diretta dei giocatori-fruitori dei

contenuti. Nella scelta delle opere, dei riferimenti letterari individuati, delle strategie di

gameplay* descritte ho cercato di individuare le fonti e le meccaniche più significative

in assoluto, ma ho sicuramente anche attinto fortemente a quelli che sono i miei

riferimenti culturali e il mio background o contesto. Il processo di analisi è diventato

quindi una commistione di studio, osservazione, scoperta, ma anche contributo

personale e creativo, perché così come il processo di fruizione del videogioco non

presuppone un ruolo passivo, nemmeno quello di analisi prescinde da un contributo

attivo e originale.

Studiando e “scomponendo” il videogioco, infatti, mi sono resa conto che il totale

dell’opera non era costituito solo dalla somma delle sue parti, che, in un’analisi

settoriale, i diversi elementi separati dalla complessità del sistema non solo non hanno

lo stesso spessore, ma letteralmente mutavano di senso, se analizzati come “porzioni” a

sé stanti o come parti integrate in un sistema. La conclusione logica (e naturale) è stata

quella di affrontare la narrazione come un fenomeno “simbiotico” e letteralmente

dipendente dal gameplay*, perché proprio quest’ultimo è la cifra stilistica e

metodologica che ci fornisce la chiave di lettura per capire il vero senso della storia di

un videogioco: le meccaniche di gioco prendono il posto delle parole, i personaggi, lo

spazio, il ritmo e, di conseguenza, tutte le sensazioni e le emozioni che questi elementi 282 Questo tentativo, come nel caso del già più volte citato dibattito tra narratologi e ludologi, ha spesso portato unicamente a una fase

di stallo o al “fallimento” dell’univocità del metodo, tanto che, a differenza di quanto è successo per la letteratura nel corso dei secoli, non si sono mai sviluppate vere e proprie “scuole” o “correnti” di pensiero: gli studiosi nell’ambito dei Games Studies hanno capito che non è possibile considerare il videogioco “a compartimenti stagni”, applicandogli le varie metodologie appartenute in precedenza ad altre forme di narrazione o di comunicazione. Piuttosto, l’impiego di strutture studiate ad hoc, caso per caso (con elementi ricorrenti e comuni, ma senza la presunzione di assolutezza) è risultato e risulta, tuttora, notevolmente più efficace.

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suscitano nel giocatore vengono veicolati, fruiti e percepiti in modo interattivo. La

soggettività è una componente sempre presente nella narrazione, sia nella produzione

che nella ricezione, tuttavia la multi-modalità e l’interattività nativa del videogame

mettono il giocatore nella posizione di diventare co-autore dell’opera che affronta e di

contribuire attivamente, sia dal punto di vista “meccanico” che da quello cognitivo, di

modificare e influenzare la storia a seconda della propria cultura e, in casi più estremi,

della propria personalità.

Considerato che, come critico, sono per forza anche una giocatrice, sono sicura che sia

la mia esperienza di gioco che la mia formazione personale abbiano fortemente

influenzato il mio approccio analitico. Ho deciso di concentrarmi sulla narrazione ma,

nel corso dello studio, ho capito che dovevo osservare il videogioco non solo come un

sistema “complesso”, da scomporre e da analizzare separatamente, partendo dalle

analisi di mercato che stanno alle spalle della realizzazione di un titolo, passando per

l’estetica, soffermandosi sulla storia, collegandosi al genere videoludico di afferenza.

Ho capito che, affinché la mia analisi fosse realmente efficace, dovevo anche assumere

un approccio più “olistico” e che era fondamentale comprendere l’effetto e l’efficacia di

quel particolare videogioco, di quella particolare storia (ri)raccontata attraverso un

nuovo linguaggio rispetto all’efficacia che la stessa storia aveva in letteratura. Le storie,

infatti, sono sempre le stesse. I miti che fanno parte del nostro immaginario collettivo

tornano continuamente a galla e ci vengono riproposti (o, in qualità di scrittori,

tendiamo a riproporli) ancora e ancora, solo con modi e segni nuovi. Questa novità del

modo del racconto mi ha imposto di riconfigurare alcuni dei parametri e mi ha fatto

osservare la storia, le storie, come un elemento imprescindibile rispetto al linguaggio

multi-modale utilizzato per raccontarle.

Perché è così importante capire come stiamo raccontando oggi? Perché è così

importante riproporre la stessa efficacia che ci ha regalato la letteratura anche in altri

mezzi di comunicazione, che si fanno veicolo di narrazioni più o meno complesse?

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Come studiosa, direi che dobbiamo sempre cercare di essere consapevoli dei processi a

cui assistiamo e che caratterizzano i nostri tempi: dobbiamo utilizzare gli strumenti

asettici della critica per comprendere gli artefatti reali e intrisi di contemporaneità che

la nostra società e il nostro tempo producono. Come autrice, invece, direi che è

importante perché se veramente sentiamo l’impellenza di raccontare, come autori e

come esseri umani, abbiamo il dovere di trovare sempre il modo più efficace per farlo,

da una parte con la consapevolezza dell’analisi, che non può derivare da altro che dallo

studio, dall’altra anche con l’intraprendenza della sperimentazione. Questo perché l’atto

di raccontare è sempre un atto sociale e lo scopo ultimo del racconto è quello della

comunicazione, del dialogo efficace tra autore e lettore. Si parla spesso di “metodo

scientifico” applicato alle scienze umane, ma si può realmente parlare di “obiettività” di

fronte a qualcosa che non è mai, che non può essere mai solo “metodo” e che è,

sempre, anche coinvolgimento personale, legato a filo doppio con la formazione e la

percezione personale? Ecco, allora forse una delle possibili strade che possiamo seguire

è quella di studiare, come ho cercato di fare con questo lavoro, in che modo

sopravvivano quelle storie che l’umanità ritiene significative, quali siano gli elementi

vincenti che vengono “ereditati” dai vari media attraverso cui queste storie passano, nel

corso del tempo, e che portano con sé, come un corredo genetico, adattandosi da un

medium all’altro, da un modo a quello successivo, da un linguaggio a uno più efficace,

o semplicemente, diverso.

“Naturalmente, nessuno sa cosa riserverà il futuro. Credo che, alla lunga, il futuro riservi di tutto, sicché si può immaginare il momento in cui don Chisciotte e Sancho, Sherlock Holmes e Watson esisteranno ancora, anche se le loro avventure saranno state cancellate. Gli uomini potrebbero continuare a inventare in altre lingue storie che si adattino a tali personaggi, storie che sarebbero come specchi per i personaggi. Il che, per quanto ne so, potrebbe accadere.”283

Come saggiamente afferma Borges, non possiamo sapere cosa ci riserverà il futuro.

Possiamo sapere cosa ci sta riservando il presente, e cercare di districarci nel marasma 283 Ibid. p. 102

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dei cambiamenti in corso a cui la nostra epoca sta assistendo. Per il resto, possiamo

cercare di imparare sempre di più, da quello che studiamo, che leggiamo, o con cui

giochiamo: imparare come si raccontano le storie attraverso la parola, come si

raccontano le stesse storie attraverso l’interattività e, soprattutto, imparare come

raccontare le nostre storie nel modo più efficace possibile, che sia con le parole, che sia

con l’azione, che sia in un racconto o in un videogioco. Come esseri umani siamo

chiamati (è come un imperativo morale) a perpetrare la nostra specie attraverso il

tempo: pensare che questo sia possibile solo attraverso la biologia è, oramai, follia.

Sono le nostre storie, le nostre emozioni e tutto quello da cui esse derivano che ci

rendono realmente quello che siamo ed è questo il lascito che abbiamo ricevuto da chi

ci ha preceduto, ed è questo il lascito che dobbiamo preservare per chi verrà.

“Ricorderete che gli gnostici dicevano che l’unico modo per liberarsi da un peccato è commetterlo, perché poi uno se ne pente. Se avrò avuto la gioia di scrivere prima quattro o cinque pagine passabili e poi quindici libri passabili, avrò compiuto questa impresa non solo grazie agli anni, ma anche grazie a tutti i tentativi e a tutti gli errori.”

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Glossario

Action: termine usato per indicare I videogiochi basati sull’azione e sui combattimenti. Richiedono principalmente prontezza e agilità nel maneggiare le periferiche (tastiere, mouse, joypad, ecc.) e un’approfondita conoscenza delle combinazioni di comandi del gioco.

Adventure: il genere d’avventura è caratterizzato dall’esplorazione di un ambiente, dalla risoluzione degli enigmi, dall’interazione con i personaggi di gioco ed è fortemente incentrato sulla narrazione piuttosto che sulle sfide e i riflessi.

Arcade: un gioco arcade è un gioco che non cerca di riprodurre e di simulare in modo realistico situazioni reali nel mondo di gioco ma che presenta al giocatore un insieme semplificato (seppur molto divertente) di regole e di meccaniche di gioco tali per cui l’apprendimento è minimo ed è possibile cominciare fin da subito a divertirsi giocando.

Avatar: personaggio attraverso cui il giocatore si inserisce in maniera attiva nel mondo di gioco. L’avatar è una rappresentazione digitale, che può essere o meno realistica o fantastica, personalizzabile o standard, attraverso cui il giocatore interagisce con il videogioco.

Beat-‘em-up: in italiano “picchiaduro”, è un sotto-genere del genere Action e indica i videogiochi il cui scopo principale è quello di affrontare e sconfiggere i nemici in scontri di lotta, sia a mani nude con con l’uso di armi.

Boss: nemico particolarmente importante o significativo, che richiede un impegno superiore da parte del giocatore per essere sconfitto. In molti videogiochi la presenza del Boss di fine livello serve per scandire l’evoluzione del gioco e per far percepire l’aumento di difficoltà al giocatore. Spesso è necessario, oltre a un puro scontro fisico, individuare e adottare accorgimenti strategici particolari per superare questo nemico.

Bottom Up: il modello Bottom Up è una strategia di elaborazione dell’informazione che riguarda principalmente i software e che si estende anche alle teorie

umanistiche dei sistemi. È una metodologia per cui le parti individuali del

sistema sono specificate in dettaglio e connesse tra di loro in modo da formare le componenti più grandi, fino a realizzare un sistema completo.

Casual Gaming: tendenza di gioco contemporanea che espande l’utilizzo e la fruizione del videogioco al di fuori delle fasce che, fino a qualche anno fa, erano quelle

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canoniche (ragazzi, dai 15 ai 25 anni). Il Casual Gaming (chiamato, in alcuni casi, anche Games for Everyone) prevede che chiunque, anche con scarse conoscenze del mondo informatico, interattivo e multimediale possa interfacciarsi in modo semplice e divertente con software videoludici. Il Casual Gaming è stato ampiamente diffuso grazie alle console Nintendo DS e Nintendo Wii e ai giochi sviluppate per queste piattaforme e concepiti appositamente per una fascia più ampia di popolazione rispetto ai giocatori tradizionali.

Console: termine utilizzato per definire, in modo generico, i sistemi informatici sviluppati unicamente o prevalentemente per riprodurre videogiochi o programmi di intrattenimento in generale.

Core Target: è il pubblico primario (teorico) di un dato software o prodotto (e quindi anche videogioco). Il core target è quella fascia “di massa” di utenti che acquisteranno il prodotto e per cui, in generale, sono state pensate e sviluppate le feature principali.

Cut Scene: è una sequenza, in un videogioco, in cui il giocatore non ha controllo (o lo ha in minima parte), che spezza il gameplay e viene utilizzata per far proseguire la trama. Fornisce spesso una panoramica sullo sviluppo dei personaggi e informazioni sull’atmosfera, sul contesto, sui rapporti tra i protagonisti e così via.

FPS: acronimo per First person shooter, indicano I videogiochi in cui l’azione è predominante e in cui bisogna utilizzare varie tipologie di armi per sconfiggere i nemici che infestano i vari livelli.

Gameplay: questo termine indica l’esperienza, ossia le intuizioni e le deduzioni, vissute dal giocatore durante un’esperienza ludica di confronto con le regole di gioco. Il gameplay è l’insieme delle meccaniche di gioco e del contesto di applicazione di queste meccaniche.

GdR: vedi Role Playing Game

Hardcore Gaming: è il concetto opposto a quello che si definisce Casual Gaming, ossia un approccio al gioco (e in particolare ai videogiochi) che prevede applicazione costante, notevoli abilità e difficoltà sempre crescente nel corso della partita. L’Hardcore Gaming è praticato da quei giocatori che vogliono esplorare fino in fondo le meccaniche di giochi complessi e articolati , come spesso sono i giochi di strategia, le simulazioni sportive o i MMORPG.

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Maze game: definizione coniata all’inizio degli anni ’80 per descrivere i primi videogiochi in cui il giocatore doveva muoversi con un avatar stilizzato all’interno di un labirinto, per trovarne l’uscita evitando di collidere con le pareti.

MMORPG: è l’acronimo di Massively Multiplayer Online Role-Playing Game e identifica un gioco di ruolo (principalmente per computer, ma occasionalmente anche per console) che vede più persone interagire in un ambiente virtuale tramite internet. I giocatori possono interagire contemporaneamente interpretando personaggi disparati che si evolvono insieme al mondo in cui vivono. Un elemento fondamentale del MMORPG è l’elemento ludico: i fruitori di questo tipo di gioco infatti si aspettano di vivere avventure, nel mondo virtuale, e di seguire percorsi che li portano a scoprire storie e narrazioni differenti.

Mondi persistenti: definizione più ampia di MMORPG perché non prevede la dimensione ludica. I mondi persistenti sono tutti quegli spazi online* popolati da utenti che possono modificare lo spazio, far crescere il proprio avatar e contribuire alla creazione di situazioni e contesti particolari. A differenza dei MMORPG, i mondi virtuali in generale (non videoludici) non necessitano di una trama narrativa, di quest o di percorsi guidati. Vengono frequentati dagli utenti che agiscono liberamente e che creano quelle che possiamo definire narrazioni emergenti

Mondi virtuali il mondo virtuale è un mondo persistente, quindi un ambiente dove le persone si trovano e interagiscono, ma che cessa di esistere quando non viene utilizzato da nessuno. A differenza del mondo persistente, quindi, è un luogo di maggiore finzione in cui le evoluzioni vengono per così dire “resettate” a ogni sessione di gioco.

Multiplayer: modalità di gioco che prevede il coinvolgimento, in tempo reale o a turni, di più giocatori, sia in persona che via Internet.

Narrazione emergente: tipologia di narrazione che si sviluppa grazie all’interazione (oline o reale) di persone che, per lo più, partecipano a un gioco. La trama narrativa principale e gestita dall’autore crea interazioni sociali tali per cui si sviluppano narrazioni emergenti, inaspettate e ogni volta diverse, che coinvolgono i partecipanti e che diventano tanto interessanti quanto la linea narrativa principale.

NPC (Non-Playing Character): sono i cosiddetti “personaggi non-giocabili”, ossia quelli che non vengono gestiti direttamente dal giocatore ma che interagiscono su

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principi regolati dall’intelligenza artificiale del gioco stesso. I NPC possono essere nemici, aiutanti, comprimari e così via.

Online: modalità di fruizione in rete, che prevede l’accesso a internet e la condivisione di informazioni, sia in ricezione che in invio.

Online community: si tratta di un insieme di persone interessate a un determinato argomento o che hanno le stesse finalità, di diversa provenienza, non vincolata al luogo o al paese di origine, che si mettono in contatto tramite Internet e che si scambiano informazioni e condividono esperienze. Le chatroom, i forum, i servizi di instant messaging, i social network: tutti questi sono esempi di online community.

Pencil-and-paper: tipologia di gioco di ruolo “analogico” che prevedeva l’utilizzo di matita e foglio di carta per annotare I dai dei giocatori, le loro evoluzioni e le loro configurazioni. Con l’avvento dell’informatica, il gioco di ruolo (vedi Role Playing Game) è quasi totalmente migrato su supporto digitale, rendendo così obsoleta questa metodologia.

Platform: questo termine viene utilizzato per indicare i videogiochi dove la meccanica di gioco implica l'attraversamento di livelli costituiti da piattaforme a volte disposte su più piani. Il più rinomato ed efficace esempio del genere è la saga di Super Mario Bros.

PS3: console della casa giapponese Sony, quarta della serie (PsX, PsOne, PS2).

Role Playing Game: in questa tipologia di gioco, solitamente abbiamo un “Master” (o narratore) che racconta una storia mentre gli altri (personaggi) assumono dei ruoli e si muovono nel mondo immaginario o simulato inventato dal narratore e regolato da norme precise e complesse. Ogni personaggio ha caratteristiche diverse, in base al tipo di gioco di ruolo, al contesto, alle decisioni del Master, e i giocatori devono interpretare fedelmente i propri ruoli, rispettando sempre la coerenza e la verosimiglianza. Spesso nelle sessioni di gioco di ruolo i giocatori hanno una quest, una missione da portare a termine, e devono quindi allearsi per superare una serie di ostacoli e difficoltà.

Single player: modalità di gioco che prevede il coinvolgimento di un solo giocatore.

Spazio virtuale: vedi Mondo virtuale.

Workflow: si intende un processo che consiste in una o più attività ognuna delle quali rappresenta un lavoro da svolgere per giungere a un obiettivo comune. Nell’ambito dei videogiochi, in particolare, ci si trova sempre davanti a

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workflow complessi perché i diversi reparti della produzione devono lavorare in modo coordinato e simultaneo per raggiungere l’obiettivo finale che è quello di realizzare un prodotto funzionante e divertente, nonché artistico, almeno in parte.

Xbox 360: console della casa statunitense Microsoft, seconda della serie (Xbox)

Xbox Live: servizio di collegamento e online community di Xbox360. Permette ai giocatori di incontrarsi online per scambiarsi dati di gioco, confrontare le statistiche e i punteggi ma soprattutto sfidarsi online in tempo reale.

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Bioshock Wikia, http://bioshock.wikia.com/ (ultima visita: 11/11/2008) Digra, http://www.digra.com (ultima visita: 10/09/2008) Dungeons & Dragons: http://it.wikipedia.org/wiki/Dungeons_%26_Dragons ESRB: http://www.esrb.org (ultima visita: 01/05/2008) Friedman, Ted (2006) Making Sense of Software: Computer Games as Interactive Textuality: http://www.duke.edu/~tlove/simcity.htm (ultima visita: 28/12/2008) Gamasutra, http://www.gamasutra.com (ultima visita: 01/12/2008) Game Research, http://game-research.com (ultima visita: 01/12/2008) Game Studies, http://www.gamestudies.org (ultima visita: 01/12/2008) Kellner’s Media Studies: http://www.gseis.ucla.edu/faculty/kellner/essays.html (ultima visita: 28/12/2008) Ludology, http://www.ludology.org (ultima visita: 28/12/2008) MBF Blog, http://mbf.blogs.com/mbf/ (ultima visita: 28/12/2008) “Shadow of the Colossus. L’amore giustifica tutto?” di Alessandra C, in LaStampa.it, http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giochi/grubrica.asp?ID_blog=35&ID_articolo=29&ID_sezione=49&sezione= (ultima visita: 28/12/2008) Mary, Frankenstein; or, The Modern Prometheus, http://www.gutenberg.org/files/84/84-h/84-h.htm (ultima visita: 28/12/2008) The First Place, http://www.thefirstplace.it (ultima visita: 28/12/2008)

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VGChartz, http://www.vgchartz.com (ultima visita: 28/12/2008) Videogames Ratings: http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_best-selling_video_games (ultima visita: 15/09/2008)) Videoludica, http://www.videoludica.com (ultima visita: 28/12/2008

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Ringraziamenti

Se è proprio vero che una risata ci seppellirà, non posso fare a meno di concludere questo lavoro pluriennale con dei ringraziamenti goliardici. D’altra parte, parafrasando Huizinga (no, non c’entra niente con Mazinga), la vita è un gioco. E speriamo di non smettere mai, fino alla fine, di giocare. (Parentesi seria) Ringrazio la mia relatrice, Paola Carbone, perché siamo arrivate incolumi alla fine di questo percorso, nonostante tutte le insidie. Ti prometto che userò molte meno virgole, d’ora in avanti! Ringrazio la professoressa Patrizia Nerozzi per tutta la pazienza e il supporto nel corso di questi anni di dottorato. (Fine parentesi seria) La mia prima tesi l’ho dedicata ai miei genitori, che hanno contribuito a rendermi come sono. Ormai sono un po’ di anni che me la cavo pressoché da sola, ma so che voi ci siete sempre. Mamma, papà, vi ringrazio come sempre perché anche se sono un’adulta irrequieta e anche se faccio di tutto per essere autonoma, mi fate capire che posso sempre contare su di voi. Grazie. Questa tesi la dedico a una selva di personaggi improbabili, o immaginari, o morti, o entrambe le cose, che tuttavia sono con me la maggior parte del mio tempo cosciente e, in alcuni casi, nei miei sogni più significativi. Borges, per primo, che amo da quando ho tredici anni. Super Mario, assolutamente, l’unico idraulico su cui puoi sempre contare e con cui mi diverto ormai da più di vent’anni. Joyce con le sue epifanie, che mi hanno fatto capire un po’ di più il senso della vita. Pyramid Head, un nemico che ancora oggi mi terrorizza, ma che mi ha insegnato che non si può sfuggire alle proprie ossessioni, tanto vale affrontarle di petto. John Doe, perché quando tutto era statico, buonista e noioso è arrivato lui con il suo charme e il suo cinismo. Corto Maltese, che resta il mio ideale di uomo accanto al Grande Lebowsky, che ha sempre un piccolo posto nel mio cuore. Ho tanti amici a cui devo almeno una menzione. Non che mi abbiano aiutato direttamente con questa tesi (che, anzi, è stata tenuta celata ai più) ma sicuramente abbiamo condiviso tanto, in questi anni, e perché è bello lasciare un segno di voi anche qui. Ed è, peraltro, un modo per sdebitarmi perché mi sopportate così come sono. Giulia, poche persone riescono a farmi imbestialire come sai fare tu. Trova la tua strada e smettila di lamentarti, sei una bella persona e hai una vita bellissima. Roby: il miglior nuovo acquisto! Sei la prima neo-sorella che ho. E ti voglio bene come se ci conoscessimo da sempre. Ali. Altrimenti detta “Capra”. Adoro i nostri tè del giovedì. Veramente, adoro tutto il tempo che passiamo insieme. Sì, sei la mia migliore amica, rassegnati. Max... Anche se siamo diventati adulti ed è difficile essere gli spensierati ragazzini di qualche anno fa, quando ridiamo insieme mi sento ancora 19 anni. Ed è bellissimo. Peppe, ci pensi? Ci conosciamo da almeno diciannove anni. Fa spavento. Però che lustro avere un amico ufficiale e gentiluomo come te! Ila, scommetto che concorderai con me nell’elenco di dediche di questa tesi. D’altra parte, siamo noi che viviamo accompagnate da personaggi di fantasia più reali del reale, fin da quando siamo piccole. Gaia, aka Pear. Come potevo pensare di trovare una persona come te? E invece esisti. Peccato per la tua passione per la filologia germanica. Avremmo potuto essere grandi amiche. Tiziana, Roberto, grazie perché mi fate sentire sempre a casa e perché è un piacere trascorrere il tempo con persone come voi. E, ovviamente, per l’ottimo vino! Paolo, penso ancora che andare in Africa non sia stata la mossa più utile del mondo, però non posso non pensarti e non pensare che, magari, prima o poi riusciremo a parlare di nuovo senza lanciarci i coltelli. O i crocifissi.

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Ubisoft ha avuto un grosso spazio, nella mia vita, in questi ultimi anni. Lì ho capito cosa significa veramente lavorare (???) nel mondo dei videogiochi. Ho conosciuto persone che da colleghi sono diventati amici. E che spero lo resteranno a lungo. Davide, ad esempio. Nonostante tu sia un nintendario e ami Super Mario sicuramente più di me, sei anche un grande game designer e un ciccione senza speranza. Mi hai insegnato tanto e mi hai ricordato che bisogna giocare con tutto e tutti. Spero che prima o poi Whispering Life diventi realtà. Chricchio (bagno zozzo), Dami (FRIULI!), Clara (tipo kekka), Rik (alla fine dovevamo lavorare insieme su un videogioco, no?), Alberto (vai a votare), Pier (alza lo schermo, va’...), Francy (sei e sarai sempre il mio Producer), Dario (mi dai i buoni pasto?), Roby (sei il mio coder del cuore), Rik (andiamo a berci ‘sto caffè), Maurone (mi fai una dedica cantata?), Smiro (chi sei?!), Stibi (smettila di ondeggiare la testa), Giuliano (lo so che sei buono, ti voglio bene anche io), Mauro (prima o poi ti scrivo una storia, promesso), Fraps (prima o poi tornerai dal grande freddo), Briano e il Monsoon, Italo (cosa ridi?), Giamma (dai, chiudi un occhio), e tutti gli altri che da ormai due anni sopportano me, il mio fare imbarazzante, le mie battute fuori luogo, il mio chiasso e la mia irruenza: spero di avervi regalato qualche risata, ogni tanto, perché sì, ragazzi, lo so... Faccio ridere! Una menzione speciale va a Cristina, con cui mi sono trovata inaspettatamente e con cui sento di condividere molto. Speriamo, prima o poi, di poter affrontare una storia insieme. I ragazzi del GamesLab. Una delle esperienze più divertenti e formative degli ultimi anni. Sono contenta che ognuno di voi stia andando per la sua strada. Siete tutti in gamba, mi avete insegnato tanto e sono onorata di aver lavorato, chiacchierato, riso con voi. Claudio, sei stato un braccio destro prezioso e anche se ora ci siamo separati, sono sicura che un giorno le nostre strade si uniranno di nuovo (come sono marziale). Hive Division. In fondo, ma solo perché è la parte della mia vita proiettata al futuro. Tutti quelli che ne fanno parte mi ricordano ogni singolo giorno che cercare di realizzare quello che si sogna è più bello del sogno stesso. Spero, presto, di lavorare con voi e di condividere sempre più la mia vita con voi. Spacchiamo. In particolare, Nemesis: devi guarire e dobbiamo continuare a scrivere storie insieme. Vai al mare. Prendi le vitamine. Non mi importa. Noi tre siamo una forza inarrestabile. E le nostre idee e i nostri racconti riecheggeranno nei secoli. Infine: colui grazie a cui tutto è possibile. Giacomo. Con te mi piace addormentarmi e svegliarmi, l’azzurro è più azzuro e i sapori sono più intensi. Sei il mio compagno di vita, so che ci sei e che ci sarai sempre. Mi spingi a creare, scrivere e immaginare e mi hai insegnato che la felicità non è un impedimento per l’arte, anzi. Con te, e solo con te, potevo concepire “Europa”, con te, e solo con te, potrò realizzarla. Che sia un augurio per il nostro futuro: creare insieme, ancora e ancora. E, ovviamente, spero che potremo alzarci tardi, viaggiare, fare tutti i brunch che vorremo, parlare, riflettere, inventare e giocare insieme, sempre. Questo capitolo della mia vita si chiude qui. È stato lungo, per alcuni versi sofferto, per altri divertente, ma sono contenta di essere arrivata in fondo a questo percorso e sono felice della strada che sono arrivata a imboccare. Raccontare storie. Questo è quello che spero di continuare a fare, domani e domani. “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”