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Università degli studi di Napoli “L’Orientale” Facoltà di Scienze politiche Corso di Laurea in Scienze Politiche Tesi di laurea in Sociologia I processi di formazione e trasformazione del sistema universitario italiano Relatore: Candidato: Prof. Mauro Di Meglio Fabio Falabella SP/9958 Correlatore: Prof. Ottorino Cappelli Anno accademico 2004/2005

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Università degli studi di Napoli “L’Orientale”

Facoltà di Scienze politiche

Corso di Laurea in Scienze Politiche

Tesi di laurea in Sociologia

I processi di formazione e trasformazione del sistema universitario italiano

Relatore: Candidato: Prof. Mauro Di Meglio Fabio Falabella SP/9958 Correlatore: Prof. Ottorino Cappelli

Anno accademico 2004/2005

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“Notte chiara, notte bella, sopra i libri non ti avevo letto mai…”, sono le parole iniziali di una

canzone di De Gregori che mi venivano in mette mentre, sveglio e da ore davanti alla tastiera e a

sfogliar testi, finivo di scrivere la tesi: un brivido, una sensazione così eccitante, adrenalinica,

pura, da farmi sorridere e da non poter essere raccontata.

Fabio, lo studente per eccellenza, si laurea maturandosi uomo e conservando dentro di sé il

sogno di bambino più spontaneo; “io non artista, soltanto piccolo baccelliere, io dico addio…”!

Questo lavoro è dedicato a me e a tutte le persone che amo.

Dal più profondo del mio cuore, ringrazio e dedico questa tesi a mia nonna, mio padre, mia

madre, mia sorella e Kewè: ho studiato e l’ho scritta anche per loro.

Ringrazio il prof. Mauro di Meglio, relatore della mia ricerca, che mi saputo educare nel senso

più profondo e complessivo del termine, stimolandomi dal punto di vista intellettuale e riuscendo

ad essermi persino amico.

Ringrazio il prof. Ottorino Cappelli, correlatore, che mi ha visto entrare ragazzo in questo

ateneo, e che mi è stato vicino nei momenti bellissimi di questa mia carriera universitaria, e che

mi ha saputo consigliare su scelte importanti, dal piano di studi alla tesi.

Ringrazio tutt’e cumpagne che sperimentano insieme a me percorsi esistenziali, culturali e

politici, e che hanno voluto questa laurea fortemente quanto me, aiutandomi nei momenti e nelle

maniere più impensabili

Un pensiero va agli scritti di Ernesto Guevara (si el poeta eres tu) che hanno fortificato e

commosso il mio spirito insegnandomi il senso della mia esistenza: ora posso finalmente dire, con

pieno diritto e nella massima. ingenua, convinzione , Hasta la victoria Siempre.

Infine voglio ringraziare tutte le belle persone che ho incontrato nell’Orientale, e tutte quelle

che incontrerò sul mio sentiero.

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Indice Introduzione p. 1 Capitolo 1. L’Università come istituzione storico-sociale: dal medioevo al Novecento p. 3 Capitolo 2. La strutturazione degli atenei nel sistema pubblico di istruzione superiore p. 39 Capitolo 3. Il processo di autonomia dell’università italiana: verso la European Higher Education Area p. 89 Considerazioni conclusive: risultati, implicazioni e interpretazioni della ricerca p. 151 Figure & Tabelle p. 167 Allegato 1. Elenco dei Ministri della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia p. 183 Allegato 2. Elenco dei Ministri della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana p. 188 Appendice normativa p. 191 Bibliografia ………………………………………………………………………………………. p. 239

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Introduzione

Le ragioni alla base della scelta dell’argomento proprio di questa ricerca di tesi sono, ad un

tempo, esistenziali, scientifico-culturali e politiche.

Innanzitutto l’idea, la voglia di “studiare l’università”, è stata ispirata dal sentimento di

particolare, molteplice, profondissimo attaccamento nutrito dal studente-candidato nei confronti

dell’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale”, dell’università intesa nelle sue molteplici,

innumerevoli declinazioni, come istituzione di formazione (in termini di studio, corsi, esami,

relazioni personali e professionali con i docenti) e come spazio-tempo sociale vivo, alternativo e

stimolante dal punto di vista culturale, intellettuale, socio-relazionale ed emozionale, da riempire

con la sperimentazione (sui libri e nei rapporti sociali) di percorsi di formazione e miglioramento

personale e collettivo.

In secondo luogo, il fervente interesse per tutto ciò che è cultura, per quello che significano i

saperi, i saperi storico-sociali, la produzione di saperi, ha suscitato una passione sincera verso lo

studio di questi argomenti e, segnatamente, verso un’indagine sulla università intesa come

struttura sociale deputata alla produzione, alla riproduzione, alla conservazione dei saperi e delle

conoscenze.

D’altro canto, la motivazione scientifica di queste preferenze consiste nella piena

consapevolezza del valore dell’università (intesa qui in senso lato, come sistema complessivo di

istruzione e formazione terziaria) proprio in quanto produttrice di saperi e di “manodopera

cognitiva” di eterogenea qualificazione, all’interno del sistema-mondo contemporaneo, il quale

appare caratterizzato da tre dinamiche evidentissime: l’accresciuta necessità di risorse

strategiche, lo sviluppo delle biotecnologie molecolari, nonché l’estensione e la diffusione della

domanda e dell’offerta mondiale di istruzione, formazione, in-formazione.

Si è così pensato di elevare i processi di trasformazione delle università ad elemento principale

della ricerca, la quale risulta strutturata nella seguente maniera: un primo capitolo che,

cominciato con gli studia medievali, termina con la nascita dei primi politecnici e le profonde

trasformazioni che interessarono gli atenei italiani nell’Ottocento, fino ad arrivare alla Legge Casati

del 1859, la quale cominciò ad integrare in un sistema coerente ed unitario l’insieme frammentato

e disorganico di istituzioni di istruzione post-secondaria provenienti dai vari stati italiani. Nel

secondo capitolo viene esaminato il processo di statalizzazione dell’università italiana che,

attraverso la riforma Gentile e le disposizioni della Costituzione, viene integrata all’interno del più

complessivo apparato della pubblica amministrazione. Così, il terzo capitolo racconta del processo

di autonomizzazione e di europeizzazione delle università italiane, per concludere il percorso logico

avviato nei capitoli precedenti, tenendo presente la lunga durata dei fenomeni oggetto di studio,

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in merito cui portata storico-sociale viene argomentata l’interpretazione propria di questa ricerca,

all’interno delle considerazioni conclusive.

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Capitolo 1. L’Università come istituzione

storico-sociale:

dal medioevo al Novecento

Istruzione superiore: ecco che ci vuole! (Mago Merlino, La spada nella roccia)

Argomento e definizione del problema

L’oggetto di questo lavoro, o più precisamente, l’argomento che definisce il campo di indagine di

questo studio è costituito dall’università: questa viene concepita come una istituzione culturale e

scientifica, ovvero come una struttura sociale di importanza fondamentale in quanto deputata alla

conservazione, alla riproduzione ed alla diffusione dei saperi, nonché allo sviluppo delle conoscenze.

Sin dalla loro comparsa, avvenuta intorno al dodicesimo secolo, tutte le istituzioni universitarie,

pur se differenti l’una dall’altra, sono state caratterizzate dal possesso di alcuni requisiti comuni, quali

appunto le funzioni di ricerca e di insegnamento, lo sviluppo delle scienze sociali, una divisione

intellettuale del lavoro nell’ambito delle attività didattiche, e la predisposizione di un ordinamento di

studi strutturato in blocchi di discipline che sono stati denominati nel corso del tempo, e variando

secondo il luogo in questione, facoltà, istituti, laboratori, dipartimenti, scuole, collegi di studio, sino

agli attuali centri, programmi e unità di ricerca e insegnamento (Rothblatt, 2001, pp. 15983-15990).

Tuttavia, nel corso della loro storia pluricentenaria, le università, pur conservando queste proprie

competenze peculiari, sono state interessate da complessi processi di cambiamento che ne hanno

modificato profondamente l’organizzazione ed il funzionamento: in alcuni contesti storici particolari,

quali quello in cui si trova ad operare, oggi, l’università italiana, queste trasformazioni sono state

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talmente intense da alterare addirittura la natura stessa delle istituzioni universitarie e da riformulare il

senso generale degli studi d’eccellenza.

L’argomento di questa ricerca, dunque, è rappresentato dai processi di trasformazione cui si

accennava e, in particolare, dai processi di formazione e trasformazione del sistema universitario

italiano; per cui, piuttosto che pensare l’università, tanto più se intesa in termini di sistema

universitario, come un oggetto di analisi chiuso e statico, si è preferito indagare le dinamiche

complessive di natura socio-economica e politico-culturale che contribuiscono a destrutturare, a

modificare e riconfigurare questo sistema, considerando che le unità o i soggetti agenti possono

essere pensati solo come formati, e continuamente ri-formati, dalle relazioni e dai processi

intercorrenti tra essi (Hopkins, 1982, p. 149).

I processi di trasformazione delle università italiane vengono analizzati secondo una

prospettiva storica di lunga durata, perciò possono essere inquadrati con precisione e studiati

agevolmente tenendo presente la periodizzazione della storia delle istituzioni universitarie

proposta dalla letteratura scientifica presa in considerazione:1 secondo questa interpretazione lo

sviluppo storico delle università italiane, e per estensione di quelle occidentali, potrebbe essere

diviso in tre fasi. Di queste, la prima andrebbe dalla nascita delle università nel Medioevo sino

all’Illuminismo; la seconda comincerebbe con le profonde trasformazioni che interessarono le

università europee nell’Ottocento ed il graduale “costituirsi” dei sistemi universitari nei differenti

stati nazionali, e si prolungherebbe sino al periodo immediatamente successivo alla Seconda

Guerra Mondiale;2 mentre la terza fase di progressiva diffusione, generalizzazione e

“massificazione” dell’università andrebbe dagli anni ’60 del secolo scorso ai giorni nostri, in cui

profondissimi ed in parte indecifrati cambiamenti di origine e caratura globali stanno interessando

le università di tutto il mondo e gli atenei italiani, determinando ulteriori ripensamenti e

ristrutturazioni degli studi universitari e degli istituti di alta formazione.

Ma prima di cominciare il racconto partendo dalla seconda metà del diciannovesimo secolo,

quando le poche università allora esistenti in Italia furono completamente trasformate dall’opera

riformatrice della classe dirigente del nascente stato unitario, occorre fare una digressione storica

sullo sviluppo degli studi universitari per precisarne meglio la natura e sottolinearne ad un tempo

1 TEICHLER U., Higher Education, pp. 6700-6701 in SMELSER J. N., BALTES B. P., “International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences”, Elsevier, Amsterdam, 2001; la sistematizzazione temporale proposta può essere desunta in realtà da numerose argomentazioni sostenute in testi differenti (come NOKKALA T., Perspectives to the stakeholders in higer education), tuttavia la versione più completa e precisa è leggibile nella fonte indicata. 2 Al termine del conflitto inizierà un periodo di ricostruzione degli stati coinvolti, principalmente in quelli aderenti al Patto Atlantico tra i quali l’Italia, caratterizzato da una profonda ristrutturazione delle economie di questi stati stessi e da una riformulazione generale delle proprie politiche pubbliche che determineranno delle sensibili trasformazioni pure nel settore scolastico ed universitario, e che saranno argomento prossimo della trattazione.

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la stretta correlazione con il contesto politico-territoriale nel quale hanno avuto luogo e, più in

generale, con le dinamiche del sistema storico-sociale nel suo complesso.

Cenni sulla storia delle istituzioni universitarie: dagli studi medievali alle

accademie ottocentesche

L’università è una istituzione scientifica e didattica, articolata in più facoltà, nella quale

vengono strutturate attività di ricerca ed organizzati, coordinati e tenuti gli studi di più alto ordine

e grado, al cui termine si consegue un diploma di laurea (Felici, 1987). Le università, dunque,

attribuiscono titoli accademici che si acquisiscono a seguito di corsi cui si accede dopo aver

terminato gli studi secondari; in generale esse prevedono il superamento di esami sostenuti in

discipline particolari e la stesura di un elaborato di tesi su di uno specifico argomento di ricerca al

termine del corso di studi.

In quanto organizzazione sociale deputata alla conservazione e alla riproduzione dei saperi,

l’università è un prodotto storico del medioevo europeo (Araldi, 1974, p. 33). In realtà, istituzioni

culturali di vario genere e programmi di alta formazione sono esistiti in tutto il mondo da più di

mille anni, si pensi solo ai ginnasi ed ai simposi della Grecia antica;3 tuttavia i compiti

fondamentali che caratterizzano le istituzioni contemporanee di alta formazione, ossia

l’insegnamento e l’apprendimento di saperi “analitici”, “razionali”, “sistematici”, “critici”, “scettici”

e “innovativi” cominciarono ad essere svolti dalle università europee nel medioevo (Teichler, 2001,

pp. 6700-6705). Infatti, contrariamente alle scuole socratiche, all’Accademia di Platone o al Liceo

aristotelico, le quali non erano istituzioni permanenti di insegnamento né tanto meno conferivano

diplomi (Araldi, 1974, p. 38), le prime universitas, si caratterizzarono come società-comunità di

studiosi rette da precisi contratti di natura economica stipulati tra allievi ed insegnanti (Cavanna,

1978, p. 127), governate da un rector (reggente) ed organizzate in associazioni di dominus

(docenti) e socius (studenti); esse sorsero all’interno delle corporazioni cittadine di mestiere

(Araldi, 1974, p. 37) attraverso le quali veniva istituzionalizzata ed organizzata, nell’alto

medioevo, una nuova divisione sociale del lavoro in Europa (Rothblatt, 2001, pp. 15983-15990), e

nacquero con il preciso scopo di rinnovare il culto dell’amor scientiae ma soprattutto di preparare

giovani studenti per le pubbliche occupazioni del tempo (Araldi, 1974, p. 37).

Le universitas societas magistrorum disciplinorumque, dunque, si configurarono come delle

comunità private di liberi docenti e di allievi, gli scholares, e si strutturarono in facoltà e nationes

3 Il gymnasium era in genere una scuola per giovani aristocratici ma molto differente per natura dal concetto stesso di università moderna mentre il symposium era perlopiù una sorta di consesso comunitario e culturale, non dedito a nessun fine formativo specifico, di cui i più celebri esempi furono l’eterìa di Alceo ed il tiaso di Saffo.

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differenti a seconda dell’oggetto di studi e della provenienza degli studenti; esse erano delle vere

e proprie associazioni professionali di cultori delle “arti liberali” (Ibidem, p. 47)4 dedite alla

catalogazione, alla rielaborazione ed alla diffusione della gran mole di conoscenze ereditate

dall’antichità classica, nonché all’integrazione, all’interno di questa tradizione culturale

secolarmente consolidata, di nuovi saperi provenienti in gran parte dal mondo arabo. Le prime

università, insomma, non furono altro che assemblee di docenti e studenti riuniti in corporazione, i

quali si incontravano presso chiese e monasteri per commentare testi filosofici e giuridici. Queste

comunità di studiosi però, operarono una svolta, un salto qualitativo di notevole portata in alcuni

delimitati settori dello scibile umano, in primo luogo la logica e il diritto, servendosi di testi

risalenti all’antichità che essi rimettevano in circolazione leggendoli, copiandoli e corredandoli di

note esplicative o glosse (Cavanna, 1978, pp. 125 e ss.; Araldi, 1974, p. 15; Rothblatt, 2001, pp.

15983-15990). Questo movimento sociale, questo rifiorire culturale, acuì la crisi delle vecchie

scuole altomedievali, gli Studium sorti presso monasteri, vescovadi e cattedrali e, nello stesso

tempo, determinò il progressivo consolidamento delle università, strutture scolastiche di tipo

nuovo che maestri del calibro di Irnerio ed Abelardo (Araldi, 1974), e i loro compagni e

successori, andavano fondando a Bologna (1088), Pavia, Parigi (1180), Salamanca (1218), Napoli

(1224), Padova e Vicenza, Cambridge (1249), Oxford (1284), Coimbra (1285), Roma (1303),

Camerino, Cracovia (1364), Vienna (1365), Pecs (1367), Heidelberg (1386), Colonia, Erfurt,

Lovanio e Tubinga (Pazzaglia, 1992).

Queste prime scuole erano in realtà molto differenti dal modello di università affermatosi in

Europa nei secoli successivi: più che delle istituzioni dotate di strutture proprie, esse erano delle

associazioni nate su base corporativa con lo scopo di offrire mutua assistenza ai propri membri,

furono il prodotto di un movimento culturale formatosi spontaneamente e, almeno inizialmente, al

di fuori dell’iniziativa e del condizionamento dei pubblici poteri, imperiali, papali o comunali che

fossero: non disponevano di edifici, aule, biblioteche o laboratori ma, secondo la definizione del

giurista e storico francese E. Pasquier, erano università fatte di uomini (Araldi, 1974, pp. 33-34).

Trovarono massima espressione, infatti, nel fenomeno dei clerici vagantes, gli studiosi,

inizialmente tonsurati secondo il modello monastico, “i quali fanno il mestiere di pensare e di

insegnare il loro pensiero” (Le Goff, 1972, pp. 3-4) che letteralmente girovagavano attraverso le

città europee contribuendo vigorosamente all’interscambio culturale e alla sedimentazione e

diffusione delle conoscenze: una sorta di Progetto Erasmus ante litteram dalle dimensioni molto

ridotte ma completamente spontaneo ed autorganizzato.

4 Le arti liberali erano costituite da un trivio e da un quadrivio di discipline che consistevano rispettivamente in grammatica, retorica e logica il primo e in aritmetica, geometria, astronomia e musica il secondo: costituivano una delle quattro facoltà nelle quali erano complessivamente ordinati gli studi universitari; le altre tre facoltà erano quelle di teologia, diritto e medicina, tutte prevedevano un corso di studi organizzato in tre gradi ai quali corrispondevano i titoli di baccelliere, maestro e dottore.

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La portata di questo movimento sociale, di questo libero peregrinare di ingegni, destò ben

presto l’attenzione e l’interesse dei poteri pubblici del tempo. L’Impero, il Papato, nonché una

sempre crescente schiera di podestà, divennero a poco a poco consapevoli dell’importanza e del

potenziale valore politico di questi nuovi studi e spesso cercarono di garantirsi il sostegno o

l’acquiescenza delle università offrendo ai loro membri protezione, diritti e privilegi di natura

giuridica ed economica. Tant’è che le più antiche università che la storia ricordi (se non si tiene

conto della Schola Medica Salernitana che si sviluppò già a partire dall’undicesimo secolo), ossia la

Sorbona di Parigi e l’Alma Mater Studiorum di Bologna, entrambe del dodicesimo secolo (Araldi,

1974),5 nonostante fossero nate autonomamente grazie all’opera di associazioni di studenti e di

docenti, si trovarono sin da subito nella condizione di doversi confrontare con il potere papale e

con quello imperiale, per cui crebbero l’una come fiorente facoltà di teologia ospitata in locali

periferici della Cattedrale di Notre Dame e l’altro come istituto di diritto civile piuttosto organico

alle esigenze dell’imperatore.

L’editto di Roncaglia del 1158,6 emanato da Federico Barbarossa, mostra chiaramente

l’intenzione dell’imperatore di servirsi delle consulenze giuridiche dei dottori di Bologna e

dell’opera loro in generale poiché “dalla loro scienza il mondo riceve luce e la vita dei sudditi è

improntata all’obbedienza verso Dio e noi, suoi ministri”: nelle statuizioni contenute nei compendi

preparati dai giuristi dell’università il sovrano cercava una legittimazione formale per i propri scopi

politici di espansione territoriale; in cambio assicurava a maestri e discepoli la protezione in tutto

il territorio dell’impero, la facoltà di recarsi e stabilirsi dovunque e di professare i propri

insegnamenti, nonché prezzi e giurisdizioni particolari (De Vergottini, 1956, pp. 26-27). Le

università, insomma, si relazionavano al potere politico per garantirsi le condizioni della propria

sopravvivenza e non di rado delle cospicue sovvenzioni, mentre i poteri pubblici tentavano di

condizionare le università e di renderne organica e funzionale la produzione di saperi attraverso

leggi, che oggi chiameremmo di riforma, e di cui il documento preso in considerazione costituisce

il più antico ed autorevole esempio disponibile. Il documento imperiale in realtà, si limitava a

garantire le condizioni politiche e giurisdizionali affinché fosse possibile “fare università” all’interno

dei propri domini, senza entrare nel merito di questioni tecniche specifiche circa l’organizzazione

delle attività didattiche che, allora, rimanevano saldamente prerogativa delle “autorità

accademiche” (Araldi, 1974). Tuttavia esso esplicita l’importanza che, pur con notevoli differenze

storicamente determinatesi a seconda del tempo e del luogo in questione, l’università cominciò da

quel momento a rivestire nei confronti del potere politico in quanto istituzione di alta cultura e di

formazione d’eccellenza, nella quale si svolgevano nello stesso tempo attività didattiche e di

ricerca.

5 Il nome originale in latino dello studio bolognese è stato ripristinato con decreto rettorale del 2000 ed ha sostituito la denominazione ministeriale di Università degli studi di Bologna. 6 Il testo completo è presente nella versione latina originale nell’Appendice Normativa, Allegato n. 1.

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Va detto ancora che queste prime università sopravvissero al tempo della loro fondazione e,

cresciute nel corso dei secoli per numero e dimensione (la prima università fondata nel Nuovo

Mondo nel 1551 fu la Universidad national autonoma de Mexico), divennero pian piano istituzioni

fondamentali di cultura in tutti i paesi europei; esse conobbero il loro primo, vero declino soltanto

durante il periodo storico che va sotto il nome di Illuminismo, che segnò la fine della Scolastica

(Piovani, 2000, pp. 21 e ss.)7 e la nascita delle prime accademie delle scienze, avvenuta nelle

principali monarchie europee a cavallo dei secoli diciassettesimo e diciottesimo. Durante questi

secoli l’istruzione universitaria rimase un privilegio raro e per pochi,8 mentre le università,

nonostante le bolle e gli editti che le riguardavano, conservarono sino al 1700 una sostanziale

autonomia organizzativa e decisionale che pian piano le allontanò dalle grazie dei sovrani europei

e le fece passare in second’ordine rispetto alle già menzionate e neocostituite accademie.

In realtà, sebbene prevalga tra gli studiosi la tesi della filiazione diretta delle nostre istituzioni

di istruzione superiore dalle università medievali (Araldi, 1974, p. 34), secondo quanto sostiene

Piovani in un saggio pubblicato negli anni scorsi, l’università moderna sarebbe rinata soltanto

nell’ottocento, secolo di ampissime trasformazioni socio-economiche e di profondi rivolgimenti

politici, e nel quale si verificarono grandi cambiamenti all’interno dei singoli stati-nazione in

materia di istruzione. Sempre secondo questa interpretazione l’università moderna, dunque,

sarebbe una istituzione del tutto nuova (Piovani, 2000, pp. 21 e ss.), quasi completamente

differente da quelle medievali, e ciò nonostante l’ambizione millenaria (Araldi, 1974), ad un tempo

araldica e nobilitante, nutrita da parte della storiografia e dai senati accademici di certi nostri

atenei durante le cerimonie ufficiali.

Fu solo nel diciannovesimo secolo, infatti, che le monarchie europee e le classi dirigenti

nazionali (le quali proprio durante e grazie all’Illuminismo avevano preso coscienza

dell’importanza dell’istruzione e del valore strategico della sua diffusione sia per la crescita della

coscienza civica della popolazione, sia per il progresso materiale dello stato) (Pazzaglia, 1992)

cominciarono ad investire sempre di più nell’istruzione aumentando, estendendo ed

7 Questo è il periodo storico nel quale, secondo l’autore, “tonache e toghe si confondono nei consigli accademici degli Studia, altisonanti per riverito nome, ma spesso rauchi per logorio di insegnamenti stancamente ripetuti” e che segna una soluzione di continuità abbastanza profonda e prolungata, nella storia secolare delle istituzioni universitarie. 8 Gli studi d’eccellenza erano generalmente appannaggio di ordini ecclesiastici; gli studi superiori, in particolare, erano gestiti dai Gesuiti la cui Ratio Studiorum fornirà l’impostazione metodologica per l’insegnameto e l’apprendimento in ogni disciplina per almeno tre secoli; questi studi venivano generalmente impartiti privatamente presso le corti o le case aristocratiche, talvolta presso i Seminaria nobilium, istituti censitari diretti da ecclesiastici nei quali i giovani, appartenenti alla aristocrazia delle rispettive corti degli stati pre-unitari italiani, venivano e;ducati, istruiti e formati per le pubbliche occupazioni. Insieme alle scuole artigiane, che sorgevano all’interno delle corporazioni cittadine e nelle adiacenze dei monasteri, questi istituti costituirono in cui si articolerà l’intera offerta di istruzione nei secoli successivi al medioevo; uno di questi era attivo anche a Napoli, ospitato in una struttura che si trova a pochi metri da Palazzo Corigliano che, risaputamente, è uno dei palazzi dell’università Orientale.

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ammodernando l’offerta scolastica in generale e privilegiando quella media ed universitaria in

particolare.

A dire il vero, più che la portata morale dei valori ascrivibili all’Illuminismo, fu l’insieme di

processi che prende il nome di “prima rivoluzione industriale” a determinare la genesi di politiche

pubbliche in materia di istruzione in quasi tutti i paesi europei. L’aumento esponenziale della

produttività infatti, avvenuto a partire dalla metà del diciottesimo secolo a cominciare

dall’Inghilterra, fu determinato dallo sviluppo progressivo di alcune tecnologie che, applicate ai

processi di produzione tradizionali, rendevano maggiori quantità di prodotti con minori risorse e,

soprattutto, prodotti nuovi e migliori (Giannetti, 1997, p. 253-300). Altre interpretazioni

sottolineano la svolta segnata dalla Rivoluzione francese, considerata come un evento dalla

portata storico-modiale (Wallerstein, 1995): più precisamente, gli stravolgimenti del 1789

avrebbero affermato irreversibilmente la normalità del cambiamento sociale, inteso come

dinamica strutturale dello sviluppo storico, producendo tre nuove istituzioni, le ideologie, i

movimenti e le scienze sociali che a poco a poco si istituzionalizzeranno all’interno delle

accademie, finendo per costituire “la grande sintesi culturale/intellettuale del ‘lungo’ XIX secolo, le

basi istituzionali di quella che, talvolta, è impropriamente chiamata ‘modernità’” (Ibidem, p. 25).

Ancora, il successivo processo di industrializzazione, che si verificò in Europa a partire dagli

anni ’80 del XIX secolo e che la storiografia economica ha chiamato “seconda rivoluzione

industriale”, interessò la maggior parte dei paesi europei e determinò lo sviluppo di settori quali

l’acciaio, la chimica, l’energia, i mezzi di trasporto e le comunicazioni (Ortoleva, Revelli, 1993, pp.

16-22): il ruolo della scienza e della scienza applicata alle tecniche produttive divenne sempre più

importante, e sempre più palese (Wallerstein, 1997, pp.12-13). Dopo una fase di “grande

depressione” (Ortoleva, Revelli, 1993, p. 13; Wallerstein, 1997, pp. 12-13), di recessione

economica e di distruzione di ricchezza, si rese necessario un radicale processo di riorganizzazione

capitalistica, di trasformazione tecnica ed organizzativa della produzione: l’applicazione della

scienza alla produzione divenne sistematica determinando un’ondata senza precedenti di

innovazione tecnologica. Apparve dunque evidente alle classi dirigenti europee, la stretta

correlazione esistente tra lo sviluppo delle conoscenze scientifiche, i progressi tecnologici e la

crescita delle economie nazionali per cui, in quasi tutti gli stati-nazione, l’istruzione fu resa

pubblica e più o meno dipendente dalle necessità politiche dell’esecutivo. Inoltre il processo di

progressivo intervento degli stati-nazione in ogni settore sociale, che rendeva necessaria la

formazione di quadri per una amministrazione pubblica sempre più ingombrante e,

contemporaneamente, l’urgenza di professionisti qualificati in grado di concepire, organizzare e

gestire attività economiche profondamente rinnovate palesarono il bisogno di una preparazione

culturale e professionale adeguata per le classi dirigenti; c’era per di più bisogno di una

alfabetizzazione di base, civica e tecnica, per i membri delle classi subalterne i quali, di pari passo

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al processo di consolidamento dello stato, cominciavano ad essere inseriti nei processi produttivi

e, di conseguenza, a godere di seppur limitati diritti politici.

I governi di molti paesi europei dunque, da un lato promossero politiche di alfabetizzazione

elementare e, dall’altro, avviarono profondi progetti di ristrutturazione dell’istruzione superiore; in

questo contesto le università, che avevano conosciuto alcuni secoli di relativo declino,

cominciarono a rivestire un ruolo di importanza fondamentale nelle strategie politiche degli stati

europei cosicché, dal diciannovesimo secolo in poi, esse riacquistarono vigore e prestigio (Ibidem,

p. 13). Queste università rinnovate si ristrutturavano adesso su base nazionale (Piovani, 2000, pp.

21 e ss.), senza nessun richiamo alla universalità del sapere se non nei nomi che conservavano, si

differenziavano profondamente dalle facoltà di teologia e di diritto canonico quattrocentesche;

erano in realtà delle scuole perlopiù tecniche di ordine e grado superiore e venivano fondate

direttamente dallo stato principalmente per scopi pubblici e politici.

In Francia, durante il regime napoleonico, le università furono integrate in un sistema

fortemente centralizzato nel quale anche i curricula venivano definiti a livello nazionale; intanto,

accanto alle pre-esistenti facoltà di belles lettres, progressivamente marginalizzate (Wallerstein,

1997, p. 13), venivano fondate nuove scuole per la formazione scientifica: su tutte l’Ecole

Politecnique, prima facoltà universitaria destinata alla formazione di ingegneri. In Prussia prima,

ed in Germania poi, per tutto il “periodo bismarckiano”, si consolidarono le Realschulen, scuole

medie superiori a carattere tecnico9 insieme agli istituti di geografia politica nei quali Ritter10

impartiva i propri insegnamenti. In Germania, soprattutto, nacque il modello di università che si è

imposto in quasi tutti i paesi occidentali almeno sino al 1945 (Teichler, 2001, pp. 6700-6705);

questa nuova università, destinata alla “ricerca pura” e alla formazione d’eccellenza, fu teorizzata

da Wilhelm von Humboldt in una serie di scritti famosi: in essi lo scienziato tedesco asseriva la

necessità di una incondizionata libertà accademica e di una autonomia istituzionale degli atenei

garantita dallo stato come prerequisiti essenziali per lo sviluppo della scienza (Tessitore, 1997). Le

intuizioni di von Humboldt risulteranno più che fondate, se si prende in considerazione il ruolo

fondamentale che le università tedesche svolsero verso la fine del diciannovesimo secolo nei più

complessivi processi di sviluppo dell’economia nazionale, portando la Germania Guglielmina a

rivaleggiare direttamente con Gran Bretagna e Stati Uniti (Ortoleva, Revelli, 1993, p. 43) per

conquistare l’egemonia nel sistema-mondo. Il “modello von humboldtiano” venne esportato in

diversi stati, tra i quali il neo-costituito Regno d’Italia, dando spesso luogo ad adattamenti parziali

quando possibili, se non a fraintendimenti veri e propri che produssero talvolta degli ibridi

irrazionali; in alcuni paesi però, questi modelli particolari di università si sono rivelati vincenti: in

particolare negli Stati Uniti la combinazione di ricerca e didattica insieme durante gli studi dottorali

9 www.pbmstoria.it/unita/scuola/laffermazione della.php. 10 Capostipite della Scuola geografica tedesca che si affermò nel secondo Ottocento ed ebbe vasta eco anche in Italia.

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da un lato, e la costituzione di istituti di specializzazione e di formazione d’eccellenza post-

dottorali dall’altro, hanno dato vita al sistema universitario integrato che ha riscosso maggior

successo durante il ventesimo secolo (Teichler, 2001, pp. 6700-6705).

Pur senza prendere in considerazione i processi di costituzione dei sistemi universitari e le

caratteristiche particolari di strutturazione e funzionamento degli atenei dei singoli stati europei,

vanno ancora esaminate alcune dinamiche generali, soprattutto di ordine culturale ed intellettuale,

che risultano di notevole interesse per comprendere come e perché vennero rimodellate le

università e, soprattutto, per analizzare il percorso storico di formazione del sistema universitario

italiano.

Va sottolineato allora che, dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, l’università fu

ridisegnata all’insegna di una ideologia scientista, di impostazione meccanicistico-newtoniana, che

diveniva allora dominante (Wallerstein, 1997, pp. 12-13). La cieca fiducia nel progresso, nella

scienza e nella tecnica che aveva accompagnato l’affermarsi dell’industrializzazione in Europa

aveva determinato una profonda e sostanziale trasformazione delle università, sia dal punto di

vista strutturale che per quanto riguardava la loro stessa natura di istituzioni di produzione e

riproduzione di saperi. Le scienze naturali ed il relativo metodo di indagine empirico-sperimentale

cominciarono a guadagnare terreno nei confronti delle vecchie facoltà umanistiche e delle

metodologie speculative di indagine; la Ratio studiorum gesuitica come metodo del sapere ed i

racconti idiografici delle filologie e delle letterature vennero sostituiti da prospettive analitiche ed

impostazioni metodologiche decisamente nomotetiche (Ibidem, p. 16).

La divisione del sapere in due sfere distinte, quelle delle “belle arti” e delle “scienze esatte”,

divenne pian piano sempre più pronunciata conferendo ai neocostituiti istituti di scienze naturali

sempre più potere all’interno degli atenei: questo processo si concretizzò nella diffusa istituzione e

nella progressiva espansione delle cosiddette facoltà scientifiche, nonché in una costante

marginalizzazione degli studi umanistici che, in alcuni casi, quasi scomparvero. Mentre le scienze

sociali allora nascenti tentavano, ancora timidamente, di prendere parte nello scontro tra le due

culture e di presentarsi come terzo polo disciplinare, definito ed indipendente (Ibidem, pp. 54-

56),11 venivano fondati sempre più politecnici, istituti navali, scuole per geografi e per ingegneri

costruttori per predisporre dei curricula formativo-professionali adeguati alle necessità di apparati

statali in continua espansione. I processi di disciplinarizzazione e professionalizzazione dei saperi

divennero sempre più marcati, contemporaneamente alla creazione di strutture istituzionali

11 In particolare sull’argomento si veda SNOW P., Le due culture, Feltrinelli, Milano, 1964; per un approfondimento della dinamica che contribuì ad accentuare ed a cristallizzare, in due epistemologie culturali nettamente differenziate, le discipline di studio all’interno delle università italiane, si consulti pure il testo di Calcagno, 1996, intitolato Ingegneri e modernizzazione, ed in particolare l’introduzione al testo, denominata I tecnici e la grande trasformazione nella quale l’autore, partendo da alcune conisderazioni in merito a La Grand Trasformazione di Karl Polanyi, racconta come la categoria professionale degli ingegneri contribuì alla professionalizzzazione degli studi ingegneristici ed insieme alla modernizzazione tecnologica ed allo sviluppo economico del paese.

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permanenti destinate, da una parte, alla produzione di nuovo sapere e, dall’altra, alla riproduzione

dei soggetti produttori di sapere. La creazione di molteplici discipline si basava sul presupposto

non del tutto fondato che una ricerca sistematica richiedesse una suddivisione ed una

concentrazione specialistica delle discipline che prometteva di essere intellettualmente produttiva

(Rothblatt, 2001, pp. 15983-15990; Wallerstein, 1997, p. 16). Tuttavia, questa

disciplinarizzazione specializzante contribuì al processo di divisione del sapere in due sfere ed alla

formazione di una gerarchia culturale nella quale primeggiavano le scienze naturali e che si

riproduceva negli equilibri di potere accademici. Le università divennero il principale teatro di

questa tensione perdurante tra arti e scienze, dal momento che stavano diventando le principali

beneficiarie dei finanziamenti statali per l’istruzione pubblica e quindi potevano essere usate come

strumento per ottenere denaro e potere: la scienza newtoniana prendeva il sopravvento sulla

filosofia speculativa.

I vecchi atenei vennero smembrati, ripensati e ricostruiti: degli studi umanistici sopravvisse

solo la facoltà di filosofia, notevolmente ridimensionata ed alleggerita degli studi di teologia.

Continuarono a godere di un certo prestigio, per ragioni diverse ma complementari, solo gli studi

di medicina e quelli di diritto: i primi conservarono il ruolo di preparazione in una specifica sfera

professionale, ora definita nell’insieme come conoscenza applicata. D’altro canto gli studi svolti

nelle facoltà di diritto e le competenze quivi prodotte erano serviti ai sovrani europei sin dal 1500

per risolvere determinate questioni di giurisprudenza interna, di diritto delle nazioni o di economia

politica, determinanti nella formulazione delle politiche statali (Ibidem, pp. 9-33); ora le

Kameralwissenschaften, le scienze dell’amminisrazione dello stato tanto utili alla dinastia degli

Hoenzollern durante il processo di unificazione del Reich, acquistavano nuova e maggiore

importanza, insieme al progressivo sviluppo delle scienze sociali che risultavano sempre più

funzionali alle classi dirigenti continentali per “conoscere oggettivamente la realtà e dominarla” a

scopi politici (Wallerstein, 1995, pp. 15-45).

Dalla seconda metà dell’Ottocento, queste dinamiche interessarono anche le università delle

diverse Italie, pur se in tempi e con intensità differenti. Il lento ma progressivo processo di

strutturazione di un sistema universitario nazionale su di un precedente mosaico differenziato di

atenei, corrispondente alla situazione politica pre-unitaria, determinato da più complessive

dinamiche storico-sociali che saranno oggetto di indagine nei paragrafi successivi, sarà

caratterizzato pure, da un lato, dalla necessità delle classi al potere di predisporre nuovi istituti

scientifici che garantissero una formazione professionale adeguata all’incipiente sviluppo

industriale dello stato e, dall’altro, dalla volontà degli intellettuali e delle autorità accademiche di

preservare le nobili tradizioni degli studi universitari e di valorizzare una impostazione culturale

classicista che troverà nella “riforma Gentile” del 1923 la sua più alta sublimazione.

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Questioni di ricerca e metodologia

L’introduzione precedente si è resa necessaria per delimitare l’argomento di ricerca di questa

tesi che, come già detto, è costituito dai processi di formazione e continua trasformazione del

sistema universitario italiano.

L’ipotesi alla base di questo lavoro è che i sovramenzionati processi di trasformazione siano

stati determinati, oltreché da ragioni interne di matrice scientifico-culturale e di natura

prettamente organizzativa, da più complessive dinamiche storiche di cambiamento, e che pertanto

vadano analizzati in riferimento a queste ultime: il processo di formazione del sistema

universitario italiano, ad esempio, può essere interpretato soltanto alla luce delle più complessive

dinamiche di costituzione dello stato unitario, così come le trasformazioni nell’università

contemporanea possono essere comprese in virtù di più generali processi di cambiamento sociale,

di portata globale, che stanno interessando i sistemi di istruzione, e di quella superiore in

particolare, in ogni parte del pianeta.

L’interrogazione che ci si è posti, dunque, è in che modo, e seguendo quali traiettorie storiche

di lunga durata, si sia strutturato e si stia trasformando il sistema universitario nazionale; in primo

luogo è stato approfondito il contesto storico-sociale nel quale si sono prodotte le trasformazioni

dell’università e le dinamico socio-economiche e politico-culturali che le hanno determinate; in

secondo luogo sono state esaminate le variazioni che ne sono conseguite nella strutturazione e

negli assetti degli atenei, nonché in merito alla produzione complessiva di saperi e competenze,

offerta delle università stesse.

Così, i processi studiati vengono analizzati nel lungo periodo per cui il racconto comincia

descrivendo le dinamiche di costituzione del sistema universitario italiano durante la seconda metà

del diciannovesimo secolo per giungere ad esaminare, in una prospettiva di analisi storica

comparata, le sostanziali modifiche che stanno attualmente destrutturando e riconfigurando gli

ordinamenti degli studi universitari nel nostro paese; l’arena nella quale si dipanano questi

processi, lo spazio di riferimento, è rappresentato, dunque, principalmente dal territorio dello

stato italiano, ossia dal sistema universitario nazionale: tuttavia nell’analizzare i cambiamenti

contemporanei dei quali sono protagoniste le università italiane, pare più opportuno fare

riferimento ad uno scenario internazionale e precisamente continentale, e cioè alla Comunità

Europea ed al sistema europeo di istruzione superiore.

Durante la ricerca inoltre, è emersa la necessità di dotarsi di uno strumento metodologico ed

euristico appropriato per sistematizzare l’insieme degli spunti forniti dalla ricerca stessa e per

ordinare in maniera coerente le tematiche oggetto d’analisi: da questo punto di vista, si è rivelato

molto utile lo studio delle principali leggi di riforma dell’università italiana, cominciando dalla legge

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Casati del 1859 per giungere ai decreti Moratti della attuale legislatura; in particolare, attraverso

l’esame dei testi di legge più importanti, prodotti peraltro, quasi ciclicamente, a distanza di

sessant’anni l’uno dall’altro, è stato possibile individuare da un lato, quali fossero, di volta in volta

a seconda del particolare momento storico, le problematiche rilevanti per l’istruzione superiore cui

la fattispecie indicata dalla legge esplicitamente rimandava, e dall’altro, evidenziare gli argomenti,

rintracciabili in molteplici testi legislativi, che hanno costituito il minimo comune denominatore

delle politiche pubbliche che hanno interessato gli atenei italiani nel corso della loro storia.

Il processo storico di formazione del sistema universitario italiano

Si è accennato precedentemente alla soluzione di continuità sei-settecentesca nella storia

secolare delle istituzioni universitarie, e ai profondi cambiamenti di natura sostanziale e strutturale

che le interessarono intorno al diciannovesimo secolo: la scuola in generale, e gli istituti di

istruzione superiore in particolare, furono ripensati e ridisegnati in funzione delle necessità

politiche espresse dalle classi di governo dei rispettivi stati nazionali europei. Le università, che

nei secoli precedenti avevano conosciuto un progressivo declino, cessarono di essere ristretti

istituti soggetti ad opachi poteri accademico-baronali per essere integrati in sistemi di istruzione

superiore deputati alla formazione delle élite politiche, dei quadri burocratici e di professionisti

specializzati nei settori tecnici, scientifici ed economici.

Necessitate da precisi scopi formativi e nate all’interno delle corporazioni di mestiere

medievali, le università erano state sin da subito votate alla formazione professionale,

provvedendo a preparare dottori in diverse occupazioni sia pubbliche che private; l’attività di

ricerca e la formazione didattica che avevano luogo negli atenei implicavano necessariamente

anche un certo grado di professionalizzazione in alcune discipline che, pure allora, serviva ad una

migliore qualificazione da far valere sul mercato del lavoro, oltreché in quanto fonte di

legittimazione pubblica e prestigio sociale. Il potenziale valore economico, derivante dal

conseguimento di un titolo di studio universitario e, dunque, la funzione professionalizzante degli

studi d’eccellenza, caratterizzarono quindi le università sin dalla loro comparsa, avvenuta intorno

al dodicesimo secolo in alcune città europee.

Ma nelle prime istituzioni universitarie, e per tutta la fase iniziale della loro storia, esisteva

sicuramente una fortissima e diffusa vocazione allo studio incondizionato, inteso come amore del

sapere e ricerca della verità, volto sì all’istruzione d’eccellenza ma altrettanto necessario per una

formazione spirituale, morale e culturale profonda e complessiva. Gli studi universitari pertanto,

erano stati accessibili quasi esclusivamente a pochissimi eletti, dotati di spirito e di ingegno, e che

godevano di condizioni di censo favorevoli; inoltre, dal momento che le università, in quanto

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associazioni di studenti e di docenti, erano delle istituzioni corporative, prevedevano un insieme di

riti e cerimonie nonché una sorta di codice di ammissione molto restrittivo che ne limitava

ulteriormente le possibilità d’accesso. Va detto inoltre che, quasi completamente ignorate

dall’aristocrazia e, spesso invise alle dinastie reali per una vicinanza culturale troppo manifesta

agli orientamenti vaticani ed ecclesiastici in genere che, non di rado, scadeva nella subalternità, a

causa di tutte queste ragioni le università avevano mantenuto sì un esiguo numero di componenti,

ma pure un certo valore culturale, che si erano tradotti però, col tempo, in una chiusura e in una

distanza troppo pronunciata dal tessuto sociale e dal sistema politico: gli atenei avevano

conservato un piccolo spazio di semi-indipendenza, una “torre d’avorio” dalla quale osservare il

mondo finendo per perdere prestigio e considerazione in favore delle Accademie Reali e di altri

istituti che, a cominciare dal diciassettesimo secolo, erano stati fondati in quasi tutti gli stati

europei per provvedere allo studio di particolari discipline ritenute di prestigio o di importanza

strategica (Rothblatt, 2001, pp. 15983-15990).

Tuttavia le università disponevano di una valore aggiunto, in quanto istituzioni sociali con una

fortissima vocazione culturale, deputate ad un tempo alla ricerca scientifica e alla attività

didattica: queste due funzioni, inscindibili ed imprescindibili (Sorace, 1996, p. 284),12 avevano

caratterizzato l’attività culturale delle istituzioni e degli studi universitari sin dalla loro comparsa

nel XII secolo.

Questa peculiare caratteristica, che aveva ed avrebbe differenziato le università da qualsiasi

altra istituzione di istruzione superiore, sia in Europa che altrove, cominciò ad essere rivalutata nel

diciannovesimo secolo quando, in seguito ai primi processi di sviluppo tecnologico (all’inizio,

principalmente nel settore agricolo, poi in quello industriale), l’elaborazione di conoscenze

scientifiche, così come la formazione di tecnici specializzati deputati alla direzione e alla

conduzione delle attività produttive, divenne fondamentale per il progresso economico e dunque

per l’affermazione politica degli stati. Accanto a necessità prettamente economiche, cominciava ad

essere avvertita, dalle classi dirigenti delle grandi monarchie europee così come degli stati di

nuova formazione, l’esigenza di razionalizzare gli apparati amministrativi e burocratici e di

consolidare le istituzioni, che dovevano provvedere a mansioni sempre più numerose e sempre più

delicate, affidandone la dirigenza a personale altamente qualificato che solo particolari strutture

formative avrebbero potuto garantire: per come si erano storicamente configurate, le università si

dimostrarono l’unica istituzione in grado di condurre attività di ricerca, produrre conoscenze

scientifiche e, contemporaneamente, trasmettere queste conoscenze alle generazioni successive

attraverso una attività didattica costante, strutturata in ordinamenti di studi molto rigorosi.

12 Sull’argomento si è pronunciata pure la Corte Costituzionale che, precisando il testo stesso della Costituzione, ha affermato che le attività di ricerca e di istruzione “sono due… ed imprescindibili compiti istituzionali delle università … - senza uno dei due - … non si ha Università”.

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Furono principalmente questi fattori a determinare una rivalutazione nonché una profonda

trasformazione degli studi universitari; alcune facoltà furono soppresse e ne furono istituite di

nuove, furono predisposti ordinamenti nelle discipline di scienze naturali, tecniche ed economiche

e, in alcuni casi, di scienze sociali, politiche ed amministrative. Il numero degli studenti aumentò,

dovunque, considerevolmente e la funzione formativa, sia civica e politica, che professionale,

svolta dagli atenei fu valorizzata a discapito della libera ricerca della conoscenza; gli studi

universitari conservarono, pur se in termini parzialmente modificati, il proprio carattere elitario e

d’eccellenza per essere però indirizzati, in maniera più accentuata, alla formazione a scopo

professionalizzante.

Da quel momento in poi, sia per ragioni di sviluppo delle conoscenze, intrinseche al

funzionamento ed alla natura stessa dell’università, sia in ragione della accresciuta

consapevolezza della pubblica utilità degli studi universitari che venivano condizionati in misura

sempre crescente dalle necessità del potere politico, gli atenei di tutta Europa si dedicarono

costantemente a programmi di ricerca di base come applicata; questo fatto rappresentò una

novità sostanziale e determinò una ristrutturazione complessiva delle attività didattiche svolte

all’interno degli atenei: infatti, nonostante le università medievali avessero prodotto una crescita

significativa delle conoscenze, esse non erano ideologicamente progettate per una attività di

scoperta intellettuale, bensì erano votate alla diffusione di conoscenze ricevute, ereditate

dall’antichità classica, organizzate in un sistema di rappresentazione all’interno del quale venivano

integrati, di volta in volta a mò di mosaico, nuovi saperi provenienti da altri sistemi epistemico-

culturali nonché dalla scoperta di nuovi testi o dalla reinterpretazione delle fonti originali (Lentini,

2003, pp. 9-17; Rothblatt, 2001, pp. 15983-15990): soltanto in seguito alle scoperte scientifiche

dei secoli diciassettesimo e diciottesimo, l’attività di ricerca, nel senso proprio del termine,

divenne una caratteristica delle università al pari di quella dell’alta formazione.

A questa dinamica storica di trasformazione di portata continentale (che interessò la

strutturazione delle facoltà, la qualità ed il numero delle discipline, addirittura l’organizzazione e la

natura stessa degli studi impartiti nelle università) si aggiungeva, nel caso italiano, l’esigenza di

rendere organico in un sistema universitario coerente ed efficiente l’insieme composito ed

eterogeneo di università ereditato dagli stati pre-unitari: questo sistema, dunque, si strutturerà in

circostanze storiche fluide, instabili e del tutto particolari e risentirà, nella sua costituzione, di

pronunciate spinte particolaristiche, o più semplicemente corporative, sovente difficilmente

riconducibili all’unità.

In particolare, il processo storico di costituzione del sistema universitario italiano si inscriverà

nelle più complesse dinamiche di formazione dello stato nazionale e, se da un lato contribuirà alla

caratterizzazione particolare assunta dallo stato stesso, dall’altro sarà necessariamente

determinato da queste dinamiche storiche di portata più complessiva. In altre parole, la

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configurazione che assumeranno gli atenei italiani (sia quelli piemontesi, sia quelli dei vari stati

che a poco a poco si annettevano al Regno d’Italia attraverso i plebisciti, sia, ancora e soprattutto,

quelli di nuova costituzione privi di una qualsivoglia tradizione culturale da salvaguardare) sarà

determinata in gran parte dalle necessità del nascente stato unitario di predisporre ordinamenti di

studi d’eccellenza nei settori scientifici, tanto necessari allo sviluppo produttivo del paese, e di

preservare facoltà classiche ed umanistiche di prestigio nelle quali riprodurre le élite di governo

attraverso la proposizione dei valori propri della ideologia liberale dominante (Ippolito, 1978, pp.

7-12). Le università italiane, insomma, subiranno delle profonde trasformazioni, che ne mineranno

la sostanziale autonomia organizzativa, per essere integrate in un sistema universitario nazionale

funzionale alle necessità delle classi di governo, e la costituzione stessa di questo sistema

universitario, per quanto continuamente provvisoria ed in un primo tempo soltanto accennata,

sarà definita dalle particolari esigenze dello stato italiano in formazione e, nello stesso tempo, dal

più generale processo di trasformazione che interesserà, in quegli anni, tutte le istituzioni

universitarie e di alta formazione in Europa.

A quei tempi, le università italiane, pur mantenendo ordinamenti ed istituti di origine

medievale che le rendevano molto simili tra loro nonché alle altre università europee da un punto

di vista ordinamentale, erano istituzioni che conservavano secolarmente, e gelosamente

custodivano un certo grado di autonomia nel governo delle proprie attività. Inoltre, a causa della

frammentazione politica e territoriale italiana che aveva visto per secoli, dalla caduta del Sacro

Romano Impero in poi, la presenza di un mosaico instabile di stati e principati spesso in conflitto

tra loro, ciascun ateneo aveva storicamente operato in contesti territoriali, politici e culturali

notevolmente differenti; le istituzioni scolastiche ed universitarie dei vari stati italiani pre-unitari

differivano non soltanto per diffusione, accessibilità, numero e qualità, ma anche, e soprattutto,

nella loro stessa natura e nei fini che si proponevano, dal momento che erano strutturate ed

organizzate secondo modelli didattico-formativi alternativi e di impostazione culturale differente:13

ad esempio, soltanto nel Regno di Sardegna, nel quale gli istituti scolastici ed universitari erano

articolati in un sistema ispirato al modello formativo francese di impostazione giacobina, si era

13 Se volessimo fornire qualche informazione in più su questo argomento, seguendo Miozzi potremmo dire innanzitutto del Granducato di Toscana, dove nonostante la presenza e l’opera di un valido gruppo di pedagogisti, era mancata un’opera riformatrice in senso stretto degli studi, per cui l’istruzione di ogni ordine e grado rimaneva soggetta al monopolio di Gesuiti, Barnabiti e Scolopi. Nello Stato Pontificio gli studi universitari, pur se costretti nell’oscurantismo vaticano e notevolmente eterogenei rispetto al modello laicista che prevaleva nell’impostazione piemontese, avevano conosciuto un notevole sviluppo. Con ben trentotto cattedre complessive si segnalava, unica in Italia, l’università di Bologna cui tenevano compagnia quelle di Ferrara, Perugia, Camerino, Macerata e Fermo. Infine, nel Regno delle Due Sicilie, ancora sotto il governo borbonico, la prima riforma significativa ed organica dell’Università di Napoli si era avuta nel 1736 ma, all’epoca dell’integrazione nazionale, nonostante i tentativi di riformatori del calibro di De Sanctis che dedicheranno varie opere all’argomento, la situazione del sistema universitario (ossia fondamentalmente delle università di Napoli e di Palermo, se non si tiene conto di altri collegi privati come l’Orientale) rimaneva stagnante ferma ad un secolo e mezzo prima per cui la Casati e le varie leggi piemontesi si innestarono su di una struttura già squilibrata che avrebbero definitivamente alterato.

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affermato con una certa forza il principio della laicità dell’istruzione e del fondamentale ruolo, di

pubblico interesse, rivestito dallo stato in materia. La situazione politica generale aveva inibito,

insieme a numerosi altri processi, lo sviluppo di stabili contatti e di relazioni scientifiche tra i vari

atenei italiani con conseguenze molto negative e dal punto di vista sociale ed economico, e da

quello culturale; come unica possibilità di apertura e di interscambio rimaneva un flebile moto di

trasferimento di studenti e professori verso le città che ospitavano sedi universitarie e verso quelle

più prestigiose in particolare, minimo retaggio del libero errare degli studiosi medievali di cui si è

detto nei paragrafi precedenti.

Sebbene l’insieme degli studi universitari, consolidati da una plurisecolare tradizione di

ispirazione scolastica e dalla supremazia del metodo d’insegnamento gesuitico, fosse per tipologia

e numero abbastanza omogeneo pressoché in tutte le università italiane, esistevano, tra queste,

profonde differenze nella vocazione scientifica e culturale, nella impostazione didattica e nella

organizzazione economica: in conseguenza di ciò si era venuta a creare una situazione di

variegata eterogeneità tra i vari stati pre-unitari in merito a codici normativi e procedure

amministrative riguardanti l’alta formazione e gli studi universitari per cui, solo per fare qualche

esempio, i titoli di studio non erano equipollenti, l’accesso e la strutturazione dei corsi erano

regolamentati in maniera molteplice, gli studenti pagavano tasse di importi differenti da paese a

paese. Molti degli atenei tra i pochi allora esistenti, inoltre, versavano in uno stato di declino

scientifico, oltreché immobiliare, particolarmente penoso ed imbarazzante; d’altro canto, soltanto

l’università di Torino aveva goduto, durante l’Ottocento e di pari passo con lo sviluppo di tutte le

strutture amministrative del Regno di Sardegna, che si proponeva come nuova potenza regionale

nel panorama geopolitico europeo, di un crescente vigore culturale e formativo e, almeno al

momento dell’unità, era probabilmente l’unica in grado di licenziare laureati provenienti da tutte le

facoltà (Miozzi, 1993, pp. 3-20).

A ridosso del processo di unificazione dello stato, le classi dirigenti italiane si trovarono di

fronte a questi problemi ed a quelli più complessi, e per molti versi più pressanti, che

riguardavano il settore dell’istruzione in generale e di quella elementare in particolare, dal

momento che c’erano tra la popolazione spaventosi tassi di analfabetismo14 soprattutto presso i

ceti meno abbienti e nelle regioni meridionali; esse percepirono la necessità di ristrutturare gli

apparati della pubblica amministrazione e decisero di ripensare completamente l’offerta scolastica

e di riorganizzare, quindi, l’intero sistema di pubblica istruzione dalla scuola elementare

all’università.

14 Secondo i dati ufficiali, il tasso generale di analfabetismo in Italia era , nel 1861, del 78%, vedi BOMBARA G., ALIANO G. (a cura di), Il valore morale dell’educazione in Italia. Dalla legge Casati (1859) alla legge Daneo-Credaro (1911), EDIZIONI MARISCUOLA, Taranto; vedi pure MIOZZI M. U., Lo sviluppo storico dell’università italiana, LE MONNIER, Firenze, 1993, p. 12, nota 41.

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Il grimaldello istituzionale di questa azione politica, lo strumento legislativo che normasse

l’intera fattispecie interessata, fu la legge che porta il nome del conte milanese Gabrio Casati, la

quale, dunque, costituisce la prima riforma oggetto d’analisi in questo studio; questa venne

promulgata per Regio Decreto Legislativo con il numero 3725 il 13 novembre 1859 da Vittorio

Emanuele II, sovrano del Regno di Sardegna (Ippolito, 1978, p.4) , in base alla legge 25 aprile

1859 n. 3345, la quale conferiva al sovrano i pieni poteri in caso di guerra all’Austria (Sorace,

1996, p. 284).

Sebbene possa apparire singolare che, a ridosso della Seconda Guerra di Indipendenza, la

classe di governo piemontese che attendeva a compiti ben più pressanti quali, ad esempio,

l’organizzazione dell’esercito, si sia interessata di scuola ed università, tanto più alla luce del

disinteresse quasi totale precedentemente mostrato da questa stessa classe dirigente nei confronti

di importanti argomenti oggetti di dibattito nelle accademie e, soprattutto, della penosa situazione

di analfabetismo diffuso sia in Piemonte che nel resto d’Italia, ciò nonostante esistevano delle

motivazioni di fondo alla base di questa azione. In realtà, “a chiarire le ragioni di questa scelta ci

pensò lo stesso Camillo Benso conte di Cavour15 il quale, a chi gli chiedeva perché, durante la

guerra, si fosse chiamato, dal fronte a Torino, il maggiore Casati per nominarlo ministro della

pubblica istruzione e per varare, senza discussione parlamentare, una legge sull’istruzione e in

particolare su quella universitaria, si dice rispondesse: essere gli interessi in gioco per una riforma

della scuola e dell’università tali e tanti che solo per decreto, e cioè mentre rullava il tamburo e

tuonava il cannone, sarebbe stato possibile far passare la tanto attesa riforma” (Ippolito, 1978,

pp. 7 e ss.).

L’episodio appena riportato è molto significativo poiché dimostra che già allora opinioni

diverse, spinte particolari ed interessi divergenti erano cosi tanti ed intricati che solo con un atto

di autorità, sfuggendo cioè ad una discussione parlamentare che pure a quel tempo si profilava

interminabile, si sarebbe potuto dare un assetto alla scuola e all’università del nascente e non

ancora proclamato Regno d’Italia. Del resto, il promulgare riforme o miniriforme riguardanti

l’università quasi esclusivamente senza discussione parlamentare e per decreto, prima regio e poi

ministeriale, diverrà una prassi della storia istituzionale italiana con tutte le conseguenze negative

che ciò ha comportato in termini di inadeguatezza delle politiche di volta in volta perseguite e

delle istanze sociali, scientifiche e culturali spesso mortificate e di cui altresì queste avrebbero

dovuto tener conto; anche la riforma Gentile fu emanata per decreto profittando dei pieni poteri

conferiti al governo Mussolini dopo la “marcia su Roma”. Stessa sorte ebbero le riforme di De

Vecchi e Bottai durante il regime, che elusero l’interrogazione di un parlamento ormai esautorato

così come i provvedimenti urgenti emanati con decreto luogotenenziale subito dopo la liberazione,

15 Figura di spicco nella politica piemontese e poi italiana era Presidente del Consiglio quando venne affidato a Casati il dicastero dell’istruzione.

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nel 1945, allorché il governo provvisorio, costituito da rappresentanti dei sei partiti del CLN,

deteneva poteri legislativi. E l’elenco potrebbe continuare con gli innumerevoli decreti e

provvedimenti legislativi provvisori che hanno contrassegnato la storia repubblicana di cui si dirà

oltre e di cui qui si citano, ad esempio, i provvedimenti urgenti del 1973 o, ancora, i già

tristemente famosi decreti Moratti (Moratti, 2005, p.9).

Tornando all’epoca della Casati va ancora sottolineato il fatto che l’unificazione politica dello

stato era stata il risultato di processi storici di lunga durata, spesso contraddittori ed affatto

unilineari, che avevano necessitato un immane dispiegamento di forze umane e sociali, una

sostanziosa mobilitazione di risorse politiche ed economiche, e che spesso non avevano lesinato

errori e veri e propri crimini. Non meno problematica risultava l’unificazione fisica del paese e

l’organizzazione complessiva della macchina statale in formazione; lo stato aveva bisogno di

edificare e strutturare le proprie istituzioni ed i propri apparati, di sovrintendere e sostenere lo

sviluppo delle attività produttive, di predisporre azioni politiche sempre più complesse in tutti i

settori sociali che divenivano progressivamente di sua competenza: alla necessità di potenziare i

mezzi di trasporto e comunicazione, si accompagnava l’esigenza di regolamentare una burocrazia

sempre più numerosa che fosse in grado di amministrare le attività statali. Altrettanto avvertita

era la necessità di una unificazione culturale del paese, che doveva necessariamente passare

attraverso il potenziamento e l’accrescimento delle strutture scolastiche e degli studi di ogni

ordine e grado; si doveva educare il popolo e selezionare la classe dirigente dello stato, come

ebbe a dire Massimo D’Azeglio “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani!”, per cui la scuola e

l’università assunsero una importanza fondamentale per provvedere rispettivamente al primo ed

al secondo dei compiti ora menzionati.

Compiuto il processo di unificazione politica nel 1861, dunque, il governo sabaudo si trovò

nella condizione di dover costruire lo stato nel senso stretto dell’espressione, nonché di sostenere

una società civile nazionale ancora acerba e limitata a parte dei ceti intellettuali e delle classi

dirigenti delle varie regioni italiane; alla necessità di armonizzare tradizioni istituzionali, sociali e

culturali, nonché codici e procedure normative differenti, si accompagnava l’esigenza per il nuovo

stato unitario, enormemente accresciuto rispetto al nucleo originario sardo-piemontese, di far

fronte a compiti e mansioni sempre più specifiche dal punto di vista professionale, sempre più

varie e delicate: bisognava istruire e costituire una burocrazia amministrativa più numerosa ed

efficiente, bisognava, ancora, formare e professionalizzare i quadri dirigenti degli apparati

produttivi e dei complessi industriali, per disporre delle competenze scientifiche e tecniche

necessarie alla conduzione di attività economiche sempre più rinnovate e complesse.

Quindi, insieme alle istituzioni di più varia natura (organismi costituzionali, magistratura,

esercito etc.) ed alle politiche pubbliche riguardanti i settori economici e produttivi, la scuola e

l’università divennero, almeno formalmente e per qualche tempo, argomenti di prim’ordine

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nell’agenda governativa dell’esecutivo italiano: le classi dirigenti compresero il valore

dell’istruzione pubblica ed il potenziale apporto che istituzioni scolastiche, rimodellate in funzione

dei nuovi compiti assegnategli, avrebbero potuto fornire al processo di sedimentazione e

cementificazione dello stato nel suo farsi storico. Bisognava fornire il popolo di una educazione

civica di base e di un grado elementare di istruzione, per rendere possibile pure alle classi sociali

più basse di partecipare in misura minima alla attività politica e per integrarle, sia pure

marginalmente, nei processi produttivi in espansione nei settori agricolo ed industriale; bisognava

istituire percorsi scolastici di istruzione media inferiore e superiore soprattutto nei rami tecnico-

professionali, da sempre tallone d’Achille della scuola italiana, che divenivano però necessari per

produrre operai qualificati e tecnici che gestissero i processi produttivi e le attività economiche in

generale, nonché per formare impiegati e dirigenti che coordinassero l’attività burocratico-

amministrativa necessaria per lo svolgimento dell’accresciuto numero di mansioni di competenza

statale; bisognava, inoltre, riprodurre la classe dirigente del paese selezionandola attraverso un

elitario e faticoso percorso di studi di impostazione classica che avrebbe condotto i rampolli

dell’alta società dalle elementari alle aule universitarie.

Di conseguenza, una volta raggiunto l’obiettivo dell’indipendenza e dell’unità, le principali

forze politiche presenti nell’arena nazionale cominciarono a darsi battaglia intorno alle questioni

della scuola unitaria e degli atenei del regno; si dibatteva, in primo luogo, su quale fosse l’assetto

migliore da conferire all’ordinamento scolastico e su quali fossero le maniere per farlo (in termini

di politiche da attuare), nonché su quali dovessero essere i fini stessi della pubblica istruzione: da

una parte all’altra dello schieramento, le forze parlamentari che si confrontavano sull’argomento,

erano quelle dei liberali (divisi al loro interno fra conservatori e moderati) e dei democratici di

impronta mazziniana (Ippolito, 1978, p. 28) .

Punto di convergenza di queste posizioni politiche sostanzialmente differenti e, talvolta,

completamente contrapposte fu il diritto-dovere, immediatamente rivendicato dallo stato, di

fornire istruzione di ogni ordine e grado (Ibidem, p. 22), in aggiunta prima ed in sostituzione poi,

del secolare monopolio che, almeno nel caso italiano, era stato detenuto in materia dalla Chiesa

cattolica; oltre alla soppressione del foro ecclesiastico e alle misure restrittive nei confronti di

taluni ordini clericali particolarmente attivi ed invisi ai nuovi detentori del potere politico, va detto

in proposito che questo principio venne sancito già con la Casati, dal momento che questa

assegnava allo stato il compito di provvedere alla pubblica istruzione e disponeva altresì che

fossero i Comuni ad impartire l’istruzione elementare e che i maestri non abbisognassero

ulteriormente del “nulla osta” di moralità, di emanazione vescovile, precedentemente prerequisito

imprescindibile per l’insegnamento pure nei territori sotto il dominio del regno di Sardegna

(Miozzi, 1993, pp. 3-20). Contro la pubblicità dell’istruzione e contro le politiche statali in materia,

considerate una indebita intrusione in un settore in cui forte sarebbe dovuta rimanere la

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discrezionalità dell’istituto familiare, rimanevano soltanto i cattolici conservatori, i cui programmi

però vennero progressivamente marginalizzati.

Per quanto riguarda i democratici, questi erano sostenitori dell’affermazione del monopolio

dello stato in tutti i settori sociali considerati strategici per lo sviluppo delle istituzioni;

rivendicavano la funzione sociale dell’istruzione come progresso complessivo di tutta la

popolazione e si schieravano, dunque, contro l’ipotesi di qualsiasi forma di concessione di

autonomia agli istituti scolastici ed in modo particolare alle università, e contro la condivisione del

fondamentale compito educativo, avocato nella loro dottrina ai pubblici poteri, con qualsivoglia

altra istituzione sociale, ordine o corporazione.

I liberali, dal canto loro, costituivano la classe dirigente che aveva sostenuto, contro posizioni

politiche più conservatrici, il processo di unificazione dello stato italiano, ed i cui gruppi dirigenti,

la Destra storica, saranno alla guida del governo nei primi decnni di storia unitaria del regno. Essi

propugnavano concezioni politiche del tutto differenti che limitavano il ruolo dello stato ad una

funzione super partes di arbitro, semplice legislatore, esecutore e garante (nella tripartizione

liberal-illuministica delle proprie funzioni) delle norme che regolavano l’insieme dei rapporti sociali.

Educati alla ideologia del lassaiz faire, erano orientati a limitare l’intervento statale nell’istruzione

ed a concedere maggiore libertà alle forze sociali ed ai privati che intendessero provvedervi

(Bobbio, Matteucci, Pasquino, 1997, pp. 566-583; più precisamente, essi non condividevano la

necessità, espressa dai democratici, che attraverso l’istruzione si dovesse conseguire un

miglioramento generale delle condizioni culturali, sociali ed economiche delle classi subalterne: la

scuola, dichiarerà più tardi il ministro Baccelli, titolare del dicastero della pubblica istruzione,

doveva insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto, limitandosi a selezionare pochi, rari

elementi per gli studi superiori. Evidente, in questa impostazione, era la concezione estremamente

classista e propria della ideologia liberale, per cui lo stato non avrebbe dovuto interessarsi della

istruzione e/o ignoranza dei propri sudditi, bensì avrebbe dovuto provvedere esclusivamente alla

selezione e alla formazione della propria classe dirigente necessaria a guidare le sorti del regno

unitario, dunque a codificare i principi generali cui si sarebbero dovuti conformare gli atenei

italiani al fine di formare tecnici e quadri necessari per la strutturazione, l’ampliamento e la

riproduzione della macchina statale allora in costruzione. Altrettanto palese era, in questa

impostazione, la parzialità e la poca lungimiranza delle classi dirigenti nella percezione della cosa

pubblica; le istanze risorgimentali di democrazia e progresso, da raggiungere attraverso un

programma nazionale di educazione del popolo, furono reinterpretate dunque in virtù delle

concezioni ideologiche e delle necessità governative delle classi al potere: la filosofia storicista,

fondata sulla distinzione fra sensi e ragione e sulla divisione della società in un popolo senziente

ed in uno raziocinante, offrì la dottrina dei “due popoli” ai costruttori del nuovo stato come

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fondamento ideologico e legittimazione trascendente delle politiche elitarie e classiste messe in

campo in tutti i settori sociali ed in particolare in quello dell’istruzione.

Le contraddizioni contenute in queste posizioni e le differenze tra queste saranno cristallizzate

nel testo di legge predisposto dal ministro Casati: ne verrà fuori un sistema universitario “eclettico

e composito”, come lo definirà successivamente Salvemini, caratterizzato da principi ispirati ad un

liberalismo moderatamente conservatore, che non mancherà tuttavia di mostrare le sue pecche

(Ippolito, 1978, p. 8 ; Miozzi, 1993, pp. 21-24.

La Legge Casati

Dopo aver precisato il contesto storico all’interno del quale venne promulgata la riforma

Casati, e specificato i processi socio-economici e politico-culturali che ne determinarono la

predisposizione, bisogna valutare in che modo le statuizioni in essa contenute incisero in merito

alla strutturazione degli atenei ed alla configurazione del nascente sistema universitario nazionale.

In questo paragrafo, dunque, il testo di legge viene utilizzato come uno strumento attraverso il

quale studiare l’organizzazione delle istituzioni universitarie, la natura delle attività didattiche e di

ricerca, la qualità dei saperi e delle competenze prodotte, ed il funzionamento complessivo degli

atenei italiani.

La Casati fu la prima legge organica di riforma dell’università italiana; essa rappresenta la

prima tappa di quell’incredibile percorso di riforme parziali, mancate o fallite, di riforme infinite

(Froio, 1973), che caratterizzeranno la storia unitaria delle università italiane, le decine e decine di

tentativi delle classi al potere e dei differenti partiti politici di riformare, migliorare, innovare le

istituzioni universitarie per renderle più adeguate alle necessità sociali, economiche e culturali del

paese; costituirà la struttura portante dell’ordinamento scolastico italiano per tutti i decenni

successivi ed almeno fino ai decreti Gentile del 1923: i principi in essa statuiti passeranno indenni

attraverso tutte le vicende politiche del regno unitario ed anche, in parte, nella susseguente

repubblica (Ippolito, 1978, p. 8), informando di sé tutte le riforme universitarie posteriori e

rimanendo, per certi aspetti, tuttora validi.

Innanzitutto va ribadito che la Casati era una legge prettamente piemontese, nel senso che

era stata pensata esclusivamente per le università del Regno di Sardegna ed era stata prodotta,

del resto, in circostanze storiche particolarmente instabili e del tutto particolari, seppure in una

prospettiva di estensione dei suoi contenuti al panorama italiano nel suo insieme: lo stesso

ministro firmatario della legge non avrebbe di certo potuto immaginare che i principi alla base di

quel provvedimento avrebbero fatto da matrice alle politiche di pubblica istruzione in Italia per

oltre un secolo (Miozzi, 1993, pp. 7-11). La legge, dunque, inizialmente venne promulgata

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soltanto per le università di Torino, Pavia, Genova e Cagliari, ma già il primo gennaio 1860 venne

applicata in Lombardia, per essere poi estesa man mano in tutti i territori che si annettevano al

Regno d’Italia attraverso i plebisciti, ed ed entrare stabilmente in vigore in tutte le università

italiane (Ippolito, 1978, p. 10; Mozzi, 1993, pp. 12-15).

I prerequisiti della Casati si trovano in alcune leggi precedenti del Regno di Sardegna con le

quali la classe dirigente sabauda aveva cominciato a riformare il sistema piemontese di istruzione,

soprattutto nel ramo superiore degli studi; con le Regie Lettere Patenti del 30 novembre 1847,

Carlo Alberto aveva istituito un ministero per la suprema direzione degli studi, in sostituzione delle

funzioni fino ad allora svolte dal Magistrato della Riforma, determinando un mutamento

istituzionale di portata inedita che sarebbe stato incrementato ulteriormente a partire dal febbraio

del 1848 con il varo dello Statuto Albertino. Quindi, il 7 giugno 1848, Carlo Bon Compagni, che

era stato precedentemente nominato ministro dell’istruzione, presentò un progetto di legge sul

dicastero alle sue dipendenze, con il quale veniva istituito il Consiglio Superiore della Pubblica

Istruzione che sarebbe stato poi trapiantato, pur se con compiti e funzioni parzialmente

modificate, all’interno del ministero dell’istruzione dello stato unitario, come organo di

rappresentanza del potere accademico nei confronti del ministro (Miozzi, 1993, pp. 3-7).

Nella seconda metà dell’Ottocento, dunque, ed a ridosso del compimento del processo di

unificazione politica dello stato nazionale, la classe di governo piemontese cominciò ad interessarsi

di istruzione pubblica e, nello specifico, delle università del regno: le ricerche compiute

sull’organizzazione universitaria a Torino nel Settecento hanno precisato la funzione di

quell’ateneo come centro di formazione culturale e professionale e come canale di ascesa sociale

per i ceti medi, la nobiltà, e addirittura per esponenti del clero guadagnati alla causa laica e

monarchica; queste ricerche hanno anche chiarito “il peso del titolo accademico nei processi di

mobilità sociale” e l’importanza della politica riformatrice dei sovrani sabaudi nel Piemonte

settecentesco, come pure l’incidenza dei legami tra le università e le strutture politico-

amministrative dello stato. I Savoia adottarono una precisa politica culturale ed affidarono

all’università il compito di formare la classe dirigente, limitando a questo preciso scopo il fine

primario dell’istruzione superiore, per conseguire l’obiettivo di fare dell’università un centro di

addestramento per quadri qualificati: dalla seconda metà del secolo in poi, il possesso della laurea

risulta ormai un prerequisito indispensabile per l’assunzione nei pubblici impieghi, negli uffici

politici e finanziari e finanche nei ranghi medio-elevati della magistratura (Idem).

Nelle altre regioni italiane la situazione in cui versavano le istituzioni universitarie prima

dell’adozione della Casati era contrassegnata da una sostanziale eterogeneità sia delle strutture

deputate alla istruzione superiore, sia in merito al contenuto stesso degli studi; inoltre la

distribuzione geografica delle venticinque sedi universitarie allora esistenti si presentava in

maniera assolutamente disuniforme per cui nell’intero Mezzogiorno c’era soltanto l’antico e

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popoloso ateneo federiciano a Napoli (Ippolito, 1978, pp. 12-13), se si escludono istituzioni di alta

cultura e formazione superiore di natura privata come era il Collegio dei Cinesi, divenuto celebre

con il nome di Orientale che si trovava e si trova anch’esso a Napoli.16 In linea di massima,

comunque, si può affermare che nessuna università italiana poteva competere con l’ateneo

torinese in termini di organizzazione e di produzione e che, al momento dell’unità, in numerose

regioni italiane l’istruzione, e l’istruzione superiore in particolare, rimaneva una prerogativa quasi

esclusiva di istituzioni private, specialmente cattoliche (Miozzi, 1993, pp. 8-10).

La legge Casati perciò, continuando l’opera precedentemente svolta nel Regno di Sardegna, si

incaricò di uniformare e ridurre all’unità la molteplicità eterogenea di istituzioni universitarie

presenti in Italia, e costituì il tentativo, almeno in parte riuscito, di statalizzare l’istruzione

facendone, assieme all’esercito, uno dei pilastri della formazione di una coscienza e di una classe

dirigente nazionali, in uno spirito tendenzialmente laico e liberale (Sorace, 1996, pp. 219-221).

I principi contenuti nel testo di legge del 1859 erano ispirati ad alcuni particolari modelli di

istruzione superiore, in particolare alle istituzioni scolastiche ed universitarie di altri paesi europei

nei quali, grazie a circostanze politiche più favorevoli che avevano reso possibile l’unità nazionale

ben prima di quella italiana, durante il corso del diciannovesimo secolo erano già state attuate

importanti riforme universitarie. Oltre a quella “humboldtiana” della ricerca pura, che comincerà

ad essere sperimentata in Prussia già a partire dal 1812, ed a quella “arnoldiana” che avrà luogo

in Inghilterra qualche decennio dopo, la più importante riforma universitaria era stata realizzata

nella Francia di Napoleone nel 1808 (Are, 2002, pp. 126-132): le idee giacobine di democrazia e

progresso sociale si concretizzarono nella realizzazione del principio di universalità, pubblicità ed

obbligatorietà dell’istruzione di cui lo stato si faceva promotore, garante ed amministratore,

assoggettando gli studi ad un ferreo controllo ministeriale; sostanzialmente le università francesi,

da sempre caratterizzate per una stretta adozione del modello gesuitico di architettura

accademica e di ingegneria didattica, furono marginalizzate in quanto ritenute incapaci di

provvedere alle necessità di una società secolarizzata e addirittura rivoluzionaria;. vennero perciò

istituite le Grandes ècoles che divennero un capolavoro di eccellenza accademica contribuendo a

rendere il sistema universitario francese del tutto particolare (Rothblatt, 2001, pp. 15983-15990).

Quella dei modelli e delle differenti funzioni dell’università sarà materia di argomentazione

successiva, qui occorre solo ricordare che la questione trova spazio già nella Relazione introduttiva

della Casati, presentata congiuntamente al testo di legge dal ministro proponente a Vittorio

16 Esistevano anche la gloriosa e antichissima Università di Bologna, e quelle di Parma e Piacenza, Firenze, Pisa, Siena, Urbino. A Milano fu insediato un corso di studi integrato scientifico-letterario che diventerà, durante il regime fascista, l’Università Statale e che si andrà ad aggiungere al Politecnico fondato da Giuseppe Colombo nel 1880. L’Università di Perugia fu istituita solo alcuni decnni dopo la costituzione dello stato unitario, mentre quella di Bari nacque solo alla fine della seconda guerra mondiale e quella delle Calabrie vide la luce solo negli anni Sessanta del Secolo scorso.

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Emanuele II il 13 novembre 1859.17 Nella relazione si legge che il ministro, assumendo l’incarico

di mettere mano alla riforma degli studi attraverso la predisposizione di una legge generale ed

organica per “assimilare questa parte della pubblica Amministrazione nelle antiche e nelle nuove

Provincie del Regno”, nello sforzo di cercare un equilibrio tra le istanze di autonomia degli atenei

e le necessità di indirizzo e controllo pubblico rivendicate dal potere politico, si era potuto avvalere

dell’esempio dei tre principali sistemi universitari presenti in Europa.18 Questi erano quello inglese

in cui veniva assicurata una assoluta libertà di insegnamento che escludeva ogni ingerenza

governativa, quello belga in cui, a un livello regionale contrassegnato da un forte grado di

indipendenza, era concesso “agli stabilimenti privati di far concorrenza cogl’istituti dello Stato”, e

quello prussiano-tedesco nel quale lo stato assumeva la direzione generale dell’istruzione

superiore, lasciando però ampi margini di autonomia alle istituzioni universitarie e garantendo così

l’incondizionatezza delle attività didattiche e di ricerca che avrebbero condotto al modello della

scienza pura citato in precedenza; il modello centralizzato di derivazione napoleonica era già

presente come forte riferimento culturale nell’ordinamento universitario sabaudo, sarà trasfuso

quasi integralmente in quello italiano e rimarrà probabilmente l’unico interpretato alla lettera o

quantomeno declinato correttamente: degli altri verrà data una lettura ridimensionata e

snaturante che diverrà tipica dell’azione politica della classe dirigente italiana, tanto da diventare

un fenomeno cronico che si riproporrà anche nei decenni scorsi quando, allorché ci si apprestava a

varare una riforma complessiva del sistema italiano di istruzione universitaria e di formazione

terziaria, si fece riferimento alla interpretazione (la cui validità era tutta presunta) ed alla

riproposizione di modelli educativi stranieri la cui applicazione nel contesto italiano si è rivelata

affatto fuori luogo (De Mucci, Sorcioni, 1996, pp. 30-32).

Il modello di università disegnato da Casati rappresentò un tentativo di sincretismo tra alcune

caratteristiche proprie di ciascuno dei sistemi appena descritti; esso inoltre fu il risultato di un

equilibrio raggiunto tra le le differenti posizioni circa la scuola e l’università sostenute dalle

principali forze politiche del tempo; gli esempi del sistema inglese di libertà illimitata, supportata

dalla attività consolidata di organizzazioni private, e quello belga strutturato in maniera

accentuatamente federalista e regionale, risultavano inapplicabili in Italia dove altresì bisognava,

da un lato, strappare l’istruzione al monopolio delle congregazioni religiose e, dall’altro, garantire

una uniformità ordinamentale che rispondesse esaustivamente alla necessità di predisporre

precise figure tecniche e professionali che fossero equipollenti in tutto il territorio nazionale. Il

complesso rapporto di potere tra le politiche statali, le rivendicazioni autonomistiche delle autorità

accademiche, e gli interessi degli altri attori sociali coinvolti nella domanda e nell’offerta di

istruzione, fu risolto in favore della autorità statale la quale, sola, poteva garantire autonomia e

17 Regio Decreto 13-11-1859 n. 3725, Relazione introduttiva: vedi il testo riportato parzialmente nell’Appendice Normativa, Allegato 2, Documento 1. 18 Idem.

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libertà d’insegnamento e di apprendimento, senza che si mettessero in pericolo le istituzioni

pubbliche e la relativa capacità di controllo e di indirizzo che queste dovevano possedere in una

materia tanto importante: come recita ancora la Relazione di introduzione alla Casati, “restava

pertanto da abbracciare il partito più sicuro, vale a dire un sistema medio di libertà sorretta da

quelle cautele che la contengono entro i dovuti confini e da quelle guarentigie che l’assicurino e la

difendano contro i nemici palesi ed occulti, i quali la farebbero traviare e ne guasterebbero il

frutto”.19

Appare significativo il fatto che, oltreché per consolidare le istituzioni pubbliche, la scelta

argomentata da Casati sia stata fatta anche per garantire l’autonomia delle università: certo,

bisognerebbe definire precisamente la categoria di autonomia che nel corso della storia delle

università italiane ha dato luogo ad interpretazioni spesso differenti e, talvolta, addirittura

contrapposte, di cui si dirà approfonditamente nel resto del lavoro. Ma va sottolineato che persino

gli esponenti più democratici dello schieramento politico dell’epoca ritenevano necessario e

benefico il controllo delle università da parte dell’autorità statale, come dichiarerà qualche tempo

dopo l’onorevole Spaventa in polemica col ministro Baccelli (Miozzi, 1993, pp. 34-36): i partiti

progressisti da un lato temevano che un grado eccessivo di autonomia dei corpi accademici

avrebbe potuto favorire baronati ed interessi corporativi sia in seno alle facoltà che in termini di

lobbying parlamentare, mentre dall’altro rifiutavano l’idea di lasciare l’istruzione nelle mani dei

privati che avrebbero finito per preservare rigidamente ed accentuare le differenze di classe che

caratterizzavano in Italia l’accesso alla cultura e alla formazione, in maniera tanto più accentuata

per quel che riguardava l’istruzione superiore ed universitaria.20 I baronati accademici così furono

assoggettati ai poteri pubblici con il pieno sostegno di progressisti e democratici, e con

l’acquiescenza dei liberali-conservatori i quali, avocando allo stato la direzione della ricerca e della

istruzione universitaria, riuscirono a marginalizzare definitivamente cattolici, massoni e

corporazioni d’ogni sorta e, contemporaneamente, a mantenere l’accesso alla formazione

d’eccellenza rigidamente classista poiché basato su percorsi differenziati in base al ceto sociale

d’appartenenza e sottoposto ad uno stretto controllo ministeriale per il quale la legge prevedeva

finanche delle mansioni inquisitorie e giurisdizionali.

La Casati dunque disegna un sistema pubblico di istruzione fortemente accentrato e alle

strette dipendenze di un ministro che ne diviene fulcro, motore e controllore; egli infatti “governa

l’insegnamento pubblico in tutti i rami e ne promuove l’incremento; sopravveglia il privato a tutela

19 Idem. 20 In questa polemica (indicativa e dell’importanza dell’istruzione e del valore dell’università, e delle particolari cautele da adottare quando si parla di autonomia o, più in generale, cercando di trovare la migliore e più efficace modalità di governance all’interno degli atenei), pronunciandosi l’onorevole Spaventa avrebbe dichiarato testualmente: “le vostre autonomie non hanno altro scopo che di mettere le università fuori dallo Stato e ridurle ad istituzioni sociali indipendenti da quelle, come era allora che lo stato non era ancora sviluppato in tutta la sua forza e nei suoi organismi, e non aveva ancora la coscienza del suo compito, quale era lo Stato medievale e feudale” (Valitutti, 1986, pp. 60 e ss.).

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della morale, dell’igiene, delle istituzioni dello stato e dell’ordine pubblico. Dipendono da lui,

eccettuati gl’istituti militari e di nautica, tutte le scuole e gl’istituti pubblici d’istruzione e di

educazione, e rispettivi stabilimenti”.21 Il finanziamento del sistema, coerentemente con le

proposizioni della relazione introduttiva, viene considerato una prerogativa ed un dovere dello

stato che vi provvedeva in ogni ordine di studi, lasciando ai comuni soltanto l’onere di

sovvenzionare le scuole elementari e di pagare lo stipendio ai maestri.

Il testo di legge consta di 380 articoli suddivisi in cinque sezioni; esso norma tutta la materia

dell’istruzione ed infatti il primo titolo è dedicato alla “Amministrazione della Pubblica Istruzione”,

il secondo, che è quello di maggior rilievo in questo contesto, all’istruzione superiore, il terzo

all’istruzione secondaria classica, il quarto a quella tecnica, ed infine il quinto all’istruzione

elementare.22 A capo di ogni ramo dell’istruzione viene posto un Ispettore Generale che ha il

compito di coadiuvare il ministro nell’esercizio delle sue funzioni.23 In rappresentanza

dell’autonomia accademica viene previsto anche un Consiglio superiore della Pubblica Istruzione,

ampliato nel numero dei componenti rispetto a quello piemontese, ma relegato comunque in una

posizione subalterna con compiti esclusivamente consultivi.24

Le università sono dirette ed amministrate dal Rettore e, in via secondaria, dai Presidi di

Facoltà, entrambi vengono nominati con apposito decreto regio così come per i professori di prima

fascia, ordinati in ruolo su proposta del ministro che sceglie tra coloro risultati idonei dai concorsi

nazionali; in ogni ateneo inoltre, esiste un Consiglio d’Amministrazione, subordinato al Rettore che

lo presiede ed al Corpo Accademico che gestisce le attività didattiche, ma che prevede nel suo

consesso la presenza di membri delegati del governo designati dal ministro.25

Aspetto tipicamente liberale della legge, unica misura del genere presente in un testo

fortemente autoritario che arriva a determinare gli stipendi degli insegnanti ed a prevedere pene

disciplinari per questi e per il corpo studentesco da irrorare, naturalmente su disposizione

ministeriale, è l’istituzione della figura del libero docente (Ippolito, 1978, p. 11), o istitutore a

titolo privato, accanto a quelle dei professori ordinari, incaricati e straordinari. Questo istituto si

ispira al fondamentale principio liberale della libertà di insegnamento, declinata in questo caso in

maniera fortemente riduttiva, secondo il quale, accanto ai professori ordinari, titolari della

didattica ufficiale e stipendiati dal governo, chiunque avesse le capacità culturali e intellettuali per

professare una certa disciplina (cosa che veniva sempre verificata da un concorso statale ma che

sostanzialmente garantiva, al tempo stesso, che ci fosse un certo controllo esterno sulle

21 Regio Decreto 13-11-1859 n. 3725: il testo di legge, così come la Relazione introduttiva ed il Regolamento Attuativo del 1860 predisposto dal nuovo ministro dell’istruzione Terenzio Mamiani, è riportato parzialmente nell’Appendice Normativa, Allegato 2, Documento 2; qui si cita l’articolo 3. 22 Ibidem, artt. 1 e 2. 23 Ibidem, artt. 17-22. 24 Ibidem, artt. 6-16. 25 Ibidem, artt. 51-76; vedi pure la Relazione d’introduzione.

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università), “potranno dare, nelle Facoltà a cui sono addetti, corsi privati sopra tutte le materie

che vi si insegnano o sulle materie affini”26 ricevendo poi una retribuzione valutata in base al

numero delle firme degli studenti uditori del corso stesso.

La legge , tra gli articoli 113 e 142, si interessa pure degli studenti; in particolare, l’aricolo 126

definendo le caratteristiche della laurea dottorale, afferma il valore legale del titolo di studio,

equipollente, a prescindere dall’ateneo in cui fosse stato conseguito, in tutto il territorio del regno:

quella del valore legale del titolo di studi sarà una caratteristica peculiare dell’ordinamento

universitario italiano, e pur garantendo in maniera uniforme per l’intero stato l’accesso alle

pubbliche occupazioni ed a determinate categorie professionali, non mancherà di sollevare

numerose polemiche e di essere indicato talvolta come uno dei problemi fondamentali che affligge

l’università italiana contemporanea. Va tenuta in considerazione infatti, la stretta correlazione che

il valore legale della laurea determina tra il conseguimento del titolo di studio e l’accesso alle

professioni, aspetto questo che ha stimolato enormemente la crescita della domanda di istruzione

superiore in Italia nella seconda metà del secolo scorso finendo per presentarsi come un

fenomeno cronico ed enormemente preoccupante sia in termini di deontologia delle diverse

professioni sia, più in generale, in termini di problema sociale per la crescente massa di

“disoccupazione intellettuale”, sotto-occupazione o di occupazione incongruente che ha

alimentato.

In merito alla strutturazione delle attività didattiche, va detto che la legge specifica

precisamente alcuni punti fondamentali; l’articolo 70, insieme alle tabelle allegate al termine del

testo, definisce le facoltà di ciascuna università del regno, nonché il numero di professori ordinari

titolari della cattedra; le facoltà, innestate sullo schema didattico di derivazione medievale, erano

quelle di Teologia (continuamente marginalizzata e definitivamente soppressa nel 1872), di

Filosofia e Lettere, di Giurisprudenza, di Medicina, e quella di nuova istituzione di Scienze Fisiche e

Matematiche; inoltre, la legge definisce pure il numero e la qualità degli insegnamenti, dividendoli

in ordinari e fondamentali. Anche questi articoli meritano ulteriore riflessione dal momento che le

tabelle ministeriali diventeranno famose per la loro staticità conservativa che proteggeva

consolidati interessi di cattedra a discapito di giovani ricercatori e nuovi insegnamenti e saranno

sostanzialmente modificate e, in un certo senso, abolite soltanto durante il lungo e complesso

processo di riforma dell’istruzione che ha avuto luogo in Italia negli anni novanta del secolo

scorso;

Prima di concludere il racconto bisogna dire ancora alcune cose e proporre delle considerazioni

in merito a quanto scritto sin qui.

La Casati fu espressione degli interessi delle classi dirigenti, le quali tentavano di educare e di

istruire a livelli bassissimi i membri delle classi subalterne per disciplinarli ed integrarli nei processi

26 Ibidem, art. 93 comma 1.

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economici e politici dello stato nazionale, riservandosi i canali della istruzione privilegiata e della

formazione d’eccellenza per riprodurre le elitès di governo e mantenere le leve dell’iniziativa

politica. L’impostazione della legge era di matrice strettamente dualistica e, secondo una

concezione tipicamente liberale, divideva l’ordinamento degli studi in due percorsi rigidamente

separati; di fatto, l’istituzione della scuola in Italia ebbe sin dall’origine un marchio che la indusse

a rispettare, e per certi aspetti ad approfondire, le differze di classe e le stratificazioni sociali con

l’intento di conservarle: così al ginnasio-liceo statale andavano i figli dei ceti abbienti, alle scuole

tecniche provinciali andavano i figli dei ceti medi destinati a coprire ruoli subalterni nell’apparato

produttivo della società, mentre infine i figli del popolo proletario andavano alle scuole elementari

comunali (Aliano, Bombara) ed a quelle di avviamento al lavoro, quando non rimanevano

completamente analfabeti. Questo percorso di studi fortemente differenziato, faceva si che

all’università accedessero solo i rampolli della medio-alta borgheia, dal momento che il fine della

istituzione superiore era quello di “indirizzare la gioventù, già fornita delle necessarie cognizioni

generali, nelle carriere sì pubbliche che private in cui si richiede la preparazione di accurati studi

speciali, e di mantenere ed accrescere nelle diverse parti dello Stato, la cultura scientifica e

letteraria”.27

Questa legge incontrò notevoli difficoltà di applicazione e, sin da subito, apparvero in

Parlamento progetti e disegni come tentativo del suo superamento (Miozzi, 1993, pp. 15-20):

ancora verso la fine del diciannovesimo secolo esistevano posizioni politiche fortemente

contrapposte in materia di scuola e di università, che intendevano mettere in discussione alcune

delle disposizioni casatiane, di cui la più illustre, coerente e lungimirante fu senza dubbio quella

sostenuta da Antonio Labriola a Roma durante il discorso di inaugurazione dell’anno accademico

1896-97 (Labriola, 1999).28

27 Ibidem, art. 47. 28 Antonio Labriola si era formato a Napoli alla scuola hegeliana, insieme a personaggi del calibro di Bertrando Spaventa ed era verso la fine del diciannovesimo secolo, una delle più vive ed originali intelligenze del nostro paese. La sua parabola politica, culturale ed esistenziale lo portò da una giovanile, timida militanza, all’interno della Destra Storica ad essere uno dei più autorevoli studiosi di Carlo Marx e di marxismo e fu a lungo in corrispondenza epistolare con lo stesso Engels. All’inaugurazione dell’anno accademico 1896-1897, il 14 di Novembre, Labriola pronunciò il discorso di prolusione citato nella ricerca, che sarebbe poi diventato famoso e che entrava nello specifico di alcune questioni principali dell’università italiana del tempo. Avvertendo che l’opera dei professori universitari “s’è fatta negli ultimi tempi, senza dubbio, assai viva nel pubblico” e che era “oggetto di una critica, che spesso fu poco benevola, e quasi mai parve rivolta all’intento di fornire a noi nuovi lumi e cognizioni nuove”, egli decise di sottoporre a critica e a decostruzione sistematica una serie di argomenti. Egli parla innanzitutto della libertà di insegnamento, per arrivare a discutere del classismo e del sessismo che, al contrario delle “Università svizzere”, caratterizzava gli atenei italiani. Labriola passa poi al valore legale del titolo di studio che inficerebbe la validità scientifica dello stesso, e si scaglia contro la pessima pratica (diffusa già allora all’interno del corpo docente universitario, anche se non aveva ancora toccato gli estremi conosciuti durante la storia repubblicana) di confondere insegnamento e svolgimento della professione liberale, dedicando sempre meno tempo e passione alla nuova attività con la conseguenza di una dequalificazione generale della scienza. Circa cento anni prima, Labriola accenna a tematiche che sarebbero state poi care a Jacques Derrida, circa la professione “di fede” che dovrebbe caratterizzare l’istituto e la professione della docenza. Il discorso del filosofo marxista si chiude con una esortazione agli studenti, nei confronti dei quali pensa di dover “rendere un servigio”,

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Bisogna tuttavia affermare che, sebbene fosse una legge mediocre che rappresentò un

tentativo di riforma appena sufficiente e che non riuscì a risolvere alcuni problemi principali

dell’università che, anzi, si approfondiranno trascinandosi nei decenni successivi, la Casati va

giudicata positivamente almeno se contestualizzata al suo tempo e se considerata alla luce delle

intenzioni dei suoi ispiratori e delle necessità cui doveva far fronte: essa, dunque, costituì

l’infrastruttura normativa alla quale fecero riferimento per più di cinquant’anni le università

italiane nella loro opera di formazione delle classi dirigenti dello stato nazionale; una riforma che

per quanto deficitaria, incompleta e probabilmente inconsapevole rispetto ai bisogni di più ampio

respiro dell’istituzione universitaria, riuscì a servire gli scopi della classe dirigente che di questa

riforma si era fatta carico e pure a sostenere una timida ripresa delle università italiane e sotto

l’aspetto didattico, e per quanto riguarda lo spessore scientifico e la reputazione internazionale

delle ricerche prodotte dai nostri atenei; soprattutto, la Casati riuscì nell’opera di integrazione

delle varie università in un sistema universitario nazionale più o meno organico e funzionante e,

optando per una accentuata supremazia ministeriale nei confronti dei poteri accademici per

quanto riguarda il governo degli atenei, a favorire la statalizzazione dell’istruzione universitaria

sistematizzata da Gentile e volgarizzata dal fascismo.

Una legge però che, sebbene di ispirazione elitaria e di impostazione fortemente classista,

riuscì a garantire dei percorsi formativi d’eccellenza molto rigorosi e a rendere le università delle

istituzioni prestigiose degne di attenzione pubblica e considerazione sociale. Per queste ragioni

Giovanni Gentile, allorché si apprestò a varare, intorno agli anni venti del ventesimo secolo, la

riforma della scuola e dell’università che da lui prese il nome, ripartì proprio dalle statuizioni della

Casati tentando di affrontarne i nodi irrisolti e di adeguarne i contenuti alle mutate esigenze dello

stato espresse dal regime fascista allora in via di consolidamento (Ippolito, 1978, pp. 7-35).

affinché si realizzi una spontanea cooperazione tra educatori e discenti “all’insegna di quella libera e spregiudicata ricerca, che per noi e per voi tutti è diritto e dovere ad un tempo”. Il discorso di Labriola rimase una delle più sincere, calibrate ed appassionate analisi dell’università italiana, talmente appropriato da rimanere attuale a più di un secolo di distanza. A questo proposito si consulti pure La scienza nazionale di Cesa C., in Porciani, 2001.

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Capitolo 2. La strutturazione degli atenei nel sistema pubblico di istruzione superiore

Le nazioni risorgono per la scienza.

(Francesco De Sanctis) L’università di stato

La Legge Casati era riuscita a regolare tutta la materia dell’istruzione ma rimaneva comunque

un testo sommario, generalista, particolaristico e datato. Le scuole elementari di amministrazione

comunale rimasero puramente un’indicazione legislativa poiché le condizioni economiche,

particolarmente disagiate soprattutto nelle zone rurali d’Italia, costrinsero i ministri succeduti al

conte milanese a sovvenzionare ogni ramo dell’istruzione; compito, questo, che venne svolto in

maniera approssimativa e discontinua, privilegiando le città grandi e popolose ed in particolare

quelle del nord Italia, per cui si raggiunsero dei risultati apprezzabili soltanto rispetto al problema

dell’analfabetismo, la cui percentuale rispetto alla popolazione cominciò a scendere

progressivamente per attestarsi agli inizi degli anni settanta del diciannovesimo secolo intorno a

tassi del 70% circa (Miozzi, 1993, p. 12, nota n. 41),29 ma la situazione delle scuole elementari e

di avviamento rimase decisamente scadente, ed in certi casi disastrosa. Migliorò un pochino

soltanto durante il dicastero alla pubblica istruzione di Luigi Coppino, nel governo Rattazzi: egli

presentò un decreto il 22 settembre 1867 (Ibidem, p. 18) con il quale introdusse delle timide

modifiche nell’amministrazione della pubblica istruzione, ma che sostanzialmente riprendeva i

contenuti della Casati; conteneva aspetti innovativi e migliorativi di quest’ultima soprattutto per

quanto riguardava la preparazione dei maestri, che veniva affidata alle Scuole Normali nelle quali

veniva loro insegnato ad educare i giovani al bene nazionale e alla virtù dell’obbedienza, dal

momento che, secondo quanto prescrive il testo stesso del decreto, queste scuole svolgevano il

compito di “educare la classe modesta ma preziosa dei maestri elementari che sono a loro volta

destinati a spargere tra i figli numerosi dell'agricoltore e dell'operaio germi di cultura bastevoli a

sollevarli dalla corrompitrice ignoranza di cui rimarrebbero preda".30 Da quel momento in poi le

Scuole Normali, di cui la più famosa è sicuramente quella pisana ma che esistevano pure in altre

città come Napoli e Messina, cominciarono a svolgere ed a custodire il ruolo preziosissimo di

preparazione pedagogica e formazione professionale dei maestri elementari, accogliendo

all’interno dei propri corsi di studio i licenziati degli istituti magistrali, prevalentemente di 29 A questo proposito si veda quanto affermato nel primo capitolo e si consideri che, precisamente, i tassi di analfabetismo, distribuiti secondo criteri territoriali, erano i seguenti: del 75 % in Veneto e nel Lazio, del 54 % in Liguria, Piemonte e Lombardia, del 86 & nelle regioni dell’Italia meridionale, per toccare le quote spaventose ed indecenti di 89 e 90 % rispettivamente in Sicilia ed in Sardegna, a fronte di un tasso complessivo nazionale del 78%. 30 http://casadelleartidelgioco.org/editoriale_del15_novembre_2000.htm.

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estrazione piccolo borghese e di sesso femminile; insieme agli Istituti di magistero che verranno

progressivamente istituiti in diverse città, aumentando considerevolmente a partire dalla metà del

secolo ventesimo, diventeranno così, vedendo a poco a poco istituzionalizzate e formalizzate più

compiutamente le proprie funzioni, il terminale formativo di un percorso di studi differenziato da

quello per le classi dirigenti ma comunque ambito e sufficientemente prestigioso, ponendosi di

fianco alle istituzioni universitarie propriamente dette, ma soprattutto cominceranno a conseguire

degli eccellenti risultati in termini formativi e culturali abbozzando le linee guida di quei modelli

educativi per l’infanzia, disegnati compiutamente nelle scuole elementari italiane degli anni

cinquanta del secolo scorso che, insieme all’università progettata da Gentile, diventeranno il vanto

del sistema di pubblica istruzione del nostro paese e saranno prese a riferimento da studiosi e

politici di molte altre nazioni occidentali (Bernocchi, 2000, pp. 17-18), anticipando di qualche

decennio l’impostazione ad un tempo socio-pedagogica e professionalizzante propria delle

“S.I.C.S.I.”, le attuali scuole superiori di preparazione all’insegnamento, che in realtà non sono

altro che dei corsi post-graduate organizzati indistintamente all’interno di molte università italiane

e rivolti principalmente ai laureati dei settori disciplinari umanistico-filosofici e linguistico-letterari.

Anche l’istruzione tecnica era strutturata in maniera abbozzata, disorganica ed incoerente,

incapace di garantire un accettabile livello di preparazione culturale e professionale alla forza

lavoro proveniente dalle classi sociali medio-basse, e questo nonostante il fatto che un timido

potenziamento degli studi tecnici, unito alla parziale concessione di iscrizione alle facoltà

scientifiche per chi era in possesso di un diploma di istituto tecnico superiore, aveva fatto

registrare un innalzamento considerevole degli indici di immatricolazione in questo settore

scolastico giungendo, nei primi decenni del Novecento, agli stessi tassi delle scuole classiche.

Come già detto, cominciò a funzionare solo il canale formativo destinato ai ceti abbienti che era

completamente differenziato, e che cominciava in età scolare con l’istruzione impartita nelle case

privatamente (scuola paterna) o presso istituti privati di insegnamento (quasi sempre di natura

confessionale) e che, attraverso il ginnasio ed il liceo, conduceva i rampolli maschi della buona

borghesia sino all’università.

La legge del 1859, dunque, abbozzò un sistema di istruzione pubblica completamente

sbilanciato e disorganico e funzionò, parzialmente, soltanto per quanto riguarda l’istruzione

superiore cui, come detto, venne data nuova linfa; un sistema di istruzione superiore, del resto,

profondamente classista e sessista nella impostazione e, conseguenzialmente, nei risultati che

garantiva in termini di laureati, nella quasi totalità maschi provenienti dalle classi alte.31 Basti

31 http://casadelleartidelgioco.org/editoriale_del15_novembre_2000.htm, pp. 9-10; si consideri che nel 1901 le studentesse liceali erano solo 1550 a fronte di 33500 studenti maschi: non esistono dei dati precisi rispetto alle studentesse iscritte all’epoca nelle universitarie italiane, ma pur ammettendo che, durante il passaggio dalla scuola superiore all’università, il rapporto uomini donne rimanesse invariato (mentre tutta la letteratura disponibile e le fonti interrogate sostengono il contrario), si può facilmente constatare l’estrema esiguità, diremmo vergognosa, del numero di studenti di sesso femminile che frequentavano corsi universitari.

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pensare che, nonostante formalmente le donne fossero ammesse all’università sin dal 1876,

quando nel 1893 Maria Montessori32 (che naturalmente proveniva da un istituto tecnico ed aveva

affrontato già studi sperimentali di medicina nei quali aveva eccelso, dimostrando precocemente

quel genio che l’avrebbe condotta ad una fulgida carriera di rilievo internazionale come studiosa

della psicologia infantile e come ideatrice di un metodo didattico centrato sulla personalità del

bambino), presentando formale domanda, provò ad iscriversi all’università presso la facoltà di

medicina fu fortemente osteggiata dal ministro Baccelli in persona e che, una volta riuscita ad

iscriversi, dovette condurre gli studi pesantemente impedita da rigide discriminazioni sessiste che

si concretizzavano, ad esempio, nell’impossibilità di seguire gran parte delle lezioni, su di

argomenti considerati indecenti e contrari alla morale, con i suoi colleghi maschi: questo caso

specifico brevemente accennato conferma le analisi proposte precedentemente circa le particolari

condizioni economiche e sociali che permettevano l’accesso all’università solo a determinati gruppi

sociali e ad un unico sesso, e rende inoltre la cifra del gretto moralismo e dei pesanti

condizionamenti cui erano sottoposti gli studi universitari nel diciannovesimo secolo e per buona

parte della prima metà del ventesimo, i quali sommati ad un atteggiamento culturale

classicheggiante e decadente, ad una impostazione scientifica intrisa di positivismo in ogni campo

del sapere, declinato per di più al ribasso, e ad un affarismo baronale interessato, provinciale,

particolaristico e campanilista rendeva così malsana l’aria respirata negli atenei, ormai lontani

dall’essere i luoghi in cui cercando la verità si raggiungeva la conoscenza (Labriola, 1996, pp. 36-

42).

Dunque, contrariamente alle aspettative ed alle intenzioni dei democratici che avevano

sostenuto Casati e la sua legge, l’istruzione superiore non era diventata affatto più accessibile,

anche se la situazione delle università italiane era generalmente andata migliorando

progressivamente, se si considera che nel 1860 l’università di Milano aveva solo 16 matricole,

quella di Pisa 17 e quella di Bologna una soltanto addirittura mentre, ad esclusione dell’ateneo

torinese e sebbene possa apparire inverosimile, nessun altro era in grado di licenziare laureati in

lettere e in filosofia.33

Queste ragioni fecero sì che già a partire dalla Casati, ovvero circa un secolo e mezzo fa, il

contesto normativo ed istituzionale e le sommarie e contraddittorie indicazioni politiche

rendessero le norme legislative e le procedure regolamentari riguardanti l’università incomplete e 32 Maria Montessori nacque a Chiaravalle in provincia di Ancona il 31 agosto 1871 da una famiglia medio-borghese e trascorse l’adolescenza a Roma; nella neo-proclamata capitale del Regno d’Italia cominciò ad interessarsi di materie scientifiche e di studi ingegneristici che, secondo quanto raccontato in questa ricerca, erano allora strettamente preclusi alle donne. Nonostante questi impedimenti la Montessori riuscirà addirittura ad iscriversi all’università, frequentando i corsi con successo, sebbene fosse stata “ibernata” per evitare contatti con l’altro sesso, e laureandosi già nel 1896 con una tesi in psichiatria presso la Facoltà di medicina della Sapienza: fu la prima dottoressa italiana, costretta a subire soprusi ed addirittura minacce da parte dei suoi colleghi maschi dell’ambiente medico ed accademico ma diventerà, soprattutto nei temi legati alla pedagogia infantile, una tra gli scienziati di massimo valore e di livello mondiale. 33 http://casadelleartidelgioco.org/editoriale_del15_novembre_2000.htm, p. 3.

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forzatamente precarie, per cui queste cominciarono a susseguirsi, sovrapponendosi l’una all’altra

decreto dopo decreto, lungo una serie inestricabile di riforme incomplete o abortite del tutto. Già il

ministro dell’istruzione che subentrò a Casati, ossia Terenzio Mamiani,34 ritenne opportuno

completare il testo del decreto n. 3725 predisponendo, appena entrato in carica, un altro decreto

attuativo dello stesso che specificasse la situazione universitaria, e che venne inserito nella

Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 1860 con il numero 4373.35 Questo decreto, presentato proprio

come Regolamento Universitario Generale,36 accentuò l’ingerenza ministeriale nelle faccende

accademiche, determinando un ulteriore sbilanciamento a favore del potere governativo

nell’amministrazione degli atenei, a discapito delle autorità accademiche; l’esamine di questi

documenti appare di particolare rilevanza in virtù della descrizione dei processi materiali che

contribuirono all’affermazione di un dato modello educativo piuttosto che di un altro all’interno del

sistema universitario italiano: in particolare, attraverso lo studio di questi decreti si possono

compiutamente esplicitare le dinamiche che hanno contribuito a sottomettere l’indipendenza

dell’università italiana a quello che alcuni studiosi definiscono come sistema a “centralismo

doppio” (da un lato in merito al livello territoriale di regolazione politica, stato vs. regione,

dall’altro secondo criteri prettamente amministrativi, ministero vs. singola istituzione formativa),

modello di università nel quale governance e accountability dipendono esclusivamente dai poteri

pubblici e, segnatamente, da quello politico-nazionale (Benadusi, 1997, pp. 46-47), senza

nessuna o con scarsa capacità di influenza delle autorità accademiche e, men che meno, di altri

attori sociali o soggetti economici potenzialmente interessati e coinvolgibili nei servizi di

erogazione di istruzione superiore e, dunque, dell’amministrazione delle strutture ad essa

deputate, e cioè le università. A partire dalla seconda metà del ventesimo secolo sempre più

numerosi saranno gli studiosi, provenienti in special modo dall’episteme culturale anglosassone,

ad interessarsi dei differenti sistemi di istruzione superiore proponendo, di questi, dei modelli

interpretativi e di classificazione basati proprio sui criteri ora menzionati e di cui si sta tentando di

fornire una presentazione in questo studio.

Il documento del 1860 si interessava in maniera particolareggiata della composizione del

corpo accademico e del funzionamento dei suoi organi direttivi che perdevano ogni residua

autonomia permessa dai vuoti normativi della Casati ed ogni velleità elettorale di collegialità,

diventando più simili alle altre amministrazioni del Regno, secondo quanto si era proposto il conte

34 Terenzio Mamiani nacque a Pesaro nel 1797; partecipò ai moti di liberazione del 1831 nello Stato Pontificio di cui fu primo ministro nel 1848, sotto l’egida di rinnovamento perseguita da Pio IX. Dopo la conduzione degli affari del Ministero della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia, fonderà, nel 1870, la prima, vera, grande rivista italiana di studi filosofici, intitolata “Filosofia delle scuole italiane”. 35 Vedi Appendice Normativa, Allegato 2, Documento n. 3. 36 Regolamenti di tal genere, anche se con denominazioni parzialmente modificate, sono stati prodotti durante tutta la storia dell’attività ministeriale in merito di pubblica istruzione; tra i più importanti si ricorda il Regio Decreto 4 giugno 1938 n. 1269, emanato con il titolo di “Regolamento degli studenti” che rimarrà in vigore sino alla cosiddetta riforma Berlinguer.

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milanese nella stessa Relazione Introduttiva alla legge che porta il suo nome; ed in effetti la

Relazione di cui sopra, la Casati ed il Regolamento Universitario firmato da Mamiani rappresentano

tre momenti conseguenziali ed abbastanza organici e coerenti tra loro di un’unica, sostanziale

riforma della istruzione superiore capaci di creare un binomio stato-università, il cui prodotto sarà

quello che è stato definito il sintagma scienza nazionale che diventerà in Italia particolarmente

profondo e complesso e che sarà messo in evidenza di seguito (Porciani, 2001, introduzione). Il

Capo II tratta della composizione delle facoltà e di tutte le funzioni preposte a quest’organo sia

sotto il profilo professionale di gestione delle posizioni lavorative e delle carriere dei docenti, sia

sotto il profilo amministrativo normando la gestione delle attività interne alle facoltà e tutti gli

aspetti giuridicamente ed economicamente rilevanti delle relazioni tra docenti ed istituzioni.37 Il

Rettore viene designato come “Capo della Università e di diritto Presidente del Corpo

Accademico”; “Tutti gli Uffiziali dell’Università, sì dell’insegnamento e sì dell’amministrazione,

sono, a norma delle Leggi e dei Regolamenti, posti sotto il suo governo e della sua vigilanza”.38 Il

Rettore, attraverso una forte e presente azione di coordinamento, di ispezione e di direzione, vede

quasi assolutizzato il suo ruolo di governo all’interno degli atenei. Nelle università dei Regni pre-

unitari l’assunzione delle cariche di governo degli atenei era gestita da gerarchie corporative,

opache e non meno odiose; ma le classi dirigenti della seconda metà del diciannovesimo secolo,

ed in particolare i ministri della Pubblica Istruzione, proprio per sottrarre le università a questi

poteri, le sottoposero ad una indebita dipendenza governativa, con il risultato che Rettori e Presidi

continuarono ad essere espressione assoluta delle alte schiere dei baronati accademici, ma

divenivano adesso degli amministratori statali agli ordini del ministro finendo per assolvere

finanche a compiti investigativo-disciplinari alla mercè delle indicazioni del potere del politico.39 Se

si tiene conto del fatto che non si potevano “affiggere avvisi, inviti, programmi, ed altre cose

scritte o stampate, nell’interno dell’Università e degl’istituti che ne dipendono senza la permissione

del Rettore, il quale vi apporrà il suo visto”, si capisce quanto fosse rigida, gerarchica e chiusa

l’università disegnata intorno agli anni sessanta dell’Ottocento e la cui architettura, cementificata

da Gentile, De Vecchi e Bottai40 durante gli anni venti, trenta e quaranta del Novecento, ha

resistito, eludendo le disposizioni costituzionali in materia e le spinte innovative di matrice

sessantottina, sino alle riforme dei decenni scorsi che hanno trasformato quasi completamente gli

atenei italiani.

Il regolamento prevedeva tre fasce di docenza delle quali la prima era occupata dai professori

ordinari; questi dovevano “mantenersi nei limiti dei loro programmi, cui svolgeranno

compiutamente, cessando ogni trattazione contraria alle Leggi dello Stato, ai principi morali ed 37 RD 30 ottobre 1960 n. 4373, artt. 1-42; stralci del decreto sono riportati nell’Appendice Normativa, Allegato n. 2, Documento n. 3. 38 Ibidem, artt. 43-81. 39 Ibidem, artt. 82-98. 40 A questo proposito si legga il testo consultabile su http://xoomer.virgilio.it/giolampe/ crt39.htm.

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all’ordine pubblico”; ed inoltre erano i custodi della “disciplina nella loro scuola”. Il concorso a

cattedra veniva regolamentato precisamente all’interno del decreto e sottoposto, naturalmente, ai

voleri ministeriali anche attraverso direttive e circolari successive. L’ammissione alla docenza era

subordinata alla presentazione di titoli e pubblicazioni scientifiche ed al superamento di un esame

che prevedeva tanto di “esperimenti” e che era presieduto da una Commissione giudicatrice,

manco a dirlo, di nomina ministeriale. Esistevano poi i professori “aggregati” presso la cattedra

dell’ordinario ed i “supplenti” che occupavano il grado più basso della gerarchia accademica e che

versavano spesso in condizioni precarie pari a quelle vissute oggi dai ricercatori universitari, ma in

condizioni di subalternità al potere probabilmente peggiori e maggiormente vessatorie. C’erano

pure i professori “straordinari” nominati sovente per meriti di “chiara fama”, che svolgevano la

propria attività di insegnamento presso la facoltà di riferimento e che venivano stipendiati, così

come per aggregati e supplenti, dall’ateneo che li ospitava, mentre gli ordinari erano sul libro paga

del ministero, dipendenti della pubblica amministrazione a tutti gli effetti.41

Lo status giuridico e professionale dei docenti, in particolare quello dei titolari di cattedra,

rappresenterà un’altra particolarità dell’ordinamento universitario italiano che non mancherà di

sollevare polemiche, in special modo presso i sostenitori del modello anglosassone di università

nel quale, insieme ad altre forme di autonomia ed autogoverno, era prerogativa delle singole

istituzioni universitarie provvedere al reclutamento della propria classe docente ed al pagamento

dei relativi compensi. Questa materia diventerà addirittura tra le più importanti e le più complicate

tra le questioni universitarie e sarà tra quelle che desteranno maggiore attenzione nel legislatore e

presso la classe politica a causa degli interessi corporativi, monetari e di prestigio ad essa sottesi

(C.R.U.I., 2005, pp. 10-11).

In armonia con le disposizoni casatiane, il decreto predisposto da Mamiani comprendeva

anche la figura del liberi docenti, i quali spesso finivano per divenire aggregati se i loro

insegnamenti venivano reputati validi dagli organi di governo della facoltà e se il numero degli

iscritti ai loro corsi rimaneva ragguardevole e costante, e che impartivano insegnamenti su

discipline generali e particolari purché fossero compendiati nelle tabelle ministeriali. Si potevano

addirittura tenere, unico elemento, questo, davvero positivo, corsi liberi e gratuiti nei quali

chiunque potesse professare la propria disciplina e per i quali era previsto il libero accesso, pur se

non si era in possesso delle qualifiche di Studente o di Uditore, se non si era cioè iscritti

ufficialmente a nessun corso universitario. Era questo un elemento molto importante, primo

embrione di quella pubblicità dei corsi che diventerà, diamo a Cesare quel che è di Cesare, una

qualità permanente della università italiana e che troverà sanzione formale nel dettato

costituzionale repubblicano ed in numerosi testi legislativi per divenire, poi, un principio ribadito in

quasi tutti gli statuti che le università italiane si sono date negli anni scorsi dopo le leggi

41 Regio Decreto 30 ottobre 1860 n. 4373, artt. 99-198.

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sull’autonomia (Morlicchio, Macchiarola, 1995). Una caratteristica che rende la cifra e ben esplicita

il senso di una università votata alla libera ricerca della conoscenza nella quale il sapere sia reso

accessibile a tutti e che ha mantenuto per molti anni le istituzioni di alta cultura italiane al riparo

da qualsiasi involuzione privatistica e commerciale.

Per quanto riguarda gli studenti, il Regolamento si interessa in maniera minuziosa ed

esauriente di tutti gli aspetti burocratico-professional-diciplinari della loro carriera, disponendo

anche una serie di norme per disciplinare la strutturazione e lo svolgimento delle attività

didattiche e dei processi di apprendimento. Il Capo XI contiene ben sedici articoli riguardanti le

“Iscrizioni alle matricole e ai corsi” nei quali si passa dalla definizione e dalla ripartizione in “due

semestri di quattro mesi e mezzo ciascuno” dell’anno accademico, ad un’esamine particolareggiato

di tutte le procedure di ammissione all’università. Nel Capo XII dedicato agli esami ci sono

cinquanta articoli che regolamentano interamente lo svolgimento delle attività didattiche: vengono

presi in considerazione i “giorni in cui si svolgeranno gli esami” (che sono sempre pubblici ed

individuali), suddivisi in esami generali di facoltà, da tenersi obbligatoriamente per ciascun corso

di studi a prescindere dall’ateneo in questione, ed esami speciali, anch’essi del resto definiti dal

ministro attraverso il Regolamento. Vengono fornite indicazioni in merito all’organizzazione stessa

della prove d’esame, scritte ed orali, la composizione ed i compiti della Commissione esaminatrice

ed il sistema dei voti.

Nota positiva, in questa ridondante massa di articoli, una disposizione che rappresenta, vera e

propria pietra miliare sull’argomento, il primo nucleo del diritto allo studio, che sarà sancito solo

molti decenni dopo e che rimarrà per tanto tempo una disposizione disattesa parzialmente o

completamente per essere, attualmente, completamente ripensata e notevolmente

ridimensionata, e che all’articolo n. 237 recita testualmente: “Le condizioni prescritte per

l’ammissione gratuita agli esami saranno egualmente richieste perché il Rettore possa proporre al

Ministro della Pubblica Istruzione (senza alcuna distinzione tra studenti e studenti) la dispensa dal

pagamento del diritto all’iscrizione alla matricola ed ai corsi a favore degli studenti poveri e

segnalati”. Va precisato che questa statuizione in merito all’agevolazione economica per studenti

disagiati rimase una mera disposizione formale della quale cominciarono a beneficiare studenti che

falsificavano le proprie condizioni di reddito secondo una pratica che diventerà prima scandalosa e

poi costante nell’amministrazione di molte di quelle che furono le Opere Universitarie, poi

trasformate in Enti per il Diritto allo studio e divenute in seguito aziende in base ad un processo di

destrutturazione del diritto allo studio e ad un suo ripensamento in termini privatistici e

commerciali, che vengono contrabbandati per efficientismo meritocratico (Cesarani). Del resto la

strutturazione complessiva dei percorsi di studio, caratterizzata in senso decisamente classista,

impediva a priori che studenti bisognosi provenienti da famiglie economicamente disagiate

giungessero effettivamente all’università se non in casi più unici che rari, ed inoltre, l’articolo

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citato prevedeva piuttosto dei benefici economici intesi in termini di concessione quasi

elemosinaria che un principio che affermasse compiutamente la gratuità degli studi per studenti

bisognosi e meritevoli, il quale sarà disposto soltanto dalla Carta Costituzionale Repubblicana e si

configurerà come un vero e proprio di diritto dei cittadini garantito dallo stato sociale.42

Appare dunque evidente l’assetto gerarchico dell’università che emerge dai due documenti del

1859-60, i quali istituiscono un sistema di istruzione superiore completamente a carico ed alla

mercé dei poteri pubblici, anche a causa del modello di finanziamento del sistema universitario, di

natura interamente pubblica. Vero è che, nell’Italia del diciannovesimo secolo, sarebbe stato

impossibile lasciare ai privati l’offerta di istruzione superiore sia per le motivazioni politiche

descritte precedentemente, sia soprattutto perché le poche istituzioni private allora esistenti, ed in

grado di fornire istruzione superiore, non sarebbero state capaci di soddisfare completamente la

domanda di alta formazione, né tanto meno era pensabile ed auspicabile che il capitale privato

finanziasse in misura significativa i costi delle università italiane.

Le cautele, espresse da Casati nella Relazione introduttiva al RD 3725 circa il modello

straniero di istruzione da prendere come riferimento, contestualizzato alla particolare situazione

politica e culturale italiana, rimasero quindi pure intenzioni di principio e lo stato divenne l’unico

committente, fornitore e garante della istruzione universitaria: ne venne fuori un modello di

università statalizzato e fortemente centralizzato all’interno del quale mancava qualsiasi forma di

accountability che non fossero le ispezioni ministeriali, ed in cui il potere si trasmetteva dal vertice

rappresentato dal ministro e, attraverso i rettori, veri e propri funzionari sul libro paga del

ministero, ed i presidi di facoltà, si irrorava in forma autoritaria di comando in tutti gli istituti

scientifici, le aule ed i laboratori di ricerca, arrivando a regolamentare l’intero svolgimento delle

attività didattiche. Dalla governance dell’università erano completamente escluse forze sociali ed

economiche, nonché forme di rappresentanza studentesca naturalmente, mentre anche gli istituti

autonomi di potere accademico di natura collegiale e più o meno democratica, quali i Senati

Accademici ed i Consigli di Facoltà, perdevano la loro centralità a favore di organi monocratici e di

nomina ministeriale, quali i dirigenti del Consiglio d’amministrazione d’ateneo. I poteri pubblici e

dunque il potere politico, attraverso complesse dinamiche di lobbying, compromessi e negoziazioni

con le autorità accademiche, controllavano di fatto tutte le attività e la produzione delle università.

Va sottolineato che questo sistema, essendo un ibrido tra il modello di università centralistico,

di stampo napoleonico, di origine francese, e quello “humboldtiano” delle università dell’impero,

votate all’eccellenza, di provenienza tedesca, rappresentò sotto certi aspetti una reinterpretazione

esasperata, una accentuazione degli aspetti negativi dei due modelli ai quali si ispirava: il sistema

universitario italiano approfondì in maniera indebita il centralismo burocratico del modello

francese di matrice giacobina, volgarizzandolo con una buona dose di affarismo, corruzione ed

42 Ibidem, artt. 207-275.

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angusto provincialismo tipicamente italiani e, nello stesso tempo, privò di significato il modello

tedesco di università di stato, nel quale i pubblici poteri si limitavano a finanziare lautamente gli

atenei ed a garantirne la sussistenza ed il funzionamento lasciando loro ampissimi margini di

autonomia didattica e di ricerca, poiché l’università di stato italiana fu da sempre caratterizzata da

una strutturale insuffìcienza di mezzi (fondi, strutture didattiche e di ricerca), a fronte di una

ossessiva, onnipresente facoltà del ministro di interferire nella vita accademica e di condizionare il

libero corso della scienza con intrusioni tanto più inopportune in quanto basate spesso su una

assoluta ignoranza degli argomenti in questione. Fastidiosa, angusta e provinciale si presenta la

mentalità politica che determina nel legislatore e nell’esecutivo un attenzione pletorica verso

aspetti amministrativi del tutto superflui, mentre manca quasi completamente una visione

d’insieme circa i problemi dell’istruzione superiore ed un approccio organico alla situazione degli

atenei capace di conferire un quadro legislativo di riferimento equilibrato e, conseguenzialmente,

un assetto stabile al sistema universitario nazionale. Questa subordinazione formale e dettagliata

degli atenei al potere politico finì così per accentuare la distanza tra gli altri sistemi universitari

europei (per quanto riguarda i risultati raggiunti nella produttività, e in ambito formativo, e in

ambito scientifico e di ricerca e sia dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo) e

quello italiano confinando, in maniera speculare e direttamente proporzionale alla posizione

occupata dal nostro paese all’interno della gerarchia internazionale della divisione del lavoro

dell’economia mondo capitalistica, la produzione intellettuale e la ricerca scientifica del nostro

paese in una posizione decisamente semiperiferica. Il sistema universitario italiano fu viziato sin

dalle origini dalla parzialità o dalla completa manchevolezza di un quadro normativo di riferimento

che facilitasse lo svolgimento, al massimo grado di eccellenza possibile ed in un contesto

accettabile di autonomia governativa e di scopo, delle funzioni di ricerca e di insegnamento

all’interno degli atenei. Divenne una prassi sconcertante l’abitudine, diffusa più o meno tra tutti i

ministri della pubblica istruzione, di predisporre disegni di legge in materia di istruzione superiore

presentati di volta in volta come compendi fondati ed esaustivi, e che invece a distanza di pochi

anni dalla loro formulazione si presentavano del tutto inadeguati. E così divenne prerogativa

ministeriale e pratica abitudinaria pure quella di emanare di continuo leggine, regolamenti,

circolari e disposizioni che, lungi dall’integrarsi armonicamente tra loro, si sovrapponevano

legiferando, spesso contraddittoriamente, intorno alla stessa fattispecie di riferimento ed

asfissiando così il funzionamento delle università che, in mancanza di un’unica o di poche leggi

buone ed efficaci, si trovavano di fronte un dedalo labirintico di norme simili ma di ordine, grado

ed intendimenti differenti, di fronte alle quali si irretiva ogni impulso di dare libero respiro allo

sviluppo delle conoscenze scientifiche. La parzialità, l’improvvisazione, l’estemporaneità e la

provvisorietà del contesto normativo diventeranno la regola per cui l’azione istituzionale finirà per

ostacolare, anziché sostenere e coordinare, l’università nel complicato e delicatissimo svolgimento

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delle funzioni di insegnamento e di ricerca. La classe politica del tempo, già allora troppo miope

quanto strumentalmente interessata all’argomento, non fu capace di indirizzare l’istruzione

superiore verso un orizzonte ampio ed equilibrato di finalità preferendo, più meschinamente e più

convenientemente, che le università si occupassero di riprodurre le élite borghesi dominanti

divenendo custodi di una morale secolarizzata, strumento di selezione di classe per la cooptazione

economica e sociale, politica e di costume, nonché per l’indottrinamento culturale.

La Riforma Gentile 1923

Il contesto storico-sistemico e le condizioni economiche e sociali del nostro paese, al tempo in

cui venne prodotta la riforma Gentile, risultano completamente differenti dall’epoca in cui era

stata promulgata la Casati. L’Italia degli anni venti del secolo scorso era ancora un paese

profondamente arretrato, molto povero, in cui l’agricoltura costituiva ancora l’attività primaria e

che tuttavia, secondo quanto afferma lo storico dell’economia Alexander Gerschenkron, aveva già

conosciuto la sua prima fase di vero e costante sviluppo produttivo ed industriale verso la fine del

secolo precedente, durante la cosiddetta “età giolittiana”, anche se in maniera disuniforme sul

territorio nazionale, ed inizialmente solo nei settori trainanti della metallurgia, della meccanica e

della chimica (Ortoleva, Revelli, 1993, p. 171). Inoltre, notevoli trasformazioni avevano

interessato il nostro paese anche dal punto di vista sociale, politico e culturale, oltreché nella

struttura economica e produttiva. Durante il periodo giolittiano non furono prese misure

sostanziali riguardanti l’università, né lo avrebbe permesso la personalità di Vittorio Emanuele

Orlando, che rimase per parecchio tempo ministro dell’istruzione, il quale fu un celebre esempio di

retorica ministeriale e di scarsa attenzione ai problemi fondamentali degli atenei (Miozzi, 1993,

p.48), che già allora avrebbero necessitato una riforma.

Quello che interessa in questo contesto è che, in alcuni particolari settori economici ed a

cavallo dei secoli diciannovesimo e ventesimo, cominciò ad intessersi un rapporto sempre più

profondo e proficuo (soprattutto dal punto di vista della produzione industriale, ma che non mancò

di far sentire alcuni effetti positivi all’interno delle università, stimolando l’attività degli istituti di

ricerca) tra diverse grandi industrie di alcuni settori imprenditoriali ed alcune facoltà universitarie,

tra cui quelle istituite ex novo o riconfigurate dalla legge Casati. Questo rapporto tra operatori

economici ed università venne stimolato e gestito dallo Stato, che attraverso la creazione di

imprese a grande intensità di lavoro e a capitale pubblico, e per mezzo della statalizzazione

dell’università descritta nel paragrafo precedente, si era creato gli strumenti per operare in questo

senso fortemente dirigista in sempre più numerosi settori sociali. Del resto le classi dirigenti che

uscivano dagli atenei (che nelle alte schiere degli enti e della burocrazia statale erano costituite in

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misura sempre maggiore da licenziati della facoltà di giurisprudenza appartenenti a famiglie agiate

dell’Italia meridionale ed insulare, i quali conseguivano il titolo alla Sapienza di Roma o presso la

Federico II di Napoli, ancora più prestigiosa per ciò che attiene alle scienze giuridiche) (Miozzi,

1993, pp. 31 e ss.), benché votate ad una ideologia politica che si professava di credo liberale e

liberista, erano altresì informate di, ed educate ad una cultura statalista, pubblicista, verticistica,

centralistica e burocratica che ben giustificava la necessità strutturale della borghesia italiana di

dotarsi di un management di impresa competente e capace di gestire la produzione delle aziende,

sì pubbliche che private. Di fatto lo stato sosteneva la nascente industria italiana e l’ancora debole

capitale privato esternalizzando i costi di formazione professionale e di ricerca delle imprese,

scaricandoli sulle università pubbliche.

In questo senso notevole impulso fu dato allo sviluppo dei politecnici, alle facoltà di

ingegneria, ma anche a quelle di scienze giuridiche dal cui indirizzo economico provenivano i

direttori aziendali e gli amministratori degli enti statali. Dopo il Politecnico di Torino, istituito in

pratica con la legge Casati che aveva scippato l’università alla città di Sassari per destinare

maggiori risorse finanziarie alle nuove facoltà disposte a sostegno dello sviluppo economico e

militare,43 nel 1863 era stato fondato pure il Politecnico di Milano, che si sviluppò rapidamente e

crebbe notevolmente per dimensioni, mezzi e numero di iscritti; l’aumento delle matricole iscritte

ai corsi, sarà del resto un fenomeno che interesserà, tra gli ultimi decenni del diciannovesimo

secolo ed i primi del ventesimo, tutte le università del Regno d’Italia, se si considera che nel 1861

gli studenti universitari ammontavano complessivamente a sole seimilacinquecento unità, che

diventeranno circa ventimila a cavallo di fine secolo per toccare la quota, inimmaginabile solo

qualche anno prima, di 26031 iscritti nell’anno 1910, rappresentando così circa l’1% dei giovani in

età universitaria (un tasso di iscritti non molto differente da quello degli altri paesi europei dove,

tra l’altro, coloro che frequentavano assiduamente e con profitto le scuole primarie costituivano un

numero molto maggiore che non nel nostro paese) (Ibidem, pp. 53-56).

Gli studenti universitari italiani provenivano prevalentemente dalla classe borghese

intellettuale, “quella che le sovrabbondanti scuole medie classiche e le università fucinavano,

affrettatamente e sommariamente, in qualità ormai molto superiore ai bisogni e in qualità poco

rispondente a quei bisogni” e, lungi dalla passione per lo studio libero ed incondizionato, il loro

prevalente interesse consisteva nel conseguimento della laurea, “per cui università e laurea

costituivano non la più ardua ma la più facile via e meta per un giovane e la più sicura garanzia di

farsi una posizione, innanzitutto in certe professioni liberali, e in particolar modo in quella legale

che era tradizione italiana, e meridionale in ispecie” (Idem). Oltre alle competenze più

strettamente tecnico-scientifiche suscettibili di applicazione nei settori industriali in espansione, le

43 Si prenda in considerazione l’Istituto Universitario di Ciamberì, adibito alla formazione degli alti ranghi dell’esercito e della burocrazia militare, nonché alla preparazione tecnica dei graduati del Corpo di Cavalleria sabaudo.

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libere professioni, ed in particolare quella di avvocato, costituivano dunque l’aspettativa

fondamentale di un gran numero di studenti universitari i quali, oltre a frequentare l’università per

il semplice conseguimento della laurea, intesa come traguardo formativo e di prestigio culturale e

sociale, cercavano spazio nella professione politica, nel giornalismo e nella pubblica

amministrazione, come funzionari e impiegati nelle strutture pubbliche. Tutto ciò a causa del

crescente dilatarsi delle politiche pubbliche, e cioè dell’azione direttiva, programmatrice e

coordinatrice dello stato e dei municipi; delle statalizzazioni e municipalizzazioni di attività e di

aziende economiche; della crescente attivazione di vari uffici tecnici speciali; dell’aumento delle

scuole di vario ordine e grado; dello svilupparsi della grande industria, che implicava

un’accresciuta domanda di impiegati.

La pressione sugli studi universitari dunque, unita alla ricerca sempre più sistematica di un

titolo di studio per l’accesso alle professioni, si fece così sempre più forte, da parte di una classe

borghese che puntava ad una collocazione sociale stabile attraverso un impiego ben remunerato,

per cui si creò una situazione sociale in cui v’erano “troppi laureati, e senza nessun serio studio;

laureati inutili a sé e agli altri, vero proletariato intellettuale e pseudo-intellettuale a caccia di un

impiego che, per quanto mal retribuito, assicurava un reddito assai superiore al reddito medio di

ogni italiano”: tant’è che divenne famosa in quegli anni la macchietta, tratteggiata tempo addietro

in un articolo di Gaetano Salvemini, di Cocò all’Università di Napoli, cioè “del piccolo borghese

meridionale che frequenta, o meglio, non frequenta l’Università, prende agevolmente,

automaticamente, la sua laurea, si abilita con essa a … non esercitare alcun mestiere, o a

partecipare al piccolo imbroglio politico della sua città e della sua provincia” (Idem). E questo

fenomeno, specialmente nell’Italia del sud, si fece sempre più esteso, coinvolgendo altre

categorie, come gli ingegneri (non più solo liberi professionisti, ma funzionari delle

amministrazioni statali, provinciali e comunali),44 e gli agronomi (non più solo agricoltori,

bonificatori e dirigenti di aziende agricole, ma anche impiegati e professori).

Intanto gli istituti di botanica, zootecnica e scienze agrarie sostenevano, grazie ai risultati

delle ricerche da essi prodotte, i processi di sviluppo e di meccanizzazione dell’agricoltura,

principalmente in alcune zone dell’Emilia, della Toscana e, soprattutto, della Pianura padana. Pure

le facoltà di Lettere e Filosofia, e Matematica, che conservavano caratteri puramente speculativi

nell’epistemologia, nel metodo e nell’organizzazione degli studi, e che non erano a stretto contatto 44 Nel suo saggio (op. cit.) Calcagno racconta come alcune associazioni di categoria, che regolavano l’accesso alle professioni e la strutturazione degli Ordini, influirono considerevolmente in merito alla strutturazione delle relative discipline di studio impartite all’interno degli atenei italiani, condizionando così indebitamente le attività scientifiche in generale e contribuendo, nello stesso tempo, a sedimentare un apparato di potere operante nel mondo accademico (pure nel senso della proposizione di un pensiero, di una epistemologia dominante all’interno dei propri settori disciplinari) ma che traeva linfa e sostegno dalle posizioni di prestigio occupate da alcuni di questi docenti professionisti, nel mondo del lavoro; nel, più volte citato in questo lavoro, discorso di Labriola all’università di Napoli il filosofo italiano non mancò di trattare di questa pratica che cominciava ad essere diffusa e scottante, sottolineando le storture che essa produceva nel buon andamento delle accademie.

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con specifiche attività economiche come quelle di Scienze Naturali, Farmacia o Veterinaria,

producevano un buon numero di laureati che poi trovavano occupazioni prestigiose e ben

remunerate in diverse professioni. Si può quindi affermare che le relazioni cominciate nel

Piemonte sabaudo tra imprese e mondo accademico si erano andate così stabilizzando nel Regno

d’Italia dei primi decenni del ventesimo secolo, e così come nel Regno di Sardegna nel secolo

precedente, il possesso della laurea era divenuto sempre di più un prerequisito essenziale per

l’assunzione di ruoli dirigenziali in ambiti lavorativi sempre più numerosi e precedentemente meno

professionalizzati, sia nelle imprese private che nella pubblica amministrazione.

Le istituzioni universitarie, che erano salite alla ribalta durante i processi di costituzione e

ristrutturazione degli stati europei nell’Ottocento (nation building) (Cesa, 2001, pp. 3-15),

acquisirono prestigio ancora maggiore durante i primi decenni del Novecento per la crescente

importanza delle ricerche scientifiche per scopi militari prodotte all’interno degli atenei, che

palesarono il nesso strettissimo esistente tra scienza e guerra (esplicitando in questo modo il

doppio significato dell’emblema di Minerva), intesi come elementi cruciali per la costruzione della

nazione, tanto più alla luce di uno scenario internazionale sempre più teso e critico, non solo dal

punto di vista militare ma anche per ciò che riguarda il confronto tra le Kulturnationen (Porciani,

2001, pp 3-15).

Questa progressiva affermazione dell’università italiana in alcuni processi e settori economici,

sociali e politici, oltreché culturali, corrispondeva del resto ad una dinamica storica di portata

sistemica che vedeva sempre di più gli stati-nazione servirsi delle università a scopi politici e, per

estensione, pubblici e, finanche, militari. Neanche le università britanniche, che pure erano delle

istituzioni sostanzialmente autonome e fortemente corporative, e che erano contraddistinte da un

grado di indipendenza dal potere politico che sarà preso come modello di riferimento dagli studiosi

dell’educazione successivamente (Clark, 1983, Neave, 2005), riuscirono a resistere a questo

processo storico di portata globale, che era determinato dal continuo crescere ed inasprirsi della

competizione economica all’interno dell’economia-mondo capitalistica tra la fine del

diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, processo, questo, che comportava

conseguenzialmente una accresciuta instabilità nel quadro delle relazioni internazionali, nonché

una tendenza al dominio ed al conflitto per conquistare l’egemonia, che sarà definita imperialismo

(Lenin, 1970) e che sfocerà nei due conflitti bellici mondiali del secolo scorso.

Le università americane, di più giovane età e caratterizzate nella maggior parte per una

vocazione marcata alla formazione professionale specifica, cominciarono a fornire expertise e

forza lavoro altamente qualificata a numerose industrie nonché a diverse agenzie private e

federali (Casimir, 1991, pp. 109-114) mentre, nello stesso periodo, le università imperiali

giapponesi, ispirate alla dottrina confuciana e che vantavano una antica tradizione culturale

(Trivellato, 1997, pp. 65-80), venivano piegate alle necessità strategiche, economiche e politiche

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della classe imperiale giapponese, impegnata nel tentativo di conquista della egemonia regionale

nell’area del Sud-est asiatico, dell’’Estremo oriente e del Pacifico, esplicitando così il ruolo

fondamentale dell’alta formazione tecnica e delle conoscenze specifiche per scopi militari, alla cui

predisposizione erano votate, nell’Europa occidentale, alcuni atenei e numerose accademie.

Nell’Europa continentale i modelli di università ed i relativi sistemi universitari nazionali, se si

eccettua da quello belga che godeva di una diffusa autonomia di stampo cantonale, erano stati

caratterizzati, sin dal loro ripensamento complessivo e dalla loro ristrutturazione avvenuta nel

corso del diciannovesimo secolo, da una pronunciata dipendenza pubblica di natura

sostanzialmente statale sia in termini di strutturazione ed organizzazione delle attività di

insegnamento e di ricerca scientifica sia, soprattutto, in termini di finanziamenti: se si prendono

ad esempio le situazioni particolari di Germania e Gran Bretagna, sottacendo del sistema

universitario e di formazione terziaria francese improntato ad un centralismo burocratico e

dirigistico di origine giacobina, il ruolo preponderante ed essenziale svolto dallo stato può essere

osservato agevolmente in quanto le università tedesche, pur operando in un contesto di

sostanziale libertà scientifica ed accademica, erano decisamente votate, secondo le indicazioni di

Alexander von Humboldt, alla soddisfazione di scopi di pubblica utilità: nel pensiero rintracciabile

dagli scritti del filologo ed esploratore prussiano, il quale fu il massimo teorico del rinnovamento

degli atenei germanici, era evidente la equazione tra libero sviluppo della ricerca scientifica

all’interno delle università e progresso tecnologico, economico e militare dello stato, per cui

l’autonomia e l’incondizionatezza delle attività accademiche divenivano prerequisito essenziale per

il benessere della nazione tedesca; dunque le università prussiane45 prima e tedesche poi,

rimasero fortemente ancorate alla visione politica, statuale ed imperiale propria delle classi di

governo del Reich, divenendo anni dopo uno strumento preziosissimo nelle mani dei gerarchi

nazisti per giustificare secondo una scientificità tutta presupposta, le politiche di espansione

territoriale e quelle di segregazione razziale fino a giustificare, sostenendolo, il progetto di

“olocausto” di zingari ed ebrei (Weinreich, 2003).

Dal canto loro le Red bricks universities di sua maestà la Regina di Inghilterra, pur

conservando gelosamente la propria autonomia scientifica di natura corporativa e di derivazione

medioevale e la propria indipendenza nella conduzione delle attività didattiche, venivano

finanziate pressappoco completamente e nella quasi totalità dei casi, da fondi statali finendo così

inevitabilmente per essere più o meno condizionate dai pubblici poteri (Williams, 1996, pp. 153-

159).

45 Si pensi che l’Università di Berlino, tra le più giovani di Germania, era stata fondata proprio durante le guerre antinapoleoniche per formare giovani studenti alla nascente ideologia dell’Impero guglielmino, la Deutsche Wissenschaft che iniziava ad irradiarsi al di là dei propri confini divenendo punto di riferimento mondiale.

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Il processo di statalizzazione dell’università, o se si preferisce, il progressivo interessamento

ed il crescente interventismo dello stato in materia di istruzione, e di istruzione universitaria in

particolare, rappresenta dunque un processo storico di portata globale, quantomeno se ci si

riferisce alla vecchia Europa, agli Stati Uniti e ad alcuni paesi semiperiferici del nord e del sud

America, dell’Europa centro-orientale e dell’est asiatico (Teichler, 2001, pp. 6700-6701), ossia alle

zone più dinamiche e competitive dell’economia-mondo capitalistica degli inizi del ventesimo

secolo. Proprio in quegli anni, infatti, comincerà ad essere valutato adeguatamente il ruolo

dell’istruzione, e di quella terziaria in particolare, nonché delle istituzioni sociali ad essa deputate,

che sarebbe a dire le università, all’interno delle dinamiche più complessive di sviluppo della

economia nazionale e di consolidamento delle istituzioni politiche e sociali dello stato-nazione.

Questo insieme di processi, o per meglio dire di segmenti di processo, assunse in Italia delle

caratteristiche molto particolari in relazione alla specifica situazione socio-economica ed al

particolare contesto politico-culturale.

Il sistema universitario italiano e, più in generale, tutto il sistema di pubblica istruzione, si

stava lentamente avviando sul cammino di una integrazione armonica e coerente, sia a livello

istituzionale e normativo, sia a livello organizzativo cominciando a poco a poco a colmare le

proprie immense lacune interne, nonché il considerevole divario che lo separava dai sistemi di

istruzione degli altri paesi europei, soprattutto per quanto riguardava i risultati apprezzabili da

questi conseguiti in termini di laureati prodotti. E tuttavia, nonostante l’attenzione sempre

maggiore mostrata da alcuni, pochi studiosi, circa i problemi dell’istruzione e dell’università in

particolare e, a dispetto dell’interesse strumentale nutrito dai partiti politici, nei circa sessant’anni

che separano la legge Casati dalla riforma Gentile, pochissimi furono i tentativi, ed ancor meno

quelli riusciti, di riformare compiutamente e migliorare il sistema pubblico di istruzione, se si

escludono, per quanto riguarda la scuola elementare ed il primo ciclo di studi, i ritocchi apportati

dai programmi di Coppino e, successivamente di Aristide Gabelli nel 1888, alle disposizioni

casatiane in virtù della apertura, della democratizzazione e della innovazione dei programmi

educativi e, soprattutto al fine di rendere effettivo il dettato normativo del 1859 in merito alla

obbligatorietà e gratuità almeno del primo biennio di insegnamento, fino all’età di otto anni.

Intanto le università italiane avevano ripreso, seppur lentamente, il cammino lungo la strada

della conoscenza, che durante il ventesimo secolo le avrebbe finalmente scrollate dall’immobilismo

didattico e dal torpore scientifico di cui avevano sofferto fino alla seconda metà dell’Ottocento, e

che le avrebbe definitivamente consacrate quali istituzioni fondamentali per la crescita economica

e sociale e per lo sviluppo politico e culturale del nostro paese. Sebbene alcuni autori sostengano

la tesi dell’esistenza di un dibattito politico-culturale riguardante l’università durante l’arco di

tempo che va dal dicastero Casati a quello Gentile centrato sul confronto tra statalisti ed

autonomisti, bisogna invece affermare che numerose furono le discussioni e pure i disegni

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parlamentari, ma al centro delle riflessioni c’era semmai il ruolo da attribuire allo stato, più o

meno intrusivo nei confronti delle università. Esaminando gli atti parlamentari e le circolari

ministeriali prodotte durante i ministeri di Mamiani, e poi nel Regno d’Italia di De Sanctis, Mancini,

Matteucci, Amati, Correnti, Coppino, Sella, Scialoja, Baccelli, Orlando, Gianturco, Credaro, Daneo,

Bonghi, Natoli, Berti, Broglio, Cantelli, Perez, Villari, Martini, Bianchi, Nitti, etc., emerge evidente

un’azione politica timidamente riformista e fortemente dirigista (Miozzi, 1993, pp. 37-47).

D’altro canto il pensiero scientifico sull’università e, più generalmente sul tema

dell’educazione, si era sviluppato senza soluzione di continuità lungo una direttrice fortemente

improntata ai valori risorgimentali: De Sanctis aveva affermato “lo Stato si chiama università” e

Benedetto Croce, ministro dell’istruzione nel primo dopoguerra e cui succededranno Corbino ed

Anile (titolare dell’istruzione durante il primo gabinetto Mussolini), vedeva “nello Stato lo spirito

universale mentre nella classe dirigente, detentrice del potere, la personificazione di tale Stato”

(Ibidem, pp. 63-66): per Croce infatti, che pure deprecava quello che definiva l’imperante

burocraticismo degli atenei, che arroccava la meschina scienza italiana su posizioni conservatrici e

tradizionaliste che, nel suo pensiero, niente avevano a che vedere con lo sviluppo della cultura

“che scaturisce da situazioni concrete, storiche e libere, non già da istituzioni create allo scopo” e

tanto meno con la circolazione del “nuovo pensiero e neppure la manifestazione dei bisogni e degli

stimoli del nuovo pensiero, che non vengono dalla sua chiusa cerchia, ma dall’intera vita sociale e

spesso dai punti più lontani e ripugnanti a quella cerchia” (Croce, 1949, p. 47), era tuttavia un

sostenitore convinto della funzione pubblica delle università e di questo loro prestigio particolare

quanto relativo, e pensava ad uno stato che le dirigesse e le orientasse, e che se ne servisse in

merito ad una mansione selezionatrice decisamente aristocratica in termini sociali e culturali. Del

resto, Croce era stato chiamato al ministero da Giolitti nel giugno del 1920 “per tentare di salvare

dalla rovina – e non so se vi riusciremo – la nostra patria” (Miozzi, 1993, p. 59), il quale era ben

consapevole della necessità di una guida forte in un settore tanto delicato e sotto pressione,

nonché completamente disastrato dopo la Prima Guerra Mondiale, e dunque sperava nella

personalità del filosofo idealista, della scuola hegeliana napoletana, per tentare di dare lustro al

suo ormai sbiadito governo ed aiutarlo nell’arduo e poi purtroppo mancato compito di salvare lo

stato liberale.

Va ancora spesa qualche parola su Benedetto Croce dal momento che le sue opere ed il suo

pensiero influenzarono numerosi studiosi, tra cui anche alcuni validi intelletti di posizioni politiche

ed atteggiamenti culturali differenti da quelli crociani, come il socialista idealista Giuseppe

Lombardo Radice e l’ormai marxista compiuto Antonio Labriola, e soprattutto caratterizzarono non

pochi aspetti della scuola e dell’università italiane disegnate da Gentile con la sua riforma, che

proprio Croce giudicherà essere “un ordinamento saldo, razionale e coerente, indirizzato al

rinvigorimento del pensiero, del carattere e della cultura italiana”, a maggior ragione “rispetto alla

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baraonda di prima” (Ibidem, p. 62). Croce fu amico e vivace sostenitore intellettuale di Gentile,

con il quale condivideva una stima ed un rispetto reciproci, ed il professore e filosofo fiorentino fu,

per così dire, un seguace della dottrina crociana almeno fino al 1925 quando lo studioso

napoletano redasse e firmò, insieme ad altri illustri uomini di scienza e docenti universitari, il

Manifesto degli intellettuali antifascisti, cui del resto Mussolini avrebbe risposto prontamente

ingiungendo, ironia della sorte, ad un Gentile ormai definitivamente e completamente assoldato

alla causa del regime, altri direbbe embedded, di predisporre un contro-documento degli

intellettuali fascisti o presunti tali.

Sulla riforma universitaria le idee di Croce sono chiare e precise: alla base di un ripensamento

degli studi universitari doveva esserci un esame di stato, declinato di volta in volta come esame di

stato alla maturità, prima ginnasiale e poi liceale, esame di ammissione alle facoltà, ed infine

esame di abilitazione all’esercizio della professione corrispondente alla qualifica conferita dal titolo

di studi universitari posseduto. Come si vede non si tratta di una sorta di numero chiuso di cui le

ancora snelle università italiane, che pure necessitavano di una sistematizzazione, non avevano

bisogno, bensì di uno sbarramento culturale, necessario nell’impostazione crociana a prevenire

“l’imbarbarimento della funzione degli atenei” ed al fine di preservarne la rigida impostazione

aristocratica; va da sé che questo esame, che pure presentava degli innegabili aspetti positivi in

termini di rigorosità degli studi d’eccellenza, finiva per essere un ulteriore elemento di

impedimento dell’accesso all’istruzione superiore da parte delle classi subalterne i cui membri, già

marginalizzati in partenza e precedentemente esclusi da un percorso scolastico sproporzionato e

fortemente differenziato, nonché completamente a carico delle famiglie degli studenti,

difficilmente avrebbero potuto superare tale esame per evidenti ragioni di classe, di censo,

culturali e finanche formative, dal momento che non avrebbero di certo potuto affrontare le spese

di una preparazione pre-universitaria usufruendo di un istitutore privato, e dal momento che

mancavano studi universitari di tal specie (Ippolito, 1978, pp. 29-32). Pertanto, perfettamente in

accordo con il nucleo sostanziale della sua filosofia, improntata ad un chiaro elitismo intellettuale

di matrice idealistico-hegeliana che mal sopportava la massa e che confidava negli uomini di

spirito, di pensiero e di ragione per guidare le sorti del mondo, Croce era convinto della necessità

di avere poche università, pochissime se necessario, purché buone, funzionanti, magari

prestigiose, che sapessero preparare professionalmente e culturalmente i giovani e che ne

forgiassero le menti e gli animi al bene della patria. Per quanto riguardava le università minori era

dunque del parere di sopprimerle “non solo per ragioni di economia, ma anche di serietà

scientifica” o, se “opportuno trasformarle in altro tipo di istituti e scuole meglio adatte ai bisogni

locali” (Miozzi, 1993, p. 61), confermando così il suo orientamento generale volto all’annullamento

ed alla trasformazione, piuttosto che al potenziamento, delle strutture universitarie esistenti.

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Gli intendimenti crociani riflettevano il pensiero della scuola idealistica italiana (Ibidem, pp.

63-66), la quale durante i primi decenni del 1900 si era impegnata in profondità per affermare

nella cultura e nella società italiana una élite intellettuale e politica, per ricondurre le componenti

risorgimentali ad un quadro politico tradizionale e far prevalere nelle istituzioni, a cominciare da

quelle scolastiche, universitarie e di cultura, un carattere oligarchico e gerarchico. L’azione di

questa corrente di pensiero fu pure quella di contenere il movimento socialista tentando

vanamente di ricomporre, in una rilettura nazionale, populista ed elitista, i cocci dell’ideologia

liberale ormai in frantumi, e della forma di stato e di governo ad essa corrispondente ed

altrettanto disastrata, che era stata definitivamente travolta durante il primo conflitto bellico, e

che stava drammaticamente evolvendo verso l’autoritarismo e la sopraffazione violenta ed

ignorante che avrebbe caratterizzato il regime fascista.

Giovanni Gentile fu uno dei massimi esponenti di tale scuola e, come già affermato, fu anche

amico e seguace di Croce, per cui nel momento di redigere i decreti che prenderanno il suo nome,

si servì di tutta l’elaborazione teorica in campo culturale e pedagogico prodotta nei primi decenni

del secolo; molti studiosi saranno concordi nell’affermare che la riforma Gentile non fu una riforma

fascista, ma si limitò a dare sistematizzazione legislativa ad alcune misure, necessarie a risolvere i

problemi delle università italiane, che traevano piuttosto la propria ispirazione da un liberalismo

moderatamente conservatore, declinato in campo culturale come elitarismo classicheggiante.

L’impianto generale della legge Gentile, dunque, se conserva più d’una caratteristica

dell’impostazione filosofica e pedagogica crociana, rappresenta anche il risultato finale di una

elaborazione tipicamente risorgimentale e liberale, che “solo per una serie di casi del tutto

estranei andrà a collocarsi nell’area cronologica definita fascista, segnalandosi alfine come un

successo dovuto più a ragioni di carattere spirituale che ai nuovi criteri legislativi”.46 Altri

sosterranno che la vera riforma fascista fu quella di Bottai, succeduto al ministero il 22 novembre

1936 a De Vecchi di Val Cismon, e lo stesso Gentile, rispondendo in Senato alle frequenti e

pesanti critiche rivoltegli dai parlamentari dell’opposizione, il 5 di marzo del 1925 sosterrà, con

Mussolini presente, che la matrice di base dell’istruzione media e superiore era stata definita

prima dell’affermazione del fascismo, il quale in sostanza si sarebbe posto in linea di continuità

con le enunciazioni espresse dalla Commissione Reale nel 1914, a conclusione del lavoro iniziato

nel 1910 ad opera del ministro Daneo che aveva tentato di affrontare i nodi della questone

universitaria lasciati irrisolti dalla Casati e dai suoi predecessori (Miozzi, 1993. p. 73).

Gentile era consapevole, redigendo il suo progetto di riforma che sarebbe stato poi pubblicato

sotto forma di decreti, che la classe dirigente borghese emersa a ridosso dell’Unità d’Italia, con la

sua appendice di una modesta ed imborghesita aristocrazia, si era foggiata, con la legge Casati, lo

46 In particolare si veda DE FELCE R., Presentazione, in MAZZATOSTA M. T., “Il regime fascista tra educazione e propaganda”, Nuova Universale Cappelli, Bologna, 1978.

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strumento adatto alla sua riproduzione attraverso la formazione di gruppi di potere

completamente di propria estrazione, salvo rarissime personalità di manifesta intelligenza e di

estrazione superiore (Ippolito, 1978, pp. 28-35); e difatti quest’impianto rigidamente classista fu

mantenuto e, se possibile, approfondito allorché il “filosofo del regime” si apprestò a varare la

riforma che porterà il suo nome e che, pur tra molte, insormontabili contraddizioni, riconferirà

finalmente il lustro ed il prestigio dovuti alle istituzioni universitarie italiane ed alla loro vocazione

e tradizione pluricentenarie. Del resto, furono le stesse classi dirigenti formatesi sotto la Casati

che, appoggiando il fascismo e la scalata al potere di Mussolini, permisero la riforma Gentile, la

quale elaborò i principi ed i criteri, ciò non può assolutamente sottacersi, per un’ottima scuola,

ancorché classista (Idem). Questa riforma venne prodotta sotto la spinta fortissima e non più

differibile rappresentata dal problema dei reduci e dalla gravissima situazione socio-politico-

economica in cui versava il paese alla fine della Prima Guerra Mondiale, situazione che imponeva

una riforma che, già allora, avrebbe dovuto essere generale, completa e complessiva ed avrebbe

dovuto riguardare l’istruzione pubblica di qualsiasi ordine e grado; di certo però, si sarebbe potuto

scegliere di riformare la scuola e l’università secondo le indicazioni fornite da numerosi studiosi (si

pensi ancora al discorso di Labriola), in virtù di una maggiore apertura, di una sostanziale

democratizzazione delle istituzioni di formazione, ed invece il retroterra culturale gentiliano, la sua

impostazione filosofica, nonché il particolare momento storico ed il conseguente, tesissimo clima

politico italiano dell’epoca,47 imposero una riforma che permise sì agli atenei del nostro paese di

tornare a competere nell’agone scientifico internazionale, e addirittura di primeggiarvi, ma che si

risolse sostanzialmente in una profondissima ristrutturazione conservatrice, la quale cristallizzò le

dinamiche di cambiamento sociale e di progresso scientifico all’interno di una università chiusa,

statica, incapace di comprendere la complessità delle trasformazioni economiche e sociali che

scuotevano il nostro paese, tutta votata, com’era, alla riproposizione e di un primato umanistico e

classicheggiante da età dell’oro virgiliana, ormai superato.

Per queste ragioni, se pure immediatamente dopo l’emanazione dei decreti Gentile (ed in un

contesto di progressiva affermazione di autarchia economica e politica praticata dal regime che

imponeva, dunque, anche una certa indipendenza culturale e scientifica degli atenei), le università

seppero risollevarsi dalla loro posizione e contribuirono a formare generazioni di validissimi

studiosi che tutto il mondo ci avrebbe lodato ed invidiato, tuttavia fu proprio l’impostazione

gentiliana, eccessivamente classista ed elitaria, che avrebbe rappresentato nei decenni successivi

un fardello insormontabile per l’università italiana, allorché questa venne investita dai processi di

estensione e massificazione degli studi universitari che caratterizzeranno i principali paesi europei

47 Proprio negli anni a ridosso della Gentile cominciava quella che gli storici hanno definito la fase autoritaria del fascismo, contrassegnata dalla progressiva attenuazione ed alterazione, quando non dalla completa cancellazione, delle libertà costituzionali previste dallo Statuto Albertino; il sistema scolastico e le università furono sottoposti ad un crescente e sempre più stretto controllo, così come tutte le altre istituzioni.

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e gli Stati Uniti. Le istituzioni universitarie italiane si sarebbero dimostrate incapaci di adeguare le

proprie strutture, concepite durante il ventennio per un ristretto numero di studiosi eccellenti e

privilegiati, alle modificazioni imposte dai cambiamenti che sarebbero avvenuti nella struttura

sociale di produzione del nostro paese e che avrebbero determinato un aumento esponenziale

della domanda di istruzione superiore. Se da una lato, dunque, l’università gentiliana produsse i

suoi frutti ed una quantità incontestabile di aspetti positivi (si considerino, l’esame di stato ed il

conseguente controllo pubblico su materie prima dominio delle corporazioni professionali o delle

scuole private confessionali, misura che produsse notevoli miglioramenti per quanto riguarda

l’universalità e la qualità degli studi impartiti nelle scuole superiori d’ogni tipo; l’abolizione del

valore legale del titolo di studi; la sottomissione, lungo questa stessa direttrice concettuale, della

libera docenza al controllo ministeriale previa indicazione del Consiglio Superiore di Pubblica

Istruzione), dall’altro sarà tra le ragioni che determineranno la progressiva obsolescenza delle

nostre accademie, nonché la loro inadeguatezza a provvedere agli ampliati e mutati compiti che le

avrebbe assegnato la società italiana nel secondo dopoguerra, obsolescenza ed inadeguatezza che

avrebbero dimostrato tutta la loro drammaticità e la loro complessità durante le esplosioni della

contestazione studentesca, dal 1968 in poi.

La riforma Gentile nella sua interezza era composta da ben cinque decreti differenti, emanati

in base alla legge 3 dicembre 1922 n. 1601, intitolata “Concessione dei pieni poteri al Governo al

fine di ridurre le funzioni dello Stato, riorganizzarne i pubblici uffici e istituti, renderne più agili le

funzioni e diminuire le spese” con la quale il movimento fascista fece piazza pulita delle istituzioni

dello stato liberale, approfittando dello sconcerto diffuso e del disordine calcolato e strumentale,

creato con la marcia su Roma ad opera di goliardici, arditi ed assassini in camicia nera; questi

decreti normavano tutta l’istruzione, dall’organizzazione delle attività ministeriali ed

amministrative, alla configurazione di tutte le scuole di ogni ordine e grado e vennero promulgati

nell’ordine seguente: R.D. 8 febbraio 1923 n. 374 “Nuova amministrazione scolastica a

dimensione regionale”; R.D. 6 maggio 1923 n. 1054 “Nuova scuola secondaria”; R.D. 16 luglio

1923 n. 1753 “Riforma del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione”; R.D. 1 ottobre 1923 n.

2185 “Riforma della scuola elementare”; infine R.D. 30 settembre 1923 n. 2102 con il titolo

“Ordinamento della istruzione superiore” che è quello specificamente concepito e predisposto per

l’istruzione universitaria e che, dunque, maggiormente interessa in questo contesto e cui, nel

prosieguo della trattazione verrà riservata maggiore attenzione facendo riferimento all’articolato

stesso del testo.

Questi cinque decreti differenti riprendevano specularmente i titoli delle parti in cui era stata

suddivisa a suo tempo la Casati, ed infatti furono pensati come un approfondimento generale e

complessivo delle disposizioni casatiane, dal momento che riportavano in più testi legislativi ciò

che era stato espresso nel 1859 in circa 300 articoli soltanto, e rispetto ai quali il decreto 2102

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riguardante l’università, da solo, risultava più corposo e particolareggiato. Lo stesso Giovanni

Gentile, con un suo scritto, aveva manifestato la volontà di riformare il sistema di istruzione

pubblico dalle fondamenta, ed in grande (Palazzina, 1999), ed il suo progetto ben si sposò con le

mire del regime interessato, dal canto suo, a legare a sé quanti più intellettuali possibili affinché

conferissero legittimità e prestigio alla dittatura in formazione, a lanciare un ponte di

riconciliazione ai poteri vaticani e, non meno importante, a tagliare drasticamente le spese della

istruzione in un periodo in cui si apprestava a raggiungere il tanto agognato pareggio di bilancio

tra le entrate e le uscite delle casse statali (Miozzi, 1993, pp.67-71): l’ultimo fenomeno descritto

diventerà una pessima caratteristica dell’azione politica in materia di istruzione, anche in età

repubblicana: quella cioè di proporre e tentare di far passare riforme dell’università a costo zero,

sulla testa delle autorità accademiche e sulla pelle degli studenti e dei lavoratori dell’università,

ridicolizzando in partenza qualsiasi seria e generosa spinta innovativa e condannando ogni

ambizione di ricerca sistematica e di valore; ancora nel dibattito politico attuale, queste assurde

posizioni sono abbastanza diffuse, e l’ultimo ministro che in ordine di tempo se ne è fatto

portavoce è stata Letizia Moratti, la quale si è affannata a pubblicizzare ai convegni di Comunione

e Liberazione implausibili rivoluzioni degli ordinamenti ed inconsistenti percorsi ad ipsylon, a

fronte dei continui dinieghi di finanziamento espressi da Tremonti e Berlusconi e spacciati per tagli

agli sprechi. Entrando nello specifico del testo di legge (che, promulgato da Vittorio Emanuele,

oltre a quella di Gentile, porta nel novero dei suoi estensori le firme di Mussolini, il ministro delle

finanze Dè Stefani, Corbino e Oviglio) per concludere in modo esaustivo la trattazione su questo

argomento e proseguire oltre, si può cominciare affermando che, nonostante la Gentile si

coniugherà, sommandovisi, ai contenuti autoritari della Casati, tuttavia essa, quantomeno

nominalmente, presenterà, per la prima volta in un testo di legge, i principi di libertà e di

autonomia riferiti alle università ed alle istituzioni di alta cultura: all’articolo 1, dopo la definizione

di istruzione superiore, che “ha per fine di promuovere il progresso della scienza e di fornire la

cultura scientifica necessaria per l’esercizio degli uffici e delle professioni”, al terzo comma si può

leggere testualmente che “le università e gli istituti (indicati nelle tabelle A e B annesse al testo di

legge nella parte conclusiva per enumerare le istituzioni di istruzione superiore e per definire gli

insegnamenti in essi imparti in conformità con le direttive ministeriali e con le indicazioni del

Consiglio Superiore) hanno personalità giuridica e autonomia amministrativa, didattica e

disciplinare, nei limiti stabiliti dal presente decreto e sotto la vigilanza dello Stato esercitata dal

Ministro della pubblica istruzione”.48 In realtà le università vengono considerate non tanto come

organi dello stato, quanto come articolazioni della pubblica amministrazione, a prescindere dal

loro riconoscimento come entità giuridiche dotate di funzioni autonome, secondo quanto dettato

48 Regio Decreto 30 settembre 1923 n. 2102; stralci significativi del testo di legge sono riportati in Appendice Normativa, Allegato n. 3.

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dagli statuti autonomi delle singole sedi universitarie; una autonomia universitaria perciò,

declinata parzialmente e da cui viene escluso formalmente il profilo finanziario, che tante

preoccupazioni destava anche in ambienti accademici per l’incapacità manifesta delle università di

provvedere da se stesse ai propri bilanci: una norma comunque fortemente innovativa se si

prendono in considerazione da un lato il processo di statalizzazione delle università descritto

precedentemente e, dall’altro, i maldestri tentativi di assoggettare gli atenei alle esigenze del

regime che la nomenclatura fascista avrebbe messo in campo, senza particolare successo, di lì a

poco; un disposto legislativo che meglio e di più di quello di Casati, interpretava nel settore

dell’istruzione e della formazione d’eccellenza, i principi della logica liberale e della cultura

umanistica e neo-classica.

Un altro argomento fondamentale sul quale le statuizioni gentiliane si adeguarono alle

richieste espresse tempo prima, pure da Benedetto Croce e Labriola, fu quello della progressiva

deprofessionalizzazione degli studi in nome di un più alto profilo scientifico, in virtù della quale

venne introdotto un esame di stato, senza il quale non si era abilitati all’esercizio professionale,

avendo diplomi e lauree soltanto rilievo accademico: “le università e gli istituti superiori

conferiscono, in nome del Re, le lauree e i diplomi che… saranno determinati dal regolamento

generale universitario. Possono inoltre conferire altre lauree o diplomi che saranno stabiliti dai

rispettivi statuti in relazione all’ordinamento didattico delle facoltà e scuole di cui sono costituiti.

Le lauree e i diplomi conferiti dalle università e dagli istituti hanno esclusivamente valore di

qualifiche accademiche”.49 Il principio contenuto nelle disposizioni di questo articolo fu

sicuramente tra i più felici di tutta la riforma Gentile, e tra i più significativi insieme a quello

riguardante l’autonomia delle istituzioni universitarie e di alta cultura, e fu di certo tra le misure

più efficaci prese dal legislatore per sostenere lo sviluppo scientifico delle discipline all’interno

degli istituti, in misura ben maggiore della retorica fascista sull’argomento. E, quasi

paradossalmente, questo istituto sarà tra i primi ad essere cancellati alla caduta del regime,

allorché si tentò alla meno peggio di riportare l’università nelle condizioni in cui si trovava

vent’anni prima, dal momento che i legislatori dei governi d’occupazione e provvisori prima, e

quelli costituenti e repubblicani poi, pur mantenendo in vigore gran parte della odiosa e pletorica

legislazione fascista in merito di istruzione superiore, si affretteranno prontamente a ripristinare il

valore legale del titolo di studi come strumento di controllo pubblico sugli atenei, concedendo

come contropartita ai poteri accademici una maggiore indipendenza e riassoggettando, in questo

modo, gli ordinamenti di studio alle esigenze legittime o meno delle corporazioni professionali (si

pensi soltanto agli ordini degli ingegneri, degli architetti, dei medici, degli avvocati); questi ultimi

finiranno per esercitare all’interno delle facoltà una indebita interferenza, determinata da ragioni

49 Ibidem, art. 4.

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di potere e di controllo di prebende e gerarchie, che intaseranno le università italiane e ne

condizioneranno potentemente gli assetti, dagli ordinamenti agli esami.

In ultima analisi va affermato che la riforma Gentile, in armonia con la “regola delle poche

scuole ma buone” approfondì la gerarchizzazione e la selettività dell’intero sistema pubblico di

istruzione; disegnò dei percorsi di studio chiusi, paralleli e di durata diversa, rigidamente

differenziati e che non permettevano di passare dall’uno altro, pensati come un corrispettivo delle

differenti classi sociali del nostro paese, per cui la scuola e l’università tendevano a svolgere una

funzione stratificante e cristallizzante dei rapporti sociali. Questo sistema, che sarebbe stato poi

definito “a canne d’organo”,50 prevedeva dopo le elementari una prima, fondamentale,

differenziazione basata su criteri di censo e di sesso: c’era, per i più fortunati tra i proletari,

altrimenti condannati al lavoro sottopagato da bruta forza fisica o, peggio, alla disoccupazione, il

corso integrativo post-elementare, che insieme alla scuola complementare svolgeva funzioni di

avviamento al lavoro, la cosiddetta scuola di serie C, esattamente speculare alla terza classe di

treni e transatlantici;51 c’era l’istituto tecnico triennale, seguito da quattro anni di istituto tecnico

superiore, per la piccola borghesia e per le classi popolari, soprattutto nelle città grandi e di

provincia, la scuola di serie B; c’erano, per le donne, da un lato l’istituto magistrale per le figlie

della borghesia, che venivano avviate alla professione di maestre divenendo le “vestali della classe

media” ed educando i bambini ai valori post-risorgimentali progressivamente divenuti di becero

nazionalismo, mentre dall’altro, c’era il liceo femminile nel quale, alle educande della buona

borghesia cittadina, venivano impartiti studi classici di ottimo livello, ma che rimanevano

comunque un odioso surrogato di quelli impartiti nei licei “normali”, quelli maschili, ad esse

inaccessibili per definizione; esisteva poi il ginnasio-liceo classico, vero e antico vanto della

istruzione italiana, accanto al quale Gentile volle istituire un liceo scientifico molto simile al primo

nella dottrina e nella impostazione, ma i cui studi prevedevano maggiore attenzione verso le

discipline fisico-matematiche e scientifiche che assumevano progressivamente una importanza

fondamentale. Il liceo classico era l’unico che rendeva possibile l’accesso a tutte le facoltà

universitarie, quello scientifico solo alle facoltà corrispondenti (due o tre al massimo) mentre per

tutti gli altri l’università rimaneva un sogno inarrivabile per precise ed evidenti ragioni di classe e

di sesso, formalizzate esplicitamente dalla riforma.

Ne veniva fuori un’università dominata dalla cultura classica, pure di fronte al continuo

sviluppo delle discipline scientifiche e, in parte, delle scienze sociali, con un pensiero filosofico

della storia, di impostazione idealista, a fare da filo conduttore e da fine di tutti gli studi,

strutturato per forgiare e scremare dalle università il nucleo costitutivo della nuova classe

dirigente, attraverso un processo spacciato per selezione meritocratica ma in realtà frutto di

50 Si consulti la fonte elettronica all’url http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/g/ g031.htm. 51 Si veda ancora la fonte elettronica all’indirizzo http://www.pbmstoria.it/unita/scuola/ lariformagentile.php .

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elitarismo classista; secondo lo stesso Gentile gli studi superiori dovevano essere “aristocratici,

nell’ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori, cui l’ingegno destina di fatto, o il censo

e l’affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de’ più alti ideali umani”.52 L’università

disegnata da Gentile era sicuramente meglio strutturata di quella abbozzata da Casati un

sessantennio prima, soprattutto c’erano molte più università statali ed anche le istituzioni

universitarie di natura privata (vedi il Real Collegio dei Cinesi di Napoli), che erano state

trascurate dall’aristocratico lombardo, cominciarono ad essere integrate in maniera coerente e

permanente all’interno di un sistema universitario nazionale (per i particolari servigi che offriva

allo stato e, in particolare al Ministero delle Colonie, l’università Orientale di Napoli si sarebbe

vista dedicare numerosi articoli all’interno del Testo Unico delle Leggi sull’Istruzione Superiore);53

anche il numero delle discipline era notevolmente aumentato per seguire il sempre più rapido e

costante sviluppo delle conoscenze, cosicché gli insegnamenti impartiti furono catalogati nelle

Tabelle annesse al decreto di riforma e furono distinti in fondamentali e complementari (divisione

questa che si protrarrà fino all’università degli anni scorsi, prima che venisse varata la riforma

iniziata durante il dicastero Berlinguer) (De Mauro, 2004), benché il numero e la qualità delle

facoltà fosse rimasta pressoché identica a quella precedente. Le scienze sociali dunque,

rimanevano ancora escluse dall’estabilishment accademico e, con approcci giurisdizionali o

culturalisti che mal ne interpretavano senso ed epistemologia, cominciavano in maniera timida e

marginale ad essere proposti come seminari o lezioni speciali all’interno delle facoltà di legge o di

lettere.

Per concludere, nonostante tutte le pecche che si è tentato di descrivere, secondo gran parte

delle interpretazioni riscontrabili nella letteratura presa a riferimento, la riforma Gentile produsse i

suoi buoni frutti: la severità degli studi, il controllo dell’esame di stato sia per l’ammissione

all’università, sia per il riconoscimento professionale, l’emulazione nata tra scuole pubbliche e

scuole private, diedero i loro effetti benefici in concorrenza con l’adeguamento ad uno spirito

informatore estremamente più idealistico, che superava i vecchi schemi del positivismo nei

programmi di insegnamento e nei corsi di studio, segnatamente nelle materie filosofiche e

letterarie e, in misura minore, pure negli studi storico-sociali e giuridico-politici. I programmi,

definiti nel successivo Regolamento Generale Universitario e disposti attraverso ulteriori circolari

ministeriali, per ampiezza e difficoltà ricalcavano praticamente il carattere d’élite della scuola

superiore e, soprattutto, del liceo classico, di cui, secondo Gentile, l’università era necessaria

appendice e conseguenza. Questa riforma, nella tensione trasparente dal testo stesso tra

necessità burocratiche dell’apparato statale che si accingeva a divenire dittatura da un lato, e le

aspirazioni culturali del suo estensore, della scuola filosofica e del movimento di pensiero di cui

52 Idem. 53 Si veda l’Appendice Normativa, Allegato n. 4.

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questi era autorevole espressione dall’altro, riuscì a disegnare quell’università votata all’eccellenza

che, pur con tutti i problemi propri di questa istituzione e quelli particolari della versione che

storicamente si configurerà in Italia, ha costituito la struttura portante dei nostri atenei sino in età

repubblicana, modello di università orgogliosa depositaria della storia della cultura occidentale e

delle istituzioni medioevali, che avrebbe prodotto intelligenze e conoscenze di riconosciuto valore

internazionale, contribuendo a diffondere la fama della cultura e della scienza italiane anche al di

fuori degli atenei della penisola.

L’università come struttura sociale di produzione

Nelle pagine seguenti la riflessione sulle istituzioni universitarie italiane viene presentata in

una prospettiva analitica parzialmente differente da quella utilizzata precedentemente. La forma di

narrazione storica, passando per una introduzione che partiva dal medioevo per giungere al

diciannovesimo secolo, si era resa necessaria per inquadrare i fenomeni studiati

in una prospettiva di lungo periodo; per definire le caratteristiche fondamentali delle istituzioni

universitarie; per descrivere i processi di trasformazione che interessarono le università nel

diciannovesimo secolo; per esaminare, dunque, le dinamiche di formazione del sistema

universitario italiano fino alla sua progressiva strutturazione, estensione, statalizzazione e

configurazione all’interno di un più ampio sistema di istruzione superiore prima, e pubblica in

generale poi. Così il metodo di indagine e la conseguente forma stilistica, lungi dall’essere

concepiti in termini di mero racconto, hanno permesso di osservare le trasformazioni degli atenei

italiani nel corso del tempo, evidenziando le direttrici principali lungo le quali questi si sono

sviluppati, e contribuendo a far emergere le ragioni strutturali profonde, l’ispirazione ideale e

culturale, nonché il senso e gli scopi di queste trasformazioni stesse. Durante questo excursus,

oltre a tratteggiare, sia pur in maniera soltanto accennata, il contesto economico, sociale, politico

e culturale all’interno del quale queste trasformazioni dell’università italiana avevano luogo, da cui

erano determinate e che co-determinavano in quanto segmenti di processo di dinamiche di

cambiamento storico-sociale di più ampia portata, si è prestata particolare attenzione allo studio

dei principali testi di legge riguardanti l’università. In particolare, è stata presa in considerazione

l’ipotesi che i testi di legge delle riforme universitarie potessero costituire un valido strumento

analitico per osservare, di volta in volta, la configurazione assunta dagli atenei a seguito delle

trasformazioni sovramenzionate.

L’interpretazione alla base di questo lavoro, dunque, è ad un tempo storica e materialistica: i

processi di cambiamento delle università e le continue e conseguenti riconfigurazioni parziali o

totali degli ordinamenti e delle attività didattiche e scientifiche, che costituiscono l’argomento

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centrale di questa ricerca, possono essere compresi solo se contestualizzati ad un particolare

periodo storico e riferiti a dinamiche di cambiamento sociale di più ampia portata, di natura

sistemica; d’altro canto queste trasformazioni ed i nuovi assetti ed equilibri che comportano negli

atenei sono determinate da complessi processi che hanno luogo nella struttura materiale della

società, sarebbe a dire all’interno delle relazioni economiche e sociali, prima che politiche e

culturali, tra le classi ed i gruppi, definite dalla posizione occupata all’interno del mercato del

lavoro e determinate dallo scontro per l’accesso all’istruzione ed a quella superiore, nello specifico

di questo caso di studio.

L’università, pensata come istituzione ideale di alta cultura e formazione d’eccellenza, e tanto

più le forme concrete e particolari, storicamente determinate, che hanno assunto le università

italiane nel corso del tempo, pur conservando dei caratteri per così dire genetici e di derivazione

medioevale,54 ma lungi dall’essere delle istituzioni neutre, si sono altresì configurate come

strutture sociali di produzione scientifica e culturale, e di formazione, il cui assetto, concreto e

particolare, le cui mansioni ed i cui obiettivi sono variati in funzione delle modificazioni avvenute

nella struttura economico-produttiva e nei rapporti tra le

differenti classi sociali (Marx, 1970, pp. 6-37) del nostro paese. Tanto più che lo Stato,

all’interno delle cui relazioni gerarchiche e di potere, queste modificazioni assumevano forma

politica e si cristallizzavano, formalizzandosi a livello istituzionale, è sempre stato il finanziatore

quasi esclusivo ed il principale committente delle università italiane.

Tornando ai testi di legge, appare ora evidente il fatto che le trasformazioni di cui sopra, si

sostanzino e trovino la propria dimensione politica proprio nei progetti di riforma dell’università,

che vengono così utilizzati in questo studio a mo’ di compendio, come uno strumento euristico

valido per sistematizzare l’insieme dei processi esaminati. Tuttavia proprio in virtù di quanto

affermato precedentemente rispetto allo Stato, ed in considerazione di quanto scritto nella prima

parte di questo capitolo e di ciò che sarà argomentazione successiva, bisogna sottolineare che le

riforme universitarie, naturalmente, hanno esse stesse determinato delle trasformazioni negli

ordinamenti didattici e nell’organizzazione e funzionamento degli atenei, provvedendo ad

adeguare le direttive legislative alle spinte provenienti dalla struttura sociale, piuttosto che

inducendo di per se stesse delle modificazioni in funzione di particolari necessità politiche ed

obiettivi scientifici e culturali; si pensi solo, a questo proposito, alle modificazioni determinate

all’interno delle istituzioni universitarie dalle disposizioni costituzionali, che costituiranno il

prossimo argomento di trattazione.

54 Questi principi che hanno caratterizzato le università sin dalla loro apparizione, che potremmo chiamare trans-storici, sono stati chiaramente riconosciuti, formulati ed enunciati all’interno della Magna Charta delle Università, firmata il 18 settembre del 1988 a Bologna, dai rettori di quasi tutte le istituzioni universitarie europee, per ribadire un comune trascorso di valori ed idealità cui ispirarsi e da condividere durante il processo di costruzione di un sistema universitario europeo, processo cominciato nei decenni scorsi e tuttora in fieri.

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Dal momento che dopo la riforma Gentile, se non si tiene conto dei dispositivi costituzionali e

di alcuni tentativi riformatori cui si accennerà successivamente, non verranno prodotte in Italia

profonde riforme di struttura riguardanti l’università prima del disegno Ruberti del 1989, in questo

e nei paragrafi successivi, oltreché nel prossimo capitolo, i processi che hanno caratterizzato lo

sviluppo dell’università italiana nella seconda metà del secolo scorso, e che non paiono essersi

ancora conclusi, verranno esaminati servendosi di precise categorie concettuali ed analitiche,

particolarmente valide ed esemplificative per descrivere la situazione dei nostri atenei. La

principale, e la prima di cui si comincerà e tenere conto in ordine di tempo, è sicuramente quella

di “autonomia universitaria” cui, nella Costituzione del 1948, si fa esplicito pur se incompleto e

rimaneggiato riferimento. In secondo luogo si utilizzerà la categoria di “università di massa” per

catalogare un insieme di processi cominciati intorno agli anni sessanta del 1900, che vanno dalla

diffusione alla progressiva estensione e diversificazione dei compiti delle università italiane e,

soprattutto, alla crescita esponenziale tanto nella domanda di, quanto nell’accesso all’istruzione

superiore, da parte di tutti gli strati sociali, processi questi, che hanno completamente stravolto il

funzionamento degli atenei italiani demolendo dalle fondamenta l’università d’élite, voluta e

disegnata da Casati, Gentile e quant’altri. Dopo aver affrontato questi problemi ed esaminato così

compiutamente l’architettura dell’ordinamento universitario italiano ci si potrà dunque servire, per

un ulteriore approfondimento che tenga conto di punti di vista e metodologie di ricerca tra di loro

alternative, di alcuni modelli interpretativi proposti da una serie crescente di studiosi specializzati

nel settore dell’higher education. Questa impostazione metodologica ci permetterà: di entrare in

profondità nella “questione universitaria” affrontandone i nodi concettuali più densi e significativi;

di effettuare comunque dei riferimenti a testi legislativi in base alla tematica oggetto di

argomentazione; di osservare attentamente le dinamiche di trasformazione delle università

italiane; di coprire così l’arco di tempo che va dalla Costituente ai disegni di riforma del decennio

scorso, di cui le odierne università italiane costituiscono il frutto, per alcuni ancora acerbo, per

altri definitivamente marcio.

Per cui di seguito, dopo una breve presentazione che servirà per descrivere il contesto storico

e la situazione economica, sociale e politica in cui versava il nostro paese a ridosso della Seconda

Guerra Mondiale, lo studio delle trasformazioni delle università italiane proseguirà con una

digressione generale circa il mondo accademico dei tardi anni quaranta del secolo scorso, per

continuare con l’esamine del testo della Carta Costituzionale Repubblicana, che rappresenta un

giro di boa di portata sostanziale, e negli assetti, quand’anche negli scopi stessi delle istituzioni

superiori, ed all’interno della quale vengono enunciati alcuni principi fondamentali che

costituiranno il leit motive del successivo sviluppo degli atenei italiani quali, uno su tutti, quello

autonomistico.

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L’università del dopoguerra

Si era detto, precedentemente, che il fascismo non era riuscito a penetrare in fondo nella

cultura accademica e che non aveva inficiato del tutto il funzionamento e gli esiti, in termini di

laureati e risultati scientifici, dell’attività complessiva degli atenei italiani; secondo la tesi

predominante l’università italiana rimase sostanzialmente liberale e pre-fascista, così

nell’organizzazione come negli scopi che si prefiggeva (Ippolito, 1973, pp. 33 e ss.): è vero che il

movimento fascista entrò parzialmente nell’università grazie all’azione militante di alcuni, pochi,

giovani ed erroneamente infatuati studenti, come è vero che alcuni tra i professori più giovani si

piegarono alle esigenze del regime: tuttavia, pure se si prende in considerazione la questione del

giuramento di fedeltà imposto nel 1931 ai professori universitari, quale prerequisito indispensabile

per esercitare la propria attività di docenza, l’estraneità della ideologia fascista alla cultura

accademica emerge in tutta evidenza dal momento che è ben noto come questa vicenda si risolse,

e cioè con la stragrande maggioranza dei professori universitari che, in questo ispirata anche dai

clandestini partiti politici di opposizione, accettò il giuramento come atto puramente formale per

non perdere il posto e lo stipendio e, segnatamente, l’influenza sulle giovani generazioni (Idem) .

Ciononostante, i venti anni di oscurantismo dittatoriale e populista avevano inferto un grave

colpo se non al sostrato culturale ed ideale ed alla vocazione scientifica delle università italiane,

sicuramente al funzionamento delle stesse, accelerando ed approfondendo la subordinazione degli

atenei alle volontà del potere politico, contribuendo da un lato a relegare la cultura accademica

italiana in una nicchia di pedante provincialismo dai richiami nobilitanti all’autarchia della nazione,

e dall’altra a far emergere con forza il modello fortemente accentrato, potremmo definirlo

ministeriale, che ha caratterizzato la configurazione dell’intero sistema universitario nei decenni

successivi (Benadusi, 1997; Sorace, 1996, pp. 219-221; Ribolzi, 1997). Ad ogni modo, la

situazione universitaria nell’immediato dopoguerra si presentava in modo non dissimile da quella

della pubblica istruzione in generale: bilanci dissestati, attrezzature danneggiate, disperse o

rubate da edifici saccheggiati dai tedeschi e bombardati dagli anglo-americani, grave crisi

economica del personale docente e disagio diffuso tra gli studenti, spesso sbandati ed irrequieti

(Miozzi, 1993, p.128).

Va detto ancora che verso la fine del regime, ossia tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli

anni quaranta, i partiti politici di opposizione, specialmente il Partito d’Azione ed il Partito

Comunista Italiano, cominciarono una intensa pur se clandestina attività di formazione di militanti

e quadri dirigenti all’interno degli atenei (Ibidem, p. 122) divenendo a poco a poco consapevoli

delle necessità della istruzione superiore e che le università italiane, le facoltà d Lettere e

Filosofia, sfornarono in numero sempre maggiore studenti che, stanchi dello squallore politico e

culturale nonché della propria sopportazione e del proprio attendismo tutto piccolo borghese e

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particolaristico, decisero di mettere in gioco le proprie intelligenze e la propria vita al servizio della

libertà politica, dell’affrancamento dallo straniero e della dignità collettiva della nazione, andando

ad ingrossare le fila dei militanti partigiani, facendo la spola, come succedeva nell’ateneo torinese,

tra la città e le colline, tra l’università e le Langhe, base operativa della Resistenza (Fenoglio,

1994). A questo proposito va menzionato Adolfo Omodeo, già rettore dell’università di Napoli, e

che poi assunse la carica di ministro della istruzione nel secondo governo Badoglio subentrando a

Giovanni Cuomo, che a sua volta aveva sostituito Severi: nell’inaugurare l’anno accademico egli

pronunziò un discorso di condanna del nazifascismo e di incitamento alla lotta ed alla fiducia, non

mancando di denunciare “il clima di tranquilla anarchia che vigeva sotto le forze di occupazione”;

inoltre, insediandosi al ministero il 22 aprile del 1944, durante l’enunciazione del discorso ufficiale,

lasciò intendere a chiare lettere la sua volontà di una vasta, profonda e sostanziale epurazione

dalle strutture ministeriali, dalle università e dalla scuola di quanto restava del passato regime,

incitando anche in questo contesto ad una “autonoma soluzione dei problemi” da parte dei

docenti, degli studenti e della classe politica italiana (Miozzi, 1993, p.112).

Dopo la caduta del fascismo, formalizzata con la destituzione di Benito Mussolini, pronunciata

dal Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio del 1943, e la costituzione del primo gabinetto

Badoglio, al Ministero della pubblica istruzione nel governo di Brindisi era stato chiamato il

matematico Leonardo Severi: tra i suoi primi provvedimenti vi furono la dichiarazione di

decadenza della “Carta della scuola”, la soppressione delle organizzazioni giovanili del disciolto

Partito Nazionale Fascista, l’assicurazione del mantenimento dell’insegnamento religioso nelle

scuole pubbliche e le promesse di sostegno ministeriale e di sviluppo delle istituzioni scolastiche,

libere, private e confessionali fatte a De Gasperi in una riunione con altri esponenti dell’allora

nascente Democrazia Cristiana. Naturalmente i suoi poteri erano notevolmente circoscritti,

soggetti, insieme alla totalità delle funzioni pubbliche e politiche del nostro paese, alle direttive ed

al controllo dell’Allied military government of occupied territory, l’autorità militare alleata che

aveva il compito di assicurare il mantenimento degli accordi dettati con l’armistizio dell’otto

settembre del ’43, e che aveva delegato la cura del complesso dei problemi culturali e

dell’istruzione ad una sottocommissione guidata dal colonnello Charles Poletti, coadiuvato dal

colonnello Washburne e da un gruppo di pedagogisti americani insieme ai quali vi era un italiano

soltanto, Gino Ferretti, che insegnava pedagogia nell’università di Palermo (Ibidem, pp. 110-114).

Fu durante il dicastero Severi che le autorità alleate ampliarono la facoltà di Bari ed istituirono il

Magistero di Salerno nel quadro di una politica di ristabilimento dell’efficienza delle istituzioni

scolastiche nei territori sotto la propria amministrazione, che era determinata da precise ragioni di

lotta per l’egemonia culturale in un paese, il nostro, che terminava da sconfitto una guerra

mondiale e che era praticamente spaccato a metà tra fascisti ed antifascisti e, tra questi, tra

comunisti e cattolici.

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Una volta trasferitosi a Roma il governo di Ivanoe Bonomi il 15 luglio del 1944, dopo

l’abdicazione di Vittorio Emanuele III e la nomina del figlio Umberto alla luogotenenza, verrà

nominato ministro dell’istruzione Guido De Ruggiero; questi, pur rimanendo alla Minerva soltanto

per qualche mese, riuscì tuttavia nella infelice opera di interruzione dell’epurazione dei quadri

fascisti dal mondo accademico e scolastico, pur richiesta a gran voce da più parti della società

italiana, dalla classe docente e dal corpo studentesco, e che era iniziata solo l’anno prima sotto la

guida di Omodeo. Ben consapevole della centralità del problema dell’istruzione, e di quella

superiore nello specifico, per la riedificazione materiale e morale del paese, De Ruggiero provvide

alla riorganizzazione dell’amministrazione centrale ed alla elaborazione di un “programma di

rinnovamento educativo” contenuto in un messaggio agli insegnanti ed agli alunni datato 26

agosto 1944 e, come accennato, si schierò in senso contrario ad una epurazione in profondità ed a

seguire la “foga riformatrice” di quegli anni, da lui considerata prematura, improvvida ed

intempestiva. L’ex rettore della Sapienza, nonostante fosse stato mandato al confino durante il

dominio politico del regime, era favorevole piuttosto nei confronti di una “Costituente della scuola”

e tentò in merito di stimolare le forze parlamentari e politiche, oltreché quelle scolastiche e del

mondo educativo; si schierò apertamente, attraverso l’emanazione di una circolare,55 contro

l’introduzione dei sindacati e delle associazioni di categoria all’interno di quelle che, secondo i suoi

intendimenti, erano delle istituzioni di istruzione ancora troppo acerbe e destabilizzate per

sopportare innovazioni di tal portata, e la sua linea morbida di “defascistizzazione” fu

particolarmente gradita agli alleati, in particolare per quel che riguarda i contenuti educativi e

culturali dei programmi, dai quali altresì bisognava allontanare qualsiasi proposito

eccessivamente democratico o, addirittura, socialisteggiante. L’azione ministeriale di De Ruggiero

si espresse soprattutto in funzione del recupero e del mantenimento della secolare tradizione della

cultura italiana, da lui definita “ancora viva ed operante”, e della creazione di un nesso più stretto

tra esigenze del lavoro e mondo accademico quale rapporto esemplificativo del nuovo clima

culturale e sociale dell’ “Italia libera”; un rapporto che avrebbe dovuto modificare la relazione

allora troppo dissociata tra forze del lavoro e mondo della cultura, che aveva visto per tanto

tempo una scarsissima attenzione delle università e della scuola alla formazione professionale ed

all’elevazione culturale dei lavoratori, “cosicché – troppo spesso – la cultura era degenerata in

generico accademismo ed il lavoro si era solo di rado elevato dalla condizione di bruta forza fisica”

(Ibidem. p. 119).

Il periodo della Resistenza e della transizione al regime democratico si concluse, dal punto di

vista istituzionale, con il dicastero di Arangio Ruiz e con i Decreti luogotenenziali n. 272 del 1944 e

n. 238 del 1945 che, in linea con gli orientamenti dei ministri allora in carica e con le direttive

palesi e segrete sull’università emanate dalle autorità alleate di occupazione, si limitarono a

55 Circolare ministeriale emanata il 2 novembre 1944.

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cancellare dall’ordinamento le disposizioni più odiose volute dal legislatore fascista, eliminando le

discriminazioni verso i professori universitari, abolendo il giuramento di fedeltà al regime e le leggi

di segregazione razziale che avevano causato l’espulsione dagli atenei italiani dei professori di

origine ebraica, ripristinando il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (precedentemente

sacrificato all’ansia accentratrice e monocratica dei gerarchi fascisti), e limitando parte dei poteri

autoritari concessi anni addietro al ministro,56 senza intaccare il corpo essenziale delle leggi e dei

regolamenti vigenti, rappresentato dai decreti emessi durante il fascismo 57 con alcune disposizioni

che risalivano addirittura agli intendimenti di Casati e dei riformatori del secolo precedente.

Il dibattito in seno alla costituente e le disposizioni della carta costituzionale

Di procedere ad una vasta riforma e ad una profonda ristrutturazione dell’università italiana si

discuteva, già apertamente, tra i partiti dell’opposizione durante gli ultimi giorni del regime

fascista: per tutto il periodo clandestino e sin dalla formazione dei primi “governi ombra” del CLN,

a Roma ciascun partito aveva il suo gruppo di esperti che studiava la “questione universitaria”

proponendo progetti di riforma più o meno complessivi ed articolati. Questo fermento di attività

politica e sperimentazione scientifica, così come l’insieme dell’attività legislativa che va dallo

sbarco degli alleati in Sicilia ai primi anni del dopoguerra, fu opera di uomini di indubbia fede

democratica, sovente di alto profilo politico e, talvolta, di eccellente preparazione e di profondo

spessore culturale, per cui in molti sostengono che nessun dubbio possa essere avanzato circa la

bontà, e per certi aspetti la giustezza dei principi che l’hanno ispirata (Froio, 1973, pp. 13-15).58

Ai legislatori della prima fase repubblicana, la loro opera apparve quanto di meglio si potesse

fare per assicurare libertà e democrazia agli atenei per cui, appagati dal nuovo sistema elettivo

delle cariche accademiche, che naturalmente tanta approvazione aveva ottenuto presso senati

accademici e consigli di facoltà, e della ristabilita libertà d’insegnamento, non si accorsero che,

proprio in quegli anni ed in quel particolare clima politico, c’erano tutte le premesse per assicurare

all’università una struttura autenticamente democratica. Invece i protagonisti della Resistenza e

dell’Assemblea Costituente si fermarono a metà strada, come avvenne in altri settori a causa della

politica sostanzialmente conservatrice e molto attenta alle direttive vaticane messa in campo dalla

Democrazia Cristiana ed alla “strategia dei due tempi” imposta da Palmiro Togliatti e dalla

dirigenza del PCI alla base militante. Più o meno consapevolmente, anche se forse non del tutto

volutamente, essi crearono le premesse che avrebbero compromesso, in seguito, il futuro

56 Appendice Normativa, Allegato n. 4 57 C.R.U.I., Scheda sulla legislazione in materia universitaria, C.R.U.I. 58 Su questo tema si sono espressi pure Ippolito e Miozzi (op. cit.) e tracce della questione sono rinvenibili in buona parte della letteratura utilizzata.

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dell’università, indirizzandola lungo quella tortuosa via della riforma mai attuata che dimostrerà

quanto “la storia dei conati riformatori susseguitisi con frequenza certo impari alla volontà politica

di realizzarli dalla fine degli anni cinquanta in poi è esemplare (Labruna, 1977). L’aspetto

complessivo e profondo del problema culturale non fu per niente affrontato per l’impossibilità di

trovare, su di un argomento tanto importante e sicuramente fondamentale per la strutturazione

complessiva dell’istruzione superiore e degli ordinamenti universitari nello specifico (come la

digressione su Croce e la scuola idealistica avevano insegnato rispetto alla progettazione della

riforma Gentile del 1923), un equilibrio sostenibile tra le posizioni democristiane e quelle

comuniste, per cui l’impostazione culturale fascista, statica e nazionalista, sopravvisse alle timide

volontà di innovazione.

I riformatori democratici non toccarono neppure gli ordinamenti didattici: gli statuti

continuarono ad essere regolati dalla legge De Vecchi che tracciava una netta distinzione tra

materie fondamentali e complementari, compendiate in esaurientissime tabelle ministeriali,

minuziose fin quasi al parossismo, che inibivano di fatto qualsiasi possibilità di sperimentazione

scientifica o didattica alternativa all’interno degli atenei; la suddivisione tra materie fondamentali

e complementari, che si innestava in facoltà ancorate ad una divisione del sapere specialistica,

basata su criteri cattedratici e di potere piuttosto che esclusivamente scientifici, e che si

concretizzava in piani di studio rigidamente immutati nei quali non v’era traccia alcuna di materie

nuove che avrebbero provveduto a sprovincializzare la cultura e la ricerca scientifica italiane,

cristallizzava così la cultura tradizionale ostacolando l’ingresso nelle università delle nuove

acquisizioni scientifiche che, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, si sarebbero susseguite a ritmo

sempre più incalzante.

C’è chi sostiene, contrariamente ad altri, che “per recuperare i vent’anni di autarchia culturale

fascista avremmo avuto bisogno non di leggi timide, ma - addirittura – rivoluzionarie”.59 Ed il fatto

che la parte più consapevole del mondo accademico e quella più sinceramente democratica dei

partiti politici ancora oggi si battano per riformare l’università e disegnare una istituzione

democratica, conferma l’interpretazione in merito agli errori commessi nel dopoguerra, che va per

la maggiore tra gli studiosi (Froio, 1973, 1976; Ippolito, 1978; Miozzi 1993).

59 Questi errori che potrebbero apparire per così dire tecnici, di interpretazione o di ignoranza delle tematiche fondamentali da discutere per provvedere ad una ristrutturazione complessiva e ad una innovazione delle istituzioni universitarie, discendevano in realtà da un preciso ma errato calcolo strumentale e da una lucida quanto improvvida scelta politica: quella dei partiti di sinistra che non presero neanche in considerazione l’eventualità di un mutamento del quadro politico del paese all’indomani della Resistenza, a favore dei partiti moderati che avrebbero in seguito ostacolato ogni azione autenticamente democratica e riformatrice circa i problemi dell’università. La gravità di questo errore sarebbe apparsa nelle sue vere proporzioni dopo i risultati delle elezioni del 1948 che diedero la maggioranza assoluta alla Democrazia Cristiana; e le conseguenze sarebbero state ancora più gravi se i democristiani, con il beneplacito di socialdemocratici e repubblicani, fossero riusciti a far passare, nel 1953 la famigerata “legge truffa” che gli avrebbe consentito di governare praticamente da soli e di congelare più di quanto non avessero già fatto, le spinte di trasformazione dell’università.

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Tutto ciò determinerà un ritardo nell’azione legislativa successiva, a maggior ragione per

quanto riguarda l’istruzione universitaria, producendo, nel lungo periodo, un complesso di

mancate risposte, una sequenza di interventi parziali a fronte delle esigenze palesi di

rinnovamento, che avrebbe causato in definitiva l’avvio di una fase di progressivo distacco tra

università e necessità espresse dal tessuto sociale. Soprattutto ciò determinerà, sotto il profilo

normativo, la persistenza di vecchi ordinamenti (norme immediatamente precettive e norme

meramente programmatiche) e di norme costituzionali inattuate accanto a spinte riformiste troppo

graduali e ancor di più inefficaci in quanto applicate ad un quadro troppo vasto di problemi

concettualmente distinti, pur se interconnessi tra loro. La linea del legislatore, in particolare

quando si presenterà in nome dell’esecutivo, si caratterizzerà come rinunciataria e velleitaria,

anche in presenza di un acceso dibattito in merito, che avrebbe potuto sin da allora determinare

l’adozione di soluzioni equilibrate in merito di istruzione universitaria, regolamentando

l’interconnessione tra intervento finanziario statale e aspirazione legittima degli atenei a darsi più

ampi ordinamenti propri, autonomi, e avrebbe potuto, ad esempio attraverso l’istituzione del

dipartimento, anticipare buona parte del lavoro successivo. “Se lo Stato – si disse allora – vuole

dalle università un servizio, allora ne deve rispettare la libertà e l’autonomia, offrendo

all’Università i mezzi per offrire tale servizio. Se la scienza e la cultura sono, al tempo stesso,

ricerca e didattica, e hanno alla base un criterio di libertà e di autonomia, devono essere messe in

condizione di darsi strumenti e risorse da esse stesse espressi”. Come sede primaria di tali

attività, l’Università deve vedere quindi affermato, per il suo funzionamento, il criterio della scelta.

Una scelta non più condizionata dall’esterno, secondo un criterio burocratico di accentramento

nell’alveo di altri momenti educativi, estranei alle esigenze specifiche del mondo universitario.

Le nuove leggi sull’istruzione universitaria, ed il decreto luogotenenziale del ’44 nello specifico,

avevano smussato, ma di certo non eliminato del tutto, l’impostazione fascista nell’istruzione

universitaria senza però realizzare pienamente le autentiche aspirazioni democratiche che erano

nell’intento dei riformatori; riuscirono solo nell’opera di redistribuzione di alcune funzioni,

precedentemente tutte concentrate nelle mani del ministro della pubblica istruzione,

decentrandole ai collegi accademici ai quali venne concesso di designare, mediante votazione,

rettori e presidi di facoltà, naturalmente, esclusivamente tra i professori di ruolo. Pure la nuova

legislazione concentrò tutto il potere nel ministro della pubblica istruzione, nei rettori, nei presidi

di facoltà e nei professori di ruolo, ripristinando con ciò l’ordine vigente nell’Italia liberale di inizio

secolo, senza pertanto indirizzarsi progressivamente verso la democratizzazione degli atenei,

tant’è che non si pensò affatto alla presenza di organi effettivamente democratici che

assicurassero la partecipazione di tutte le componenti accademiche alla vita politica degli atenei,

né tanto meno furono abrogate le leggi fasciste sulle sanzioni disciplinari: queste ultime anzi, che

formalizzate nel Testo Unico sull’Istruzione Superiore indicavano Rettori e Presidi quali veri e

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propri questurini a tutela dell’ordine e della morale all’interno delle facoltà, restarono in vigore e la

loro applicazione, che non aveva conosciuto soluzione di continuità, aumentò in maniera

esponenziale sin dalle prime avvisaglie della contestazione sessantottina, e fu utilizzata per

reprimere assemblee e mobilitazioni all’interno degli atenei così come avveniva per il mai riposto

Codice Rocco alle manifestazioni, nelle piazze e nei processi giuridici.

A questo proposito va detto che, contro qualsiasi ipotesi sia pur remota di democratizzazione

compiuta dell’istruzione superiore e di quella pubblica in generale, il governo degli Stati Uniti

d’America, di concerto con la classe dirigente della DC, erogò un finanziamento speciale per

l’università per un totale di circa dieci miliardi di lire, che venne disposto all’interno dello European

Recovery Programme, il piano di ricostruzione post-bellica attraverso il quale il governo

statunitense impose di fatto la propria egemonia economico-finanziaria e, dunque, politico-

strategica ai paesi europei sconfitti durante la Seconda Guerra Mondiale. Così il finanziamento

destinato alle università darà avvio ad un processo di competizione per il controllo

dell’impostazione scientifica e dell’orientamento politico e culturale delle istituzioni di istruzione

superiore, che in Italia si è concretizzato nello scontro tra i partiti e che spesso ha assunto toni

volgari e bassi profili, e che a livello internazionale si è sostanziato nella competizione tra i

differenti modelli scolastici ed universitari, con il modello anglo-americano di Open university o di

multiversity iper-professionalizzante che si è progressivamente imposto in quasi tutti i paesi

centrali dell’economia-mondo lanciandosi alla conquista del mercato dell’istruzione che intanto, in

quasi tutti gli stati occidentali, subiva processi di privatizzazione.

Tuttavia, nonostante le pressioni legittime e palesi, e quelle indebite e secretate con omissis di

stato da parte delle autorità americane, che ben si sposavano con le mire vaticano-confessionali

sulle università pubbliche e con i conseguenti progetti democristiani di sistema universitario misto

pubblico-privato, il dibattito in sede costituente fu molto serrato ed i compromessi che si

riuscirono a trovare furono sostanzialmente delle negoziazioni al ribasso tra la posizioni

democristiane e quelle comuniste, dal momento che i socialisti subivano l’influenza dei loro cugini

più prestigiosi e che gli azionisti ed i liberali non disponevano in sede di Assemblea Costituente,

nonostante l’impegno profuso dai primi durante la guerra partigiana, dei seggi necessari ad

orientare con forza l’azione legislativa in materia di scuola ed università secondo i propri principi

ideologici e le proprie necessità politiche.

I padri costituenti organizzarono i lavori dell’Assemblea in tre grandi sottocommissioni

tematiche di cui facevano parte rispettivamente 75 deputati, la prima delle quali si occupò dei

problemi dell’istruzione, provvedendo in merito a redigere gli articoli specifici che avrebbero fatto

poi parte del testo costituzionale. Di questa sottocommissione, la cui prima seduta fu tenuta a

Roma il 18 di ottobre del 1946, facevano parte Basso, Caristia, Cevolotto, Corsanego, De Vita,

Dossetti, Grassi, Iotti L., La Pira, Lomberdi G., Lucifero, Mancini, Mastrojanni, Merlin U., Togliatti e

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Tupini etc. , mentre i due relatori furono due alte intelligenze della prima repubblica, del calibro di

Aldo Moro per parte democristiana e Concetto Marchesi per quella comunista. Per quanto riguarda

i comunisti c’è da dire che, in armonia con quanto fatto già nell’ultimo periodo di clandestinità

quando, attraverso la mediazione dei direttivi del CLN avevano cominciato ad intessere rapporti

con intellettuali e docenti universitari (i quali a loro volta erano riusciti ad influenzare, in qualche

caso profondamente, le giovani generazioni dei propri studenti spronandoli alla guerra di

liberazione nazionale) , furono proprio loro a distinguersi in materia di università per quanto

riguarda la sostanza ed il merito dei progetti che essi cominciarono a proporre alla classe politica

italiana, uno su tutti, il programma illustrato in occasione del V Congresso Nazionale, che già assai

articolato e preceduto da interventi chiarificatori di intellettuali di varia provenienza e docenti di

tutte le convinzioni politiche e culturali, venne in seguito arricchito ulteriormente (Miozzi, 1993,

pp. 122-126). Parte delle proposizioni comuniste contenute in questo programma sarebbero state

poi trasfuse, pur se in maniera un po’ annacquata, in un opuscolo pubblicato dal Ministero per la

Costituente nel 1946, che venne però impostato secondo la linea tradizionale del pensiero

pedagogico italiano nel quale, dalle elaborazioni risorgimentali in poi, la scuola e l’università erano

state concepite innanzitutto come divulgatrici della cultura espressione delle classi dominanti e

come momenti di formazione e selezione dei quadri dirigenti nazionali.

Nell’opuscolo preparatorio della Costituente, la rimozione degli ostacoli ad un sistema di

istruzione realmente democratico passava per la rimozione, sia pur prevista soltanto formalmente,

di ogni forma di privilegio sociale pregresso, per poter conseguire da un lato l’obiettivo di “educare

tutti i cittadini”, e dall’altro di “formare in tutti i cittadini il più elevato grado possibile di coscienza

civica e di capacità intellettuali”, nonché di “avviare a funzioni direttive in tutti i campi gli elementi

che se ne dimostrino via via più capaci, nell’interesse generale del paese, rompendo decisamente

il tradizionale sistema che portava a funzioni direttive praticamente solo quegli elementi che

avevano mezzi di fortuna anche se incapaci o poco capaci”. Per quanto riguarda le funzioni

dell’università, traspare, dagli stralci del documento sopra riportati, da un lato la continuità con i

compiti di selezione delle classi dirigenti del paese (compito che gli atenei svolgevano ormai da

quasi un secolo) , e dall’altro un cambiamento di rotta che, in armonia con la progressiva

affermazione dello stato sociale disegnato dai costituenti, e con gli sforzi delle fazioni politiche di

ispirazione marxista o di orientamento socialdemocratico, integrò definitivamente gli atenei italiani

nel più complesso sistema di istruzione pubblica, affidando alle accademie precise mansioni sociali

di qualificazione professionale e di innalzamento culturale della nazione tutta intera.

Questa mediazione tra esigenze di conservazione della tradizione e necessità di innovazione e

progresso all’interno del sistema universitario, pur se negoziate al ribasso dai contrapposti

schieramenti politici, furono il maggior risultato conseguito durante i lavori preparatori e di

redazione della Costituzione, mentre vennero lasciate irrisolte numerose altre questioni , la cui

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estrema urgenza ed importanza fu sacrificata, sull’altare della patria, alla concordia nazionale:

tutto ciò che si riuscì a fare fu sancire, all’interno del dettato costituzionale, il principio giuridico di

autonomia universitaria, anche se solo formalmente ed in quella maniera alquanto rimaneggiata

che avrebbe permesso le proroghe infinite, i fraintendimenti calcolati, e gli arrangiamenti che,

sull’argomento, avrebbero caratterizzato il dibattito politico e l’azione legislativa di tutte le forze

presenti nel Parlamento italiano nei decenni successivi, ed almeno fino ai tentativi di riforma degli

anni novanta del secolo scorso.

Il disposto costituzionale che specificamente concerne l’autonomia universitaria si concreta,

come è noto, nel decretare che “le istituzioni di alta cultura, le università e le accademie, hanno il

diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.60 Il quadro di

riferimento è dato dagli articoli 2, 3 e 9, che appartengono al novero di quelli, i primi 12, dedicati

dal Costituente ai principi fondamentali; in particolare l’articolo 2 prevede forme di riconoscimento

e tutela rivolte a tutte le organizzazioni sociali, dunque anche alle università dello stato, in quanto

sedi e strumenti di esplicazione e sviluppo della dignità umana, mentre l’articolo 3 statuisce

l’impegno della Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che

impedirebbero il libero sviluppo della persona umana, garantendo così implicitamente il libero

accesso ai più alti gradi di istruzione a tutti i cittadini, purchè capaci e meritevoli. L’articolo 9 è,

anch’esso di importanza fondamentale, probabilmente di primaria centralità, in quanto affermando

che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, e che

“tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, presuppone le successive

disposizioni degli articoli 33 e 34 e definisce, pur se in maniera estremamente striminzita, la

volontà costituzionale che la repubblica si assuma lo sviluppo della scienza, al cui compito, in

Italia, erano votate le università.

Ma la differenza sostanziale con le disposizioni dello Statuto Albertino, con i principi

formalizzati da Casati e ribaditi da Gentile, è la funzione sociale dell’università che da mero

strumento del potere per selezionare la classe dirigente e proporre il pensiero dominante

attraverso l’establishment accademico, si trasforma in istituzione votata allo sviluppo complessivo

della cultura ed alla formazione di individui provenienti da tutte le classi sociali indistintamente, a

beneficio del progresso scientifico e dello sviluppo del paese intero. Il Sessantotto avrebbe in

seguito dimostrato che questi principi non riuscirono, tanto meno nei primi anni dopo la loro

formulazione, a garantire effettivamente la democratizzazione, o perlomeno uno svecchiamento,

una rispolverata delle, in questo senso ottuse, gerarchie accademiche; tuttavia, che grazie o a

causa delle disposizioni contenute nella Costituzione l’università si avviasse a divenire qualcosa di

molto differente dalla struttura elitaria che era stata per circa un secolo appare evidente, e le

60 Costituzione della Repubblica Italiana, art. 33, ultimo comma; gli articoli costituzionali riguardanti la scuola e l’università sono riportati nell’Appendice Normativa, Allegato n. 5.

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vicende dei decenni successivi lo avrebbero dimostrato attraverso il fenomeno di progressiva

estensione e massificazione dell’accesso all’istruzione superiore.

Tornando all’autonomia degli atenei, c’è da dire che in sede di Assemblea Costituente non fu

dedicato a questo tema particolare attenzione, nonostante cenni sull’argomento si trovassero pure

nella riforma Gentile all’articolo 1 e nel successivo Testo Unico delle leggi sull’Istruzione Superiore

(Morlicchio, Macchiarola, 1995, pp. 11-15); dagli stralci dei lavori della prima sottocommissione

della Costituente traspare la poca attenzione che volutamente fu rivolta all’argomento tanto che,

addirittura, il comma riguardante l’autonomia degli atenei non era affatto previsto e fu inserito

soltanto in un secondo momento all’interno di un testo, quello dell’articolo costituzionale n. 33,

che formalizzava la configurazione delle università all’interno di un indifferenziato percorso di studi

che iniziava in età elementare e dunque all’interno di un più complessivo sistema scolastico

statale. Come raccontato nel primo capitolo, le posizioni maggiormente ostative nei confronti

dell’autonomia delle università rispetto al potere politico erano tenute proprio da coloro i quali

avrebbero altresì potuto e dovuto sostenere tesi maggiormente fondate, progressiste e rispettose

della libertà degli atenei, ossia da democratici, socialisti e comunisti, questi ultimi i quali soltanto

dopo l’abbandono del modello statalista di impostazione bolscevica, ossia molti anni più tardi,

sarebbero stati capaci di concepire realmente le università come istituzioni indipendenti; lo stesso

Marchesi, che pure si dichiarava a favore della libertà dell’ arte, della scienza e del loro

insegnamento, riaffermava la necessità che lo stato guidasse questa libertà “per i suoi fini

nazionali e sociali” e denunciava l’atteggiamento democristiano di fronte al nodo dei rapporti tra

istituzioni private ed istituzioni statali, insistendo sulla necessità che fossero quest’ultime “al

centro della dinamica educativa per essere le sole in grado di assicurare l’unità della nazione e la

garanzia dell’uguaglianza”. Entrata in vigore la Costituzione, l’autonomia universitaria, a causa

delle scelte di mediazione del Costituente e del suo conseguente, purtroppo necessario, esplicito

rinvio al legislatore ordinario, è rimasta a lungo assoggettata al dominio della legge e delle

cangianti opinioni politiche in base all’opportunità del momento; sicché la garanzia costituzionale,

invece di attuarsi in forza dei contenuti desunti immediatamente dal dettato costituzionale, si è

risolta nella disciplina fissata dalla legge, determinando negli atenei italiani un’applicazione

generalmente attenuata quando non completamente distorta di tale principio, fenomeno questo,

che avrà notevoli ripercussioni negative in merito alla governance e alla gestione complessiva del

sistema universitario, nonché per quanto riguarda lo sviluppo di libere iniziative didattiche e di

ricerca che non dipendessero dai politicamente pluri-negoziati, e scientificamente multi-

condizionati, finanziamenti a pioggia di origine ministeriale con tanto di sigillo del Consiglio

Superiore dell’Istruzione, divenuto in seguito Consiglio Universitario Nazionale. Questo sembra,

secondo valide interpretazioni, il tratto più significativo dell’esperienze di trasformazione delle

istituzioni universitarie in un lungo arco di tempo: l’essersi l’autonomia universitaria attuata come

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“autonomia secondo la legge”. E non occorre sottolineare oltre come questo esito rappresenti una

singolare inversione del rapporto che, in un ordinamento a Costituzione rigida, dovrebbe

correttamente sussistere tra le disposizioni in questa contenute e la legge ordinaria, e la conferma

di quanto appena esposto può rinvenirsi nella successiva giurisprudenza della Corte

Costituzionale.

In Costituzione, dunque, l’autonomia universitaria non si configura come piena ed assoluta,

ma come un’autonomia che lo Stato può accordare in termini più o meno lunghi, sulla base

dell’apprezzamento discrezionale del legislatore parlamentare o ministeriale, che tuttavia non sia

irrazionale; e allora l’unico limite all’esercizio della discrezionale potestà regolativa e confermativa

del legislatore nei confronti delle università in generale, e anche in via derogatoria nei confronti di

singole istituzioni, viene ravvisato nella sussistenza di una idonea ragione giustificatrice, di una

valida ratio, che nella storia politica repubblicana si è trasformata in logica approssimativa

secondo l’opportunità del momento. Ed è addirittura agevole osservare come, almeno fino alla

riforma Ruberti del 1989, la despecializzazione della garanzia costituzionale in questione abbia

comportato la conseguenza che l’ultima parola sul rispetto dell’autonomia stessa, sia stata

rimessa, durante tutta la storia politica ed istituzionale della prima repubblica, al potere

giudiziario, sarebbe a dire alla Corte Costituzionale che ha di volta in volta giudicato circa la

giustezza, la ragionevolezza e la costituzionalità in merito alle scelte del legislatore o ad iniziative

indipendenti prese dai singoli atenei. Per precisare ulteriormente il concetto di autonomia

universitaria pur tralasciando, per ora, sia di approfondire le differenti maniere in cui questa è

stata storicamente declinata sia di interessarci al percorso che ha effettivamente concesso

autonomia agli atenei italiani, bisogna ancora fare delle riflessioni circa la maniera in cui tale

categoria venne sostanziata, in quanto ciò è necessario per comprendere in che modo sia stato

risolto il problema dell’equilibrio tra continuità ed innovazione (sarebbe a dire quali risposte abbia

trovato il quesito di come bilanciare i poteri ed il governo delle attività all’interno dell’università

concedendo più meno spazio ai poteri pubblici, alle gerarchie accademiche o ad altri diversi

portatori di interesse, stakeholder), ed in quale maniera si sia trasformata ed abbia funzionato

l’università a seguito delle statuizioni costituzionali.

Bisogna specificare allora che l’autonomia di cui si discute non è fine a se stessa ma ha altresì

carattere strumentale: è ordinata ad assicurare la realizzazione della libertà di insegnamento e

della ricerca e, concorrendo per questa via a garantire la qualità dell’istruzione, e l’eccellenza e

l’indipendenza degli studi universitari, dunque il diritto allo studio. L’autonomia universitaria,

quindi, non si esaurisce nel garantire l’istituzione in sé, ma proietta la propria efficacia verso le

situazioni soggettive fondamentali anzidette; esse sono in via prioritaria la libertà di insegnamento

e di ricerca: il rilievo costitutivo di queste due libertà, fuse insieme in una endiadi indissociabile, è

analiticamente sviluppato nella sentenza della Corte Costituzionale 1983 n. 14, nella quale viene

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precisato che “non basta, perché una scuola attinga il livello universitario, che vi siano impartiti,

sia pure da professori universitari, insegnamenti a fini professionali, ma occorre che vi venga

svolta anche la ricerca scientifica. Sono due, insomma, e inscindibili i compiti istituzionali delle

Università: l’attività didattica, e quella scientifica; là dove venga esercitata soltanto questa, si può

avere un’istituzione di alta cultura – ed è il caso del Consiglio Nazionale delle Ricerche; là dove

venga esercitata esclusivamente attività didattica, non si ha Università”. Considerata la

particolarità del nesso tra libertà della ricerca scientifica e istruzione universitaria, coloro che

hanno la responsabilità di quest’ultima, e cioè i professori universitari, in quanto necessariamente

ricercatori-docenti, sono indefettibilmente titolari di tale libertà, che per essi è infatti

specificamente ribadita pure dalla legislazione ordinaria.

Nel contesto costituzionale che vede l’università comunque inserita in articolato e completo

sistema di istruzione le cui norme sono dettate dalla Repubblica, vengono dunque garantite la

libertà di ricerca ed insegnamento ed i titolari di queste due funzioni fondamentali per il progresso

scientifico, culturale e materiale del paese: è per estensione della tutela di queste libertà che il

Costituente garantì una autonomia di scopo alle università, le quali videro riconosciute il diritto a

darsi ordinamenti autonomi ma nei limiti stabiliti dalla legge. E così l’autonomia universitaria, che

pure secondo successive sentenze della Corte Costituzionale era da intendersi nel suo pieno

significato, “come autonomia normativa, scientifica, didattica, amministrativa, finanziaria e

contabile”, è rimasta sostanzialmente una pura disposizione formale poiché, solo molti decenni

dopo, gli atenei si sono potuti dotare di ordinamenti autonomi, con la legge del 1990; inoltre, per

quanto riguarda l’aspetto economico sono ancora quasi completamente dipendenti dallo stato,

nonostante diverse leggi dispongano ormai l’autonomia finanziaria (in particolare l’articolo … della

legge n. … 1993) , compendiata negli statuti di quasi tutte le università italiane. E andrebbe

ancora considerato il fatto che le riforme ultime scorse hanno cancellato le odiose, improduttive,

ormai completamente inutili tabelle ministeriali nelle quali venivano catalogate le discipline

accademiche, per essere però sostituite da classi di laurea definite comunque a livello nazionale,

pur se attraverso la mediazione del CUN che è più diretta espressione dei poteri e degli

orientamenti accademici, e pur tenendo presente la necessaria cautela e l’indispensabile equilibrio

da tenere su questo argomento, per evitare che l’autonomia di istituire propri corsi di laurea in

ogni università dia luogo al fenomeno di assurda moltiplicazione dei corsi, dai nomi stravaganti ed

in qualche caso decisamente pubblicitari, che si è verificato nell’università italiana negli anni

scorsi.

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Capitolo 3. Il processo di autonomia dell’università italiana: verso la

European Higher Education Area

Se la conoscenza diventerà la risorsa strategica della società, il fondamento della ricchezza, dell’autorità e del potere,

allora il problema è come le università pensano di amministrare questa risorsa, in quali condizioni e per quale proposito.

(Clark Kerr)

Dalla “università d’élite” alla “università di massa”

Nel capitolo precedente, seguendo la scansione temporale proposta dalla letteratura presa in

considerazione,61 sono state esaminate le traiettorie storiche di trasformazione delle università

italiane le quali, integrate in un sistema universitario nazionale attraverso la riforma Casati e,

successivamente considerate come veri e propri organismi della pubblica amministrazione nelle

statuizioni della riforma Gentile, erano state strutturate dal legislatore costituente all’interno di un

più complessivo sistema di istruzione pubblica, attraverso il quale lo stato sociale di diritto si

proponeva di educare tutti i cittadini al più alto grado culturale e professionale possibile.

L’università, dunque, veniva considerata come l’ultimo segmento di un percorso di studi

accessibile a tutti, e soltanto le attribuzioni di autonomia di scopo e di personalità giuridica,

previste nella Carta costituzionale, le differenziavano dagli altri istituti scolastici di ordine inferiore

e dagli istituti di insegnamento superiore di altra natura, in gran parte organizzati da privati e

finanziati solo parzialmente dall’erario pubblico. L’università si vedeva così formalmente

assegnata, dal più alto potere dello stato, un compito di formazione diffusa, completamente

antitetico alla natura eminentemente elitaria ed alla strutturazione rigidamente classista che

avevano storicamente contrassegnato la configurazione di questa istituzione sociale nel nostro

paese.

Infatti, sebbene sarebbe errato affermare che tutti i laureati italiani, licenziati dagli atenei

prima della Seconda Guerra Mondiale, fossero di estrazione borghese o aristocratica, va ribadito

che, nonostante gli studi universitari avessero conosciuto una costante, seppur minima,

espansione durante tutti gli anni trenta, quaranta e cinquanta, tuttavia essi avevano mantenuto

una configurazione ristretta ed elitaria, nonché una strutturazione estremamente gerarchica

basata su di un potere interno, organizzato intorno agli istituti disciplinari monocattedra, e su uno

61 In particolare per la scansione temporale è stato molto utile TEICHLER U., Higher Education, pp. 6700-6701 in SMELSER J. N., BALTES B. P., “International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences”, Elsevier, Amsterdam, 2001.

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esterno che faceva direttamente riferimento al ministro dell’istruzione. Le università dunque, che

sin dal medioevo avevano svolto, da un punto di vista socio-economico, prevalentemente una

funzione di riproduzione sociale e culturale delle élite dominanti, sin dagli inizi del ventesimo

secolo, attraverso un progressivo allargamento, controllato e graduale, alle classi medie per

ragioni di necessità economiche ed esigenze politiche, avevano cominciato a provvedere alla

formazione professionale specifica per soddisfare le esigenze di formazione espresse dal sistema

capitalistico in espansione, progressivamente intensificatesi dal tempo del take off industriale del

nostro paese, per rispondere alle mutate condizioni sociali di produzione e, conseguenzialmente,

per controllare i rinnovati processi produttivi e regolare la divisione sociale del lavoro secondo

l’appartenenza ad una determinata classe produttiva e sociale piuttosto che ad un’altra (Moscati,

1983, p. 22).

Pur senza cadere in interpretazioni troppo marcatamente funzionaliste che non tengono conto,

secondo l’esposizione dei fenomeni studiati proposta in questo lavoro, della complessa natura

storico-sistemica dei processi di trasformazione degli studi e degli istituti universitari, nonché della

loro intrinseca multi-temporalità e dinamicità che poco si presta a raffigurazioni omeostatiche e

didascalie onnicomprensive in termini di equilibrio (Wenzel, 2001, p. 5847), si può quindi

affermare che le università italiane, attraverso le proprie attività peculiari di ricerca scientifica e

formazione didattica, abbiano provveduto, nel corso del loro sviluppo storico, allo svolgimento di

queste due “funzioni manifeste” fondamentali (Moscati, 1983, p. 23), alle quali veniva associata

una costante opera di in-formazione, sarebbe a dire di proposizione di un savoir faire (Althusser,

1978, pp. 41-62) ispirato al pensiero dominante e finalizzato alla sua riproduzione attraverso la

proposizione di modelli di comportamento prestabiliti, funzionali alla cooptazione dei singoli

individui, pur se di eterogenea provenienza economica e socio-culturale, all’interno dei ruoli di

potere propri delle classi dominanti. Per cui, secondo il dettato della Costituzione repubblicana,

insieme alla produzione di conoscenza, ed alla trasmissione di questa per applicazioni a fini

professionali, le università furono investite del compito di provvedere alla istruzione superiore

post-secondaria la quale, saldamente orientata dai pubblici poteri, avrebbe dovuto contribuire allo

sviluppo culturale del paese ed al progresso scientifico ed economico dello stato; questa

previsione programmatica avrebbe consentito l’accesso all’università ad un numero crescente di

studenti, e gli atenei italiani, insieme alle proprie, peculiari attribuzioni, si sarebbero trovati, nei

decenni successivi, a svolgere una “funzione latente” (Moscati, 1983, pp. 29-36) ed

assolutamente impropria di tutela sociale, che si sarebbe sostanziata, da un lato, in un opera di

stoccaggio di manodopera cognitiva da immettere nel mercato del lavoro durante i cicli di

espansione della domanda e, dall’altro, in un ruolo di ammortizzatore sociale durante i periodi di

stagnazione e contrazione, finendo per diventare quella che è stata definita una “area di

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parcheggio” in molte ricerche sociologiche (Idem), ma contribuendo altresì ad aggravare la

situazione delle nostre università, oberandole di un ulteriore carico di lavoro.

Va inoltre considerato che questo particolare ruolo di collante sociale attribuito alla formazione

superiore ed alle istituzioni che avrebbero dovuto provvedervi, che si sostanziava nel garantire,

attraverso il valore legale del titolo di studio, delle possibilità di mobilità sociale e di

raggiungimento di posizioni economiche di prestigio, favorendo una vera e propria impennata

della domanda sociale di istruzione universitaria, una corsa all’istruzione (Berlinguer, 2001,

introduzione), fu tra le cause principali che resero la situazione dei nostri atenei insopportabile ed

esplosiva e che alimentarono le mobilitazioni studentesche degli anni sessanta e settanta del

secolo scorso, anche e soprattutto a ragione del fatto che, a fronte della programmaticità delle

intenzioni riformatrici e democratizzanti della Assemblea Costituente, non erano altresì seguite

sostanziali riforme e nemmeno indicazioni e linee direttrici organiche da parte del legislatore

ordinario dei primi anni della repubblica; così il sistema universitario nazionale, destabilizzato da

processi sociali che ne incrementavano l’espansione, l’esplosione numerica, si trovava comunque

ingabbiato nella infinità di norme contrastanti, eredità delle legislazioni precedenti, che solo

parzialmente avevano ricevuto una certa sistematicità all’interno del Testo Unico dell’Istruzione

Superiore del 1933,62 e che si riferivano ad una istituzione completamente differente da ciò che

sarebbe diventata l’università italiana nel secondo dopoguerra.

In mancanza di riforme dell’istruzione superiore che si possano definire tali dunque, la

trattazione nelle pagine seguenti proseguirà osservando da una parte il processo di continua

espansione della domanda di istruzione superiore che, cominciato in Italia nel secondo dopoguerra

del secolo scorso, pare non essersi ancora concluso, mentre dall’altra si menzioneranno i principali

argomenti proposti dalle forze politiche e parlamentari durante la storia repubblicana in materia di

università. Una volta descritti in questo modo i processi di trasformazione del sistema universitario

italiano, che hanno avuto luogo dalla seconda metà del ventesimo secolo sino ai decenni scorsi (i

quali sono stati densi di riforme come mai nella storia delle università italiane e costituiranno,

dunque, argomento fondamentale di indagine e riflessione nella parte conclusiva del lavoro), e

caratterizzato le conseguenti configurazioni assunte dagli atenei in termini di funzionamento ed

output complessivo, si potrà così definire il modello di università del nostro paese nonché,

attraverso una procedura di “encompassing comparison” (McMichael, 1990, pp. 388-389) che sia

assolutamente strumentale e non fine a se stessa, si potranno valutare similitudini e differenze

nelle traiettorie di cambiamento sperimentate all’interno del nostro sistema universitario e di quelli

di altri paesi occidentali (Billing, 2004, pp. 113-137), al fine di far emergere nitidamente le linee

guida che hanno ispirato e che stanno caratterizzando il processo di costruzione di uno Spazio

Europeo di Istruzione superiore, attraverso la creazione di una European Higher Education Area

62 Appendice Normativa, Allegato n. 4.

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(C.E.M.H.E., 2005) e la conseguente, tendenziale, agognata armonizzazione dei singoli

ordinamenti universitari nazionali attraverso il sistema dei crediti formativi, in virtù della

costituzione, sperata e più o meno prossima, di un unico sistema europeo di istruzione

universitaria e di formazione superiore che possa competere con quello americano e con quelli

emergenti dell’est asiatico per la conquista di fette sempre più ampie del mercato internazionale

della formazione, dei beni immateriali, e della produzione di saperi e conoscenze da trasferire alle

industrie di beni e di servizi.63

Tornando alla seconda metà del secolo scorso, secondo alcune interpretazioni, potremmo

evidenziare tre dinamiche fondamentali che hanno contrassegnato ed influenzato profondamente

la struttura delle scienze sociali e, per estensione, delle università americane, europee, ed italiane

all’interno delle quali queste discipline venivano impartite e cominciavano ad acquisire importanza.

La prima di queste dinamiche sarebbe rappresentata dal mutamento, avvenuto a ridosso del

1945, della struttura economica e politica mondiale che vedeva gli Stati Uniti emergere come

potenza internazionale, con un dominio assoluto in Occidente (anche dal punto di vista culturale,

si pensi solo all’ispirazione di molti movimenti giovanili dell’Italia di quegli anni ed alla diffusione

del mito dell’american way of life) sedimentato dal dominio economico e finanziario formalizzato

dalle istituzioni di Bretton Woods, e con la sola Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche a

contendergli il primato assoluto nell’egemonia delle relazioni geo-politiche e militari, nonché

culturali, all’interno del sistema-mondo. La seconda dinamica di importanza fondamentale è

rappresentata dalla grandissima espansione economica e produttiva avvenuta nel mondo nei

venticinque anni successivi al 1945, un ciclo di accumulazione e di espansione di qualità e di

portata sconosciute nella storia dell’economia-mondo capitalistica, mentre la terza, conseguenziale

alle prime due, viene identificata con la straordinaria espansione, quantitativa e geografica, degli

studi universitari in tutto il mondo (Wallerstein, 1997, p. 35).

Se, ad un livello di interpretazione dei fenomeni di tipo sistemico, e da un punto di vista della

organizzazione disciplinare e della produzione scientifica e didattica, la rapida ed incontrollata

espansione dei sistemi universitari in tutto il mondo determinava rispettivamente una maggiore

attenzione delle potenze mondiali verso i grandi progetti di ricerca scientifica (che venivano

finanziati in misura sempre maggiore), ed una crescente specializzazione delle discipline che

contribuiva alla professionalizzazione, alla compartimentazione ed alla parcellizzazione dei saperi

e, nello stesso tempo, alla definizione, alla strutturazione ed alla progressiva acquisizione di

prestigio da parte delle scienze sociali (Ibidem, pp. 36-37), rapportata alla scala italiana la

crescita della domanda di istruzione superiore era determinata da condizioni specifiche ed

63 Si veda, a questo proposito, in merito alle attività svolte dal Fund for the improvement of Post-Secondary Education alla url. http://www.ed.gov/about/offices/list/ope/fipse/index. html.

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assumeva connotazioni a dir poco originali, se non addirittura uniche, anche grazie al disposto sul

diritto allo studio ed alla formazione, previsto nella Costituzione repubblicana.

Il fenomeno di progressivo aumento delle immatricolazioni all’università, che era cominciato,

ma in maniera timida ed altalenante anche a causa delle condizioni politiche particolari e, poi,

degli eventi bellici nei decenni precedenti, nel dopoguerra iniziò ad approfondirsi e ad estendersi in

tutte le regioni italiane, cosicchè il numero degli studenti universitari cominciò per la prima volta,

all’inizio degli anni cinquanta, a destare diffuse preoccupazioni pure tra le diverse forze politiche,

componenti lo schieramento parlamentare, soprattutto se messo in relazione con l’esiguo numero

di docenti e con la quasi assoluta mancanza di figure accademiche dedite alla ricerca scientifica

sistematica (Froio, 1973, pp. 15-19). In Italia il cosiddetto processo di baby boom64 raggiungerà il

suo apice solo alla fine degli anni sessanta e si protrarrà fino agli anni settanta, determinando così

una pressione prolungata sul sistema di istruzione, e conseguenzialmente sull’università, ma va

detto che almeno fino agli inizi degli anni sessanta le limitazioni imposte da Gentile all’accesso

universitario, consentito sostanzialmente solo ai diplomati provenienti dal liceo classico e

scientifico e, limitatamente ad alcune facoltà di immediata applicazione tecnico-industriale, pure ai

diplomati di pochi indirizzi tecnico-professionali, riusciranno, almeno per qualche tempo a far

sopravvivere la vecchia università d’élite.

Tuttavia, come precedentemente dimostrato, nel nostro paese, ridisegnato dopo vent’anni di

regime, l’allargamento dell’istruzione e la sua fruizione generalizzata sino ai massimi livelli

d’eccellenza era uno degli obiettivi essenziali del welfare state: il divario nei livelli di educazione

era ad un tempo una delle più nefaste conseguenze, ed uno dei principali fattori della società

divisa in classi, ed il fatto che bambini e adolescenti venissero collocati in fasce di istruzione

strettamente differenziate, per cui all’università arrivavano solo i “figli del padrone” (Balestrini,

Moroni, 2003, pp. 171-172), costituiva una negazione palese della eguaglianza di opportunità che

nei paesi occidentali veniva continuamente ostentata e che era ormai considerata un prerequisito

indispensabile ad una democrazia compiuta; e questo, tanto più se si tiene conto della forza che

avevano nel nostro paese i partiti politici progressisti ovvero di ispirazione socialista e

socialdemocratica, contro i cui valori e contro la cui stessa cultura istituzionale appariva in

contrasto evidente il funzionamento del sistema di istruzione pubblico, e di quello universitario

nello specifico, che addirittura destava sollecitudine e preoccupazioni pure presso la parte più

sinceramente cristiana della componente cattolica, vitalizzata dalla figura carismatica di Giovanni

XXIII ed interessata ai problemi dell’educazione ed alle questioni di maggiore rilevanza sociale

dell’epoca (Idem).

64 Con questo termine i sociologi indicano l’esplosione del fenomeno di crescita demografica, cominciato negli Stati Uniti negli anni cinquanta e proseguito, nei due decenni successivi, in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale.

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Ad ogni modo, sino a quando lo sviluppo delle forze sociali aveva imposto un modo di

produzione ancora prevalentemente agricolo secondo il quale un modesto apparato industriale

necessitava soltanto di un limitato afflusso di manodopera specializzata e di pochi tecnici e quadri

dirigenti, anche in virtù della debolezza o quasi assenza del settore terziario in Italia, le cose

erano andate relativamente bene ma, di pari passo con l’accentuato sviluppo industriale e

commerciale del nostro paese che verrà definito “miracolo economico”, si erano venute

imponendo, all’attenzione prima dei soli specialisti, poi della classe politica, ed infine della

opinione pubblica in generale, le questioni riguardanti l’istruzione superiore e l’università, ed erano

state poste le esigenze, anche in ambito padronale e confindustriale, di un più virtuoso

collegamento tra l’attività scientifica degli atenei e le necessità del mondo produttivo. Del resto

che l’università da una istituzione classista ed elitaria, quale era l’università fascista e pre-fascista,

si andasse trasformando in una struttura sociale di massa, era nell’ordine stesso delle cose: lo

sviluppo delle forze sociali di produzione, la spinta della classe lavoratrice per una maggiore

giustizia sociale, l’inarrestabile ascesa delle classi popolari che richiedevano una università

democratica ed effettivamente aperta a tutti, tendevano chiaramente in questa direzione (Ippolito,

1978, pp. 37-38).

In Italia dunque, il processo di espansione della domanda di formazione e di istruzione

superiore che coinvolgerà, trasformandole irreversibilmente, le università e le accademie di alta

cultura, era determinato da dinamiche complessive di natura storico-sistemica e di portata

globale, dalle particolari condizioni dello sviluppo economico del nostro paese, nonché dalla

peculiarità della funzione sociale attribuita all’istruzione in funzione legittimante del sistema

politico: questo insieme di processi genererà una pressione insostenibile sulle strutture

anchilosate e fatiscenti dell’università italiana dei primi anni sessanta del secolo scorso,

determinando una spirale contraddittoria tra la spinta costante ad innalzare i livelli di istruzione

sia da parte del capitale, della domanda di forza lavoro (come tentativo di riproduzione delle

differenze che la diffusione di istruzione dovrebbe da un lato attenuare, ma dall’altro espandere ed

approfondire), sia da parte dell’offerta (che a livello individuale percepisce la reale convenienza

del grado più alto di formazione, o la non convenienza di quelli bassi, quantomeno come

condizione necessaria e non sufficiente per accedere a migliori posizioni nella gerarchia della

divisione del lavoro). Questa contraddizione, che si inscrive in quel genere di contraddizioni

proprio del sistema capitalistico, per cui esiste sempre una non corrispondenza, in un dato

momento storico, tra lo sviluppo delle forze produttive ed i precedenti rapporti sociali di

produzione, cristallizzati in una rigida separazione di classe (Moscati, 1983, pp. 17-21), ha

accentuato l’eterogeneità e la contraddittorietà delle mansioni attribuite all’università dalla classe

politica e rispondenti a dinamiche provenienti dal sistema storico-sociale nel suo insieme, finendo

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per incastrare i nostri atenei in quello che alcuni hanno definito un “paradosso formativo” (Ibidem,

pp. 29-36).

L’università prima, durante, dopo e oltre il sessantotto

A fronte della prorompenza e della complessità dei processi di trasformazione sociale

sovradescritti, la tempra riformatrice della classe politica, durante le prime legislature della storia

repubblicana, fu decisamente scadente ed approssimativa e contribuì in questo modo ad

accentuare l’obsolescenza del nostro sistema universitario ed il ritardo tra questo e gli altri sistemi

universitari europei lungo la via di ammodernamento e di ristrutturazione, che li avrebbe condotti

agli intenti uniformatori solennemente proclamati nella Dichiarazione di ministri e rettori che ha

dato avvio, agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, al cosiddetto “Bologna process”,

(Dubois, 2003, pp. 388-403; Enders, 2003, pp. 371-386; Trowler, 2003, pp. 357-370) di cui si

dirà successivamente.

Nelle prime legislature del dopoguerra, la carica di ministro dell’istruzione, sarà ricoperta, se si

eccettua il primo governo De Gasperi in cui alla Minerva fu chiamato Enrico Molè, esclusivamente

dal democristiano Guido Gonella, sino al 1951, quando questi fu sostituito da un altro

democristiano, Antonio Segni; il tentativo di riforma universitaria di Gonella si esplicitò in una

circolare inviata ai rettori che li invitava a proporre modifiche agli statuti ed alle norme riguardanti

l’armonizzazione tra discipline fondamentali e complementari, nulla di più: come se non bastasse,

questa proposta, declinata come iniziativa legislativa, non cominciò mai l’iter parlamentare (Froio,

1996, p. 54) e venne dimenticata negli archivi del ministero, con il beneplacito dei professori

ordinari e di ruolo che basavano il proprio potere cattedratico anche sulla rigida

compartimentazione e gerarchizzazione delle discipline di cui rivendicavano l’unititolarità. Senza

dar luogo a progetti significativi, l’opera ministeriale di Gonella si ridusse (probabilmente in questo

già ispirata da un preciso e voluto orientamento politico dilazionatorio, conservativo e

frammentato in merito alla questione universitaria), ad una pratica controriformatrice che tentò di

reintrodurre quanto di più conservatore ci potesse essere nell’università prefascista, con

l’aggravante che ai laici liberali di inizio Novecento era subentrato un cattolico di stretta

osservanza, ligio alle direttive del partito e molto rispettoso degli orientamenti episcopali e

vaticani: soprattutto per quanto riguardava l’istruzione primaria e secondaria, i danni apportati da

Gonella al sistema pubblico, a favore delle scuole private di ispirazione cattolica e confessionale,

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appare ancora evidente agli occhi di tutti (Ippolito, 1978, p. 37) e soltanto l’ultimo ministro in

carica, la signora Letizia Moratti, pare abbia fatto peggio sull’argomento.65

Durante il tempo trascorso tra la seconda Legislatura repubblicana e la quarta, ossia nel

periodo tra gli inizi del 1953 ed il 1958, a parte il continuo succedersi di ministri (speculare ai

repentini cambi di maggioranza parlamentare e di governo che diventeranno caratteristici della

politica italiana), non si segnalarono decisioni importanti per quanto riguarda l’università: la classe

politica italiana era impegnata in ben altre faccende che parevano più urgenti, e commise così

l’errore fatale di relegare la scuola e l’università in una sorta di alveo immutabile, semi-

indipendente nella gestione sempre più caotica ed inefficiente delle attività interne, ma comunque

costantemente e pesantemente condizionato dal potere politico, che adesso agiva in termini di

negoziazioni ed accordi partitico-sindacali, orientati dalla potente lobby della corporazione

accademica; fu una occasione perduta (Froio, 1973, pp. 13-24) di cominciare a ripensare

l’università italiana dalle fondamenta, rendendola più accessibile, continuando ed approfondendo

le relazioni con il sistema produttivo, che era attraversato da profondi e rapidissimi processi di

trasformazione, e cominciando a diversificare l’offerta formativa per rispondere alla crescente ed

eterogenea domanda proveniente dal tessuto sociale.

Nel 1958 avvenne un fatto politico di rilievo poiché venne presentato in parlamento un “Piano

decennale per la scuola”, che venne chiamato piano Fanfani poiché fortemente voluto dall’allora

Presidente del Consiglio: lo stato interventista, che tentava di assecondare e gestire lo sviluppo

produttivo del paese attraverso una crescente pianificazione delle attività economiche (si

prendano in considerazione il “piano Vanoni”, le vicende dell’E.N.I. e la legge sullo sfruttamento

degli idrocarburi, il distacco delle aziende IRI dalla Confindustria e la creazione del Ministero delle

partecipazioni statali, che sono tutti elementi in proiezione di una politica di piano e per il

rafforzamento dell’economia guidato dallo stato) provava, attraverso un piano per il sistema

pubblico di istruzione di lunga portata, ad affrontare i problemi dell’educazione e della formazione

in maniera organica e complessiva, quantomeno sotto l’aspetto quantitativo (Miozzi, 1993, pp.

152-154).

Molti studiosi sono concordi nell’affermare che, in realtà, la progettualità sottesa al piano

Fanfani era limitata e che, soprattutto dal punto di vista didattico-disciplinare, era

consapevolmente inconsistente, per cui la situazione generale delle università italiane cominciò a

destare attenzione costante soltanto immediatamente a ridosso della contestazione sessantottina;

tuttavia questo disegno, se approvato, avrebbe potuto costituire almeno una risposta provvisoria,

pur se intesa solo in termini finanziari ed edilizi, al fenomeno di crescita continua che cominciava

ad interessare i nostri atenei nei primi anni sessanta del secolo scorso. Il fatto è che il progetto,

presentato in parlamento il 22 settembre 1958, venne immediatamente accantonato a causa delle

65 Si consulti la fonte elettronica http://www.funzioneobiettivo.it/Riforme/dalo.htm.

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subitanee polemiche interessate che cominciò a destare nella classe politica in generale, e

nell’ambiente accademico in particolare (Froio, 1973, pp. 24-28; Miozzi, 1993, pp. 157-161), e fu

riproposto, in maniera alquanto rimaneggiata, nel 1962 sotto forma di piano triennale, nel quale

era pure prevista una parziale liberalizzazione degli accessi all’università, ma che ormai aveva

perso gran parte del suo significato in termini di tempestività, di fondi disponibili, e di approccio

complessivo ai problemi che intendeva risolvere.

Cominciò così un periodo di calcolata immobilità cristallizzante, che sarà scossa soltanto dieci

anni dopo dalle contestazioni studentesche, in cui la politica universitaria sarà esercitata

attraverso una serie di azioni legislative che appaiono come degli interventi a mosaico, delle

tessere impazzite di un patchwork disorganico, che acuiranno la crisi delle nostre istituzioni di

istruzione terziaria, e che ignoreranno, consapevolmente o meno, lo spessore e la portata globale

dei segnali di cambiamento provenienti dalla società, all’interno della quale si avvertiva in modo

sempre più evidente la crisi delle università, intese come istituzioni pubbliche centralizzate.

Del resto, i segnali di una presa di coscienza dei problemi più stringenti e più urgenti da

risolvere tra quelli (variabili ed effettivamente mutati nel corso del tempo), che complessivamente

davano luogo alla cosiddetta “questione universitaria” (che proprio come tante “questioni” rilevanti

nella storia del nostro paese, si pensi soltanto a quella meridionale, rimarranno pressoché

irrisolte, languendo ed aggravandosi nel corso dei decenni), erano già stati espressi chiaramente il

27 di gennaio del 1961 allorché le associazioni di categoria dei docenti, degli assistenti

(rigidamente differenziati dai primi), nonché degli studenti universitari si incontrarono in quella

che fu chiamata la “Giornata dell’università” per discutere, almeno nelle intenzioni dei promotori,

dei problemi dell’istruzione superiore e terziaria in maniera complessiva, laica e propositiva,

contemporaneamente in tutti gli atenei italiani e mandare così un segnale forte al mondo politico

(Froio, 1973, pp. 28-30; 1996 pp. 56-57): ma questi veri e propri messaggi di “S.O.S.” furono

ignorati dalle forze parlamentari e furono quasi sottaciuti dalla stampa, per essere accolti e

considerati solo da Ernesto Codignola, socialista e relatore di minoranza al documento di

presentazione in parlamento dei ”provvedimenti per la scuola e l’università per il triennio 1962-

1965”, il quale da grande educatore dal nobile ingegno e dallo spirito riformatore quale era tentò,

attraverso il suo discorso a Palazzo Montecitorio, di destare l’attenzione dei suoi onorevoli colleghi

su questo argomento, che diveniva sempre più importante, e sempre più intricato.

Insistendo sul “carattere drammatico della crisi universitaria, e sulle ripercussioni che stanno

per derivarne a tutto il paese, al suo sviluppo economico e culturale, alla sua possibilità di

adeguarsi al ritmo e al livello della ricerca scientifica dei nostri tempi, alla formazione delle nuove

classi dirigenti” Codignola sostiene che “i provvedimenti presi per l’università portano impressi

ovunque i segni dell’approssimazione, ed il loro carattere aleatorio e disorganico mostra

un’impressionante incapacità di prospettiva. Se ora siamo alle corde, se le condizioni delle nostre

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università sono giunte al punto limite, la responsabilità della classe politica che ha diretto lo stato

in quest’ultimo decennio è incontestabile e schiacciante. Scuola in crisi vuol dire paese in crisi: ma

per l’università questa equazione è particolarmente vera ed immediata. L’università, infatti, non è

soltanto il luogo dove si formano i dirigenti del prossimo domani, ma è anche il luogo di

formazione degli insegnanti, dai quali dipenderà (in un circolo dal quale non si può più evadere)

l’efficienza e l’orientamento di tutta la scuola primaria e secondaria che alimenterà tra dieci,

quindici anni l’università di domani. Vengono quindi a confluire nell’università tutte le ragioni di

crisi attuale e potenziale della struttura scolastica, e vi esplodono in modo più aperto tutti i nodi

non risolti della società civile” (Froio, 1973, pp.28-30).

Le analisi di Codignola si spinsero fino a considerare i problemi specifici e pressanti

dell’università di allora, la cui risoluzione appariva già a quel tempo indispensabile ed inderogabile

affinché dalle ceneri degli atenei di classe pre-repubblicani potesse nascere un sistema

universitario e di formazione terziaria rinnovato, poliedrico, efficace e capace di soddisfare la

domanda sociale di istruzione diffusa e di cultura che proveniva dalla società; un sistema

universitario che avrebbe dovuto provvedere a salvaguardare l’eccellenza e l’indipendenza della

ricerca scientifica, nonché ad adeguare le attività didattiche ed i profili disciplinari e professionali

alle mutate esigenze espresse dal mondo imprenditoriale, in termini di figure lavorative dotate di

determinate competenze e conoscenze da cui sviluppare nuove tecnologie da applicare alla

produzione. Il parlamentare socialista era convinto che gran parte dei problemi che affliggevano le

università italiane erano causati, almeno per quanto riguarda ciò che avrebbero potuto fare le

classi dirigenti, dalla deficienza di una legge quadro in vece della quale si era preferito mantenere

in vigore la legislazione fascista, salvo i primi, parziali, aggiustamenti cui si era messo mano

subito dopo l’instaurazione della repubblica, cosicché l’università appariva bloccata da una

generale tendenza alla burocratizzazione autoritaria, che costituiva un ostacolo insormontabile nei

confronti delle spinte riformatrici provenienti dal corpo docente e dagli studenti, e che assicurava

una sostanziale dipendenza degli atenei dal potere esecutivo; nella sua relazione Codignola

affermava precisamente l’esistenza di una “contraddizione tra gli ordinamenti didattici e la

funzione che oggi si richiede all’università. La legislazione cattedratica, l’individualismo della

cattedra unica, l’organizzazione quantitativa degli esami sono residui di un tempo passato che non

possono in alcun modo corrispondere alle caratteristiche di un insegnamento moderno fondato sul

lavoro di gruppo, sulla costante presenza dell’insegnamento, sul rapporto personale tra docenti e

giovani, irrealizzabile se non attraverso una moltiplicazione di docenti dei gradi intermedi o un

massiccio incremento di assistenti commisurati al numero dei frequentanti, sulla connessione di

più insegnanti in istituti policattedre, sulla presenza di più cattedre di uguali discipline (anche per

assicurare una dialettica d’insegnamento necessaria allo sviluppo degli studi), sull’autonoma

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decisione collettiva di ogni università nella predisposizione di piani di studio e di raggruppamenti

di cattedre” (Idem).

Appare quasi sconcertante osservare come le riflessioni di Codignola, riportate a mò di

esempio in quanto reputate decisamente significative, già circa mezzo secolo fa e ben tre decenni

prima che si tornassero ad affrontare le questioni centrali da risolvere per predisporre una riforma

universitaria che durasse, affrontavano in maniera particolareggiata ed esaustiva tutti i nodi

centrali dei problemi dell’università, dalla strutturazione indipendente, alla necessaria espansione

delle facoltà, alla configurazione delle attività didattiche, delle discipline, dei piani di studio;

tuttavia durante tutti gli anni cinquanta e gli anni sessanta il dibattito parlamentare intorno alla

situazione della scuola e dell’università fu quasi assente e ciò, probabilmente, non a causa di un

completo disinteresse o di assoluta incomprensione, da parte del mondo politico, delle necessità e

dei bisogni essenziali del sistema di istruzione pubblica e, segnatamente, delle università:

piuttosto pareva essere, questa, una precisa volontà politica dei partiti al governo, ossia

sostanzialmente della Democrazia Cristiana, con l’appoggio interno o esterno del Partito Socialista

durante i governi di centro-sinistra, di sottrarre un argomento tanto complesso, che riguardava

una arena sociale talmente intricata e densa di relazioni ed interessi economici, professionali,

politici e di potere accademico, a qualsiasi pubblico confronto; le classi dirigenti ed i partiti in

generale, se si escludono poche voci isolate e prontamente messe a tacere o marginalizzate del

tutto, preferirono scientemente di non intaccare i fragili equilibri di funzionamento e di potere

interno che sopravvivevano nelle università, e decisero di non toccare, rischiando di alterarla,

quella rete inconfessabile ed inconfessata di interessi corporativi collegati, da un lato, al mondo

delle professioni e, dall’altro, al potere politico stesso, lasciando così la governance degli atenei

nelle mani di gerarchie baronali e corporative, mascherate dal controllo ministeriale e dalla

solamente presupposta autonomia universitaria.

Si potrebbe affermare che l’asse ideologico fondamentale cui si richiamano tutte le proposte

del legislatore, a prescindere dal fatto che esso si presenti nelle funzioni parlamentari o

ministeriali, sembra essere la volontà di modificare il meno possibile gli ordinamenti esistenti e i

loro contenuti culturali, senza turbare il tradizionale primato accademico dei rettori e dei

professori di ruolo, con tutto ciò che questo primato comportava in termini di tutela e salvaguardia

degli interessi costituiti dentro, fuori ed attraverso gli atenei e, dall’altro lato, in quanto ad

atrofizzazione di qualsiasi ammodernamento o sviluppo indipendente delle attività didattiche e di

ricerca tenute dentro le università (Ibidem, pp. 37-42). Nascerà così quella pratica, divenuta

costante durante la storia della prima repubblica, di tentare di continuo una serie incredibile di

mini-riforme, riformine, riforme stralcio (che dopo le contestazioni sessantottine cambieranno

nome in “provvedimenti urgenti”, emanati quasi anno dopo anno, per sanare la situazione

universitaria con misure tampone che assicurassero, al governo di volta in volta in carica, un

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minimo di credibilità pubblica o di sopportazione ed una parvenza di sostegno parlamentare, e che

venivano venduti dai media ufficiali per consenso sociale alla compagine governativa) che sono

servite solo ad accontentare interessi di ministri e sottosegretari in carica e dei loro apparati di

potere commisti ai potentati accademici, producendo una sostanziale inconcludenza sulle questioni

di fondo (Berlinguer, 2001, introduzione).

Questa pratica politica, oseremmo dire questa azione calcolatrice e dissennata che ha inibito il

progredire degli atenei del nostro paese, si è tradotta in una miriade di “leggine”, che

normalmente erano di esclusivo interesse corporativo o, al massimo sindacale, e che

concretizzavano la sola, unica, politica scolastica ed universitaria di quegli anni: quella del

rigonfiamento degli organici, attraverso la quale si immettevano in ruolo qualche centinaio o

migliaio di docenti, a seconda dei casi e dovutamente “raccomandati” dagli ordinari che li

“sponsorizzavano”, grazie allo strumento dell’ope legis, con cui si veniva nominati direttamente

dal ministro sulla base delle richieste delle facoltà di destinazione, e senza aver superato nessun

esame abilitante né tanto meno sostenuto un pubblico concorso per titoli e pubblicazioni

scientifiche (Ippolito, 1978, pp.48-51). Incalcolabili saranno i danni arrecati da questi fenomeni

distorti alle università ed agli istituti di ricerca italiani, in quanto renderanno quasi impossibile

l’accesso alla carriera accademica o scientifica di molti giovani, validi studiosi e ricercatori e,

insieme alla iniqua pratica di “blocco dei concorsi” (di volta in volta predisposti dai ministri per

mancanza di fondi necessari) saranno tra le cause principali della nascita e della espansione di

quel processo definito di “brainstorming”, di “fuga dei cervelli” (Roggero, 2005, pp.97-99), che

consisterà nella fuga sistematica dei ricercatori italiani, e spesso dei migliori ingegni, verso le

prestigiose università di altri paesi, soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti.

L’insieme dei processi descritti ed i conseguenziali assetti che questi determinavano all’interno

degli atenei e rispetto alla valutazione complessiva della produzione e dei servizi offerti dall’intero

sistema di higher education, sia pubblico che privato, acuiranno la crisi dell’università italiana,

anche in considerazione del fatto che il 31 dicembre 1962, con la legge n. 1940, era stata istituita

la scuola media unica (Miozzi, 1993, p.156), già sperimentata da Bottai durante gli ultimi anni del

regime fascista (Berlinguer, 2001, introduzione), che aveva determinato un aumento

considerevole degli iscritti alle scuole superiori e che, evidentemente, avrebbe avuto notevoli

ripercussioni, di lì a poco, sulle strutture universitarie provocando un ulteriore aumento del tasso

di immatricolazione.

Intanto durante la quarta legislatura, con il ministro Gui ad egemonizzare la scena politica in

materia di istruzione, le forze parlamentari dibatteranno il disegno di legge divenuto celebre come

il 2314, presentato dallo stesso ministro Gui alla Camera il 4 maggio 1965, e naufragato con la

fine anticipata della legislatura nel 1967. Il disegno di legge Gui era stato presentato

contemporaneamente alla istituzione della Commissione di inchiesta sui problemi della scuola e

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dell’università, che era guidata dal già ministro dell’istruzione Ermini; sia nella proposta

ministeriale che nella relazione della commissione erano presenti argomentazioni valide e

decisamente innovative rispetto alla situazione universitaria di allora, in particolare i punti centrali

messi in evidenza erano: la liberalizzazione degli accessi all’università; la liberalizzazione dei piani

di studio e la tripartizione dei titoli in diploma triennale, laurea quinquennale e dottorato di ricerca

per avviare giovani, vivaci intelligenze alla ricerca scientifica applicata e di base; creazione degli

istituti policattedra e dei dipartimenti, intesi come strutture didattico-scientifiche di collegamento

fra diverse facoltà (Arneldi,1997); istituzione, in sostituzione del Consiglio Superiore della Pubblica

Istruzione e delle pratiche clientelari, burocratiche e corporative che lo caratterizzavano, di un

Consiglio Universitario Nazionale (che sarà realizzata solo molti anni dopo) inteso come organismo

nazionale di coordinamento delle autonomie delle singole università presenti sul territorio

(C.R.U.I., 2001). Questo progetto fu un’altra occasione perduta, e forse più grande di quella

rappresentata dal piano Fanfani, in quanto pur non accennando a nessun tipo di finanziamento

organico, né tanto meno allo stanziamento di maggiori e specifiche risorse volte a sostenere

diffusamente tutti gli atenei e ad incrementare i migliori progetti di ricerca scientifica (in

sostituzione della pratica di “finanaziamenti a pioggia” irrorati dal ministero senza nessun criterio

se non su quello della capacità di lobbying e di negoziazione delle autorità accademiche dei vari

atenei), pur tuttavia il disegno predisposto da Gui conteneva notevoli spunti interessanti circa la

questione di una riforma universitaria. Non credendo di poter affrontare complessivamente

l’argomento, per l’ostracismo della classe politica e la riottosità del mondo accademico, egli pensò

bene di cominciare da un problema sostanziale, ovverosia quello della strutturazione

ordinamentale e disciplinare degli atenei per cui, in mancanza di qualsiasi previsione di attuazione,

seppur minima, del disposto costituzionale di autonomia delle singole università in merito, provò,

dall’alto del suo potere ma attraverso un testo legislativo comunque minimale e dal titolo piuttosto

dimesso che recitava “Modifiche all’ordinamento universitario”, a creare un istituto dipartimentale

policattedratico che avrebbe dovuto ridisegnare la configurazione degli studi ed attutire il potere di

cattedre e facoltà. La proposta di Gui venne fortemente osteggiata, secondo alcune interpretazioni

essa aveva il difetto di essere troppo innovativa per coloro che volevano conservare all’interno

dell’università lo status quo, e troppo timida per le necessità di rinnovamento poste

continuamente dai movimenti studenteschi, che erano cominciati con una assemblea alla facoltà di

Architettura alla Sapienza di Roma già nel 1961 (Miozzi, 1993, p. 170), con il risultato di

scontentare entrambi, proprio mentre si faceva sotto a far pressione pure la Confindustria, che

richiedeva a gran voce l’abolizione del valore legale del titolo di studi per poter meglio gestire

l’ingresso dei laureati nel mercato del lavoro e, contemporaneamente, per dequalificarne e

depotenziarne la licenza e per giustificare livelli salariali inferiori (Ippolito, 1978).

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Le conseguenze furono disastrose, in termini di mancata riorganizzazione e

rifunzionalizzazione delle attività accademiche, cosicché, caduto ogni pallido intento riformatore,

venne il tempo della fantasia al potere e della rivolta studentesca all’interno delle facoltà.

Le contestazioni studentesche del 1968, dunque, non furono che il naturale sbocco di una

tensione che era andata crescendo nelle masse studentesche per tutto il decennio precedente, e

che non poteva ormai trovare argine nelle strutture, anchilosate e fatiscenti, e negli ordinamenti

disciplinari, rigidamente definiti ed ancorati a visioni culturali ed epistemologie scientifiche del

tutto superate, dell’università italiana di allora: perciò, se le cause recondite e prossime della crisi

dell’università risiedevano in fattori complessi di cui si è tentato di dare conto nella parte

precedente della trattazione, si potrebbe affermare che l’imperiosa ondata di movimento del 1968,

quella che alcuni hanno chiamato l’orda d’oro (Balestrini, Moroni, 2003), costituì il fattore

scatenante che fece esplodere, a mo’ di eruzione, tutti i problemi e le contraddizioni presenti nel

mondo accademico, determinando la definitiva scomparsa dell’università elitaria.

A questo punto, dopo aver descritto le cause che determinarono le mobilitazioni sessantottine,

appare doveroso soffermarsi sulle caratteristiche principali di questi movimenti sociali, sugli

argomenti fondamentali che seppero proporre in merito alla questione universitaria, dal momento

che il 68 costituì uno spartiacque di portata globale e di natura antisistemica (Wallerstein, 2002,

pp. 33-34) e, a maggior ragione, dal momento che le rivendicazioni studentesche, pur se

opportunamente annacquate, comportarono delle conseguenze notevoli e sostanziali per quanto

riguarda le successive trasformazioni del sistema universitario italiano, sia da un punto di vista

strutturale (cioè nei cambiamenti che provocarono nell’accesso e nella fruizione dell’università, e

nella strutturazione disciplinare degli ordinamenti di studio), sia da quello sovrastrutturale (in

quanto determinarono la predisposizione dei successivi tentativi di riforma universitaria, peraltro

mai riusciti).

In realtà le contestazioni studentesche erano cominciate già da qualche anno, proprio in

opposizione al disegno di legge predisposto dal ministro Gui, e contro il quale si erano schierate,

del resto, tutte le forze politiche di sinistra, dai socialisti, ai comunisti che rivendicavano un piano

generale per l’istruzione universitaria, alle associazioni sindacali degli autoproclamatisi “subalterni”

dell’università (sarebbe a dire tutti coloro che, non essendo professori ordinari e titolari di

cattedra, svolgevano attività scientifiche e mansioni didattiche all’interno degli atenei). Dopo i

congressi alla facoltà di Architettura della Sapienza (ancora basati su mozioni d’ordine

strettamente professionali e corporative che riproducevano, all’interno delle associazioni

studentesche tradizionali, pressoché le stesse dinamiche delle corporazioni baronali, basate su

criteri quasi di casta), nel 1962 erano cominciate le agitazioni nei politecnici di Milano e di Torino,

seguite nel 1963 dall’occupazione della maggior parte delle facoltà di architettura (Miozzi, 1993,

pp. 169-172). Ora non è certo questo il luogo nel quale indagare nello specifico ragioni collettive e

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motivazioni individuali che spingono alla mobilitazione e addirittura alla rivolta (Neveu, 2001),

tanto meno di quelle particolari che spinsero alla mobilitazione migliaia di studentesse e di

studenti nelle facoltà italiane; tuttavia va tenuto conto del fatto che le prime agitazioni erano

mosse esclusivamente da criteri professionali di salvaguardia del valore del titolo di studio, che

non avevano nulla di rivoluzionario, tutt’altro, e che solo alcuni anni dopo, quando la protesta si

diffonderà nelle facoltà di lettere e di scienze sociali, diventeranno un progetto compiuto di critica

complessiva all’istituzione universitaria, che scagliandosi contro l’ingiustizia dei rapporti sociali e di

produzione di tipo capitalistico e contro gli pseudo-valori e la “falsa ideologia” della società

borghese, arriverà a mettere in questione le nozioni di autorità, di cultura, e di “totalità”

(Balestrini, Moroni, 2003, pp 272-277).

Dopo le prime agitazioni, i movimenti studenteschi avevano cominciato un percorso di presa di

coscienza diffuso, pur se parziale, discontinuo ed altalenante, che si concretizzava nelle prime

pratiche di autogestione assembleare, di predisposizione di contro-corsi ispirati al principio

dell’autoproduzione dei saperi e della loro rilevanza sociale e politica, nelle continue manifestazioni

di rifiuto dell’autorità, intesa come pratica onnicomprensiva di dominio della società capitalistica

sull’individuo e soggettivizzata, all’interno degli atenei, nelle figure baronali dei professori ordinari,

nella maggior parte contenti del quieta non movere (Ippolito, 1978, p. 38) che assicurava loro

potere e prestigio. Cominciò un processo di socializzazione dell’università, i saperi accademici, le

conoscenze e l’uso sociale, produttivo e repressivo, di queste vennero sottoposti, in centinaia di

assemblee, a sistematica, originale decostruzione: veniva negato l’uso neutro della scienza, si

chiedeva un rinnovamento delle discipline, la questione universitaria era interpretata sulla base di

complessive considerazioni politiche e negli atenei risuonavano sempre più forti gli echi delle

rivolte all’Università della California di Berkeley, della questione nera e terzomondista sublimata

nella figura rivoluzionaria di Che Guevara, del Vietnam, e delle vicine grida dei cortei operai che

inneggiavano all’autonomia di classe (Balestrini Moroni, 2003, pp.226-223).

La figura dello studente venne politicizzata, in un senso probabilmente distorcente,

l’autorganizzazione militante cominciò a sostituirsi alle associazioni studentesche tradizionali con

orientamenti partitici (Ibidem, pp. 200-204; Froio, 1973, pp. 127-141), lo slogan della lotta di

classe cominciò a risuonare sempre più frequentemente nelle assemblee che si succedevano ormai

senza soluzione di continuità in sempre più numerosi atenei italiani (Miozzi, 1993, pp. 169-172).

La cultura ufficiale, i media, l’università, i saperi e la strutturazione degli ordinamenti, tutto

cominciò ad essere oggetto di contestazione, finanche il ruolo del soggetto sociale studentesco

all’interno dei processi di produzione e mercificazione di conoscenza. L’università veniva

individuata come uno strumento di manipolazione ideologica, culturale e politica, oltreché come

mezzo per la selezione di classe, che produceva subordinazione nei confronti del potere e

adattamento ai valori individualistico-competitivi e produttivistici della società capitalistica, in virtù

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della cooptazione della classe dirigente al potere. Rinnegando l’autoritarismo baronale ed il sapere

accademico, i movimenti rifiutavano la condizione di alienazione che veniva imposta dall’università

dello stato al servizio del capitale, la quale si sostanziava in un ruolo di studente-discente più o

meno passivo e sottoposto ad autorità multiple; ciò che si contestava era il ruolo delle istituzioni

universitarie, e scolastiche in generale, nella sedimentazione e nella gerarchizzazione dei rapporti

tra le classi, nonché la figura dello studente e dei soggetti sociali produttori di saperi all’interno

delle più complesse dinamiche di divisione ineguale del lavoro sociale (Balestrini, Moroni, 2003,

pp. 233-247).

Il processo di autovalorizzazione personale, posto come antagonista ed antitetico all’ideologia

capitalistica del “lavoro rende liberi”, passava innanzitutto per una riappropriazione culturale che

si materializzava nella socializzazione di spazi e tempi alternativi nelle università, nell’elaborazione

di pratiche collettive di produzione e consumo di conoscenza, nelle espropriazioni che

rivendicavano la gratuità della cultura, nella occupazione simbolica e materiale degli spazi lasciati

vuoti dalla didattica ufficiale. Appare significativo a fronte di quanto argomentato, il caso

dell’università di Trento, che diventerà uno degli emblemi della portata rivoluzionaria, e delle

conseguenze del movimento del sessantotto sull’università italiana, al pari della Cattolica e della

Statale di Milano nelle quali risuonavano le esortazioni di Mario Capanna, della Università degli

studi di Pisa egemonizzata da “Potere Operaio”, e della facoltà di Architettura della Sapienza

situata a Valle Giulia, dove avvenne la famigerata “battaglia” tra poliziotti e “studenti che non

scappavan più” (Ibidem, pp. 235-247), che avrebbe suscitato le contestatissime riflessioni

pasoliniane sulla natura piccolo-borghese del movimento studentesco.

L’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento era stato fondato nel 1962 e costituiva la

prima vera scuola strutturata di scienze sociali nel nostro paese, dove queste discipline non

avevano ancora conseguito particolare attenzione politica, né tanto meno il dovuto riconoscimento

scientifico e la relativa strutturazione all’interno degli ordinamenti di studio. Basterebbe leggere le

relazioni dei dibattiti circa la creazione di questo istituto universitario di tipo nuovo per capire la

contradditorietà e la complessità degli orientamenti politici che portarono alla sua fondazione.

Questa università era stata fortemente voluta dall’ala progressista della DC che, attraverso la

predisposizione di questi studi, intendeva contribuire ad indirizzare l’università italiana verso la

creazione di una nuova figura di “architetto del sociale”, che risultava particolarmente strategica

alle classi dirigenti in una fase di grande sviluppo industriale e di riorganizzazione economica e

produttiva, la quale produceva notevoli scompensi sociali e che non poteva più essere né

interpretata, né gestita dai dottori provenienti dalle facoltà di legge. Così, nell’università di Trento,

giunsero a sintesi compiuta le posizioni politiche dei cattolici e dei socialisti, i cui principi in

materia di istruzione avevano caratterizzato lo sviluppo storico degli atenei italiani attraverso le

leggi di riforma e i dibattiti parlamentari dei decenni precedenti, e che adesso trovavano una

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mediazione nelle politiche dei governi di centro-sinistra orientati, dal già ministro dell’istruzione

Aldo Moro,66 alla gestione della ristrutturazione neo capitalistica (Ibidem, pp. 204-205).

A proposito dell’istituto trentino, il quotidiano romano “Il Tempo” aveva scritto: “il

conseguimento della laurea in sociologia offrirà un solido stumento per la formazione della nuova

classe dirigente, adeguata ai tanti compiti di una società nella competizione internazionale”; altra

peculiarità di questa università fu che vi erano ammessi anche i diplomati degli istituti tecnici

(precedentemente accettati solo nelle facoltà di agraria e di economia e commercio). L’istituto

Superiore di Scienze Sociali svolse così un ruolo anticipatorio in merito alla liberalizzazione degli

accessi che avrebbe interessato qualche anno dopo, la quasi totalità delle facoltà italiane, e

cominciò ad attirare un gran numero di studenti di estrazione proletaria e di provenienza

meridionale che erano attirati dalle possibilità offerte da questa nuova scuola, dalle innovative

discipline che vi si impartivano e dai pionieristici metodi di studio sui quali quest’ultime erano

strutturate. In questo modo nella facoltà voluta dalle classi di governo per produrre saperi e

laureati funzionali al controllo sociale ed orientati ai poteri costituiti, cominciava a realizzarsi una

interazione tra studenti provenienti da classi sociali differenti e da percorsi di studio fino ad allora

alternativi, che diede luogo a fenomeni di sincretismo, di rielaborazione culturale e di

sperimentazione politica a dir poco originali, che segneranno in seguito la storia di tutto il sistema

universitario nazionale e del paese intero.

Dalla facoltà di sociologia di Trento usciranno Renato Curcio e Mara Cagol (che saranno tra i

futuri fondatori delle Brigate Rosse e che nel loro amore rivoluzionario esemplificheranno la

commistione tra studenti d’origine proletaria, lui, e borghese, lei, che si diceva caratterizzò

profondamente l’università trentina), e personaggi del calibro di Marco Boato e Mauro Rostagno. E

proprio a Trento, che doveva essere il fiore all’occhiello dell’università voluta dalle classi padronali

e dai partiti di governo, e dove doveva nascere la figura professionale che avrebbe dovuto

legittimare e gestire la riconfigurazione dei rapporti di produzione e dei conseguenziali rapporti di

potere nella società italiana, in una fase storica di transizione ed a fronte di uno scenario

economico e politico in continua trasformazione, cominciarono, dopo le “Tesi della Sapienza”,67 ad

avere luogo le più feconde e le più radicali sperimentazioni politico-culturali, antigovernative ed

anticapitalistiche della storia dell’università italiana. Fu nella facoltà di sociologia trentina che

continuò la destrutturazione del pensiero marxista ortodosso cominciata anni prima sulle pagine di

riviste come i “Quaderni Rossi”, i “Quaderni Piacentini”. “La classe”, e che attraverso una rilettura

del giovane Marx ispirata dalla “Scuola di Francoforte” degli Adorno, degli Horkeimmer e dei

Marcuse, dai testi di Lukacs, e dalle teorizzazioni della Kritische Deutsche Universitat,68

66 Una tavola completa dei Ministri della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana è contenuta nella parte finale del lavoro, all’interno della Appendice Cronologica. 67 Si veda Balestrini e Moroni al capitolo 4. 68 Idem.

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cominciarono ad essere auto-elaborate le concezioni politiche che avrebbero caratterizzato, in

seguito, le mobilitazioni studentesche nelle altre università italiane. Gli insegnamenti di Malcom X

e gli scritti di Mao e di Ortega y Gassat69 fecero il resto contribuendo alla nascita ed alla diffusione

dei contro-corsi, della contro-università, ed alla concettualizzazione di una vera e propria

“università negativa”, radicalmente alternativa e completamente speculare a quella ufficiale, le cui

peculiarità vennero esplicitate in una serie di documenti e volantini ciclostilati (Ibidem, pp. 206-

215).

Naturalmente l’esempio trentino non esaurisce, pur costituendone una parodia esemplare, il

panorama della contestazione studentesca del sessantotto (che sarà progenitrice di tutte le

mobilitazioni studentesche, da allora succedutesi a scadenza ciclica ed al primo apparire di

qualsivoglia progetto di riforma dell’università, anche se fondato e necessario), e l’insieme delle

conseguenze che questa comportò in merito alle trasformazioni epocali ed irreversibili prodotte nel

sistema universitario italiano. Ma proprio a Trento cominciò, nel 1966-67 (Miozzi, 1993, pp. 169-

172), quell’ondata contestataria che, attraverso il maggio francese alla Sorbonne, portò alla

prorompente ribellione sessantottina e all’ “autunno caldo” 1968-69, nel quale le rivendicazioni

studentesche si saldarono con la protesta operaia dando luogo, da allora in poi, ad un

quindicennio di contestazione, terminato con la “strategia della tensione” e con “gli anni di

piombo”, che avrebbero vigorosamente scosso le istituzioni democratiche italiane (Balestrini,

Moroni, 2003, pp. 278-348), senza peraltro riuscire a migliorare sensibilmente la situazione delle

nostre università anzi, soprattutto dal punto di vista dell’eccellenza scientifica e didattica e

dell’indipendenza degli atenei, paradossalmente peggiorandola.

Intanto, grazie all’accresciuta disponibilità a sostenere spese per l’educazione anche da parte

delle famiglie, il tasso della domanda sociale di istruzione era progressivamente aumentato70 e si

era consolidato, determinando un incremento generale della spesa per gli studi primari, secondari

e terziari sia da parte del capitale pubblico, che da parte di quello privato (Ortoleva, Revelli, 1993,

pp. 278-279). Tuttavia l’aumento della spesa non riusciva a far fronte alla, ed era

percentualmente inferiore della, crescita del numero degli studenti per cui, in mancanza di piani di

finanziamento di ampia portata e di lunga durata, e di misure legislative appropriate, il diritto allo

studio costituzionalmente garantito continuò ad essere una chimera accessibile a pochi fortunati

tra gli idonei, mentre mancavano quasi del tutto le “case dello studente”, le mense universitarie e

qualsiasi forma di reddito differenziato ed universale del tipo delle riduzioni per i trasporti pubblici

o la possibilità di fruizione gratuita di forme di cultura differenti da quella accademica, vedi

69 Lo scrittore citato produsse un saggio significativo che non sarebbe stato superato per intensità, circa la missione dell’università in quanto istituzione storico-sociale. 70 A questo proposito si prenda in considerazione lo studio elaborato sui “numeri” dell’università italiana e contenuto all’interno della Relazione della C.R.U.I. citata in bibliografia.

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mostre, musei, teatri, concerti, che pure facevano parte delle rivendicazioni dei gruppi più

avanzati del movimento studentesco.

All’inizio dell’anno accademico, nel 1968, con più della metà delle circa quaranta università

italiane di allora già occupate e con le attività didattiche completamente bloccate, a fronte di

nessuna iniziativa parlamentare o legislativa ad opera della classe politica, il numero degli studenti

universitari era praticamente raddoppiato, passando dalle 312.344 unità del 1962-63, alle

618.898 matricole del 1968-69 (Miozzi, 1993, pp. 169-174), fino ad arrivare a toccare la quota

record di un milione di iscritti dopo la “liberalizzazione degli accessi” ed i “provvedimenti urgenti”

del 1973, con conseguenze letteralmente destabilizzanti sulla struttura del sistema universitario,

nel quale determinerà delle vere e proprie metamorfosi: si pensi soltanto al fenomeno dei “mega-

atenei”, ossia delle prestigiose università pubbliche delle più grandi città italiane quali Milano,

Roma e Napoli, nelle quali l’aumento delle iscrizioni divenne un fenomeno talmente costante e

sproporzionato, cronico, da rendere implausibile lo svolgimento normale delle più elementari tra le

attività accademiche (come poter seguire le lezioni in un aula decente o fare esami che non si

protraessero per giorni a causa di liste di prenotati chilometriche e dello squilibrio assurdo ed

insostenibile nel rapporto studente/docente) e da necessitare successivamente lo smembramento

di questi stessi atenei, che darà luogo alla fondazione delle così definite “seconda università degli

studi”, in ognuna delle città sovramenzionate ed in altre ancora, senza contare gli altri istituti di

formazione universitaria di natura privata quivi presenti, come il celebre Istituto Universitario

Orientale di Napoli.

L’unica risposta politica che le classi dirigenti italiane seppero offrire a questi fenomeni di così

ampia portata fu quella della liberalizzazione dell’accesso all’università, decretata nel 1969 con la

Legge n. 910, che seguiva immediatamente la Legge n. 162 dell’aprile dello stesso anno, con la

quale era stato istituito il “pre-salario”, una sorta di assegno o borsa di studio, che non riuscirà,

però, da solo a surrogare la completa mancanza di piani e strutture nazionali o regionali che

garantissero il diritto allo studio in maniera generale, coerente ed efficace.

La liberalizzazione dei piani di studio era una misura già prevista nei tentativi di riforma che

avevano preceduto l’esplodere della contestazione sessantottina, ma era stata concepita come

uno dei tanti strumenti (strutturali, finanziari, didattico-disciplinari) che avrebbero potuto e dovuto

concorrere alla risoluzione dei problemi più urgenti degli atenei italiani. Invece, questa

liberalizzazione fu approntata in tutta fretta, per rimediare parzialmente alla debacle sessantottina

ed accontentare le rivendicazioni di natura più strettamente sindacale, riformista, e alla lunga

completamente controproducente. Fu assegnato illusoriamente all’università il compito di

contenere o addirittura livellare le disuguaglianze sociali, accogliendo al suo interno una massa

sempre più incombente di studenti d’ogni provenienza socio-economica e geografica, e di qualsiasi

ordinamento di studi superiori, e di qualsivoglia preparazione culturale ed atteggiamenti politici.

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Era chiaramente una funzione che le università non avrebbero potuto svolgere a fronte di un

sistema storico-sociale, all’interno del quale operavano, completamente gerarchizzato dai rapporti

capitalistici di classe, una utopia cui non avrebbero potuto dar seguito a meno di non trasformarsi

completamente ed abdicando progressivamente i compiti specifici di ricerca scientifica di qualità e

di preparazione d’eccellenza cui, altresì, avrebbero dovuto provvedere.

L’università di tutti (Valli, 1995), nella quale università di chiunque avrebbe potuto fruire

dell’istruzione ai massimi livelli ed in piena libertà, fu trasformata in libertà di redigere piani di

studio senza alcun criterio scientifico, fenomeno tanto più grave a fronte del valore legale del

titolo di studi che, ormai, perdeva completamente di senso in quanto ad adeguata certificazione

professionale del titolo in virtù dell’inserimento professionale.

Senza voler offrire in questo contesto una valutazione complessiva di risultati ottenuti dai

movimenti degli anni sessanta e, per estensione, degli anni settanta, bisogna dire che per quanto

riguarda le conseguenze che essi comportarono sul sistema universitario, gli esiti sono stati

contraddittori e le interpretazioni critiche decisamente contrastanti. Da un lato è innegabile

l’effetto di rinnovamento prodotto dai movimenti studenteschi nelle vecchie facoltà di

impostazione gentiliana, sottoposte al controllo baronale; dall’altro lato però, la spinta

democratizzante, progressista, rivoluzionaria delle assemblee e delle mobilitazioni, fu attutita,

ribaltata e completamente sussunta nel ventennio successivo nel quale la “università di massa”

diventerà la “università massificata”, come se l’ignoranza e la mediocrità fossero sinonimi di

eguaglianza, o di socialismo.

La crescente domanda di istruzione superiore era stata determinata dalle possibilità di mobilità

sociale che essa offriva in termini di migliore qualificazione sul mercato del lavoro, e di

raggiungimento, attraverso il conseguimento della laurea, di posizioni socio-economiche di

prestigio; ma è chiaro che, seppure gli atenei fossero riusciti a svolgere un’opera di livellamento

delle disuguaglianze sociali attraverso la disposizione generalizzata di istruzione superiore, e pur

mantenendo in vigore il valore legale del titolo di studi conseguito, a formalizzazione legislativa

dell’eguaglianza raggiunta, il mercato del lavoro, che non era illimitato e che era regolato da una

divisione del lavoro rigidamente gerarchizzata, speculare alle posizioni piramidali di potere

presenti in tutte le istituzioni e strutture sociali, non avrebbe mai potuto accogliere tutta la nuova

forza intellettuale prodotta, in maniera indifferenziata. Così, mentre la selezione di classe

continuava ad essere determinata e necessitata dall’insieme dei processi sociali di produzione,

l’università “libera, rossa e socialista” rimaneva una “torre d’avorio” virtuale nelle intenzioni dei

collettivi degli studenti. Del resto i processi di selezione continuarono pure all’interno delle

università, attraverso una serie di fenomeni eterogenei ma complementari. Innanzitutto, in

presenza di questo imperante egualitarismo, e in assenza di qualsivoglia tentativo di

diversificazione dell’offerta di istruzione superiore (Moscati, 2002) (che avrebbe consentito di

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indirizzare migliaia di studenti “disorientati” e poco motivati alla istruzione d’eccellenza verso corsi

di natura più immediatamente qualificante e più marcatamente professionale, ed avrebbe così

dispensato le università da molti compiti gravosi, permettendo altresì la buona qualità di ricerca e

insegnamento), cominciarono dei processi di selezione e di differenziazione interna, di

“specializzazione sociale delle facoltà” (Moscati, 1993, pp. 42-46), per cui esistevano discipline

“d’elite”, “discipline di massa” e “discipline rifugio”, mentre si accentuava il dualismo tra studi

scientifici (architettura, medicina, ingegneria), che rimanevano saldamente nelle mani dei

rispettivi ordini professionali per cui risultavano meno accessibili alla massa, e studi umanistici o di

altro genere (lettere, giurisprudenza, e in misura ancora maggiore i neo-predisposti studi di

scienze sociali e politiche) che altresì venivano progressivamente investiti da ondate di matricole

alla ricerca di “studi facili” attraverso i quali conseguire un titolo da poter spendere sul mercato

del lavoro (Ibidem, pp. 46-51). La domanda di istruzione universitaria, rivendicata come un vero e

proprio servizio sociale a carico dello stato, rendeva così intrinsecamente impossibile qualsiasi

forma di mobilità generalizzata, trasformando piuttosto le università in un parcheggio che

alimentava i fenomeni di “fuori-corsismo”, di “cambio di ateneo, facoltà o piano di studi”, di

“abbandono” degli atenei senza aver conseguito il titolo, e del resto, al contrarsi delle

disuguaglianze sociali, faceva riscontro un aumento dell’influenza del tipo di scuola superiore

frequentata (Ibidem, p. 115).

L’indebita pressione sulle istituzioni universitarie e la crescente diffusione di titoli di istruzione

terziaria provocheranno il fenomeno sempre più grave di “disoccupazione intellettuale”, da

intendere sia nel senso che il lavoro trovato corrispondeva sempre di meno alle aspirazioni

personali ed alle competenze acquisite con la laurea, sia nel senso di disoccupazione tout court

che alimentava alienazione, proteste e “fuga di cervelli”. Il sistema universitario nazionale entrò in

una crisi cronica, tradendo ripetutamente le proprie “missioni” di ricerca e di insegnamento

(Simone, 2003), una situazione che alimentata da politiche pubbliche in materia estemporanee, se

non addirittura dannose o inesistenti, condizionerà pesantemente lo sviluppo degli atenei nei

decenni precedenti.

Ancora, il fenomeno di massificazione dell’istruzione universitaria, che pure aveva interessato

tutti i paesi occidentali, aveva raggiunto dei livelli così destabilizzanti soltanto in Italia,

ciononostante il numero dei docenti rimaneva irrisorio, anche in virtù degli effetti della “legge

blocco”, emanata nel 1970 con il numero d’ordine 924 (Miozzi, 1993, p. 207), che aveva

completamente congelato le assunzioni di nuovi incaricati sine die. E nonostante le ripetute

proposte dell’istituzione di un unico ruolo di docente/ricercatore da suddividere magari in fasce in

base all’anzianità ed ai meriti, il panorama insegnanti rimaneva più che frastagliato, composto

com’era da figure scientifico-professionali completamente eterogenee ed incongruenti tra loro, che

lasciavano fuori dagli istituti molti validi ricercatori, che si basavano sul precariato imposto e sulla

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sudditanza introiettata nei confronti degli ordinari da parte di assistenti e subalterni, e che

prevedeva addirittura posizioni lavorative di incaricati “volontari”, giovani laureati che prestavano

la propria opera in maniera completamente gratuita e senza alcuna prospettiva stabile di

inserimento lavorativo.

Questi fenomeni diventeranno, insieme ad altre pratiche ancora più volgari che avrebbero

fatto scrivere di “mafia dell’università” (dal sistema di “raccomandazioni” più o meno diffuso, alla

compravendita di esami e titoli, ad altre scandalose pratiche di natura differente) (Froio, 1973;

1996; Simone,2003), peculiari del modello italiano di università e si trascineranno fino alle riforme

iniziate negli anni novanta del secolo scorso; le trasformazioni strutturali avvenute nelle università

nel ventennio che va dal 1967-68 all’anno accademico 1989-90, modificheranno dunque

profondamente le antiche istituzioni universitarie italiane (le quali pur avendo già attraversato

delle fasi di profondi rivolgimenti, avevano comunque mantenuto delle caratteristiche quasi

genetiche, si pensi all’elitismo) e daranno luogo ad un modello di sistema molto particolare o,

piuttosto, decisamente irrazionale, incongruente ed inefficace. I riformatori dei decenni scorsi, nel

mettere mano alla risoluzione della questione universitaria, avrebbero dovuto tener conto

dell’insieme dei processi e dei fenomeni si qui descritti, e della particolare condizione di disagio in

cui versavano gli atenei italiani.

Il ventennio sessantanove- ottantanove, dal punto di vista legislativo, non presentò invece

novità di rilievo e continuò ad essere caratterizzato da un sostanziale immobilismo e dalla

cosiddetta “strategia del ritocco”: ogni testo di legge, piuttosto che porsi come un progetto di

ampia portata e lunga durata, si rifaceva alle disposizioni dei testi precedenti che tentava di

migliorare, emendare o approfondire, evitando però di entrare nel merito di questioni importanti;

ogni decreto iniziava con l’elenco/citazione di tutta la legislazione precedente sull’istruzione, fino

ad arrivare a menzionare di continuo l’unica opera sistematica da poter prendere in

considerazione, ossia il Testo Unico del 1993. Ed ogni provvedimento veniva passato come un

provvedimento urgente e temporaneo in attesa di una sempre prossima e mai attuale riforma

complessiva del sistema universitario e di quello dell’istruzione in generale, dal momento che un

altro effetto della liberalizzazione dei piani di studio fu quello di rendere necessaria una

ristrutturazione complessiva degli istituti di istruzione secondaria affinché tutti indistintamente

fossero in grado di provvedere ad una preparazione universitaria adeguata.

I “provvedimenti urgenti” del 1973 furono una misura di tal genere e per questo, pur

prevedendo un buon numero di novità, rimasero sostanzialmente inattuati non riuscendo ad

incidere, se non in minima parte, in merito ad alcuni dei problemi fondamentali dell’università

italiana, che si protrarranno irrisolti, alcuni fino ai nostri tempi. Prima dei provvedimenti urgenti

c’era stata la presentazione, subito dopo l’esplodere della contestazione studentesca, del Disegno

di Legge n. 612, portato in senato dal ministro Ferrari Aggradi il 17 aprile 1969, che, al solito, era

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caduto nel dimenticatoio sul finire anticipato della V legislatura causata dalle imminenti elezioni

per la Presidenza della repubblica. Paradossalmente (si consideri che in quegli stessi anni

venivano redatti quei testi di legge che passeranno alla storia come “decreti delegati” e che

tenteranno, riuscendo nell’intento, una parziale democratizzazione degli organi rappresentativi e

collegiali di gestione degli istituti di istruzione superiore), nelle misure contenute nel Decreto

Legislativo n. 580/1973 di cui fu relatore in Parlamento il ministro Malfatti, si deve registrare una

disattenzione quasi totale nei confronti delle problematiche studentesche, che diventeranno le

grandi questioni assenti da qualsiasi progetto riformista.

Per quanto riguardava la docenza invece, una certa presa in considerazione era dimostrata dal

fatto, altrettanto paradossale e significativo della qualità dell’azione politica in materia di

istruzione universitaria di quegli anni, che nel testo di legge non si dicesse nulla rispetto alla

titolarità della cattedra, e nulla su dottorato di ricerca, attività scientifica e sperimentazione

didattica, per non turbare interessi costituiti. Di relativamente considerevole c’erano le intenzioni

di una maggiore attenzione ai rapporti tra università, sistema produttivo, mondo del lavoro ed

attività economiche in generale, nonché un accenno alla sempre più evidente dimensione europea

ed internazionale che andava assumendo l’istruzione superiore e quella universitaria nello

specifico (C.R.U.I., 2003). Sebbene anche sui provvedimenti del 1973 esistano delle

interpretazioni sostanzialmente discordanti in seno alla letteratura presa in considerazione,

l’elemento quasi del tutto positivo, almeno per certi aspetti, è la disposizione a favore della

costituzione di nuove sedi universitarie, per accogliere l’accresciuto numero di studenti e

dispensare parzialmente i mega-atenei da un compito di gestione e di formazione che i numeri

rendevano ormai impossibile. Da quel momento in tutte le città della provincia italiana

cominceranno ad essere costruite sede universitarie, come succursali distaccate di atenei più

prestigiosi o come istituzioni del tutto nuove e completamente indipendenti, che riusciranno però

solo parzialmente a limitare il fenomeno dei “fuori sede”, e che spesso rappresenteranno solo dei

casi di enorme spreco di risorse pubbliche, patrocinati da qualche ente regionale e da qualche

notabile locale, non disponendo di fondi sufficienti, ordinamenti adeguati ed insegnanti prestigiosi

per provvedere ad una adeguata preparazione terziaria, d’eccellenza e qualificante.

Si può a questo punto sostenere che il fallimento complessivo della riforma universitaria negli

anni Sessanta e Settanta, abbia rappresentato la perdita di una opportunità di portata storica per

l’università italiana, costretta da allora in una situazione di incongruenza interna e di ritardo

strutturale nei confronti degli altri paesi europei ed occidentali che, nei decenni successivi,

comporteranno delle conseguenze disastrose per la ricerca scientifica del nostro paese in termini

di risultati, brevetti e pubblicazioni. Mentre nel resto dell’Europa occidentale il sistema di

istruzione veniva diversificato, con il preciso scopo di rispondere alla pressione della domanda,

attrezzandosi alla massificazione dei processi educativi attraverso l’allargamento dell’offerta con la

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costituzione di istituzioni post-secondarie non universitarie, spesso a carattere regionale o locale e

con funzioni strettamente professionalizzanti e di qualificazione, in Italia, invece, si lasciavano

invariate le caratteristiche organizzative e strutturali del sistema di istruzione superiore.

Per tutti gli anni Settanta ed Ottanta, l’argomento fondamentale di dibattito, il principale

problema per la classe politica in materia di istruzione universitaria (dal momento che le frange di

movimento studentesco non assorbite o cooptate nelle classi dirigenti dei partiti erano state

disperse dalle espulsioni, dai manganelli e dalle procedure speciali) fu rappresentato dalla

questione della docenza, sulla quale il legislatore tentò di intervenire in tempi e con modalità

differenti (Miozzi 1993, pp265-285), anche a causa del continuo rinvio dell’attuazione delle

disposizioni del ministro Malfatti che aveva decretato, a suo tempo, la riapertura dei concorsi

universitari. Solo la prima tranche di quei concorsi durerà quasi un decennio, e servirà a

stabilizzare le differenti ed innumerevoli posizioni lavorative che si erano venute a creare in seno

alla docenza universitaria, provvedendo così ad immettere in ruolo vecchi assistenti e

“portaborse”, piuttosto che nuovi docenti e giovani ricercatori.

Nel 1978, con il Decreto Legislativo n. 691, l’allora ministro Pedini si incaricò di prorogare ad

interim la posizione dei precari. Naturalmente, il problema della docenza riguardava tutta una

serie di aspetti fondamentali in merito alla particolare caratterizzazione giuridica che la figura del

professore universitario assumeva nel nostro paese, e sulle conseguenze positive e negative che

comportavano nell’università, gli usi legittimi o distorti delle libertà di insegnamento e di

professione scientifica, dell’inamovibilità, etc., ma non appare questa la sede per sviscerare

queste argomentazioni. Rimandando ad una già corposa letteratura sull’argomento, ci si limiterà a

sottolineare la centralità della “questione docente” all’interno dei più complessivi problemi

dell’università. Del resto il ceto accademico svolgerà un ruolo fondamentale nei processi di

trasformazione dell’università italiana, inibendoli, alterandoli o talvolta favorendoli attraverso il

sostegno garantito a taluni progetti di riforma universitaria.

Va ancora segnala la cosiddetta “bozza Cervone”, che si proporrà come una misura

complementare ai decreti Pedini e che permetterà qualche anno più tardi la predisposizione del

primo maxi-concorso nella storia dell’università italiana per l’accesso alla docenza (Miozzi, 1993,

pp. 282.285) e, nel 1979, la istituzione del Consiglio Universitario Nazionale, attraverso la Legge

n. 31; ma la fretta per fine imminente della legislatura ed i richiami continui al “principio del

precedente” (Miozzi, 1993, p. 230) fecero si che quest’organismo, che pure avrebbe dovuto

rappresentare l’autonomia degli atenei in sede ministeriale e su di argomenti di interesse

nazionale, superando la pratica di gestione clientelare degli interessi dei vari settori disciplinari,

che era demandata precedentemente alla capacità di negoziazione delle autorità accademiche con

il centro del sistema, fosse declinato come un istituto di carattere meramente consultivo, per nulla

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somigliante ad una struttura autonoma di governo o quantomeno di coordinamento del sistema

universitario nel suo complesso ed a tutela dell’autonomia delle singole sedi.

Prima di concludere la trattazione di questo paragrafo, bisogna ancora spendere qualche

parola sul DPR 382 del 1980, un decreto delegato. Per quanto riguarda l’insieme delle questioni

universitarie, neanche a parlarne, ancora una volta come recita il testo di una celebre canzone

francese, rien de rien, né tanto meno si affrontarono e risolsero alcuni tra gli argomenti che pure

erano stati proposti al dibattito durante la predisposizione di decreti precedenti a questo. Ma il

DPR 382, intitolato addirittura con il nome altisonante e rischiato, fino ad allora, poco

frequentemente di “La riforma universitaria” riveste una importanza fondamentale in quanto ad

inquadramento complessivo delle attività di docenza, ottenuto attraverso una sistematizzazione

precisa e minuziosa, anche se non per forza organica e sufficientemente coerente, di tutte le

figure professionali, di ruolo o più o meno precarie, occupate negli atenei italiani a svolgere

attività didattiche e di ricerca scientifica. Senza entrare in questioni troppo specifiche per questa

ricerca, basterà ricordare che nel capo 1, intitolato “Nuovo assetto della docenza universitaria,

istituzioni del ruolo dei ricercatori e piano di sviluppo”, l’articolo 1 riveste un’importanza primaria

in quanto statuisce la tripartizione dei docenti universitari in “professori straordinari, ordinari ed

associati”, disponendo che i sovramenzionati docenti adempiano “ai compiti didattici nei corsi

laurea, nei corsi di diploma, nelle scuole speciali e nelle scuole di specializzazione e

perfezionamento” ed assicurando, contemporaneamente, la “unitarietà della funzione docente”

all’interno della quale “la distinzione dei compiti e delle responsabilità dei professori ordinari e di

quelli associati”, ed il loro inquadramento in due distinte fasce, risulta essere di carattere

strettamente “funzionale – prevedendo – uguale garanzia di libertà didattica e di ricerca”.

Sempre l’articolo 1 statuisce al comma 4 la possibilità che le università chiamino a cooperare,

allo svolgimento delle attività didattiche da esse offerte, dei “professori a contratto”, mentre al

quinto comma, finalmente dopo anni di lavoro di ricerca svolto nell’ombra e senza alcun

riconoscimento professionale, veniva dunque disposta l’istituzione del “ruolo dei ricercatori

universitari” e, contemporaneamente, il divieto che le università conferissero “incarichi di

insegnamento”. La portata di questo ultimo comma, così come quella dell’intero articolo, rendono

l’importanza del DPR 382 in merito alle questioni della docenza, ed a quelle più generali della

strutturazione delle attività didattiche e di ricerca e della configurazione delle caratteristiche

ordinamentali delle singole facoltà. In particolare il quinto comma, impedendo il conferimento di

incarichi didattici, eliminò il grimaldello attraverso il quale, nel pieno rispetto della legge, erano

stati immessi nel corso degli anni, all’interno dei ranghi dei docenti universitari, centinaia di

assistenti (prescelti spesso in base alla disponibilità all’anonimato ed al servilismo nei confronti

degli ordinari, piuttosto che per reali capacità scientifiche) che avevano così occluso attraverso il

sistema della cooptazione qualsiasi canale per l’accesso ai ruoli della docenza; inoltre istituendo

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finalmente il ruolo di ricercatore universitario, pareva che il legislatore italiano volesse finalmente

mettere l’università al passo con i sistemi di istruzione terziaria degli altri paesi europei che erano

già stati interessati da profondi processi di riforma e ristrutturazione.

Soprattutto, il ruolo di ricercatore, permetterà di cominciare percorsi di ricerca scientifica ed

avvierà al primo gradino della carriera accademica molti giovani e validi studiosi che saranno

finalmente selezionati in base a pubblicazioni, esami giudicati da commissioni nazionali, e

presentazione di validi progetti di ricerca e programmi di studio. Attraverso questa misura, pur

con tutte le contraddizioni proprie del sistema universitario italiano ed a fronte di una cronica

mancanza di fondi che renderà spesso irrisori gli sforzi di sperimentazione di molti dipartimenti, si

tenterà comunque di colmare il gap con le altre istituzioni universitarie europee in termini di

capacità di produrre validi progetti di “ricerca di base” e “applicata”, anche grazie ad una più

stretta collaborazione con gli “istituti extra-universitari” di ricerca e con il Consiglio Nazionale delle

Ricerche. Inoltre, il decreto delegato del 1980, emanato in base alla Legge di delega n. 28 del 21

febbraio dello stesso anno, istituì, al fine, i dipartimenti, le strutture policattedratiche di

coordinamento delle attività didattiche e di indirizzo della ricerca scientifica, anche se bisogna dire

che le mansioni di questa nuova struttura furono fortemente limitate, per non destabilizzare

troppo l’equilibrio di poteri interno alle facoltà, sia rispetto alle reali necessità operative delle

università italiane agli inizi degli anni Ottanta, sia addirittura rispetto ai disegni di legge ed ai

progetti di riforma predisposti e naufragati negli anni precedenti. Quella della riproposizione,

smussata delle più significative innovazioni e per di più negoziata al ribasso, di proposte legislative

precedentemente scartate o respinte, sulle quali trovare poi degli “accordi-quadro o

programmatici”, era del resto già diventata una prassi infelice della storia parlamentare italiana in

merito alle questioni riguardanti la scuola e l’università, tant’è che spesso gli stessi movimenti

studenteschi e le forze più progressiste dello schieramento politico avevano accettato, in questo

senso delle riforme farsa: si prenda solo in considerazione la bocciatura palese che ricevette il

disegno di legge 2314 nel 1967 per le ragioni di cui si è detto, mentre, solo qualche anno più

tardi, ci si sarebbe trovati a combattere per difendere in chiave strettamente corporativa alcune

garanzie previste dalle liberalizzazioni del 1969 e per gestire, in questo modo, la miniriforma del

1973, sostanziatasi nei provvedimenti urgenti predisposti dal ministro Malfatti.

Tuttavia va ancora precisato che i dipartimenti furono istituiti solo in via sperimentale e

facoltativa (C:R.U.I., 2001), ed in mancanza di fondi adeguati da destinare alla ricerca, e che

finirono per sovrapporsi, senza sostituirvisi né integrarsi armonicamente, alle strutture di facoltà

generando ulteriori elementi di confusione, irrazionalità ed ingestibilità degli atenei ed

approfondendo quello che alcuni hanno definito il fenomeno del “non comando” (Simone, 2003)

all’interno degli atenei, rendendo più difficile, burocratico e complicato il percorso di qualsiasi

decisione in merito alla organizzazione didattica e scientifica degli atenei ed andandosi a sommare

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al “bicameralismo imperfetto” già esistente tra le funzioni svolte dai Consigli di amministrazione e

quelle proprie dei Senati accademici. Ma, ad ogni modo, si può affermare che, almeno sul preciso

argomento delle attività didattiche e di ricerca, il DPR 382 costituisce una tappa di passaggio

fondamentale verso il riordinamento complessivo degli studi e verso quella ristrutturazione globale

delle università la quale, informata al principio dell’autonomia universitaria ed improntata a

conseguire i propositi del Costituente rimasti a lungo inattuati, comincerà con il disegno di riforma

Ruberti del 1989 per concludersi solo nella scorsa legislatura.

Il processo di autonomia nell’università italiana e le dinamiche di costituzione del sistema

universitario europeo

Per una ragione ben precisa e fino a questo punto della trattazione, i termini di università,

sistema universitario, istruzione terziaria, sono stati utilizzati come dei sinonimi, pur mantenendo

la loro peculiare accezione semantica e concettuale; a prescindere da una motivazione di carattere

strettamente epistemologico, nel senso che questi termini venivano utilizzati in maniera

indifferenziata prima che si sviluppasse un settore di studi specifico sull’higher education (Altbach,

2000), la giustificazione di questa scelta è supportata dal fatto che, effettivamente, l’università

italiana ha svolto negli scorsi decenni compiti poliedrici ed eterogenei, provvedendo come unica

istituzione sociale a ciò deputata, a svolgere un’insieme di mansioni che, negli altri paesi europei,

venivano progressivamente delegati a strutture formative di genere differente.

I fenomeni di estensione della domanda e dell’offerta di istruzione avevano interessato tutti i

paesi occidentali, seppur in misura minore e senza la peculiare radicalità espressa dai movimenti

studenteschi italiani e, soprattutto, a fronte del fatto che in nessun altro paese europeo era

previsto un diritto indifferenziato e soggettivo all’istruzione universitaria, come avveniva nel

nostro a causa del disposto costituzionale in materia. Negli altri stati europei però, la risposta delle

classi dirigenti a questi processi di ampliamento delle immatricolazioni era stata maggiormente

tempestiva ed appropriata per cui quasi dovunque, in Germania, in Francia (dove pure erano

scoppiate le contestazioni del famoso “maggio parigino”), in Gran Bretagna, erano state

predisposte delle riforme universitarie che da un lato avevano esteso e diversificato l’offerta

didattica e formativa permettendo l’assorbimento della domanda crescente, e dall’altro avevano

contribuito a salvaguardare dei particolari curricula disciplinari, ovvero determinati centri

universitari e di ricerca specialistici volti a preservare l’eccellenza negli studi. Queste riforme

avevano permesso di calibrare meglio l’offerta formativa e di diversificare i rispettivi sistemi di

istruzione, sia in base alle fonti ed ai metodi di finanziamento, sia in merito alle attività didattiche,

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sia rispetto agli scopi ed al prodotto complessivo delle differenti istituzioni e strutture deputate

alla formazione terziaria ed alla istruzione d’eccellenza.71

Una breve digressione sulla storia delle riforme nei tre principali paesi europei presi in

considerazione (e di cui si era già detto nei capitoli precedenti per quanto riguardava i differenti

modelli di università storicamente affermativisi e le particolari concezioni filosofiche, scientifiche

ed educative a quelle sottesi), ed un accenno a quello americano, permetteranno di cogliere

similitudini e differenze tra i modelli di università, al fine di evidenziare degli assi di convergenza

lungo i quali si stanno muovendo tutte le università europee contemporanee, italiane comprese.

Sarà così possibile, inoltre, rendere conto della natura globale e della portata internazionale dei

processi di riforma che hanno interessato le università italiane nei quindici anni scorsi, sui quali

esistono interpretazioni critiche differenti se non contrastanti, ed i cui esiti complessivi sono

ancora tutti da valutare.

In Gran Bretagna già nel 1961 si contavano, oltre alle venticinque università tra le quali le

antiche e nobilissime Oxford e Cambridge, 140 Teacher Training Colleges (istituti addetti alla

formazione professionale per l’insegnamento) e ben 80 Advanced further education Colleges,

istituti di istruzione post-secondaria dai caratteri più dimessi di quella propriamente universitaria

deputati all’insegnamento di materie ad alto profilo professionale (Williams, 1996, p. 153), che

permettesse agli studenti che li frequentavano di conseguire una precisa, pur se modesta qualifica

professionale, una sorta di abilitazione ad un qualsivoglia lavoro o impiego, pratico ed ordinario

che fosse, per avere accesso immediato al mercato del lavoro (Are, 2002, p. 39). Nel 1963 una

Commissione Reale nominata per indagare e risolvere i problemi dell’istruzione superiore,

produsse il famoso “Robbins Report”, il quale riconfigurò, strutturandolo in un tutt’uno organico, il

sistema di istruzione terziaria (Williams, 1996, pp. 159-168); vennero formalmente sancite le

differenze di natura e di struttura tra le Universities, ancora tutte votate ai principi newtoniani-

arnoldiani della riforma di un secolo prima, ed i Polytechnics, che dovevano servire ad assorbire

l’aumento indiscriminato della domanda di istruzione e a favorire lo sviluppo economico fornendo

tecnici sempre più specializzati.

Secondo il principio di “diversi ma eguali”, queste due istituzioni eterogenee furono integrate

in un sistema di formazione superiore complessivo, e le università vere e proprie, e cinque o sei

tra queste in particolar modo, mantennero un carattere inflessibile e spietatamente elitario, anche

a causa delle tasse elevate richieste agli studenti, volte com’erano alla formazione esclusiva per la

selezione della classe dirigente (Are, 2002, pp. 57-60). Pur non essendo entusiasti di questa rigida

separazione, bisogna altresì sostenere che questa differenziazione funzionale cominciò a dare i

suoi effetti positivi e, soprattutto, seppe preparare il sistema universitario britannico ad affrontare

le sfide poste dai profondi cambiamenti della struttura economica internazionale avvenuti a partire

71 Si veda Appendice Statistica, Tabella n. 1.

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dagli anni Ottanta, quando nei paesi occidentali cominciarono a verificarsi profonde ristrutturazioni

produttive, complessi processi di terziarizzazione, e rivoluzionarie trasformazioni tecnologiche che

avrebbero condotto ad una progressiva informatizzazione delle attività economiche. I Polytechnics

fornivano tecnici specializzati e manodopera cognitiva a basso costo e con livelli di qualificazione

media, mentre le Universities provvedevano, con ingenti finanziamenti statali e con la

partecipazione di cospicue donazioni private, con o senza scopo di profitto, ad assicurare la

conduzione di progetti scientifici qualitativamente avanzati e, contrariamente a quanto si potrebbe

credere, riuscendo addirittura a coltivare studi umanistici di ottimo livello, informati alla pratica

della “liberal education” (Schiesaro, 2001, pp. 45-50).

Secondo il principio del “more will mean worse” (Maitlis, 2001, p. 14) venne prevista una

ulteriore differenziazione per cui non si pretendeva che tutti gli studenti giungessero ad un livello

massimo ed indifferenziato di istruzione: nei Polytechnics i corsi erano di durata biennale o

triennale, in alcuni casi anche solo di un anno grazie alla scansione modulare e semestrale degli

insegnamenti tipica dei sistemi anglosassoni, e prevedevano al massimo un ulteriore master di

specializzazione esterna dopo il conseguimento del diploma. Dal canto loro, i corsi universitari

propriamente detti, erano differenziati in undergraduate, della durata di tre anni e che conferivano

il titolo di bachelor, e post-graduate, della durata di altri due anni che conferivano il master, il

titolo universitario per eccellenza equipollente alla nostra laurea del vecchio ordinamento,

quadriennale o quinquennale che fosse. Dopo questa attenta differenziazione e questa precisa

selezione, i migliori ingegni venivano destinati alla ricerca scientifica attraverso programmi di

studio di PhD, un prototipo di quello che sarebbe stato il nostro dottorato di ricerca (Ibidem, pp.

9-11). Il Dipartimento per l’Educazione concedeva l’autorizzazione a conferire le qualifiche alle

singole istituzioni universitarie ma il titolo non aveva valore legale e serviva solo come

attestazione scientifica o professionale delle competenze possedute e delle capacità acquisite (Are,

2002, pp. 57-60).

Negli anni Ottanta il sistema britannico di istruzione terziaria fu nuovamente riformato; nel

1979 era stato eletto il governo conservatore guidato da Mrs Thatcher, lo stato sociale era stato

completamente stravolto, molti i servizi privatizzati, e conseguentemente anche l’istruzione

universitaria avrebbe subito un forte decremento dei finanziamenti pubblici. Nel 1980 la Society

for Research into Higher Education (il fatto che si assegnasse ad una agenzia privata un compito

del genere è significativo della crescente privatizzazione del sistema universitario a tutti i livelli),

coadiuvata dal consorzio finanziario pubblico-privato Leverhulme, fu incaricata dal governo di sua

maestà la Regina di predisporre le linee guida di una ulteriore riforma dell’istruzione superiore; le

linee guida che ispirarono questo progetto erano quelle di un innalzamento complessivo e

progressivo delle tasse degli studenti e della percentuale del contributo delle famiglie rispetto al

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totale delle entrate;72 un migliore coordinamento con, e soprattutto, un incremento del contributo

del capitale privato a sostegno delle università e soprattutto della ricerca scientifica;

l’equiparazione sostanziale di Uiversities, Polytechnics e Colleges, e l’accrescimento delle rispettive

capacità di offerta formativa per rispondere positivamente alle mutevoli istanze in campo

accademico, scientifico, economico, industriale e socio-culturale (Williams, 1996, pp. 153-217).

Tutto ciò avrebbe imposto una revisione completa dei rapporti di tenure tra docenti ed

istituzioni accademiche e, soprattutto, avrebbe condotto alla creazione di organismi locali e

nazionali di valutazione e controllo delle attività didattiche e di ricerca: è il caso della Quality

Assurance Agency for Higher Education, organismo nazionale indipendente che valuta la giustezza

e l’efficacia delle ripartizioni tra i fondi di finanziamento di origine pubblica alle università,

assegnati in base alla efficienza nella spesa delle risorse disponibili e della effettiva produttività di

saperi e laureati da parte delle istituzioni universitarie; quest’organismo, proprio dei sistemi

educativi statunitense e britannico, rappresenterà un modello al quale andranno uniformandosi,

successivamente, tutti i sistemi universitari europei. Esso assicurava, contrariamente a quanto

avveniva in Italia dove i finanziamenti erano concessi in base a piani di spesa predefiniti (spesso

determinati più dalla capacità di negoziazione di singoli rettori e politici locali, piuttosto che da

mere ragioni scientifiche e da criteri economico-amministrativi), che non prevedevano alcun

controllo né durante né alla fine delle attività svolte dagli atenei e che causavano sovente l’uso

sconsiderato delle poche risorse disponibili, una indipendenza di fatto delle università nello

svolgimento delle proprie mansioni, ed una valutazione qualitativa e quantitativa ad opera di un

organismo terzo, in base alle cui indicazioni venivano poi riformulati i finanziamenti. Bisogna dire

però che, pur producendo un circolo virtuoso tra efficienza delle università e raggiungimento di

risultati eccellenti in termini didattici e di ricerca scientifica (vedi brevetti, pubblicazioni,

investimenti privati), queste misure velocizzarono i fenomeni di iper-specializzazione e

mercificazione della produzione di saperi, alimentando oltremisura la competitività interna del

sistema determinata dagli atenei in lotta tra loro a caccia di fondi, tant’è che i riformatori

britannici contemporanei pare stiano indirizzando le loro università lungo un percorso di

cambiamento dai connotati meno privatistici ed impresarizzanti.

Ancora qualche riga per menzionare il fatto che l’insieme dei processi di privatizzazione

avvenuti in Gran Bretagna all’inizio degli anni Ottanta, ha dato luogo, contemporaneamente alla

creazione dello University Grant Committe (Williams, 1996, p. 16), alla partenza dei programmi di

“Research Assessment Exercise”, con i quali sono state monitorate le attività di ricerca

universitarie ed extra-universitarie britanniche, attraverso inchieste condotte a distanza di cinque

anni l’una dall’altra (Harley, Lee, 1997, pp. 1427-1460). Possiamo concludere il discorso

sull’università britannica affermando che alcuni strumenti caratteristici di quel sistema di

72 Appendice Statistica, Tabella n. 2.

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istruzione, sono stati presi in prestito e variamente ri-declinati in molti paesi occidentali (Italia

compresa) e non solo, e che alcuni di questi come il sistema dei crediti (inteso come strumento di

valutazione quantitativa del prodotto di un singolo studente, di un corso come di un ateneo), sono

stati messi alla base della costruzione del sistema europeo di istruzione superiore.

Il sistema di istruzione terziaria francese era stato da sempre caratterizzato da una accentuata

natura pubblica e statuale, la quale non prevedeva forma alcuna di decentralizzazione, per cui

tutto faceva capo al ministro in carica; tuttavia, nonostante questa configurazione originaria le

università francesi, nel corso degli scorsi sessanta anni, hanno saputo modernizzarsi ed adattarsi

ai cambiamenti che le hanno interessate, riuscendo pure a conservare le migliori tradizioni

accademiche (Staropoli, 1996, p. 1). Si era pure già detto che, sin dal diciannovesimo secolo, le

università (nonostante ed anzi a causa della loro antica tradizione intrisa sì di universalismo ma

pure troppo di confessionalismo) non erano state le sole istituzioni a provvedere all’istruzione

terziaria, progressivamente affiancate (ed in qualche caso sostituite) dalle accademie che

garantivano la formazione scientifica, tecnica, professionale e finanche militare, e dalle Grande

École, le quali avevano in pratica monopolizzato la funzione di formazione delle élite e delle classi

dirigenti, ed i cui specialissimi metodi di selezione permettevano allo stato francese di poter

contare sempre su risorse intellettuali ed umane privilegiate, accuratamente scelte, per la

gestione dei ruoli più difficili in ogni attività, processo o istituzione economica, sociale, politica e

culturale (Are 2002, pp. 49-57).

Due elementi caratteristici, ed in questo del tutto simili alla configurazione del sistema

universitario italiano, erano in primo luogo la quasi completa provenienza governativa dei

finanziamenti, un rigido controllo ministeriale, peraltro inefficace e (come da noi) manchevole di

ogni seppur minima valutazione finale delle attività delle università, ed in secondo luogo il valore

legale del titolo di studi, strenuamente difeso dalla classe docente prima ancora che dalle

mobilitazioni studentesche del “sessantotto” e dintorni, anche queste ultime, del resto, molto

simili a quelle avvenute in Italia per composizione socio-culturale, parole d’ordine ed intendimenti.

Una peculiarità del sistema francese, derivante dalla storica differenziazione tra università,

deputate principalmente all’insegnamento, ed istituzioni di altro genere, è costituita dall’esistenza

di una separazione abbastanza netta (contrariamente al caso italiano) tra canale formativo e

canale della ricerca scientifica (Staropoli, 1996, pp. 6-15), cui addirittura provvedono due dicasteri

differenti, anche se spesso tenuti insieme nell’ambito di un ministero affidato in carica ad una

singola persona.

Ferma restando la differenza di istituzioni di cui si è detto, gli studi universitari e terziari

francesi assumono anche una configurazione “pluri-livello”:73 se il baccalauréat è l’equivalente del

diploma di licenza superiore italiano e, solo, consente l’iscrizione a tutte le università ed a

73 Ibidem, Tabella n. 3.

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qualunque facoltà, il DEUG (Diploma di Studi Universitari Generale) costituisce il primo titolo

accademico, che conclude il primo ciclo e si consegue dopo tre anni di corso. Il secondo ciclo di

studi è diviso in due anni, al termine del primo si riceve la licence, mentre al termine del secondo

si ottiene la maitrise, che a grandi linee equivale alla vecchia laurea italiana. Il terzo ciclo di studi

conduce al DEA (titolo ottenibile dopo un ulteriore anno di studi e fondamentale pre-requisito per

la tesi di dottorato) e al DESS (Diploma di Studi Specializzati, della durata di un ulteriore triennio)

(Ibidem, pp. 16-26). Concludiamo la riflessione sul sistema di formazione post-secondaria

francese menzionando che gli istituti di istruzione godono di una certa autonomia affermata dalle

disposizioni contenute in una legge del 1984, un’autonomia, però quella francese di grado minore

e significato differente di quella prevista dal nostro legislatore costituente, e ricordando che le

università francesi sono state tra le principali protagoniste del processo di costruzione di un

sistema universitario europeo.

E prima di passare al caso tedesco bisogna ancora dire che, a partire dagli anni Ottanta del

secolo scorso, anche le università francesi, al pari di quelle britanniche e contrariamente agli

atenei italiani, cominceranno un complesso percorso di trasformazione che si sarebbe sviluppato

intorno a tre direttrici fondamentali: l’approfondimento delle relazioni tra insegnamento superiore,

processi produttivi e mercato del lavoro; la politica di delocalizzazione e regionalizzazione

dell’istruzione universitaria, per decongestionare gli atenei parigini e diversificare l’offerta

formativa a seconda delle esigenze del territorio; l’implementazione del processo di valutazione

delle attività universitarie attraverso la creazione del Comitato Nazionale di Valutazione (Ibidem,

pp. 36-47).

La storia delle riforme che hanno caratterizzato il sistema universitario tedesco negli ultimi

cinquant’anni è molto particolare anche a causa di precondizioni storico- sociali e politico-culturali

proprie soltanto di questo modello universitario. Ẻ stata già descritta precedentemente la natura

“humboldtiana” e la vocazione alla libera ricerca delle verità scientifiche che aveva caratterizzato

le istituzioni universitarie tedesche sin dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, e che era

stata presa a modello in numerosi paesi occidentali, primo fra tutti gli Stati Uniti che avrebbero

riadattato quei nobili principi alla particolare natura strumentale delle proprie istituzioni di

formazione terziaria (La Palombara, 1991, pp. 74-108). La natura classicheggiante, d’eccellenza,

umanistico-liberale di questo modello era stata volgarizzata dai programmi scientifici nazisti e

squalificata dalle massicce adesioni al regime registrate tra gli accademici, contrariamente a

quanto avvenuto negli stessi anni nelle facoltà italiane, per cui, la prima grande riforma

dell’università tedesca fu la ricostruzione, parimenti a quanto avveniva a tutte le altre strutture ed

istituzioni sociali logorate e distrutte prima, durante e dopo, il secondo conflitto bellico mondiale.

Insieme alla natura eminentemente pubblica che le aveva storicamente contraddistinte, le

università tedesche non persero mai nemmeno la loro “politicità”, che risaliva a tempi ben più

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lontani di quelli del dominio nazista, ovvero alla Germania dell’Impero guglielmino; questo

carattere che faceva delle università le fucine degli orientamenti politici e culturali, le depositarie

dello “spirito nazionale”, non fu mai abbandonato nemmeno con il ripristino della democrazia: le

università tedesche contribuirono a consolidare la socialdemocrazia nelle istituzioni politiche e

svolsero fondamentali mansioni di formazione, ricerca e sviluppo (Are, 2002, pp. 78-81),

autonomamente coordinate all’interno di singoli sistemi definiti a livello regionale da ciascun

Lander (Kehm, Teichler, 1996, pp. 128-152). Un discorso a parte meriterebbe la questione

dell’università e della cultura più in generale nella Germania Orientale, ma in questo contesto

basterà ricordare che la seconda riforma di portata della storia dell’istruzione tedesca, è avvenuta

proprio negli anni immediatamente successivi all’unificazione politica ed è stata determinata dagli

enormi sforzi compiuti dal governo tedesco (anche e soprattutto sotto l’aspetto economico)

(Ibidem, pp. 132-137) per armonizzare, equilibrandoli ed integrandoli, due sistemi caratterizzati

da presupposti ideologico-scientifici, strutturazione amministrativa e configurazione didattico-

disciplinare completamente differente.

Per cui, nonostante l’enorme crescita quantitativa che ha interessato le università tedesche

negli scorsi decenni (si è passati da 290 mila studenti del 1960 a 1.400.000 iscritti del 1986 nella

sola, ex, Repubblica Federale Tedesca), il sistema di istruzione superiore è rimasto

sostanzialmente indifferenziato, fortemente dipendente dallo stato e composto, com’era e com’è,

esclusivamente dalle Universitat (i cui corsi sono della durata di otto o dieci semestri per un totale

di quattro/sei anni di studi) e dalle Fachhochschulen (scuole di istruzione tecnica, aventi

orientamento pratico e della durata di sette/otto semestri, per una durata complessiva massima di

quattro anni) (Are, 2002, pp. 78-81). Viene poi prevista, per i licenziati degli istituti di primo tipo,

la possibilità di intraprendere progetti e corsi di studio finalizzati alla ricerca scientifica in virtù

dell’accesso alle posizioni più basse della gerarchia accademica. La mancata diversificazione del

sistema tedesco, causa di numerose inadempienze e cagione di preoccupazione nelle parole del

Presidente della Conferenza dei rettori delle università tedesche (pronunciate in occasione delle

celebrazioni per il IX centenario dell’università di Bologna), ha così necessitato che, negli anni

scorsi, la classe governativa federale ed i governi delle rispettive amministrazioni regionali

mettessero mano a profonde riforme di struttura del sistema per adeguare l’università tedesca alle

nuove sfide di competizione che la “Knowledge society” le imponeva e per fa sì che contribuisse,

da protagonista, al processo di formazione di, un tuttora in costruzione, sistema universitario

europeo (Idem).

Negli Stati Uniti, coerentemente ad un modello di istruzione storicamente dimostratosi molto

attento alla qualificazione professionale, già negli anni Settanta la diversificazione del sistema di

istruzione post-secondaria aveva prodotto un sistema universitario iper-professionalizzato e

professionalizzante in cui molto stretto era il rapporto con il mondo del lavoro e molto accentuata

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la disponibilità a servire e necessità del sistema produttivo ed interessi governativi di importanza

strategica, si pensi solo al caso del Massachussets Istitute of Technology, dai cui laboratori

sperimentali di ricerca è stato prodotto il “know how” utilizzato per le attività della N.A.S.A e di

altre rinomate aziende ed agenzie federali. Un sistema universitario, quello nord-americano in cui

esisteva un particolarissimo e saldo connubio tra produzione scientifica degli atenei, sviluppo

tecnologico e miglioramento delle performances complessive del sistema economico. Un sistema

universitario, dunque, talmente differenziato che avrebbe fatto parlare di multiversity (Moscati,

pp. 60-62), all’interno del quale, oltre alle commesse federali e statali, conveniva anche una gran

mole di finanziamenti privati, ed in cui dei 3.340 istituti esistenti nel 1986 esattamente 1842

erano di natura privata, sostenuti in parte da fondazioni, in parte considerevole dalle tasse degli

studenti, ed in parte da fondazioni di vario genere, e di questi circa 800 erano di natura

confessionale e religiosa.74

Nonostante la mediocrità del sistema di istruzione superiore, l’università americana, grazie alla

sua enorme diffusione e differenziazione, pur mantenendo un accentuato carattere di classe

basato su ragioni di reddito, riusciva a garantire centri di eccellenza scientifica che avrebbero

attirato scienziati e studiosi d’ogni parte del pianeta; una università dal carattere strumentale, la

cui produzione di massa di conoscenza e quella elitaria di saperi specialistici d’eccellenza, serviva

gli interessi economici e strategici della superpotenza statunitense ed era l’esempio maggiormente

riuscito, nel panorama occidentale, di una proficua funzionalizzazione dell’università alle esigenze

dell’economia, tanto più a fronte dei profondi processi di ristrutturazione che hanno interessato

l’economia-mondo capitalistica a cominciare dagli anni settanta del secolo scorso, e che hanno

determinato, da un lato, una progressiva dinamica di terziarizzazione e, dall’altro, un crescente

trasferimento di conoscenze e di knowledge workers verso il sistema produttivo ed il mondo delle

imprese.

Dopo avere descritto le caratteristiche fondamentali dei sovramenzionati sistemi di istruzione

universitaria, possiamo adesso provare a sistematizzare le differenti attribuzioni proprie

dell’offerta formativa di ciascuno di questi, servendoci dei dati e delle tabelle fornite da una serie

di ricerche dell’OECD, e contenute in uno studio prodotto qualche anno fa da alcuni ricercatori

italiani (De Mucci, Sorcioni, 1996);75 queste tabelle servono al nostro scopo e vengono dunque

utilizzate in questo lavoro, sebbene esse non si riferiscano specificamente solo a Gran Bretagna,

Francia, Germania ed Italia, ma contengano dati e proiezioni relativi ad altri “paesi Ocse”.

Possiamo dunque cominciare da una classificazione dei differenti sistemi universitari in base alla

natura delle fonti di finanziamento, ed alla relativa dipendenza o autonomia dal controllo dei

pubblici poteri, siano questi statali o regionali, considerando in combinazione tra loro le tre

74 Ibidem, Figura n. 1. 75 Tutto viene riportato nella Appendice Statistica.

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accezioni di autonomia, finanziaria e di bilancio, amministrativa e di organizzazione per valutare le

possibilità di decision making: la combinazione di questi criteri dà luogo all’elaborazione della

figura n. 2, grazie alla quale si può tentare di ordinare la varietà delle soluzioni in concreto

adottate nei singoli paesi rispetto a questo argomento.

Otteniamo in questo modo una “torta” scomposta in quattro blocchi relativi alle differenti

soluzioni offerte in termini di rapporto università-potere politico; la maggior parte dei casi di

studio (36,8%) si colloca in quello che viene definito come modello di “accentramento”, all’interno

del quale sono compresi tutti i sistemi universitari caratterizzati da ideologie e configurazioni di

tipo centralistico. Tra gli altri, ed insieme a Russia e Spagna, troviamo collocati in questo blocco

sia l’Italia, che la Germania, che la Francia, nonostante si sia affermata in precedenza l’assoluta

eterogeneità dei sistemi universitari di questi tre paesi: in realtà questi tre modelli differenti di

sistema di istruzione terziaria condividono una particolare declinazione della categoria di

autonomia al loro interno, intesa come non originaria bensì di derivazione dai pubblici poteri.

Certo è affatto diverso che l’autorità di riferimento sia di emanazione di interessi locali (come nei

Lander tedeschi o nelle province spagnole) (Mora, 2003, pp. 405-418) ovvero che sia di matrice

ministeriale (come accade in Francia e, ancora, in Italia): ma una caratteristica comune e di

fondamentale importanza appare il fatto che, in ultima istanza, tutti gli statuti di autonomia siano

collegati tra di loro ed omologati all’interno di un unico disegno normativo. E non è a dire che in

tale contesto manchino università “libere” o persino private in senso pieno, solo che queste

pagano importanti contributi in termini di autonomia e di riconoscimento legale dei titoli di studio

rilasciati.

Il caso definito di “quasi monopolio” risulta invece alquanto differente e raggruppa paesi

dell’Europa del nord, dove storicamente molto forte è la cultura e la prassi di un diffuso ed

esauriente welfare state, all’interno del quale viene declinata l’istruzione (anche quella superiore)

come un diritto cui provvede lo stato, senza nessuna forma di autonomia che possa spingersi oltre

le definizioni programmatiche del governo ma evitando inefficienze ed irrazionalità proprie del

rigido controllo esistente nei casi definiti di accentramento. All’estremo opposto si trovano i

sistemi che si configurano come dei regimi di “quasi-concorrenza: è il caso, paradigmatico ed al

cui modello educativo si è già accennato nel primo capitolo parlando della Casati, dell’istruzione

terziaria belga, all’interno della quale coesistono strutture educative coordinate in un variegato

pluralismo di formule ed assetti organizzativi, nonché di progetti educativi, che ricalcano i

numerosi cleavges in cui è articolata la società: cosicché si possono trovare università statali,

libere, private, fiamminghe o vallone, di ispirazione laica o cattolica, ciascuna delle quali risponde

in primo luogo alla comunità di appartenenza e, per tramite di queste, allo Stato.

Infine vanno considerati i sistemi universitari dei paesi che rientrano nella definizione di regimi

di “decentramento”, è il caso della Gran Bretagna, di tutti i suoi domini e, parzialmente

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dell’estremamente variegato sistema di formazione post-secondaria statunitense. Nei paesi

riferibili a questo modello, come per tutte le istituzioni statali e parastatali o, meglio, come per

tutte le agenzie governative o “quasi-governative”, anche l’università viene concepita alla luce del

principio dell’ultra vires, per cui l’unità dello stato è garantita dalla centralità del parlamento,

mentre l’articolazione di tutte le altre istituzioni che vi sono in qualche modo riconducibili, per il

fatto di svolgere funzioni di interesse collettivo, è impostata secondo principi assai elastici di

autogoverno. Ecco come si spiega l’apparente paradosso, al quale si faceva velatamente

riferimento in precedenza, di università quasi tutte e quasi interamente finanziate da capitale

pubblico, eppure gestite in sostanziale autonomia, amministrate secondo criteri indipendenti,

concepite e gestite come delle vere e proprie aziende private (De Mucci, Sorcioni, 1996, pp. 13-

22).

Tornando a parlare dei nostri atenei, anche a fronte dei riferimenti appena fatti nei confronti di

altri sistemi universitari, possiamo affermare che essi avevano perso progressivamente la loro

capacità di formazione delle élite di ottima qualità, e non erano riusciti per altro verso nemmeno a

garantire una più approfondita interrelazione tra il mondo accademico e quello del lavoro. Secondo

il paradosso formativo di cui si è detto al primo paragrafo, l’università, oberata da troppi compiti,

perse progressivamente la capacità di adempiere alle sue funzioni proprie e primarie (la ricerca di

qualità e la didattica d’eccellenza), finendo per rinnegare il suo mito (Moscati, 1983) e tradire la

sua missione (Simone, 2003).

All’inizio degli anni Novanta, l’unico elemento davvero positivo presente nell’università italiana

era la sperimentazione didattico-disciplinare e scientifica avviata con la proposta dipartimentale

avanzata nel DPR 382 la quale, peraltro, procedeva in maniera intermittente e geograficamente

squilibrata, andando a sovrapporsi peraltro agli originari organi di governo delle università (le

facoltà) creando una moltiplicazione indebita delle mansioni dipartimentali e dei veri e propri

conflitti di interessi, attribuzioni e, soprattutto, finanziamenti tra dipartimenti, facoltà, presidenze

di corso etc. Durante tutta la ricerca (anche attraverso uno sguardo alle dinamiche di

trasformazione e di riforma ed ai conseguenziali assetti dei sistemi universitari di altri paesi

europei) sono emerse con evidenza le ragioni della natura eminentemente pubblica del sistema

universitario italiano: la quasi assoluta deficienza di investimenti privati ed una sostanziale

scarsezza di investimenti in generale,76 l’università pensata come una qualsiasi altra istituzione

della Pubblica Amministrazione al servizio dello stato, l’istruzione superiore terziaria interpretata

come un diritto soggettivo e pretesa come un servizio sociale, la frammentarietà dei poteri propri

delle autorità accademiche collegiali che faranno parlare di organizzazione anarchica (Benadusi,

1997, pp. 46-50) e di istituzione ambigua (Ribolzi, 1997, pp. 84-89), oltreché di tradimenti

dell’università e di “non comando”.

76 Ibidem, Tabella n. 4

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L’equilibrio ed i continui adattamenti all’interno del sistema, determinati pure da più

complesse ragioni di trasformazione sociale, venivano gestiti dall’interrelazione tra ministero e

senati accademici, il Consiglio Universitario Nazionale era stato fondato solo qualche anno prima e

la Conferenza dei Rettori era ancora un organismo timido e poco coordinato, anche a causa della

quasi totale mancanza di autonomia. Possiamo provare a catalogare le caratteristiche descritte

attraverso un modello utile pure alla concettualizzazione di similitudini e differenze tra il nostro

sistema universitario e quello degli altri paesi europei, in virtù di indagare le dinamiche di

convergenza che li stanno interessando tutti, armonizzandoli ed integrandoli in un unico sistema

europeo di istruzione superiore.

Questo modello è costituito dal triangolo concettualizzato già alcuni decenni orsono da Burton

Clark, che è stato successivamente utilizzato, approfondito e modificato da tutti i principali

studiosi e da ogni ricerca di rilievo nel settore dell’higher education (Marginson, Rhoades, 2002,

pp. 281-309).

Il modello di B. Clark

Nel suo principale lavoro ( intitolato “The Higher Education System”, pubblicato nel 1983 e

divenuto in seguito una “pietra miliare degli studi sull’università, imparagonabile a qualsiasi altra

ricerca del settore, foss’anche solo per numero di citazioni di rilievo ricevute) il senior professor

della University of California, di Berkeley negli Stati Uniti, elaborò il suo modello interpretativo

attraverso il quale considerare le dinamiche della istruzione in termini di rapporto tra accademia

ed organi collegiali, Stato e poteri pubblici, mercato e società civile. Egli, dunque, disegnò un

triangolo equilatero i cui vertici erano dati, appunto e rispettivamente, da organi accademici, stato

e mercato, attraverso il quale “ordinare” e catalogare i vari sistemi universitari presi in

considerazione: il criterio della interpretazione era costituito dalla governance del sistema

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universitario, per cui si tendeva a mettere in evidenza quale dei tre stakeholder predominasse

nella gestione delle attività universitarie, sia dal punto amministrativo, sia dal punto di vista delle

finalità educative che determinavano una certa configuarazione ordinamentale e disciplinare

piuttosto che un’altra. Se volessimo semplificare in maniera paradigmatica (dal momento che in

questo contesto non interessa entrare nello specifico della ricerca di Clark, ma solo utilizzarne il

modello per esplicitare ulteriormente le caratteristiche sistemiche e peculiari dell’università italiana

immediatamente a ridosso dei processi di trasformazione ultimi scorsi) potremmo dire che,

all’accentuazione della presenza di ognuno dei tre differenti portatori d’interesse, corrisponde un

modello alternativo di sistema universitario. Per cui dove predomina lo stato, convergendo verso il

vertice basso di sinistra della figura, ci troviamo in presenza di sistemi universitari caratterizzati

da una accentuata pubblicità, statualità, in alcuni casi ministerialità, ossia sostanzialmente ai

sistemi universitari dell’Europa continentale, ad esempio Francia e Germania. Dove predomina il

mercato è chiaro che ci troviamo di fronte ad una università molto attenta alle esigenze produttive

ed economiche in generale, un università molto diversificata, è il caso del sistema universitario

statunitense. Il terzo ed ultimo caso paradigmatico (poiché tra questi ce ne possono essere

innumerevoli di intermedi, contraddistinti da caratteristiche comuni a più modelli, che è poi il caso

che si verifica nella realtà) è rappresentato da università in cui forte e quasi assoluta è

l’indipendenza delle autorità accademiche nelle gestione della ricerca, della didattica e,

naturalmente, delle attività amministrative, una università che oggi non esiste quasi più ed il cui

esempio migliore, storicamente realizzatosi nella maniera più compiuta, è dato dalle accademie e

dai colleges britannici prima che la riforma “Robbins” e quella degli anni ottanta le orientassero

più marcatamente al modello di mercato.

Questo triangolo, dunque, non è solo un modello, ma anche una raffigurazione delle differenti,

legittime concezioni dell’istruzione superiore, che è un luogo in cui si esprimono la volontà

collettiva di una società e le volontà particolari di consumatori singoli, ma che al tempo stesso

ricava la propria autorità (e nel caso italiano pure la propria autonomia) dalla conoscenza e dalla

competenza degli accademici (Ribolzi, 1997, pp. 81-96). Quello di Clark, dunque, sebbene sia un

modello statico che compie l’errore, secondo l’interpretazione qui proposta, di provare ad

analizzare i processi di trasformazione delle università (che sono dinamici per definizione

intrinseca) secondo presunte caratteristiche stabili di funzionamento degli atenei, intese in termini

di relazioni di potere e modalità di governo delle università, e rappresenti dunque quantomeno

una semplificazione se non una alterazione vera e propria, pare abbastanza utile per una, seppur

didascalica, catalogazione dei differenti sistemi universitari in base alle caratteristiche di

strutturazione, organizzazione e funzionamento che essi hanno storicamente assunto. Il modello

di Clark comunque, se interpretato in maniera dinamica, risulta valido pure nell’indagine sui

processi di convergenza che, soprattutto in ambito europeo, stanno interessando i vari sistemi

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universitari i quali, invece, secondo l’interpretazione ortodossa del triangolo, sarebbero in un certo

senso alternativi tra di loro.

Ma soprattutto la ragione che motiva l’uso del modello dello studioso americano in questa

ricerca è data dal fatto che questo triangolo può essere molto utile a raffigurare il “tradizionale”

sistema universitario italiano , all’interno del quale agiva un equilibrio instabile tra due soli

interlocutori, l’autorità accademica ed il dominio statale, l’una difendendo il compito dell’università

di creare e diffondere un sapere autonomo, operando alla ricerca delle verità “in solitudine e

libertà”, l’altro premendo perché si innescasse un rapporto con i saperi pratici, e sottolineando il

compito di diffusione delle conoscenze e delle competenze necessarie al “buon funzionamento

della società”, con una sottolineatura particolare per la qualificazione di una classe dirigente

politicamente e culturalmente omogenea (Idem). Come poi questi processi sarebbero stati

declinati in Italia, con quali contraddizioni, è stata già materia d’argomento; e secondo quanto

detto nel primo e secondo paragrafo di questo capitolo conclusivo, questo dialogo a due è durato

in Italia molto più a lungo che altrove, in una situazione in cui il centro politico e amministrativo si

riservava larghissimi spazi di determinazione all’interno delle università, lasciando però all’autorità

accademica una libertà pre-negoziata, quasi assoluta, nell’amministrazione delle risorse interne

(carriera dei docenti, finanziamenti insufficienti, scriteriati ma elargiti in maniera diffusa, etc.)

senza assicurare alcun controllo sugli esiti esterni del suo operato. La dimissione di responsabilità

era il prezzo politico che l’autorità accademica pagava in cambio di un flusso costante di

finanziamenti e di risorse, “tanto più preziosi sul piano delle singole iniziative, quanto più

incontrollabili su quello dell’efficacia del prodotto finale (Idem).

Dunque il modello di Clark, variamente specificato, contestato, emendato o approfondito negli

anni intercorsi dalla sua pubblicazione ad oggi, sosterrebbe che le dinamiche di trasformazione

dell’università italiana tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, intese in termini di governance

del sistema, si sarebbero sviluppate lungo una direttrice (rappresentata dal segmento AB della

figura nel testo) che unisce i vertici del triangolo corrispondenti al potere statale ed alle autorità

accademiche, essendo completamente inesistenti le possibilità che altri attori sociali avessero voce

in capitolo in merito ai fini, alla strutturazione, al governo ed al prodotto complessivo degli atenei

in termini di saperi e laureati. Questo triangolo è stato utilizzato per sostenere dei processi di

convergenza tra sistemi differenti o alternativi di università che stanno in pratica interessando

tutti i paesi europei, per cui se in Italia si parla di autonomia e decentramento, in Inghilterra, ad

esempio, si assiste ormai da qualche anno ad un rafforzamento del potere di controllo dello stato,

ottenuto attraverso la istituzione di curricula e piani di studio validi su tutto il territorio nazionale,

ed allestendo meccanismi variamente configurati di accountability, diretti a diretti a controllare

periodicamente le strutture di erogazione dei servizi inerenti alla istruzione terziaria ed a disporre

eventuali premi o sanzioni (Benadusi, 1997, pp. 50-54).

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Ancora il modello di Clark è stato utilizzato in maniera strumentale per dimostrare

indirettamente la necessità di una riforma dell’università italiana agli inizi degli anni Novanta dello

scorso secolo, e per indicare le linee guida cha questa riforma hanno accompagnato, nel senso di

un maggiore orientamento degli atenei verso le necessità produttive e di accumulazione proprie

dell’economia capitalistica e, soprattutto, nel senso della direzione impressa al processo di

autonomizzazione delle università, che si sta concretizzando maggiormente nella capacità di

autoregolazione delle autorità accademiche, piuttosto che nella introduzione di meccanismi di

mercato o “quasi-mercato”. Come se, tra “professionalismo accademico” e “consumerismo di

mercato”, pur non escludendo un limitato ricorso al secondo termine di paragone, la riforma delle

università italiane stesse propendendo in maniera accentuata verso il primo termine,

distinguendosi così da processi di riforma più decisamente orientati a privilegiare, nell’ambito del

triangolo clarkiano, l’angolo della competizione di mercato (è il caso di altri sistemi universitari

fortemente accentrati , come quello francese) (Idem).

Giunti a questo punto della trattazione, dopo aver descritto nel lungo periodo le dinamiche di

formazione e trasformazione del sistema universitario italiano, per meglio comprendere le

complesse interrelazioni tra queste dinamiche e più ampi processi di cambiamento storico-sociale,

nonché per esplicitare compiutamente le particolari caratteristiche del modello italiano di

università, bisogna adesso provare ad argomentare in merito alle riforme che hanno interessato i

nostri atenei nel quindicennio scorso, riforme che hanno mutato profondamente la struttura e la

natura stessa del sistema di istruzione terziario italiano e che paiono non essersi ancora concluse.

Dal momento che sarebbe impossibile, all’interno di questo lavoro, tenere conto di tutte le variabili

che hanno agito le trasformazioni sovramenzionate e determinato i conseguenziali processi di

riforma del sistema avvenuti negli anni scorsi, come pure delle differenti interpretazioni (di merito,

di metodo, epistemologiche e di prospettive analitiche) che di queste trasformazioni sono state

fornite dalla letteratura presa in considerazione, si è scelto di procedere facendo riferimento a due

processi, elevati a principali argomenti di ricerca: l’autonomizzazione degli atenei italiani e

l’europeizzazione (intesa come internazionalizzazione/globalizzazione) dell’istruzione e delle

istituzioni universitarie, tenendo ben presente la natura multi-temporale, diacronica e sincronica,

di questi due fenomeni, che vengono altresì reputati indispensabili alla comprensione organica

delle principali direttrici dei cambiamenti che stanno interessando l’università contemporanea.

Analizzando i fenomeni oggetto di studio attraverso queste due principali categorie analitiche,

si proverà a dar conto delle innumerevoli ed eterogenee sfaccettature di ciò che rappresenta, oggi,

la questione universitaria. Infatti, se da un punto di vista macro le trasformazioni dell’università

italiana vanno analizzate tenendo sempre di più in considerazione il fatto che esse vengono

determinate da dinamiche di cambiamento di portata internazionale e che, pertanto, le politiche

che queste trasformazioni accompagnano sono stabilite a livello europeo, da un punto di vista

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micro tutti i cambiamenti dell’università italiana degli ultimi quindici anni, vanno riferiti al processo

di autonomizzazione degli atenei attraverso il quale si volevano risolvere, almeno così si disse, i

problemi degli atenei italiani, tanto più alla luce delle dinamiche di europeizzazione dell’istruzione

terziaria ed universitaria di cui si sta scrivendo.

Il dibattito sui problemi dell’università si era spostato già dagli anni Ottanta sul tema

dell’autonomia (C.R.U.I., 2001), questo principio di autogoverno degli atenei, già citato pur se con

altro significato da Gentile, e di cui Legislatore Costituente e Corte Costituzionale avrebbero

fornito una interpretazione più consona alle esigenze repubblicane; il problema è che i governi e le

assemblee parlamentari succedutisi durante la storia repubblicana non si erano per niente

interessati dell’argomento, che non era stato mai messo seriamente in discussione nei disegni di

legge e di riforma dell’università di cui si è detto esaustivamente nelle parti precedenti del lavoro;

in altre parole, anche nei momenti di massima fioritura del dibattito pubblico e politico intorno ai

problemi degli atenei italiani, la questione dell’autonomia (obliata volutamente da tutti e

colpevolmente dimenticata anche dai movimenti studenteschi) non era stata mai posta in

discussione e l’insieme delle problematiche riguardanti l’istruzione terziaria era sempre stato

concepito secondo una interpretazione per così dire nazionale, strettamente centralistica: come se

il ministro o il governo avessero potuto e voluto risolvere ciò che c’era di sbagliato e che da loro

stessi dipendeva, essendo connaturato strettamente al modello di sistema universitario

complessivo e di istruzione pubblica in generale.

Poi, improvvisamente e proprio mentre i sistemi universitari in cui storicamente meglio era

stata salvaguardata l’indipendenza delle singole istituzioni accademiche convenivano verso modelli

di strutturazione e governo maggiormente soggetti ai pubblici poteri (anche in virtù delle

dinamiche di internazionalizzazione delle strutture universitarie) si cominciò a parlare di

autonomia come panacea per i mali dell’università italiana, fraintendendone ed alterandone

volutamente la portata, e declinandola come se autonomia volesse dire dismissione di impegno e

vocazione da parte dello stato e spinta privatizzazione delle università costrette a cercare in giro

fondi per autofinanziarsi: soprattutto, l’autonomia delle università non venne intesa ed affrontata

nel contesto di una riforma globale (come era stato tentato, sia pur vanamente, nei progetti di

riforma dei decenni precedenti), nei confronti della quale i poteri pubblici statali declinavano

progressivamente il proprio impegno, bensì fu disposta in luogo della riforma stessa (Andò,

Luzzatto, 2001, pp. 19-29).

Ad ogni modo, il processo di autonomizzazione degli atenei italiani subì una svolta di notevole

portata ed ebbe una incredibile accelerazione (se non si vuole proprio sostenere che iniziò in quel

periodo e non prima) sotto la spinta, in questo senso inesauribile, di Antonio Ruberti: è proprio da

lui che ricominciamo a rendere conto degli sviluppi della storia ministeriale italiana che avevamo

interrotto all’epoca del DPR 382 del 1980; in effetti prima di Ruberti non furono predisposti

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progetti di riforma degni di questo nome né assunsero la guida del dicastero della pubblica

istruzione figure dalla particolare tempre riformatrice, ad ogni modo la digressione governativa

non è fine a se stessa ma serve per caratterizzare in maniera più esaustiva sviluppi e

trasformazioni degli atenei italiani, mentre per una mera cronologia dei ministri succedutisi alla

Minerva sino al disegno Ruberti, ed oltre, sino alla Moratti, si rimanda alle appendici di questo

lavoro.77

Ora bisogna dire che, fino al 1990, in Italia, avevano avuto competenza in materia universitaria

due ministeri differenti: da un lato e principalmente, il Ministero della Pubblica Istruzione,

all’interno della cui strutturazione organica era prevista una Direzione Generale per l’Istruzione

Universitaria, mentre dall’altro esisteva il ministero “senza portafoglio” per la ricerca scientifica e

tecnologica, il quale si occupava anche dei compiti e dei progetti tenuti presso altre istituzioni

pubbliche di ricerca (come il C.N.R. o l’Istituto Nazionale di Fisica Nulceare), nonché di

finanziamenti pubblici a strutture private di ricerca (Sorace, 1996, pp. 231-233), cosa questa

davvero inaudita, tanto più in considerazione della cronica deficienza di finanziamenti che

attanagliava, opprimendole, le università e le istituzioni pubbliche di ricerca e di insegnamento nel

nostro paese.

Nel 1987 Ruberti aveva assunto la guida del ministero per la ricerca e, grazie alla sua opera

riformatrice, nel 1989 con la Legge n. 168, venne istituito il Ministero per l’Università e la Ricerca

Scientifica e Tecnologica (di seguito chiamato M.U.R.S.T.) il quale, sottraendo alla Direzione per

l’istruzione universitaria del Ministero della Pubblica Istruzione le competenze che gli erano state

proprie per oltre un secolo (C.R.U.I., 2001), riuniva sotto la sua direzione entrambi i ministeri ed

avocava a sé anche le competenze precedentemente esclusive della Presidenza del Consiglio dei

ministri in materia di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico del paese. Il M.U.R.S.T venne

istituito “con il compito di promuovere, in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, la ricerca

scientifica e tecnologica, nonché lo sviluppo delle università e degli istituti di istruzione superiore

di grado universitario” e di dare “attuazione all’indirizzo ed al coordinamento nei confronti delle

università e degli enti di ricerca, nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della

Costituzione e specificati dalla legge e dalle disposizioni di cui alla legge 23 agosto 1988, n. 400”.

L’ispirazione della riforma organizzativa, evidentemente, stava tutta nella convinzione della

necessità di armonizzare in un rapporto strettissimo e sotto un’unica direzione politica le funzioni

di istruzione e di ricerca svolte all’interno delle università (Sorace, 1996, pp. 231-238), per

indirizzare così l’istruzione terziaria del nostro paese verso configurazioni maggiormente

armoniche con quelle delle altre istituzioni di formazione europee e, soprattutto, per renderla in

grado di rispondere alle necessità eterogenee e crescenti di formazione espresse dalla cosiddetta

“knowledge society”. Nell’immediato l’istituzione del nuovo ministero non segnò una rottura, né

77 Si veda l’Appendice Cronologica.

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tanto meno una inversione di tendenza apprezzabile rispetto al modo di concepire i rapporti

centro-periferia in materia di università, fortemente sbilanciati a favore dei pubblici poteri,

secondo quanto si è sostenuto precedentemente analizzando la situazione delle università italiane

in termini di governance ed utilizzando, a tale scopo, il triangolo di Burton Clark: le università

continuavano a dipendere da governo e ministero non solo per i finanziamenti (il che potrebbe

anche essere una caratteristica positiva se le risorse fossero assegnate in base all’effettiva

necessità degli atenei e, principalmente, se fossero amministrate saggiamente ed in maniera

efficace e gestite effettivamente per raggiungere il massimo grado di eccellenza possibile nelle

prestazioni fornite assicurando così dei vantaggi alla società nel suon insieme e giustificando, per

altro verso, l’esborso dall’erario pubblico per sostenere le università), ma anche per quanto

concerneva l’amministrazione delle strutture e l’organizzazione didattico-disciplinare.

Il Consiglio Universitario Nazionale,78 che in termini generali aveva il compito di “concorrere al

coordinamento delle sedi, alla qualificazione e aggiornamento degli ordinamenti didattici,

all’incentivazione della ricerca universitaria e allo sviluppo equilibrato e programmato delle

università”79 e cui, affiancato dai “comitati consultivi per grandi aree disciplinari”,80 spettava in

concreto di “fare proposte o pronunciare pareri, talvolta vincolanti, sia su atti amministrativi di

grande importanza, tanto di rilievo individuale che di natura regolamentare o comunque di portata

generale, sia in materia di finanziamento della ricerca”,81 prevedeva addirittura al proprio interno

una “corte di disciplina”, deputata ad emanare provvedimenti disciplinari o censori a carico di

professori universitari e ricercatori;82 inoltre, nonostante la sua fisionomia composita (vanificata

peraltro nei suoi intenti democratizzanti e partecipativi dall’esiguo numero di componenti e dalla

lontananza abissale che si veniva a creare tra questi e l’enorme, variegata base che questi

avrebbero dovuto rappresentare), il suo carattere saliente era dato dalla componente principale

costituita (attraverso un opaco e farraginoso meccanismo elettorale) da rappresentanze dei gruppi

di docenti afferenti a diversi settori disciplinari, attraverso le quali (più che un coordinamento ed

una salvaguardia dell’autonomia dell’università) si realizzava una sostanziale partecipazione

corporativa alle funzioni ministeriali (Idem). Come se non bastasse le università private, che pure

facevano parte ormai di un unico sistema universitario nazionale integrato, nonostante si

chiamassero pure “università libere”, erano sostanzialmente considerate come degli enti pubblici

alla stregua delle università statali, e del resto la loro esigua presenza, pur se di ottimo livello 78 Organo con funzioni sostanzialmente consultive dell’opera del ministero, costituito con la Legge 1979 n. 31, modificata nel 1980 dal DPR 382 e, successivamente, dalla Legge 1990 n. 341; dopo l’ultima riforma, risulta composto da 30 membri eletti dai docenti universitari, 8 rappresentanti degli studenti, 5 membri eletti dal personale tecnico ed amministrativo delle università, 2 membri designati dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, ed uno proveniente dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, più 8 prescelti autonomamente all’interno della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. 79 Legge 168/89 art. 10. 80 DPR 382/80 art. 67. 81 Legge 1990 n. 341, artt. 9-10. 82 Idem.

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qualitativo, non era in grado di influenzare sensibilmente le dinamiche che strutturavano in un

verso (pubblico/controllato) o nell’altro (privato/indipendente) il sistema complessivo di istruzione

superiore (Idem).

La Legge n. 168, dunque, proclamava nuovamente e declinava il principio dell’autonomia

universitaria in termini ancora molto tenui e generici, rimandando, come al solito, ad una apposita

legge-quadro per precisarne i contenuti; va detto però che (per evitare che il processo di

autonomizzazione delle università venisse bloccato dalla fine della congiuntura politica favorevole,

come era accaduto per quasi tutte le tentate riforme dell’università della storia repubblicana e

come sarebbe avvenuto, puntualmente, anche in questo caso, ed attraverso una norma

formalmente singolare dal punto di vista della tecnica legislativa) il Parlamento si tutelò rispetto

alla propria inerzia disponendo che “fino alla data di entrata in vigore della legge di attuazione dei

principi di cui all’articolo 6, gli statuti sono emanati con decreto del rettore, nel rispetto delle

disposizioni e delle procedure previste dalla normativa vigente” ma, “decorso comunque un anno

dalla data di entrata in vigore della presente legge, in mancanza della legge di attuazione dei

principi di autonomia, gli statuti delle università sono emanati con decreto del rettore nel rispetto

delle norme che regolano il conferimento del valore legale ai titoli di studio”, “sentito il consiglio di

amministrazione” e “deliberati dal senato accademico”. In altre parole se non fosse sopravvenuta

la legge-quadro, come di fatto avvenne, i senati accademici e gli organi di auto-governo delle

università avrebbero potuto (aspetto davvero rivoluzionario e positivo rispetto all storia

precedente dell’università italiana) emanare indipendentemente i propri statuti ed i regolamenti

interni dando concretamente avvio, pur se in maniera lenta, frammentata e disorganica, al

processo di autonomizzazione degli atenei (C.R.U.I., 2001).

Per concludere, possiamo citare l’articolo 6 del testo di legge in questione, il quale afferma che

“le università sono dotate di personalità giuridica e, in attuazione dell’articolo 33 della

Costituzione, hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile; esse si

danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti” ed affermare, conseguenzialmente,

che la legge del 1989 si limitò a delineare e ad enunciare i criteri attraverso i quali si sarebbe

dovuta sostanziare l’autonomia universitaria, esplicitandone le differenti possibilità di declinazione,

rimandando però a singoli provvedimenti legislativi successivi di dare attuazione concreta a

quanto di sposto nel testo: una legge che fu molto contestata dal movimento studentesco della

Pantera (il quale paventava che attraverso l’autonomia degli atenei si contrabbandasse altresì la

privatizzazione dell’università) (Luzzatto; Simone) e che diede avvio al processo riformatore che

ha trasformato l’università italiana negli anni scorsi, processo che si sarebbe estrinsecato in un

insieme di provvedimenti adottati da ministri differenti ma orientati tutti a dare attuazione al

disegno Ruberti; anche l’opera di Berlinguer e dei cosiddetti riformatori di centro-sinistra si

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sarebbe successivamente informata a questo specifico progetto, il cui altro obiettivo fondamentale

era quello di integrare l’università italiana con le altre istituzioni di formazione terziaria europee.

Cosicché, enunciate le varie forme possibili in cui si sarebbe dovuta sostanziare l’autonomia

dell’università, nel 1990 venne promulgata la Legge n. 341 intitolata “Riforma degli ordinamenti

didattici universitari”, attraverso la quale bisognava cominciare a definire e caratterizzare

l’autonomia didattica ed ordinamentale degli atenei. Questo provvedimento appare significativo

soprattutto per quanto riguarda la tripartizione degli studi universitari (realizzata circa trent’anni

dopo la prima proposta in tal senso, contenuta in un atto ufficiale del parlamento italiano); quello

della stratificazione interna degli ordinamenti didattici era un argomento fondamentale per

trasformare l’università italiana ed incamminarla lungo quel percorso di differenziazione interna ed

esterna, assoluta e funzionale, che altri sistemi universitari europei avevano già compiuto

rinnovandosi profondamente negli anni precedenti: in effetti, la durata prolungata ed in molti casi

estenuante degli studi universitari (che produceva fenomeni di vario genere, dai fuori-corso agli

abbandoni degli studi diffuso, ai frequenti cambi di facoltà, ai passaggi da un corso all’altro, al

continuo rimaneggiamento dei piani di studio) e la mancanza quasi assoluta di percorsi di

formazione terziaria alternativi e differenti da quelli universitari propriamente detti e volti alla

preparazione ed alla qualificazione professionale, era una delle caratteristiche maggiormente

negative del sistema di istruzione e formazione post-secondaria del nostro paese. Così la legge del

1990 statuiva che “le università rilasciano i seguenti titoli: diploma universitario DU; diploma di

laurea DL; diploma di specializzazione DS; dottorato di ricerca DR”.83 In pratica, oltre alla migliore

organizzazione dei corsi di dottorato di ricerca che preparavano generazioni di giovani studiosi

all’accesso nella professione accademica, ed in aggiunta alle scuole di specializzazione di varia

natura (da quelle specifiche per l’insegnamento a quelle di approfondimento e qualificazione post-

diploma) veniva articolata l’offerta generale di istruzione terziaria attraverso la predisposizione di

un “curricula brevi” che meglio servissero una realtà universitaria ormai divenuta definitivamente

di massa e le esigenze formative di un mercato del lavoro in cui la professionalizzazione era

divenuta una condizione necessaria (sebbene non sufficiente) di successo economico e sociale.

I differenti percorsi didattici, pure se ancora organizzati in maniera alquanto approssimativa,

venivano pensati in maniera seriale (differentemente dai percorsi “in parallelo” che

caratterizzavano il nostro sistema universitario) e prevedevano, almeno formalmente, la

possibilità di passaggio dall’uno all’altro, ossia l’opportunità per gli studenti che concludevano con

successo il corso di diploma universitario (alla quasi generalità dei quali si accedeva previo

superamento di un esame di ammissione, dal momento che erano quasi tutti a “numero chiuso” e

destarono sin da subito l’interesse e l’attenzione di un gran numero di studenti, i quali vi si

iscrissero attirati dalla possibilità di conseguire un diploma universitario dopo soli tre anni di

83 Legge 1990, n. 341, art. 1.

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corso) di passare al relativo corso di laurea e di continuare gli studi. Infatti, come obiettivo dei

Corsi di diploma veniva indicato quello di “fornire agli studenti adeguata conoscenza di metodi e

contenuti culturali e scientifici orientata al conseguimento del livello formativo richiesto da

specifiche aree professionali”,84 e veniva prescritto che le facoltà riconoscessero “totalmente o

parzialmente gli studi compiuti nello svolgimento dei curricula previsti per i corsi di diploma

universitario e per quelli di laurea ai fini del proseguimento degli studi per il conseguimento,

rispettivamente, delle lauree e dei diplomi universitari affini”.85 Altra novità sostanziale e di

spessore era rappresentata dalla concessione effettiva di autonomia ordinamentale e didattica agli

atenei, pur mantenendo fermi gli ordinamenti didattici nazionali. Nella pratica veniva operata una

distinzione tra “competenze nazionali” e “competenze d’ateneo”; le Tabelle ministeriali di

centenaria tradizione, e delle quali si era già detto a proposito della Casati e della Gentile,

venivano mantenute purché queste non prescrivessero specifici insegnamenti (come avveniva in

precedenza) bensì si limitassero ad “individuare le aree disciplinari, intese come insiemi di

discipline scientificamente affini raggruppate per raggiungere definiti obiettivi didattico-formativi,

da includere necessariamente nei curricula didattici, che devono essere adottati dalle università, al

fine di consentire la partecipazione agli esami di abilitazione per l’esercizio delle professioni o

l’accesso a determinate qualifiche funzionali del pubblico impiego”.

Lo stato in pratica, manteneva una funzione generale di regolamentazione e coordinamento,

che se da un lato dava la cifra di quanto l’autonomia delle università fosse declinata come

derivazione da un originario potere statuale ed avesse natura essenzialmente strumentale,

dall’altro serviva a conservare un minimo di eterogeneità nel sistema, evitando una incontrollata

moltiplicazione di discipline, corsi e piani di studio che, a fronte del valore legale ancora posseduto

dai titoli di studio universitari (e perlopiù generalmente difeso dagli studenti come pure dagli

insegnanti) sarebbe stata tanto (come purtroppo è effettivamente avvenuto negli anni scorsi)

deleteria e fonte di ulteriori discrasie all’interno dell’università italiana. Circa le competenze di ogni

singola università veniva introdotto, quale strumento per disciplinare l’ordinamento degli studi, il

“Regolamento Didattico di Ateneo”;86 “il regolamento è deliberato dal senato accademico su

proposta delle strutture didattiche, ed è inviato al Ministero dell’università e della ricerca

scientifica e tecnologica per l’approvazione. Il Ministero, sentito il CUN, approva il regolamento

entro 180 giorni dal ricevimento, decorsi i quali senza che il ministro si sia pronunciato, il

regolamento – emanato con ordine del rettore – si intende approvato”.87

E dunque “i consigli delle strutture didattiche determinano, con apposito regolamento, in

conformità al regolamento didattico di ateneo e nel rispetto della libertà di insegnamento,

84 Ibidem, art. 2. 85 Idem. 86 Ibidem, art. 11. 87 Idem.

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l'articolazione dei corsi di diploma universitario e di laurea, dei corsi di specializzazione e di

dottorato di ricerca, i piani di studio con relativi insegnamenti fondamentali obbligatori, i moduli

didattici, la tipologia delle forme didattiche, ivi comprese quelle dell'insegnamento a distanza, le

forme di tutorato, le prove di valutazione della preparazione degli studenti e la composizione delle

relative commissioni, le modalità degli obblighi di frequenza anche in riferimento alla condizione

degli studenti lavoratori, i limiti delle possibilità di iscrizione ai fuori corso, fatta salva la posizione

dello studente lavoratore, gli insegnamenti utilizzabili per il conseguimento di diplomi, nonché la

propedeuticità degli insegnamenti stessi, le attività di laboratorio, pratiche e di tirocinio e

l'introduzione di un sistema di crediti didattici finalizzati al riconoscimento dei corsi seguiti con

esito positivo”.88

Da quel momento in poi, grazie alle statuizioni contenute nella Legge 1990 n. 341, tutte le

università italiane, pur se in tempi e con modalità differenti, cominciarono a dotarsi di ordinamenti

autonomi e ad organizzare le attività didattiche in maniera sempre più indipendente dalle direttive

ministeriali (che pure continuavano ad essere presenti grazie alle “circolari” divenute famose);

cosicché una volta definita chiaramente ed avviata, pur se timidamente, l’autonomia

regolamentare e didattica, sarà la volta dell’autonomia finanziaria; prima però, esattamente nel

1991 con la Legge n. 390, sarà interamente riformulato anche il concetto di diritto allo studio (in

attuazione degli articoli 3 e 34 della Costituzione, la presente legge detta norme per rimuovere gli

ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano l’uguaglianza dei cittadini nell’accesso

all’istruzione superiore e, in particolare, per consentire ai capaci e, meritevoli, anche se privi di

mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi)89 attraverso la abolizione delle Opere universitarie

e la progressiva delocalizzazione dei servizi (inerenti all’effettivo espletamento di questo dovere

dello stato) alle Regioni attraverso la costituzione degli Enti per il DIritto allo StUdio, organizzati a

livello di singola università ovvero (è il caso dell’EDISU Napoli 2 che era quello cui ha fatto

riferimento nel corso di questi anni l’Istituto Universitario Orientale) in maniera consortile tra

diverse accademie ed istituti.

L’autonomia finanziaria degli atenei troverà una prima formale sanzione all’interno della Legge

1993 n. 537 la quale deve essere inquadrata all’interno della più ampia riforma del pubblico

impiego avviata in quegli stessi anni in Italia, che avrebbe dovuto razionalizzare le finanza dello

stato per consentirci di entrare a far parte della “moneta unica europea” nel pieno rispetto dei

“parametri di Maastricht”.

Per cui da una parte esisteva un processo generale di matrice statale volto nel contempo a

diminuire la spesa per, ed a rendere più efficiente ogni settore della Pubblica Amministrazione,

dall’altro si cominciava, per la prima volta seriamente anche attraverso la ridefinizione dello status

88 Idem. 89 Legge 1991 n. 390, art. 1.

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giuridico del personale operante nell’università,90 a parlare di razionalizzazione delle spese degli

atenei. Ora è indubitabile, poiché sostenuto dai dati e dalle interpretazioni di tutta la letteratura

disponibile sull’argomento, che le università italiane fossero fonti di sprechi indicibili e che non

fossero affatto efficaci nel perseguire i propri scopi educativi ed i propri compiti didattici e di

ricerca. Come altrettanto vero appare il fatto che era ora di dotare il sistema di criteri di

finanziamento degli atenei più razionali ed efficaci, che non consistessero nei piani di spesa

preventiva ministeriale di cui si è detto, i quali risultavano talmente aleatori e rigidi ad un tempo

da rendere possibile una gran quantità di sprechi e impossibile che le poche risorse risparmiate

venissero riconvertite ad altri usi all’interno dell’università, senza ritornare inutilizzate al

ministero: non si poteva più continuare né con le negoziazioni attraverso il Cun o per clientele

ancora più opache, né tanto meno con la formula dei “finanziamenti a pioggia”, indistintamente

verso tutte le università a prescindere dalle necessità e dalla qualità raggiunta, i quali nel caso

italiano si concretizzavano in una rada, discontinua pioggerellina in un deserto di

sottofinanziamento e mancanza di risorse cronica all’interno del sistema universitario. Purtroppo,

alla lunga, questa legge avrebbe dato avvio al processo di progressiva dismissione da parte dello

stato degli oneri riguardanti l’università cui aveva storicamente badato, in nome di una

privatizzazione degli atenei che non aveva i prerequisiti fondamentali per cominciare, sarebbe a

dire adeguati finanziamenti da parte delle aziende e del capitale privato, e che non si sarebbe

potuta ottenere attraverso un indiscriminato innalzamento delle tasse, pure surrettizziamente

tentato a più riprese.

Il finanziamento del sistema universitario è forse, oggi, la tematica principale da affrontare

nello studio delle trasformazioni degli atenei, come dimostra tutta la scuola di pensiero della

“entrepreneurial university”, ed è un argomento che andrebbe (tanto più al momento in cui fu

varata la legge in questione) trattato in maniera complessiva ed organica; l’impostazione di

questa ricerca non propende per un finanziamento statale indiscriminato che, anzi, può risultare

fonte di indebite ingerenze nelle questioni propriamente accademiche, ma è pur vero che in

mancanza di un pieno protagonismo delle università (che dovrebbero in questo modo sì, sfruttare

l’autonomia ed i mezzi che garantisce nel suo senso pieno) non si può delegare ad un fantomatico

mercato di fornire le risorse necessarie alle università, tanto più alla luce della storica ritrosia e

poca lungimiranza e disponibilità all’investimento mostrata su questo argomento da parte del

mondo imprenditoriale del nostro paese.

Ad ogni modo, tornando alla 537, intitolata “Interventi collettivi di finanza pubblica”, va

ribadito che essa era organica alla Legge Finanziaria di previsione di spesa per l’anno 1994 e che

stabiliva che le spese per il proprio personale fossero gestite in maniera indipendente dalle singole

università, secondo le proprie necessità e preferenze ed alla base dei finanziamenti ministeriali

90 Venne eliminata la pianta organica nazionale dei lavoratori del comparto università

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ricevuti allo scopo (precedentemente le spese relative al personale universitario, i cui organici per

ogni ateneo, e per quanto riguarda i docenti per ogni facoltà, venivano fissati con provvedimenti

nazionali, erano altresì direttamente a carico del bilancio del M.U.R.S.T.) (Luzzatto, 2001, pp. 38-

45). La legge, dunque, sanciva la responsabilizzazione finanziaria degli atenei mediante

l’introduzione dei “lump sum budget” (C.R.U.I., 2001): i singoli atenei determinavano

autonomamente i propri piani di spesa e decidevano in che maniera allocare le proprie risorse che

rimanevano, come già detto, di provenienza eminentemente pubblica (Idem), mentre veniva loro

riconosciuta addirittura una parziale libertà nel decidere indipendentemente l’ammontare

dell’importo delle tasse studentesche, anche se in misura solo parziale).

Di concerto con l’insieme delle disposizioni che conteneva, la legge del 1993 istituì pure la

sperimentazione di un organismo nazionale di valutazione delle attività universitarie, decretando

altresì che venissero mantenuti, sostenuti e rafforzati i differenti nuclei di valutazione esistenti

presso le singole strutture di alcune università. A questo punto, se escludiamo la Legge 1996 n.

662 (la quale pur non concernendo strettamente di programmi di autonomia universitaria si

inscriveva comunque all’interno della stessa dinamica di delocalizzazione) che attribuì al Ministero

dell’università il potere di “separare organicamente le Università che abbiano superato il tetto dei

quarantamila iscritti”, ed in virtù della quale saranno creati alcuni nuovi atenei e le “seconde

università” nelle più grandi città italiane (autogeneratesi per gemmazione dalla rispettive

università degli studi), il processo di autonomizzazione e di trasformazione degli atenei italiani

continuerà in maniera decisa durante il governo Prodi e la legislatura scorsa di centro-sinistra,

quando grazie (o a causa a seconda delle interpretazioni) all’opera di Luigi Berlinguer, coadiuvato

e seguito da Guido Martinotti, Tullio De Mauro ed Ortensio Zecchino, verrà creato il famoso “nuovo

ordinamento”, attraverso l’introduzione del percorso di studi differenziato chiamato in gergo “3+2”

(Beccaria) e del “sistema dei crediti”.

Nelle considerazioni finali del lavoro si proverà ad argomentare in merito alle ragioni, ed agli

esiti dell’ultima riforma universitaria, decretata nell’agosto e nel novembre del 2000 e, facendo

riferimento ai tempi ed ai documenti che hanno scandito l’avvio del processo di costituzione di un

sistema universitario europeo integrato ed armonico, si terminerà la ricerca con la raffigurazione

di come si presenta oggi il sistema di formazione terziaria italiano, concludendo con delle

riflessioni e delle interpretazioni possibili, in merito alle più recenti trasformazioni degli atenei

italiani e, per estensione europei e del mondo intero, ispirate dalla letteratura presa in

considerazione.

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Considerazioni conclusive: risultati, implicazioni e interpretazioni della ricerca

In questo capitolo conclusivo del lavoro, di conseguenza a quanto sinora scritto, saranno

esposte le ragioni e gli effetti della riforma universitaria italiana ultima scorsa, quella passata alla

storia come “riforma Berlinguer-De Mauro-Zecchino-(Moratti)”; verrà ancora messo in primo piano

il processo di autonomizzazione degli atenei, tentando in questo modo di dare conto delle

differenti implicazioni di questa riforma e, soprattutto, di concludere il percorso, logico e di ricerca,

cominciato con l’esamine delle dinamiche di costituzione del sistema universitario italiano e della

sua progressiva internalizzazione nel più complessivo sistema di istruzione pubblica, che ci ha

fatto parlare di statalizzazione delle università. Si è già detto altrove delle coordinate

metodologiche che hanno indirizzato la ricerca, qui basti riaffermare che i processi sono stati

analizzati nel lungo periodo secondo una precisa interpretazione della longue durée braudeliana

(Wallerstein, 1995), e che lo spazio all’interno del quale i fenomeni oggetto di studio sono stati

inquadrati è stato concettualizzato sostanzialmente su scala nazionale, essendo il tema portante,

l’issue del lavoro, costituito dai processi di formazione e trasformazione del sistema universitario

italiano. Tuttavia nell’interpretazione delle determinanti storico-sociali e delle matrici economico-

politiche delle trasformazioni avvenute e tuttora in corso nell’università italiana contemporanea, si

è ritenuto necessario fare riferimento ad una scala internazionale e, precisamente, alla Unione

Europea ed al processo di costituzione dello European System of Higher Education.

Si era detto precedentemente delle caratteristiche generali dei sistemi di istruzione di altri

importanti paesi europei, segnatamente di quello britannico, francese e tedesco (l’accenno al

sistema di istruzione terziaria statunitense era stato determinato dal fatto che i precoci processi di

terziarizzazione dell’economia e di specializzazione e professionalizzazione della istruzione

superiore quivi avvenuti, nonché la percentuale elevata di finanziamenti pubblici e privati messi a

disposizione a fronte di una sostanziale privatizzazione e mercificazione dell’istruzione stessa,

aveva creato un modello molto differenziato di università che sarà preso come riferimento dai

governi europei); la scelta non casuale è sostanziata da una principale, fondamentale ragione, e

cioè che il 25 maggio del 1998, a Parigi, in occasione della celebrazione dell’ottavo centenario

della fondazione dell’Università della Sorbona, i quattro ministri dell’istruzione di Francia, Italia,

Gran Bretagna e Germania siglarono un primo accordo ufficiale per l’armonizzazione dei sistemi di

formazione e di istruzione superiore in Europa (Vaira, 2003, pp. 333-335).

In realtà il processo di armonizzazione (o per meglio dire di convergenza) (Idem) dei differenti

modelli di università europee era iniziato qualche tempo prima, e prima ancora erano cominciati i

fenomeni di trasferimento e mobilità di studenti e docenti tra le università all’interno dell’Unione

Europea, facilitati e sostenuti dalle varie edizioni di “progetto Erasmus”, un programma finanziato

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direttamente dall’Unione attraverso borse di studio erogate agli studenti, tra i cui obiettivi c’erano

quelli dell’integrazione linguistica e culturale, dell’accrescimento delle competenze, dell’estensione

dell’orizzonte delle esperienze formative, nonché di vera e propria formazione del “cittadino

europeo” (Papatsiba, 2005, pp. 3-10), e che nel nome si richiamava esplicitamente al libero errare

medioevale di cui si è raccontato.

Bisogna dire innanzitutto che nel 1993, proprio mentre in Italia veniva compiuto il trinomio

che avrebbe dato avvio all’autonomia universitaria attraverso la Legge n. 537, la Comunità

Europea pubblicava il “Libro bianco” intitolato “Crescita, competitività, occupazione”, all’interno del

quale c’erano numerosi riferimenti e precise indicazioni riguardanti i sistemi di istruzione e

formazione terziaria europei. A questo proposito bisogna dire che, sin dagli anni Settanta del

secolo scorso, all’interno dell’economia-mondo capitalistica, a seguito di una crisi divenuta

strutturale e determinata da un generale processo di rallentamento della produzione (Ikeda, 1997,

pp. 79-86), si erano resi necessari dei profondi processi di ristrutturazione degli apparati

produttivi che abbandonavano progressivamente il modello fordista integrato, a grande intensità

di lavoro disciplinato secondo modelli tayloristi, per configurarsi progressivamente in maniera

sempre più articolata e flessibile, a intensità sempre maggiore di capitale e di conoscenza

applicata, per essere capaci di rispondere just in time alla domanda di mercato (Martini, 2002, pp.

131-145). Ad un progressivo declino dei salari da reddito e ad una specializzazione,

frammentazione, esternalizzazione e delocalizzazione dei processi produttivi, faceva riscontro una

sempre maggiore tecnologizzazione ed informatizzazione delle attività economiche per cui le

conoscenze scientifiche, le sperimentazioni di ricerca che le producevano, e le università che

generalmente ospitavano questi programmi, assumevano a poco a poco una importanza sempre

maggiore. Nei paesi occidentali, contemporaneamente alla terziarizzazione dell’economia e alla

crescita del settore dei servizi, si assisteva ad uno sviluppo delle conoscenze scientifiche e ad una

estesa applicazione di queste a processi produttivi a grande coefficiente di know how, processi

questi che avrebbero fatto parlare gli studiosi di scienze sociali di vera e propria “rivoluzione”,

segnatamente di quella informatica (Are, 2002, pp. 7-11).

Se l’informazione (intesa in ogni possibile senso e declinazione, e le tecnologie ad essa

applicate), l’energia (e le risorse di ogni genere) e la biologia genetica e molecolare (con tutte le

implicazioni ingegneristiche e “di dominio” che essa può sottintendere) (Prigogine, 1991, p. 13)

apparivano sin dagli anni Settanta i principali vettori di accumulazione lungo i quali si sarebbe

sviluppato il sistema capitalistico, verso la fine del secolo una scorso una serie di fenomeni

eterogenei avevano fatto parlare gli studiosi di scienze sociali della strutturazione di “knowledge

society”, di “information economy”. Da questo punto di vista la rapida ed estesa applicazione dei

criteri e del know how possibile grazie all’Information Communication Technology ai processi

produttivi di gestione ha provocato effetti irreversibili e dirompenti: ha reso possibile sostituire il

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lavoro dell’uomo con quello delle macchine. In questo nuovo contesto il capitale strategico è

rappresentato dalla conoscenza, sempre più specialistica, applicata diffusamente all’insieme dei

processi di produzione e di scambio su scala globale. Ma soprattutto, i processi di mercificazione

della conoscenza che, pur se regolamentati a livello locale, statale ed interstatale, avevano una

dimensione ed una natura sistemica, rendevano sempre di più i saperi e la formazione un bene in

sé, da spendere nel mercato della conoscenza e delle competenze.

Tutte queste dinamiche rendevano sempre più evidente il potenziale valore strategico delle

università, intese come strutture sociali di produzione e riproduzione di saperi attraverso la

conduzione di attività didattiche e di ricerca, per cui in quasi tutti i paesi europei esse

cominciarono ad essere interessate da disegni riformatori. Sostanzialmente i modelli europei di cui

si è detto convergevano verso un ibrido di riferimento, per cui nei paesi dove più forte era

l’indipendenza degli atenei (come in Gran Bretagna) lo stato ed i poteri pubblici cominciavano

sempre di più ad interessarsi alle questioni degli ordinamenti e dei fini professionali degli studi, da

sempre prerogativa esclusiva delle autorità accademiche. Dall’ altro lato, nei paesi come l’Italia

caratterizzati da un sistema universitario di carattere sostanzialmente pubblico fortemente

dipendente dal potere politico e dai finanziamenti ministeriali, venivano intrapresi disegni

riformatori finalizzati all’autonomizzazione degli atenei. Le traiettorie di cambiamento (oseremmo

dire sistemiche) che interessavano i sistemi di istruzione universitaria europei, determinavano

notevoli trasformazioni nella configurazione complessiva degli studi superiori. Innanzitutto

l’università delegava progressivamente ad istituzioni private quali aziende di ogni ordine e tipo la

formazione specifica di determinate competenze professionali e la produzione di particolari

progetti di ricerca.

Ma specularmente a questo fenomeno, le aziende e il capitale privato (esternalizzando in

questo modo notevoli costi di formazione e di ricerca) assegnavano in misura sempre maggiore

all’università il compito di qualificazione della forza lavoro, ed in special modo della manodopera

cognitiva costituita dai knowledge workers, e gli oneri della produzione e della sperimentazione di

conoscenze scientifiche da applicare allo sviluppo produttivo (Research and development). Si

veniva così a creare un rapporto sempre più stretto tra industria e capitale privato e le università,

che, lungi dall’essere i luoghi della libera sperimentazione sociale e culturale che si voleva fossero

nel ’68 e dintorni, si configuravano in misura sempre maggiore come delle imprese della

conoscenza, che formano laureati e producono saperi immediatamente solvibili sul mercato.

Ma la forte domanda di knowledge rivolta all’università dal sistema produttivo (Tronchetti

Provera, 2002, pp. 207-209) non esaurisce certo tutti gli altri aspetti della mercificazione dei

saperi, per cui ogni informazione, ogni conoscenza, ogni prodotto immateriale dell’intelletto

umano e qualsiasi competenza acquisita, divengono un bene monetizzabile da accumulare,

valutare in crediti, e successivamente spendere nella propria nicchia di mercato di riferimento. Le

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università europee cominciavano così, diffusamente, a trasformarsi da complesse strutture sociali

dalla natura sostanzialmente pubblica, in multidifferenziate “agenzie” locali, nazionali e globali, di

fornitura di servizi e prestazioni scientifico-culturali di vario genere, votate alla formazione di

competenze e alla produzione di conoscenze. Inoltre, i differenti sistemi universitari conoscevano

una progressiva diversificazione, per cui accanto ad una funzione di istruzione sempre più

massificata (gli studiosi l’avrebbero definita “l’università esamificio”) e sempre più specializzante,

per cui nascevano corsi universitari che insegnassero ogni inezia possibile, la formazione delle

élite veniva articolata in canali differenziati affatto accessibili a tutti, che terminavano con studi di

specializzazione di rigida selezione e dai costi altissimi.

Tutte queste funzioni fondamentali assolte dagli istituti universitari, nonché il valore aggiunto

che essi avrebbero potuto fornire alla legittimazione politica e culturale del processo di

unificazione europea in corso, insieme alla strategicità che il possesso delle conoscenze assumeva

nella competizione internazionale e nella ridefinizione delle gerarchie della divisione internazionale

del lavoro, fecero sì che le istituzioni europee, dopo il carbone, l’acciaio e la moneta,

cominciassero ad interessarsi dell’oro “immateriale”: la conoscenza; e del Re Mida pour excellence

della produzione culturale e lavorazione intellettuale di quest’oro: l’università.

Sono queste le ragioni alla base delle trasformazioni e delle riforme che hanno interessato gli

atenei italiani ed europei nei quindici anni scorsi, che fanno esprimere la letteratura nel senso

dell’emergere di una quarta fase (successiva alle tre di cui si è detto) nella storia delle università.

Fattori che aprono uno scenario che per l’università italiana, a causa della mancata risoluzione di

problemi precedenti, diviene maggiormente complicato e di difficile lettura.

I documenti prodotti all’interno delle istituzioni europee nel corso degli anni Novanta del

secolo scorso, andavano proprio nel senso della costituzione di uno “Spazio Europeo dell’Istruzione

Superiore” adeguato e capace di far fronte, in maniera efficiente, produttiva e socialmente

sostenibile, ai processi di trasformazione di cui si diceva. In particolare, tornando a parlare del

Libro bianco del 1993, che portava la firma di Jacques Delors, esso sostiene che “la formazione e

l'istruzione sono considerati degli strumenti di politica attiva del mercato del lavoro, in quanto

servono ad adeguare la preparazione professionale dei lavoratori e dei giovani alle mutevoli

esigenze del mercato. Inoltre, essi rappresentano uno strumento basilare di lotta al tipo di

disoccupazione che più affligge il nostro sistema, quella giovanile e quella di lunga durata. Il

principio fondamentale alla base di ogni azione riguardante la formazione deve essere la

valorizzazione del capitale umano lungo tutto il periodo della vita attiva. L'obiettivo è quello di

imparare a imparare per tutto il corso della vita. Per agevolare il passaggio dei giovani dalla

scuola alla vita professionale, vanno ampliate le forme di tirocinio ed apprendistato presso le

imprese e, ad integrazione di ciò, vi è bisogno di corsi di formazione professionale brevi ed a

carattere eminentemente pratico organizzati in centri specializzati”. Sono espressi in questo

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passaggio due elementi sostanziali e concettuali di primaria importanza, in termini di conseguenze

che essi avrebbero poi avuto sulla configurazione del sistema europeo di istruzione superiore: essi

sono in primo luogo quello della professionalizzazione crescente e necessaria dei programmi di

studio affinché sappiano servire una domanda di “knowledge workers” sempre più strutturale e al

tempo stesso volubile, e secondariamente, dunque, affinché predispongano delle strutture adatte

a soddisfare la richiesta di formazione in età avanzata in chiave ri-professionalizzante e ri-

qualificante sul mercato del lavoro, adeguandosi così alle necessità imposte dal paradigma del

long life learning, l’apprendimento costante anche se intervallato da periodi lavorativi, lungo tutto

l’arco della vita.

Un argomento fondamentale toccato dal documento è quello delle risorse da reperire per il

corretto funzionamento del sistema di istruzione-formazione; all’uopo la relazione reputa

indispensabile “un maggiore coinvolgimento delle imprese nei processi di formazione, ad esempio

attraverso una riduzione degli oneri sociali per quelle aziende che intraprendono azioni di

formazione”, ponendosi quindi decisamente sulla lunghezza d’onda di una entrepreneurial

university la quale, coadiuvata dai poteri pubblici su scala internazionale, nazionale e locale,

sappia però trovare fonti di finanziamento esterne vendendo i prodotti delle proprie ricerche sul

mercato e formando manodopera cognitiva (alcuni lo chiamano precariato intellettuale) ovvero

forza lavoro qualificata, flessibile ed addestrata, “preparata quanto basta a leggere i segni della

produzione”, all’interno di un paradigma di accumulazione post-fordista e nell’era della “new

economy”.

Nel 1996 l’Unione Europea pubblica il “White Paper on Education and Training” con il titolo di

“Teaching and Learning. Towards the Learning Society” che, come affermato nelle stesse

dichiarazioni introduttive, prende le mosse dal Libro Bianco del ’93, che aveva affermato

l’importanza per l’Europa degli investimenti immateriali, soprattutto nel settore dell’educazione e

della ricerca, dal momento che gli investimenti in conoscenza giocano un ruolo fondamentale per

lo sviluppo, la competitività e la coesione sociale. Ancora il Libro Bianco del ’96 tenta di seguire le

direttive espresse dai meeting dei Consigli Europei di Madrid e Cannes del 1995, nei quali era

stato affermato che le “politiche e di tirocinio e di formazione, che sono fondamentali per

incrementare lo sviluppo e la competitività, vanno rafforzate, specialmente per ciò che riguarda la

formazione continua”. Il Libro Bianco tentava di cominciare a dare attuazione ai dettati degli

articoli 126 e 127 del Trattato di Costituzione della Comunità Europea, che esplicitamente

invocavano l’azione comunitaria a sostegno dello sviluppo e della qualità dell’educazione impartita

dalle università e dagli istituti di formazione terziaria, da perseguire attraverso l’incoraggiamento

della cooperazione tra gli stati membri e il supporto, economico e politico alla loro azione in

questo settore. Già in questo passaggio erano contenute, dal punto di vista formale, le

dichiarazioni che avrebbero dato avvio all’armonizzazione dei sistemi universitari dei differenti

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paesi europei, nonché al rafforzamento delle dinamiche di convergenza tra questi vari modelli.

Ancora, nel documento, vengono indicati gli obiettivi da perseguire nell’ambito della progressiva

estensione, della diversificazione e del miglioramento della qualità dell’higher education:

incoraggiare l’acquisizione di nuove conoscenze da valorizzare su mercato; rendere la scuola e il

mondo della produzione maggiormente integrati tra loro; incrementare gli investimenti in

formazione e istruzione e accrescere il valore del “capitale umano” all’interno dei paesi

dell’Unione; sviluppare la padronanza delle lingue europee e combattere l’esclusione culturale e

sociale.

All’interno del Libro Bianco vengono insomma evidenziate la portata e la strategicità della

istruzione e della formazione, nonché degli investimenti immateriali per competere in un mercato

internazionale del lavoro iperprofessionalizzato e ipertecnologizzato, continuamente in

trasformazione, anche a causa delle innovazioni apportate e dei cambiamenti necessitati

dall’incredibile sviluppo delle tecnologie informatiche (Are, 2002, introduzione). Il ruolo delle

università (deputate alla formazione d’eccellenza e, attraverso la conduzione di programmi di

ricerca scientifica di alta qualità, alla produzione di conoscenze che implementino, velocizzino e

rendano più proficui i processi produttivi) acquista una importanza fondamentale per tre ordini di

ragioni principali: in primo luogo in conseguenza delle necessità, moltiplicatesi e differenziatesi a

livello esponenziale, espresse dal mercato del lavoro in termini di conoscenze sempre più

specifiche da applicare ai processi produttivi, e forza lavoro sempre più qualificata, flessibile,

integrata; in secondo luogo, l’importanza delle università in quanto produttrici di saperi, diviene

sempre più limpida a fronte della emergenza e della progressiva amplificazione di un vero e

proprio mercato mondiale della conoscenza, della produzione di saperi, della formazione e “dei

cervelli”, nella cui competizione si confrontano i singoli individui, le nazioni, e i sistemi educativi

europei ed americani. I saperi e la conoscenza, oltre ad essere sempre più importanti nella

conduzione di qualsiasi attività economica e qualsivoglia compito politico-organizzativo, divengono

un bene in sé, spendibile (in termini di skills, di competenze possedute) all’interno di un vero e

proprio mercato dei saperi, della istruzione, della in-formazione. Saranno queste le cause pure

delle riforme universitarie italiane, che tenteranno di adeguare i nostri atenei alla provvisione di

queste mansioni formative notevolmente mutate e in continua evoluzione. Ed i relativi criteri

imprenditorialistici della riforma eccederanno nella volontà di quantificazione mercificata di ogni

relazione socio-culturale, si esprimeranno in veri e propri crediti come se invece di studiare si

acquistassero azioni, comportando una sorta di “monetizzazione” di tempo e applicazione dedicati

all’apprendimento di conoscenze e competenze da vendere.

Nel documento dell’Unione europea, dunque, vengono definite le caratteristiche della learning

society, che si sostanziano nell’internazionalizzazione dell’economia dei beni immateriali e dei

saperi in genere, nella crescita della “società dell’informazione” e nello sviluppo delle conoscenze

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tecniche e scientifiche: il ruolo dell’università appare strategico (oltreché nella formazione) non

solo sotto l’aspetto della produzione di saperi, ma anche dal punto di vista della conservazione di

questi stessi saperi prodotti (con tutto ciò che questo comporta in termini di proprietà dei risultati

di progetti di ricerca ed in termini di proprietà intellettuale più in generale).

L’azione comunitaria in materia di istruzione si pone dunque lungo un percorso di

integrazione/convergenza dei sistemi universitari e di formazione terziaria europei, affinché questi

siano capaci di provvedere alla mutata natura sociale della domanda di educazione.

Se per quanto riguarda l’affermazione di principi universali (in cui potessero simultaneamente

e complessivamente riconoscersi le università europee) notevole importanza aveva avuto, nel

1988, l’adozione della Magna Charta Universitatum, il cosiddetto “Bologna process” vero e proprio

(e cioè il processo istituzionale di armonizzazione dei sistemi universitari dei differenti paesi

europei) sarebbe cominciato solo il 19 giugno del 1989, allorché i ministri dell’istruzione di 29 stati

(tra cui quelli della Comunità Europea e quelli che avevano sottoscritto lo European Fair Trade

Agreement) firmarono la Dichiarazione della Sorbona, predisposta l’anno precedente dai ministri di

Italia, Gran Bretagna, Francia e Germania. Al meeting di Bologna, tenuto in occasione dei

festeggiamenti per il nono centenario dell’ateneo bolognese, hanno fatto seguito le Conferenze di

Praga nel 2001 e quella di Berlino nel 2003, all’interno delle quali vennero valutati i primi risultati

della azione europea concertata in materia di istruzione universitaria, nonché le misure da

prendere e le indicazioni da fornire per una implementazione di questo processo.

In Italia, intanto, nel febbraio del 1997 era stata istituita la Commissione Martinotti, incaricata

di formulare proposte concrete per dare attuazione definitiva al percorso di autonomizzazione

degli atenei cominciato nel 1989, in virtù delle nuove prospettive aperte dalle dinamiche di

integrazione dei sistemi universitari dei differenti paesi europei all’interno di una variegata e

complessiva European Higher Education Area. Se con la Legge 1997 n. 59 veniva istituito il

Consiglio Nazionale degli Studenti e venivano predisposte misure per sostenere il diritto allo studio

(che, in realtà, veniva riconcettualizzato come un servizio e progressivamente mercificato

attraverso la costituzione delle A.Di.Su), con la Legge n. 127 dello stesso anno erano stati

compiuti notevoli passi in avanti, nel senso della responsabilizzazione finanziaria e della

autonomizzazione didattico-disciplinare degli atenei, i quali determinavano l’ordinamento dei corsi

di diploma, di laurea e delle scuole di specializzazione in maniera sempre più indipendente, pur se

“in conformità con i criteri generali definiti, nel rispetto della normativa comunitaria vigente in

materia, sentiti il Consiglio Universitario Nazionale e le Commissioni parlamentari competenti, con

uno o più decreti del ministro dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica, di concerto

con gli altri ministri interessati” (CRUI).

I risultati della Commissione Martinotti, confluiti nella relazione finale presentata il 9 dicembre

dello stesso anno, passata alla storia come “bozza” ed intitolata “Autonomia didattica e

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innovazione dei corsi di studio a livello universitario e post-universitario”, affermavano la

necessità di rinnovare profondamente il sistema universitario italiano per adeguarlo, in armonia

con quanto succedeva su scala europea, alle mutate condizioni e caratteristiche della domanda

sociale di istruzione d’eccellenza e di formazione terziaria. Continuando l’antica pratica di

predisporre misure legislative parziali da completare successivamente in vista di un disegno di

riforma organico non più procrastinabile, il documento prodotto dalla Commissione indicava le

direttrici portanti di cambiamento lungo le quali si sarebbero dovute incamminare le istituzioni

universitarie italiane.

Si riteneva necessaria (oltre alla predisposizione di programmi di formazione continua e

successiva agli studi universitari, che fosse capace di garantire moduli didattici di formazione

specifica e di riqualificazione professionale da alternare all’attività lavorativa) una progressiva

contrattualizzazione del rapporto tra studenti e ateneo, nonché una differenziazione competitiva

tra gli atenei stessi affinché questi fossero capaci di attirare risorse e iscritti in base all’effettiva

qualità dei servizi formativi offerti. Per cui, pur mantenendo intatto il valore legale del titolo di

studi, veniva auspicata una più marcata professionalizzazione degli insegnamenti affinché le

competenze acquisite durante gli studi universitari fossero adeguate a quanto veniva richiesto dal

mercato del lavoro e dalla profonda riconfigurazione in corso delle figure lavorative e delle

gerarchie nella divisione internazionale del lavoro sociale, soprattutto per quanto concerneva i

knowledge workers e le professioni ad alto coefficiente di preparazione scientifica e culturale.

Ancora, veniva richiesta l’adozione di un sistema di valutazione delle attività svolte dagli atenei

italiani che avesse portata nazionale e che fosse capace di svolgere i delicati compiti di controllo e

di perequazione finanziaria cui organismi di tal genere provvedevano nel resto d’Europa.

Ma i punti principali e qualificanti della “bozza Martinotti”, almeno per ciò che concerne le

trasformazioni ordinamentali che essa favorì nell’università italiana attraverso due leggi

successive, erano rappresentate dalle indicazioni in virtù dell’innovazione curricolare e

dell’adozione del sistema dei crediti coerente con lo European Credit Transfer System. Sotto

l’aspetto curricolare, l’università avrebbe dovuto provvedere alla predisposizione di ordinamenti e

piani di studio (peraltro rigidamente compartimentati all’interno di “pacchetti formativi

preconfezionati”) differenziati ma comunicanti e disposti tra loro in maniera seriale: bisognava

istituire dei percorsi di studio dalla presunzione professionalizzante della durata massima di tre

anni, terminati i quali ogni singolo studente avrebbe deciso se proseguire ed approfondire gli studi

all’interno di percorsi biennali specialistici, ovvero se specializzarsi attraverso la frequentazione di

corsi di master professionalizzante tenuti all’interno degli atenei e finalizzati ad una specifica

qualificazione professionale, oppure se tentare direttamente l’ingresso nel mercato del lavoro.

Attraverso il sistema dei crediti, invece, si cercava di trovare un meccanismo che permettesse la

computazione di attività disciplinari e formative alternative alla modalità cattedratica di corsi e

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seminari, e che favorisse la mobilità degli studenti attraverso una valutazione ponderata del loro

titolo, resi comparabili ed equipollenti a livello comunitario; si cercava inoltre una adeguata misura

di valutazione dei carichi didattici che permettesse di acquisire particolari competenze, di

monetizzarle, e di renderle spendibili nel mercato del lavoro come in successivi programmi di

apprendimento. Con le indicazioni contenute nella Relazione e che sarebbero diventate statuizioni

legislative a distanza di pochissimo tempo, si cercava di riformare complessivamente il sistema

universitario italiano, che era caratterizzato e oberato da numerose disfunzioni e crisi croniche

delle quali non si riusciva più a venire a capo. Bisognava accorciare la durata complessiva degli

studi, consentendo nello stesso tempo il conseguimento di un titolo medio di valore universitario

al crescente numero di studenti che si iscrivevano all’università meramente per ottenere un

diploma ed una qualifica professionale più adeguata alle richieste del mercato del lavoro. Si

rendeva necessaria una riforma che approntasse dei percorsi formativi definiti secondo i criteri

elaborati in sede europea.

A fronte di questi processi, durante questi anni Luigi Berlinguer aveva tenuto nelle sue mani la

guida di entrambi i dicasteri della Pubblica Istruzione e della Università e Ricerca Scientifica

riuscendo, attraverso la più che abusata pratica delle circolari ministeriali, ad imporre una linea

riformatrice, appropriata o meno che fosse (Beccaria), all’intero sistema di istruzione italiano.

Tuttavia, sarà soltanto nel 2000 che il ministro Ortensio Zecchino, succeduto a Berlinguer e a

Tullio De Mauro nella sua carica, firmerà tre importantissimi decreti che disegneranno l’università

rinnovata del 3+2, portando a compimento (De Mauro De Renzo) il processo di autonomizzazione

e trasformazione delle università italiane cominciato nel 1989 con il disegno Ruberti. Per cui,

prima di concludere il lavoro con delle considerazioni generali e riassuntive della ricerca, è

opportuno tratteggiare i contorni e gli assetti che gli atenei del nostro paese hanno assunto a

seguito di questo insieme di riforme. Va detto ancora, che la analisi dei processi di trasformazione

dell’università italiana e dei conseguenziali disegni di riforma del sistema, può definirsi terminata a

questo punto dal momento che l’attuale governo in carica, a parte slogan impresarizzanti del tipo

“internet, inglese, impresa”, rimasti peraltro inspiegati e, nella pratica, completamente disattesi,

non ha prodotto nulla di sostanziale per quanto riguarda le università italiane in termini di riforma

se si escludono tre argomenti principali, tutti significativi dell’opera e degli interessi del ministero

Moratti.91

Come precedentemente accennato, Ortensio Zecchino firmò tre decreti che portavano a

conclusione l’opera riformatrice dei governi di centro-sinistra. Pur ribadendo che i processi di

trasformazione e riforma delle università italiane sono ancora in corso (come appare intrinseco per

91 Nello specifico l’azione ministeriale del ministro Moratti è stata capace solo di emanare un contestatissimo decreto nel quale è prevista la cancellazione della figura del ricercatore; più significativa è stata l’opera ministeriale nella ristrutturazione dell’istruzione secondaria o nel sostegno a progetti di Information Communication Technologies, a proposito del quale si veda il Libro Bianco del M.I.U.R.

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qualsiasi dinamica di cambiamento sociale), possiamo affermare che queste leggi, che

riguardavano ordinamenti didattici e strutturazione curricolare, classi delle lauree e sistema dei

crediti, segnarono il passo implicando una ristrutturazione complessiva degli studi universitari e

della loro concezione e sostanziando definitivamente l’autonomia degli atenei, almeno dal punto di

vista didattico-disciplinare ed amministrativo. Nello specifico, il disegno riformatore cominciato

negli anni precedenti viene portato a compimento con il decreto del 4 gennaio del 2000, che

sancisce la fase di inizio della sperimentazione della riforma (che si conclude nell’anno accademico

in corso) e stabilisce il regolamento relativo alle norme sull’autonomia didattica degli atenei.

Il decreto ministeriale del 4 agosto dello stesso anno consolida il processo di trasformazione

delle università istituendo le classi di laurea di primo livello, raggruppamenti scientifico-disciplinari

predisposti dal ministero in accordo con il Consiglio Universitario Nazionale e sentito il parere della

Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. In pratica venivano sostituite una volta per tutte

le tabelle ministeriali di derivazione casatiana con degli ampi e variegati raggruppamenti

curriculari, in considerazione dei quali le università sceglievano i singoli insegnamenti costituenti i

differenti piani di studio e pacchetti formativi. Purtroppo si sarebbe fatto un uso improprio di

questa autonomia, che avrebbe prodotto una moltiplicazione indebita dei corsi, dei nomi degli

insegnamenti, dei titoli delle lauree, determinata dalla necessità degli atenei di attirare quanti più

studenti possibili verso i propri prodotti. Successivamente, il 28 novembre 2000, attraverso un

ulteriore apposito decreto, sarebbero state istituite le classi di laurea specialistiche corrispondenti

a quelle triennali.

Il sistema universitario italiano contemporaneo appare così configurato come riportato nelle

tabelle in Appendice Statisica. Esiste un corso di laurea di primo livello, che dura tre anni e che

richiede il conseguimento di 180 crediti formativi. Al termine del primo livello, qualora si scelga di

continuare gli studi a discapito della specializzazione professionale primaria o dell’ingresso nel

mercato del lavoro, si accede al secondo livello di altri due anni di studi, notevolmente

differenziato e fortemente specializzante, che richiede il conseguimento di ulteriori 120 crediti

formativi. In altre parole, grazie alla semestralizzazione e alla modularizzazione delle attività

didattiche, ogni anno di corso di studi può rendere sessanta crediti formativi ottenibili attraverso il

sostenimento ed il superamento di prove disciplinari di natura molteplice, dal corso di vecchio

stampo, al seminario di approfondimento, alle attività culturali integrative. Alla fine del percorso

universitario viene previsto l’istituto del dottorato di ricerca, per approfondire la preparazione

scientifica e la specializzazione professionale posseduta, cui si accede superando prove di

concorso organizzate dalle singole facoltà.

I profondi e complessi processi di trasformazione che hanno interessato l’università italiana

negli anni scorsi, che hanno determinato riforme sostanziali della natura degli studi, degli

ordinamenti e del sistema generale di istruzione terziaria, paiono non essersi ancora conclusi.

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Utilizzando la prospettiva analitica di Marginson e Rhoades, che reinterpreta il triangolo di Clark

(di cui si era detto nel terzo capitolo) secondo un modello maggiormente rispondente alla

dinamicità dei processi oggetto di studio, e alla portata ed alla natura multiforme che questi

assumono, potremmo affermare che l’università contemporanea possa essere intesa come una

agenzia di produzione di saperi e di servizi, configurata da relazioni e dinamiche molteplici che

avvengono su scala locale, nazionale e internazionale. Le trasformazioni che la interessano sono

prodotte da dinamiche di natura sistemica e di portata globale. Se da un lato una serie di agenzie

internazionali - W.B., I.M.F., W.T.O., O.E.C.D - promuovono delle world policies nel settore

dell’istruzione terziaria e sostengono (attraverso cospicui finanziamenti) le riforme dei governi

nazionali finalizzate all’ampliamento, alla diversificazione e alla progressiva mercificazione

dell’offerta didattica delle università, dall’altro appare significativo il ruolo svolto in tal senso da

particolari organizzazioni interstatali e internazionali, del tipo dell’Unione Europea (dei cui

programmi a sostegno dell’armonizzazione dei sistemi universitari europei si è argomentato

precedentemente). Inoltre, a fronte della maturazione del processo di autonomizzazione, le

università si configurano in misura sempre maggiore come delle strutture sociali di produzione

complesse che svolgono funzioni molteplici e diversificate.

L’insieme di questi processi ha avuto sulle università conseguenze dalla portata immensa, i cui

esiti molteplici ancora sfuggono alle analisi di studiosi e ricercatori, e rendono tanto più arduo il

compito di interpretazione di chi si approccia allo studio di questi fenomeni.

Dal canto nostro, non resta che esprimere alcune considerazioni complessive in merito alla

questione universitaria e ribadire, precisandole, le implicazioni della presente ricerca.

La riforma universitaria ultima scorsa era necessaria per rimediare ad una inconcludenza

politica in merito ai problemi dell’istruzione superiore, che aveva caratterizzato l’intero corso

repubblicano della storia del nostro paese e che aveva costretto gli atenei italiani in una penosa

situazione di precarietà, di spreco, di stagnazione. Essa si era resa altresì indispensabile per

l’omogeneizzazione del sistema universitario italiano a quello degli altri paesi europei, attraverso

la predisposizione di titoli di studio equipollenti e di ordinamenti speculari, quand’anche e

soprattutto per adeguare gli studi universitari alle nuove e sempre cangianti caratteristiche della

domanda sociale di istruzione terziaria, provvedendo alla formazione ed alla qualificazione

professionale della forza lavoro, al trasferimento di conoscenze verso il sistema produttivo, e alla

preparazione culturale delle classi dirigenti (si pensi agli istituti universitari europei ed allo stretto

rapporto da questi tenuti con le istituzioni di Bruxelles).

A fronte di questi processi, l’università italiana contemporanea appare una istituzione

profondamente differente da quella che era fino a qualche anno fa: la questione che resta aperta e

se sarà capace di sostenere le innumerevoli e variegate sfide che il sistema storico-sociale,

complessivamente considerato, le pone. Sugli esiti (e sulle finalità stesse) di questa riforma, le

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interpretazioni della letteratura sono eterogenee, discordanti, talvolta specularmente

contrapposte: se non si possono sottacere i risultati raggiunti nella velocizzazione degli studi e

nella produzione di laureati, vanno pure tenuti in considerazione i fenomeni di progressiva

dequalificazione degli studi che hanno fatto parlare di una “licealizzazione” dell’università. Gli

atenei, oberati da mansioni sempre più numerose e differenziate, perdono progressivamente le

caratteristiche di luoghi di formazione complessiva e accrescimento culturale finalizzato alla

formazione generale della persona, e tanto più si restringono le possibilità (proprio in termini di

spazi e di tempi) che nella università nuova si sperimentino percorsi alternativi di crescita

culturale individuale e collettiva attraverso un virtuoso rapporto tra docenti e discenti. Nonostante

l’autonomia universitaria, in ragione di una crisi di risorse spaventosa e di una incapacità cronica

di autofinanziarsi, l’università appare sempre più condizionata da poteri esterni (siano essi di

natura pubblica o privata) che ne alterano continuamente e in profondità la natura di istituzione

votata alla eccellenza, nella ricerca scientifica così come nell’attività didattica, della quale ormai

non rimane più traccia (Derrida, 2002). Ci troviamo piuttosto in presenza di quella che è stata

definita la “Mc-university”, (Ribolzi, 1997) in riferimento palese alla mercificazione, alla iper-

compartimentazione propagandistica di alcuni corsi, alla supermarketizzazione dei saperi, a

sostegno della tesi argomentata in questa ricerca, della portata storica e della natura sociale di

tutte le trasformazioni dell’università, le quali si dipanano lungo determinate traiettorie ed

assumono determinate caratteristiche in relazione a più complessivi processi di cambiamento

storico-sociale.

Tuttavia, proprio in considerazione della complessità e della storicità delle trasformazioni

universitarie, nonché delle possibilità offerte dall’autonomia, pare possibile ed auspicabile che si

sperimentino degli spazio-tempi alternativi all’interno degli atenei, fatti di piccoli momenti di

crescita collettiva tra docenti e studenti, per eccedere la normalità accademica, autovalorizzando

una università senza condizione: pare essere questa la prospettiva più nobile che ci si apre

davanti per concepire in modo originale e dignitoso il nostro modo di “vivere l’università”, di fare

società.

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Figure & Tabelle

Figura 1

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Figura 2

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Figura 3

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Figura 4

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Figura 5

Schema della riforma universitaria

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Tabella 1

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Tabella 2

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Tabella 3

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Tabella 4

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Tabella 5

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Tabella 6

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Tabella 7

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Tabella 8

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Tabella 9

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Tabella 10

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Allegato 1 Elenco dei Ministri della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia

Ministro Mandato Governo

Francesco De Sanctis 17 marzo 1861 - 6 giugno 1861 Governo Cavour

Francesco De Sanctis 12 giugno 1861 - 3 marzo 1862 Governo Ricasoli I

Pasquale Stanislao Mancini

Carlo Matteucci

4 marzo 1862 - 31 marzo 1862

31 marzo 1862 - 8 dicembre 1862 Governo Rattazzi I

Michele Amari 8 dicembre 1862 - 24 marzo 1863 Governo Farini

Michele Amari 24 marzo 1863 - 28 settembre 1864 Governo Minghetti I

Giuseppe Natoli 28 settembre 1864 - 31 dicembre

1865 Governo La Marmora I

Domenico Berti 31 dicembre 1865 - 29 giugno 1866 Governo La Marmora II

Domenico Berti

Cesare Correnti

20 giugno 1866 - 17 febbraio 1867

17 febbraio 1867 - 10 aprile 1867 Governo Ricasoli II

Michele Coppino 10 aprile 1867 - 27 ottobre 1867 Governo Rattazzi II

Gerolamo Cantelli¹

Emilio Broglio

27 ottobre 1867 - 18 novembre 1867

18 novembre 1867 - 5 gennaio 1868

Governo Menabrea I

Emilio Broglio 5 gennaio 1868 - 13 maggio 1869 Governo Menabrea II

Angelo Bargoni 13 maggio 1869 - 14 dicembre 1869 Governo Menabrea III

Cesare Correnti

Quintino Sella¹

Antonio Scialoja

13 maggio 1869 - 18 maggio 1872

18 maggio 1872 - 5 agosto 1872

5 agosto 1872 - 10 luglio 1873

Governo Lanza

Antonio Scialoja

Gerolamo Cantelli¹

Ruggiero Bonghi

10 luglio 1873 - 6 febbraio 1874

6 febbraio 1874 - 27 settembre 1874

27 settembre 1874 - 20 novembre 1876

Governo Minghetti II

Michele Coppino 20 novembre 1876 - 28 dicembre

1877 Governo Depretis I

Michele Coppino 28 dicembre 1877 - 24 marzo 1879 Governo Depretis II

Francesco De Sanctis 24 marzo 1878 - 19 dicembre 1878 Governo Càiroli I

Michele Coppino 19 dicembre 1878 - 14 luglio 1879 Governo Depretis III

Francesco Paolo Perez 14 luglio 1879 - 25 novembre 1879 Governo Càiroli II

Francesco De Sanctis 25 novembre 1879 - 2 gennaio 1881 Governo Càiroli III

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Guido Baccelli 2 gennaio 1881 - 29 maggio 1881

Guido Baccelli 29 maggio 1881 - 25 maggio 1883 Governo Depretis IV

Guido Baccelli 25 maggio 1883 - 30 marzo 1884 Governo Depretis V

Michele Coppino 30 marzo 1884 - 29 giugno 1885 Governo Depretis VI

Michele Coppino 29 giugno 1885 - 10 giugno 1886 Governo Depretis VII

Michele Coppino 10 giugno 1886 - 4 aprile 1887 Governo Depretis VIII

Michele Coppino 4 aprile 1887 - 29 luglio 1887 Governo Depretis IX

Michele Coppino

Paolo Boselli

29 luglio 1887 - 17 febbraio 1888

17 febbraio 1888 - 9 marzo 1889 Governo Crispi I

Paolo Boselli 9 marzo 1889 - 6 febbraio 1891 Governo Crispi II

Pasquale Villari 6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892 Governo Starabba I

Ferdinando Martini 15 maggio 1892 - 15 dicembre 1893 Governo Giolitti I

Guido Baccelli 15 dicembre 1893 - 10 marzo 1896 Governo Crispi III

Emanuele Gianturco 10 marzo 1896 - 11 luglio 1896 Governo Starabba II

Emanuele Gianturco

Giovanni Codronchi

11 luglio 1896 - 18 settembre 1897

18 settembre 1897 - 14 dicembre 1897

Governo Starabba III

Niccolò Gallo 14 dicembre 1897 - 1 giugno 1898 Governo Starabba IV

Luigi Cremona 1 giugno 1898 - 29 giugno 1898 Governo Starabba V

Guido Baccelli 29 giugno 1898 - 14 maggio 1899 Governo Pelloux I

Guido Baccelli 14 maggio 1899 - 24 giugno 1900 Governo Pelloux II

Niccolò Gallo 24 giugno 1900 - 15 febbraio 1901 Governo Saracco

Nunzio Nasi 15 febbraio 1901 - 3 settembre

1903 Governo Zanardelli

Vittorio Emanuele Orlando 3 settembre 1903 - 12 marzo 1905 Governo Giolitti II

Vittorio Emanuele Orlando 12 marzo 1905 - 27 marzo 1905 Governo Tittoni

Leonardo Bianchi 27 marzo 1905 - 24 dicembre 1905 Governo Fortis I

Enrico De Marinis 24 dicembre 1905 - 8 febbraio 1906 Governo Fortis II

Paolo Boselli 8 febbraio 1906 - 29 maggio 1906 Governo Sonnino I

Guido Fusinato

Luigi Rava

29 maggio 1906 - 2 agosto 1906

2 agosto 1906 - 10 dicembre 1909 Governo Giolitti III

Eduardo Daneo 11 dicembre 1909 - 31 marzo 1910 Governo Sonnino II

Luigi Credaro 31 marzo 1910 - 29 marzo 1911 Governo Luzzatti

Luigi Credaro 29 marzo 1911 - 19 marzo 1914 Governo Giolitti IV

Eduardo Daneo 21 marzo 1914 - 31 ottobre 1914 Governo Salandra I

Pasquale Grippo 31 ottobre 1914 - 18 giugno 1916 Governo Salandra II

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Pasquale Ruffini 18 giugno 1916 - 30 ottobre 1917 Governo Boselli

Agostino Berenini 30 ottobre 1917 - 23 giugno 1919 Governo Orlando

Roberto De Vito

Pietro Chimenti

Giulio Alessio

23 giugno 1919 - 16 settembre 1919

16 settembre 1919 - 14 marzo 1920

14 marzo 1920 - 21 maggio 1920

Governo Nitti I

Andrea Torre 21 maggio 1920 - 15 giugno 1920 Governo Nitti II

Benedetto Croce 15 giugno 1920 - 4 luglio 1921 Governo Giolitti V

Orso Mario Corbino 4 luglio 1921 - 22 febbraio 1922 Governo Bonomi I

Antonino Anile 26 febbraio 1922 - 1 agosto 1922 Governo Facta I

Antonino Anile 1 agosto 1922 - 28 ottobre 1922 Governo Facta II

Giovanni Gentile

Alessandro Casati

Pietro Fedele

Giuseppe Belluzzo

Balbino Giuliano

Francesco Ercole

Cesare Maria De Vecchi

Giuseppe Bottai

Carlo Alberto Biggini

30 ottobre 1922 - 1 luglio 1924

1 luglio 1924 - 5 gennaio 1925

5 gennaio 1925 - 9 luglio 1928

9 luglio 1928 - 12 settembre 1929²

12 settembre 1929 - 20 luglio 1932

20 luglio 1932 - 24 gennaio 1935

24 gennaio 1935 - 15 novembre 1936

15 novembre 1936 - 5 febbraio 1943

5 febbraio 1943 - 25 luglio 1943

Governo Mussolini

Leonardo Severi

Giovanni Cuomo

25 luglio 1943³ - 11 febbraio 1944

11 febbraio 1944 - 17 aprile 1944 Governo Badoglio I

Adolfo Omodeo 22 aprile 1944 - 8 giugno 1944 Governo Badoglio II

Guido De Ruggero 18 giugno 1944 - 10 dicembre 1944 Governo Bonomi II

Vincenzo Arangio Ruiz 12 dicembre 1944 - 19 giugno 1945 Governo Bonomi III

Vincenzo Arangio Ruiz 21 giugno 1945 - 8 dicembre 1945 Governo Parri

Enrico Molè 10 dicembre 1945 - 1 luglio 1946 Governo De Gasperi I ¹ ad interim ² il Ministero cambia nome in 'Ministero dell'Educazione Nazionale' ³ il Ministero torna a chiamarsi 'Ministero dell'Istruzione Pubblica'

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Allegato 2

Elenco dei Ministri della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana

Ministro Mandato Governo

Guido Gonella 13 luglio 1946 - 28 gennaio 1947 Governo De Gasperi II¹

Guido Gonella 2 febbraio 1947 - 31 maggio 1947 Governo De Gasperi III

Guido Gonella 31 maggio 1947 - 23 maggio 1948 Governo De Gasperi IV

Guido Gonella 23 maggio 1948 - 14 gennaio 1950 Governo De Gasperi V

Guido Gonella 27 gennaio 1950 - 19 luglio 1951 Governo De Gasperi VI

Antonio Segni 26 luglio 1951 - 7 luglio 1953 Governo De Gasperi VII

Giovanni Bettiol 16 luglio 1953 - 2 agosto 1953 Governo De Gasperi VIII

Antonio Segni 17 agosto 1953 - 12 gennaio 1954 Governo Pella

Egidio Tosato 18 gennaio 1954 - 8 febbraio 1954 Governo Fanfani I

Gaetano Martino

Giuseppe Ermini

10 febbraio 1954 - 19 settembre 1959

19 settembre 1959 - 2 luglio 1955

Governo Scelba

Paolo Rossi 6 luglio 1955 - 15 maggio 1957 Governo Segni I

Aldo Moro 19 maggio 1957 - 1 luglio 1958 Governo Zoli

Aldo Moro 1 luglio 1958 - 15 febbraio 1959 Governo Fanfani II

Giuseppe Medici 15 febbraio 1959 - 23 marzo 1960 Governo Segni II

Giuseppe Medici 25 marzo 1960 - 26 luglio 1960 Governo Tambroni

Giacinto Bosco 26 luglio 1960 - 21 febbraio 1962 Governo Fanfani III

Luigi Gui 21 febbraio 1962 - 21 giugno 1963 Governo Fanfani IV

Luigi Gui 21 giugno 1963 - 4 dicembre 1963 Governo Leone I

Luigi Gui 4 dicembre 1963 - 22 luglio 1964 Governo Moro I

Luigi Gui 22 luglio 1964 - 23 febbraio 1966 Governo Moro II

Luigi Gui 23 febbraio 1966 - 24 giugno 1968 Governo Moro III

Giovanni Battista Scaglia 24 giugno 1968 - 12 dicembre 1968 Governo Leone II

Fiorentino Sullo

Mario Ferrari Aggradi

12 dicembre 1968 - 24 febbraio 1969

24 febbraio 1969 - 5 agosto 1969

Governo Rumor I

Mario Ferrari Aggradi 5 agosto 1969 - 23 marzo 1970 Governo Rumor II

Riccardo Misasi 27 marzo 1970 - 6 agosto 1970 Governo Rumor III

Riccardo Misasi 6 agosto 1970 - 17 febbraio 1972 Governo Colombo

Riccardo Misasi 17 febbraio 1972 - 26 giugno 1972 Governo Andreotti I

Oscar Luigi Scalfaro 26 luglio 1972 - 7 luglio 1973 Governo Andreotti II

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Franco Maria Malfatti 7 luglio 1973 - 14 marzo 1974 Governo Rumor IV

Franco Maria Malfatti 14 marzo 1974 - 23 novembre 1974 Governo Rumor V

Franco Maria Malfatti 23 novembre 1974 - 12 febbraio

1976 Governo Moro IV

Franco Maria Malfatti 12 febbraio 1976 - 29 luglio 1976 Governo Moro V

Franco Maria Malfatti 29 luglio 1976 - 11 marzo 1978 Governo Andreotti III

Mario Pedini 11 marzo 1978 - 20 marzo 1979 Governo Andreotti IV

Giovanni Spadolini 20 marzo 1979 - 4 agosto 1979 Governo Andreotti V

Salvatore Valitutti 4 agosto 1979 - 4 aprile 1980 Governo Cossiga I

Adolfo Sarti 4 aprile 1980 - 18 ottobre 1980 Governo Cossiga II

Guido Bodrato 18 ottobre 1980 - 26 giugno 1981 Governo Forlani

Guido Bodrato 28 giugno 1981 - 23 agosto 1982 Governo Spadolini I

Guido Bodrato 23 agosto 1982 - 1 dicembre 1982 Governo Spadolini II

Franca Falcucci 1 dicembre 1982 - 4 agosto 1983 Governo Fanfani V

Franca Falcucci 4 agosto 1983 - 1 agosto 1986 Governo Craxi I

Franca Falcucci 1 agosto 1986 - 17 aprile 1987 Governo Craxi II

Franca Falcucci 17 aprile 1987 - 28 luglio 1987 Governo Fanfani VI

Giovanni Galloni 28 luglio 1987 - 13 aprile 1988 Governo Goria

Giovanni Galloni 13 aprile 1988 - 22 luglio 1989 Governo De Mita

Sergio Mattarella

Gerardo Bianco

22 luglio 1989 - 27 luglio 1990

27 luglio 1990 - 12 aprile 1991 Governo Andreotti VI

Riccardo Misasi 12 aprile 1991 - 28 giugno 1992 Governo Andreotti VII

Rosa Russo Iervolino 28 giugno 1992 - 28 aprile 1993 Governo Amato I

Rosa Russo Iervolino 28 aprile 1993 - 10 maggio 1994 Governo Ciampi

Francesco D'Onofrio 10 maggio 1994 - 17 gennaio 1995 Governo Berlusconi I

Giancarlo Lombardi 17 gennaio 1995 - 17 maggio 1996 Governo Dini

Luigi Berlinguer 17 maggio 1996 - 21 ottobre 1998 Governo Prodi

Luigi Berlinguer 21 ottobre 1998 - 22 dicembre 1999 Governo D'Alema I

Luigi Berlinguer 22 dicembre 1999 - 25 aprile 2000 Governo D'Alema II

Tullio De Mauro 25 aprile 2000 - 11 giugno 2001 Governo Amato II

Letizia Moratti 11 giugno 2001 - 23 aprile 2005 Governo Berlusconi II

Letizia Moratti 23 aprile 2005 - Governo Berlusconi III ¹ primo governo della Repubblica

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Appendice normativa

Allegato 1. Editto di Roncaglia

Habita super hoc diligenti episcoporum, abbatum, ducum et omnium iudicum et procerum

sacri palacii nostri examinatione, omnibus qui causa studiorum peregrinantur scolaribus, et

maxime divinarum atque sacrarum legum professoribus hoc nostre pietatis beneficium

indulgemus, ut ad loca, in quibus litterarum exercentur studia, tam ipsi quam eorum nuntii

veniant et habitent in eis securi. Dignum namque existimamus, ut, cum bona facientes nostram

laudem atque protectionem mereantur, omnes eos, quorum scientia mundus illuminatur, ad

obediendum Deos et nobis, ministris eius, vita subiectorum informatur, quidam speciali dilectione

ab omni iniuria defendamus. Quis eorum non misereatur? Amore scientie facti exules, de divitibus

pauperes, semetipsos exinaniunt, vitam suam omnibus periculis exponunt et a vilissimis sepe

hominibus (quod graviter ferendum est) corporales iniurias sine causa perferunt.

Hac igitur generali lege et in eternum valitura decrevimus, ut nullo de cetero tam audax

inveniatur, qui aliquam scolaribus iniuriam inferre presumat, nec ob alterius eiusdem provincie

debitum, quod aliquando ex perversa consuetudine factum audivimus, aliquod dampnum eis

inferat. Scituris huius sacre legis temeratoribus et illius temporis, si hoc vindicare neglexerint,

locorum rectoribus, restitutionem rerum ablatarum ab omnibus erigendam in quadruplum,

notaque infamie ipso iure irrogata, digitate sua careant in perpetuum. Verum tamen, si eis litem

super aliquo negotio quispiam movere voluerit, huius rei opzione data scolaribus, eos coram

domino aut magistro suo vel ipsius civitatis episcopo, quibus in hoc iurisdictione dedimus,

conveniat. Qui vero ad alium iudicem eos trahere temptaverit, causa, etiam si iustissima fuerit,

pro tali conamine cadat. Hanc autem legem inter imperiales constitutiones sub titulo << ne filius

pro patre, etc >> inseri iussimus.

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Allegato 2

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Allegato 3 . La Riforma Gentile

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Allegato 4

Regio decreto 31 Agosto 1933

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Art 238 ……b) la preparazione degli interpreti per i servizi dei Ministeri degli affari esteri e delle colonie; c) la preparazione e la cultura coloniale dei funzionari civili e militari e di privati che debbano o vogliano esercitare il loro ufficio e la loro attività nelle Colonie italiane di diretto dominio o all’estero; d) di contribuire, con Scuole di perfezionamento, con borse di studio, pubblicazioni ed altri mezzi, alla diffusione e al progresso degli studi per la conoscenza del paese e dei popoli dell’Asia e dell’Africa ed in particolare delle Colonie italiane di diretto dominio. Art 239- Per il raggiungimento dei fini di cui all’articolo precedente il R. Istituto orientale di Napoli potrà provvedere con speciali convenzioni, da stipularsi con Enti, stabilimenti o istituti pubblici di istruzione o con corpi scientifici, alla integrazione, allo scambio e alla istituzione di insegnamenti linguistici o di corsi di istruzione o di cultura scientifica o professionale volti al completamento o al miglioramento degli studi , che si compiono nel R. istituto. Tali convenzioni saranno approvate per decreto reale, su proposta del Ministero per l’educazione nazionale, di concerto col Ministero da cui dipende o sotto la vigilanza del quale è posto l’Ente, lo stabilimento o l’istituto con cui la convenzione ha luogo.

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Allegato 5

Costituzione della Repubblica italiana

Art. 2.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Art. 3.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 9.

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione

Art. 33.

L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.

La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.

La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.

È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.

Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

Art. 34.

La scuola è aperta a tutti.

L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.

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I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

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DOCUMENTI UFFICIALI

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Costituzione della Repubblica Italiana

DPR 11-07-1980 n. 382

Legge 09-05-1989 n. 168

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