I SORCI VERDI · veleno (cum veneno, recita una magnifica locu-zione latina, come ad eleggere...

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2 3 4 5 7 8 6 F u grande spavento e meraviglia, quando l’uomo s’accorse d’aver biso- gno di nutrirsi, per sopravvivere. E fu ancora maggiore la fierezza, quand’e- gli s’impadronì delle arti di caccia e raccolta, allora necessità e virtù in un mondo che ancora non era a misura d’uomo. Ma il ter- mine ultimo di questa ricerca, già era fissato: il cibo. Principale motore del mantenimento vita- le, unità di misura suprema, centro di gravità preistorico. E più s’andavano affinando le virtù, maggiori erano le variabili che, allora credute capricci del caso, complicavano la costante ri- cerca. Il clima, per citare l’esempio più imme- diato: vi si piegavano piante ed animali, e con maggiori difficoltà l’uomo. Cosa fare, per ovvia- re a questo problema? Trovare la fonte, la famo- sa scintilla che il clima poteva controllare. Allora non c’azzardammo a chiamarli dèi, ma oggi solo con questo nome possono esser ricono- sciuti. Furono loro, gli Altissimi, a fare con ele- ganza la prima mossa, a proporre un accordo, a prima vista trasparente e clamorosamente van- taggioso: come grandi padri e madri, noi sarem- mo stati i loro figli. Macchinazione questa, de- stinata a crollare nell’immediato. Come il famoso animale che si rivolta e mor- de la mano del padrone, l’uomo così sovvertì la celestiale autorità, sebbene in modo più subdo- lo. Vi chiederete: come? Attraverso quel cibo che, fino a quel momento, era significato vita. Dicono allora fosse stato il buon Prometeo, pre- gevole titano fautore della razza umana, ad aver spezzato per sempre quel nobile filo che ai padri ci legava. Mostrato l’altissimo padre degli dèi il suo volto, e svelato per Zeus il suo tonante nome, richiese Egli un pegno, a sigillare il grandioso patto. Fu portato un enorme bue, equamente di- viso in parti uguali fra dèi e uomini (erano all’e- poca considerate queste gioviali strette di mano). Prometeo, più che mai deciso a vendicar- si di alcuni sgambetti subiti dal padre degli dèi, riservò la più tenera polpa agli uomini, celando- la nel nauseabondo ventre del toro. Le dure ossa cosparse di grasso scintillante lasciò al superfi- ciale Zeus, il quale troppo tardi s’accorse del raggiro di cui era stato vittima. Fu allora segna- to il destino dell’uomo, maledetto dal supremo fra gli dèi per colpa, si dice, d’una buona bistec- ca. Qui iniziano i rapporti altalenanti fra uomo e cibo, fino a quel momento discretamente pacati e sereni. Dismessa la guerra agli dèi, persa purtroppo in partenza per enorme disparità di risorse, l’uo- mo imparò a far guerra a se stesso: nacque in quell’istante il nobile mestiere del traditore, o più volgarmente detta spia. Il quale traditore agiva, umbratile presenza a corte, per mezzo del veleno (cum veneno, recita una magnifica locu- zione latina, come ad eleggere questa pratica come più apprezzabile, fra le latrici di morte). Il miglior vettore del prezioso latore di morte fu trovato, quale sorpresa, nel cibo. Di tutto l’uomo poteva privarsi, ma non dell’unica fonte di so- pravvivenza necessaria. Si spalancarono le por- te di un’epoca fraudolenta, in cui schiere di as- saggiatori persero la vita per salvare quella dei reggenti, così al riparo da mortali leccornie. Impossibile non citare Mitridate VI, re del Ponto: leggendario fu il suo processo di immu- nizzazione ai veleni allora conosciuti, tanta era la paura di finirne vittima. Paradossalmente tentò poi di darsi la morte proprio attraverso un mortale filtro, rivelatosi inutile. E come ultima prova, a sigillare questo odi et amo (altra splendida locuzione latina, ma di origine ben più elegiaca che alimentare, qui presa semplicemente a prestito), ecco il supremo tentativo dell’uomo di liberarsi del cibo attraver- so clamorosa ascesi di corpo e mente, a mar- chiare la sudditanza divina nei secoli fortificata: il digiuno. Pratica nobilissima, abbracciata dal- la quasi totalità dei credo religiosi, eccezion fat- ta per lo Zoroastrismo, che rifugge il privarsi del cibo per semplice purificazione. Ma basti pen- sare all’importanza del Ramadan nell’Islam, o all’astensione dalla carne nei venerdì di quare- sima che distingue il cristianesimo, per capire l’estremo e duplice tentativo di aggraziarsi la benevolenza divina e forgiare spirito e corpo. Nel corso dei secoli, dal digiuno degli Antichi Greci che precedeva l’interrogazione all’oracolo, a quello degli indiani d’America che portava alla scoperta del totem privato e dell’animale guida, il digiuno non ha perso il suo potente in- canto sull’uomo; ma mai potrà, a viva forza, por- tare alla rinuncia totale dell’unica fonte neces- saria alla vita umana: sempre lui, il cibo. Un rapporto dunque, fra uomo e cibo, di amore ed odio, senza mezze misure. Necessario ma latore di disgrazie, più volte maledetto e poi divinizzato, il cibo resta a noi legato attraverso un nodo dorato; una spirale infinita, che prose- gue ancora oggi il suo viaggio intorno al globo, come nave perennemente in tempesta alla qua- le, miracolosamente, Poseidone sempre rispar- mia l’albero maestro. Mattia Orizio I S O RCI VERDI QUADRIMESTRALE DI LETTERATURA & ARTI VARIE N. 15 MAGGIO 2015 – COPIA GRATUITA – Anno V – n. 15 – Maggio 2015 – Reg. Tribunale di Brescia n. 11/2011 del 30/04/2011. Proprietà: associazione culturale I Bagatti, Vicolo delle Sguizzette 10, 25121 Brescia – Direttore Responsabile: Alberto Mondinelli – Redazione: Giacomo Cattalini, Alberto Clamer, Simone Medioli Devoto, Michele Mocciola, Mattia Orizio, Massimiliano Peroni. Hanno inoltre collaborato a questo numero: Betty Paniz, Arianne Peroni, Matteo Verzeletti. – Progetto grafico: Lorenzo Caffi / www.lorenzocaffi.it – Impaginazione: Marta Maldini – Stampa: la Cittadina, Gianico (BS). Info: [email protected] – www.isorciverdi.eu © tutti i diritti riservati. CIBO & CULTURA EXPO 2015 RICETTA DEL PANE ALL’UVETTA CURRY DAHL IL BOCCONE AVVELENATO Sommario DELL’UOMO NON SI BUTTA VIA NIENTE RICETTINA PER PASTA CON I BROCCOLI SPIRITO CULINARIO TORTA DI MANDORLE E CAROTE ULTIMO MINUTO LIQUORE INFORMAZIONI &ANTICIPAZIONI GRATICOLA SALE QUANTO BASTA ODE AL BRUSCANDOLO IL NUMERO 16 ESCE A SETTEMBRE 2015 PARAFULMINE APERITIVO CIBO&CUCINA

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6 Fu grande spavento e meraviglia, quando l’uomo s’accorse d’aver biso-gno di nutrirsi, per sopravvivere. E fu ancora maggiore la fierezza, quand’e-gli s’impadronì delle arti di caccia e

raccolta, allora necessità e virtù in un mondo che ancora non era a misura d’uomo. Ma il ter-mine ultimo di questa ricerca, già era fissato: il cibo. Principale motore del mantenimento vita-le, unità di misura suprema, centro di gravità preistorico. E più s’andavano affinando le virtù, maggiori erano le variabili che, allora credute capricci del caso, complicavano la costante ri-cerca. Il clima, per citare l’esempio più imme-diato: vi si piegavano piante ed animali, e con maggiori difficoltà l’uomo. Cosa fare, per ovvia-re a questo problema? Trovare la fonte, la famo-sa scintilla che il clima poteva controllare. Allora non c’azzardammo a chiamarli dèi, ma oggi solo con questo nome possono esser ricono-sciuti. Furono loro, gli Altissimi, a fare con ele-ganza la prima mossa, a proporre un accordo, a prima vista trasparente e clamorosamente van-taggioso: come grandi padri e madri, noi sarem-mo stati i loro figli. Macchinazione questa, de-stinata a crollare nell’immediato.

Come il famoso animale che si rivolta e mor-de la mano del padrone, l’uomo così sovvertì la celestiale autorità, sebbene in modo più subdo-lo. Vi chiederete: come? Attraverso quel cibo che, fino a quel momento, era significato vita. Dicono allora fosse stato il buon Prometeo, pre-gevole titano fautore della razza umana, ad aver spezzato per sempre quel nobile filo che ai padri ci legava. Mostrato l’altissimo padre degli dèi il suo volto, e svelato per Zeus il suo tonante nome, richiese Egli un pegno, a sigillare il grandioso

patto. Fu portato un enorme bue, equamente di-viso in parti uguali fra dèi e uomini (erano all’e-poca considerate queste gioviali strette di mano). Prometeo, più che mai deciso a vendicar-si di alcuni sgambetti subiti dal padre degli dèi, riservò la più tenera polpa agli uomini, celando-la nel nauseabondo ventre del toro. Le dure ossa cosparse di grasso scintillante lasciò al superfi-ciale Zeus, il quale troppo tardi s’accorse del raggiro di cui era stato vittima. Fu allora segna-to il destino dell’uomo, maledetto dal supremo fra gli dèi per colpa, si dice, d’una buona bistec-ca. Qui iniziano i rapporti altalenanti fra uomo e cibo, fino a quel momento discretamente pacati e sereni.

Dismessa la guerra agli dèi, persa purtroppo in partenza per enorme disparità di risorse, l’uo-mo imparò a far guerra a se stesso: nacque in quell’istante il nobile mestiere del traditore, o più volgarmente detta spia. Il quale traditore agiva, umbratile presenza a corte, per mezzo del veleno (cum veneno, recita una magnifica locu-zione latina, come ad eleggere questa pratica come più apprezzabile, fra le latrici di morte). Il miglior vettore del prezioso latore di morte fu trovato, quale sorpresa, nel cibo. Di tutto l’uomo poteva privarsi, ma non dell’unica fonte di so-pravvivenza necessaria. Si spalancarono le por-te di un’epoca fraudolenta, in cui schiere di as-saggiatori persero la vita per salvare quella dei reggenti, così al riparo da mortali leccornie. Impossibile non citare Mitridate VI, re del Ponto: leggendario fu il suo processo di immu-nizzazione ai veleni allora conosciuti, tanta era la paura di finirne vittima. Paradossalmente tentò poi di darsi la morte proprio attraverso un mortale filtro, rivelatosi inutile.

E come ultima prova, a sigillare questo odi et amo (altra splendida locuzione latina, ma di origine ben più elegiaca che alimentare, qui presa semplicemente a prestito), ecco il supremo tentativo dell’uomo di liberarsi del cibo attraver-so clamorosa ascesi di corpo e mente, a mar-chiare la sudditanza divina nei secoli fortificata: il digiuno. Pratica nobilissima, abbracciata dal-la quasi totalità dei credo religiosi, eccezion fat-ta per lo Zoroastrismo, che rifugge il privarsi del cibo per semplice purificazione. Ma basti pen-sare all’importanza del Ramadan nell’Islam, o all’astensione dalla carne nei venerdì di quare-sima che distingue il cristianesimo, per capire l’estremo e duplice tentativo di aggraziarsi la benevolenza divina e forgiare spirito e corpo. Nel corso dei secoli, dal digiuno degli Antichi Greci che precedeva l’interrogazione all’oracolo, a quello degli indiani d’America che portava alla scoperta del totem privato e dell’animale guida, il digiuno non ha perso il suo potente in-canto sull’uomo; ma mai potrà, a viva forza, por-tare alla rinuncia totale dell’unica fonte neces-saria alla vita umana: sempre lui, il cibo.

Un rapporto dunque, fra uomo e cibo, di amore ed odio, senza mezze misure. Necessario ma latore di disgrazie, più volte maledetto e poi divinizzato, il cibo resta a noi legato attraverso un nodo dorato; una spirale infinita, che prose-gue ancora oggi il suo viaggio intorno al globo, come nave perennemente in tempesta alla qua-le, miracolosamente, Poseidone sempre rispar-mia l’albero maestro.

Mattia Orizio

I SORCI VERDIQUADRIMESTRALE DI LETTERATURA & ARTI VARIE

N.15 maggio 2015– C O P I A G R A T U I T A –

Anno V – n. 15 – Maggio 2015 – Reg. Tribunale di Brescia n. 11/2011 del 30/04/2011. Proprietà: associazione culturale I Bagatti, Vicolo delle Sguizzette 10, 25121 Brescia – Direttore Responsabile: Alberto Mondinelli – Redazione: Giacomo Cattalini, Alberto Clamer, Simone Medioli Devoto, Michele Mocciola, Mattia Orizio, Massimiliano Peroni. Hanno inoltre collaborato a questo numero: Betty Paniz, Arianne Peroni, Matteo Verzeletti. – Progetto grafico: Lorenzo Caffi / www.lorenzocaffi.it – Impaginazione: Marta Maldini – Stampa: la Cittadina, Gianico (BS).Info: [email protected] – www.isorciverdi.eu © tutti i diritti riservati.

CIbo & CULTURAExPo 2015RICETTA DEL PANEALL’UVETTACURRy DAhL

IL boCCoNEAVVELENATo

Sommario

DELL’UoMo NoN SIbUTTA VIA NIENTE

RICETTINA PER PASTA CoN I bRoCCoLI

SPIRITo CULINARIoToRTA DI MANDoRLE

E CARoTE

ULTIMo MINUToLIQUoREINFoRMAZIoNI&ANTICIPAZIoNI

GRATICoLA

SALE QUANTo bASTAoDE AL bRUSCANDoLo

iL NUmERo 16 ESCEa SEttEmbRE 2015

PARAFULMINE

APERItIvocibo&cucina

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I SORCI VERDI

2 IN TAVoLA

CIBo & CULtURASulla falsariga dell’andamento della rivista

Grazie al PARAFULMINE, catturia-mo una scintilla di fuoco, utile a cu-cinare:

In concomitanza con Expo 2015, dedicato al cibo e alla cucina di tut-

to il mondo, pare essersi risvegliata (o accentua-ta rispetto al solito) una certa retorica del sem-plice: commozione lirica sull’umile pane, esalta-zione dei sani prodotti della terra, ammirazione incondizionata dell’innocente animale, meglio se tenero cucciolo (sottinteso: del quale non è bello nutrirsi). Tutto questo, e altro di simile e collaterale, reca in sé una masnada di pregiudi-zi e giudizi affrettati: così l’idea di pane si lega al ricordo idealizzato di bei tempi andati, e all’i-dealizzazione della povera gente che se lo gua-dagnava col tipico sudore della fronte. Mentre la terra produttrice di frutti finisce per diventare la Madre Terra da proteggere da uomini rapaci, in un’accanita, forse cieca rivolta contro la chimica e l’industria. E infine quell’insistente ammirare l’animale, interpretato come una sorta di intoc-cabile bambino edenico, comporta una conce-zione che disprezza e rifugge la complessità dell’adulto e dell’umano, opponendo ingenua-mente un’animalità buona alla civiltà cattiva.

Mettiamo IN TAVOLA quel che abbiamo pre-parato:

La retorica del semplice, insomma, ci invita a disconoscere e dimenticare che il cibo è cultu-ra: è il risultato di una raffinata elaborazione, il prodotto di un’arte, la cucina. Sublime artificia-

lità, inevitabile alterazione chimica. Uscita defi-nitiva dall’Eden e avventura rischiosa dell’inge-gno. Patrono della cucina è pertanto Efesto, il dio fabbro. Costui non è un mero lavoratore (col sudore sulla fronte), è un artista all’opera: sì, il mito lo ritrae preso tutto il giorno tra mantici e ferri roventi, ma è dalla sua forgia che fuoriesco-no gli oggetti più maestosi e ammirevoli. È lui, zoppo e sgraziato, il depositario del segreto della grazia artistica; il vero esteta, legittimo consorte di Afrodite, la bellezza. Accostandoci a questo dio, possiamo considerare la cucina alla stregua di una fucina artigiana (probabilmente la prima che l’umanità ha conosciuto), dove materiali inerti sono pazientemente lavorati, per essere trasforma-ti in opere d’arte da gustare. Dove, per esempio, la carne dall’odore pungente resuscita trasfigurata in un bell’arrosto dal delicatissimo sapore…

Arriviamo al PIATTO FORTE:Dunque il cibo come cultura e la cucina

come arte culinaria appartengono a pieno diritto al più vasto orizzonte dell’arte e della cultura in quanto tali, l’orizzonte antropologico per eccel-lenza. Qui il cibo non è mai semplice questione di bisogno nutritivo. Il cibo ingerito dall’uomo è fin da principio inserito in un complesso cultu-rale, e il nutrimento acquisisce sempre un sen-so, di volta in volta rituale, politico, simbolico, eccetera.

A questo punto, la retorica del semplice mi-naccia di ripresentarsi, identificando nelle cul-ture cosiddette materiali del cibo e della cucina

il Vero o il bene della ‘vicinanza alla natura’, magari in opposizione ad altre visioni, bollate come intellettuali o spirituali, cioè inconsistenti. Futile mossa, poiché non si sfugge al fatto che ogni cultura, ogni pur minima prospettiva, atti-vità e attitudine umana è giocoforza intellettuale e spirituale, ma non per questo inconsistente; dato che deriva dalla peculiarità umana di pen-sare, riflettere, comprendere, dare senso a ciò che si vede e si fa, e costruirsi un modo di vivere consequenziale.

Non c’è una cultura più vicina delle altre a una supposta base veritativa di Natura: sono tut-te ugualmente fluttuanti appena sopra la crosta terrestre, se vogliamo. Semmai, all’interno della vasta arena del mondo, o dimensione culturale umana, vige un fragoroso battagliare sulle verità e sui valori, una continua, fervida discussione su cosa valga veramente per la vita dell’uomo, qua-le salute psicofisica e/o salvezza metafisica ri-cercare, e pertanto quali siano le più opportune o le migliori tra le moltissime macro e micro culture, millenarie o in formazione, brulicanti in un incessante intreccio, attrito, scontro aperto.

A ciascuno la sua scelta, e l’affidamento in ciò che si predilige…

E finalmente ci serviamo della GRATICOLA:…Imparando, però, ad avere fiducia prima

di tutto nel pensiero, per non cascare in quegli approcci che la fanno semplice, appunto. Poiché dietro la bandiera della naturalità intesa come ovvia evidenza, si cela – va detto a chiare lettere

e una volta per tutte – la grossolanità di una cat-tiva cultura, la comoda tendenza all’ipersempli-ficazione, la presa di posizione violenta, l’ottuso fanatismo e così via: una modalità sottoculturale che è una sorta di strisciante autodistruzione del potenziale culturale (conoscitivo, immaginativo) umano. E una tremenda sottovalutazione, per giunta, della reale natura delle cose, che giam-mai è terra-terra – men che meno la natura fisi-ca, come ci insegna la cultura scientifica.

Aggiungiamo un altro assaggio all’ULTI-MO MINUTO:

Anche la sapienza religiosa, d’altronde, ci addestra a respingere le visioni semplicistiche: al Diavolo che gli suggerisce di tramutare le pie-tre in pane, il Cristo in digiuno risponde che non di solo pane vive l’uomo1. L’Uomo-Dio vince sul-la tentazione grossolana di riempirsi facilmente lo stomaco (e di squalificare in tal modo i propri poteri), affermando la preminenza della spiritua-lità. Della dimensione divina, che è anche uma-na. L’essere umano è infatti l’unico animale in grado di autocontrollarsi scientemente, e a piaci-mento, nel rapporto con il cibo (fino all’estremo della rinuncia totale, seppure temporanea, nel digiuno), giacché il nutrimento materiale, in lui, è essenzialmente subordinato al nutrimento spiri-tuale2. Al proprio orientamento nel mondo.

Quale esso sia. Non se ne esce: anche espressioni apparentemente antispirituali come “fedeltà alla terra” o “nutrimenti terrestri”3, hanno una valenza metaforica, fanno parte di laboriose riflessioni morali e filosofiche. Non consigliano certo la semplicioneria presuntuosa, ma un’accorta autoeducazione verso una rinno-vata spiritualità.

E infine assaporiamo il LIQUORE:Se, come si è scritto sopra, il cibo è cultura,

e la cucina un’arte, occorre aggiungere in con-clusione: non di solo cibo è fatta la cultura; la cucina non è la sola arte che abbiamo a disposi-zione. Anche se non ce ne rendiamo spesso con-to, abbiamo un fondamentale bisogno, nient’af-fatto naturale ma propriamente umano, di nutri-re la nostra immaginazione e il nostro pensiero. Sta a ognuno di noi, poi, assumerci la responsa-bilità di nutrirci bene o male – e prima ancora, educarci a giudicare cosa è buono e cosa è catti-vo, affinando man mano il gusto. E forse, qual-che volta, potremo dire di avere goduto dell’otti-mo pasto del sapiente: “un po’ di sapere, un po’ di saggezza, e quanto più sapore possibile”4.

Massimiliano Peroni

1 La frase esatta, riportata in parte nel Vangelo di Luca, e completa nel Vangelo di Matteo, è questa: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla boc-ca di Dio”. (Cfr. Mt 4,4) Si tratta di una citazione biblica da Dt 8,3. Come testo di consultazione ho utilizzato: I Vangeli, a cura di Giancarlo Gaeta, Einaudi, 2009.

2 Giova fare presente che il padiglione Expo 2015 del Vaticano si articola tematicamente secondo una doppia direttrice, abbinando alla frase da me utilizzata (“Non di solo pane…”) la nota formula del Padre Nostro (“Dacci il nostro pane quotidiano”), a indicare un’equi-librata complementarità di bisogno, per l’uomo, del pane materiale e di quello spirituale. Peccato che an-che il “pane quotidiano” possa essere inteso in senso non materiale. Infatti il termine greco epioùsios pone diversi problemi di interpretazione, e invece che con “quotidiano” può essere reso, per esempio, con “sopra-sostanziale”, “sovrannaturale”, “superessenziale” (tra-duzioni, rispettivamente, di San Girolamo, Simone Weil e Carl G. Jung). oppure si può tradurre con “il pane di domani” in un’accezione prettamente escatologica. In ogni caso, queste interpretazioni scommettono sulla maggiore correttezza di un significato spirituale.

3 La “fedeltà alla terra” si riferisce alla prospettiva spi-rituale di Friedrich W. Nietzsche, che si pone come superiore e alternativa rispetto a quella cristiana, esposta in Così parlò Zarathustra (edizione italiana: Adelphi, 1976). Il secondo riferimento è a un altro li-bro che si confronta con il cristianesimo: I nutrimenti terrestri di André Gide (edizione italiana: Paludi – I nutrimenti terrestri, Garzanti, 2004).

4 Roland barthes, Lezione, in Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, 2001, p. 195.

EXPo 2015ora, dirimpetto all’altare hi-tech –totem di vetro e acciaio dei mercanti –coperta dalla sua lunga ombraquasi non ci fosse – c’è una casa,modesta, subordinata,un tempo rivolta alla via principale.

I suoi balconi coi fiori, frutti minuti,sono resi ancor più piccolidai terrazzi forestali,i boschi Verticali,immani piramidi composte di secondi.

E nulla può quel semplice discorsoanche se ornato dal vezzo delle muffedi fronte a chi elenca un pensierolungo uno scontrino.

Giacomo Cattalini

CURRY DAHL per due persone

ingredienti40 gr. Lenticchie rosse decorticate60 gr. Fagioli mungo spezzati e decorticati - mung dal - colore giallo 80 gr. Riso - basmati integrale5-6 Carote 1 Patata3-4 Pomodorini Sale e olio Extra Vergine di oliva Curcuma Curry in polvere

Preparazionebollire l’acqua in una pentola capiente.Cucinare le lenticchie e i fagiolini nell’acqua per mezz’ora.È consigliabile mettere in ammollo le lenticchie e i fagioli mungo per facilitarne la digeribilità e il tempo di cottura, minimo 20 minuti massimo 12 ore.Se si forma della schiuma in pentola toglierla con un cucchiaio.Pelare, grattugiare e cucinare le carote a parte con dell’olio d’oliva.Pelare una patata, tagliare a cubetti e aggiungere alle lenticchie e ai fagioli.Aggiungere il riso in pentola e cucinare per un’altra mezz’ora. Allo stesso tempo aggiungere al tutto un cucchiaino di curcuma e sette cucchiaini di curry in polvere e un po’d’acqua calda solo se ce n’è bisogno per il riso.Abbassare il fuoco, mescolare ogni tanto con un cucchiaio di legno fino che l’acqua si è assorbita e il riso è cotto, salare, aggiungere le carote e i pomodorini tagliati.

Arianne Peroni

RICEttA DEL PANE ALL’UvEttA

ingredienti500 gr. di pasta di pane2 uova50 gr. di burro150 gr. di zucchero250 gr. di uvetta passa

Preparazione Mettere a bagno l’uvetta finché non

diventa morbida, poi scolarla ed asciu-garla. Prendere la pasta di pane e ag-giungere il burro morbido, lo zucchero e le due uova, impastare bene il tutto e per ultimo aggiungere l’uvetta. Formare una palla e metterla a lievitare nel forno con la luce accesa fino a che non raddoppia di volume.

A questo punto mettetela sulla piastra del forno con sotto la carta da forno e fa-tela cuocere per 30-40 minuti a 180°.

Quando è quasi cotta si può spen-nellare con un goccio di latte e spolve-rizzare di zucchero.

Betty Paniz

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Quadrimestrale di letteratura e arti varie – N. 15 – Maggio 2015 3IN TAVoLA

DELL’UoMo NoN SI BUttA vIA NIENtEostacolo fisico e libertà incatenata

1 Cfr. M. Pollan, Il dilemma dell’onnivoro (2006), Ed. Adelphi, 2010, p.139, che nel mezzo della sua inchie-sta sulle diverse catene alimentari negli Stati Uniti, fi-nisce per fare la seguente riflessione su un aspetto ap-parentemente secondario, come il differente tipo di copricapo indossato da Joel Salatin (cappello di pa-glia), il quale si autodefinisce un “erbicoltore” [grass farmer], e George Naylor (cappello da baseball), un agricoltore industriale: «Mentre mi godevo il verdeg-giante panorama della sua proprietà, quel pomeriggio, mi venne in mente che per completare il quadro man-cava solo il pastorello gioioso; ma cos’altro era, allora, quel tizio alto con grandi bretelle blu e il cappello flo-scio che con passo energico veniva verso di me? Il suo copricapo non era solo lì per proteggere viso e collo dal sole della Virginia, ma anche per mandare un pre-ciso messaggio politico ed estetico, giunto dritto a noi da Virgilio attraverso Jefferson, con una deviazione nella controcultura degli anni Sessanta. Un cappellino da baseball con il logo di un colosso agroalimentare significa lavoro dipendente e debiti (sotto molti aspet-ti) con il complesso industriale. Lo spigliato berretto di Salatin (fatto di paglia vera, non di plastica) proiet-tava invece indipendenza, autosufficienza, persino ri-lassatezza. “Nella nostra fattoria gli animali fanno la maggior parte del lavoro” mi aveva detto la prima volta che ci eravamo parlati».

Per un riscontro visivo e un approfondimento sul grass farming [erbicoltura], cfr. le pagine web e i video dedi-cati alla Polyface, la fattoria di Joel Salatin.

2 Sempre M. Pollan, cit., p. 71, parla della distinzione «tra mais inteso come alimento e il mais come commo-dity: la differenza tra le due cose è sottile, ma assolu-tamente cruciale. Quello che coltiva George Naylor, come pure quello che giace ammucchiato ai piedi del silo, è mais n. 2, una materia prima definita da uno standard internazionale, che si coltiva ovunque (e in nessun luogo in particolare) e che serve a molti usi, nonché un bene commerciabile su cui si può specula-re, accettato come forma di capitale in tutto il mondo. È una commodity. E anche se indubbiamente ha l’a-spetto del mais che si mangia ed è diretto discendente della pianta venerata dagli Aztechi di Sahagùn, non è tanto un alimento quanto un materiale industriale, nonché un astratto concetto economico».

Il lavoro mobilita l’uomoCome si fa a pensare al cibo,

quando le questioni di cuore e di sentimento si fanno padrone dei no-stri pensieri e il massimo orgasmo

culinario a cui aspiriamo è un delitto (– Affogamento!) di cui si compiace, complice, il cioccolatino? Come pensare al cibo e alla sua lunga elaborazione – come, e, soprattutto, quan-do – nella vita serrata dello studente, lanciato con la sua ribollente immaginazione nello spazio puro delle idee, degli esami e delle feste univer-sitarie? oppure, ancora, durante la comune gior-nata del lavoratore, abituato com’è a costruirsi una dignità sociale a forza di colloqui, spintoni e coltelli tra i denti? Situazioni, queste, tanto capa-ci di annientare l’appetito, quanto di suscitare una fame ondivaga.

In particolar modo, nell’ipermercato che rappresenta la città, snodo nella catena di distri-buzione globale dei generi alimentari, come ge-stire – è la parola – il capitale di golosità e ghiot-tonerie di ogni forma e provenienza da cui ve-niamo solleticati, – e infine sedotti?

Il mondo è veramente grande, e fra i godi-menti dell’ingestione e dell’assunzione, talmente allettante da volerlo assaggiare in ogni suo pun-to. Un morso qua, alla cultura indigena, un sor-so là, alle vene esotiche, una leccata qui, all’e-sposizione domestica… Ah!, per poter godere appieno di tutta la varietà e la raffinatezza, per assaporare lo stato dell’arte delle papille gustati-ve di ogni cultura e tradizione, per sfamare la nostra curiosità e dissetare il nostro sapere non basterebbero due vite… Peraltro, anche per go-derne in minima parte, se una vita può non ba-stare, figuriamoci il patrimonio... .

Se solo l’uomo potesse non mangiare! – Non dico non dormire, perché le delizie del sonno sono sacro alimento dell’inconscio e ricongiun-zione alle nostre fonti interne. – Dico: se solo l’uomo potesse non mangiare. Quanto tempo ri-sparmieremmo, quanto ne potremmo impiegare altrimenti… mentre invece ci viene sottratto, impunemente, dalla tirannica routine della spe-sa, delle code ai negozi e per strada, della cucina e – non è finita – delle pulizie! bazzecole di infi-mo rango! E, in molti casi, abbrutenti, – pure!

E poi, tutte queste fatiche, ansie, preoccupa-zioni costanti… perché? Per sostenere questo vil corpo, che è zavorra e orizzonte delle nostre mi-sere meditazioni! – Se così fosse, se l’uomo fosse

libero da questa tara, probabilmente non sta-remmo qui a penare i dolori mestruali del mer-cato del lavoro… Forse non ci servirebbe un la-voro! Immaginate che pacchia, che paese del bengodi.

Per di più, qua sotto, a conti fatti, lavori mi-serabili implicano forme di sostentamento pove-re, mentre a lavori più prestigiosi si associa un tenore di vita migliore, compresi, e non è poco, i piatti in tavola… Un circolo vizioso insomma, un club senza uscita…

L’uomo sarà finalmente libero quando la farà finita con questa storia dell’intestino!

II. La scoperta del paesaggioÈ mai possibile che il cibo abbia perso

quell’antiquato sapore di sacro? Al pari del sonno, che ricongiunge l’indivi-

duo a qualcosa di profondo, che pur essendo dentro di lui lo supera e in qualche modo lo completa, così il nutrimento fisico porta fuori da noi stessi, ci ricollega a un ciclo più grande, di cui l’alimento particolare è soltanto l’ultimo anello.

Da qui si capisce sicuramente una cosa: scrivere di cibo non è affatto come mangiarne.

Ma anche l’atto di mangiare spesso equivale a non pensare al cibo. Dietro – e dentro – un frutto – un bel prosciutto – c’è un mondo. Vediamo come il picciolo della pesca scintillan-te e succosa che teniamo in mano si prolungasse un tempo in un ramo, e come questo si innestas-se in un tronco… Nello spazio bianco del pen-siero possiamo allora scorgere un albero… e in-dovinare in un lampo la terra su cui poggiava, l’erba che lo circondava e a cui ha negato il suo-lo, il cielo che lo conteneva e il sottosuolo da cui traeva le energie per la fotosintesi, per digerire la luce solare e trasformarla in carboidrati. Se continuiamo a svolgere il filo di deduzioni trove-remo l’acqua piovana e il suo decorso, le api e i pollini, gli uccelli che affittano le fronde e mo-derano gli insetti come una polizia agricola, i rapaci deputati al controllo delle nascite: un ac-corto sodalizio fra prede e predatori, animali e piante e i funghi, che si sviluppano alle radici in un mutuo abbraccio micorrizico [dal gr. mykòs (fungo) e rhiza (radice)], o in un tetro ammoni-mento saprofita [dal gr. saprós (marcio) e phytón (pianta)]… Probabilmente, in questa selva di nozioni da scuola primaria, vedremo anche un cappello di paglia o da baseball su due gambe1, una doppia canna di fucile sorret-ta da una coppia di braccia, un trattore, un pick-up, un aratro, uno sterminato campo di grano, oppure montagne, laghi, pascoli, muc-che, polli e maiali… Si delinea, fra questi ri-chiami silenziosi, una ricca trama di fili, tutti confluenti in un unico equilibrio semovente: un paesaggio. Da questo ambiente – vero e proprio arazzo, o guazzabuglio, interspecie – proviene il frutto, che grazie a una più o meno fitta rete di distribuzione è giunto fino alla no-stra tavola. Di qui l’assioma: nel cibo è impli-cato, almeno, un paesaggio.

La “fabbricazione” di ogni tipo di alimento non può prescindere da una simile complessità all’opera. Allora, possiamo forse immaginare quanti interessi, fra gli infiniti rivoli del proces-so, ne possano sostenere la produzione e la cir-colazione: dalla margheritina all’orso grizzly; dalla fattoria-sinergia alle grandi multinaziona-li; dall’alberghetto e i suoi chef, camerieri e for-nitori, all’alta finanza e le transazioni sulle com-modities2. Infatti, anche il paesaggio urbano, che apparentemente non ha nulla a che spartire con pascoli e campagne e che, anzi, sembra ne-gare, è invece capace di prolungare la sua om-bra fin laggiù attraendo le mire delle aziende locali e, in altri casi, influenzandone di gran lunga l’organizzazione interna. D’altronde, l’esi-stenza stessa dei supermercati richiede la pre-senza di grandi fonti di approvvigionamento.

Ma indipendentemente dall’itinerario, indi-pendentemente dai punti di partenza e di arrivo, si torna sempre al fatto per cui nel frutto è rac-chiusa la filiera, o l’ecosistema; e qualcuno, da qualche parte lontano dai nostri occhi, deve aver nutrito, cresciuto, ucciso, sventrato e macellato questo manzo.

III. Il cerchio intornoNel cibo è riassunto magistralmente il fatto

che, in ottica generale, vita e morte, almeno sul pianeta Terra, sono la stessa cosa. La vita non è che una morte trasfigurata. Attraverso la dige-stione e la decomposizione la materia muta e ri-sorge in forma nuova. La natura opera attraverso mille alterazioni e mille strategie. Grazie ai suoi colori e profumi il frutto attrae il mangiatore che ne libererà il seme, contribuendo così all’espan-sione della specie. La morte e la degradazione di un essere possono significare vita e rigenerazio-ne per un altro, in modi sorprendentemente vari, come ci dimostrano i virus, i batteri, gli apparati digerenti, le radici e, in definitiva, il suolo, que-sta bocca inesausta e affatto schizzinosa.

Non si può, da questo punto di vista, non considerare gli alimenti come doni particolari, graziose e insieme terribili concessioni, pezzi di mondo che si offrono al gusto e allo stomaco, in questo caso, umani e che legano indissolubil-mente la nostra specie a una catena: quella, ap-punto, alimentare. oltre che costituire un’intima necessità, il cibo ci ricorda la partecipazione a qualcosa che ci comprende: siamo funzioni ed espressioni di un organismo pulsante e adattabi-le. Il cibo è altro da noi, e indica un oltre rispet-to alla nostra individualità che siamo costretti a nutrire.

IV. Dal contadino all’operatore agricoloL’ingegno e il pollice opponibile hanno col-

laborato non poco a migliorare la nostra posizio-ne in natura, attraverso lo sviluppo di caccia & raccolta, della produzione di utensili, di agricol-tura, allevamento e, non ultima, la cottura: evento storico-gastronomico che ha enormemen-te ampliato il catalogo di specie commestibili per l’uomo sul globo terracqueo. Grazie al fuoco, l’onnivoracità umana ha potuto esprimere il suo puntuale appetito, fino a raggiungere vette culi-narie molto elaborate.

Ultimo gradino delle possibilità alchemiche nelle mani umane, i processi di sintesi e di in-trusione genetica, riflesso, oltre che di finezza tecnologica, di una crescita demografica impor-tante, nonché di nuove e spregiudicate frontiere nella genesi dei profitti, hanno contribuito a ri-durre notevolmente il numero relativo di chi si occupa della produzione di cibo in senso classi-co, ruspante, decretando, almeno nelle società più avanzate, un allontanamento progressivo della popolazione dalla terra e dalle sue dinami-che. Il velo industriale fra gli occhi dell’uomo informatico e la terra rende per molti aspetti il cibo un dato pacifico. Anzi, non si può ignorare il flusso di generi alimentari piovuto nelle no-stre case, punto di forza della sua giustificazio-ne. E come dimenticare le opportunità lavorative e non, lo stile di vita, gli sbocchi commerciali, il benessere medio?

Ma è evidente come queste conquiste sca-valchino le tradizioni rurali, l’esperienza diretta della natura e del genius loci. La consapevolezza pratica per cui il cibo è frutto della convivenza con altre specie (e i sensi all’erta), di una solida-rietà umanoide, e non da ultimo dell’alleanza fra l’uomo e gli animali addomesticati, cede il passo ad argomenti astratti come l’«efficienza», gli «utili», la «varietà» disponibile sul mercato in ogni periodo dell’anno, e la minore fatica dovuta all’impiego di macchinari e agenti chimici. Le diete, infine, diventano formule, poiché l’indivi-dualità non è che una sintesi peculiare degli ali-menti. In parole povere: «Sei ciò che mangi». E il distillato di ciò che mangiamo è un cocktail di vitamine, proteine e carboidrati.

Certo, l’emancipazione dal cibo è un’utopia bella e buona, ma l’essere dispensati da lunghe sfacchinate è un’acquisizione trionfale di larghe fette di popolazione. Lasciamo che gli artisti di strada si cibino di bacche e di provvidenza: la catena industriale alimentare è un successo fer-reo dell’uomo sulla natura.

V. Orgoglio e vergognaD’altro canto, il concetto di cura domestica

può rivelarsi una misura efficace per valutare il pensiero sotteso a un’azione nella catena ali-mentare, per darne la cifra e il colore. È in base

a questa ottica economica che il paesaggio si caratterizza come dimora, vero e proprio com-promesso fra ambiente selvatico e focolare do-mestico. Il termine dimora indica il luogo in cui si sosta più o meno stabilmente, ma può anche rife-rirsi al posto nel terreno in cui si colloca una pian-ta (si dice infatti, in gergo agrario: mettere a d.). La dimora segna l’adattamento e il progetto dell’uomo nell’ambiente, il modo in cui la sua azione buca il paesaggio e ne influenza gli inquilini. Essa rap-presenta il baluardo, tutt’altro che pacifico, di una civiltà, che si pone dentro, di fronte, oppure sopra (per quanto possibile) la natura.

Prendiamo il solco dell’aratro, indizio esteti-co importante, che nella sua banalità apparente riepiloga l’azione dell’uomo in due direzioni: ver-so il regno vegetale (disboscamento, semina, raccolta…) e verso il regno animale (addestra-mento, mantenimento ed eventuale degustazione del bue che traina l’attrezzo). Nella sua evidenza e semplicità, esso mostra una strada in cui si è avventurato l’uomo per abitare l’habitat. Anche il pane, il vino, l’olio sono artifici, segni di una civiltà e di un luogo, pietanze, condimenti e be-vande che marcano il limite tra natura e cultura. L’assenza o meno e le modalità di coltivazione, addomesticamento e lavorazione delle materie prime sono indici eloquenti dell’approccio alle risorse naturali e del conseguente rifornimento alimentare. Infine, l’orgoglio e la vergogna del cacciatore e dell’allevatore classico, sono due sentimenti inseparabili che accompagnano da vicino l’attività venatoria e di soppressione dei capi di bestiame. Non si può che provare – di fronte allo spettacolo della vita, della morte e della trasformazione – deferenza profonda e gra-titudine. La soddisfazione architettonica, insie-me alla stanchezza, invitarono in questo modo, a cena, molto tempo fa, Giovialità e Convivialità.

Non di solo pane vive l’uomo: ma non di solo pane è fatto il pane.

Giacomo Cattalini

RICEttINA PER PAStA

CoN I BRoCCoLIingredientibroccoli verdi freschi3-4 acciughe sotto sale2 spicchi di agliopeperoncino quanto bastaolio extra vergine di olivapoco sale parmigiano reggianoil formato di pasta che volete

PreparazioneQuando lavate i broccoli e separate

le cime per cuocerle, invece di buttare via i gambi potete tagliare via la parte finale, spelarli e tagliarli a pezzetti, poi buttarli nell’acqua insieme alla pasta che deve bollire. Nel frattempo rosolate in una padella bassa e larga l’aglio ta-gliato sottile o schiacciato insieme con l’olio e le acciughe. Mettete un pizzico di sale e il peperoncino e fate soffrigge-re. A cottura ultimata della pasta scolate il tutto, mettetelo nella padella con poca acqua di cottura e fatelo mantecare. Alla fine, una bella grattugiata di for-maggio e la pasta è pronta.

E come contorno vi mangiate i broc-coli lessati!

Betty Paniz

I.

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I SORCI VERDI4 PIATTo FoRTE

IL BoCCoNE AvvELENAtoCome il principio evolutivo modifica il corso degli eventi

R iuniti intorno ad un fuoco brillan-te in una notte illune restiamo in silenzio, mentre la carne grassa sfrigola e cola, rilasciando il suo profumo; qualcuno aggiunge odori

supplementari, qualcun altro solletica il fuoco a germogliare. Le lingue gialle s’innalzano più alte a lambire il cielo. Siamo in attesa di un cibo che ci sarà di giovamento dopo una giornata fati-cosa, e dura. Nessun altro osa avvicinarsi per timore, disagio o deferenza. Il silenzio recupera le fragili tracce di un’epopea, quella umana, par tita qualche milione di anni prima. L’importante è non dispiegarle, queste fragili tracce: basta annusarle, come questa carne che si crogiola nel suo destino di generosità, verso di noi che l’abbiamo mangiata, e la mangeremo an-cora. Il dilemma è sempre presente nei pensieri assillanti di noi, così riuniti, che a breve mange-remo questa bella carne rosolata al fuoco not-turno, condividendola con le nostre mogli e i nostri mariti, e i figli e i genitori, e qualche ami-co: con il nostro gruppo abituale. Perché siamo specie di socialità: ci diamo manforte quando non ci diamo bastonate. Il dilemma è sempre lì, in mezzo a noi, tra vita e morte, bene e male, pace e guerra, causa ed effetto. Tra l’estroversio-ne prepotente dell’io, e l’emancipazione da quel-lo, protesi all’infinito mentre tracciamo il peri-metro del nostro stringente quotidiano (M. De Carolis, Il paradosso antropologico, Quodlibet, 2008; P. Virno, E così via, all’infinito, bollati boringhieri, 2010).

Perché! Un’origine ignota, una fine certa, sovrastano questa bella compagnia che impugna attrezzi adatti a lacerare le carni arrostite, per-ché l’ora è giunta e oltre non si può attendere. Altri processi attendono il loro turno (mastica-zione, digestione, selezione, espulsione) nella prosecuzione di un meccanismo tanto quotidia-no e semplice, quanto profondo e misterioso, in-nervato fino al più puro Pensiero, e inscritto nei miti primigeni. Si celebra un rito antico, o forse due o tre insieme, mentre assaporiamo la carne gustosa, e ci guardiamo soddisfatti e dubbiosi l’un l’altro, incerti delle scelte del giorno dopo, delle nostre scelte, del piatto della bilancia del dilemma che faremo pesare. Domani saremo an-cora amici o nemici? È tutto così in bilico. Noi siamo in bilico. Ma continueremo in ogni caso a cuocere i nostri cibi, a lavorarli, a crearli, secon-do inveterate abitudini cui ne aggiungeremo al-tre ancora.

Il cibo non è solo questione di sopravvivenza.

Secondo una teoria evolutiva l’origine delle trasformazioni epocali che, attraverso stadi in-termedi a partire dal preumano australopiteco, hanno condotto all’homo sapiens, e – all’esito –alle nostre speciali e (a quanto ne sappiamo) uniche capacità cognitive, (l’origine) è da ricer-care nella cottura del cibo (R. Wrangham, L’intelligenza del fuoco, bollati boringhieri, 2011). L’approdo ad una diversa alimentazione, che sfrutta il fuoco per il passaggio dal cibo cru-do (soprattutto la carne) a quello cotto, ha indot-to modifiche strutturali (riduzione dei denti, dello stomaco e dell’intestino, aumento delle di-mensioni del cervello), chimiche (della digestio-ne), comportamentali (più tempo libero per sé e meno per le lunghe ore della masticazione del cibo crudo), e – infine – sociali (le relazioni co-niugali e amicali intorno al cibo e la suddivisio-ne dei compiti); modifiche uniche e assai pecu-liari. Senza trascurare, a proposito degli aspetti sociali, le sovrapponibili teorie (non meno affa-scinanti) che indicano quale fattore di forte svi-luppo per l’acquisizione – da parte della specie Homo – del connotato eusociale, la creazione di un nido in cui la cooperazione tra i membri del gruppo garantisce il procacciamento del cibo (at-traverso le spedizioni di caccia) e l’allevamento dei nati e ancora immaturi (E. o. Wilson, Il si-gnificato dell’esistenza umana, Codice edizioni, 2015). Quel nido, ovverosia il più noto focolare domestico, ben si attaglia all’ipotesi della cottu-ra del cibo ed alle strutture sociali conseguenti descritte dai fautori di quelle teorie.

Il nostro semplice, banale, scontatissimo ge-sto giornaliero di accendere il fuoco sotto una consunta casseruola in cui abbiamo versato due cucchiai di olio extravergine di oliva, tre agli puliti e un chilogrammo di zucchine tagliate (e se non sono zucchine possono essere carciofi, melanzane, broccoli), tanto per fare un esempio, si rivela, allora e magicamente, come la pozione stregata che qualche milione di anni fa ha av-viato uno straordinario processo alchemico evo-lutivo, fatto di molteplici trasformazioni al cui fondale ci saremmo ritrovati un cervello di circa 1350 c.c., con tutto il resto di linguaggio, pen-siero strutturato, arti e tecnica: per approssima-zione.

In principio, la carne cruda aveva spinto ol-tre il confine animale, verso praterie inesplorate del possibile, oltre le Colonne d’Ercole del cono-sciuto mondo genetico di allora, trasformando l’australopiteco in homo habilis; in seguito il fuoco e la cottura avrebbero compiuto il resto, cioè noi in carne ed ossa. Comprese le nuove

abitudini famigliari e sociali intorno allo stesso fuoco, fonte di luce, calore, protezione, e soprat-tutto fonte di cibi più digeribili, più energetici; abitudini composte da nuovi ruoli maschili e femminili, da regole di convivenza e ospitalità, e di reciproca protezione. Addirittura, si dice, quel processo avrebbe prodotto relazioni basate sul cibo e governate da regole più ferree di quel-le sessuali (R. Wrangham, cit., p. 192 s.).

Il fuoco e il cibo all’origine, quindi, del no-stro cervello iperproduttivo, mangiatore a sua volta di grandi energie per il suo miglior prodot-to: il Pensiero. All’origine, anche, di un altro modo di digerire e assimilare per mezzo di un diverso apparato digerente e di un diverso inte-stino, e così anche di un diverso modo di affron-tare i batteri, le tossine e le combinazioni chimi-che (meno tollerante verso alcuni, di più verso le altre). Insomma, un rivolgimento epocale. Fuoco e cibo (crudo agli albori e dopo cotto) per pensa-re di più e saperne di più, e non solo.

Viaggiando in questo filone, mai visto prima di allora, ci siamo avventurati, in seguito, nella girandola delle trasformazioni, manipolazioni, combinazioni degli alimenti, nei loro trattamen-ti, nelle preparazioni, imponendoci la necessità di un nuovo tempo. Che strano! lo stesso tempo risparmiato masticando di meno – per via della cottura – ritornava indietro a pretendere il suo spazio nella raffinatezza e sofisticazione dell’ar-te culinaria. E quanto spazio ha infine appreso! Nella conoscenza degli ingredienti, la loro pre-parazione, le diramazioni inventive, gli additivi da altre esperienze, i mescolamenti; e poi anco-ra altro tempo, nell’allestimento del pranzo, nel cerimoniale connesso, nell’ordine delle portate, nelle convenzioni sociali dei banchetti, di epoca in epoca mutate. Convenzioni diverse per le di-verse occasioni, religiose e civili. ogni ricorren-za incontrava sulla sua strada un cibo appro-priato dando atto dell’inestricabile viluppo in cui siamo caduti, golosamente. Tanto ci nutre il cibo quanto il rito che ad esso s’accompagna

rinforzando legami di parentela o di amicizia, e d’amore. ogni vero incipiente amore culmina in una cena sacrificale, denominata romantica.

Un cibo (quello cotto) onnivoro e che, produ-cendoci letteralmente nei termini che siamo, cioè dotati di quel tanto da renderci unici, ha invaso il nostro Tempo, richiedendone sempre di più; ha scandito le nostre ore e invaso le nostre religioni, forgiandole a sua immagine e somi-glianza. Divieti alimentari, cibi sacrificali, ri-tuali, fino all’apoteosi del cristianesimo dove il banchetto (l’Ultima Cena) è luogo di consacra-zione del corpo umano di Cristo nel pane e nel vino (che divengono cibo per i fedeli che li assu-mono) e, nel contempo, creatore del rito eucari-stico perché i fedeli possano entrare in comu-nione con Cristo e il suo corpo fattosi cibo, in una compenetrazione inestricabile. Il corpo di-vino è pane ed è vino, e tornerà a fondersi con il corpo dell’uomo mortale che li mangerà, facen-done il proprio cibo, e proprio lì, in quell’attimo

di suprema sacralità, di nuovo l’Uomo si ricon-giungerà a Dio.

Ma l’Ultima Cena è anche luogo della rivela-zione del tradimento di uno dei commensali, l’a-postolo Giuda.

Di nuovo in bilico tra l’ascesi alla fonte pri-maria dell’esistenza (divina per antonomasia), attraverso il cibo che ne è il vettore, e la condi-zione umana più spregevole, nella classica forma del tradimento sociale, del gruppo, della fiducia riposta (e che fiducia, trattandosi di uno dei do-dici apostoli), l’uomo mortale si dibatte perduta-mente. L’Ultima Cena diviene, così, luogo di vera rivelazione antropologica. Il figlio di Dio, assunte le sembianze di ciò che di più terreno e carnale (in senso stretto) la Natura offre, cioè l’uomo mortale originato dal fuoco e dal cibo, nel cibo stesso si trasforma e si consuma (è con-sumato, alla lettera) per ascendere, elevarsi: per risorgere e salvare l’umanità. La trasformazione elude la morte: Cristo risorge. Tutti risorgeremo, in un futuro, è la promessa, e date queste pre-messe, si risorgerà dalle ceneri che, in un tale contesto in cui il cibo è trasformazione e stru-mento di trasformazione allo stesso tempo, non possono che essere residui alimentari, e saremo spirito: senza Pensiero e senza Corpo. Forse uni-co e autentico escamotage per vincere il dilem-ma che ci divora?

Il cibo invade il nostro corpo, fatto di Carne e Pensiero. Il nostro creatore ci guarisce e ci am-mala, trasforma i tortuosi pensieri in opposte ca-tarsi: l’anoressia, per tornare a essere spiriti eva-nescenti prima della morte; la bulimia, per esse-re solo corpo che mostra i suoi terribili processi di distruzione chimica e trasformazione. Il cibo come utile alleato per i moti dell’animo, le ven-dette e le vanità, che lo chiamano a testimone delle nostre disavventure o delle nostre fortune.

Atreo, re di Micene, per vendicarsi dell’a-dulterio della moglie con il fratello Tieste offrì a quest’ultimo in un banchetto, apparentemente pacificatore, le carni cotte dei suoi figli; Trimalcione consacra la sua opulenza e genero-sità vanesia offrendo un ricco e fantasioso ban-chetto (Petronio, Satyricon, Frassinelli, 1995); il conte Ugolino, alla vista dei figli morti, è assali-to da un dolore incontenibile, ma il digiuno fu più forte: … Poscia, piú che ‘l dolor, poté ‘l di-giuno (D. Alighieri, La Divina Commedia, Canto xxxIII, 75, a cura di E. Pasquini e A. Quaglio, Garzanti), e secondo un’esegesi il conte Ugolino mangiò i figli morti. Nella scena dante-sca la disperazione più atroce, quella di un padre che assiste alla morte dei propri figli, cede al di-giuno, e il cibo, anche nella forma più esecrabile, resta l’approdo cui rientrare, la scaturigine cui ri-unificarsi per risolvere definitivamente il dram-ma, anzi il dilemma, azzerando – formalmente – ogni evoluzione biologica e culturale.

Quanta eccedente complessità in un atto tanto quotidiano (cibo e cucina): a volte banale, a volte avventuroso, a volte estatico e commo-vente (Il pranzo di Babette, nella versione cine-matografica di G. Axel). Rifugiamoci, allora, di corsa, nel mito, caso mai ci fosse qualcosa di utile per noi.

Narra Esiodo (Teogonia, bUR, vv. 507 s.) che l’ira di Zeus verso il Titano Prometeo, figlio di Iapeto e Climene, originò da una cattiva sparti-zione di cibo; infatti, quando la loro contesa diri-mevano dèi e uomini mortali a Mecone, Prometeo divise un grande bue e nascose, destinate agli uomini, carni e interiora ricche di grasso, conse-gnando a Zeus ossa bianche di bue. Scoperto l’im-broglio Zeus per vendetta sottrasse il fuoco agli uomini, ma lesto Prometeo lo rubò per restituirlo, al ché l’ira furiosa di Zeus si compì. Prometeo fu incatenato e Zeus gli avventò contro un’aquila, ampia d’ali, che di giorno gli mangiava il fegato che durante la notte ricresceva.

Il mito c’informa che in un tempo assai re-moto uomini e dèi mangiavano alla stessa tavola e che la ritorsione di Zeus, di tutti gli dèi il più potente, fu causata dal cibo (dalla sua spartizio-ne, in particolare, tutta in favore degli uomini); e doveva trattarsi di cibo cotto vista la decisione

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Quadrimestrale di letteratura e arti varie – N. 15 – Maggio 2015 5PIATTo FoRTE

di sottrarre il fuoco agli uomini. Perché questa specifica vendetta se a quel tempo gli uomini non ne conoscevano ancora l’uso? Il cibo veniva cotto, quindi, e senza il fuoco gli uomini non ne avrebbero più potuto gustare la bontà, e il sapo-re e l’aroma, e si sarebbero dovuti accontentare di masticare per ore un cibo crudo e poco sapo-rito, così come avrebbe dovuto fare Zeus con le ossa bianche che a lui avevano inteso riservare. Che sgarbo!, bisogna ammettere. E non era solo una questione di gusto e aroma. Privo della cot-tura, il corso evolutivo dell’uomo, nuovo e pecu-liare, avviato sulla strada di un intestino più piccolo e un cervello più grande, sarebbe andato perduto, fermandosi alla tappa di un più rozzo Homo habilis, poco più di un primate, restando nel più generale alveo evolutivo della Natura, com’era fino a quel tempo noto.

Ma il Titano Prometeo, il veggente Prometeo, sostenitore accanito della specie degli uomini mortali e suo benefattore (Eschilo, Prometeo in-catenato, I Meridiani, Mondadori, vv. 436 ss.), intervenne a garantire quel corso evolutivo: e fu, il suo, intervento provvidenziale. Restituì il fuo-co agli uomini e, giocoforza, la cottura; e preser-vò l’evoluzione umana che obbediva, più che a una generale forza evolutiva di Natura, ad un principio ancora più potente. Un principio di struttura e di Caos, e perciò ordinatore e trasfor-mativo, e allo stesso tempo fortemente creativo: il principio evolutivo (M. Mocciola, Dal Cosmo al Caos – Un viaggio stralunato, I Sorci verdi, n. 6, Gennaio 2013). Un principio imprevedibile nei suoi risultati, inespugnabile nel suo percor-so, cui nemmeno Zeus poté opporsi. Il re degli dèi fu impotente contro questa furtiva restituzio-ne (nessun resoconto parla di una successiva e definitiva privazione del fuoco agli uomini), per-ché più forte all’evidenza era il meccanismo in corso: Necessità governa sopra tutto e tutti, sopra gli dèi e sopra il più potente di loro: Zeus (La mia arte è di gran lunga meno potente della ne-

cessità, Eschilo, op. cit., vv. 513-514). Il dado era, orsù, tratto! Ma il banchetto e quel che vi accadde sancì la definitiva separazione tra dèi e uomini; da quel momento non ci sarebbero state più riunioni conviviali e accomunanti, bensì riti sacrificali (ci dice Esiodo che da allora si instau-rò il rito di bruciare ossa bianche sugli altari odorosi agli dèi immortali – vv. 556-557). Ed una profonda frattura. Spaccatura nera e incol-mabile tra uomini e dèi.

Restava a Zeus la magra consolazione di una vendetta contro Prometeo, rivelatosi un per-vicace custode della razza umana, e gli applicò una ferrea legge del contrappasso: a Prometeo incatenato alla roccia, l’aquila dalle ampie ali, simbolo di Zeus, divora il fegato. Se il nuovo corso evolutivo voluto da Prometeo aveva deter-minato per gli uomini mortali una stretta con-giunzione tra il nuovo regime alimentare (la cot-tura del cibo) e l’invidiabile sviluppo cerebrale (e, di conseguenza, del Pensiero), la nemesi esi-geva che al Titano ribelle fosse asportato, anzi più clamorosamente mangiato (divorato), un or-gano (il fegato) tanto fondamentale ai processi chimici della digestione e al processo di depura-zione alimentare (del nuovo cibo). L’aquila, sim-bolo di ingegno ed elevazione spirituale e intel-lettiva (il Pensiero, quindi), divora il fegato, se-parando ciò che il principio evolutivo aveva osa-to unire simbioticamente.

Risalendo a ritroso i millenni, le rappresen-tazioni sembrano convergere sul cibo ed il suo ruolo antropologico: nella separazione come nel-la riunificazione.

Il frutto di un albero (cibo) ed un non violato (dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiarne, comandò Dio all’Uomo - La bibbia, Genesi, 17) hanno separato l’uomo dal giardino dell’Eden (dalla Natura rigogliosa e abbondante): la conseguenza sarà la conoscenza del bene e del male, la mortalità; ergo: la vita in

bilico sopra l’eterno dilemma (vita/morte, bene/male, etc.).

Carni e interiora ricche di grasso hanno sepa-rato l’Uomo dagli Dèi greci e (temporaneamente) dal possesso del fuoco, elemento primordiale, fonte di trasformazione di quello stesso cibo, forse svolta decisiva e nuova nell’evoluzione.

Pane e vino sono gli ingredienti di un ban-chetto che sanciranno l’imminente separazione tra il Figlio di Dio e l’umanità, ma sono anche gli elementi costitutivi del rito eucaristico per la trasformazione del corpo di Cristo in quello stesso cibo, affinché colui che ne mangerà possa riconciliarsi con Colui che ci ha salvato dalla nostra perdizione originaria.

Addirittura, nel mito di Prometeo come nell’Ultima Cena il contesto formale degli eventi risolutori è il medesimo: un banchetto. E non solo, in entrambi i casi all’aspetto conviviale e di reciproca fiducia, si aggiunge, quale elemento imprescindibile (essendo la causa prima del successivo sviluppo degli accadimenti) l’ingan-no, il tradimento infido e inatteso (il Titano Prometeo, alleato di Zeus contro il padre Crono, tradirà lo stesso Zeus; Giuda, uno dei dodici apostoli ammessi alla cena, tradirà Gesù).

Ma una sorta di tradimento, in verità, c’è an-che nella genesi veterotestamentaria, quando Adamo ed Eva contravvengono al comando di Dio di non mangiare dell’albero della conoscen-za, pena la mortalità (… nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente morire – La bibbia, Genesi, cit.). Sarebbe da approfondire se il tradimento è stato verso Dio (che pare elargire più un consiglio che un ordine) oppure verso la propria Natura Umana, che da uno stato di bea-titudine si trasforma, dopo l’atto vietato, in uno stato di angosciante certezza e visione della pro-pria mortalità (uno stato ben conosciuto da Prometeo il quale interviene per lenirlo: Gli uomi-ni avevano sempre, fissa, davanti agli occhi la morte: io ho fatto cessare quello sguardo – Eschilo,

Prometeo incatenato, cit., v. 248). Ma è questione troppo complessa da affrontare qui e ora.

Cibo e tradimento insieme, quindi, per san-cire la separazione dell’Uomo da Dio e dalla Natura, e per sancirne una possibile riunifica-zione. La scissione nasce anche dal cibo, secon-do i dettami di Necessità, e nel cibo cerca la sua soluzione riunificatrice per assurgere alle altez-ze dello Spirito (l’eucaristia). Il cibo, fulcro della vicenda, diventa – allora – progetto di un rito sacro funzionale a superare la dicotomia ontolo-gica dell’Uomo (sulla funzione essenziale del rito nella specie umana: M. De Carolis, op. cit., p. 119 s.).

Il cibo danna e salva, trasforma ed è trasfor-mato, e, soprattutto, separa l’Uomo dalla Natura offrendo potere e coscienza: fenditura incolma-bile, onnipresente. Il cibo apre la strada di un Pensiero insondabile nei suoi anfratti, e rende l’Uomo consapevole della morte, offrendosi nello stesso tempo, nell’eucaristia cristiana, come suo strumento di superamento e salvezza.

conclusione (provvisoria)Portatori di un dilemma faticoso, ci muovia-

mo saldamente sopra due soli arti, e con questi abbiamo percorso l’intero emisfero, arrovellan-doci sul nostro passato e sull’imprevisto futuro, con la morte davanti agli occhi e nel cuore cie-che speranze (Eschilo, op. cit., vv. 248-250). Ci arrovelliamo sulla nostra eccezione e la nostra imperdibile solitudine. Abbiamo contezza di molto, in costante espansione, senza venirne mai definitivamente a capo e nella ritualità del gesto continuiamo a mangiare cibi cotti e crudi, nella tradizione o nella innovazione, nella ripe-tizione o nella fantasia del quotidiano, alimen-tando ulteriormente questa estrema singolarità.

Finché qualcosa non cambierà, senza preav-viso.

Michele Mocciola

toRtA DI MANDoRLEE CARotE

Questa è una ricetta che va bene anche per i celiaci perché è senza farina.

ingredienti250 gr. di mandorle con buccia tritate finemente200 gr. di zucchero300 gr. di carote grattugiate finemente3 uova50 gr. di cacao amarouna tavoletta di cioccolato fondente da 200-300 gr.un pizzico di salepoco latte di soia o mandorlauna punta di bicarbonato

PreparazioneSeparare i tuorli dagli albumi.Nel mixer montare gli albumi a neve e metterli in una terrina capiente.Montare i tuorli con lo zucchero fino a renderli spumosi, aggiungere le

mandorle e le carote, il pizzico di sale, il bicarbonato e il cacao, mescolare bene, e se l’impasto è asciutto aggiungere un goccio di latte, poi mettere tutto nella terrina degli albumi e mescolare delicatamente dall’alto in basso per non smontare l’impasto.

Versare il tutto in una tortiera con bordo a cerniera rivestita con carta da forno (o imburrata se volete).

Cuocere in forno già scaldato per 45-50 minuti  a 160-170 gradi.Quando la torta si sarà raffreddata mettetela su una gratella e colateci so-

pra il cioccolato fondente fatto sciogliere con poco latte.

A questo punto… Mangiatela!!!

Betty Paniz

Emergo dall’esergo delle ere,incredibile tempo trascorso a scrostare scorza di dossorinnovando cima e fondo.

Nasco ora, chiara d’uovo,uomo silvano, geniale sileno, impubere archetipoprocacciatore, pronto a divorare.

E voracemente vagoper ogni verso, assaggiatored’esperienze, trangugiatore,vero ghiottone tra i viventi.

Intraprendo, imparo, m’educo,mi formo cuoco, del fuocosono ormai ammaestratoree re – trasmutatore di materie.

Invento l’arte e i riti:trituro e arrostisco econdisco, apparecchio,servo esaurisco conservo.

Sono sguattero segregatonel travaglio culinario,all’arroventata fornace degli strati di portate.

Eppur sono commensale,il signor degustatorein godurioso congresso,devoto al desinar soave.

Ma l’abbandono al ciboè lavoro d’altra fabbrica,interna elaborata alterazionedal masticare all’espellere.

Mi sorprendo immersonel mistero metabolico,scabroso circolod’ingestione digestione deiezione.

Parte di processi fisici,permango pervertitoredi realtà, temerariocuciniere universale.

Poiché mia propria naturaè spirito d’esperimento,irregolare gola di cambiaree assaporare l’insperato.

Io insaziabile adultero,sapiente nel sofisticare,sovrano su ogni sapore:a mio gusto – non c’è scampo.

SPIRIto CULINARIoPoEMEttodi Massimiliano Peroni

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I SORCI VERDI6 IN TAVoLA

L uigi Passarin non aveva mai creduto al vecchio adagio secondo cui un po’ di sale risolverebbe ogni proble-ma; anzi, riteneva che l’eccesso di sale fosse l’unico difetto della cuci-

na contadina. In seguito ai fatti di Regalpetra, tuttavia, la sua opinione mutò non poco.

Sebbene nel settore abbondassero critici ar-guti pronti ad analizzare nel profondo fatti cono-sciuti per sentito dire, nessuno riuscì mai a spie-gare il suo successo. Ghiotto non era, poiché era rinomato per mangiare poco; né soffriva dell’edo-nismo affliggente molti talenti dell’alta cucina: come dichiarò un giorno al disgustato cronista di una testata di settore, la pietanza più buona da lui mai assaggiata era la polenta della nonna, con grossi pezzi di asiago fusi e contorno di lentic-chie. Poiché non si potevano insinuare raccoman-dazioni, Passarin discendendo da almeno dieci generazioni di contadini salizzolesi, alcuni soste-nevano che la fama internazionale ottenuta fosse merito della sua personalità; ciò che, però, non reggeva all’analisi dei fatti: chiunque lo conosces-se poteva dirlo persona tranquilla, di parole po-che e, per giunta, mai memorabili. bisogna dun-que considerare l’eventualità rara, ma non impos-sibile, che Passarin avesse successo perché sape-va fare bene il proprio lavoro. Sotto le sue mani i cibi comuni assumevano sapori inediti; forse fu ciò a ispirare il suo nome al governatore della re-gione Sicilia quando si trattò di organizzare la cena di Regalpetra.

Quando la telefonata arrivò, Luigi zappava l’orto della casa di famiglia a Salizzole. La mo-glie gli passò il ricevitore dalla finestra della cucina mentre lui si lavava le mani con la canna dell’acqua. La conversazione durò circa un mi-nuto, ma la tensione ristagnò a lungo.

“Che cos’è ’sta storia dell’uomo più potente della Sicilia?”, chiese la moglie qualche ora più tardi, stirando mentre il marito in pantofole sor-vegliava la cottura dei ceci.

Luigi spiegò che, dovendo incontrare l’uomo più potente della Sicilia, il governatore aveva organizzato una cena presso palazzo Lojacono, così chiamato dal nome della nobile famiglia acragantina che nel Settecento l’aveva eretto a Regalpetra. Sarebbe stato bello lavorare in un luogo simile; inoltre, la ben nota leggerezza del-la regione nel gestire i fondi pubblici si sarebbe concretata in un ingaggio sostanzioso.

Per nulla impressionata, la moglie lo fissò severa. “Gigi, ma tu sai chi è l’uomo più potente della Sicilia?”

Lui si discostò dai fornelli e le baciò la pun-

ta del naso. “Pregiudizi da settentrionali”, la rassicurò.

Quella sera, a cena, erano ospiti i genitori di lui. Una volta sparecchiato, mentre Luigi distri-buiva le carte per la briscola, sua moglie sollevò il problema in presenza dei suoceri. L’improperio che Passarin senior lanciò, lasciando cadere le carte sul tavolo, la illuse di aver trovato un alle-ato; ma l’istante successivo il vecchio protese una mano larga come un badile e strinse orgo-glioso la spalla del figlio. “Dicevo, io, che ho un bravo buteo. Pure i terroni lo vogliono!” Con ogni evidenza, un apprezzamento da parte dei buzzurri che vivevano a sud dell’Appennino si-gnificava per lui assai di più di quelli d’oltralpe e oltreoceano.

A dispetto delle angustie della moglie, quin-di, Luigi telefonò in Sicilia per accettare l’inca-rico; non prima, però, di aver vinto la briscola, compito in cui venne agevolato dall’aver visto le carte che il padre sorpreso aveva lasciato cadere sul tavolo.

Il volo per Palermo partiva in una lucida mattina di settembre. Nella sala partenze, la moglie gli si gettò al collo. “Fai attenzione”, dis-se, dopo averlo stretto a lungo. “Se ti sparano, mica ho un secondo Gigi in solaio”. Lui le baciò la punta del naso e risero insieme.

Quando l’aereo scese su Punta Raisi per po-sarsi al Falcone borsellino, un’automobile della regione lo aspettava. Trascorse il viaggio scru-tando i Sicani oltre il finestrino: erano molto di-versi dalle distese di pianura e nebbia che per lui significavano casa, eppure gli piacquero. Le brulle pendici su cui la strada procedeva a ten-toni, contornata di arbusti riarsi, parevano auto-revoli e grezze insieme, come le braghe imbrat-tate di olio di trattore che, lui bambino, suo pa-dre appendeva in granaio. Poiché i cartelli stra-dali annunciavano l’approssimarsi di Agrigento, estrasse un blocco di fogli e cominciò ad anno-tare gli spunti che il paesaggio gli suggeriva per la cena. Una volta in albergo, telefonò alla mo-glie e la rassicurò circa la propria perdurante sopravvivenza.

Per incontrare il governatore dovette atten-dere due giorni. Tornato da una lunga passeg-giata che l’aveva portato a Porto Empedocle, nell’atrio dell’albergo gli vennero incontro due segretari e un uomo che sfoderò uno di quei sor-risi a dispetto dei quali i politici riescono talvol-ta a vincere le elezioni. Le prime parole furono qualcosa di simile a: “Spettabile Passarin, oltre-modo la ringraziamo per aver con la vostra vere-condia voluto illustrare…” Ma Luigi si perse ben presto a studiare la tappezzeria. Una volta arieggiata la bocca a proprio gusto, il governato-re lo invitò in un salotto privato per definire gli ultimi dettagli del contratto. Quando si salutaro-no, il volto cialtrone si fece serio d’un tratto. “Al telefono vi avevo detto che il ricevimento sareb-be stato segreto. Non avete divulgato nulla, spe-ro”. Luigi annuì.

Palazzo Lojacono dominava l’intera Regalpetra, perfino i campanili delle sue famo-se parrocchie, che dal parco si coglievano in un unico sguardo. Tuttavia, quando vi giunse, nel pomeriggio del giorno seguente, Passarin non indugiò sul panorama: ammirò per qualche istante l’imponente scalinata neoclassica che conduceva al piano nobile; ma a dieci minuti dall’arrivo già ispezionava le cucine.

Per prima cosa volle conoscere il personale con cui avrebbe lavorato. Quando li radunò vide che si trattava di una decina di ragazzi giovani e sottopagati. Alla stretta di mano con cui era solito valutare le persone, tutti abbassarono gli occhi. Solo l’ultima ragazza sostenne il suo sguardo.

“Come ti chiami?”, sorrise Passarin.“Rosalia Cannella”, rispose lei, impenetrabile.“Mi sembri una tipa determinata”.Negli occhi marroni della ragazza, la diffi-

denza fece luogo al dubbio. Come se non si at-tendesse una tale confidenza o si chiedesse come avesse fatto a indovinare. Luigi fece un passo indietro e rivolse una domanda generale: “Per prima cosa, dov’è la sala del ricevimento?”

Nessuno rispose. Solo una voce, qualche

istante dopo, suggerì: “Al primo piano”.“Grazie, Cannella. Vuoi farmi strada?”Avvolta nel grembiule bianco da cameriera,

la ragazza lo precedette lungo la scalinata. La sala da pranzo quadrata aveva al centro un am-pio tavolo rotondo sopra cui era sospeso un lam-padario di cristallo. Su tre lati, pareti decorate a imitazione dei templi della valle ospitavano line-ari specchiere; a meridione una vetrata dava sul parco del palazzo. L’impressione fu tale che Passarin dovette dominarsi per non ristare, am-mirato. Recedette in un angolo, lasciando la ra-gazza sola in mezzo alla sala. “Tu come prepare-resti la tavola?”, chiese.

Lei impiegò qualche istante a muoversi. Un tempo la servitù portava lì piatti, posate e bic-chieri da una stanza attigua: facendo la spola, spiegò come li avrebbe disposti se ne avesse avuto la responsabilità.

“Niente condizionale”, asserì Passarin. “Ne hai la responsabilità. Non guardarmi così: hai buon senso, mi fido di te”.

Dopo decenni di polverosi silenzi, nei giorni seguenti palazzo Lojacono si animò di inser-vienti alacri; eppure rimase silenzioso. Luigi trovava il contegno degli assistenti misurato, for-se perfino troppo: l’essenziale dimorava sempre inespresso. Durante le telefonate serali rassicu-rava la moglie per convincerla che le possibilità che qualcuno gli sparasse stessero diminuendo; tuttavia, molti dettagli gli sfuggivano. Un giorno, transitando davanti a un verone, trovò Rosalia Cannella assorta a scrutare i sassi calcinati che, al di là del vetro, prendevano il nome di Regalpetra. Si accostò, silente. Contro lo sfolgo-rare del meriggio, il profilo della ragazza era imperscrutabilmente doloroso.

Mentre le pulizie avanzavano, Passarin co-minciò a elaborare ciò che i suoi colleghi defini-vano creazione artistica e che lui chiamava cu-sinàr. I profili brulli dei Sicani e il ricordo delle sue pianure gli avevano suggerito una cena che unisse sapori meridionali e settentrionali. Aveva purtroppo sottovalutato alcuni aspetti. Quando chiamò la signorina Cannella per farsi illustrare la preparazione delle sarde a beccafico, a metà della lista degli ingredienti si sentì male e dovette sedersi. Fu tentato di espungerle dalla lista.

“Ve lo sconsiglio”, ammonì la ragazza. “Sono il piatto preferito di Vito Scotellaro, l’o-spite del governatore. La loro assenza lo irrite-rebbe”.

Passarin la fissò, incredulo. “Come fai a sa-perlo?”

“Nella descrizione diramata dalla polizia, fra i segni particolari c’è la passione per le sar-de a beccafico”.

Avrebbe affiancato al pesce il suo celebre secondo: carne di vitello preparata secondo una ricetta segreta; talmente segreta che non la ri-cordava mai e improvvisava ogni volta. Il primo, invece, sarebbe consistito in polenta abbinata a caciocavallo e funghi delle Madonie.

I giorni successivi trascorsero nell’elabora-zione del cusinàr. Alle otto di sera del giorno fissato, preceduto da una colonna motorizzata di guardie del corpo, giunse il governatore. Sceso dall’automobile, si avviò verso i camerieri schie-rati a riceverlo. Ma la vera attrazione della sera-ta era il secondo ospite. Luigi lo comprese dal nervosismo che, fomentato da un ritardo dal pre-ciso significato strategico, innervava l’attesa dei presenti.

Verso le nove meno dieci, un subitaneo bru-sio percorse il parco. In fondo alla valle che smoriva nel crepuscolo, dei lampeggianti balu-ginarono. Scortata attraverso Regalpetra da uno scenografico corteo di camionette dei carabinie-ri, un’automobile blindata si arrestò nel parco della villa, ove l’apertura di una portiera poste-riore rivelò a tutti l’atteso. Posò i piedi sulla ghiaia della villa e non si mosse, come se non fosse abituato a simili meschinità. Fu il governa-tore ad andargli incontro, abbracciandolo e ba-ciandolo. “I miei rispetti, Don Vito”.

“I miei rispetti, Don Rosario”, ribatté algido Scotellaro.

Mentre i rispettivi seguiti bonificavano l’edi-

ficio, i due galantuomini si avviarono confabu-lando verso la scalinata e giunsero senza fretta nella sala da pranzo, ove la signorina Cannella porse loro la carta delle portate. Il governatore scorse la lista dei cibi e ammiccò al cuoco. “Vedo che onoraste il genius loci”.

“Non so chi sia costui, ma sono felice che si senta onorato”, si schermì Passarin prima di riti-rarsi per sovrintendere la preparazione. Quando giunse in cucina, gli aiutanti si affannavano su-gli antipasti. La polenta già ribolliva sui fornelli. Da molti anni, ormai, Passarin non si emoziona-va più: cucinare lo appassionava sempre, ma il piacere si era fatto più sottile. Quella sera, tutta-via, mentre sorvegliava le sarde a beccafico cuo-cersi nel forno secondo i costumi palermitani, il cuore batteva con più impeto del solito. Forse lo suggestionava il palazzo, la nobiltà delle alte sale ormai ridotte a un guscio vuoto per ricevi-menti; o forse si sovveniva delle parole della moglie. “Gigi, ma tu sai chi è l’uomo più potente della Sicilia?” Mentre condiva la carne, la mano che reggeva il cucchiaino dell’olio tremò. Rosalia Cannella entrò sbattendo la porta.

“Che cosa succede?”La ragazza ansimò, stropicciando le mani

nel grembiule. “Mentre servivo le sarde ho colto una frase di Scotellaro”, singultò. “Si lamenta del cibo insipido”.

Lo sguardo di Luigi vagò desolato sulla car-ne preparata secondo la sua ricetta segreta, ce-lebre in tutto il mondo per il sapore delicato. Per la seconda volta si sedette, sentendosi mancare. Quando riemerse col volto dai palmi delle mani, la ragazza lo fissava. “Potremmo aggiungere del sale. Funziona sempre”.

Luigi scosse il capo. Il sale si utilizzava so-prattutto per coprire sapori sgradevoli: lui ne usava il meno possibile per sottolineare che nei suoi piatti non vi fosse nulla da nascondere. Se Scotellaro non gradiva il cibo, però, lui avrebbe gradito ancora meno risvegliarsi nel cemento. Forse il potente, rabbonito dalle sarde, si sareb-be accontentato della rozza soluzione.

“Va bene. Pensaci tu”.Mentre si voltava dall’altra parte, la ragazza si

precipitò in dispensa, prese una boccetta e ne river-sò il contenuto sulla carne di vitello che poi portò al piano superiore. Due minuti dopo era di ritorno

“State tranquillo”, sorrise, sicura di sé. “Non correte alcun rischio”.

C’era solo da sperarlo. Se ne andò la carne, se ne andò la cuccìa preparata per il dolce, se ne andò la macedonia di ananassi e cachi vaniglia. La cena era finita e Luigi non aveva scuse per rinviare il destino.

A dispetto delle conseguenze giudiziarie, quanto accadde nella sala da pranzo nei minuti seguenti non è mai stato del tutto chiarito. Quando vide il cuoco entrare, il governatore si volse sulla sedia e aprì le braccia. “I miei com-plimenti, Passarin!” Difficile dire se fosse entu-siasmo, oppure una recita a uso di Scotellaro che, con lo sguardo metallico reso famoso dalle foto segnaletiche, non mostrava interesse per la questione.

“Avete gradito?”, balbettò Luigi. “Ne sono felice”.

“Poco forti le prime portate, se mi permettete. Ma, alla fine, la cena ci ha onorati. Che cosa c’è di meglio per un onorevole e un uomo d’onore?”

Scotellaro fissò il governatore. “ora, se non vi spiace, dovremmo parlare dell’affare di Mi…”

In quell’istante, una tremenda flatulenza scosse la sala. I presenti si guardarono, imba-razzati. Un secondo boato fece tremare bicchieri e lampadar io. I l governatore sbiancò. “Scusate… io…” Fece per alzarsi, ma un terzo attacco lo colse. Un suono meno aereo e più li-quido. Mentre nuovi boati lo squassavano e dai pantaloni di lino colava un reflusso prima terri-gno, poi rossastro, il politicante crollò a terra. Rovesciata la sedia, Scotellaro fu su di lui. “Chiamate i miei uomini”, gridò a Passarin. Ma, non appena finì di parlare, un peto colse anche lui. Luigi, impietrito, poté solo guardarlo acca-sciarsi ed espellere gli intestini con flatulenze immani. In quel momento i carabinieri, allar-

SALE qUANto BAStA

oDE AL BRUSCANDoLo1

o bruscandolìn, o bruscandoletocome ti zé bon, come ti zé beoco’2 te cressi ai bordi del fiumeseoe visìn a un boschèto fè el tò lèto.

T’indormenzaressi ben nel risotoe se in verità on fià3 ti zè amareodopo che te cosi piano pianeomi ti te finisso in quatro-e-quatroto.

Laggiù nella casetta el tò profumobrusa al fogo del’altare preferito,co’ fumi in pentola te vol ognuno

drento al sò piatto, dritto spedito.Vedarè4, sora la tòla5 servito,che a fiatar nol provarà nisuno.

Giacomo Cattalini

1 Bruscandolo = asparago selvatico2 Co’ = quando 3 On fià = un poco4 Vedarè = vedrai5 Tòla = tavola

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Quadrimestrale di letteratura e arti varie – N. 15 – Maggio 2015 7IN TAVoLA

GRAtICoLAMAStERCHE?

C’ erano un tempo tre cuochi di fama assai diffusa e indubbiamente meri-tata. La loro abilità andava di pari

passo con la loro autorevolezza. Essi vivevano gli spazi confortevoli della più attrezzata delle cucine e disponevano della dispensa più ricca d’ogni desiderabile vivanda; ma, una volta tan-to, non erano lì a preparar pietanze.

Il compito cui erano chiamati era ben al-tro: si trattava di giudicare e di selezionare una moltitudine ambiziosa di genti accorse al loro cospetto per tentar di emularne analoghe fortune.

Presso i fornelli dell’esemplare cucina, in-fatti, si era radunata una massa sconfinata di persone che, provenendo da ogni dove, si eran offerte per cenno proprio alle singolari prove di un concorso per doti culinarie.

Giorno dopo giorno, settimana dopo setti-mana, piatto dopo piatto, la folla venne pro-gressivamente sfoltita dall’implacabile trio. Ne rimase un gruppetto, il più virtuoso, a sua vol-ta alleggerito e ridotto a pochi concorrenti, ciascuno ormai chiaramente distinguibile fi-nanco per nome proprio. Dispute fratricide, cruente disfide a suon di intingoli e sformati, incroci di coltelli senza esclusion di colpi. Ne cadde uno dei migliori sull’insidiosa imbotti-tura dei suoi panini. A tre soltanto fu data so-pravvivenza. Ma una pizza “al contrario” tra-ditrice ne lasciò poi due soli in intimo duello. E, sconfitto anche l’ultimo rivale con la com-plicità delle tre dive – cernia, seppia e anguil-la –, ecco infine a prevaler l’Eletto!

La televisione, come ovvio, accorse a ri-prendere ogni incontro tra giudicanti e giudi-cati, mandando in onda le tappe più significa-tive dell’insolito agone; proiezioni regolari delle prove selettive, non senza accurati inter-mezzi sulle vicende personali degli accorati aspiranti, alternati alle sicure camere di con-siglio dei tre cuochi ormai affermati.

E così via a ripetizione, anno dopo anno, a

diffondere la celebrazione del rito per un nu-mero sempre crescente, esponenziale, di fedeli adepti da divano e telecomando.

Con queste parole ci sentiamo di passare agli annali il più incredibile fenomeno media-tico di sempre sul tema del cibo. E su questo ben pochi pare possano obiettare.

Sennonché un piccolo dubbio apre la stra-da a una più seria riflessione.

Chi infatti, tra i militanti da divano e tele-comando, potrebbe affermare di aver mai assa-porato un piatto cucinato nel corso del pro-gramma, di averne apprezzato profumi o aromi, di averne saggiato la materiale consistenza?

ovviamente, nessuno1!E, ad un tempo, proprio nessuno potrebbe

sostenere di avere appreso compiutamente – tanto da poterlo riproporre in casa propria – lo svolgimento dinamico di una delle ricette ese-guite nel corso delle prove.

Come poter dire, dunque, che il tema del cibo è stato il fulcro della fortunata trasmissione?

Nel tentativo di trovare una consona rispo-sta al quesito, proviamo ad assumere dignità scientifica e a seguire un principio cardine dell’alimentazione quale è quello dell’incorpo-razione2.

In altri termini, si tenga ben presente quel che è stato introdotto nel nostro corpo all’esito della saga televisiva, cosa ci è rimasto dentro di questa competizione gastronomica dei no-stri giorni.

In via parallela, si cambi prospettiva sulla terna di figure dominanti ogni puntata, si pro-vi a “girare la frittata” dalla parte più consue-ta (si superi pertanto la simulazione di ruoli debitamente artefatta dal mutamento di abiti imposto ai protagonisti della vicenda) e si ten-ga conto del fatto che i tre cuochi famosi han-no meritato d’esser prescelti proprio in quanto tali, poiché maestri nel cucinare, perché adusi alla migliore elaborazione di elementi comme-stibili, conoscitori dell’arte di trattar materie

prime a fini di massima gradevolezza.A contrariis, si badi bene che nulla si è

mai saputo del loro palato, delle loro compe-tenze nell’assaggio, della loro effettiva procli-vità alla degustazione.

Et voilà il fondato sospetto che essi siano stati destinati nei luoghi del reality per fare ancora una volta la loro opera di chef, per sfor-nare gustose pietanze, e non invece per espri-mere giudizi sui manicaretti altrui (ché, in caso contrario, sarebbe forse stato meglio con-vocare i più rinomati mangiatori del pianeta…e forse, un domani, ci sarà spazio anche per costoro).

Ma, se così è, risulta allora breve il passo per individuare il vero cibo della trasmissione.

Entrati in massa nella spaziosa cucina grazie a una ricca spesa stagionale, stipati or-dinatamente nelle dispense dei locali, “decon-gelati” all’occorrenza e scartati, di volta in volta, se inidonei al piatto finale, i concorrenti hanno subito mostrato il loro ruolo nutriziona-le nel programma.

Scelti per provenienza territoriale, cono-sciuti nelle loro proprietà “organolettiche” grazie alle confidenze personali raccolte qua e là dai tre sapienti cuochi, affettati in un ampio spettro di note attitudinali, essi sono stati sot-toposti ai tempi ristretti della ricetta televisi-va, saltati e spadellati freneticamente da un fornello all’altro, assemblati tra loro in miscele più o meno ristrette, infine rosolati ad alte temperature (non a caso sono comparsi segni evidenti di evaporazione sui loro strati cutanei esterni) e macerati “in concia” nelle lunghe attese del giudizio.

Ecco quindi l’incoronazione dell’Eletto, pietanza finita suprema che meglio di tutte è uscita dal lungo processo di trasformazione gastronomica.

E a riprova che il piatto servito ai fans del piccolo schermo si è composto di carne umana basti riprendere il principio d’incorporazione.

La partecipazione dello spettatore ha in-fatti trovato culmine con l’immedesimazione nell’uno o nell’altro concorrente, con l’interio-rizzazione dei suoi gesti, l’assimilazione delle sue doti fino al perfezionamento del processo empatico.

A nulla contano le qualità dei piatti prepa-rati!

Interessa solo l’uomo, le sue fibre, magari condite in gustosa salsa agonistica.

Il rito è indubbiamente cannibale, ma non c’è da sconvolgersi, in fondo siamo animali on-nivori.

Una sola avvertenza conclusiva: non si ac-ceda con eccessiva disinvoltura alla versione “junior” del programma.

Simone Medioli Devoto

1 E tanto vale a rendere questo format televisivo del tutto speciale rispetto alla generalità degli altri – imperniati su prove di canto, di ballo, di scrittura o altro – ove le capacità dei concorrenti sono riscon-trabili dallo spettatore e perciò ampiamente suscet-tibili di pubblica valutazione.

2 Principio comunemente espresso dal brocardo “sia-mo quel che mangiamo” e centrato sull’osservazione per cui il solo atto del cibarsi, tra gli altri, implica il necessario passaggio di cose dall’esterno del nostro corpo al suo interno, dal fuori al dentro insomma. Ne consegue, si dice, che l’incorporazione fonda l’i-dentità stessa giacché gli alimenti che ingeriamo forniscono non solo l’energia che il nostro corpo consuma, ma anche la sostanza stessa di questo cor-po, nel senso che contribuiscono a mantenere la composizione biochimica dell’organismo. Si legga al riguardo e, più in generale, con riferimento all’ana-lisi dell’atto del “mangiare”, C. Fischler, L’onnivoro, Il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, Mondadori, 1992.

mati dalle detonazioni, irrompevano in sala.In pochi minuti il trambusto dilagò ovunque.

Luigi si ritirò nelle cucine, si abbandonò su uno sgabello e bevve dell’acqua. Ci mise un po’ a ri-prendersi. Avrebbe voluto parlare con Rosalia Cannella; ma per quanto la cercò non gli riuscì di trovarla. Vagando per il palazzo, gli parve di scorgerla di spalle, in fondo a un corridoio affol-lato di carabinieri. Quando riuscì a farsi largo non la vide più. Né poteva giurare che fosse dav-vero lei: si trattava di un tipo molto comune da quelle parti. Inoltre ora l’edificio brulicava di gente, in divisa e senza. Troppa perché l’incontro fosse segreto come il governatore pretendeva.

Trovandosi le forze dell’ordine già sul posto, le indagini cominciarono subito. In seguito a impre-cisate pressioni, la mattina successiva un ram-pante pubblico ministero di Agrigento annunciò che un simile crimine contro le istituzioni non sa-rebbe rimasto impunito. Gli inquirenti erano con-vinti che il duplice omicidio fosse stato perpetrato tramite avvelenamento del cibo. Prima ancora di lasciare Regalpetra, Luigi Passarin risultava in-dagato per il reato di attentato terroristico con fi-nalità eversive. Si può immaginare la reazione della moglie quando apprese dai giornali che il marito, assoldato dalla mafia per uccidere il go-vernatore della Sicilia e il noto filantropo Vito Scotellaro, si trovava in carcere.

Per incastrare il bieco sicario venuto dal nord, grande speranza era riposta nell’autopsia. Quando le analisi terminarono, però, una giova-ne dottoressa dagli imperscrutabili occhi marro-

ni annunciò, con quella persuasiva reticenza che solo i siciliani sanno, che non erano state rinve-nute sostanze a conferma dell’avvelenamento. Ciò, insieme all’assenza di movente e prove, compromise il quadro al punto che, malgrado la fantasia del magistrato, ogni accusa cadde. Luigi fu rilasciato con molte scuse e un vassoio di can-noli omaggio di un agente della squadra mobile suo ammiratore. I giornalisti presero a scrivere l’esatto contrario di quanto sostenuto fino al giorno prima e lo ripeterono per qualche setti-mana. Poi venne eletto un nuovo governatore mentre il luogotenente della famiglia Scotellaro riprendeva gli affari da dove erano rimasti.

Le indagini sulla cena di Regalpetra non sono mai state chiuse. L’unico ad avere un’idea chiara è Passarin senior: durante i briscoloni che infiam-mano le serate del bar Sport di Salizzole, con l’au-silio di un po’ di vino bianco suole raccontare come il figlio abbia decapitato Cosa Nostra. Ma non lo ripeterebbe mai da sobrio.

La carriera di Luigi non ha subito danni. Anche per lui nulla è cambiato. Quasi nulla, in-vero: quando torna da un viaggio di lavoro sua moglie, benché affaticata dalla gravidanza, esat-tamente come un tempo prende possesso dei for-nelli. “Già lo fai per lavoro… Ne avrai a noia, povero cucciolo!” Lui si siede al tavolo e la guar-da. Ma ora, quando lei si accinge a salare la car-ne, invece di richiamarla tace e sorride, impene-trabile.

Matteo Verzeletti

Pane all’uvetta © Betty Paniz

Page 8: I SORCI VERDI · veleno (cum veneno, recita una magnifica locu-zione latina, come ad eleggere questa pratica ... poteva privarsi, ma non dell’unica fonte di so-pravvivenza necessaria.

I SORCI VERDI8 IN TAVoLAI SORCI VERDI8 IN TAVoLA

Il logo dell’associazione I bagatti è di Roberto bellini.

Tutto il materiale inviato, tramite e-mail o via posta, verrà visionato dal Comitato di Redazione che de-ciderà insindacabilmente sulla sua pubblicazione. Il materiale inviato non verrà restituito.

La REDaZionE Giacomo cattalini Laureato in Politica Inter-nazionale e Diplomazia. Dopo un’infanzia seria e giocosa e un’adolescenza tenace, si divide tra la musica e la scrittura. Adora il corsivo, non ama parlare di sé. Componente del Consiglio Direttivo dell’associazione culturale I bagatti.

alberto clamer Classe 1984, libraio, stori-co e amante delle chicche.

Simone Medioli Devoto Nasce a Parma nel 1975, abita attualmente a brescia dopo aver vissuto in altre città del nord, del centro e del sud, coltiva ludicamente e con dilettantismo l’hobby della curiosità.

Michele Mocciola Coltiva con assiduità l’ar-te del pensiero, e la scrittura quale necessaria contingenza. È impegnato a costruire una bi-blioteca personale al di fuori di mode transito-rie e facili intellettualismi. Vive e lavora a bre-scia. È tra i fondatori della rivista e componen-te del Consiglio Direttivo dell’associazione cul-turale I bagatti.

Mattia orizio Mi piace leggere, faccio i bei viaggi, gioco bene a backgammon. Il mio scrit-tore preferito è Giorgio Manganelli.

Massimiliano Peroni Laureato in Filosofia. Scrittore, libraio, bibliofilo, nonché appassiona-to di cinema. È tra i fondatori della rivista e at-tuale Presidente del Consiglio Direttivo dell’as-sociazione culturale I bagatti.

coLLaboRatoRi Di quESto nuMERobetty Paniz Casalinga, cuoca per passione, lettrice per diletto.

arianne Peroni originaria di brescia, abi-to a birmingham in Inghilterra dove mi sono laureata in Comunicazioni Visive. Lavoro per il Mac Arts Centre come assistente tecnico dei Media. Sono vegana, ho un interesse per la cu-cina macrobiotica e la cucina indiana che adat-to spesso a quella italiana.

Matteo Verzeletti Classicista e traduttore, si interessa di teatro e letterature comparate.

***

Il fumettista francese Étienne Davodeau e Richard Leroy, di professione viticoltore, sono i protagonisti del libro Gli ignoranti – Vino e libri: diario di una reciproca educazione, scritto e disegnato dallo stes-

so Davodeau e pubblicato da poche settimane in Italia per i tipi di Porthos edizioni.

Les ignorants è una graphic novel che parla dell’incontro tra due mondi che in apparenza non hanno nulla in comune, il fumetto e il vino, ma che attraverso i due personaggi principali trovano più punti di contatto di quanto ci si pos-sa immaginare. Étienne, che nel corso degli anni ha pubblicato diversi fumetti dedicati ai cambiamenti del mondo del lavoro e alle conse-guenze che questo comporta nella vita delle per-sone (un esempio su tutti è Rurale! Cronaca di una collisione politica), ha passato un anno in compagnia di Richard, nel le vigne di Montbenault, lavorando a stretto contatto con l’amico vignaiolo, fautore di una produzione eno-

logica naturale ottenuta con metodi biodinamici e lontana dal prodotto industriale. Tra i due na-sce uno scambio reciproco di conoscenze: Richard viene introdotto da Étienne nel mondo dei fumetti, attraverso la lettura di alcuni capo-lavori della nona arte (memorabile il commento di Richard su Moebius) e il fumettista, attraver-so il lavoro nella vigna e le degustazioni delle più pregiate etichette, nel pianeta della viticol-tura.

Quello che ne esce è un affresco che raccon-ta come sia importante avvertire l’onestà e il piacere nel proprio lavoro, cercando un equili-brio tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che non si può. In una scena, Davodeau chiede a Leroy il perché ha deciso di non mettere il logo “bio” sull’etichetta delle sue bottiglie; la risposta del vignaiolo è la morale di tutta la storia: “perché rifiuto che il bio sia il motivo principale per ven-dere i miei vini… io voglio che le persone beva-no i miei vini perché sono buoni e basta”. È la

grande produzione che usa la chimica, lui non conosce erbicidi o pesticidi, quindi perché do-vrebbe essere omologato con una sigla? Richard utilizza la biodinamica, l’arte di intuire gli scompensi energetici che affliggono il vigneto e cerca, attraverso una terapia naturale, di riequi-librare l’energia della pianta. Ecco quindi i no-stri due protagonisti, zaino in spalla, avanzare lentamente tra i filari, “dinamizzando” prima il terreno e poi il fogliame e spargendo letame al 100% naturale. Étienne è scettico riguardo i possibili effetti delle soluzioni naturali usate dall’amico, il quale non cerca di convincerlo con risposte definitive: è un metodo empirico e non scientifico, ma sarà il vino stesso che fugherà i dubbi del fumettista.

Entrando nel mondo dei fumetti, Richard conosce il lavoro di Étienne e scopre delle affi-nità con il proprio cosmo. Come le sue bottiglie, ogni libro è un pezzo unico ma sempre ricono-scibile nello stile: Maus di Art Spiegelman è un

“documento insostituibile sulla storia degli ebrei durante la seconda guerra mondiale e tutto il mondo dovrebbe leggerlo”, mentre Marc-Antoine Mathieu è l’autore delle “storie in bianco e nero un po’ assurde”. Dietro i disegni, i colori e le storie del fumettista c’è un’etica del lavoro e un impegno verso i lettori, ma soprattutto verso se stessi, simile a quella del viticoltore.

E come chiosa Sergio Rossi nella postfazio-ne del volume “Gli ignoranti racconta il piacere e la gioia insite nel fare bene il proprio lavoro, qualunque esso sia, cercando di trasformare ogni impedimento in opportunità, a dispetto dei vuoti creativi, le grandinate improvvise, i rifiuti dell’editore e le annate scarse”.

Alberto Clamer

ULtIMo MINUtoBiodinamica tra vino e fumetti

I SORCI VERDI

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Liquore

L avate i realvisceralisti sotto l’acqua corrente e tagliateli in una centuria di parti. Metteteli in u-na bottiglia e aggiungete un’iguana, uno zahir

e una pietra di luna. Lasciate riposare il contenuto per un quadrimestre. Quando gli ingredienti saranno gra-ticolati ad hoc, scaldate l’amok in una casseruola, ver-sate un cucchiaino di tusitala e mescolate. Spegnete il fornello aspettando il raffreddamento dello zibaldone. Infine, filtrate con un giornale di otto densissime pagi-ne e unite il tutto in un’adalgisa, aggiungendo una no-ta di Guido Ceronetti. Sigillate bene e riponete il liquo-re in sicurezza, su uno scaffale della vostra biblioteca, lontano da facili intellettualismi.De-cantatelo e sorseggiatelo con parsimonia, assag-giatelo pure con aria scettica, tra un parafulmine ed un ultimo minuto ma, alla fine, vedrete I SORCI VERDI.

Sorcio 3

In occasIone dI expo 2015 Il blog della

rIvIsta sarà contInuamente

aggIornato suI temI del cIbo e della cucIna, con raccontI, artIcolI,

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