I Quaderni della Libera Officina N. VI Quaderni della... · Questa donna piccola, ossuta,...

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Giuliana Morini Breve antologia di storie resilienti. Ovvero il coraggio di non avere paura Numero VI - Anno MMXII I Quaderni della Libera Officina

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Giul iana Morini

Breve antologia di storie resi l ienti.

Ovvero i l coraggio di non avere paura

Numero VI - Anno MMXII

I Quaderni della Libera Officina

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I Quaderni della Libera Officina

La Libera Officina per la Crescita Umana e Sociale “LOCUS” è un la-

boratorio culturale nato a Brisighella con lo scopo di promuovere i valori umani e la crescita della persona e della società.

E’ stata fondata da Daniele Callini e da Giuliana Morini per realizzare diverse iniziative, servizi ed attività culturali, formative e scientifiche a fa-vore di persone e istituzioni, senza alcuna finalità di lucro. Le entrate eco-nomiche e i proventi delle attività della Libera Officina sono infatti utiliz-zati per la realizzazione delle sue attività istituzionali di ricerca e forma-zione.

I “Quaderni della Libera Officina” si propongono quindi di dare vita a una vera e propria collana di eBook fruibili gratuitamente, quale strumento di studio, condivisione e diffusione della conoscenza.

Visita il sito www.liberaofficina.net dove potrai consultare e scaricare gli altri eBook della collana

© Copyright

I diritti relativi al testo, pubblicato in rete il 10 luglio 2012, sono di pro-prietà dell’autore. E’ vietata la riproduzione non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, anche se parziale, a uso interno o didattico.

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INDICE

Prefazione pag. 4 Oltre la follia pag. 5 Oltre il proprio corpo pag. 11 Oltre il proprio odio pag. 18 Oltre la caduta di senso pag. 23 Oltre il limite pag. 29 Oltre la paralisi pag. 34 Oltre l’eccidio pag. 38 Brevi note biografiche sull’autrice pag. 43

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Prefazione

Ogni anno la Libera Officina sceglie un tema attorno al quale realizzare i suoi eventi culturali e di studio.

Nel 2012 l’oggetto privilegiato di analisi riguarda le te-stimonianze di resilienza e di aiuto.

Questo Quaderno, curato da Giuliana Morini, è stato

concepito come instrumentum laboris per impostare, av-viare, orientare e guidare le attività laboratoriali e di ricer-ca esperenziale della Libera Officina.

Si propone quindi questa prima breve antologia di storie

resilienti quale occasione di autoriflessione e rispecchia-mento, che potrà anche accompagnare percorsi didattici e di empowerment, oltre che di scrittura di sé.

La resilienza. Ovvero la capacità di sopportare un trau-

ma e di trasformarlo in risorsa, in forza, sino a superarne le traiettorie del destino.

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Oltre la follia……

Alda Merini è una poetessa e scrittrice italiana, vive sui Navigli. E’ nata a Milano il 21 marzo 1931 e a neppure se-dici anni esprime il proprio talento poetico: le sue poesie sono lette con interesse da Giacinto Spagnoletti (docente di italianistica, critico letterario, poeta e romanziere). Pro-prio Spagnoletti è il suo scopritore letterario e pubblica nella sua Antologia della poesia italiana 1909-1949 (Guanda 1950) alcune poesie della giovanissima Merini.

Nel 1947 manifesta i primi segni della malattia mentale e viene internata per un mese a Villa Turro, a Milano.

Nonostante ciò in quegli anni frequenta per lavoro e a-micizia Salvatore Quasimodo che pubblica alcune sue ope-re nel volume Poesia italiana del dopoguerra (Schwarz 1958).

Si sposa nel 1953 con Ettore Cerniti, proprietario di al-cune panetterie, e nel 1955 nasce la prima figlia.

Dal 1965 circa inizia un doloroso periodo di silenzio, durante il quale viene internata nel manicomio Paolo Pini di Milano fino al 1972. In tale periodo, durante i rari mo-menti di rientro a casa, nascono altre tre figlie.

La Merini torna a scrivere nel 1979, creando componi-menti intensi, in cui narra la drammatica esperienza del manicomio.

Alterna momenti di salute e malattia a cui si affianca un’intensa produzione letteraria e poetica. È considerata una delle maggiori autrici del Novecento dei primi anni 2000.

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“La pazza della porta accanto”, di Alda Merini Un testo poetico che procede attraverso concatenazioni fat-te di tutto e di nulla, un marasma che disorienta, che ci fa perdere tra le righe poetiche, ora lucide ora allucinate, tra sogni, stati d’animo, fantasmi, visioni celestiali. La follia affiora dalle pagine attraverso parole di sofferen-za, di dolore e di rimpianto ma appare con forza che pro-prio questa condizione permette all’autrice di definirsi or-gogliosamente una poetessa, di essere così baciata dagli angeli, e di potersi elevare là dove gli altri non sono in grado. Si evince un’accettazione dolorosa ma sempre pie-na di dignità della malattia mentale ed anche la capacità e la forza di rimarcare questa propria diversità. Questa è la sua forma di resilienza. “Sono felice di essere un angelo malato. Un angelo che può accogliere serenamente la morte in qualsiasi momen-to. Sono felice di poter dichiarare a tutti che il peccato è scivolato su di me come l’acqua sulla pietra del fiume.”

“La follia è una delle cose più sacre che esistono sulla terra. È un percorso di dolore purificatore, una sofferenza come quintessenza della logica. La follia deve esistere per se stessa, poiché i folli vogliono che esista. Noi la chia-miamo follia, altri la definiscono malattia.”

Il titolo stesso è, inaspettatamente, un riferimento alla

pazzia altrui: “La pazza della porta accanto esiste davvero: è una

vecchia pelandrona alticcia, coronata di tanti riccioli falsi

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e linguacciuta come si conviene a una donna di ringhiera. Era con me prima del manicomio e ci starà tutta la vita. Una sottile farfalla d’amore mi lega a lei, malgrado sem-bra fatta di cartapesta. Questa donna è una realtà esone-rante, è curva come il demonio.”

La Merini stessa nell’ultima sezione del libro, La polvere che fa volare – Conversazione con Alda Merini, asserisce che:

“Ma chi è poi la pazza della porta accanto? Per me è la

mia vicina.” Il testo presenta inoltre una molteplicità ed una mesco-

lanza di frammenti autobiografici: amori immensi, vicine di casa ostili, figure oniriche e magiche, i medici, le infer-miere, il rapporto difficile con la madre, quello più facile e dolce con il padre, il matrimonio, il dolore immenso per aver dovuto affidare ad estranei le quattro figlie, il rappor-to sofferente con queste figlie, piene di rancore nei con-fronti della madre poetessa pazza. Con grande naturalezza vengono messe in lirica le violenze viste e subite in mani-comio, gli elettroshock a cui si è più volte dovuta sottopor-re, ma soprattutto la poesia assume un ruolo di primo pia-no in tutto il testo. Il testo è una dolorosa memoria perso-nale dell’autrice, ma al contempo diviene una raccolta di memorie collettive, di ognuno di noi, e la lirica trasforma la cruda realtà in poesia.

Così si descrive la poetessa in alcuni passaggi dell’opera:

“Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che na-

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scere folle, aprire le zolle, potesse scatenar tempesta.” “La pazza: Io sono una sedia, una sedia su cui non si sie-de mai nessuno. Non so se ci sono delle piastrelle o del li-noleum o della vernice fresca. Chi mi ha verniciato le ma-ni? Un secondino, immagino, ma ieri è venuta una visita. Una parola, pa-ro-la, parola, parola, mi bacia le labbra, pronuncio parola.”

Il fiore: “Siamo in trenta nel giardino di Affori e ci cal-

pestano i folli, ma chi sono? Io, per esempio, sono un fiore e ragiono per conto mio. Non posso camminare, sono in un’aiuola. Pensate che l’uomo cammina eppure sta fermo: la grande illusione dell’uomo! Non sa di essere ancorato alla sua radice.

“Al mattino quella pazza bionda viene a odorarmi, al pomeriggio mi bagna di lacrime, la sera mi butta via. Malgrado tutto , malgrado si adorni di me, non sa che io sono la sua vita, il suo solo pensiero. Malgrado lei mi ba-ci, non sa che io sono il suo amante, il suo unico amante.

“Ho cercato di dire agli altri compagni della sua pena che era troppo sola, ma non ho neanche voce perché sono un fiore. Anche i fiori gridano di notte, urlano delle pro-prie radici, però non ci ha mai sentito nessuno. Pensate che il manicomio è percorso da tante voci e da tante urla e danti dolori, ma le urla più grandi sono quelle dei fiori che non saranno mai sentite.”

Compare sulla scena una donna grossa, malvestita. L’infermiera: “non posso dar torto a questi signori del

manicomio, perché sono proprio signori, sapete? Il mago, per esempio, che grand’uomo. La pazza deve essere una contessa o figlia di conti; pagheranno per il suo riscatto?

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Eh, sono una pedina troppo debole io. Sapessi almeno come sono arrivati fin qua. Guarda che caviglie gonfie, a furia di servire queste persone che non conosco. Eppure voglio bene a questa gente. Che istruzione ha lei! E lui, il mago? Fra di loro si parlano, chissà cosa diavolo si dico-no. La bionda, per esempio, avrà avuto un passato d’amore? Avrà dei figli, avrà un marito? I dottori non mi dicono niente: io devo solo lavare, spazzare, preparare la sedia per la pazza, perché lei vuole la sedia e poi non ci si siede nemmeno. Gliela metto lì e lei ci mette sopra una candela. Dove diavolo trovi la candela non so, gliela darà il mago o un dottore condiscendente. Questa pazza è un po’ una strega, o fa l’amore con il medico. E a me i medici non dicono mai niente.”

Mi sembra di essere caduta dalle pareti con un tonfo

preciso. Sono nuovamente sdraiata sul letto. L’uomo delle nevi, l’uomo iracondo, il tema centrale delle mia vita ha appena bussato, ha appena battuto la frontiera della mia armonia. Tutto è andato perduto. Ho il senso atavico di una vaga impotenza che è andata a morire su un rovo di aculei. Ma Marcella mi aspetta, Marcella. No, non si chiama Marcella, ma Anna. La sua voce, perentoria e stridula, come se dirigesse da dietro le quinte di un teatro greco, di un feroce incantesimo. Mi vuole morta, lo so, mi vuole assolutamente.

Questa donna piccola, ossuta, verticale, irreperibile e

irascibile è come un cimelio di guerra. Conosce tutte le parolacce del diavolo. Non si cura per niente del mio pas-sato di gloria. Il passato è stato cancellato via dalla sua bravura vogliosa e le spine del suo amore sono state ri-

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vendute, una per una. Sei passata da un tremore di coltello all’altro, senza gioco né pensiero. Ti ha appena fatto un freddo elettroshock, per dimostrare che, dopo tutto, ti ha salvato la vita. Ma in fondo è per rimettere ogni cosa al suo posto, ogni valvola al suo posto. Come se tu non fossi una donna, ma un misero reperto di guerra.

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Oltre il proprio corpo …. Isabella Ceola, era una giovane ragazza affetta da una ra-

rissima malattia congenita, la progerie (o sindrome da se-nilità prematura), è morta a 28 anni. La progerie è una sin-drome che rallenta la crescita e porta ad un invecchiamen-to precoce del corpo, non alterando la mente. Tale malattia porta precocemente alla morte (generalmente entro i 20 anni) a causa di cardiopatia o infarto. Isabella, sostenuta dalla sua famiglia, ha trovato la forza di reagire alla malat-tia e alla sua diversità fisica, esteriore, conducendo una vi-ta attiva, simile a quella delle sue coetanee e trasmettendo a chi le stava intorno la sua grande gioia di vivere. Si può definire senza alcun dubbio una resiliente, perché invece di lasciarsi andare e piangere il proprio destino ha trovato la forza di battersi contro i pregiudizi e l’idea stessa di diver-sità. Era impegnata anche sul fronte del volontariato, in particolare nei confronti dell’handicap e dell’AIDS. Ha raggiunto la notorietà partecipando più volte al Maurizio Costanzo Show.

“Isabella Ceola. Io sono quella che sono…oggi posso dir-velo”, a cura di Lucio Zanichelli

Il testo, che la stessa Isabella avrebbe voluto scrivere in

vita, è stato curato da Lucio Zanichelli, che pur non aven-dola personalmente conosciuta è riuscito a “leggerne l’anima” supportato, in questa paziente e poetica ricostru-zione, dagli scritti lasciati direttamente dalla Ceola, dai

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racconti dei genitori di Isabella e di quanti l’avevano cono-sciuta, dalle testimonianze dirette di quanti erano legati a lei ed hanno avuto l’opportunità di coglierne la forza, l’intelligenza, la sensibilità e la voglia di vivere.

Entrando nei panni di Isabella,scrive Zanichelli,nella presentazione al volume:

"Sono Isabella, Isabella Ceola quella "giovane-vecchia"

che è andata al Costanzo Show perché si era stufata di es-sere trattata come un marziano e voleva riprendersi il po-sto nella società che le spettava.

Con questo libro voglio solo raccontarvi le fasi salienti della mia breve, ma intensa, vita. La mia "avventura" è cominciata a Ferrara, ma sono nata a Venezia il 12 gen-naio 1969, da mia mamma Franca e mio papà Sergio; ho una sorella maggiore, Cristina.

Ho lasciato questa terra - solo fisicamente - il 18 marzo 1997.

Ho iniziato a scrivere questo libro nell'estate 1999. Poi-ché qualcuno già sarà perplesso, come ho fatto ve lo spie-gherò più avanti... fidatevi."

Quello che segue è uno stralcio della lettera che Isabella

scrisse a Maurizio Costanzo per partecipare al suo Show. Era l’estate del 1992.

“Gentilissimo Signor Costanzo, mi chiamo Isabella Ceola e scrivo da Bologna. Sono una

ragazza di 22 anni affetta da una malattia chiamata Pro-gerie o Invecchiamento precoce. Sono stata perfettamente normale a livello fisico. Ma verso i sette mesi, una gastro-enterite non diagnosticata (e non so cos’altro all’interno

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del mio corpo) mi ha fatto improvvisamente accusare mu-tamenti fisici esterni, che hanno cambiato il mio aspetto. Infatti la statura si è bloccata (sono alta un metro e venti), ho perso i capelli e ho assunto un aspetto invecchiato (an-che se sono molto migliorata rispetto a un tempo). Fortu-natamente a livello motorio non ho nessun tipo di proble-ma: sono completamente autosufficiente in tutto. A livello cerebrale ho continuato a crescere normalmente, certi di-cono anche troppo. Alcuni insinuano che sono molto ma-tura per la mia età. Come se avessi una saggezza interna. Ho sempre studiato con buoni profitti. Ora sono iscritta alla facoltà di Astronomia all’Università di Bologna. I miei genitori hanno cercato di inserirmi in società a tutti gli effetti. Ho raggiunto buoni traguardi. Anche se, come si sa, le persone ignoranti a questo mondo esistono e pur-troppo sono in continuo aumento. Io ho sempre cercato, dal canto mio, di lottare e combattere, se pur nel mio pic-colo, questa piaga che incombe sulla nostra società. Le confesso che, tante volte, questa mia coerenza sulla diver-sità che mi porto addosso mi fa cadere in profondissime crisi depressive. Momenti angoscianti che mi offuscano la mente. Tante volte ho pensato di mollare tutto, di rinchiu-dermi in casa e non uscire più, di lasciare questo mondo ai “belli e normali”, ritenendo che non c’è posto per noi così detti “a-normali”.

Poi, però probabilmente il fondo di ottimismo che c’è in me, mi aiuta a rialzarmi e a riprendere la mia lotta, là do-ve l’avevo lasciata.

La vita è mia, e per disgrazia e sfortuna ne ho una sola. Quindi vale fino in fondo la pena di viverla.

Viverla intensamente, giorno per giorno, non trala-sciando neanche per un minuto ogni istante della giornata

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e degli avvenimenti che arricchiscono le nostre ore. Ora, visto che ho trovato il coraggio di scriverle, vorrei

poter intervenire alla sua trasmissione, per poter dire a tutte quelle persone che sono chiuse in casa, in se stesse – e non hanno il coraggio di uscire dai loro gusci in cui so-no oppressi per i timori di essere considerati dei diversi - che la vita è bella e deve essere vissuta fino in fondo. (……)”

Il seguente è un brano scritto da Isabella come tesina per

un esame universitario. ISABELLA CEOLA – Matricola 29662 La vita nasce quando c’è distinzione dalla materia fisi-

co-chimica, quando s’interrompe la continuità dell’inorganico. La vita è la distinzione vita/non vita. Se non c’è distinzione non è Vita. Al momento della feconda-zione ciascuno di noi è già autodeterminazione. Siamo ir-rimediabilmente vincolati alla condizione di specificità del genoma. E io ero questo quando sono nata: normativa-mente vincolata all’appartenenza al mio genoma. Ero la distinzione da cui nasce l’Essere che è la vita. Sarei stata quel destino, condizione di globalità, equilibrio ed armo-nia. (…..) Non so che cosa sia scattato in me, non so se semplicemente tutto questo doveva accadere, se era Desti-no, ma a sette mesi una gastroenterite non diagnosticata ha cominciato a trasformare il mio Corpo e il mio aspetto estetico.

Progerie è stata la diagnosi che mi hanno riscontrato i medici (invecchiamento precoce). Una condanna, una sen-tenza annunciata: al massimo diciotto anni di vita. Nulla di più.

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Così alla mia distinzione che fa essere la vita, alla mia condizione di specificità che fa di ogni singolo uomo un essere unico, si era aggiunta anche una mia Diversità, una diversità esteriore. Se è vero che le patologie, gli handicap sono considerati come dei residui della non vita, che an-cora impediscono la specificità di un determinato tutto-idea di essere presente, io sono un tipico esempio di tale residuo. Ma solo esternamente.

Cosa accade quando internamente tutto ciò non è senti-to? Ma non perché c’è una non consapevolezza della si-tuazione soggettiva. No anzi: la consapevolezza è tremen-damente presente in ogni istante della mia esistenza.

Quando non mi guardo allo specchio, per le innumere-voli cose che sono in grado di fare, per il tipo di vita che conduco (studio, viaggio, esco la sera, amo, sorrido, pian-go…), mi sento pienamente quella condizione di specifici-tà, quel sé Bios che è presente con forza dentro ad ogni concreta unità di vita. Se non fosse per il confronto-differenza che la società impone che si verifichi tra due persone, io non mi sentirei così Diversa. (…..)

Le caratteristiche e le differenze sono una costruzione della relazionalità. Uno è quello che è. La vita è un’esperienza interna. Fra una vita e l’altra non sono pos-sibili paragoni, non servono. (…..)

Quando rivedo prodotta la mia immagine, o quando la realtà che mi circonda mi fa sentire in gabbia, costretta in un corpo che non sento mio, allora in quei momenti mi sento completamente non vita. Non vita nel senso di rap-porto come morte, come un qualche cosa che desidereresti non avvenisse, la così detta “Nota stonata”. Tutto appare così tremendamente difficile, l’unico desiderio è possedere una bacchetta magica sparire, per non soffrire più, per

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non far soffrire chi ti sta vicino. Annullarti. Eppure nonostante questo, senti dentro di te quella stra-

na condizione di globalità, equilibrio e armonia, quel Bios che ti fa sentire viva. La vita è un fatto materiale che è contemporaneamente anche un fatto spirituale. Sono riu-scita a sconfiggere la mia malattia, e far si che non acca-desse ciò che i medici avevano sempre pronosticato ai miei genitori. Sono qui, sto bene: probabilmente era desti-no, probabilmente c’è un motivo per cui io sono in questo modo e perché la mia esistenza non si è interrotta quando doveva succedere. La causa sta comunque anche nel fatto che ho sempre lottato, che mi sono sempre sentita Vita, nonostante i momenti bui che fanno parte del mio cammi-no: oramai me li porto addosso come si fa con un bel gio-iello…. Non è presunzione la mia; mi conosco molto bene, anche se ciò può sembrare molto strano per una ragazza giovane come me, sento che il tutto-idea è presente anche nella mia mente. Ho raggiunto il grado ottimale di salute. Ho sconfitto la mia malattia. Sono consapevole delle pos-sibilità in ogni mia parte materiale, del corpo, del cervel-lo, della mente, ma non mi fermerò qui. La vita ha ancora tanto da insegnarmi e da offrirmi. Ed io ho tutta l’intenzione di continuare ad imparare.

Sento (…..) Quella gioia, quella tranquillità che nono-stante tutto mi fa amare me stessa, la vita e gli altri senza invidiarli, quella luce negli occhi che, chiunque incontro mi fa notare come essa sprigioni serenità dal mio sguar-do…. Non mi sento diversa dentro! Trovo sia profonda-mente ingiusto dovermi confrontare con gli altri se questo mi può recare danno. Non farlo è impossibile, ma la vo-glia di combattere che ho e la voglia di vivere che sento in me, come un vulcano, non mi scoraggia nel mio tentativo

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di far capire alla gente che l’importante nella vita non è il confronto-differenza, che questa società basata sull’esteriore ci sta imponendo. La vera essenza della vita è la condizione primaria, è tutto il suo valore. Ognuno di noi è quello che è.

Io sono quella che sono.

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Oltre il proprio odio …. Abbandonato dalla madre, sulla strada, a soli tre anni,

ridotto in fin di vita dal padre a furia di botte e, a causa di ciò, inchiodato a un letto d’ospedale per due anni: l’infanzia di Tim è un inferno di rabbia e di odio. Segue poi una giovinezza segnata dal degrado estremo, dall’umiliazione e dalla violenza in un alternasi di riforma-tori, famiglie affidatarie e istituti.

A 12 anni Tim comincia a vivere sulla strada e diviene un adolescente violento, costretto prostituirsi e a rapinare le prostitute per sopravvivere. Una sola cosa lo tiene vivo: l'odio per il padre e il desiderio di vendicarsi. L’incontro con un sacerdote cattolico e l’amore per una giovane don-na hanno cambiato radicalmente la sua esistenza. Oggi vi-ve, con la moglie e i quattro figli, vicino a Lourdes nel sud est della Francia e fa l’apicoltore. Con la sua famiglia pre-sta accoglienza e assistenza alle persone in difficoltà. Ogni volta che gli viene chiesto, da pedagogisti, psicologi, assi-stenti sociali ecc, porta la sua testimonianza a chi ha biso-gno d’aiuto per credere ancora nell’amore, nel perdono, nella vita.

“Più forte dell’odio”, di Tim Guenard Ecco alcuni stralci selezionati dell’autobiografia di Tim

Guenard. “La mia vita è ammaccata come il mio volto. Solo sul

naso ho ventisette fratture. Ventitrè provocate dalla boxe,

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quattro da mio padre. Le botte più forti le ho ricevute da colui che avrebbe dovuto prendermi per mano e dirmi “Ti amo”. Era un irochese. Quando mia madre lo ha lasciato, il veleno dell’alcol lo ha reso folle. Mi ha picchiato a mor-te prima che la vita ne proseguisse il gioco al massacro. (……..)

Io, figlio di un alcolizzato, bambino abbandonato, ho deviato il colpo della fatalità. Ho fatto mentire la genetica. Questa è la mia fierezza. Mi chiamo Philippe, ma mi chiamano Tim perché il mio nome irochese è Timidy. Si-gnifica “signore dei cavalli”. E’ stato più difficile addo-mesticare la mia memoria ferita che un purosangue sel-vaggio.

Il mio cognome Guenard può essere tradotto con “forte nella speranza”. Ho sempre creduto al miracolo. Quella speranza che non mi è mai mancata, nemmeno nella notte più nera, oggi la auguro agli altri. Dai miei antenati in-diani ho ereditato l’assenza di vertigini. Non temo che un abisso, il più terribile: quello dell’odio al cospetto di se stessi. (……)

Dopo anni di lotte, con mio padre, con me stesso e il mio passato, ho sotterrato l’ascia di guerra. (……)

Oramai cammino sul sentiero della pace.” “Il giorno dopo attendo alle mie occupazioni nella casa

quando vengo attratto da uno strano rumore, dietro a una porta. Una sorta di ticchettio a intervalli regolari. Tic…..tic…. tic….Entro nella stanza e scopro Frederic, un ragazzo colpito da un pesantissimo handicap, che cerca di scrivere a macchina. Il suo volto è deforme, la bocca si torce sulla sinistra, gli occhi roteano in tutte le direzioni. (……) Malgrado l’handicap che lo priva di qualsiasi co-

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municazione orale, Frederic ha trovato un mezzo per en-trare in contato con gli altri: la macchina per scrivere. Non l’ho mai visto scrivere a macchina. E’ una scena ir-reale. Quel corpo rattrappito sulla sedia a rotelle si proietta sulla macchina con una sorta di rabbia. E’ un lancio calcolato, completamente concentrato sulla battuta di un unico tasto, perché Frederic non può che battere un tasto alla volta. Con un solo dito della mano destra, tutta storta, batte il tasto prescelto. Poi tutto il corpo rimbalza all’indietro come se si ritirasse. Dopo ogni battuta, dopo ogni lettera, la carrozzella indietreggia di un metro ab-bondante e si prepara a un nuovo assalto. Una lotta ma-gnifica e patetica al contempo. (……)Per due giorni Fre-deric batte a macchina. Ogni volta che passo davanti alla sua porta, quei tic, tic mi procurano un dolore, un moto di compassione. (……) Frederic fa scivolare la carrozzella verso di me. Leggo una dolce malizia nei suoi occhi. Si avvicina e, per quanto le sue braccia ripiegate, incrociate su se stesse glielo consentono, mi porge un foglio. E’ una lettera di cinque righe. Ecco che cosa stava scrivendo con tanta frenesia. Cinque righe per augurarmi buon comple-anno. Cinque righe d’amore. Il primo regalo di complean-no della mia vita. Afferro la mia lettera d’amore e corro in camera mia. (…)Frederic ha compreso l’essenziale: l’amore spassionato, lo sforzo, la generosità. Per me è un esempio di vita. Quel regalo mi commuove. Guardo la let-tera, quelle cinque righe d’amore. Mi si offuscano gli oc-chi, mi viene un nodo alla gola, la collera lascia il posto alle lacrime. Comincio a piangere come un bambino. La mia vita si è capovolta. (……)

Ho un bel daffare a chiudere il rubinetto delle lacrime dandomi della femminuccia, ma non c’è niente da fare

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contro quel flusso. Piango a dirotto. Dopo lunghi minuti la fontana si esaurisce, gli occhi si rischiarano. Mi metto a riflettere. Frederic ha trovato il modo di volgere al meglio la sua esistenza. L’handicap fisico non è una scusa per non diventare artefice di una vita d’amore. Io soffro di un handicap diverso. E’ la mia infanzia a essere storpia, non il mio fisico. E quando voglio dimenticare il mio passato accidentato, una violenza sotterranea mi afferra alla gola. La mia amica “adrenalina” pretende di rimettersi a circo-lare nelle mie vene. La rabbia mi trasforma gli occhi in due fonti di collera. Non vedo che rosso e mi metto a pic-chiare. Voglio cambiare, donare gesti d’amore, posare uno sguardo d’amore sugli altri. Trasformare la mia vita in un’esistenza d’amore. Voglio coniugare il bello e il buono con la mia vita. I miei amici handicappati mi mo-strano la via. Il loro più bel regalo è la loro stessa vita. Lo ricevo con il cuore in mano.

Il perdono non è una bacchetta magica. C’è il perdono

del volere e quello del potere: si vuole perdonare ma non si può. (…….) Si, ci vuole tempo. Io ho avuto la fortuna di incontrare gente vera. Mi hanno amato con l’impronta del mio passato, hanno avuto il coraggio di accettare la mia diversità, con i miei scatti d’uomo ferito. Hanno ascoltato la mia sofferenza e hanno continuato ad amarmi dopo le tempeste. Ora ho la consapevolezza d’aver ricevuto. Il passato si risveglia con un suono, una parola, un odore, un rumore, un gesto, un luogo intravisto… Basta un niente perché i ricordi riaffiorino. Mi sconvolgono, mi graffiano. Mi rammentano che sono ancora sensibile. Sto sempre male. Forse non sarò mai totalmente in pace. (……..)

Perdonare non vuol dire dimenticare. E’ accettare di vi-

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vere in pace con l’offesa. Difficile quando la ferita ha at-traversato tutto l’essere fino a marcare il corpo come un tatuaggio mortale. Recentemente ho dovuto subire un’operazione alle gambe: le botte di mio padre hanno provocato dei danni fisici irreparabili. Il dolore si risve-glia spesso: e con esso il ricordo.

Per perdonare bisogna ricordare. Non nascondere la fe-rita. Sotterrarla, ma al contrario, metterla a nudo, sotto la luce. Una ferita nascosta s’infetta e rilascia il suo veleno. Occorre che sia curata, ascoltata, per poter diventare fon-te di vita. Sono testimone del fatto che non esiste ferita che non possa essere lentamente cicatrizzata con l’amore.

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Oltre la caduta di senso …. Victor Frankl (1905-1997), medico e psichiatra, filosofo

e psicoterapeuta, saggista e conferenziere di fama mondia-le, è il fondatore della logoterapia. La logoterapia è una scuola di psicoterapia tesa a combattere, sul piano terapeu-tico, il sentimento della mancanza di senso della vita.

Frankl nasce a Vienna il 26 marzo 1905 in una famiglia di ebrei praticanti, è il secondo di tre figli. Si laurea in Medicina nel 1930; si specializza in Neurologia e Psichia-tria nel 1936 e dirige dal 1938 la Divisione di Neurologia dell’Ospedale Rotschild, all’epoca l’unico ospedale ebrai-co di Vienna.

Dal 1942 al 1945 viene internato, con tutta la famiglia, nei campi di concentramento nazionalsocialisti. Nel 1945 è liberato dalle truppe statunitensi e rientra a Vienna, dove viene a conoscenza che i suoi famigliari, ad eccezione del-la sorella, non sono riusciti a sopravvivere.

Nel 1946 diviene primario del Policlinico neurologico di Vienna e conserva l’incarico per 25 anni. L’anno successi-vo sposa Eleonore Katharina Schwind, dalla quale ha una figlia, Gabriele. Ottiene poi la docenza in Neurologia e Psichiatria e svolge attività di ricerca, d’insegnamento e clinica all’università. Contemporaneamente insegna negli Stati Uniti d’America, a Harvard, a Stanford, a Dallas, a Pittsburgh e a San Diego, dove viene istituita per lui la cat-tedra di Logoterapia, e tiene conferenze in più di duecento atenei di tutto il mondo. Autore di 32 volumi,tradotti in 26 lingue, insignito di 29 lauree honoris causa, Frankl si spe-gne il 2 settembre 1997.

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Le opere e la vita stessa di Frankl sono testimonianza della convinzione che sofferenza, colpa e morte non priva-no l’esistenza umana del suo profondo significato e la per-sona, anche di fronte alle peggiori circostanze, è sempre in grado di “trasfigurare la sofferenza in una prestazione umana”1

“Che cos’è dunque l’uomo? Domandiamocelo ancora.

E’ un essere che sempre decide ciò che è. Un essere che porta in sé, contemporaneamente, la possibilità di abbas-sarsi al livello degli animali o di innalzarsi al livello di una vita santa. L’uomo è l’essere che ha inventato le ca-mere a gas, ma è anche l’essere che è entrato in esse a fronte alta, sulle labbra il Padre nostro o la preghiera e-braica per la morte”.2

“Lettere di un sopravvissuto”, di Victor E. Fankl Il libro raccoglie le lettere che Frankl scrisse a parenti ed

amici negli anni successivi alla liberazione dai campi di sterminio nazisti. Le lettere sono pervase da un duplice sentimento: da un lato il rammarico, talvolta la disperazio-ne di aver perso tutti i propri cari nei lager e dall’altro lato la consapevolezza di aver un compito da portare a termine nella propria vita, di essere chiamato ad un senso di re-sponsabilità di fronte all’unicità della propria esistenza, di fronte alle occasioni e alle prove che la vita ci riserva.

Le lettere manifestano costantemente la consapevolezza 1 V.R. Frankl, La vita come compito. Appunti autobiografici, E. Fizzotti (a cura

di), SEI, Torino, 1997 p.42 2 V.R. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, E. Fizzotti (a cura di), Que-

riniana, Brescia, 2007 p.97-98

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che la vita conserva sempre e ovunque un suo irripetibile e irrinunciabile significato, nonostante le peggiori condizio-ni in cui viene vissuta.

15 giugno 1945 Cara Stepha e caro Wilhelm Con tutta fretta vi scrivo oggi questa lettera. Attualmen-

te mi trovo a Bad Worishofen, la nota stazione di cura del-la Baviera, in un hotel grande ed elegante che fu utilizzato come lazzaretto dai tedeschi ed ora funziona da ospedale e luogo di accoglienza per i molti prigionieri ebrei tornati in libertà dai numerosi campi di concentramento che erano qui intorno. Mi ci trovo in veste di medico di fiducia ad-detto alla supervisione delle attività cliniche e impegnato sia nella cura dei pazienti ebrei che nell’assistenza dei funzionari americani, dopo essere stato io stesso in un campo di concentramento qui vicino (Tukheim). E’ andata così: nel settembre del 1942 arrivai con i miei genitori e la mia giovane moglie nel ghetto di Theresienstadt anziché essere deportato in Polonia, come accadeva alla maggio-ranza degli ebrei viennesi – e ciò grazie alla mia posizione in ospedale, essendo noi di fatto dei “privilegiati”. Nel febbraio del 1943 morì il mio povero papà a causa della fame. Riuscii per lo meno a risparmiargli gli spasimi della morte, somministrandogli nelle ultime ore della morfina. Più tardi, grazie all’arrivo di pacchi da Vienna e di scato-le di sardine attraverso il Portogallo, andò molto meglio. Fino a che, d’improvviso, cominciarono le deportazioni in massa. Nell’ottobre del 1944 toccò a me; dovetti lasciare la mia povera mamma assolutamente sola, mentre si unì a me volontariamente mia moglie. Dopo giorni e giorni di viaggio in condizioni inimmaginabili, giungemmo nel fa-

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moso lager di Auschwitz. Nello stesso giorno furono soffo-cate con il gas e bruciate circa cento delle mille e cinque-cento persone che erano nel mio convoglio. Mia moglie ed io apparimmo al medico delle SS incaricato di selezionare gli ultimi arrivati alla stazione abbastanza capaci di lavo-rare e fummo condotti nel lato in cui erano adunati quelli che – come solo più tardi avremmo scoperto- sarebbero rimasti in vita.

Al momento della disinfestazione ci tolsero tutto quello che avevamo: a me e agli altri lasciarono solo gli occhiali e la cintura; tutto il resto- documenti, foto, vestiti, averi, il mio manoscritto scientifico (pronto per la stampa)- dico proprio tutto, scomparve dalla nostra vista in un attimo assieme ai capelli, che furono rasati. Ricevemmo delle stranissime scarpe usate, pantaloni sdruciti e delle casac-che, che dovevano risalire almeno a un anno e mezzo. Una volta ogni quattro giorni ci davano un pezzetto di pane. Cosa mi rimane da raccontare: potrei andare all’infinito. Dopo quattro giorni fummo fortunati a metter piede in un altro lager, dove non c’era nessun forno crematorio – un viaggio terribile durato tre giorni e tre notti; ci portarono a Kaufering in Baviera- un’altra filiale del campo di Da-chau, come quella di Turkheim, dove ebbi l’onore di esse-re marchiato con il numero di prigionia 119.104. Allora mi misero a lavorare la terra: con temperature fino a 20 gradi sotto zero, con le scarpe aperte (non mi entravano e non potevo neppure avvolgere i piedi con degli stracci, soffrendo, al pari di quasi tutti gli altri, di terribili edemi dovuti alla mancanza di cibo), senza biancheria intima, con 20 grammi di pane al giorno e una zuppa fatta per lo più di acqua, dovevo zappare la terra coperta di ghiaccio, munito di zappa e piccone, per dissotterrare condutture

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d’acqua di misteriose fabbriche sotterranee. In giro per il lager, a destra e a manca, da una casupola all’altra, dai cui tetti pendevano (all’interno!) le stalattiti di ghiaccio, continuarono a morire dei camerati che stavano assai me-glio di me, compresi molti medici viennesi. Che io sia an-cora in vita non lo si può spiegare se non parlando dei 1001 miracoli divini. E’ ovvio che fummo picchiati e an-che di santa ragione. A marzo finalmente giunsi in un la-ger “migliore”, a Turkheim. Lì lavorai come medico. Pre-si la febbre petecchiale (il cui virus è dovuto alla mancan-za di cibo), e rimasi ben sedici giorni con 40 di febbre! Il giorno del mio quarantesimo compleanno la febbre cessò e fui fuori pericolo. A quel punto, mi buttai nel lavoro con tutte le mie ultime forze, anche se spesso ero ancora feb-bricitante e accusavo pesanti nevralgie. Anche oggi il mio cuore ha qualcosa che non va. Non potete immaginare che gioia provai (in quella situazione) a rimanere semplice-mente in vita. Gli americani ci liberarono il 27 aprile (po-co prima avevo già tentato di scappare mentre ero impe-gnato a seppellire uno dei tanti cadaveri fuori dal recinto spinato). In brevissimo tempo cominciai ad aumentare di peso: il primo giorno sembrava tutto un sogno e non pote-vamo ancora rallegrarci di nulla. Credetemi, l’avevamo letteralmente dimenticato! Purtroppo fino ad oggi non ho informazioni circostanziate sul destino dei miei familiari e ignoro se mia madre sia ancora a Theresienstadt o se mia moglie, liberata dal lager, sia già ritornata a Vienna. Al momento non posso andarci e neppure sono in grado di far recapitar una lettera. E non so nulla neppure di Wal-ter! Mi suocera, che fu deportata a Theresienstadt nel giu-gno del 1944 (vi era giunta assieme alla nonna di mia mo-glie), non ha fatto sapere nulla di sé, ad eccezione di una

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volta soltanto. Speriamo che siano tutti ancora in vita. Ho paura del momento della certezza… una volta tornato in patria.

Dall’altro ieri sto dettando di nuovo il mio manoscritto in forma stenografica e mi sono venute idee nuove. Forse potrò continuare a lavorare nel settore scientifico a Vien-na, nella misura in cui dovrò o potrò rimanere lì. Tutto di-pende da come si metteranno le cose con mia madre e con mia moglie: la prima sarebbe intenzionata ad andare in Australia, mentre Tilly vorrebbe raggiungere i suoi in Brasile.

Io prego anche voi di informare il prima possibile Stel-la, avendo cura di comunicarle ogni singolo punto, nonché mio suocero, Professor Ferdinand Grosser, residente a Porto Alegre in Brasile, e mio cognato Gustav Grosser, impiegato a Zurigo presso il locale comitato ebraico di soccorso e forse ancora residente a Manessestraβe.

Lo sa Iddio cosa di importante e di urgente ho dimenti-cato nella fretta di riferirvi! Sono ancora stanco per aver dettato oggi il mio libro Arztliche Seelsorge, che spero possa uscire presto, così da gettarmi alle spalle questo parto spirituale.

Fatemi, dunque, gli auguri perché vada tutto bene con i miei parenti e speriamo che non mi abbiate dimenticato.

Vostro Viktor

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Oltre il limite …. Milton H. Erickson è stato uno psichiatra statunitense,

ed è considerato il maggior esperto di ipnosi clinica e della cosiddetta psicoterapia breve.

Egli nacque il 15 dicembre 1901 in Nevada e crebbe in una fattoria. La sua infanzia fu segnata da diversi handi-cap: fin dalla nascita era affetto da cecità cromatica (dalto-nismo), dislessia e mancanza del ritmo, inoltre fu colpito a 17 anni dalla poliomelite che, dopo averlo ridotto in coma, lo lasciò paralizzato.

L’approccio particolare di Erickson alla medicina deve molto alla sua storia di vita personale e alla riabilitazione che dovette intraprendere.

I suoi primi ricordi sono legati alla propria peculiare percezione del mondo, dovuta appunto ai suoi handicap. Le discrepanze, le incomprensioni e la confusione che de-rivarono da questi suoi “limiti sensoriali” stimolarono il desiderio di ricerca e curiosità verso il mondo. Tali diffi-coltà lo indussero a studiare la relatività delle percezioni umane e i problemi che derivano da ciò, nonché a ricercare nuovi approcci terapeutici.

Scoprì autonomamente, come autodidatta, i fenomeni ipnotici proprio nel corso della sua riabilitazione dalla pa-ralisi. Sviluppò inoltre una grande capacità di percezione e di lettura della realtà circostante, in particolare dei segnali non verbali. A ciò venne stimolato quando cercò di reim-parare a camminare osservando la propria sorellina che muoveva i primi passi. Dopo mesi e mesi di allenamento Erickson riuscì a camminare sulle stampelle in modo sem-

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pre meno faticoso, facendo attenzione a non sottoporre il suo corpo a inutili tensioni.

In seguito studiò medicina specializzandosi poi in psi-chiatria e insegnò psichiatria alla Wyane State University, nel Michigan. Nel 1948 a causa di gravi disturbi allergici si dovette trasferire a Phoenix in Arizona, in cerca di un clima più asciutto. Qui esercitò privatamente la professio-ne e, lontano dai conformismi universitari, potè fare come più credeva, dando libero sfogo alla sua creatività. La fama Erickson come terapista innovativo giunse fino a Palo Al-to, così che Bateson decise di inviare due suoi collaborato-ri (Jay Haley e Richard Weakland). Questi rimasero affa-scinati dalle teorie di Erickson tanto che Jay Haley scrisse “Terapie non comuni” dove consacrò Erickson come un maestro di terapia ipnotica.

Si interessò in particolare ai metodi “naturalistici” , cioè senza induzione formale dell’ipnosi ma utilizzando metodi creativi, stili comunicativi improntati alla creazione di una particolare relazione medico-paziente. Erickson induceva la trance ipnotica nei suoi pazienti a partire da racconti, reminescenze, storie insolite, enigmi che all’apparenza nulla avevano a che fare con il problema specifico del pa-ziente. Scopo dell’ipnosi era quello di accedere al poten-ziale inconscio del paziente e alla sua capacità naturale di apprendere, modificare o limitare gli schemi di comporta-mento limitanti.

Dopo il secondo attacco di poliomielite all’età di 51 anni rimase in carrozzina con le gambe e un braccio paralizzati e morì all’età di 78 anni il 27 marzo 1980.

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“La mia voce ti accompagnerà”, Milton H. Erickson, a cura di Sidney Rosen

Questo volume rappresenta una raccolta dei racconti di-

dattici di Erickson. I racconti erano uno strumento inscin-dibile dalla pratica terapeutica utilizzata da Erickson: sto-rie singolari, a volte bizzarre, episodi reali o di fantasia, enigmi, metafore che spesso lasciavano interdetto l’ascoltatore. Ma ogni racconto aveva un senso e uno sco-po preciso, era un raffinatissimo strumento comunicativo che conduceva a sorprendenti risultati terapeutici.

Erickson avrebbe dovuto essere coautore del volume ma la sua scomparsa non glielo ha permesso. Sidney Rosen è lo psichiatra che ha scelto e raccolto e commentato oltre un centinaio di racconti.

Ecco alcuni brani autobiografici. Sono tante le cose che impariamo a livello conscio; solo

che dopo dimentichiamo quello che impariamo e ci ser-viamo della capacità acquisita. Vedete, io avevo un gran-dissimo vantaggio sugli altri: avevo avuto la poliomielite, ed ero totalmente paralizzato. L’infiammazione era così forte che avevo anche una paralisi sensoriale. Potevo però muovere gli occhi, e anche l’udito non era menomato. A forza di stare a letto mi veniva la malinconia (…). Come facevo a divertirmi? Cominciai ad osservare le persone e l’ambiente. (…) Così cominciai a studiare il linguaggio non verbale e il linguaggio del corpo. Avevo una sorellina piccola che aveva cominciato a imparare a camminare carponi. Io, invece, dovevo imparare a stare in piedi e a camminare. Lascio a voi immaginare con quale interesse stavo a guardare la mia sorellina che passava dal cammi-

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nare a quattro zampe all’imparare a stare in piedi. E voi non sapete come voi avete imparato a stare in piedi. Non sapete nemmeno come facevate a camminare. Voi potete pensare di poter camminare in linea retta per sei isolati (a parte altri pedoni e veicoli). Ma non sapete che allora non riuscivate a camminare in linea retta a un passo regolare!

Voi non sapete cosa fate quando camminate. Né sapete come imparate a stare in piedi. Imparate allungando la mano e tirandoci su. Ciò comporta una pressione nelle mani, e, per puro caso, scoprite che potete mettere del pe-so sul piede. E’ una cosa tremendamente complicata, per-ché le ginocchia cedono, e se le ginocchia restano su drit-te, cedono i fianchi. Poi vi si incrociano i piedi. Poi non riuscite a stare in piedi perché cedono sia i ginocchi che i fianchi. (……)

Presi il diploma liceale nel giugno del 1919. In agosto

sentii tre medici, nell’altra stanza, dire a mia madre. “Il ragazzo morirà prima di domani mattina”3. Dato che ero un ragazzo normale, mi sentii offeso.

Il nostro medico di campagna aveva fatto venire per consulto due uomini da Chicago, e questi venivano a dire a mia madre “Il ragazzo morirà prima di domani matti-na”.

Ero furibondo. Che idea, quella di dire a una madre che suo figlio morirà entro l’indomani mattina! E’ una cosa infame!

Poco dopo mia madre venne nella mia stanza, col viso sereno. Dovette pensare che stavo delirando, perché io in-sistetti che spostasse la grande cassapanca che avevo in camera, girandola in modo diverso vicino al letto. Lei la

3 Erickson ebbe la prima infezione poliomielitica all’età di diciassette anni. 

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spostò in un certo modo, e io continuai a fargliela sposta-re avanti e indietro sino a quando non mi andò bene. La cassapanca mi impediva di vedere fuori dalla finestra, e per nulla al mondo avrei valuto morire senza vedere il tramonto! Ne vidi solo la metà. Rimasi senza conoscenza per tre giorni. Non dissi niente a mia madre. E neanche lei mi disse niente.

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Oltre la paralisi …. Christy Brown è stato uno scrittore e pittore irlandese.

Egli nacque il 5 giugno 1932 a Crumlin in Irlanda, in una famiglia di modeste condizioni economiche, con 12 fratel-li, e all’età di circa un 1 anno gli viene diagnosticata una paralisi cerebrale, che lo rende completamente paralizzato. I medici lo ritennero senza speranza, incapace di compren-dere, praticamente comparato ad un vegetale e ai genitori viene consigliato di internarlo in un istituto. La famiglia si rifiuta e la madre è convinta che suo figlio possa sentire e comprendere ciò che lo circonda. Chris vive così nella sua grande famiglia, la madre lo stimola e sollecita continua-mente, interagendo con lui e facendo da tramite tra lui e i suoi fratelli. Eppure il piccolo non risponde, rimane sem-pre immobile e muto ad ogni stimolo. Fino a che, all’età di 5 anni, riesce a comunicare attraverso l’uso del piede sini-stro: è riuscito a scrivere alcune parole e a dipingere. Que-sto straordinario evento che gli apre le porte della “norma-lità”: egli è in grado di comprendere il mondo e, seppur con estremo sforzo, di farsi comprendere. Successivamen-te, a diciassette anni, gli viene offerta l'occasione di essere curato dalla dottoressa Eileen Cole: con l'intervento di questa specialista Christy compie consistenti progressi che gli consentono di ottenere un notevole successo come pit-tore. Dopo un folle tentativo di suicidio, provocato dal ma-trimonio del suo amico Peter con Eileen, della quale si era perdutamente innamorato, Christy scrive la sua autobio-grafia, che viene pubblicata.

La sua autobiografia, “Il mio piede sinistro", fu poi este-

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sa nel romanzo "Down all the days", e diventò un libro di grande successo internazionale, tradotto in quattordici lin-gue. Seguirono poi altri romanzi come “Un’ombra in esta-te”. Ha anche pubblicato alcune raccolte di poesie.

Si sposa con l'infermiera Mary Carr, con la quale andò a vivere prima a Ballyheigue e poi in Somerset, nel Regno Unito, dove morì all’età di 49 anni.

“Il mio piede sinistro”, di Christy Brown Il testo rappresenta l’autobiografia dell’autore. Dal libro

nasce, nel 1989, un film diretto da Jim Sheridan ed inter-pretato da Daniel Day Lewis che per interpretare il ruolo ha voluto imparare a scrivere con il piede. Per questa in-terpretazione ha vinto il premio Oscar come migliore atto-re protagonista.

(……) La maggior parte dei medici che mi esaminarono

dichiararono il mio caso uno dei più interessanti, ma cer-tamente senza speranza. Molti dissero a mia madre, non senza certi riguardi, che mi consideravano un minorato psichico e che tale sarei rimasto per tutta la vita. (.…) I medici si mostravano così sicuri della loro diagnosi che la speranza radicata nei miei riguardi nel cuore materno, sembrava loro quasi un’insolenza. (……) Ella rifiutava di ammettere che io fossi incurabile, che non si potesse ten-tare nulla per me, che fosse preclusa ogni speranza. Qua-lunque cosa le dicessero, ella non poteva e non voleva ac-cettare l’idea che io fossi un idiota. Nonostante gli argo-menti che le opponevano medici e specialisti, ella non si lasciava convincere. Aveva la certezza di essere nel vero e nessun dubbio la sfiorava. (……)

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Fu allora che prese la decisione di agire di testa sua. Io ero il “suo” bambino e quindi un membro della famiglia. Ma avrebbe dunque trattato come gli altri, anche se fossi stato stupido, e non come il deficiente che si tiene in di-sparte e si nasconde agli estranei. Questa per il mio avve-nire, fu una decisione d’importanza capitale. Avrei avuto sempre al mio fianco mia madre per aiutarmi nelle lotte future e per infondermi una forza nuova quando fossi sul punto di soccombere. (……)

In un cantuccio, stretti l’uno all’altra, stavano Paddy e Mona, con dinanzi alcuni sbrindellati libri di scuola. Fa-cevano addizioncine sopra una vecchia lavagna sboccon-cellata, con in mano un pezzetto di gesso giallo. Io, seduto poco lontano da loro, in mezzo ai miei cuscini appoggiati al muro, li guardavo. Ciò che soprattutto attirava il mio sguardo era quel bastoncino di gesso, lungo, sottile, d’un giallo vivo. Non ne avevo mai visto uno simile, e spiccava così bene sulla superficie nera della lavagna che mi affa-scinava come se fosse stato d’oro. D’un tratto fui preso dal desiderio pazzo di imitare mia sorella. Allora, senza che il mio pensiero avesse la benché minima parte nel ge-sto, senza sapere esattamente ciò che facevo, afferrai con il piede sinistro il gesso strappandolo dalle mani di Mona.

Perché il piede sinistro? Non se ne sapevo nulla. Enig-ma per molte persone quanto a me stesso. (……)Quel giorno, tuttavia, il mio piede sinistro, mosso come da una forza singolare, s’impossessò brutalmente di quel gesso. Lo tenni stretto fra l’alluce ed il secondo dito e, con un moto impulsivo, tracciai sulla lavagna una specie di sgor-bio informe. Mi fermai, un po’ sbigottito, sorpreso, con gli occhi fissi sul gessetto, non sapendo più che cosa fare, senza quasi capire come mai mi fosse capitato così fra le

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dita del piede. Allora, guardando intorno a me, presi co-scienza che tutti avevano cessato di parlare e mi fissavano in silenzio. Nessuno si muoveva. (…)

Mia madre stava venendo dal retrocucina, con la teiera fumante. A mezza strada fra la tavola e il focolare si fermò di botto: aveva avvertito la tensione che regnava nella stanza. (…..) Vide il mio piede le cui dita si contraevano sul gessetto e posò la teiera. Poi, attraversando veloce la cucina, venne a me, e inginocchiandosi al mio fianco, co-me aveva fatto tante volte, disse: “T’insegnerò ad adope-rarlo, Chris!”, Articolava ogni parola lentamente, con vo-ce strana, come strozzata. Prendendo dalle mani di Mona un altro pezzo di gesso, parve incerta, poi, risolutamente, disegnò sul pavimento, davanti a me, la lettera A.

“Guarda, fa questo” disse fissandomi intensamente. “Fa come me, Christy!” Ma non riuscì a farlo. Vedevo tutti quei visi rivolti a me. Visi tesi, eccitati, che

in quel momento, immobili, avidi, spiavano l’avverarsi di un miracolo, un miracolo che si sarebbe compiuto in mez-zo a loro. (…) Di nuovo provai. Con la gamba allungata appoggiai il gesso sulla lavagna che la mamma teneva da-vanti a me. Ma il movimento a scatti non produsse che una riga a zig-zag. “Ancora una volta, Chris” mi sussurrò mia madre, all’orecchio. “Ancora una volta!”.

Obbedii. Irrigidendo il corpo, spinsi in avanti il piede per un terzo tentativo. Riuscii a tracciare uno dei lati della lettera, poi la metà dell’altro. Il gessetto si spezzò, non me ne rimase che una scheggia, ed ebbi voglia di lasciarla andare, di buttarla via. (…) Ma sentivo sulla spalla la ma-no della mamma e fece un nuovo sforzo. Tremando, su-dando, tendevo tutti i muscoli. Le mani mi si contraevano

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così forte che le unghie m’entravano sulla carne. Strinsi i denti al punto che il mio labbro inferiore ne fu quasi ta-gliato. Tutto, nella stana, mi sembrava annegato nella nebbia, tranne i volti che parevano tante macchie bianche. Infine riuscii a tracciare la lettera A. Era lì, dinanzi me, un po’ informe certo, con le aste tremolate, irregolari, la sbarretta del mezzo non troppo diritta. Ma pure la si pote-va riconoscere. Alzando gli occhi vidi le lacrime scorrere sulle guance di mia madre. Mio padre si chinò e mi prese sulle sue spalle. Avevo trionfato. E questa modesta vittoria permetteva di sperare che la mia intelligenza avrebbe po-tuto forse, contro ogni ostacolo, una probabilità di espri-mersi. Non potevo parlare, è vero, ma ora avrei potuto servirmi di un mezzo d’espressione più durevole della pa-rola: avrei potuto usare la scrittura.

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Oltre l’eccidio … Liliana Manfredi è sopravvissuta a una strage nazista nel

giugno del 1944. Aveva solo undici anni quando venne fu-cilata insieme alla madre e ai nonni, e ad altri trenta civili innocenti alla Bettola, sulle colline di Reggio Emilia. Li-liana ha avuto la fortuna di essere solo ferita e l'audacia di tentare una fuga rocambolesca fino al fiume, prima che i tedeschi dessero fuoco alla sua casa. E sul greto del torren-te Crostolo, con una gamba spezzata e tre pallottole nel corpo sanguinante, è avvenuto l’inaspettato: il nazista ad-detto al giro di ricognizione post-strage scopre Liliana na-scosta nell'erba e invece di darle il colpo di grazia la porta di peso sulla strada principale, rischiando la corte marziale per salvarle la vita.

Oggi Liliana Manfredi vive a Montecavolo, vicino alla Bettola, e conduce una vita serena.

“Il nazista e la bambina”, di Liliana Manfredi Liliana Manfredi è autrice e protagonista di questo ro-

manzo/diario che tratta di una storia vera. Liliana è so-pravvissuta a una strage nazista nel giugno del 1944, quando nel suo paesino, la Bettola, furono uccise all’incirca trenta persone, tra cui sua madre e i suoi nonni. Un eccidio commesso da soldati della Werhmacht come rappresaglia ad un’azione partigiana: 32 civili, uomini, donne e anche un bimbo di 18 mesi, trucidati e bruciati.

La protagonista, allora bambina di undici anni, non po-teva capire la guerra e la descrive con occhio innocente,

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ignaro di tutta la crudeltà che può esserci al mondo. Questa è la storia di una bambina che è sopravvissuta a tre pallot-tole incastonate nel corpo, una gamba spezzata, vedendo davanti ai suoi occhi la madre e i nonni freddati senza pie-tà. Liliana ha la forza e il coraggio di scappare fino al fiu-me dove si lascia andare, estenuata e senza forze. È pro-prio lì, in mezzo a un prato che un soldato nazista la trova e, al posto di darle il colpo di grazia, la salva senza dire una parola e se ne va rischiando così la corte marziale.

«Ho settant’anni e sono nata due volte. La prima volta ero in casa di mia nonna. (29 aprile

1933). La seconda volta ero in mezzo a un prato, di fianco alla

casa ridotta in cenere dai tedeschi. 24 giugno 1944. Avevo tre buchi di pallottola nel corpo. Il nazista mi puntò il fucile in mezzo agli occhi. Poi ci guardò dentro. E fece salva la mia vita». Il mio inferno è fatto da un calcio che spalanca la porta

di casa mia, e questa porta diventa una bocca che vomita lupi mannari, che indossano una divisa grigia e hanno un mitra in mano. Sono due, quattro, sei. Io sono abbracciata alla mamma, paralizzata dal terrore in un angolo della cucina. (……) Il mio inferno ha la voce di un uomo che ur-la “Al muro! Al muro!”, di una confusione che sale e dell’assoluto silenzio della mia mamma. Sei diavoli che urlano “Al muro! Al muro!”, e altre parole che non capi-sco ma che mi fanno male, un male terribile, mentre il mio

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angelo non dice niente. Assiste muta all’onda di piena che ci inghiottirà. (…)

Il mio inferno sono sei belve che spingono me e la mamma nella camera dei nonni, ci costringono ad andare verso di loro che sono seduti su letto, si schierano in un secondo contro il muro. Hanno davanti agli occhi un an-ziano, un’anziana, una bambina e, a sinistra, una donna in piedi. E sparano. Sparano. Sparano. Sparano ancora. Facciamo venti colpi a testa? Venti colpi per sei mitra-gliette. Centoventi pallottole per uccidere un anziano, un’anziana e una bambina seduti sul letto e, a sinistra, una donna in piedi. (……)

Non mi salvai per miracolo. Mi salvai per gioco. I tede-schi che irruppero in casa mia, per prima cosa spararono alla lampadina che illuminava la cucina. Il buio, le urla, lo spavento scatenarono una gran confusione. Appena fummo spintonate dentro la camera dei nonni tornai bam-bina e mi tuffai nel gioco che facevo sempre, ogni mattina, quando mi svegliavo. Correvo ai piedi del letto dei nonni, sollevavo lesta le coperte e m’infilavo sotto chiudendo gli occhi. Poi restavo lì nascosta fino a che mia mamma veni-va a chiamarmi per la colazione, facendo finta di scoprir-mi. Quando sollevava le coperte cominciava un giorno nuovo.

Ero viva? Ero morta? Non riuscivo a capirlo, non c’era nessuno a dirmelo. (……)

Ero in un letto di sangue, il sangue della mia famiglia. (……)

Ma io ero viva. Viva. Il corpo bucato, sfregiato, vilipeso, imbrattato. Il cuore straziato, l’anima strappata. Ma ero viva. Paralizzata dalla paura e scoperta dal sole. La morte si ripresentò con la faccia di una suola. La suola di uno

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scarpone militare. Della Wermacht. Spuntò all’improvviso dall’erba. Silenzioso, inaspettato, minaccioso. Scavalcò il mio recinto d’erba, il mio rifugio verde, e mi vide.

Era uno di loro. Anzi, era l’ultimo, probabilmente. Inca-ricato di fare la scopa, l’ultimo giro di perlustrazione per controllare che tutto fosse a posto, che tutto fosse morto.

(…….) Senza dire una parola, senza emettere il minimo suono, senza fare il più piccolo dei rumori, il soldato di-sarmò, si chinò e mi passò il braccio intorno alla vita. Mi sollevò e si mise a camminare. Dopo qualche passo, mi adagiò dolcemente sul ciglio della strada. Poi, senza dire una parola e senza voltarsi mai, se ne andò rapidamente su per i tornanti.

Due occhi di soldato avevano scoperto due occhi di ne-mico.

Due occhi di uomo avevano incontrato due occhi di bambina.

(……) Mi salvò la vita in silenzio e poi fuggì, prima che il sole

potesse svelare il nostro segreto. Oggi sono la Lilli. Ho settant’anni. Abito a Montecavo-

lo, a pochi chilometri dalla Bettola. Ho vissuto un’esistenza serena, tranquilla, anche divertente. Ho un marito, Carlo. L’ho conosciuto a Felina, un paesino di montagna. Venne a casa di mia zia, mi fece ridere, ci spo-sammo con le due lire che lo stato mi dava come orfana di guerra. La nostra famiglia si è allargata a due figlie, Pa-trizia e Paola, e tre nipoti: Sara, Elisa, Tommaso.

Sono scampata a una strage nazista, è vero, ma la mia vera impresa è stata quella di essere felice dopo.

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Brevi note biografiche sull’autrice Giuliana Morini è nata a Desio nel 1969 e vive a Brisi-

ghella. Si è laureata in Scienze Politiche, indirizzo Socio-logico, e si è poi specializzata nella formazione dei gruppi, nell’orientamento personale e lavorativo, nelle tecniche psicodrammatiche.

In ambito professionale, dopo un’esperienza iniziale come formatrice e orientatrice di adulti e adolescenti, ha svolto per diversi anni attività di consulenza e aggiorna-mento per formatori, insegnanti, educatori.

E’ autrice di vari saggi sulle metodologie formative e sulla comunicazione didattica.

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I Quaderni della Libera Officina I. D. Callini, I Frammenti Ricomposti, giugno 2010.

II. D. Callini, Il Coraggio, novembre 2010.

III. A. Valeck, Educazione e dintorni: dialoghi a distan-

za, gennaio 2011.

IV. D. Callini, La ricerca dell’autenticità, febbraio

2011.

V. D. Callini, La clessidra di Ermete, aprile 2012.

VI. G. Morini, Breve antologia di storie resilienti. Ov-

vero il coraggio di non avere paura, luglio 2012.