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21 AURORA CAGNANA - ALESSANDRO ZUCCHIATTI I vetri da finestra rinvenuti nello scavo della basilica paleocristiana di Ovaro (Carnia - Udine) Atti delle X Giornate Nazionali di Studio, Trame di luce vetri da finestra e vetrate dall’età romana al novecento, Pisa, 12-14 novembre 2004 Società Storica Pisana • Association Internationale pour l’Histoire du Verre - Comitato Nazionale Italiano Il contesto archeologico Un ricco contesto di vetri da finestra è stato rin- venuto nel corso degli scavi archeologici condotti, fra 2000 e 2006 a Ovaro, in località San Martino, nei pressi del Degano, affluente del Tagliamento. Le inda- gini, condotte dalla Soprintendenza Archeologica del Friuli Venezia Giulia, hanno portato alla luce i resti di un complesso paleocristiano monumentale, costituito da basilica ed edificio battesimale antistante, con al centro una vasca in muratura 1 . I caratteri planimetrici, i dati di scavo, le datazioni al radiocarbonio effettuate su alcuni carboni e su frammenti ossei prelevati dalle sepolture, indicano una cronologia di costruzione del- la basilica attorno alla metà del V secolo. Già alla fine del VI secolo si registrano importanti modifiche, quali l’inserimento di un piccolo cimitero all’interno di al- cuni vani della chiesa 2 . Il vano del battistero risulta utilizzato, con alterni momenti di degrado e di tempo- raneo abbandono, fino almeno al X secolo. All’inizio del XII secolo, le fonti scritte attestano lo spostamento della pieve sull’altura di Gorto, distante pochi chilo- metri da San Martino 3 . Sul sito della basilica battesimale, abbandonata, viene edificata una più modesta chiesetta, menzionata nelle fonti scritte a partire dall’inizio del XIV seco- lo. L’area della basilica paleocristiana rimane perciò sigillata nel sottosuolo e diventa sede di una fiera annuale che vi si svolge dal Medioevo fino ad oggi, il giorno dell’11 novembre 4 . Il sito paleocristiano co- stituisce un raro e prezioso documento per lo studio della cristianizzazione dell’area alpina orientale, di- retta dalla chiesa metropolitica di Aquileia. Si osservi che il sito in esame è posto a poca distanza da un altro celebre complesso basilicale paleocristiano: quello di Invillino, risalente anch’esso al V secolo. L’esistenza di questi due impianti dimostra l’entità dello sforzo di evangelizzazione da parte della chiesa madre Aquileia e anche il forte dispiegamento di mezzi economici, investito in quest’area alpina. Nel corso dello scavo a San Martino di Ovaro si sono rinvenute diverse centinaia di manufatti in vetro, molti dei quali costituiti da calici e da lampade per l’illuminazione, databili soprattutto al VI e, in minor misura, al VII secolo. Lo scavo ha restituito anche 255 frammenti piani di vetri da finestra, i quali presentano superfici comprese fra 2 e 9 cm 2 , per un totale di 1285,0 cm 2 . La maggior parte è di dimensioni piuttosto ridotte (oscilla fra 4 e 5 cm 2 ) e solo un reperto, ricomposto, raggiunge le misure di cm 13x15. L’alto indice di frammentazione è dovuto ai caratteri del deposito archeologico. Gli strati di degrado e crollo della chiesa paleocristiana, che contenevano anche i frammenti vitrei, sono stati infatti sottoposti, dopo l’abbandono dell’edificio, a un lungo e protratto calpestio, dovuto, soprattutto, alla presenza della fiera. Ecco perché lo scavo non ha mai restituito una lastra di proporzioni significative né, tanto meno, intera, anche se i reperti non sembrano avere subito una dispersione areale, come dimostra la frequente presenza di superfici combacianti fra reperti dello stesso strato. Dai frammenti ricomponibili si può comunque risalire all’esistenza di lastre quadrate, o rettangolari, di dimensioni attorno ai 15x15 cm. Su 37 frammenti si riconosce la finitura originale, costituita da un bordo arrotondato, ottenuto a caldo, mentre 27 conservano tracce del bordo scheggiato, dovuto a una lavorazione eseguita a freddo. Su pochi reperti sono presenti angoli originali, sia retti, sia acuti, con due lati lavorati in maniera diversa. Gli spessori, variabili, oscillano fra 0,5 e 3,0 mm. Da tutti questi elementi si può ipotizzare un processo di fabbricazione a soffia- tura, col metodo detto ‘a cilindro’, ovvero basato sul taglio della lastra a caldo e sulla successiva rifinitura a freddo tramite il cosiddetto ‘grossarium’. In tutta l’ampia superficie dello scavo non si è rinvenuto alcun canaletto in piombo; ciò lascia supporre che i pannelli fossero inseriti direttamente entro armature lignee, analogamente a quanto è stato ipotizzato per altre chiese paleocristiane di area alpina 5 . Si sono, per con- tro, raccolti numerosi chiodini in ferro, a forma di “L’’ con bracci di 2,5 e 1,0 cm, costituiti da un’estremità a punta e una piatta. Evidentemente erano utilizzati per un ulteriore fissaggio delle lastre alle griglie di legno. Le lastre sono attestate in cinque colori: verde oliva, blu, bianco opaco, giallo-marroncino e incolo- re. Il primo è un colore naturale, ovvero dovuto alla presenza di FeO, in molte sabbie silicee e quindi non

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AURORA CAGNANA - ALESSANDRO ZUCCHIATTI

I vetri da finestra rinvenuti nello scavo della basilica paleocristiana di Ovaro

(Carnia - Udine)

Atti delle X Giornate Nazionali di Studio, Trame di luce vetri da finestra e vetrate dall’età romana al novecento, Pisa, 12-14 novembre 2004

Società Storica Pisana • Association Internationale pour l’Histoire du Verre - Comitato Nazionale Italiano

Il contesto archeologico

Un ricco contesto di vetri da finestra è stato rin-venuto nel corso degli scavi archeologici condotti, fra 2000 e 2006 a Ovaro, in località San Martino, nei pressi del Degano, affluente del Tagliamento. Le inda-gini, condotte dalla Soprintendenza Archeologica del Friuli Venezia Giulia, hanno portato alla luce i resti di un complesso paleocristiano monumentale, costituito da basilica ed edificio battesimale antistante, con al centro una vasca in muratura1. I caratteri planimetrici, i dati di scavo, le datazioni al radiocarbonio effettuate su alcuni carboni e su frammenti ossei prelevati dalle sepolture, indicano una cronologia di costruzione del-la basilica attorno alla metà del V secolo. Già alla fine del VI secolo si registrano importanti modifiche, quali l’inserimento di un piccolo cimitero all’interno di al-cuni vani della chiesa2. Il vano del battistero risulta utilizzato, con alterni momenti di degrado e di tempo-raneo abbandono, fino almeno al X secolo. All’inizio del XII secolo, le fonti scritte attestano lo spostamento della pieve sull’altura di Gorto, distante pochi chilo-metri da San Martino3.

Sul sito della basilica battesimale, abbandonata, viene edificata una più modesta chiesetta, menzionata nelle fonti scritte a partire dall’inizio del XIV seco-lo. L’area della basilica paleocristiana rimane perciò sigillata nel sottosuolo e diventa sede di una fiera annuale che vi si svolge dal Medioevo fino ad oggi, il giorno dell’11 novembre4. Il sito paleocristiano co-stituisce un raro e prezioso documento per lo studio della cristianizzazione dell’area alpina orientale, di-retta dalla chiesa metropolitica di Aquileia. Si osservi che il sito in esame è posto a poca distanza da un altro celebre complesso basilicale paleocristiano: quello di Invillino, risalente anch’esso al V secolo. L’esistenza di questi due impianti dimostra l’entità dello sforzo di evangelizzazione da parte della chiesa madre Aquileia e anche il forte dispiegamento di mezzi economici, investito in quest’area alpina.

Nel corso dello scavo a San Martino di Ovaro si sono rinvenute diverse centinaia di manufatti in vetro, molti dei quali costituiti da calici e da lampade per l’illuminazione, databili soprattutto al VI e, in minor

misura, al VII secolo. Lo scavo ha restituito anche 255 frammenti piani di

vetri da finestra, i quali presentano superfici comprese fra 2 e 9 cm2, per un totale di 1285,0 cm2. La maggior parte è di dimensioni piuttosto ridotte (oscilla fra 4 e 5 cm2) e solo un reperto, ricomposto, raggiunge le misure di cm 13x15. L’alto indice di frammentazione è dovuto ai caratteri del deposito archeologico. Gli strati di degrado e crollo della chiesa paleocristiana, che contenevano anche i frammenti vitrei, sono stati infatti sottoposti, dopo l’abbandono dell’edificio, a un lungo e protratto calpestio, dovuto, soprattutto, alla presenza della fiera. Ecco perché lo scavo non ha mai restituito una lastra di proporzioni significative né, tanto meno, intera, anche se i reperti non sembrano avere subito una dispersione areale, come dimostra la frequente presenza di superfici combacianti fra reperti dello stesso strato. Dai frammenti ricomponibili si può comunque risalire all’esistenza di lastre quadrate, o rettangolari, di dimensioni attorno ai 15x15 cm. Su 37 frammenti si riconosce la finitura originale, costituita da un bordo arrotondato, ottenuto a caldo, mentre 27 conservano tracce del bordo scheggiato, dovuto a una lavorazione eseguita a freddo. Su pochi reperti sono presenti angoli originali, sia retti, sia acuti, con due lati lavorati in maniera diversa. Gli spessori, variabili, oscillano fra 0,5 e 3,0 mm. Da tutti questi elementi si può ipotizzare un processo di fabbricazione a soffia-tura, col metodo detto ‘a cilindro’, ovvero basato sul taglio della lastra a caldo e sulla successiva rifinitura a freddo tramite il cosiddetto ‘grossarium’. In tutta l’ampia superficie dello scavo non si è rinvenuto alcun canaletto in piombo; ciò lascia supporre che i pannelli fossero inseriti direttamente entro armature lignee, analogamente a quanto è stato ipotizzato per altre chiese paleocristiane di area alpina5. Si sono, per con-tro, raccolti numerosi chiodini in ferro, a forma di “L’’ con bracci di 2,5 e 1,0 cm, costituiti da un’estremità a punta e una piatta. Evidentemente erano utilizzati per un ulteriore fissaggio delle lastre alle griglie di legno.

Le lastre sono attestate in cinque colori: verde oliva, blu, bianco opaco, giallo-marroncino e incolo-re. Il primo è un colore naturale, ovvero dovuto alla presenza di FeO, in molte sabbie silicee e quindi non

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va considerato come un pigmento aggiunto intenzio-nalmente. Si può inoltre osservare la grande varietà di sfumature, da verde oliva a verde più chiaro, fino a una tonalità quasi incolore con aloni verdi. Il vetro incolo-re, attestato in quantità di poco inferiore al verde, era invece ottenuto intenzionalmente, come è noto, deco-lorando il vetro naturale con MnO e quindi va consi-derato come un prodotto leggermente più costoso del primo. Nettamente inferiore, ma comunque significa-tiva, è la presenza del vetro blu, ottenuto con aggiunta di apposito colorante, costituito in questo caso da co-balto (cfr. infra) e quindi piuttosto costoso. Le lastre di colore violetto e bianco opaco, così come quelle in colore giallo, sono pure presenti, ma in quantità decisamente inferiori. È noto che il vetro, nell’archi-tettura, risponde alla funzione primaria di offrire una schermatura della parete a scopo protettivo, esigenza particolarmente scontata in un monumento posto in area alpina; al tempo stesso però, la finestra in vetro, soprattutto se colorata, svolge un ruolo importante nell’organizzazione dello spazio interno. La vetrata colorata, come è stato ampiamente provato, anche sulla base della letteratura tardo-antica e medievale, direziona la luce in modo da enfatizzare determinati ambienti liturgici, rendendoli più raccolti e preziosi, oppure più ariosamente luminosi, a seconda delle esi-genze6. L’analisi quantitativa della distribuzione dei vetri da finestra, ha offerto, in questo senso, risultati di un certo interesse. Se si raffrontano le quantità dei vetri di diverso colore (misurate in cm2 di superficie) in base ai vari ambienti del complesso basilicale (presbiterio, aula della chiesa, battistero, nartece), si riscontrano notevoli differenze.

Complessivamente si riscontra una vistosa mag-

gioranza del vetro verde, seguito, a breve, da quello incolore che è comunque rappresentato in percentua-le notevole, rispetto al primo. Il prezioso vetro blu è circa un quinto di quello incolore, mentre i vetri bianco opaco, violetto e giallo sono attestati in misu-ra modesta. Queste quantità relative sono diversifica-te nelle varie parti della chiesa: nell’aula i vetri inco-lori sono quasi pari ai verdi, e solo qui sono presenti i vetri gialli e bianchi opachi. Nell’area presbiteriale (Fig. 2) la quantità di vetro incolore supera persino il vetro verde, mentre il blu e il bianco sono attestati in scarsa quantità.

Tali percentuali risultano completamente diverse nella zona a nord dell’aula, dove il vetro blu è circa la metà di quello verde (Fig. 3). È possibile interpretare questa evidenza in relazione all’architettura religiosa e alla funzione liturgica dei vari vani. La quantità di vetro incolore sembra sottolineare l’importanza della luce nel presbiterio, luogo deputato alla liturgia della parola; ma anche nell’aula, l’ambiente dove avveniva il rito dell’eucaristica e nel battistero, luogo per il rito fondamentale, quello che sanciva l’iniziazione alla re-ligione cristiana. È evidente che questi spazi dovevano essere luminosi, dato che la luce simboleggiava l’illu-minazione della parola e la nascita alla nuova vita.

La percentuale di vetro blu aumenta invece decisa-mente negli spazi posti a nord del presbiterio, in uno dei quali si trovava un reliquiario in pietra. Tale zona necessitava, evidentemente, di una luce più preziosa e schermata, adatta a un ambiente votato soprattutto al rito più raccolto, al valore ‘magico-taumaturgico’ del contatto con la reliquia.

[A.C.]

Fig. 1. Un frammento di vetro verde tenue e uno di vetro blu

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Le analisi archeometriche

Dalle analisi chimiche effettuate con la tecnica non distruttiva PIXE (Particle Induced X-Ray Emission)

su 13 campioni (12 frammenti di blu e 1 frammento di verde) sono emersi dei dati interessanti7. In primo luogo si è costatato che si tratta, in tutti i casi, di vetri al natron.

Fig. 2. Percentuali di frammenti colorati restituiti dalla zona presbiteriale

Fig. 3. Percentuali di frammenti colorati restituiti dal vano a nord dell’aula

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Inoltre è stato effettuato un confronto con le componenti chimiche dei vetri da finestra rinvenuti nella coeva basilica di Sion Sous-le-Scex (Svizzera) (Fig. 5 e Fig. 6). In quest’ultimo contesto era stata rilevata la presenza di Pb, Cu, Zn, Sn, Sb (indicatore di antimonio, Sb2O3) in quantità da 3 a 8 volte supe-riore che a Ovaro8. È noto che l’alta concentrazione di questi metalli suggerisce un reimpiego di vetri romani e in particolare di tessere di mosaici. Sembra dunque possibile affermare che, nel caso di Ovaro, non siano stati impiegati materiali di reimpiego.

Sono state inoltre effettuate analisi per conoscere la composizione delle sabbie. Le componenti chimi-che (comme la debole quantità di TiO2) sono tipiche di una composizione che rientra nel gruppo detto ‘Levantine I’9 (Fig. 7). In un sistema di produzione segmentato, basato su due tipi di impianti produttivi (fusione della silice e produzione della ‘fritta’ e suc-cessiva fase di soffiatura), l’area di produzione della materia prima usata per i vetri di Ovaro sarebbe dun-que da situare presso il fiume Belus o comunque lungo la costa siro-palestinese10.

Fig. 5. Analisi chimica comparativa dei vetri da finestra di Ovaro e di Sion Sous-le-Scex (ZUCCHIATTI et al. 2007)

Fig. 6. Analisi chimica dei vetri da finestra di Ovaro: la quantità di TiO2 è compresa fra lo 0,10 e lo 0,12%, mentre la quantità di Fe2O3 è compresa fra lo 0,8 e l’1,5% (ZUCCHIATTI et al. 2007)

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Quanto all’analisi dei frammenti blu, sono stati sottolineati dei tenori importanti di cobalto, ma anche una presenza non trascurabile di ferro, nikel, rame e

piombo11 (Fig. 8). Questi dati suggeriscono, forse, un impiego di più minerali per ottenere il blu scuro.

[A.Z.]

Fig. 7. Analisi chimica dei vetri da finestra di Ovaro: i componenti corrispondono a quelli del gruppo detto ‘Levantine I’ (ZUCCHIATTI et al. 2007)

Fig. 8. Analisi chimica dee vetri da finestra blu di Ovaro: la presenza di cobalto è in rapporto a quella del ferro, del nickel, del rame e del piombo (ZUCCHIATTI et al., 2007, fig. 4)

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Note

1 BORZACCONI - CAGNANA 2001; CAGNANA 2000; CA-GNANA 2003; CAGNANA 2004; CAGNANA 2007.2 CAGNANA - AMORETTI 2005.3 DELL’OSTE 1999.4 CAGNANA et al., 2003, pp. 97-114; CAGNANA 2007, p. 65 e ss.5 Per i resti di vetrate rinvenuti in contesti tardoantichi di area alpina, dove, generalmente, non si trovano canaletti in piombo per l’assemblaggio, cfr. DELL’ACQUA 2003, pp. 30-31. 6 Ibidem, p. 5 e ss.7 ZUCCHIATTI et al. 2007.8 WOLF - KESSLER - STERN - GERBER 2005.9 FREESTONE - GORIN-ROSEN - HUGHES 2000.10 FOY et al. 2003.11 ZUCCHIATTI et al. 2007.

Riferimenti bibliografici

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