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DARIO REBOLINI I TRE COLONNELLI parte seconda

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DARIO REBOLINI I TRE COLONNELLI parte seconda 76 pensarci due volte, mi sono buttato giù per quel burrone senza andarci troppo per il sottile, temevo di essere stato visto, potevano arrivarmi addosso in qualsiasi momento e sarebbe stata la fine. 77 78 79 80 81 82 83

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DARIO REBOLINI

I TRE COLONNELLI parte seconda

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Io stavo studiando il modo per scendere; mi trovavo, più ò meno, al centro del treno, a pochi passi

da dove s’incontravano le due pattuglie tedesche, visto che però sul treno non saliva nessun

soldato, decisi di proseguire e sperare di trovare poi, qualche occasione migliore. Però il treno non

partiva, per me erano minuti lunghissimi, sulla mia destra, verso la fine del treno, notai due suore

con il cappello bianco che spingevano un carrello e, passavano qualcosa dai finestrini a qualcuno,

correndo verso di loro, la pattuglia era ancora abbastanza lontana, aprii il finestrino e gli dissi che

dovevo scendere ma, essendo un militare, temevo di essere scoperto. Una di queste, la più

anziana, mi consigliò di andare verso la coda del treno e scendere dall’ultima carrozza, dalla parte

opposta, e aspettarle lì che mi avrebbero fatto uscire loro. Arrivo come un fulmine nell’ultima

carrozza ma la porta dall’altra parte non si apre, è bloccata, sento il fischio del capostazione che dal

via alla partenza, mi sposto dall’altra porta e vedo che i tedeschi sono girati dall’altra parte, vedo le

suore che si stanno avvicinando all’ultimo vagone, apro e mi butto giù con un salto. Rimango lì

bloccato dalla paura che,se si girano e mi vedono, oramai sono allo scoperto, bastava si girassero e

la raffica del suo “macine pistola” mi sarebbe arrivata a dosso senza scampo, ma intanto che mi

passavano tutti questi pensieri,una suora mi prende per un braccio a mi fa attaccare la mano al suo

carrello,in mezzo a loro due e mi dicono di non girami. Era quasi fatta, andiamo, col carrello verso

un cancelletto che chiudeva un orto, lo spingiamo e mi dicono; vai via di corsa più che puoi e non ti

fermare per nessun motivo. Dopo cento metri, mi sono trovato in un boschetto e da lì, attraverso

delle vigne sono arrivato a casa, due giorni dopo il 29 settembre del 1943. E qui, finisce la mia prima

campagna di guerra, anche se in quei due giorni di strada a piedi, ho corso ancora qualche pericolo.

Il primo, lo corso, quando sono andato in una cascina per chiedere un pezzo di pane e la signora

voleva a tutti i costi che gli lasciassi le mie scarpe nuove, quelle che ho raccontato prima, e che a

Trieste non avevo cambiato. Oramai non l’avrei cedute manco a rischio della pelle. Avevo già perso

i galloni di sergente, che avrei voluto portare, con orgoglio a mio padre, che era sergente maggiore

nell’altra guerra. Quindi queste, non le avrei mai mollate a nessuno, erano troppo belle, per lasciarle

a questa megera, per un tozzo di pane, che poi non mi diede. Ma non solo, forse pensando che non

capissi il Piacentino, dialetto molto stretto, mi gridò dietro che mi avrebbe mandato i tedeschi, che

quelle scarpe erano dello stato e non mie. Questa cosa non mi preoccupava più di tanto, se non mi

fossi ricordato che, mentre stavo sulla porta a discutere con questa, avevo notato un berretto nero

da gerarca fascista, appeso ad un attaccapanni nell’entrata. In ogni caso, ripresi il mio cammino

attraverso le vigne, e dopo cinque o seicento metri, mi sono trovato davanti a uno specie di torrente,

molto scosceso e difficile da attraversare. Ero molto stanco e mi sono un poco appisolato. Mi hanno

svegliato le raffiche di mitra che provenivano dalla parte di quella cascina: non sono stato lì a

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pensarci due volte, mi sono buttato giù per quel burrone senza andarci troppo per il sottile, temevo

di essere stato visto, potevano arrivarmi addosso in qualsiasi momento e sarebbe stata la fine.

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Arrivato giù in fondo al burrone ho incominciato a correre sul letto del torrente, verso le montagne,

sperando di non essere stato visto e salvare la pelle. Infatti dopo qualche chilometro, e dopo diverse

raffiche,è tornato il silenzio. In ogni modo sono rimasto li con le orecchie tese allo spasimo, per

qualche ora, poi, sempre attraverso dei filari di viti, mi sono allontanato. Alla sera non sapevo cosa

fare: se avvicinarmi a qualche cascina che mi facessero dormire, magari anche sotto un porticato o

in una stalla, ma non l’ho fatto. Ho dormito sotto un pergolato carico d’uva bianca e mi sono messo

sopra del fogliame secco, trovato nei dintorni. La notte è passata velocemente, la stanchezza mi ha

avvolto in un sonno profondo che è durato tutta la notte senza sentire né, freddo né, paura. Ero

ancora molto lontano da casa, non volevo camminare sulla statale perché temevo qualche altra

sorpresa di tedeschi. Solo quando sono iniziate le montagne, ho dovuto per forza proseguire, per

vari tratti, sulla statale. Qui mi è capitata l’altra sorpresa; mi trovavo a quindici chilometri da casa,

(per chi conosce la zona, ero poco sotto Ponte Organasco).La strada è stretta, è tutta curve,

camminavo abbastanza tranquillo, quando, in una di queste curve,mi arriva dritta in fronte,

silenziosissima, una camionetta tedesca scoperta, con due tedeschi sopra. Si ferma proprio al mio

fianco, uno di questi era un omone con una grossa pancia e con un “mascin pistola” che,

appoggiato su questa pancia, mi arrivava e mi toccava quasi la spalla destra; io mi sono trovato

come dissanguato, non sarei stato in grado neanche di rispondere se mi avessero interrogato. Mi

hanno guardato un attimo, poi, quello grosso, dice all’autista, RAUS, e se ne sono andati. C’è voluto

qualche tempo, prima di riacquistare tutte le mie facoltà, ma appena avuto cognizione, di quanto mi

era capitato, ho scavalcato un muretto e velocemente mi sono buttato giù a capo-collo, verso il

fiume Trebbia, pensando che un automezzo cosi piccolo, non avrebbe sicuramente viaggiato solo,

in un una zona deserta come quella. Attraversato il Trebbia al bivio con il torrente del Brallo, che era

quasi a secco, ho preso un sentiero che, da ragazzo avevo sentito dire, portava al castello di Zerba,

quindi a casa senza pericoli. Ma niente da fare: dopo cinque minuti, il sentiero finiva, forse una

frana, precedente l’aveva portato via, e non c’era mezzo di poter proseguire, anche perché si stava

facendo notte. Ritornai sulla statale e al buio continuai il mio viaggio, con la speranza che, un

eventuale incontro con altre macchine, l’avrei viste in tempo per via dei fari. Proseguii guardingo fino

a Valsigiara, presi il bivio per Zerba e arrivai alla Croce che, erano le 0,30 del 29 settembre 43. Da lì

si vede Zerba, che dista circa due chilometri e mezzo, la strada è ghiaiosa, non vi è ancora l’asfalto,

è stata aperta di recente. Nel silenzio più assoluto sentii un grande rumore di ghiaia a trenta passi

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da me. Subito pensai alla lepre o la volpe, ma poi sentii un guaito a me famigliare e lo chiamai.

Muschin, sei tu?. Questi parte a tutta velocità e con un salto finale, sullo stomaco quasi mi manda

per terra; un minuto o due di frasche con qualche slap sulle guancia, poi, dopo avermi fatto una paio

di giri intorno vola via subito, torna a casa, abbaia forte, sveglia tutti e poi ritorna da me. Mi arriva

nuovamente a tutta velocità nelle gambe, mi salta in braccio, piange, ride, mi bacia sul naso, sulla

faccia, come un bambino.

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Va via di nuovo come una saetta, si rifà nuovamente quel chilometro per vedere se i famigliari

avevano capito, li trova già tutti alzati, ritorna per l’ennesima volta da me, e per tutta la strada non fa

che girarmi in giro e saltarmi addosso come un pazzo. Erano quasi cinque mesi da quando ero

partito e non mi aveva più rivisto. Quella sera probabilmente si trovava all’esterno della casa, sotto

un porticato, dove di solito passava la notte, magari sotto vento, avrà sentito un odore che

conosceva e cosi mi è venuto in contro per accertarsene. Avrete già capito il rapporto d’amicizia che

vi era fra noi due, ma se non l’avete capito, vi posso dire che, da quella sera non ha più voluto

dormire nel porticato abituale, ma fuori dalla porta della mia stanza, dove, sono stato costretto a

costruirci una specie di cuccia. Ecco qui finisce la favola della mia campagna di Croazia e il

rocambolesco viaggio per tornare a casa. Ma inizia quasi subito un’altra guerra, quella del disertore

ricercato, dai carabinieri prima, e dai fascisti di Salò e i tedeschi dopo. Durante la mia, abbastanza

lunga vita, mi è venuto di pensare molto a quel periodo, a quei punti interrogativi: ma come

facevano i ferrovieri ad essere già cosi bene organizzati, a solo dieci giorni dall’otto settembre 43 ?.

Quando nell’immediato dopo guerra, trovandomi a Piacenza sono andato a cercare notizie di quelle

due suore, mi è stato risposto con certezza che non erano suore, ma erano donne del Comitato

Liberazione Nazionale, ed erano lì, in quei posti, proprio per cercare di salvare, più soldati possibile,

dai campi di concentramento. Andai anche in quella cascina; volevo vedere bene in faccia quella

megera che voleva le mie scarpe, ma non c’era più, vi era un’altra famiglia e non nè sapevano nulla.

Andai poi, al Distretto per cercare notizie di quel mio amico Sergente Maggiore, poi Maresciallo, ed

ho avuto brutte notizie, era tornato dalla Germania, ed era morto da poco per gli stenti e i disagi

sopportati per più di due anni nei campi di prigionia. A Zerba, dopo pochi giorni che ero arrivato a

casa, si sono presentati subito i carabinieri d’Ottone, e meno male non mi hanno trovato. Ma hanno

lasciato un biglietto, dove era scritto che mi dovevo presentare il giorno seguente in caserma, per

notificare la mia posizione militare. Naturalmente non mi hanno mai più visto; e da quel giorno, ogni

notte, dovevo andare a dormire nella casa della vigna. Questo stato di cose, durò fino ai primi due

mesi del 1944, poi incominciarono i rastrellamenti sistematici, quasi ogni giorno. Ai carabinieri di

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Ottone, non godendo più la assoluta fiducia dai nazisti, gli mandarono a rinforzo, un drappello di

camice nere, di quelle che portavano il teschio sul berretto, e avevano una fame incontenuta di

medaglie e di disertori e renitenti alla leva. Da lì in avanti le file dei renitenti, invece che diminuire

aumentarono, si cominciava a sentire il bisogno di organizzarsi, in giro si sentiva parlare di partigiani

sui monti della val D’Aveto, anche se da noi non se n’erano ancora visti. Non potevamo più stare

nella casa della vigna, dove tutti lo sapevano, bisognava fare qualcosa di più sicuro. Un giorno

parlandone fra noi, qualcuno ha suggerito di spostarci nelle rive, in faccia a Zerba, (nel ronco del

gallo), dove vi era una specie di grotta che, con qualche attrezzo e qualche ora di lavoro si poteva

trasformare in un ottimo rifugio.

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Una sera con la luna piena siamo partiti in tre e abbiamo portato gli attrezzi nel fosso, dove iniziava

il sentiero che portava fin là; questo, perché di giorno, si poteva destare sospetti, mentre la cosa,

data la pericolosità doveva restare segretissima. Al mattino seguente, siamo partiti due alla volta, e

ognuno, passando di lì, si prendeva un attrezzo e se lo portava nella grotta. Abbiamo lavorato quasi

una settimana, scavando sotto la falda di roccia durissima, abbiamo trasferito il materiale di risulta

davanti all’entrata, a mò di parete e ne è venuta fuori una capanna coi fiocchi, sopra avevamo la

roccia che fungeva da tetto e non ci sarebbe mai piovuto, davanti avevamo chiuso completamente

con questa parete, lasciando solo una piccola feritoia che fungeva da porta. Il rifugio era pronto, nei

giorni seguenti, servendosi di legname recuperato sul posto ci siamo costruiti anche il letto; che

coperto di fogliame secco e qualche coperta portata da casa, è diventato un ottimo giaciglio per otto

o dieci persone. Vi era rimasto anche una piccola piazzola davanti che ci sdraiavamo a prendere il

sole e tener sotto controllo, tutta la valle. Con un paio di binocoli ci divertivamo anche, vedevamo

questi ridicoli ragazzetti con i pantaloni alla zuava che, sarebbero serviti solo per farcela dentro.

Arrivavano quasi ogni giorno, lasciavano l’automezzo al comune, (la finiva la strada), venivano sù

col fucile spianato come se ci dovessero incontrare ad ogni passo, si presentavano davanti alle

porte, dove sapevano che c’erano dei renitenti, e col calcio del fucile; picchiavano fortemente quasi

a buttarle giù, e quando non vi era nessuno, perché magari in campagna, spaccavano i vetri ed

entravano, e se trovavano qualcosa di buono come, salame, formaggio e uova, non disdegnavano

di riempirsi anche la “cacciatora”. Abbiamo passato così un altro paio di mesi; poi si è incominciato e

vedere, nel fondovalle, sulla strada di Vezzimo, cioè, sotto di noi, scorrazzare gruppi di gente

armata, vestita in grigioverde ma con il fazzoletto rosso al collo. Siamo stati per qualche tempo in

dubbio, non si capiva chi erano, anche se dichiaravano alla gente del paese d’essere partigiani,

pochi ci credevano. Io stesso, un pomeriggio mi sono lasciato sorprendere, sulla porta di casa,

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mentre tentavo di fuggire. Mi sono state puntate le armi, e mi è stato intimato di fermarmi che non mi

sarebbe successo nulla. Infatti, erano partigiani del distaccamento Mandorli, della Brigata Jori di

Bisagno (nome che, già da tempo circolava nella vallata ed era già quasi diventato un mito). Dopo

avermi interrogato per sapere chi ero, mi hanno pregato molto insistentemente perché andassi con

loro. Visto che non vi era niente da fare, non mi fidavo; mi pregarono allora, che se, come dicevo, la

pensavo come loro, avrei dovuto organizzare fra i renitenti di Zerba una squadra d'azione

partigiana. Che, sarebbe servita, intanto per la nostra difesa, e poi anche per la sicurezza di loro

stessi, ci avrebbero fornito delle armi leggere, per le prime e più urgenti difese. Mi hanno fatto

promettere che me ne sarei interessato, e che fra una decina di giorni, sarebbero ripassati e

avremmo continuato l’organizzazione. Dopo qualche giorno, una sera: mentre stavamo

preparandosi per andare al rifugio, vediamo arrivare, sempre dalla strada di Vezzimo, tre persone

armate e si fermano sulla strada davanti a casa mia.

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Noi eravamo in quattro e ci siamo ben guardati di farsi scoprire, ma abbiamo mandato mio padre in

avanscoperta, il quale dopo 20 minuti di parlottare, mi chiama e mi dice che non c’è pericolo. Ci

facciamo conoscere, e si presentano come; il comandante, il commissario e l’intendente, del

distaccamento Mandorli della Jori. Uno di questi era quello che insisteva per arruolarmi, l’altra volta.

Subito avevano bisogno di noi, per aiutarli a cercare qualche cascinale vuoto o disabitato, per

sistemare il distaccamento per qualche giorno; Dopo aver parlottato un po’ fra noi, ci siamo trovati

tutti d’accordo, per una cascina nel vicinato, dove la proprietaria, non era di Zerba ma di Belnome, e

l’aveva ricevuta in eredità, ma non l’aveva mai usata,ed ora era morta anche lei. Quindi, non

conoscendo oramai gli eventuali eredi, li abbiamo consigliati che avrebbero potuto occuparla. Dato

che la porta non era chiusa a chiave glie, l’abbiamo fatta visitare e l’hanno ritenuta idonea. Dopo

due giorni, sono arrivati, una quarantina e dopo aver comprato cinque, o sei balle di paglia, l’hanno

occupata. Erano i primi partigiani che incutevano un certo rispetto e fiducia; tutto quello che,

avevano bisogno lo pagavano, solo qualche pentolone molto grande lo chiedevano in presto, che

poi prontamente restituivano quando si spostavano, essendo anche ingombrante portarselo dietro

Tutti i giovani o meno giovani del paese, erano invitati, alla sera per discutere sul da farsi, si parla

del domani, dei fascisti, dei tedeschi, ma sopratutto degli americani, che sarebbero arrivati

prestissimo, e che comunque fra qualche giorno ci avrebbero fatto dei lanci di armi, vestiario e

vettovagliamento. A noi, della squadra d’azione, ci hanno dotato di un po' d’armi; eravamo all’inizio

solo sei o sette e avevamo in dotazione un tapum con un paio di caricatori, due moschetti modello

38 con una decina di caricatori, cinque bombe a mano balilla e un fucile mitragliatore Breda, che

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s’inceppava sempre. Eravamo in una botte di ferro, la sera ma anche di giorno, montavano la

guardia intorno al paese continuamente, noi con quelle poche armi eravamo dei leoni, il fucile

mitragliatore che s’inceppava sempre, l’avevo tanto lucidato e lubrificato che non si sarebbe più

inceppato, (anche se poi, non è stato cosi). Dopo circa due settimane, un mattino non troviamo più

nessuno, erano come spariti. Era la tattica, (l’abbiamo saputo dopo), per non farsi mai prendere alla

sprovvista e cadere in qualche spiacevole imboscata. Ma anche per spaventare il nemico, il quale

vedeva partigiani da tutte le parti, erano allora, poche centinaia, ma si parlava già di migliaia, da

tutte le parti arrivava notizie che vi erano partigiani, magari erano sempre gli stessi, ma la cosa

funzionava, i fascisti avevano paura e i tedeschi incominciavano a preoccuparsi. Avevo mia sorella

in collegio a Bobbio che studiava da maestra e il venerdì veniva a casa e il lunedì ritornava giù. Un

lunedì, il mattino presto vado ad accompagnarla alla corriera per Bobbio, ma a pochi passi dalla

statale incontriamo cinque carabinieri d’Ottone in perlustrazione, ci salutano e se ne vanno, il

maresciallo conosceva mia sorella, e quindi non si è soffermato minimamente su chi fossi io.

Facciamo altri quindici metri, e ci troviamo davanti un altro carabiniere, che è rimasto in dietro forse

per fare i suoi bisogni; il quale mi guarda un po' da cima a fondo e mi chiede quanti anni ho, e

appena sentito l’età mi chiede come mai non sono sotto le armi.

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Nessuna delle mie risposte, né di quelle di mia sorella sono valse a convincerlo. Tirò fuori le

manette e me le mise, chiamò il maresciallo, che era a pochi passi, per dirle che lui sarebbe tornato

in dietro con il disertore, e anche qui, in, presenza del maresciallo, che era più propenso per lasciar

perdere e continuare la perlustrazione, non c’è stato nulla da fare; anzi mise in forse anche, la lealtà

del comandante verso il suo dovere e verso lo stato. Mi portò ad Ottone, mi mise in guardina, e il

giorno dopo mi mandò a Piacenza, accompagnato da due carabinieri, con la richiesta scritta di

carcerazione per diserzione in tempo di guerra, firmata anche dal comandante. In quei tempi poteva

anche voler dire fucilazione. Mi hanno chiuso nelle carceri, in un braccio dove eravamo tutti, o

renitenti, o disertori, quindi braccio politico. Appena in famiglia l’hanno saputo, la mamma ha subito

capito che era il momento di farsi contraccambiare ll favore, che gli aveva promesso il marito della

mia maestra elementare che ho già raccontato sopra. Però anche lì, il problema non era facile,

questo signore si trovava a Varzi, dove prestava servizio in qualità di gerarca, ed era anche difficile

che venisse in famiglia a Zerba come faceva prima, perché la zona era infestata di partigiani e per

quella gente lì, erano momenti pericolosi viaggiare su quelle strade di montagna. Così, la mamma,

con un biglietto di presentazione della maestra,è partita a piedi per Varzi. Nel frattempo, per la

messa in moto di tutta l’operazione, erano passati quindici giorni di prigione. Non sembrava proprio

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una prigione, sembrava quasi di essere in una caserma. Durante molto tempo della giornata, ci si

riuniva a gruppi e si complottava la fuga. Vi era qualcuno che conosceva certe guardie che la

pensavano come noi, e quindi si poteva supporre che, all’occorrenza ci avrebbero data una mano.

In quel periodo lì, sono venuto a conoscenza che quel carabiniere si chiamava Tommasi e che, una

gran parte di quei prigionieri che si trovavano lì, erano stati arrestati da lui. (Tanto è vero che, nei

giorni della liberazione, qualcuno è andato a scovarlo a casa sua e l’ha portato a Torriglia, dove vi

erano concentrati un gran numero di partigiani che festeggiavamo la vittoria, in attesa del congedo.

Sono stati messi manifesti in tutte le località della Val Trebbia per invitare la popolazione a

partecipare al processo che, si sarebbe svolto il giorno tale dei teli, (non ricordo la data),nell’aula

della ex casa del fascio di Torriglietta. Io ho chiesto, se me lo facevano vedere in guardina, e

quando mi sono trovato al suo cospetto sono rimasto molto sorpreso; pensavo di trovare quel

ghigno prepotente e baldanzoso di quella mattina, invece mi sono trovato davanti una parvenza di

uomo, con un mucchio di escoriazioni in faccia, che si è buttato in ginocchio davanti a me,

piangendo e chiedendomi di avere pietà, di non infierire nella testimonianza, che anche lui aveva

famiglia. Fu fatto il processo e fu condannato a morte, non tanto per la nostre testimonianze ma, per

quelle di un paio di coppie di genitori che i suoi figli, furono presi da lui e fucilati dalle camice nere. É

stato fucilato, mi pare; nei pressi di Rovegno. Arriviamo al diciannovesimo giorno di prigione, e,

vengo chiamato in parlatorio; mi trovo davanti questo signore che per me era l’ultima persona che

avrei mai immaginato di incontrare, lui però non mi conosceva, non avendomi mai più visto da

quella volta della frusta, che ero bambino.

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In ogni modo per non tirarla tanta lunga, mi disse di mia madre, e mi disse anche che, se volevo

salvarmi, vi era un unica via, o accettare, o andare in Germania, dove stavano già preparando una

tradotta speciale per questo. Dovevo, accettare di arruolarmi nella Guardia Repubblicana di Salò,

che secondo lui, non erano fascisti, ma soldati della Repubblica Sociale che, combattevano contro i

ribelli nemici del popolo, e contro gli americani. Mi promise anche che, mi avrebbe fatto restare a

Piacenza sino alla fine della guerra, nelle casermette dell’aeroporto di San Damiano, a pochi

chilometri di distanza da Piacenza. Appena sbrigate le formalità del caso, con un cellulare della

prigione e due guardie, mi portarono in quest’aeroporto dove, tutto intorno a una grande piazza

d’armi, vi era una fila di casermette a due piani che chiudevano tutta la piazza, e all’esterno di

queste casette vi erano le piste per il decollo ma, aerei manco l’ombra. Mi portano in fureria per la

presa in forza, e li trovo un mio compagno di Croazia, che si chiama Limani e che fa il furiere. Dopo i

necessari convenevoli di, come va e come mai, mi fa assegnare alla sua compagnia, io, ero

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ritornato caporale maggiore, perché l’ultima promozione a sergente, avuta negli ultimi giorni a

Fiume, non era mai arrivata al Distretto di Piacenza,o non l’hanno mai mandata o è andata persa;

quindi eravamo tutti e due con lo stesso grado di caporale maggiore, che però lui, il grado superiore

glie lo avevano dato lì, per il richiamo; dalla Croazia era tornato caporale. E mi disse che, se mi

consideravano, come, era giusto che fosse, un richiamato, mi avrebbero dovuto avanzare di grado,

come, era successo a lui, e come prevedeva il regolamento. In quella caserma era una pacchia, si

mangiava d’incanto e non era poco in quei tempi, dove pativano la fame i più tanti. Al mattino dopo

la sveglia e la pulizia personale, si faceva colazione; ed era una buona colazione, un bel tazzone di

latte e caffè, con un paio di michette non male, più un pezzo di miele zuccherato che proveniva dai

tedeschi. Poi si faceva un paio d’ore di piazza darmi, e quindi il rancio di mezzogiorno, che

consisteva in un’ottima pastasciutta abbondante e un secondo di carne, fatta, ai vari modi, alla sera

minestra in brodo è un bel “gnocco “di bollito. Nel pomeriggio, il silenzio fino alle ore quindici poi

pulizia e conoscenza delle armi per un paio d’ore. Ci sedavamo per terra, davanti alla fureria e gli

alloggi degli ufficiali. E lì, ho imparato ha conoscere, molto bene, tutte le armi, che poi, mi é stato

molto utile durante la guerra di liberazione in montagna. Si faceva a gara a chi faceva più presto a

smontare e rimontare il fucile mitragliatore Breda; io ero uno dei pochissimi, che lo smontava e

rimontava, con gli occhi bendati, in un minuto. Alla sera, dopo il rancio suonava la libera uscita e si

andava quasi sempre a Piacenza; questo mio amico aveva degli amici nel comitato della resistenza,

e, sapendo come la pensavo, mi portava con sé, ed ogni sera conoscevo personaggi nuovi. In

caserma c’era l’ordine di vestire tutte le reclute che erano già lì, e quelle che sarebbero arrivate, si

doveva formare un battaglione di avieri, da trasferire al fronte. Il mio amico essendo in fureria,

conosceva tutte queste cose, che poi riferiva a quelli del comitato, e poi, insieme avevamo

progettato quello che vi sto per raccontare.

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Arrivavano, autotreni carichi di camice azzurre e vestiario d’ogni tipo; radunavano tutta la caserma

per aiutare lo scarico e l’accatastamento di tutta questa roba, al primo piano di una casermetta

adibita a magazzino. Poi, nella notte, noi dovevamo entrare, prendere una parte di questo materiale

e buttarlo giù dalla finestra, su dei camioncini che si preparavano nel prato, all’esterno. Questi

camioncini erano stati preparati con il cassone centinato ma aperto sopra, da poter ricevere gli

scatoloni buttati giù dalla finestra. Materiale, che veniva inviato poi alle formazione partigiane di

montagna. In dieci minuti buttavamo giù centinaia di questi scatoloni, pieni di camice ed altro. Ogni

sera. quando penso a queste cose, mi vengono i brividi ancora adesso; eravamo completamente

disarmati, se qualcuno ci avesse visto sarebbe stata sicuramente la fine, erano momenti che non

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andavano tanto per il sottile. E, per cercare di farvi capire che ambiente era, voglio aprire una

piccola parentesi; (un pomeriggio, verso la fine dell’istruzione sulle armi, le due squadre del mio

plotone, erano sistemate, seduti per terra, come gli altri giorni precedenti, davanti la fureria. Alla

testa delle due squadre vi erano i due rispettivi comandanti di squadra, vale a dire, io alla prima

squadra, e un mio collega, che si chiamava Lunghi, alla seconda squadra. Il sergente maggiore

comandante del plotone, era al centro e, come ogni sera, doveva dare l’attenti, presentare il plotone

all’ufficiale di picchetto, (che per quella sera era il nostro comandante di compagnia), e poi rompere

le righe. Il mio collega caporale maggiore Lunghi che si trovava davanti alla finestra, dove si

affacciava l’ufficiale di picchetto che dava l’ordine di rompere le righe, all’attenti dato dal Serg.

Maggiore, questi non si mosse, rimase seduto per terra rispondendo; vogliamo un altro otto

settembre, non l’attenti. L’ufficiale di picchetto che era il nostro comandante di compagnia, ma che

era anche, un tenente di quelli da sciarpa littorio, e ve n' erano molti. Si affacciò alla finestra con la

P38 in mano, chiese chi era che vuole l’otto settembre, e alla risposta: sono io Sig. Tenete, gli sparò

due colpi quasi a bruciapelo, e lo fulminò all’istante.. Inutile aggiungere che tutti i presenti giurarono,

che glie l’avrebbero fatta pagare; poi, negli eventi che si susseguirono, non so se qualcuno abbia

potuto portare a termine il giuramento.) Ecco questo per farvi capire , e dire che eravamo dei

KamiKaze. Questo andazzo durò per una ventina di notti, poi cessarono gli arrivi e cessava anche il

nostro rischio. Noi, nel nostro vestiario, non avevamo nulla d’aeronautica, se non le mostrine sul

bavero della giacca, e, la camicia azzurra, tutto il resto era grigioverde. Quasi ogni giorno,

arrivavano da Milano due aerei dalla seconda squadriglia aerea, e prendevano una trentina di noi

per volta, e ci potavano a fare un lancio. A me è toccato due volte, una per settimana; non avevo la

minima paura per il lancio, la mia paura era che, da informazioni dei precedenti, i lanci erano fatti

prevalentemente sulle sponde del Po. Io non sapevo nuotare e, non lo so ancora adesso, l’unica

cosa che ho sempre avuto paura nella mia vita, è stata sempre l’acqua. Immaginatevi che il primo

volo, per il mio primo lancio, si è svolto totalmente sul Po; vedevo questo mare di acqua sotto di me

ed ero convinto che sarei andato a cadere sicuramente lì dentro, quindi quando è venuto il mio

turno, mi hanno dovuto buttare giù con la forza.

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Fortunatamente, quando ho cominciato a poter ragionare, ho visto che il Po l’avevo sulla sinistra,

ma nel medesimo tempo sentivo, il vento arrivarmi abbastanza forte sulla destra, perciò mi sono

tranquillizzato solo quando ho sentito il mio paracadute agganciarsi ad un albero e rimasi appeso.

Un giorno, verso le nove, poco più di un mese che eravamo lì, ci radunano, tutto il battaglione in

piazza d’armi. Nessun sa niente, le domande sono le più svariate ma le risposte non arrivano.

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Finalmente arriva una specie di generale e, dal palco ci comunica che, avevamo finito

l’addestramento e che ci avevano trasferiti in forza, alla seconda squadriglia aerea a Milano. La

cosa sembrava la più ovvia, anche perché, oltre al nostro zaino affardellato, non ci dettero niente da

mangiare, se non un paio di panini e un quadretto di quel miele e zucchero dei tedeschi, dicendoci

che, per il pranzo saremmo arrivati a destinazione. Ci, s’incammina verso la stazione una

compagnia dietro l’altra, entrando però in stazione qualcuno dei più esperti si è accorto della

tradotta che ci aspettava, il treno aveva i vagoni con la chiusura esterna e con i lucchetti appesi; ma

oramai era tardi. Ci fecero salire su questi vagoni, dove avevano già sistemato, un sottufficiale e due

militari tedeschi armati fino ai denti, per ogni vagone, i quali liquidavano i nostri sottufficiali e ufficiali,

facendoli scendere e presero loro il comando. Inutile dirvi che, vennero chiusi tutti i vagoni

dall’esterno e che i tedeschi, o non sapevano o non volevano dire nulla. Qualcuno che conosceva

bene, le ferrovie ci disse che, andavamo verso Brescia e il Brennero e quindi la Germania. Dopo

una giornata camminando spesso a singhiozzo, arriviamo a Sacìle. Stiamo fermi sui binari per tutta

la notte, e il mattino seguente ci troviamo ai piedi del treno, una decina d’ufficiali tedeschi, che in un

italiano appena, appena, ci fecero capire di scendere che eravamo arrivati. Ci portarono in una

caserma dei bersaglieri, ci fecero mangiare e ci alloggiavano nelle camerate. Verso la sera, c’è

l’adunata tutti in piazza d’armi, era piena gremita. Un ufficiale tedesco parla dal palco e un italiano

traduce. Dovevamo assistere alla fucilazione di un bersagliere, che era fuggito dalla Germania, dove

era in addestramento, portandosi via anche un autoblindo. L’avevano fermato al Brennero e

l’avevano portato lì per dare l’esempio. E, lì, davanti a noi lo fucilarono. Nel primo pomeriggio del

giorno dopo, il mio amico della fureria, mi viene a cercare in camerata e mi dice che le cose si

stavano mettendo male, e quindi, si deve fuggire immediatamente. Discutendone un pò siamo

arrivati alla conclusione che, saremmo fuggiti la notte stessa. Mi disse che ci avrebbe messo di

picchetto armato all’esterno della caserma, ( ogni notte, dovevano montare di picchetto dodici

soldati, a gruppi da tre, e dovevano perlustrare, ognuno un lato). Il mio gruppo doveva essere

formato, da me come graduato e da altri due soldati che sarebbero stati disposti a fuggire. Mi disse

che avrebbe interpellato due suoi amici veneti e che sperava, fossero d’accordo, cosi è stato. Poco

prima della mezzanotte, ci presentiamo in corpo di guardia, e prendiamo servizio, ci armano, con le

armi previste per quel servizio; un bel mitra balilla ciascuno, con due caricatori da quaranta, e, una

pistola Berretta con caricatori per il capo pattuglia, e due bombe a mano di quelle col manico

tedesche; dovevamo dare il cambio alle pattuglie che smontavano.

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Avevamo già fatto un sopralluogo, di giorno, per studiare la situazione e avevamo constatato che vi

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era un lato della caserma, poco frequentato, sia da soldati, che da civili, cosi abbiamo chiesto di

essere assegnati da quel lato, più facile per la fuga e meno in vista. Dopo una mezz’oretta, che,

avevamo preso servizio, arriva il mio amico furiere con quattro fogli di licenza, intestati ad ognuno di

noi, ma; c’è sempre un ma, non conoscendo il nome del comandante della guarnigione, un tedesco,

ha dovuto firmare con un scarabocchio illeggibile. Quindi, se ci avessero fermati nei dintorni

sarebbero stati momenti difficili. Ci siamo diretti velocemente verso la stazione, sperando di trovare

un treno, che ci porterà lontano da lì. Arriviamo, entriamo e andiamo sul marciapiede dei treni, e lì,

ci si presenta il primo pericolo; due soldati tedeschi pattugliano, avanti e indietro il marciapiede dei

binari; ci passano davanti con uno sguardo che non prometteva niente di buono. Fanno dieci metri e

poi si girano con un’altra occhiata, sicuramente al ritorno, ci avrebbero chiesto i documenti. Cosa

facciamo? C’e nè andiamo via, sperando di non destare sospetti, o carichiamo le armi e ci

difendiamo?. Abbiamo deciso di difenderci; quindi pallottola in canna e mitra a tracolla con la canna

in giù, pronti a far fuoco. Questi ritornano per un altro passaggio, e, come il primo, ci lanciano

ancora occhiate di curiosità, ma vanno dritti anche questa volta. Ed è stata questa decisione che gli

ha salvato la pelle. Dopo una decina di minuti, dalla sala d’aspetto tutta buia, escono due signore e,

ci chiedono, se andavamo in licenza, al nostro cenno affermativo, ci dicono, che, avevano

bombardato il Tagliamento tre giorni prima, e che prima di ripristinare il passaggio dei treni, ci

volevano ancora qualche paio di giorni. Chiediamo da che parte avremmo dovuto andare per

trovare la strada per Padova, ci fanno segno da una certa parte, che si vedevano, ogni tanto delle

lucine in lontananza, erano la macchine sulla statale per Padova. Attraverso i campi, ci siamo diretti

da quella parte, e in questo tragitto, i nostri due colleghi che erano veneti, decisero di nascondere le

armi e di tentare di arrivare a casa in qualche modo. Il mio amico furiere, si prese le armi di uno e ci

siamo salutati. Arriviamo sulla statale e ci appostiamo per fermare qualche veicolo, che ci caricasse,

è toccato a una topolino che trasportava due suore, che fra l’altro, una ha rischiato l’infarto dalla

paura. Ci schiacciamo quasi uno sull’altro dietro, e gli chiediamo che ci devono portare a Padova,

perché non vi erano treni e perché avevamo una missione urgente e pericolosa da compiere.

Queste non fiatarono e ci portarono a destinazione, cioè, alla stazione di Padova. Qui, oramai

lontano dalla caserma di Sacile eravamo ridiventati dei leoni, nessuno avrebbe mai conosciuto il

nome del comandante della nostra compagnia. Dopo un poco d’attesa parte un treno per Milano,

c’imbarchiamo, e nella mezza mattinata arriviamo alla stazione centrale. Nessun treno era in

partenza, né per Genova, né per Voghera dove saremmo dovuti andare noi. Andiamo a fare un

giretto fuori stazione, anche per cercare di fare un po' di colazione, torniamo, e, sorpresa, sul primo

binario vi è un treno nuovissimo, di quelli che, allora venivano chiamati littorine, con cartelli riservato

ai militari, una pacchia. Ci saliamo sopra, cerchiamo una carrozza vuota e ci piazziamo in fondo, sul

lato da veder il marciapiede e anche per curiosare chi sarebbe salito. Dopo dieci minuti, arrivano

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cinque o sei ragazze e ci chiedono se possono salire per andare a Genova; altroché, venite, venite

è tutto vuoto, ci state anche voi.

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Si sono sedute vicino a noi e abbiamo incominciato a chiacchierare del più e del meno come di

normale; erano ragazze che tornavano a casa, dopo essere venute a Milano, per salutare i fratelli e i

fidanzati, che erano militari a Milano, ed erano partiti, qualche ora prima per la Germania. Dopo

dieci minuti, arrivano quelli della guardia repubblicana, quelli che giravano nelle stazioni a quei

tempi, e portavano l’elmetto col sottogola, come in guerra. Arrivano da noi e chiedono di far

scendere le ragazze dal treno riservato a militari, noi insistiamo; il treno è vuoto, le ragazze sono lì,

perchè i suoi fratelli e fidanzati sono partiti per la Germania, quindi niente da fare, nè garantiamo

noi. Il caporale che comandava la squadra, si rivolge a me e mi chiede i documenti di viaggio, io le

rispondo che, sono un suo superiore e che quindi si metta sull’attenti; saluti e se ne vada. L’effetto è

stato insperato e immediato; uno scroscio di tacchi, un saluto militare e un dietro front all’istante. Un

finimondo d’euforia e di ringraziamenti dalle ragazze, sembrava fosse tornato tutto tranquillo anche

se io non nè ero molto convinto, si, non erano delle SS, non erano nemmeno della milizia fascista,

sull’elmetto avevano lo stesso fregio che avevamo noi; vale a dire, una corona d’alloro con due

pugnali incrociati al centro. Infatti, passano ancora una ventina di minuti, e te lì rivedo, giù, sul

marciapiede, che ritornano con l’ufficiale di picchetto,con tanto di fascia azzurra a tracolla. Li seguo

con lo sguardo e vedo che salgano proprio sulla nostra carrozza e avanzano nel corridoio verso di

noi; mentre i miei amici, essendo seduti con le spalle verso l’entrata, non se n’erano minimamente

accorti, io ho preso una posizione, come se dormissi. L’ufficiale arriva da me e si spegne

immediatamente il chiacchierio dei miei amici. Mi mette una grossa torcia sotto il mento a mò di

alzarmi la testa e mi dice, mi dà la licenza caporale maggiore?. Io faccio la scena, fingo ancora,

straluno gli occhi come quando qualcuno ti sveglia di soprassalto, alzo la testa adagio, per poi

scattare sull’attenti appena mi accorgo dell’ufficiale di picchetto; agli ordini sig. tenente; la licenza

per favore; si, subito Sig. tenente, ce l’ho nello zaino. Mi giro, verso il porta pacchi, apro lo zaino, ma

prima di tirar fuori la licenza, sgancio il mitra dall’apposito attaccapanni, lo faccio scivolare sul sedile,

e gli tolgo la sicura. Gli passo il foglio di licenza, e mi invita à sedere, mentre mi siedo, prendo il

mitra, che era dove mi dovevo sedere me lo porto sulle ginocchia, con la canna verso di l’oro e le

mani vicinissime al grilletto, e aspetto. Dopo un attimo, mi mette la licenza sotto il naso e

puntandogli sopra la famosa torcia, mi chiede chi la fatta, io gli rispondo, il furiere, lui ripete, ma che

grado a questo furiere?. Sergente Maggiore, Sig. Tenente, lui mi alza nuovamente il mento con la

torcia, e dopo avermela puntata in faccia per qualche secondo, che ha me è sembrato un secolo, mi

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dice; tòh, vai in liiicennzzza annnche tttu, capoooraaalll maggggiooore, mettendoci tutte le lettere

dell’alfabeto. Questa è un’altra di quelle persone che ti capita di incontrare nella tua vita e che,

vorresti almeno poter ringraziare, ma che, non saprai mai più nulla, ne, prima, nè dopo. Qualche

giorno prima di questo fatto, alcuni marinai di Genova trovandosi nella stessa nostra situazione,

reagirono, ma vennero trucidati come cani, da un gruppo di fascisti in camicia nera. Quindi noi, quel

giorno, abbiamo avuto il nostro Santo protettore. Quando Dio ha voluto, il treno è partito, e giunti a

Voghera, e dopo aver salutato le nostre ragazze, siamo scesi. Continuando per la nostra mèta, che

era il Brallo.

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Da lì in avanti ero padrone della situazione, prendiamo il trenino per Varzi e arriviamo a tempo per

l’ultima corriera del Brallo, e qui nasce il primo piccolo problema, ma che poteva diventare grosso.

La corriera non parte per il troppo carico. La gente, non vuol sentire ragione, ci sono più passeggeri

sul tetto che dentro, l’autista si rivolge a noi per farli scendere, cosi, non sarebbe mai partito. Ma

anche a noi, non è che, ci danno molta retta, nessuno si muove; chiediamo se non vi sia qualche

presidio della guardia repubblicana, nei dintorni, c’indicano l’indirizzo e noi partiamo alla carica con

le solite bugie. Gli diciamo che dobbiamo andare a Bobbio, a congiungersi con il nostro nuovo

reparto, dove eravamo stati assegnati da poco. Questi ci credono ciecamente, senza nemmeno

chiederci il foglio di trasferimento, o assegnazione. Arrivano lì, alla corriera in forze e fanno

scendere tutti quelli che erano sul tetto, in più fanno liberare i primi due sedili dietro l’autista e ci

fanno accomodare noi. Finalmente si parte, e, speravo che non vi sarebbe stato nessun altro

pericolo per noi, ma mi sbagliavo. Dopo venti minuti di strada, la corriera si ferma apparentemente

senza nessun motivo, con una sguardo ho notato, sotto i fari, in mezzo alla strada, una bandiera

rossa, che sventolava su di un legno piantato, e guardando più attentamente, si potevano scorgere

due mitragliatori, ai lati della strada, puntati verso di noi. Lì per lì, nessuna paura, saranno partigiani.

Infatti, sono partigiani. Ma il guaio nostro era, che non ci ricordavamo più come eravamo vestiti; è

stata una mezza tragedia, sono arrivati in gruppo, intorno alla corriera e quando con una torcia ci

hanno visti, il finimondo; non ci hanno dato il tempo per spiegare, non hanno voluto nemmeno farci

parlare, con dei colpi di canna di fucile alla pancia e allo stomaco, strattonandoci giù dalla corriera,

ci hanno letteralmente strappato i vestiti e le armi di dosso, ci hanno fatto mettere con la pancia in

giù, con la faccia sulla ghiaia, ci hanno legato le mani con del filo di ferro che pensavo ma le

tagliasse, ci hanno buttato di peso su di un camioncino che era per lì, e ci anno portato al Brallo,

nell’albergo principale dove avevano il loro comando. Arrivati davanti alla porta, ci fanno scendere, e

come prima, ci spingono dentro a suon di colpi del calcio del fucile. Dentro, al piano terreno vi erano

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una quindicina di questi energumeni, i quali si sono messi a cerchio intorno a noi, e vi posso

garantire che le mie orecchie non avevano mai sentito prima, tante ingiurie e tante minacce come

quella sera. Finalmente si fa un silenzio tombale, si apre il cerchio intorno a noi, per far passare

qualcuno, e questi qualcuno era il loro comandante. Era un uomo appariscente, vestito color kaki,

sul petto un triangolo dorato, con tre stellette dorate al centro, (comandante di brigata). Il quale nel

silenzio di piombo che era sceso nella sala, ordina, con accento molto seccato, di slegarci. Ci fa

sedere e ci chiede se poteva offrirci qualcosa, al nostro assenso, incomincia l’interrogatorio. Io a

questo punto, non ne potevo più; avevo già fatto parte dei partigiani del Mandorli prima di essere

beccato dai neri, avevo rischiato la vita più di una volta per la causa della resistenza, compreso;

rubare il vestiario per questi di montagna, dov’ero tutt’ora ansioso di tornare, pensando a

l’evoluzione che ci sarà stata in tutto questo tempo.

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Quindi il trovarmi coinvolto in una “banda di banditi” come questa, ero furibondo. Il Comandante mi

stette a sentire per un quarto d’ora senza fiatare, poi mi disse che il trattamento ricevuto non era

sicuramente la prassi che usavano quotidianamente, ma era successo, un paio di giorni prima, un

fattaccio che aveva creato un odio tremendo con i fascisti, e con tutti quelli che portavano quella

divisa. Si trattava di uno scambio di prigionieri, fra; tre dei suoi, e uno dei nostri, che si trovava

all’ospedale di Varzi ferito. Andiamo allo scambio; arrivano con la barella con il ferito ben in vista, ci

avviciniamo per fare lo scambio, e lasciare liberi i suoi, prendiamo la barella, facciamo trenta metri e

la barella salta in aria. ll ferito muore, ma muoiono anche altri due partigiani. Si; la rabbia maggiore,

ce la dovevamo prendere con noi, con la nostra faciloneria e la nostra inesperienza. Ma l’odio per

quella gente, era diventato il nostro pane quotidiano. Questo, più o meno, era il racconto fatto dal

comandante dell’Aliotta, ( era il nome di quella brigata, poi diventata divisione) e questi era,

l’Americano, il comandante. Per scusarsi di quanto era successo, ci ha quasi obbligato a stare lì con

loro, per circa una settimana; ci hanno restituito tutto il nostro materiale, compreso i due mitra, le

due berretta e la bombe a mano., ci hanno solo consigliato di, togliere le mostrine e mettere al suo

posto una stella tricolore, che era il fregio dei Garibaldini. (Una specie di coccarda tricolore), E’ stata

una bella settimana; abbiamo partecipato anche ad una azione di attacco a un gruppo di fascisti,

nelle vicinanze di Dezza, con pieno risultato, recuperando diverse armi da fuoco, e un prigioniero

ferito, senza nessun danno per noi. Ripeto lì si stava benone, ma a casa mia non sapevano più

nulla, da quando siamo partiti da Piacenza; ma anch’io ero voglioso di tornare con i miei della

Cichero, (che oramai, dalle notizie, era diventata una divisione molto importante e rispettata). Cosi

ne parlo col mio amico, chiedo se vuole venire anche lui; tentenna una pò, ma poi decide che, per

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ora sarebbe rimasto li, poi nel tempo, quando ci saremmo rivisti, forse, magari sarebbe venuto. Ne

parlai con il comandante, il quale non ha cercato di trattenermi, anche se mi ha detto che sarei stato

sempre il benvenuto, ma capiva la mia scelta. Tornando a Zerba, non trovai, nessun distaccamento

di partigiani, se n’erano andati e da quella volta non si sono più fatti vivi. Ripresi i contatti con la

Squadra d’Azione Partigiani di Zerba, S.A.P. Che, anche l’oro avevano fatto progressi, sopratutto

nel numero, più di trenta, e nell’armamento. I contatti con la formazione della Cichero, avvenivano

sempre attraverso il Mandorli, che ora, era di stanza a Pej. A Ottone vi era ancora il presidio di

cinque o sei carabinieri, e una quarantina di camice nere. Che alla notte e qualche volta anche di

giorno, ci costringevano a rivivere nel nostro rifugio nelle rive. Dopo un po' di tempo, ritorna a Zerba

il Mandorli, il quale si piazza nuovamente nella cascina della Gion, cioè dove erano stati prima. Per

un paio di mesi ci siamo sentiti più tranquilli, quelli d’Ottone non si facevano più vedere, anzi; una

notte gli abbiamo circondati e attaccati dall’esterno della stazione.

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Abbiamo sparato, finché avevamo munizioni, poi, come sempre,abbiamo dovuto ritirarsi. Col senno

di poi, forse se insistevamo ancora un poco, si sarebbero arresi, tanto è vero che il giorno dopo,

sono saliti su due autocarri e se la sono svignata, lasciando solo i carabinieri ancora per una

settimana; poi, anche l’oro sono stati richiamati a Bobbio per la loro sicurezza. Ma due di l’oro, nella

notte disertavano e si aggregavano al Distaccamento Mandorli, dove avevano già preso in

precedenza accordi, attraverso la S.A.P. di Ottone, portando il bottino delle armi. Ricordo quella

notte le animate discussioni con chi voleva attaccare la stazione, e far prigionieri quei quattro ò

cinque che erano rimasti; e quegli altri, con questi il comandante del distaccamento Giorgio, che non

volevano, avendo promesso ai due disertori, di lasciarli rientrare tranquillamente a Bobbio.

Attaccandoli ora, si sarebbe sparso del sangue inutile, perché sicuramente si sarebbero difesi fino

all’estremo. Erano carabinieri, che, sicuramente non erano fascisti, e nemmeno simpatizzanti, ma

avevano un giuramento, che avrebbero onorato fino alla fine. Io in quel periodo, era più il tempo che

passavo in distaccamento che non quello che passavo in famiglia. Mia madre incominciava a

torcere il naso; vi erano tutti i lavori da fare nei campi, ma, oltretutto aveva anche un poco di paura.

Quando rientravo tardi, voleva sempre sapere dove ero stato, io cercavo di tranquillizzarla,

dicendogli che parlavamo di politica, ma poi, spesse volte, il giorno dopo, le veniva alle orecchie

qualche misfatto che succedeva di tanto in tanto e, allora si arrabbiava. Fortunatamente, per mia

madre,il Mandorli, sempre per la tattica che ho spiegato prima, si è spostato improvvisamente ad

Artana, e noi della squadra d’azione, dovevamo nuovamente difendersi da soli, cioè, tornare a

dormire fuori casa, e spesse volte, montare anche la guardia tutta la notte; secondo le notizie che

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arrivavano dal basso, che, prevedevano o meno, puntate nemiche da Varzi o da Bobbio. Un giorno

arrivano notizie che a Vezzimo, (tre chilometri da noi), si erano accampati un gruppo di partigiani

che davano qualche sospetto. Non erano della Cichero e di nessuna altra formazione che si

conoscesse, vestivano di tutto punto il grigioverde del nostro ex esercito, solo avevano un grosso

fazzoletto rosso al collo e una stella, pure rossa, sulle mostrine. Un giorno, mi vien voglia di andare

a sentire per avere notizie un po’ più sicure. (Era già circolata voce, che c’erano in giro, fascisti

camuffati da partigiani), quindi era meglio accertarsene. Erano alloggiati in una casa cosi detta del

Sergente che i proprietari, mi pare, fossero a Milano, appena sopra la casa di Maran, commerciante

di buoi, che io conoscevo molto bene. Arrivo là, un pomeriggio nell’ora della siesta semi disarmato;

portavo solo la berretta nei pantaloni per emergenza. Li trovo quasi tutti sulla piazzetta di Davidin

davanti il negozio che, stanno chiacchierando con un paio d’uomini del paese. Saluto questi, saluto

loro, ed entro anch’io nei discorsi, ogni tanto qualche domandina innocente, di dove siete, da dove

venite, ecc. ecc. Subito dicono che arrivano dalle Langhe, dove avevano subito un grosso

rastrellamento, riuscendo a sganciarsi e spostarsi sugli Appennini, ora cercavano il contatto delle

brigate locali, ma ancora non avevano avuto nessun approccio. La cosa non mi stupì più di tanto;

erano notizie che si sentivano da qualche tempo, quindi mi tranquillizzai e non ci pensammo più.

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Una ventina di giorni dopo, arriva una tragica notizia; questi avevano fucilato Valentino. Che era già

un fatto gravissimo, in più, per fucilarlo l’hanno portato nel camposanto, e trucidato lì, su di una

tomba e lasciato poi lì, incustodito. Ma la cosa ancora più tragica è, che, nella notte, qualcuno è

andato li sulla tomba e gli ha piantato un grosso forcone a tridenti nella pancia, lasciandoglielo

dentro a mo di bandiera. Questo fatto, pur aver destato orrore in tutta la val Boreca dove era

conosciutissimo, è rimasto segreto, e ancora adesso, dopo tutti quei fatti che, ancora vi racconterò,

non è mai venuta una spiegazione da nessuno, né da quei partigiani, che dopo pochi giorni sono

spariti facendo perdere le loro tracce, né dalla gente del paese. Qualche voce sussurrata, con molta

circospezione, diceva che, quei partigiani l’avevano fucilato, dopo avergli fatto un regolare processo,

insieme con la gente del paese, (almeno i maggiorenti), perché spia dei fascisti. Ora io voglio dire la

mia. Quest’uomo era un Italo Americano, i genitori erano emigrati da Vezzimo agli Stati Uniti, dove

poi lui era nato, avevano lasciato i suoi terreni a lontani parenti del paese, perché li coltivassero, con

un affitto quasi simbolico e mai pagato, solo per salvarli dalla crescita di spine. Nel 1938, non si sa

per quale ragione, arriva a Vezzimo, e si stabilisce nella casa paterna. -Io a Vezzimo, in quegli anni

ci bazzicavo quasi tutti i giorni, perché aiutavo Maran nel condurre le bestie che comprava in vallata,

ai mercati di Varzi, Ottone e Bobbio. Questo Valentino abitava nella casa a fianco, dieci metri più a

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valle. Io ero giovane e curioso, mi aveva preso in simpatia e mi raccontava dell’America, mi diceva

che là, chi lavorava guadagnava bene, molto più che in Italia, tutti gli operai della Ford, ma anche gli

altri, andavano a lavorare in motocicletta. Non ho mai saputo, ma anche perché non ne ero

interessato più di tanto, come vivesse. Era un uomo senza età, quarant’anni?. Può essere, non

molto alto, ma robusto, direi atletico, lo vedevo qualche volta uscire sul terrazzino, in cima alla

scaletta, con delle molle che, allargava con le braccia e che io non sapevo ancora cosa fossero e

cosa servissero. Andava a fare la spesa quasi sempre a Ottone, forse per camminare e tenersi in

forma, o forse, per segnalare la sua presenza ai carabinieri. Nel 1939, poco prima che scoppiasse la

guerra, è stato richiamato un giovane carabiniere di Vezzimo, che aveva fatto il militare, qualche

anno prima nei carabinieri. Questo, ogni volta che arrivava in licenza, lo ammanettava e lo portava a

Bobbio, rimaneva lì fin che il carabiniere finiva la licenza, poi lo lasciavano libero e tornava a casa.

Una volta di queste, per combinazione io ero presente; arriva questo carabiniere, che era un pezzo

di giovanotto sui trentacinque anni e, con l’uniforme fuori ordinanza, da libera uscita, faceva girare la

gente; anche se poi era altrettanto stupido e cafone, la prestanza era magnifica. Quel giorno arriva

con le manette in mano, che faceva tintinnare fragorosamente, quando arriva in fondo alla scaletta,

per entrare in cucina, grida; Valentino...ti dichiaro in arresto; questi esce dalla cucina, con un paio di

forbici trinciapollo in mano e le scaglia con violenza contro il carabiniere e lo colpisce in pieno petto.

Il carabiniere, per la sorpresa, rimane impalato a guardandosi la ferita, mentre il Valentino con uno

spintone lo butta giù dalla scaletta e scappa. Il carabiniere, superato l’attimo, prende la pistola e

spara cinque o sei colpi in successione senza però colpirlo.

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Valentino commette l’errore di scappare verso la valle, cioè in una lunghissima pietraia, ma avendo

le scarpe con la suola liscia, non riesce a stare in piedi. Il carabiniere, che aveva gli scarponi, lo

raggiunge con facilità e gli mette le manette. Io ho assistito personalmente e da solo, a tutta

l’operazione, anzi visto che non si sentiva e non si vedeva più nessuno, mi sono avviato verso la

pietraia per vedere cosa fosse successo; erano a cento metri circa, che lottavano ancora furibondi.

Ho visto il carabiniere che si alzava, ho visto il Valentino immobile per terra e ho pensato subito che

fosse ferito. Sono sceso ancora un poco, per cercare di portare aiuto, il carabiniere mi chiama e mi

dice di aiutarlo a portare sù ll prigioniero. Solo allora ho potuto constatare che il Valentino non era

ferito, ma aveva le manette ai polsi, e il carabiniere sanguinava moltissimo dal torace. Tutti e tre,

arriviamo davanti alla casa del Maran, dove li davanti vi era una panchina di pietra per prendere il

fresco d’estate, sopra a questa panchina, vi era un anello di ferro murato alla parete della casa, che

serviva per legare il cavallo o i buoi. Si sono seduti entrambi, su quella panchina sfiniti, avevano tutti

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e due il fiato grosso, più il carabiniere era diventato pallido come uno straccio, sembrava sul punto

di svenire e se ne deve essere accorto, si è alzato, ha tolto una manetta al prigioniero e l’ha

allacciata a questo anello nel muro, dicendomi di non farlo scappare, perché lui si sentiva male e

aveva bisogno di soccorsi. Ha bussato alla porta di Maran, ma vi era soltanto la vecchia madre, alla

quale, il carabiniere ha chiesto qualcosa da bere. Dopo una mezz’oretta, ristabilita la salute, e pur

col fazzoletto pieno di sangue premuto sul petto, se lo portava giù, a casa sua, che era in fondo al

paese, e per me finiva l’avventura. Ho saputo poi, che era stato liberato per l’ennesima volta, dopo

venti giorni, e per l’ennesima volta era tornato li, nella sua casa. Come ho già accennato, dietro

quest’uomo veleggiavano dei grossi misteri; che nessuno a mai scoperto, se non quelli addetti ai

lavori, cioè, la C.I.A. ?. Ma allora il forcone piantato nella pancia, che significato ha?. La c.i.a non fa

queste cose, questo era un atto d’odio e di vendetta. Era un uomo gentile e rispettoso,sempre

elegantissimo, vestiva sempre di scuro, camicia bianca, cravatta o farfalla blu, scarpe nere o rosse,

sempre brillantissime. Era calvo come KojaK, e di Kojak ne rivestiva totalmente le sembianze,

quando era brutto tempo, portava, ma raramente,un cappello rotondo e scuro, di quelli rigidi a falda

larga, sembrava un prete. Era sempre il primo a salutare, quando lo si incontrava, non parlava quasi

con nessuno, se non per i convenevoli d’obbligo. In questo ultimo periodo di guerra, si diceva che lo

si poteva incontrare di notte, anche tarda, che tornava a casa, e non si riusciva mai a capire da dove

venisse, qualche volta anche al mattino prima dell’alba; e non sempre nello stesso punto. Tornando

adesso alla primavera del 1944 quando è stato fucilato. Quasi tutta la valle Trebbia e quelle

limitrofe, erano occupate da partigiani, lui circolava liberamente e apparentemente tranquillo, solo

una cosa si era accentuata, le sue uscite notturne. Mi ricordo che, anche la pattuglie dei nostri

distaccamenti, lo incontravano, quasi in ogni notte e quasi sempre furtivamente, gli sbucava, da una

curva o da un cespuglio, si giustificava di aver fatto tardi, o di essere andato fuori strada per i suoi

bisogni. Oramai, anche loro lo conoscevano, e si ponevano qualche domanda. Arriviamo verso il 20

di agosto; a Vezzimo si festeggia il patrono del paese, mi pare S..Bernardo, alla sera si apre la festa

da ballo all’aperto su di una piazzola già predestinata da anni.

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Questa pista da ballo, che è a trenta metri dall’ultima casa, viene illuminata con due c’etilene al

carburo; verso la mezzanotte passa radente il famoso Pippetto. (Pippetto, era un piccolo aereo da

ricognizione che, partiva dalle navi inglesi dell’alto tirreno e, tutte le sere faceva il giro dei nostri

monti, fino alla padana, per poi rientrare. lo chiamavamo il “Pippetto pompiere”, perché appena

vedeva una luce mollava bombe. Una sera, sul monte Alfeo, una carbonaia, (quelle cupole di legna

che i carbonai accatastavano a piramide e che poi coprivano di terra, per permettere che la legna si

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trasformasse in carbone), è stata centrata in pieno con due spezzoni. Solo perché, dall’alto si

vedeva, attraverso il buco di sfiato, come una piccola bocca del vulcano, una fiammella, che se solo

la guardavi dei lati, avresti visto solo fumo. Si diceva anche, che era in contatto radio con degli

ufficiali Italo Americani, paracadutati e sparsi in qualche paese di questi monti, e che il pilota fosse

addirittura uno di Fontanarossa, emigrato da poco negli stati, e che quindi conoscesse benissimo

tutta la zona. Sul ballo ce un po’ di paura, la gente chiede di spegnere le lampade, ma nei ballerini ci

sono anche due partigiani della Brigata Aliotta, i quali; o per paura, o per baldanza, non permettono

di spegnerle. Un attimo dopo, ritorna nuovamente il Pipetto a volo radente, sfiora i camini delle case,

arriva sulla sala da ballo, sgancia tre spezzoni; uno colpisce il camino della casa più vicina, gli altri

due, uno colpisce il palco dell’orchestra, l’altro piomba in mezzo alla sala, dove avrebbe dovuto

esserci il palo per la bandiera. Una carneficina; trentatré ragazzi e ragazze sui vent’anni morirono

sfracellati, altrettanti erano i feriti gravi, o meno gravi. Vi erano pezzi di carne spiaccicati contro il

muro che fungeva da sostegno con il terreno soprastante,una cosa da non poter descrive. In quella

sala dovevo esserci anch’io. Non c’ero solo perché, avevamo la trebbiatrice sulla nostra aia che

trebbiava il nostro grano, e che avrebbe dovuto finire per le ventuno, quindi in tempo per essere li a

ballare, ma si è rotta. C’è voluto un po’ di tempo per rifarla partire, e quindi abbiamo finito verso la

mezzanotte. Più o meno l’ora del Pippetto. Dopo poco, sono arrivate richieste d’aiuto, siamo partiti

in velocità e dopo una mezzora eravamo là, e abbiamo trovato quello scempio che vi ho appena

descritto. La mia mamma era convinta che fosse un castigo dal Cielo, per tutto quello che avevano

fatto a quel poveruomo. Io invece la pensavo, è la penso diversamente. Questo signore,

sicuramente era odiato dalla maggioranza dei paesani. Che da moltissimi anni, usufruivano dei suoi

terreni, senza mai pagare una lira d’affitto, ora i tempi erano cambiati; un sacco di grano, uno di

polenta e uno di patate, ti potevano portar fuori dall’inverno. Eravamo in guerra da quasi quattro

anni, lassù non arrivava più niente da un paio d’anni, mancava tutto; sale, olio, scarpe, insomma,

tutti i generi principali per vivere, lassù mancavano. Quindi capirete l’importanza di un campo di

grano, un bosco di castagne, o di un prato, che ti permetteva di mantenere una mucca o una capra

per il latte e per supplire a tutto quello che non arrivava da fuori. Negli ultimi anni, era stato costretto

da questa situazione, ha chiedere la restituzione dei suoi beni; e qui trovo la giustificazione, della

fucilazione in quel modo, e del forcone in pancia. Lui sicuramente era un massone come dicevano,

aveva sicuramente da qualche parte una trasmittente, ò più di una ma non era una spia a favore dei

fascisti, motivo per il quale è stato denunciato, dai compaesani e fucilato dai partigiani. Ma, al

contrario, era sicuramente in contatto con i servizi segreti americani nell’alto Tirreno.

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Anzi, io penso che già, nel 1938, quando è arrivato a Vezzimo, fosse mandato già con quegli

incarichi, in previsione proprio della futura guerra. Spesse volte stava via per dei mesi, senza che

nessuno sapesse mai dove andava e cosa faceva. Andava a Roma? andava alle ambasciate?

Cercava informazioni?. Quindi in tutte quelle sue uscite notturne segrete, avrà sicuramente

informato i sui interlocutori, di quanto gli stava succedendo, i quali avranno mandato il “Pippetto.” Da

quel periodo, fino alla liberazione e anche dopo, non mi sono mai stancato di fare domande. Nella

mia vita partigiana, ho cambiato diversi distaccamenti, che avevano operato in quella zona,

compreso il S.I.P.(servizio informativo partigiano), di Attilio, che era ferreo nel suo mestiere. Ma

nessuno sapeva niente, nessuno ne aveva mai sentito parlare. Sono stati scritti, almeno due o tre

libri sulla guerra partigiana in Val Trebbia, da gente che ha operato proprio in quella zona, ma,

anche quì, nessun cenno a questo fatto. Solo passando di lì, si possono vedere ancora oggi, molti

dei feriti di allora che, ancora circolano straziati da quelle bombe. Tornando ora alla vita partigiana,

si cominciava a sentire di notizie non tanto buone; erano rientrate dalla Germania un paio di divisioni

Alpine. Erano tutte quelle reclute delle classi più giovani che, erano state chiamate alle armi dalla

repubblica sociale di Salò: dalla classe del 1923 a quella del 1927, e anche più giovani, se volontari.

Avevano avuto un ottimo addestramento antiguerriglia in Germania, e ora li avevano rimandati in

Italia proprio, per la lotta contro i partigiani. Noi oramai, eravamo migliaia; in tutti i paesi vi era un

distaccamento, e da Torriglia a Bobbio, da Acquata a Varzi, compreso anche la valli limitrofe non vi

era più, né un presidio fascista né una stazione di carabinieri. O si erano ritirati, o li avevamo fatti

prigionieri, eravamo veramente molto forti. In questi tre mesi avevamo avuto molti lanci dagli

Americani, sia alla Capannette di Pej, che alla Colonia di Rovegno, sia in val D’aveto. Eravamo

quasi tutti vestiti KaKi. Ma sopratutto eravamo ben armati; ogni tanto ci toccava anche qualche

pacchetto di “luch strich” e qualche tavoletta di “libertà”. Torno ora, un momentino un pò più in

dietro, per raccontarVi un fatto che ha influito molto sulla mia guerra partigiana. Verso la primavera

del 1944, una sera, mi trovavo nella trattoria di Stevollo, che stavo guardando giocare a carte. Era

un periodo che partigiani a Zerba non ce n’erano, così alla sera si andava, o uno, o l’altro, quasi

sempre giù da Stevollo, per sentire notizie, per poi cercare di dormire tranquilli. Lì finiva la strada

carrozzabile, di li passavano molta gente, che andava sù per la valle, nei vari paesi, e li, si potevano

avere notizie fresche. Quella sera, abbiamo sentito arrivare una motocicletta, e fermarsi proprio

davanti alla porta, io misi la pallottola in canna, e sgattaiolai su per la scaletta, che portava all’uscita

posteriore. Un attimo dopo, che stavo già sulla porta d’uscita, per ...non si sa mai, mi sento

chiamare da “Bruesxiu”, Pippo, il titolare della trattoria il quale mi dice che non c’era pericolo, anzi

c’era un signore, che aveva bisogno di me. Scendo, sempre guardingo, e mi trovo davanti un

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partigiano, vestito di tutto punto da americano compreso le armi; lo sten e le bombe a quadretti

appese davanti. Mi chiede se so dove sia il più vicino distaccamento di partigiani; in quel momento,

francamente non lo sapevo, ce n’erano da tutte le parti, ma di sicuro non era in grado di

indicargliene qualcuno.

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Si presenta come il comandante della Divisione, senza aggiungere Cichero, e mi dice che avrebbe

bisogno di una persona fidata che, pagandola, l’accompagnasse a Bogli. Aveva una missione da

compiere urgente. Io ci pensai su due minuti, il tempo di inquadrare la persona, riferendola a

Bisagno, che io non avevo mai visto, ma che sicuramente non poteva essere che lui. Gli risposi che,

se si fida, io sarei disposto ad accompagnarlo, gli dissi che avevo già fatto parte del Mandorli, e che

ero tutt’ora nella S.A.S. di Zerba. Chiese all’oste, se poteva mangiar qualcosa, e dopo lo spuntino, di

pane e salame partimmo. Mi chiese, a bruciapelo, se sono armato e io gli rispondo di no, lui tira fuori

dalla cintura una P 38, me la porge e mi dice se so usarla. Gli rispondo di si, perché avevo già fatto

quattro mesi di guerra nei Balcani, ma, non la voglio perché ho già la mia. Un attimo di silenzio, poi;

bravo... cosi si evitano le brutte sorprese. Abbiamo camminato per un paio d’ore, scendendo sul

Boreca, per poi risalire per il sentiero di Artana, fino alla derivazione per Bogli. Strada facendo,

quasi sempre in silenzio, perché, se non si parla si cammina meglio, e poi bisognava camminare

uno dietro l’altro, perché il sentiero era veramente stretto e accidentato, quindi il discorrere non era

molto comodo. Ma ogni tanto, mi faceva qualche domanda, e mi spiegava lo scopo di questa nostra

passeggiata. A Bogli vi erano una dozzina di ex piloti Russi, che erano scappati da un campo di

prigionia nei dintorni di Casale, ed erano stati inviati a Bogli, dalle formazione partigiane del basso

Piemonte perché non volevano più combattere, ma aspettare la fine della guerra nascosti. Bisagno

era stato incaricato dal C.L.N. Genovese, di prenderne contatto e di tranquillizzarli che avremmo

pensato noi, alla sua, eventuale difesa, in cambio; diceva il C.L.N., avremmo beneficiato del lanci

che la Russia è pronta, è disposta a farci. (anche se poi è risultata una balla, mai arrivata una

cartuccia russa). Arriviamo al paese a notte fonda, non sappiamo neanche dove fossero alloggiati,

in giro non vi è anima via, Bisagno mi chiede se conosco bene il paese, gli rispondo di no, non c’ero

mai stato prima. Entriamo a passi felpati, attraversiamo quasi tutto il paese, per nostra fortuna c’era

la luna quasi piena, vediamo finalmente un cascinale un poco sopraelevato, su di un’altura che

poteva servire per l’occasione di chi si voleva nascondere, e nel medesimo tempo non voleva

essere preso alla sprovvista. Ci avviciniamo con molta circospezione, Bisagno mi da il suo sten con

la pallottola in canna, e mi dice di stare indietro una decina di passi, ma sparare solo se spara lui. Si

avvicina alla porta e bussa, prima niente, come se fosse vuoto, poi percepisce dei piccoli movimenti

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all’interno, al che, grida; siamo partigiani amici, dobbiamo parlare con voi. E si distanzia un poco

dalla porta per non aver sorprese. Ma niente, non succede nulla, aprono la porta e si affacciano in

due o tre assonnati, si mettono a parlare, ma per noi è arabo. Finalmente si sente uno che dice;

prego venite pure. Bisagno mi dice di stare qualche metro più in là, e fare la guardia, e spera di

sbrigarsela presto. Infatti, dopo aver fatto una specie di relazione scritta, annotando tutto quello che

voleva sapere e quello che gli dicevano e che avevano bisogno, siamo ripartiti per Zerba. Al ritorno

non abbiamo fatto la stessa strada, ma prendendo un sentiero sulla sinistra, ci siamo trovati sulla

strada mulattiera per Vezzimo, e, sia perché la missione era andata bene, sia che potendo

camminare affiancati, restava più facile il discorrere, lui mi faceva domande, io gli rispondevo con

domande.

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Mi ha raccontato dell’organizzazione della Cichero, mi ha detto che, al Mandorli conosceva diversi

partigiani, compreso il comandante Giorgio e Pirri, il vice, e Cialacche il commissario. Mi disse che

era un ottimo distaccamento e che essendo uno dei primi, della brigata Jori, aveva già fatto parlare

di sé in molti scontri coi fascisti. Ma sopratutto era uno dei distaccamenti, più ben voluti dalla

popolazione, perché rispettava le regole e la gente. Arrivati a Zerba che era quasi l’alba, si è

annotato, in un taccuino il mio nome, e mi disse che per qualsiasi cosa avessi avuto bisogno, in

qualsiasi momento, avrei potuto rivolgermi a lui, ho, anche a Croce, che era il comandante della

Jori, dove dipendeva il Mandorli, e che era anche il più facile da trovare, bastava fare il suo nome.

Prese la sua moto, una vecchia Mass 175 e se ne andò. Poco dopo questo fatto, ritorna il

distaccamento Mandorli e si ferma una ventina di giorni di tranquillità, dovevamo solo stare attenti ai

lanci alla Capannette. Intanto la brigata alpina Monterosa, che ho accennato sopra, si era schierata

nella parte ligure e piemontese, tutt’intorno alle nostre punte più avanzate. Partendo da Chiavari,

sino alla Doria, per arrivare ad Arquata. E si sapeva che, altre due divisioni, una di alpini e l’altra di

bersaglieri, erano pronte per attaccare in forze, sia da Piacenza che da Varzi, e dalla Spezia. Tutti

questi soldati erano coadiuvati dalle brigate nere e dai tedeschi, ed avevano avuto l’ordine

superiore, di liberare queste valli ad ogni costo, per rendere più facile una eventuale ritirata in

massa dal fronte. Infatti, un giorno ci trovavamo alle Capannette di Pej, per recuperare il materiale

appena lanciato, e in lontananza, si sentivano le cannonate, e lo scoppio delle bombe da mortaio.

Poco dopo arriva una staffetta dal comando della Brigata, con un ordine di Croce che diceva; dato

che siete i più vicini, andate in aiuto a quelli della Brigata Oreste, che stanno combattendo, in val

Borbera, contro gli alpini, che sono moltissimi e con armi pesanti, appunto, cannoni, mortai e carri

armati. Partiamo così, come eravamo; abbiamo cercato di caricarsi il più possibile di munizioni, che

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avevamo appena ricevute dal lancio, e dopo meno di due ore eravamo sotto il fuoco. É stato uno

scontro, tremendo, sicuramente una dei più duri che il Mandorli abbia mai sopportato. Abbiamo

combattuto per un paio di giorni continuamente, giorno e notte, avevamo un mucchio di feriti e non

arrivava nessuno a portarli via. Il nemico sembrava invulnerabile, due ore di silenzio, poi di nuovo un

fuoco d’inferno, ad ogni intervallo, cambiavano gli uomini; si ritirava una compagnia e nè veniva una

nuova all’attacco, erano migliaia. Arrivavano cannonate da tutte le parti, non parliamo, poi dei

mortai, sentivi svolazzare per aria queste granate e chiudevi gli occhi, sperando che non sia la tua.

Noi, non avevamo armi pesanti, avevamo cinque o sei fucili mitragliatori Breda, che si sono

inceppati quasi subito, oltre a tre mitraglie, una Fiat, una Santatien francese e un’altra che non

ricordo la marca, che hanno fatto il loro dovere per tutti e due i giorni, ma ora, eravamo alla fine

delle munizioni, e la cosa si faceva veramente tragica. Non potevano tener un fronte cosi micidiale

solo con gli sten o i mitra, che dopo venti metri non avevano più efficacia. Io, incominciavo a sperare

che il comandante desse l’ordine di ritirarsi. Ma a un certo momento, qualcuno ci avverte che stiamo

per essere accerchiati; Infatti bastava voltarsi sul fianco della montagna per vedere, ad‘occhio nudo,

una fila di alpini che stavano per raggiungere la cima e piombarci addosso,alle spalle, senza più via

di scampo.