I problemi della filosofia · RUSSELL , I problemi della filosofia , Feltrinelli WEISCHEDEL, La...

46
ERNESTO RIVA I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA Breve introduzione alla filosofia TORINO 2006

Transcript of I problemi della filosofia · RUSSELL , I problemi della filosofia , Feltrinelli WEISCHEDEL, La...

ERNESTO RIVA

I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA

Breve introduzione alla filosofia

TORINO 2006

2

INDICE

1. Che cos’è oggi la filosofia? ………………………… p. 3 2. Chi sono io? Il senso e l’assurdo …………………… p. 6 3. L’amicizia e l’amore ……………………………….. p. 10 4. Il problema dell’anima ……………………………… p. 12 5. La libertà ……………………………………………. p. 15 6. Il fondamento della morale …………………………. p. 18 7. La paura e l’angoscia ……………………………….. p. 21 8. La ricerca della felicità ……………………………… p. 23 9. Le ragioni della fede ………………………………… p. 25 10. Le ragioni dell’ateismo ……………………….. p. 28 11. Omicidio e suicidio ……………………………. p. 32 12. L’uomo e gli animali …………………………. p. 35 13. Il dolore e il male ……………………………… p. 38 14. Siamo soli nell’universo? ……………………... p. 40 15. E dopo la morte? ………………………………. p. 42 Conclusione che va bene anche come prefazione ……… p. 46

3

1. CHE COS’E’ OGGI LA FILOSOFIA?

Oggi vi dovrei parlare di "filosofia", un termine ed una materia che può incutere forse rispetto ma anche un po' di paura o sospetto o diffidenza per chi non l'ha mai affrontata prima, e dunque da tenere a debita distanza. Perché una simile reazione? Perché ognuno di noi ha paura di ciò che non conosce e quindi sta all'erta ed è pronto a difendere le cose che ritiene più importanti, per la sua vita e per la vita degli altri. Una delle principali caratteristiche della filosofia è quella per cui essa cerca di far superare all'uomo le sue paure e di condurlo per una strada che lo porti alla libertà, in modo che possa giungere alla meta più ambita della filosofia stessa: la verità. Possiamo quindi definire la filosofia, già da subito, come la ricerca disinteressata della verità. Sottolineerei l'aggettivo "disinteressata". Non esiste nessun'altra attività o forma di sapere che sia altrettanto "disinteressata" come la filosofia, giacché essa non ha alcun altro scopo se non la conoscenza per "amore della conoscenza stessa". Non per nulla, la parola "filosofia" - come probabilmente saprete vuol dire in greco "amore per il sapere". Il filosofo è dunque colui che ama e desidera conoscere la verità per amore della verità stessa, nel senso più alto e disinteressato del termine. A lui non interessa la verità per strumentalizzarla ad un fine qualunque (denaro, potere, felicità, immortalità ecc.) bensì per la sola ed esclusiva esigenza di verità e sete di conoscenza. Con ciò intendo ribadire che essa non è tanto la ricerca dell’ultimo o del primo fondamento, non è tanto la ricerca della essenza profonda delle cose, non è tanto la ricerca del mistero dell’essere o della conoscenza assoluta e simili. Essa può anche riguardare quelle cose se nel suo cammino si imbatte in esse ma non è affatto detto che essa debba per forza scoprire chissà che o tendere ad una scienza esoterica. La ricerca della verità è nello stesso tempo più ampia e più umile : non pretende nulla e non inizia il suo cammino sapendo già dove vuole arrivare; al contrario, non sa proprio dove la porterà la sua ricerca . La filosofia, essendo una ricerca disinteressata, potrebbe fare, come dicevo all'inizio, paura a molti. In primo luogo, a tutte quelle persone che hanno o seguono ideologie o credenze assolutistiche o totalitaristiche, perché esse vogliono imporre la loro visione del mondo a scapito di tutte le altre. Mentre la ricerca libera e disinteressata non esclude le altre prospettive ma si confronta con esse nel cammino comune verso il valore ideale della verità. In secondo luogo, la filosofia può fare paura ed essere rifiutata da tutti coloro che si ostinano nelle loro credenze ritenendo di avere la verità in tasca e non ammettendo di potersi sbagliare. La filosofia può invece insegnare loro che il cammino verso la verità è lungo e difficile, che bisogna avere il coraggio e la forza di decentrarci, di uscire da noi stessi, di porci in ascolto degli altri (la filosofia è una scuola di tolleranza), in modo di non considerarci l'Assoluto ma di ritenere la propria prospettiva una delle tante e non l'unica completa e vera. La filosofia, in altri termini, implica il riconoscimento dei propri limiti, l'accettazione del nostro essere uomini e dunque soggetti a sbagliare, ma anche l'accettazione che lo sforzo comune nella ricerca della libertà e della verità è fondamentale per la sua realizzazione. In terzo luogo, la filosofia può far paura a tutti coloro i quali rifiutano di "conoscere se stessi", di porsi i problemi fondamentali e di dare loro una risposta (chiedersi: che cos'è l'uomo? c'è Dio? c'è qualcosa dopo la morte? cos'è il bene e il male? ecc.) per adagiarsi in un menefreghismo superficiale facendo finta di nulla. Purtroppo, però, nelle situazioni-limite dell'esistenza, che toccano prima o poi ogni essere umano, quelle domande ritornano incessanti e non riusciamo a sfuggirle. Quando si è soli, quando si è tristi, quando muore qualche persona cara ci dobbiamo necessariamente confrontare col nostro io più profondo, ed allora sarà quasi con terrore che riconosceremo di aver sprecato molto del nostro tempo, cercando di imbottirci la testa con pregiudizi e teorie già confezionate, risposte pronte ma che non abbiamo mai realmente sottoposte ad esame e fatte realmente nostre poiché non le abbiamo praticamente mai vissute. La filosofia può

4

aiutare a liberarci dal modo inautentico in cui abbiamo fino a quel momento vissuto per farci cominciare da capo, per farci voltare pagina, per iniziare una vita nuova, più sincera, per cominciare l'avventura della conoscenza verso la nostra più autentica e vissuta verità. Essa ci chiederà, per prima cosa, di fare piazza pulita di tutto quello che credevamo di sapere. Ci libera dallo stupido orgoglio di crederci chissà chi, - una strada che ci condurrà verso la realizzazione della nostra essenza più profonda, verso quell'esigenza - presente nel cuore di ogni uomo - di felicità, bontà, bellezza, verità, insomma di ogni valore positivo. Vi è certo nel mondo la presenza del negativo, del male, ma la filosofia può contribuire a sconfiggerlo, affinché esso non prevalga nell'animo umano e l'ultima parola sia data comunque al Bene. La storia della filosofia è la storia affascinante delle risposte che l'uomo ha dato, nel corso di più di due millenni di storia, a tutti gli interrogativi che la mente umana si è posta ed a cui ha tentato di rispondere. Ma non ci deve colpire tanto la diversità fra le tante teorie quanto piuttosto il fatto che siamo riusciti ad elaborare sistemi di pensiero così diversificati. Ma vi rendete conto? Non è bello riconoscere la varietà delle alternative? Ammettere la molteplicità delle risposte ad uno stesso problema non è forse un arricchimento? Ciò non rivela forse che le mille e più prospettive elaborate dagli uomini non riusciranno comunque mai a colmare l'abisso della Verità, che rimarrà il valore ideale a cui tendere sempre? Non dovremmo dunque essere né scoraggiati né dimostrare scetticismo nei confronti della varietà delle filosofie umane ma anzi considerarla una ricchezza enorme. Il fatto che il nostro bisogno della Risposta assoluta sia destinato a non essere mai del tutto soddisfatto, non rivela paradossalmente il fallimento della ricerca ma al contrario la vita stessa della filosofia: se infatti si potesse raggiungere il fondamento ultimo, la ricerca cesserebbe e la nostra conoscenza finirebbe. Ma ciò non è appunto possibile ed è questo il bello della filosofia: continuare incessantemente a porsi domande, ricercare instancabilmente, liberamente, senza paura di affrontare questioni difficili o assurde o proibite, per quanto possano apparire tali. Non aver paura di pensare, osare conoscere, partendo dalla accettazione dei nostri limiti umani. Ad alcuni potrà sembrare inutile questo continuo interrogarsi senza accontentarsi di quello che è già stato ottenuto, dei risultati già raggiunti ma, direi, è solo grazie a quel non accontentarsi mai che l'uomo ha potuto progredire e non si è fermato all'età della pietra. Si dirà che il sapere ha prodotto cose molto brutte come la bomba atomica. Però non è la ricerca e la conoscenza della verità in sé ma è stato l'uso sbagliato che ne ha fatto a volte l'uomo che ha provocato degli effetti disastrosi. La conoscenza può essere usata per il bene e per il male: spetta all'uomo, alla sua terribile libertà, decidere quale strada intraprendere. Filosofare vuol dire, ancora, assumere un atteggiamento di meraviglia nei confronti di quello che c'è e ci è dato. In altre parole, la filosofia vuole cogliere l'esistenza come tale. Si meraviglia, si stupisce che le cose esistano: insomma, è meravigliarsi perché qualcosa c'è mentre potrebbe non esserci nulla. E' un rapporto dunque sui generis, fatto di stupore e di gratuità, nei confronti dell'essere delle cose e del mondo. La realtà è "meravigliosa", le cose hanno bisogno di una spiegazione e ciò spinge l'uomo alla ricerca e stimola la sua riflessione. In fondo, la filosofia è solo questo: ragionare correttamente su quello che esiste. La filosofia comincia quindi dall'esperienza della meraviglia, dal chiedersi perché le cose esistono, e procede, con l'astrazione, fino ad arrivare a formulare delle risposte a quei perché. La filosofia e la scienza (o meglio le scienze) hanno entrambe come scopo la conoscenza, però la filosofia si distingue dalla scienza perché vuole essere lo studio della realtà nella sua totalità mentre le scienze studiano ambiti particolari della realtà. il che ci porta a dire che la filosofia è essenzialmente metafisica , cioè ricerca del senso profondo delle cose e del significato della nostra stessa esistenza. Infatti nella totalità - oggetto di studio della filosofia - ci sono dentro anch'io e perciò risolvere il problema del Tutto vuol dire risolvere anche il problema dell'uomo, del valore della vita, della mia vita. Ecco perché è inevitabile porsi, in quanto esseri umani, i problemi metafisici fondamentali: perché esistiamo? per quale fine noi e il mondo esistiamo? ecc. Il problema del senso della vita ognuno di noi deve risolverlo. Lo risolve già per il fatto di vivere in un determinato modo piuttosto che in un altro. Anche chi vive, in apparenza, al di fuori di

5

ogni interesse filosofico e pensa soltanto al quotidiano e sensibile nel senso più gretto del termine (oppure al lavoro o alla carriera o al piacere o al sesso o allo sport o al divertimento o al potere ecc.), ha implicitamente una filosofia perché considera la vita sensibile o il potere ecc. come l'assoluto, la cosa per lui più importante, che viene prima di ogni altra e dunque ha risposto, seppure in modo superficiale, ai problemi metafisici che citavo prima. Mi avvio a concludere chiedendovi di riflettere su questo: pensate agli ideali della vita e provate a chiedervi: qual è il modo migliore di vivere? Come posso essere felice? Non posso sapere già adesso, in questa vita, al di là di conoscere astrattamente la verità, qual è il modo di vivere pienamente un'esistenza felice nonostante i momenti di sofferenza? Certo non è una cosa facile e certe domande esigono risposte scomode, mentre è forse più comodo far finta di nulla. Ma il filosofo è quel "rompiscatole" che vuole andare a fondo, a tutti i costi, e non si accontenta di mezze risposte, di ovvietà, di banalità. La filosofia, oggi come sempre, può mantenere vivo un clima di libertà intellettuale, di discussione, di apertura verso il nuovo. Essa può favorire la creatività, la fantasia, la riflessione, sviluppare una maggiore intelligenza critica ed autonoma; in una parola, può insegnare ad essere un po' più liberi e felici. Ecco che cos’è, oggi, come sempre, la filosofia. BIBLIOGRAFIA Indico qui solo alcuni testi da cui prendere spunto per iniziare una propria ricerca RUSSELL, I problemi della filosofia , Feltrinelli WEISCHEDEL, La filosofia dalla scala di servizio, Cortina

6

2. CHI SONO IO ? IL SENSO E L’ASSURDO

Quando si riflette sulla vita umana in generale è difficile non essere presi, prima o poi, da un senso di sgomento, il quale riunisce in sé contrastanti sentimenti di paura, delusione, mistero, inquietudine. Questo capita soprattutto quando pensiamo che la nostra vita finirà con la morte e ciò può capitare dopo un minuto dalla nostra nascita oppure dopo cento anni ma - ed è questo che è terribile ! - è comunque lo stesso, giacché la sorte è identica : chi inizia a vivere è destinato a morire, a concludere questa esistenza terrena; e che ciò avvenga subito o dopo molti anni, non cambia in apparenza la sorte, che rimane identica. La nostra vita è finita e tutto ciò che abbiamo fatto di bene e di male viene livellato dalla realtà della morte. Del resto - si dice - la stessa specie umana non è immortale ed un giorno la vita su questo pianeta finirà, per cui tutto ciò che per noi, oggi, è importante, non sarà più nulla. Pensiamo infatti alle civiltà del passato : che ne sappiamo dei nostri progenitori ? Ben poco, e poi... non ci interessa granché (a meno di non essere storici o archeologi) ... quello che conta, per noi, è eventualmente sapere il significato di questo nostro passaggio, alquanto effimero (settanta, ottanta anni di media) su un pianeta di uno sperduto sistema solare (così dicono gli astronomi) in una delle tantissime galassie. Insomma, l'importante per noi è riuscire a sapere : chi sono io ?

A questa domanda nessuno si accontenta di rispondere con un semplice "sono un insegnante", "sono un impiegato", "sono un uomo", "sono una donna" ecc. Ovviamente sono risposte giuste però non sono certo esaurienti e ci lasciano insoddisfatti. Quando infatti ci domandiamo "chi sono io?" non intendiamo tanto sapere qual è la nostra professione e neppure quali caratteristiche mi distinguono esteriormente dagli altri. La questione è molto più profonda .Vogliamo sapere che cosa significa essere "uomini", vogliamo sapere quale sarà il nostro "destino", e ciò vuol dire chiederci in fondo questo : riusciremo a fare qualcosa che ci distinguerà da ogni altro essere che è vissuto su questa terra ? In altre parole, quando ci chiediamo "chi sono io?", scopriamo l'unicità della nostra persona e cioè acquisiamo progressivamente la consapevolezza di essere persone singolari, uniche, diverse da qualunque altra vi sia stata o vi sarà mai… non solo su questo pianeta ma in tutto l'universo.

Ci avete mai riflettuto ? E' sconvolgente! Io sono … io… e cioè una persona unica, che non ha uguali in tutto il resto del mondo! Quando ce ne rendiamo conto, sentiamo subito un peso enorme su di noi : è la terribile consapevolezza della nostra responsabilità nei confronti di noi stessi e di tutti gli altri. Perché responsabilità ? Perché essere unici vuol dire che nessun altro farà mai quello che io ho fatto o potrò fare. Dunque a me spetta fare delle cose che non potranno mai essere fatte da nessun'altra persona al posto mio (e non c'entra zappare l'orto o dirigere una azienda : è la fatica quotidiana del vivere che è qualitativamente importante) . Ciò che farò o ciò che non farò contribuirà a formare il mio "io", a definire sempre meglio chi sono, a distinguermi dagli altri. Non solo : ogni nostro atto influisce su tutto il resto, così che l'universo non è più lo stesso da quando ci sono io perché le conseguenze delle mie scelte si ripercuotono dovunque, anche se non ne siamo affatto consapevoli.

Da quanto detto finora, scopriamo che non è poi così importante sapere veramente che cosa sia questo "io", ma quel che più conta è riconoscere la nostra unicità . Così, alla domanda "chi sono io?" non risponderemo più definendoci in qualche modo (semmai lasceremo che gli altri ci definiscano). Acquisiremo invece consapevolezza delle nostre scelte : impareremo che ogni scelta è gravida di responsabilità e contribuisce ad edificare, momento per momento, quello che potremmo chiamare "il nostro destino"(ci ritorneremo). In altri termini, ad una tale domanda, io posso solo rispondere con tutte le mie scelte, con tutta la mia vita e vi rispondo in un modo unico, specifico, diverso da ogni altro essere umano. E non potrebbe essere diversamente : alla domanda "chi sono io?" nessuno può rispondere al posto degli altri, dando una risposta che possa soddisfare tutti oltre me stesso. In breve, io sono … il risultato di tutte le mie scelte, dei miei desideri, delle mie

7

speranze, delle mie sconfitte e delle mie vittorie, dell'ambiente in cui vivo e delle influenze degli altri su di me… ecco chi potrei essere.

Ho tralasciato apposta finora di disquisire su quella parolina che in italiano suona "io". Perché? Perché se nella domanda "chi sono io?" riveste un posto importante, ritengo che non dobbiamo lasciarci fuorviare dalla sua presunta importanza . In altre parole, credo che sapere che cosa voglia dire "io", non ci faccia avanzare di molto nella scoperta di noi stessi. Anche se indichiamo col termine "io" la nostra anima o il nostro spirito o la nostra più profonda essenza , abbiamo forse chiarito di più la questione ? Non credo proprio. Comunque, da secoli sappiamo che non dobbiamo perdere tempo nella ricerca del famigerato "io" : da Buddha a Gesù, da Pascal a Hume, da Kant a Freud, per non citare che alcuni nomi, tutti costoro hanno ritenuto fuorviante la ricerca, la definizione, l'attaccamento all'io. Che esso esista o no, la risposta che è stata data in questi millenni è comunque deludente : dell'io sappiamo poco o nulla. Ma questo ci fa capire che dobbiamo forse cercare altrove, e cioè dobbiamo prendere atto che le grandi questioni esistenziali non sono risolvibili a parole, con i discorsi, con una logica o una razionalità, bensì vivendole nel quotidiano. Insomma, la risposta è la vita, è la mia vita !

Per concludere, vorrei ancora dire qualcosa sul rapporto fra il cosiddetto "io" ed il "destino". Forse io non so chi sono nel più profondo di me stesso ("noi siamo a noi stessi i più lontani", diceva Nietzsche; "io è un altro", diceva il poeta). Però sento di "dover fare qualcosa", di "dover adempiere" un determinato compito, e di sentirmi insoddisfatto se non lo faccio. Posso anche oppormi a questo mio "destino", posso cercare di rimandarlo, di evitarlo, di negarlo, eppure, prima o poi, dovrò fare i conti con esso, e dovrò, alla fin fine, riconoscerlo e accettarlo, e solo così scoprirò di essere veramente libero, felice, realizzato… "me stesso".

Sembrerà paradossale, tuttavia quando ne avremo la consapevolezza, avremo forse fatto il primo passo verso la scoperta dello stretto rapporto che lega me stesso, il mio "io" (e che solo rarissimamente è vissuto come tale) al mio "destino". Gli antichi Greci avevano un detto bellissimo per esprimere tale conquista : "diventa ciò che sei", così essi esortavano. Questa profonda verità ci invita in primo luogo a riconoscere che noi esistiamo, che siamo vivi, che ci siamo. Dopo aver preso atto di questo, devo cercare di diventare quello che sono, devo cercare di vivere la mia vita in prima persona, devo identificarmi col mio destino. Anche perché, se non lo faccio, e finché non lo faccio, resterò insoddisfatto, non potrò mai realizzarmi pienamente, non potrò mai essere libero e felice. E tutto ciò ci apparirà forse più chiaro verso la fine di questa vita terrena : tornando indietro a ripensare quello che abbiamo fatto - o non fatto - ci accorgeremo che una sorta di filo sottile ha legato tutte le nostre vicende e guarderemo meravigliati (fors'anche un po' timorosi) la trama della nostra vita. Allora, forse, potremo finalmente intravedere ciò che siamo stati e potremo rispondere serenamente a quella terribile domanda : "chi sono io?".

IL SENSO E L'ASSURDO Qual è il significato della nostra vita e della vita in generale ? Essa ha un senso o non ne ha

alcuno ? E' forse assurda o che altro ? Le difficoltà cominciano subito, appena tentiamo di definire un po' meglio che cosa intendiamo con l'espressione "senso della vita" o simili. Per cercare di superare l'impasse, potremmo partire da una constatazione : potremmo dire che, indipendentemente dal fatto di porci o no il problema del senso della vita, l'umanità nel suo complesso ha scelto la vita, ha scelto di continuare a vivere. Non sappiamo bene perché, però gli esseri umani continuano a scegliere la vita piuttosto che la morte (sempre parlando in generale). Sì, certo, ci sono le guerre, i morti ammazzati e i suicidi, la violenza ecc., però l'uomo continua ad esistere su questo pianeta, nonostante tutto .

Oggi c'è , per la prima volta nella storia umana, la possibilità concreta di provocare la distruzione pressoché totale della vita su questo pianeta, eppure gli uomini sembrano comportarsi

8

come se nulla fosse e, inoltre, come se dovessero vivere per sempre. Dunque in questi esseri che si sono definiti "uomini" sembra prevalere il desiderio di vivere piuttosto che quello di morire (molti di quelli che desiderano farla finita, in realtà desiderano superare una situazione spiacevole e non certo annullarsi, anche perché… non sappiamo neppure che cosa sia …il nulla). L'espressione "senso della vita" potrebbe essere così trasformata dicendo che l'uomo, scegliendo di continuare a vivere, ha scelto di ritenere la vita "sensata", ha deciso che è meglio vivere che morire. Anche perché non abbiamo alcuna esperienza della morte ma solo di quel che vuol dire vivere, e visto che sappiamo che cosa implica vivere, abbiamo "deciso" che è meglio affidarci a qualcosa che conosciamo piuttosto che farci attrarre da qualcosa che ci è del tutto sconosciuto. Così non rispondiamo alla domanda "la vita ha senso?" con un semplice sì o con un no, ma diciamo, intanto, che preferiamo vivere, che continuiamo a vivere, che, visto che siamo qui, proseguiamo il nostro cammino. Che questo voglia dire "dare un senso alla vita" o considerarla "sensata" è, in fondo, secondario. Ci sembra però di capire che i cosiddetti "problemi esistenziali" - sui quali possiamo disquisire per ore e ore - non possono essere risolti o chiariti solo a parole, bensì con una scelta concreta nel comportamento quotidiano. Il "senso" è dunque il termine astratto e generico che noi usiamo per indicare l'insieme dei nostri comportamenti atti a promuovere la vita e il suo proseguimento. Tutto ciò che è in contrasto con esso, lo chiameremo "non senso" ed in genere non riscuote molto la nostra simpatia, visto che lo riferiamo ad atti malvagi del tutto contrari alle norme della convivenza pacifica.

Noi saremmo dunque degli esseri che vogliono un "senso", che non ne possono fare a meno. Ma è poi veramente così ? Chi ci dice che la verità sia proprio questa e non un'altra ? Infatti alcuni potrebbero dire : "Sì, forse la vita umana è "sensata", però è evidente che un giorno essa finirà e quindi … che "senso" ha ? Come può avere "senso" una esistenza destinata a finire? Il "senso" non pretende forse di superare la stessa morte o addirittura di attribuire un "senso" alla morte stessa? Non sarebbe allora più corretto, anzi più vero, parlare di assurdo per quanto riguarda la vita umana? La vita vale forse la pena di viverla? E' tanto importante continuare a vivere?".

A tutti questi interrogativi potrei rispondere con tutta una serie di contro-domande : "Perché la vita deve valere per forza qualcosa per viverla? Perché dobbiamo viverla solo se vale qualcosa? E' proprio così necessario valere qualcosa per poter vivere ? perché la vita dovrebbe avere un valore o un prezzo? Non riduciamo la vita ad una visione grettamente utilitaristica… e poi, di fatto, non continuiamo semplicemente a viverla, senza curarci tanto di porci il problema se valga o non valga qualcosa ?".

Distinguerei inoltre tra l'affermazione della assurdità della vita dall'altra che ritiene che la vita non valga nulla. Nel primo caso infatti, anche se posso ritenere la vita "assurda", non è affatto detto che la consideri insensata e trovi indifferente vivere o morire. Che la vita sia definita "assurda" da parte mia, vuol dire che le attribuisco una caratteristica specifica, che è quella appunto della assurdità ; ma , dopo averla riconosciuta come "assurda", non per questo me ne voglio separare e voglio ad esempio esaltare il suicidio o l'omicidio o la strage; insomma, prendo atto che la vita è per me "assurda" e poi continuo a viverla, con la consapevolezza che è e rimane "assurda" (si vedano le bellissime pagine di Albert Camus, ne Il mito di Sisifo, a questo riguardo).

Diversa è invece la posizione di coloro i quali ritengono che "non vale la pena di vivere". Questi ultimi pensano forse che la vita, per essere vissuta, dovrebbe essere diversa da quella che è, che dovrebbe "valere di più", ma ciò lascia intendere che, in fondo, la vita dovrebbe essere vissuta secondo i parametri che loro stessi pretendono di attribuirle ("Una vita senza questo o senza quello non è degna di essere vissuta", così la pensano quei tali). A ben vedere, così facendo, non si riduce la vita però a schemi prefissati, ad ideali o a nostre visioni parziali, ad astrazioni intellettualistiche che vorrebbero imprigionare o dominare la vita nei suoi molteplici aspetti ? Non dico altro : inviterei solo a rifletterci un po'.

Altra cosa ancora è rispondere a quelli che si domandano: "E' così importante continuare a vivere?". La mia personalissima risposta è la seguente : non so affatto se sia importante continuare a

9

vivere, ma io preferisco vivere anche se non è importante, anche se non ha senso, anche se la vita è assurda.

E perché preferisco vivere? Oh bella : perché ho tante cose da fare e poi sono curioso di vedere come andrà a finire. Potrei inoltre aggiungere che … mi sembrerebbe una occasione mancata. Intendo dire : su, sei vivo, prova dunque a continuare a vivere; ti è stata data questa occasione, non buttarla via.

Sì, so perfettamente che alcuni potrebbero obiettare : "Ma che vita è quella di un malato terminale? Che senso ha continuare a soffrire sapendo che non c'è nulla da fare?". Eppure … secondo me, la vita è una occasione, anche se non è piena di successo, soldi, salute, amore ecc. E' un'occasione, appunto, perché dunque troncarla o volerle fare a meno ? E, soprattutto, con che diritto osereste negare una occasione anche agli altri? Ogni vita è a sé, ed il suo valore dipende semmai da noi che la stiamo vivendo - malati o sani, giovani o vecchi - e non da qualcun altro che pretende di imporsi, in qualche modo, su di noi.

Con questo non voglio dire che non vi siano dei comportamenti preferibili rispetto ad altri e neppure che ciascuno siano "libero" di agire come più gli aggrada. Al contrario, ogni nostra scelta implica necessariamente delle conseguenze, e questo è un dato di fatto che viene, spesso e volentieri, dimenticato. Insomma, pensala come vuoi, ma ogni tua azione ha delle conseguenze. Anche se "te ne freghi", le conseguenze del tuo menefreghismo si vedranno comunque.

Forse sono uscito un po' fuori dal seminato, ma vi ritorno subito e concludo. Immaginando di osservare da un punto fuori dell'universo la vita sul pianeta Terra, potrei dire che non la considererei forse molto importante nell'economia del tutto (non parlerei comunque né di senso né di assurdo : ha senso per noi la vita … delle formiche?) però, visto che c'è e finché c'è, la riterrei se non altro un fenomeno interessante e … starei a vedere fin dove saranno in grado di arrivare quei minuscoli terrestri !

BIBLIOGRAFIA CAMUS, Il mito di Sisifo e L'uomo in rivolta, entrambi nelle edizioni Bompiani. FRANK, Alla ricerca di un significato della vita, GUM Mursia. GUITTON, Storia e destino, Piemme. HESCHEL, L'uomo non è solo, Rusconi. MORAVIA, L'enigma dell'esistenza, Feltrinelli.

10

3. L’AMICIZIA E L’AMORE L'amicizia e l'amore sono importantissimi per la vita umana. possiamo dire che nessun essere umano può farne a meno e d'altra parte tutti ne conosciamo - chi più chi meno, direttamente o indirettamente - l'influenza sulla nostra vita. Certo, vi sono persone più "fortunate" perché sembrano essere amate da tutti e circondate da amici, mentre altre, "sfortunate", sono sole, senza amicizie e amori; eppure, oserei dire che non è tanto importante essere amati, sentirsi circondati dall'affetto altrui, quanto piuttosto amare ed essere amici nei confronti degli altri. Se infatti aspettiamo di incontrare l'amore, se andiamo alla ricerca dell'amicizia, difficilmente o mai riusciremo a realizzare la nostra naturale esigenza; se invece non ce lo poniamo come mete ma cerchiamo di viverle entrambe in prima persona, cominciando noi ad amare ed a dimostrarci amici, è molto probabile che saremo ricambiati e quindi la nostra vita sarà ulteriormente arricchita da quelle esperienze Tralascerei come al solito di definire in qualche modo l'amore e l'amicizia: mi interessa di più viverle concretamente. Fanno parte della vita umana e, come tutte le esperienze, non sono mai comunicabili interamente a parole ma soltanto partecipabili da chi li vive. Non dobbiamo dimenticarlo, visto che stiamo occupandoci di tutte quelle realtà - l'io, l'amicizia, l'amore, la paura, l'angoscia, il male, la felicità, la morte - che fanno parte integrante della vita umana e dunque riguardano tutti molto da vicino. Possiamo perciò discuterne fin che vogliamo, ma poi, per affrontarle nel modo migliore, con un po' di "saggezza", è consigliabile poterle vivere. Come si può allora vivere l'amicizia e l'amore? Beh, credo che una risposta molto concreta possa essere: con fedeltà e libertà. Si è amici e si ama restando fedeli alla persona amata e/o amica. Dunque l'amicizia e l'amore implicano non solo una passione o un sentimento ma sono frutto di una scelta continua: io ti sono amico o ti amo perché voglio continuare ad esserti amico, ad amarti, nonostante le inevitabili difficoltà che il cammino della vita ci porrà di fronte. Anzi, nella misura in cui sapremo superare le crisi, la nostra amicizia e/o il nostro amore diventeranno sempre più profondi e migliori. La fedeltà è dunque un atto voluto, una scelta che devo confermare giorno dopo giorno e di cui sono perfettamente consapevole. Ecco quindi che viene tirata in ballo anche la nostra libertà: l'amicizia e l'amore sono atti liberi altrimenti non si tratta di amicizia o di amore. Infatti, se sono amico di qualcuno, se amo qualcuno, lo rispetto, non gli impongo nulla, gli voglio bene in maniera disinteressata, non pretendo nulla in contraccambio. Se così non fosse, non si tratterebbe di vera amicizia o amore. Insomma, si tratta della relazione fra due persone e, con le persone, non si può tirare in ballo la fedeltà e la libertà. Anzi, a questo riguardo, direi che l'amicizia e l'amore sono possibili e autentici solo tra persone: anche nel caso dell'amore verso Dio o verso gli animali si deve parlare di rapporti fra "persone", poiché Dio viene appunto considerato una persona a cui ci rivolgiamo per adorarlo, supplicarlo ecc. e così pure i nostri rapporti con gli animali quando li coccoliamo, parliamo a loro come se ci capissero ecc. Non vengono dunque considerati da noi delle "persone" anche se particolari? Se l'amore e l'amicizia ti fanno considerare l'altro come una persona (dunque un essere libero, autonomo, degno di rispetto e con una sua dignità), vuol dire che, se io considero l'altro come un oggetto, non gli sono veramente amico né lo amo. Si badi che questa è una situazione purtroppo diffusissima, che capita anche tra coniugi, innamorati e amici, per non parlare poi dei casi di omicidio - quando l'altro viene tolto di mezzo perché scomodo (la delinquenza insegna) - quando si è completamente dimenticato che chi mi sta di fronte è una persona come lo sono io, e dunque un soggetto non potrà mai trasformarsi in oggetto. Eppure, la nostra ricorrente tentazione è proprio questa: rendere gli altri delle cose, trasformarli o considerarli come oggetti, che possono essere usati e di cui possiamo liberarci quando "l'uso" è finito e non ci servono più. Una cosa ben diversa è la fine di un'amicizia o un amore. Finire un rapporto non implica affatto una rottura violenta, anche se una relazione non è mai senza screzi, crisi, difficoltà varie. A volte, appunto, un amore o un amicizia finiscono: da un momento all'altro può capitare che ... puff ... i miei sentimenti nei confronti di qualcuno cambino ed io non mi senta più innamorato o amico di

11

quella persona. I motivi sono tantissimi e non ci aiutano più di tanto a scoprire il vero perché possa accadere una cosa simile. Io credo che il vero motivo sia da ricercare nella natura dell'amicizia e dell'amore. Essi sono liberi e responsabili e dunque, finché posso dire di poterti amare o di esserti amico liberamente, fedelmente, disinteressatamente, lo sono e mi impegno a continuare ad esserlo; ma quando ciò non fosse più possibile (per i motivi più disparati) da parte mia o da parte di entrambi, allora si può parlare della fine di un amore o di un amicizia. Con ciò non intendo dire - mi si capisca bene - che "finché va, va", oppure che ci è lecito od è bene fare tutto quel che ci passa per la testa, ma solo prendere atto, molto concretamente, che l'amore e l'amicizia sono relazioni umane e quindi passibili di finire, di non continuare eternamente (anche nel matrimonio il nostro legame è valido ... finché morte non ci separi) ma non per questo sono meno belle o valide o importanti o necessarie. L'amore e l'amicizia valgono insomma di per sé, anche se non dovessero durare eternamente. Come dice l'Antologia di Spoon River, "Non ci sono matrimoni in cielo, ma c'è l'amore". Ma c'è forse differenza tra l'amore e l'amicizia? Finora li ho sempre usati insieme e tuttavia, se i termini sono diversi, avranno pur qualche sfumatura che li differenzia, no? Parlando in generale, si dice che l'amore implica anche l'attrazione fisica verso l'altro, implica passione, tenerezza, desiderio di unione completa con l'altra persona, però ... però ... io ci andrei un po' cauto ... perché la varietà e la complessità delle relazioni umane rifuggono da catalogazioni nette. Infatti, tanto per obiettare a quanto appena detto sull'amore, se per esempio marito e moglie decidessero di comune accordo di non avere più rapporti sessuali (e casi nella storia ce ne sono: dai proverbiali Maria e Giuseppe a Gandhi e signora, ecc.) ne seguirebbe forse che non vi è più amore fra loro ma solo una affettuosa amicizia? Insomma, non saprei proprio cosa dire. Forse alcuni potrebbero dire che l'amore implica la diversità sessuale mentre l'amicizia è in genere tra persone dello stesso sesso ma anche in questo caso, è poi realmente così? La vita concreta ci fa incontrare amori tra persone dello stesso sesso ed amicizie tra uomini e donne, per cui, ripeto, certe domande - per me - sono destinate a rimanere senza risposta, almeno per ora. Per concludere, vorrei ancora soffermarmi un attimo sul fatto che l'amore e l'amicizia non sono sempre ricambiati. Certo, il "massimo" è quando noi proviamo amore e amicizia e ne siamo ricambiati, ma la vita reale non è quasi mai perfetta (solo in alcuni momenti può capitare). Forse potrei dire, l'amicizia esige la reciprocità - ecco, forse ho trovato la sfumatura di differenza tra l'amore e l'amicizia! - mentre, nel caso dell'amore, si può anche amare senza essere riamati. E ciò si può intendere sia in senso negativo (come quando una persona ama un'altra che però non prova nulla per lei od una semplice simpatia ma manca quel certo non so che), ed in questo caso il rapporto è sterile ed è destinato a finire, sia in senso positivo, ma in questo caso ... si tratta della forma più alta dell'amore poiché è l'amore che ama senza essere ricambiato e senza aspettarsi nulla in contraccambio, è l'amore più sublime al mondo! Che vi siano o vi siano state delle persone giunte a tal punto, beh, ci deve far riflettere ... senza dimenticare naturalmente la fatica quotidiana di dire serenamente e ancora sempre : "ti amo!" BIBLIOGRAFIA PLATONE, Simposio (o Convito), ed. varie (Mondadori, Rizzoli, Laterza ecc.) LEWIS , I quattro amori: Affetto amicizia eros e carità, Jaca Book WEIL, L'amore di Dio e l'infelicità, ed. Borla BUSCAGLIA, Vivere, amare, capirsi, Mondadori ALBERONI, Innamoramento e amore, Garzanti ALBERONI, L'amicizia, Garzanti

12

4. IL PROBLEMA DELL'ANIMA La parola "anima" è oggi forse passata un po' di moda. La si usa, certo, ma in termini metaforici e, quando si vuole approfondire la questione - che cosa si intenda per "anima", se esista o no, se sia immortale ecc. - o si alzano le spalle ritenendolo un problema passato di moda se non addirittura privo di senso, buono solo per le speculazioni religiose e metafisiche ormai anacronistiche, oppure … non si sa che pesci pigliare … e ci si rifà allora alle concezioni tradizionali, risalendolo indietro nel tempo. Insomma, oggi ci vergogniamo un po' a parlare di anima : allora preferiamo parlare di psiche, psichismo, io (spirito è un po' troppo "religioso"), mente e così cerchiamo di nascondere la nostra immensa ignoranza a riguardo. Diciamocelo pure : riguardo all'anima, ne sappiamo di più dei Greci o degli Ebrei o degli Induisti? Non credo proprio, e ciò indica che oggi non vogliamo riflettere a sufficienza, risolviamo molti problemi semplicemente negandoli perché … abbiamo paura di essere messi in crisi dagli interrogativi più profondi che l'umanità si è posta. A parte questo preambolo, cosa potrei dire io riguardo al problema dell'anima ? beh, potrei iniziare facendo un breve excursus storico sulle principali concezioni dell'anima che, volenti o nolenti, ci hanno in qualche modo influenzato per cui noi, oggi, dipendiamo ancora da esse. Vediamo meglio. Comincerò dalle concezioni dell' Orfismo del 6° sec. a.C. Secondo quelle credenze, l'anima è stata confinata in un corpo per espiare una colpa commessa in una vita anteriore. Per cui l'esistenza terrena è una sorta di castigo e la salvezza consisterà nel liberarsi dai legami del corpo, ove l'anima è rinchiusa come in una prigione. Quando l'anima, mediante l'iniziazione orfica ed una dura ascesi, si sarà purificata da ogni attaccamento al corpo, sarà pure liberata dalla necessità di entrare di nuovo, dopo la morte, in un corpo, dunque sarà liberata dalla reincarnazione. Come s'è appena visto, questa concezione antichissima è sostenuta ,più o meno, anche da molte persone d'oggi, affascinate dai miti antichi e orientali. L'unico difetto, a mio modesto modo di vedere, è che ... manca di prove! Che ne sappiamo infatti di una vita precedente o della mia anima rinchiusa dentro il mio corpo? E se anche fossi stato, che so, una strega nell'Inghilterra medioevale, che influenza può avere nella mia vita attuale? Comunque sia, viviamo pur sempre una sola vita alla volta, no? Come favoletta può anche essere interessante, ma come poter non dico dimostrare ma almeno giustificare che le cose stanno realmente così ? Aristotele (384-322 a.C.) adottò invece un approccio completamente diverso per affrontare la questione dell'anima. Egli adottò un metodo che oggi chiameremmo "sperimentale" e si trovò quindi costretto a criticare e poi ad eliminare i miti orfici della divinità originaria dell'anima, della preesistenza e della caduta delle anime nei corpi ritenuti cattivi. Da questo punto di vista, la concezione aristotelica è di una modernità sconvolgente e la sua critica al presunto dualismo anima-corpo sarà valida pure contro Cartesio. Secondo Aristotele, la teoria dualista dell'anima e del corpo non può spiegare perché l'anima è unita al corpo. Il mito della caduta dell'anima nel corpo comporta una "assurdità" intrinseca perché presuppone che qualsiasi anima possa discendere in qualsiasi corpo (cfr. De anima , 407 b). ora, ogni corpo appartiene ad una determinata specie vivente ed ha una struttura, una forma particolare; non si può immaginare che una qualsiasi anima discenda in un qualsiasi corpo (come invece pretenderebbero ancora oggi certe persone interessate all'esoterismo e simili). E ciò dipende dal fatto che, per A., l'anima, la psyché , è il principio attivo che organizza un corpo vivente mentre il corpo è ciò che riceve, diremmo noi, l'informazione. In altre parole, per A. l'anima e il corpo sono strettamente uniti perché ogni individui vivente è un sinolo ,una unione di anima e di corpo e non può sussistere un'anima senza un corpo e viceversa. In questa prospettiva, non vi è più dualismo tra anima e corpo, non vi è più distacco fra anima e corpo perché il corpo vivente, organizzato, è un'anima che informa la materia. Alla morte, quando l'anima se ne va, non resta più un corpo ma un cadavere. Insomma, quando un uomo o un animale sono morti, non c'è più corpo ! Rimane solo la "materia" che conserva per qualche tempo le apparenze corporee, ma in

13

realtà non è più un corpo, bensì solo un ammasso di materiali che si decompongono. Dunque per A. non vi è neppure sussistenza dell'anima fuori o separata dalla materia che informava. E questo sarà un grossissimo problema per i filosofi posteriori : l'anima è o no immortale? A. non ci dice molto : egli sostiene che solo il nous (intelletto) è immortale. Passiamo ad un altro orizzonte culturale. Nel pensiero ebraico-cristiano l'anima è creata da Dio, non è divina di per sé. Essa non preesiste al corpo : nella prospettiva ebraico-cristiana (tranne in alcune correnti cabbalistiche) non vi è alcuna idea di reincarnazione o meglio di metempsicosi. Inoltre l'idea che l'esistenza dell'anima nel corpo sia la conseguenza di una colpa le è totalmente estranea : l'esistenza non è mai colpevole o vergognosa o impura in sé. Si badi : nella lingua ebraica non vi è neppure la parola per designare il corpo come una sostanza distinta dall'anima. In altri termini, l'uomo è inteso come una unità psicosomatica indissolubile. L'uomo è un'anima vivente : un corpo vivo è un'anima che posso toccare! Il corpo insomma (il corpo vivo, non ne esiste altro perché un cadavere non è un corpo) è l'anima che informa la materia. Dopo la morte, l'anima non è più un corpo, non costituisce più un corpo. Il problema sarà allora quello di sapere se sussiste ancora oppure no. Nella prospettiva ebraico-cristiana l'immortalità dell'anima è un dono di Dio : anzi, per la precisione non si dovrebbe parlare di immortalità dell'anima bensì di resurrezione dei morti, nel senso che la "salvezza soprannaturale" è offerta non solo alla mia parte "spirituale" ma a tutto me stesso, alla mia persona integrale, che sarà trasformata nel cosiddetto "corpo glorioso". Mi fermerei qui in questo brevissimo panorama storico. E mi fermo qui perché, come accennavo all'inizio, oggi non ne sappiamo molto di più. Per cui le alternative fondamentali, per quanto riguarda la concezione dell'anima, rimangono appunto due : o la visione greco-orientale o la visione ebraico-cristiana. Sta a noi scegliere quella che è più conforme ai nostri gusti e ci soddisfa di più. Se mi chiedessero quale delle due concezioni preferisco, direi di propendere per quella ebraico-cristiana ma non potrei giustificarla con una teoria più o meno originale, bensì ripeterei le concezioni che ho studiato e che … espongo tutti i giorni a causa del mio mestiere. Ma cosa potrei ancora dire, se proprio fossi costretto ad aggiungere qualcosa? Beh, ad esempio, che io mi sento vivo, che sono cosciente del fatto di esistere, però non so se so cosa vuol dire "essere vivo", "esistere". Mentre sto dicendo "sono vivo" càpitano in me migliaia di processi biochimici di cui non ho la minima idea e che non sono io a controllare. Lo sarà forse la mia anima ? Può darsi ma non ne so nulla o per lo meno non vedo come potrei giustificarlo. Io so solo di esistere, di essere qui. Il mio corpo cambia continuamente (il metabolismo somatico cioè il continuo ricambio delle molecole che costituiscono il corpo vivente è un dato "scientifico" ben provato) ,però io mi sento un tutt'uno, mi sento "me stesso", mi sento qualcosa che permane al di là dell'età cronologica (pensate quando si sfoglia un album di fotografie e si esclama :"Quello ero io!"). Che questa esperienza possa essere presa come una prova per lo meno indiretta dell'esistenza di quella che chiamiamo "anima", identificandola col mio "io", non mi soddisfa più di tanto. Anche perché : che cosa si intende per "io"? Forse il mio "io cosciente"? Ma allora è ben poca cosa, come ci ha insegnato Freud : infatti, che dire di tutta la parte inconscia? Insomma, non vorrei apparire superficiale ma … mi sembra che non sia affatto facile dimostrare l'esistenza dell'anima. E poi, detto francamente, è proprio così importante ? Se infatti l'anima esiste, se io sono un'anima vivente, beh, questo non è dipeso da me, no? Come potrei dunque dimostrarlo? Non mi sono creato io, ed in me, come accennavo prima, avvengono tantissime cose che non controllo. Se l'anima c'è, me l'ha data qualcun altro ed allora io che ci potrei fare ? Non potrei fare altro che accettare un tale stato di cose e riconoscere :"Mi dicono che sono un'anima vivente. Mi fa piacere. A chi devo dire grazie?". Lo stesso per quanto riguarda l'immortalità della mia anima : io non so neppure se vivrò dopo la morte (posso solo crederlo o sperarlo) e dunque non posso darmi l'immortalità. Se accetto la prospettiva religiosa che mi dice che io sarò immortale, anche in questo caso non potrei fare altro che … ringraziare il buon Dio per quel che mi ha donato.

14

Vorrei accennare ora brevemente anche ad altri problemi connessi con l'esistenza dell'anima. Prendiamo ad esempio il rapporto tra l'anima e il cervello. Vi sono racconti e film che narrano di trapianti di cervello da un uomo ad un altro col conseguente scambio di personalità. Per me … sono solo fantasie! Quando il cervello è tolto dal corpo, se- condo me, diventa solo buono come frattaglie e nient'altro. Ritengo, in altre parole, che il cervello abbia bisogno del resto del corpo per poter funzionare e quindi, se lo si "stacca" dal corpo, non può avvenire nulla e tanto meno un fantomatico scambio di personalità. Si noti : ho parlato di cervello e non di pensiero. Per quel che posso presumere, se il cervello ha in qualche modo bisogno del corpo, non è però detto che il pensiero abbia necessariamente bisogno del cervello o di un corpo per funzionare (e questo indipendentemente dalle credenze religiose di ciascuno). In altri termini, voglio dire che i processi di pensiero non si identificano con i processi biochimici che vengono ad esso correlati (l'elettroencefalogramma di Beethoven mentre esegue la Nona Sinfonia non ci direbbe proprio nulla a riguardo) ma sono immateriali (qualcuno può forse vedere o toccare i miei sogni, le mie sensazioni, i miei pensieri in generale?) . Per cui, tornando alla questione dello scambio dei cervelli, ritengo che il mio pensiero e la mia personalità siano indipendenti dal mio cervello e quindi sarebbe impossibile un ipotetico scambio, ma sarebbe un fallimento e ci ritroveremmo solo con due cadaveri e nient'altro. Altra questione, venuta ultimamente alla ribalta delle cronache, è la clonazione. Anche in questo caso, ritengo che sia soltanto una fantasia poter dare origine ad un altro me stesso. Per definizione, ogni essere è unico, è diverso da qualunque altro, per quanto simile possa sembrare (si pensi ai gemelli monozigoti). Anche se un giorno un qualche scienziato pazzo potesse fare dei cloni di Hitler , ebbene, nessuno di questi cloni sarà perfettamente identico agli altri né sarà totalmente condizionabile … e per fortuna! Ultimo problema che vorrei affrontare brevemente è la ricerca dell'immortalità da parte di alcune persone. Con l'ibernazione, con la ricerca di un "farmaco che doni l'immortalità" (pensate alla ricerca della pietra filosofale e all'elisir di lunga vita nel Medioevo), alcune persone credono di potersi rendere immortali. Io trovo questi tentativi del tutto stupidi e illusori. Perché ? Perché se l'immortalità esiste , è un dono soprannaturale e non qualcosa che l'uomo può darsi. Non esiste nulla in tutto l'universo che sia immortale di per sé (anche le stelle si spengono, l'universo ha avuto un inizio e ciò implica che prima o poi abbia una fine) per cui, se l'immortalità esiste, ripeto, è una caratteristica soprannaturale, un dono gratuito del buon Dio , e non ha nessun senso affannarsi per procurarselo. Anche perché, per chi è credente, può già essere certo di una vita oltre la morte : nel cristianesimo, ad esempio, ci è garantito dalla resurrezione di Cristo, e dunque che vogliamo di più? Potrei concludere dicendo che … il problema dell'anima è uno di quei problemi che … esula dalle capacità umane. Una saggezza molto spicciola ci può suggerire di vivere la nostra vita senza preoccuparci troppo del fatto di essere o no immortali, di avere o no un'anima ,visto che … viviamo comunque una sola vita alla volta! . Quel che è importante è semmai "usare" bene il nostro corpo e la nostra anima seguendo la morale che ci pare più vera (anche se tutte le morali ci invitano comunque alla moderazione e al rispetto di sé e degli altri) perché, se non altro, saremo più felici noi e potremo anche fare un po' felici gli altri. Viviamo sereni : tutto ci resto … ci verrà dato. BIBLIOGRAFIA ARRIGHETTI, Frammenti orfici, ed. TEA . RODHE, Psiche , edizioni Laterza. JAYNES, Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza , ediz. Adelphi TRESMONTANT, Il problema dell'anima , ediz. Paoline TRESMONTANT, Cristianesimo,filosofia ,scienze , ediz. Jaca Book.

15

5. LA LIBERTA' La libertà è un classico problema filosofico, un bellissimo problema, squisitamente metafisico ed etico, a riguardo del quale tutti i filosofi hanno detto la loro. Per alcuni pensatori l'uomo è libero, per altri non lo è affatto; per alcuni la libertà umana è assoluta, incondizionata, totale, mentre per altri essa è relativa, condizionata, parziale, limitata; per alcuni poi la libertà umana esclude l'onnipotenza di Dio, per altri invece la manifesta e la garantisce ulteriormente. Come si può vedere, le teorie che sono state elaborate nel corso dei secoli sono talmente tante e giustificate con fior fiori di argomentazioni, che non c'è che l'imbarazzo della scelta. E' quasi una questione di gusti: "Quale teoria preferisci? Mah, a me ispira più questa … Sì, però questa ha in più…". Siamo quasi al supermercato delle idee, tra i cui banchi si può scegliere e trovare di tutto. Cosa potrei allora dire io su questo problema, visto che i più grandi ingegni di questo pianeta hanno già espresso la loro prospettiva motivandola approfonditamente ? Non sarò certo originale illustrando la mia opinione ma abbiate pazienza. Ad una prima domanda che mi venisse posta, quale ad esempio : "Per te l'uomo è libero?", devo dire che risponderei subito di sì. Se però mi chiedessero di motivare la mia affermazione, mi troverei ovviamente nei pasticci perché … non è affatto facile illustrare le ragioni per cui ritengo che l'uomo sia libero. Tuttavia, visto che ormai sono in ballo e devo trovare una risposta, comincerei a riflettere … partendo da quella che mi sembra la realtà concreta, dalla osservazione della vita quotidiana, da ciò che mi circonda. In questo modo, ritengo di poter arrivare a dire che … sì, mi sembra proprio che l'uomo possa essere definito libero. Nella vita di tutti i giorni, mi sembra , gli esseri umani si comportano da persone libere, vivono per lo meno come se lo fossero e d'altronde vengono considerati liberi e responsabili in ambito sociale, politico, legale, morale, religioso, e questo mi basta. Non siete stati forse liberi di venire qui ad ascoltare il sottoscritto? Non siete forse liberi di andarvene quando vi aggrada ? Non siete forse liberi di entrare in un supermercato e di rubare, che so, una radiolina, per poi essere presi e punti perché considerati "liberi e responsabili" della vostra cattiva azione ? insomma, non c'è bisogno di nessuna dimostrazione filosofica più o meno astrusa per mostrare (io mostro, non dimostro) che ci riteniamo liberi e agiamo di conseguenza. D'altra parte, mi sembrerebbe contraddittorio sostenere che l'uomo non è libero. Infatti come potrei dire: "Io non sono libero e adesso te lo dimostro" se non fossi invece libero? Se io sostenessi che l'uomo non è libero, lo dovrei appunto motivare, e come potrei farlo se non volendolo fare, agendo deliberatamente e dunque liberamente ? A parte queste sottigliezze, che cosa vuol dire essere libero? Beh, in primo luogo e tanto per sgombrare il campo da possibili equivoci, per me essere libero non vuol dire poter fare tutto ciò che si vuole. Anche in questo caso, partendo dall'osservazione della vita quotidiana, come si può sostenere una teoria simile? Ma quando mai si può ritenere che l'uomo possa fare tutto ciò che vuole? E' un'illusione molto superficiale anche solo credere che si è liberi quando si può fare tutto : aspetteremo invano quel momento, che non arriverà mai, del resto, perché noi, esseri umani, siamo per natura finiti, limitati, e dunque l'unico tipo di libertà alla nostra portata sarà una libertà sì autentica ma sempre nell'ambito della condizione umana, che terrà cioè conto dei limiti fisici, psicologici, culturali, ambientali ecc. di ciascuno di noi. Premesso questo, per me, "essere libero" significa tante cose : significa avere la possibilità di scegliere; significa decidere da soli, cioè riconoscere l'unicità delle nostre scelte; significa essere responsabili di noi stessi e di ciò che facciamo nei confronti degli altri. In una prima sintesi, potrei dire che io manifesto appieno la mia libertà quando, avendo la possibilità di scegliere responsabilmente una alternativa, agisco di conseguenza. Da quanto ho appena detto ne viene che non tutti le mie cosiddette scelte mettono in campo la mia libertà. Molte azioni, in altre parole, sono fatte senza scomodare per forza la libertà ma sono dovute ad esempio ad una banale reazione, ad una abitudine, ad un ordine ecc. Il che non vuol dire che noi siamo sempre condizionati ma, piuttosto, che il nostro comportamento è qualcosa di molto

16

complesso, che non può essere spiegato riduttivamente solo con un sì o con un no, riconducendo tutte le nostre azioni e volizioni ad un unico fattore. Insomma, ritengo che la libertà sia qualcosa di più della capacità di alzare o abbassare un braccio oppure di scegliere tra il pistacchio e la crema. Come la vedo io, la libertà implica la responsabilità e quindi si riferisce soprattutto a quei comportamenti che tengono conto delle conseguenze di ciò che è stato o non è stato fatto(anche l'omissione è una scelta libera). Si ricordi infatti che, volenti o nolenti, noi siamo ritenuti, per lo meno dagli altri, come liberi e responsabili delle nostre azioni, e quindi non possiamo non tenere conto del giudizio altrui (che sia la famiglia o lo Stato o Dio ecc.). Anzi, anche se non ce lo ricordassimo, ci penserebbero gli altri a ricordarcelo! Quando sono consapevole della libertà e della responsabilità delle mie azioni, sono altresì consapevole della unicità delle mie scelte (lo accennavo già prima). Il che può sembrare bellissimo o nello stesso tempo bruttissimo : infatti non c'è nessun altro, in tutto l'universo, che possa o potrà fare la scelta che faccio io e come la faccio io. Questo ci dovrebbe per lo meno far riflettere su quanto sia comunque gravosa la responsabilità che ha ciascuno di noi : io sono responsabile di ogni mio atto libero e ne sono di conseguenza giudicato! Se ce lo ricordassimo più spesso forse … faremmo qualche danno in meno. Un altro problema delicatissimo è quello già citato tra la libertà umana e l'onnipotenza di Dio. Qui si entra inoltre in ambito teologico e dunque le difficoltà sono ulteriormente accresciute. La mia opinione personale è però molto sbrigativa (anche se spero non superficiale) ed è la seguente : la realtà concreta ti fa vedere o considerare gli uomini liberi; se dunque Dio c'è (o anche se non ci fosse), la prima evidenza è quella di constatare comunque che gli uomini sono liberi. Se poi ammettiamo che Dio ci sia e che sia onnipotente, beh, anche in questo caso non vedo delle difficoltà nell'ammettere comunque la libertà umana. Anche perché, con un ragionamento che mi pare semplice, solo se Dio è Dio, e cioè solo se Dio è onnipotente, può aver creato qualcosa e in particolare può aver creato degli uomini liberi, che lo possono contestare o rifiutare (il peccato non implica forse la libertà?) , altrimenti avrebbe potuto creare solo degli automi, delle macchine, dei robot, più o meno ben fatti ma pur sempre automi. Se poi volessimo entrare in ambito teologico, se Dio ci ha creati "a sua immagine e somiglianza" come dice la Bibbia (cfr. Genesi ,1,26-27), ciò non implica forse da un lato l'onnipotenza divina e dall'altra la libertà umana? Di quale altra citazione avremmo bisogno per affermare che siamo stati creati liberi e destinati ad un destino soprannaturale? Questo mi fa venire in mente che un'altra definizione ovvero caratteristica della libertà consiste nell'essere in grado di compiere degli atti virtuosi gratuiti (di amore, generosità, compassione, altruismo e simili). Ecco, in altre parole, come si può ulteriormente manifestare (non oso dire dimostrare ) la nostra libertà : quando agisco secondo parametri del tutto nuovi, originali, imprevisti che non solo sono inaspettati ma hanno anche un altissimo valore morale, ebbene, allora io sono veramente libero! Non mi sento forse più leggero, gioioso, soddisfatto interiormente ? Non mi sento forse liberato da una sorta di peso? Sono tutti indizi che implicano l'autentica libertà della nostra azione. In conclusione, se siamo già liberi, possiamo però diventarlo sempre più. La libertà, a quanto pare, non è qualcosa che ci è data una volta per tutte ma è qualcosa che possiamo aumentare o diminuire. "Diventa sempre più libero!": ecco quello che ci può suggerire una morale molto spicciola. Si basi : è tutt'altro che facile perché … siamo troppo attaccati alle nostre opinioni (mentre molte volte le opinioni personali non sono altro che le opinioni altrui che abbiamo fatto nostre … per pigrizia), alle nostre convinzioni, alle nostre manie, alle nostre abitudini. Il primo passo del cammino filosofico (lo diceva già Socrate) consiste nello sbarazzarci da tutti i nostri pregiudizi, da tutte le opinioni non motivate, da tutte le idee non vere, da tutte le nostre paure (sono così tante!). Eppure molti preferiscono non essere liberi perché …è più comodo crogiolarsi nelle superficiali certezze in cui viviamo piuttosto che scoprire la verità Però… si continua a non vivere bene, e dunque ? Quando avremo il coraggio di buttare la maschera (quello è il vero coraggio!), di

17

vincere le paure fatte …di nulla, allora potremo finalmente cominciare la nostra liberazione interiore : quella sì sarà l'avventura senza fine, la vera storia infinita ! BIBLIOGRAFIA Sul problema della libertà bisognerebbe citare tutte le opere dei filosofi presenti e passati, poiché è uno di quei temi eterni che è stato affrontato da molteplici prospettive. Mi limiterò dunque a citare alcuni libri che possono favorire una riflessione personale. PAREYSON, Ontologia della libertà, edizioni Einaudi . AA.VV., Libertà , Piccola Biblioteca Millelire/Stampa Alternativa. JONAS, Il principio responsabilità , edizioni Einaudi. JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz , ediz. Il Melangolo.

18

6. IL FONDAMENTO DELLA MORALE

C’è un fondamento della morale ? La morale ha un fondamento? La questione, espressa in questi termini, potrebbe non dirci nulla ma è in realtà importantissima sia per la nostra vita quotidiana sia per l’avvenire della stessa umanità. Potremmo anche esporla in questo modo : il bene e il male sono valori assoluti o relativi? Perché devo fare il bene piuttosto che il male? Che cosa sono il bene e il male? Forse così le domande sono un po’ più comprensibili e indicano subito l’importanza della questione. Facciamo tutti esperienza della difficoltà di decidere come agire, soprattutto in circostanze particolari, quando, da ciò che faremo, dipenderanno conseguenze rilevanti per noi e per gli altri. Facciamo tutti esperienza dell’indecisione o della vera e propria crisi di cui siamo preda quando il nostro animo tentenna tra diverse possibilità di azione, perché sentiamo la responsabilità di ciò che accadrà in seguito alla nostra decisione. Un bivio si presenta ad ogni momento dinanzi all’uomo : è difficile che sappia esattamente dove vuole o dove deve andare. In più, non possiamo rimanere indecisi per molto e ogni nostra scelta è radicalmente nostra, ci impegna totalmente. In questi casi cerchiamo di legare le nostre scelte a qualcosa che ci dia una indicazione : possiamo ad esempio seguire i dettami di una religione; possiamo affidarci alla società e/o alla cultura di cui siamo parte per seguire quello che fanno gli altri; possiamo seguire la nostra “coscienza”. Insomma, siamo comunque sempre alla ricerca di un … fondamento che valga il più possibile per tutti. Ma dove trovarlo ? Cominciamo col dire che nella realtà quotidiana, concretamente, noi compiamo moltissime scelte e moltissime azioni. Nella stragrande maggioranza dei casi, quel che facciamo non è dovuto ad una riflessione ponderata bensì a tantissimi altri moventi : abitudini, desideri, ordini eccetera. In tutti questi casi, parlare di “moralità” sembrerebbe ridicolo – e forse lo è veramente – però, se teniamo conto delle conseguenze, per quanto banali possano sembrare, delle nostre azioni, vedremo subito che tutti o quasi i nostri comportamenti implicano una dimensione che possiamo definire morale. Prendete ad esempio l’attraversare la strada : il semplice fatto di fare attenzione (o di non farla) per passare da una parte all’altra della via, ha come conseguenza … l’evitare di finire all’ospedale o di mandarci qualcuno. Altri esempio : svegliarci (o non svegliarci) per tempo ogni mattina implica la puntualità sul lavoro, il rispetto degli altri famigliari, il prendere la coincidenza in orario eccetera. Sono due esempi, se si vuole banali, ma che indicano come sia inevitabile seguire un principio etico piuttosto che un altro. Non so se questo implichi il fatto che – come sostengono alcuni – vi sono delle leggi a priori, dei valori assoluti. Molto concretamente, noi ci comportiamo come se seguissimo delle regole, ed è quello che conta : che poi esse siano storicamente determinate o relative alla situazione in cui mi trovo o che, all’opposto, dipendano da qualcos’altro considerato assoluto, io so soltanto che mi trovo nella impellente necessità di agire e, spesso e volentieri, nulla mi parla, per cui devo comunque e sempre decidere io e nessun altro al posto mio. Insomma, che lo voglia o no, io seguo delle regole di un “gioco” che è la vita stessa. Nessun essere umano (e nessuna società) potrebbe sopravvivere senza regole (già Platone diceva che anche una banda di briganti deve reggersi in base a norme, se vuole fare qualcosa). Detto in altri termini, nessun essere umano potrebbe venire alla luce, sopravvivere e crescere se non gli altri e con gli altri (“Nessun uomo è un isola”, diceva il poeta John Donne). Ogni tipo di attività e di comportamento implica sempre una relazione con gli altri. Questa relazione è, di fatto, disciplinata da norme, le quali valgono per me come per gli altri. Chi non le seguisse è “fuori dal gioco”. In quest’ultimo caso però non vale recalcitrare : vale il principio della reciprocità e cioè “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Insomma, ciò implica una parola molto importante e cioè la responsabilità, responsabilità nei confronti di me stesso e degli altri. Ed è una questione oziosa chiedersi: ”Ma esiste veramente la responsabilità?”, perché, di fatto, anche se si potesse dimostrare inconfutabilmente che non esiste o non ha senso, tutti (io, gli altri, la società) si comportano come se esistesse e questo mi basta per riconoscerla alla base della morale e del diritto. In altre parole, che lo si voglia o no (ripeto : è

19

inutile recalcitrare, reclamare l’eccezione o la propria superiorità o indifferenza o rifiuto o disprezzo nei confronti di un simile discorso), siamo comunque considerati dagli altri responsabili di quello che facciamo – o non facciamo – e quindi dobbiamo tenere conto delle scelte che facciamo e delle conseguenze delle nostre azioni. Per me quindi non si tratta tanto di porsi delle domande più o meno insidiose come ad esempio :”Ma perché dovrei essere morale? Perché dovrei obbedire alle regole? Perché dovrei essere buono o fare bene quel che faccio?”, che vorrebbero mettere in difficoltà che colui che sostiene che … le regole ci saranno sempre perché anche quando diciamo di non seguirle abbiamo in realtà scelto … la regola di non seguire nessuna regola ! No, per me si tratta di partire dal riconoscimento di quello che è, e la realtà concreta in cui viviamo ci dice – ripeto per l’ennesima volta – che noi esistiamo in mezzo agli altri, che agiamo secondo regole, che alcune cose sono ammesse ed altre proibite e chi trasgredisce ne subisce le conseguenze. ( Questo non vuol dire, si badi, che le stesse regole non possano essere criticate, modificate, corrette : anche in questo caso non si può non riconoscere che è sempre stato così, visto che in ogni gruppo, dopo aver assunto delle regole, esse sono state in parte modificate nel corso del tempo). Allora il chiedere con aria di sfida: “Ma perché dovrei seguire delle regole? Perché dovrei fare il bene?” non mi sconvolge più di tanto perché chi facesse simili domande si porrebbe subito al di fuori del gruppo a cui appartiene, il quale, per la propria sopravvivenza , è costretto ad emarginare chi non si adegua alle sue regole. Quindi una prima risposta, molto brusca e “cattiva” ad una simile questione, potrebbe essere : “Devi seguire delle regole, volente o nolente, perché altrimenti ti reprimo, ti escludo dal gruppo in cui sei vissuto finora, ti emargino dalla società, ti chiudo in prigione. Fai un po’ tu!”. Vi potrebbe però essere una seconda risposta allo stesso interrogativo, che è molto importante per il nostro problema iniziale ed è la seguente : “Devi fare il bene perché … così facendo vivrai meglio, sarai più felice e realizzato e lo saranno gli altri”. E’ solo un’apparenza credere che chi fa il male viva più felice degli altri : in realtà il piacere della trasgressione (intendo proprio il delinquente, non le ragazzate) è effimero; la vita di chi è malvagio non è affatto tranquilla, c’è poi il rischio continuo di essere comunque preso dalla polizia, la scocciatura dei processi, della prigione, della eventualità di non morire di morte naturale … no, no, troppe grane, troppe seccature a fare il delinquente, meglio una banale vita qualunque … A parte il tono scherzoso, quel che voglio dire è che … la vera felicità, l’autentica realizzazione di noi stessi è solo possibile insieme agli altri e tenendo conto degli altri. E’ così : dobbiamo riconoscerlo, ci piaccia o no ! Insomma, nonostante le apparenze, i veri falliti, in tutti i sensi, sono proprio i delinquenti e non la gente comune, la quale non farà mai grandi cose, non sarà ricordata nelle enciclopedie ma … permette comunque l’esistenza stessa dei delinquenti (che sono sempre e comunque la minoranza) poiché, per definizione, una società di delinquenti, malvagi e simili non resisterebbe una sola giornata! E’ solo perché la maggior parte rispetta le regole, anche controvoglia, che vi possono essere alcuni trasgressori, e dunque la società ha tutte le ragioni, quando si sente minacciata nella propria sopravvivenza, a porre un freno nei confronti di chi delinque e non rispetta certe regole. Ma allora la morale dipende dallo Stato? Si dovrebbe forse chiedere allo Stato di farsi paladino della morale? Io credo e spero di no. Mi spiego. Se lo Stato fosse il garante della morale, ogni azione o intenzione diversa dal comune sentimento morale (difficilissimo per altro da stabilire) dovrebbe essere considerata reato. Non dobbiamo confondere l’ambito del diritto con quello della morale. Nel primo caso lo Stato ha certo il dovere di legiferare e di comminare sanzioni; nel secondo caso, si tratta invece di salvaguardare e di riconoscere la sfera specifica della moralità, che è quella della scelta libera e responsabile, di ciò, in pratica, che tradizionalmente viene chiamata “coscienza”. Ad esempio i vizi capitali (l’avarizia, l’ira ecc.) non sono dei reati che lo Stato possa punire di per sé; ma diventano reati le azioni a cui essi possono condurre ai danni di altre persone, ed è in questo caso che lo Stato può e deve intervenire. Ma allora, c’è o non c’è un fondamento della morale? Ritorniamo così alla nostra domanda iniziale. A questo punto potrei cercare di rispondere. Secondo me non si tratta tanto di cercare o trovare un

20

fondamento più o meno astratto della morale quanto piuttosto di riconoscere se c’è già qualcosa che potremmo considerare il fondamento morale di ogni nostra azione. Ebbene, io ritengo che questo fondamento ci sia e sia anche immediatamente riconoscibile : si tratta della salvaguardia dell’essere. Questa è la constatazione da cui parto, questo è quanto non posso non riconoscere : l’umanità c’è, è presente su questo pianeta da parecchio tempo. Il fatto che … noi ci siamo implica che l’umanità nel suo complesso ha scelto di vivere e di continuare a farlo; gli uomini, in altre parole, hanno preferito l’essere al non-essere, la vita (per quanto grama possa essere) alla morte. Forse non sappiamo bene perché ma sappiamo che gli esseri umani continuano a scegliere la vita alla distruzione, al nulla. Dunque in questi esseri che si sono autodefiniti “uomini” sembra prevalere il desiderio di vivere. A questo riguardo, permettetemi di dire che io non me la sento di definire l’uomo, filosoficamente, come egoista o altruista per natura, oppure che tenda per natura alla felicità o al bene o all’utile o a Dio eccetera. Ritengo che tutti o alcuni di quegli aspetti possano essere presenti nei nostri comportamenti e che quindi nessuno in particolare possa essere considerato più esclusivo o assoluto o esaustivo degli altri. Io mi sono imposto come regola metodologica di partire dall’osservazione di quanto mi circonda e ciò mi porta a dire che … ogni persona su questo pianeta persegue, in fondo, la pace e la tranquillità del vivere. Anche in questo caso, pensate ai cosiddetti delinquenti : non mi direte che vogliono continuare a fare del male 24 ore su 24 per 80 anni di seguito, no? Ogni tanto dormiranno anche loro, no? Per cui, anche conquistassero l’universo, che farebbero, dopo ? Si riposerebbero, si darebbero una calmata perché capirebbero, finalmente, che, oltre al piacere del fare e del non fare, c’è un piacere ancora più grande, che è il puro piacere dell’esistere, del gioire del fatto di essere vivi. In conclusione, il fondamento della morale, il valore a cui ci riferiamo costantemente, che ne siamo o no consapevoli, è, secondo me, la salvaguardia dell’essere, cioè la sopravvivenza della specie umana e della vita in generale. Il che implica – e oggi ne siamo tragicamente consapevoli – il rispetto dell’ambiente ed in generale il rispetto dell’altro perché … noi siamo l’altro. Si badi : al di là di un’etica della reciprocità, , auspicherei un’etica della dignità e della responsabilità verso ogni essere umano e vivente in genere, secondo un principio che potrei chiamare della intersoggettività perché non solo io devo riconoscere di essere responsabile ma voglio esserlo nei confronti di me stesso e degli altri. Da questo punto di vista, la massima che potrebbe essere la guida nei miei comportamenti potrebbe essere così formulata :”Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”. In altri termini, noi potremmo anche mettere a repentaglio la nostra vita ma non possiamo mettere a repentaglio la vita degli altri. Noi non abbiamo il diritto di scegliere o di rischiare il non-essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali. Dunque il fondamento della morale è quello di esistere e di continuare ad esserci. Si badi : primario è il fatto che gli uomini già ci sono e già agiscono : nell’uomo il dover-essere deriva dal suo esserci-già ! Noi dobbiamo semplicemente riconoscerlo e trarne le conseguenze : ecco il nostro compito per l’oggi e per il futuro. In altri termini, io creo ed ho sempre creato (almeno finora) il diritto di poter venire all’essere e di continuare ad esistere. Io mi voglio responsabile della vita futura anche degli altri, visto che, chi non esiste, non ha alcun diritto. Visto che gli altri mi hanno dato l’esistenza e mi hanno fatto vivere, con quale criterio, se non del tutto arbitrario, potrei dire che gli altri non possono e non debbono vivere o continuare a farlo ? Gli esseri devono vivere e continuare a vivere : questo potrebbe essere il “comandamento” fondamentale. Che poi cerchino di vivere bene … beh, potrebbe essere il secondo. Il che potrebbe già bastare per una morale che si volesse universale, no ? BIBLIOGRAFIA Cito solo un paio di titoli (altrimenti dovrei riempire pagine su pagine) che mi hanno offerto degli spunti : ABBAGNANO, Fra il tutto e il nulla, Rizzoli JONAS, Il principio responsabilità , Einaudi

21

7. LA PAURA E L’ANGOSCIA

Noi viviamo molto spesso di paure: nei confronti del domani, dell'ignoto, di un fatto che temiamo. Tali paure a volte possono essere collettive: la paura della fine del mondo, di una catastrofe nucleare o ecologica ecc. Per non parlare della paura vissuta proprio come clima che si respira giorno per giorno, ad es. in una società totalitaria (si pensi alle condizioni di vita durante il periodo nazista o stalinista o fascista) oppure nel mondo della delinquenza (la paura fa da padrona nel mondo del crimine giacché si diventa dei boss solo incutendo terrore agli altri e minacciando di violenza ...). come si vede, la paura è un'emozione molto comune, anzi è tipica non solo degli uomini ma anche degli animali, per cui ... non si vede che cosa ci sia da dire per suscitare una qualche riflessione. Eppure ... proprio da un punto di vista filosofico la paura e l'angoscia sono state esaminate fin dall'antichità. Ricorderò solo due nomi: Epicuro e Kierkegaard. Il primo fondò anzi buona parte della sua filosofia proprio sul tentativo di far superare all'uomo le sue paure (specialmente quella verso gli dèi e quella della morte) affinché potesse vivere libero e felice. Il secondo ci ha lasciato stupende riflessioni sul concetto dell'angoscia che sono state riprese persino a livello psichiatrico. A parte ciò, cosa possiamo dirne in generale? Innanzitutto si potrebbe sottolineare il fatto che la paura è una emozione di difesa, ed è provocata da un pericolo reale o immaginato. Tale definizione (tratta dal Dizionario di psicologia di U. Galimberti, ed. Utet 1992) ci dice che la paura è sempre paura di qualche cosa, di un "oggetto" particolare, ed è comunque una reazione naturale di difesa, e quindi ... guai se non ci fosse, guai se non provassimo mai paura (saremmo temerari, degli imprudenti e anche degli sciocchi ... perché non terremmo conto del pericolo che ci sovrasta ... e dunque rischieremmo stupidamente la vita!). insomma, un po' di paura è salutare e ci dà anche ... la giusta carica (pensate ai momenti prima di un esame) per affrontare una situazione delicata; inoltre ci dà delle indicazioni morali non di poco conto: ci dice di essere prudenti e, come si sa, la prudenza è una delle virtù. Per dirla con una battuta, se vuoi essere felice, ogni tanto devi provare un po' di paura! L'angoscia invece non ha un oggetto specifico ma designa uno stato emotivo che è tipico solo dell'uomo: io provo l'angoscia quando mi rendo conto che la mia vita è una serie continua di possibilità diverse che - ed è questo l'importante - possono in ogni istante cambiare e dunque trasformare radicalmente la mia esistenza. Chi mi vieta, infatti, in un qualunque momento, di modificare quanto ho appena fatto, di mutare drasticamente la mia vita? Chi mi può vietare - per fare un esempio estremo - di fare una strage, di uccidere e uccidermi, di fare "pazzie" e simili? A volte solo la pigrizia, però, se volessimo e ci intestardissimo ... ecco, l'angoscia è appunto prendere consapevolezza che, in ogni istante della nostra vita, noi possiamo negare la scelta appena fatta e ciò ... ci provoca appunto l'angoscia. Ma se è così, l'angoscia non dobbiamo cercare di superarla o negarla, al contrario, dobbiamo farla nostra, accettarla e viverla come condizione esistenziale inevitabile della nostra vita. Anzi, oserei dire che se non vivessimo l'angoscia, se non l'avessimo mai provata, ciò vorrebbe dire che forse non abbiamo ancora riflettuto abbastanza sulla condizione umana. Ma c'è di più: le ansie, gli spaventi, le fobie che possiamo provare non sono altro che i sintomi della paura o della angoscia, mascherati da malesseri medici. In altri termini, tutte le nostre paure (usando il termine in senso generale) non sono altro che sintomi del nostro disagio esistenziale, della nostra paura di vivere. E la nostra paura di vivere è tale perché ... finora siamo sempre fuggiti da noi stessi, non abbiamo avuto tempo per fermarci un po' a riflettere, a venire in chiaro di quello che siamo, e ci siamo storditi in mille attività pur di non pensare (è il divertissement di cui parla Pascal nei Pensieri). Noi abbiamo grandi paure, come la paura della morte e la paura di non riuscire a dare un senso alla nostra vita. Nel primo caso la paura della morte non si riferisce tanto alla morte in sé (di cui non abbiamo esperienza) ma in realtà la paura dell'aldilà, la paura di essere giudicati e di conseguenza

22

puniti. Il secondo caso è la paura di ... aver sprecato la propria vita, la paura di non aver fatto nulla di valido o di aver fatto troppo poco. Comunque sia, tutto ciò è indice di quel disagio esistenziale di cui dicevo prima. Insomma, la cosa più importante per l'uomo, quella da farsi prima di tutte le altre, la cosa da non rimandare ... è la conoscenza di se stesso. Solo nella misura in cui riusciremo a riflettere un po' su noi stessi, riusciremo a vivere meglio. L'origine di tanti malesseri, depressioni, stress, fobie ecc. è proprio lì, nella mancata conoscenza di noi stessi. Abbiamo tutti sotto gli occhi i casi di persone ricche, di successo, indaffaratissime eppure infelicissime e piene di paure ... perché rifuggono da loro stesse; sono debolissime interiormente perché non conoscono chi sono e non sanno che cosa vale veramente ... sono da compatire, non da invidiare! E invece i mass media ce li additano come modelli di vita da imitare. Che stupidaggine! Del resto la nostra non è forse una società malata, alienata e infelice? Ma lo è solamente perché ... ha dimenticato di ricercare la saggezza ed ha capovolto i veri valori, mettendo al primo posto quelli illusori e temporanei invece di quelli che sono essenziali e che tutti possiamo perseguire (ricchi o poveri, giovani o vecchi) quali la libertà, la verità, l'amore, la pace, la tolleranza, il rispetto ecc. ecc. ecc. Una società sana e i cui membri non hanno paura è quella ricca ... di spirito e non di cose! BIBLIOGRAFIA EPICURO, Lettera sulla felicità (a Meneceo), Stampa Alternativa o BUR ecc. KIERKEGAARD, Il concetto dell'angoscia, BIT o Sansoni PASCAL, Pensieri, BIT o Newton Compton o Mondadori o Einaudi ecc.

23

8. LA RICERCA DELLA FELICITA’ La parola felicità indica in generale uno stato di pienezza di vita che l’uomo vorrebbe sperimentale … speso e volentieri. Ho detto apposta “pienezza di vita” perché la cosiddette felicità implica diversi aspetti. Già Aristotele diceva che, per essere felici, non dobbiamo avere né preoccupazioni fisiche, né spirituali, né materiali dato che anche una piccolezza può contribuire a renderci felici o infelici (cfr. Etica nicomachea , A, 8, 1099 b). pensate ad una piccola spina in un dito : potremmo essere gli uomini più ricchi e potenti del mondo, ma in quel momento l’unica nostra preoccupazione è liberarci al più presto da quel fastidio, no ? Non dobbiamo dunque confondere la felicità con i diversi stati d’animo che proviamo in una qualunque giornata. La felicità è qualcosa di diverso dalla allegria, dalla gioia, dal piacere (come pure dalla tristezza, dalla malinconia, dalle arrabbiature e simili). Diciamo però subito che il tipo di felicità a cui l’uomo può aspirare su questa Terra è una felicità parziale, temporanea, limitata. Ogni altro tipo di felicità che ci venisse prospettata … è un inganno ! Se ci rendessimo conto che non ci vuole molto per essere felici e che tale condizione è naturalmente temporanea, da un lato la smetteremmo di cercarla ad esempio in esperienze che tentano di superare i limiti dell’uomo, e dall’altro la vivremmo in un modo più soddisfacente perché la apprezzeremmo per quello che è e non la confonderemmo con altro. In breve, noi possiamo essere certamente felici ma senza illudersi che possa durare per sempre. Approfondiamo un po’ di più la questione. Io ritengo, molto concretamente, che la felicità come pienezza di vita possa esistere ma essa è data all’uomo solo per breve tempo. Il che non mi sembra né scandaloso né inaccettabile e non mi fa neppure esclamare “ma allora non è vera felicità!”. Si tratta piuttosto di riconoscere e di accettare quello che noi uomini siamo, e cioè degli esseri finiti che rifuggono naturalmente, fisiologicamente dagli eccessi . troppa gioia o troppo dolore, troppo cibo o troppo piacere, troppa fatica o troppo ozio ecc. ci sono comunque insopportabili. Ecco perché, da che mondo è mondo, tutte le morali hanno sempre messo in guardia l’uomo da ogni tipo di eccesso. In altri termini, la morale ti dice :”Se vuoi essere felice devi in primo luogo conoscere quello che sei. Visto che sei un uomo e non Dio, devi accettare di avere dei limiti, dunque la tua felicità non potrà essere né quella di un Dio né quella di un animale; la felicità a cui puoi aspirare è perciò solo parziale, temporanea, limitata, condizionata ma non per questo è meno bella o soddisfacente”. Insomma - sembra dirci la morale – se ti va, bene, ed allora potrai goderti le occasioni di felicità che ti capiteranno; se non ti va, e cioè non vuoi accettare quel che ti consiglio, fatti tuoi, vivrai insoddisfatto e molto peggio di altri che hanno invece saputo fruire completamente delle occasioni di felicità che si sono presentate. E si badi bene : non si tratta neppure di “sapersi accontentare” nel senso di cercare di sopportare più o meno con malanimo le vicende della vita. Direi anzi che l’uomo è tale proprio perché … non si è mai accontentato di quello che era ma ha sempre cercato di modificare la propria condizione, perennemente proteso – come è – verso il futuro, in tensione continua e alla ricerca di qualcos’altro. Si tratta invece dalla contentezza che deriva dalla conoscenza di noi stessi, come dicevo prima. Per essere felici bisogna anzitutto sapere chi siamo e cosa possiamo fare per esserlo pienamente. La prima evidenza è appunto questa : tu sei un uomo e quindi non devi confonderti con altro e non devi cercare di diventare qualcosa di diverso. La vecchia massima “Diventa ciò che sei” è pur sempre valida. Perciò la felicità che ti spetta sarà una felicità “a misura d’uomo”. Ed è perfettamente inutile – oltre che stupido – recriminare. Contro chi poi? Se dici di avere il desiderio di una felicità perfetta, eterna, continua, completa, devi solo riflettere su che cosa significherebbe un tal modo di dire. Vorresti forse godere 24 ore su 24 di tutti i piaceri e di tutte le soddisfazioni della vita ? Prova a farlo, ma non resisteresti più di qualche giorno e poi … moriresti … stanco ma felice? NO, stanco e comunque insoddisfatto ! Vorresti allora fare continuamente delle azioni eroiche e straordinarie ? Ma anche gli eroi, santi, i potenti … ogni tanto riposano! Come si può vedere, una felicità immaginata in questo modo non esiste ed è comunque irrealizzabile da parte dell’uomo … almeno in questa vita. Non per nulla, per chi è credente, la piena felicità, la vita eterna, è rimandata nell’aldilà.

24

Attenzione, però ! E’ inutile voler fantasticare come sarà. O meglio, possiamo anche fantasticare quanto vogliamo però ritengo di poter affermare che essa sarà diversissima dalla nostra condizione terrena perché, se ci sarà, sarà un dono soprannaturale e dunque tale che esula dalle nostre più elevate capacità di comprensione. S. Paolo ci ha avvisato in tempo :”Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano”(1 Corinti, 2, 9) . Ripeto ancora una volta : per me la felicità è certo vivibile ma non per troppo tempo. Ed in effetti, come trascorriamo la maggior parte dei nostri giorni? Ritengo che non ci definiremmo, in generale, né felici né infelici. Siamo in una condizione in cui si alternano momenti di allegria ad altri di preoccupazioni varie, però, insomma, come si dice, “tiriamo avanti”. Dunque potremmo anche fare a meno di una felicità come pienezza di vita, anzi, a ben vedere, ne facciamo quasi sempre a meno, visto che a ben pochi è dato di affermare :”Ho avuto una bella vita, ho fatto tutto quello che volevo fare, non ho rimpianti né posso rimproverarmi nulla”. Credo invece che l’esperienza comune ci faccia dire proprio il contrario :”Ho avuto una vita così così, avrei potuto far meglio, ho avuto qualche soddisfazione, avrei voluto fare altro …”. Insomma, la maggior parte delle vite umane (se non tutte, in fondo in fondo) devono riconoscere il profondo divario tra i desideri e la realtà. Nonostante questo, però, io credo che non dovremmo rammaricarcene più di tanto. Se la vita umana ci pare ben poca cosa, ebbene, potremmo cercare di vivere il meglio possibile il tempo che ci è concesso. Visto che siamo qui, sfruttiamo questa occasione, no? E per quel che riguarda la felicità, forse il suo presunto segreto è tutto qui : non cercarla apposta, e soprattutto non cercarla per pretendere di possederla. Saremo felici, invece, nella misura in cui … avremo fatto un po’ felici non tanto noi stessi ma …gli altri. Se sareo riusciti, qualche volta, a rendere un po’ felice qualcun altro, beh, ci accorgeremo di … essere felici anche noi ed avremo forse risolto … l’annoso mistero della felicità. BIBLIOGRAFIA EPICURO, Lettera a Meneceo o Lettera sulla felicità, ed. Stampa Alternativa/Millelire RUSSELL, La conquista della felicità, Biblioteca Longanesi SCHOPENHAUER, L’arte di essere felici, Adelphi

25

9. LE RAGIONI DELLA FEDE Per illustrare le ragioni che motivano l'adesione di una persona ad una particolare religione, mi limiterò all'ebraismo e al cristianesimo visto che noi viviamo in un contesto occidentale. Esporrò tre tesi che vengono ritenute, in ambito ebraico-cristiano, particolarmente fondate per giustificare l'adesione a tali religioni.(cfr.TRESMONTANT,L'intelligenza di fronte a Dio, e anche Cristianesimo filosofia scienze, entrambi nelle edizioni Jaca Book). 1. L'esistenza del mondo o almeno di noi stessi esige l'esistenza di Dio Nella nostra esperienza quotidiana un'erba che spunta, una creatura che è concepita e che nasce, la vita che appare ad un certo momento, tutto questo costituisce la manifestazione di una continua creazione, dove qualcosa di nuovo appare continuamente, cioè qualcosa che prima non esisteva. Quando poi riflettiamo su noi stessi, dobbiamo riconoscere che non siamo noi gli autori della nostra esistenza e tanto meno della nostra condizione mortale. La nostra esistenza, il nostro corpo, la nostra "anima" sono per noi una sorpresa e un oggetto inesauribile di stupore. Noi siamo mistero a noi stessi. L'universo, come noi stessi, è incapace di rendere ragione della propria esistenza. Esiste, è un fatto, ma è un fatto che non ha una giustificazione in sé. Ma un essere che non vive se non grazie ad un altro essere, è dipendente. Un altro è dunque la sorgente della mia vita. La mia vita ha dunque il proprio fondamento fuori di se stessa, e cioè ha il suo fondamento in Dio. Non solo : non solamente si deve dar ragione dell'universo in quanto oggetto esistente, ma bisogna anche dar ragione dell'universo in quanto diversificazione, struttura, qualità, natura . L'universo attuale è infatti diverso dall'universo di milioni di anni fa. Inoltre il mondo non si evolve verso un senso qualunque, ma verso una struttura complessa, verso la vita, verso la coscienza e chissà verso che altro ancora. Anche in questo caso, la direzione verso cui va l'universo e l'ordine in esso presente non possono essere casuali e implicano dunque l'esistenza di chi chiamiamo Dio. E, a proposito del caso, la formazione dell'universo non può essere stata casuale : le scienze ci dicono che il Big Bang risale a 15-20 miliardi di anni fa e in questo periodo di tempo, statisticamente, se fosse stato il caso a produrre il mondo, una struttura come il corpo umano si sarebbe realizzata , a caso, molto meno di una volta ogni 10 308670 miliardi di anni! Quella struttura durerebbe poi un solo secondo! (G.BLANDINO, I massimi problemi dell'essere, edizioni Paoline, 209). Non si dimentichi inoltre che il fenomeno causale ideale sarebbe caratterizzato dalle equiprobabilità delle singole possibilità : il che significa che la formazione casuale graduale non sarebbe stata più probabile della formazione casuale improvvisa ed in più, nella ipotesi casuale, il fenomeno della selezione naturale non avrebbe avuto alcun influsso! Insomma, l'estrema improbabilità se non impossibilità della formazione casuale della vita fa appunto scartare l'ipotesi del caso e permette di introdurre l'ipotesi di Dio. 2. La presenza del popolo ebraico nella storia ci porta a riconoscere l'esistenza di Dio Il 43% della popolazione mondiale si proclama "figlia di Abramo"! Ebrei, cristiani, musulmani sono tutti discendenti da un nomade che 4000 anni fa … lasciò tutto per seguire la voce del suo Dio! La Bibbia ,che racconta le sue vicende e tanto altro ancora è il libro sacro di miliardi di persone ed il best-seller in assoluto nella storia del libro! Sono due dati che ci possono far per lo meno riflettere. Il popolo ebraico è infatti un paradosso storico : Israele è il solo popolo che abbia superato il dissolvimento del mondo antico, conservando intatta la sua identità. Dove sono infatti assiri e babilonesi, etruschi e fenici, gli stessi greci e romani? Israele è proprio un mistero per lo storico. Da dove viene il suo rigoroso monoteismo, mentre tutte le religioni antiche sono politeiste? Da dove viene il primato di Israele nella religione e la sua palese inferiorità in tutti gli altri campi ? Israele si distingue da tutti gli altri popoli antichi per questa esperienza : l'Assoluto è un essere personale che intrattiene con Israele relazioni di tipo personale. E' un Dio unico, è universale e non locale, è morale perché vuole santità e giustizia. Israele acquista consapevolezza di essere stato creato specificamente per realizzare un compito : essere segno della presenza di Dio nel mondo! Il Dio che

26

si rivela a Israele è, come abbiamo già detto, personale e creatore; è un Dio libero che è amore, ma non di un amore sentimentale bensì molto esigente : Egli esige che l'uomo faccia propria la Sua carità creatrice, che divenga cioè cooperatore di Dio nel mondo e nella storia. L'amore esigente di Dio non tollera che l'uomo scenda al di sotto della sua vocazione. E' ciò che vuol dire la Bibbia quando ci dice che Dio è un Dio geloso : Dio non vuole che ci accontentiamo delle piccole briciole di un destino da larva! A ciò si potrebbe obiettare : troppo bello per essere vero! La fede invece afferma : è proprio così, per una volta è troppo bello ed è vero! E' vero, ed è bello sapere che Dio esiste, che noi siamo destinati alla vita eterna, che il bene è vincitore e che l'amore è lo scopo più alto della vita ! Chi non volesse accettare questo destino soprannaturale è perché … ne ha paura e gli sembra talmente inconcepibile che … non se la sente di abbandonare le sue certezze terrene (ma vi sono certezze terrene?) per abbandonarsi con fiducia ad un Dio che è amore, che va alla ricerca dell'uomo ma che viene molto spesso rifiutato. Dio è, come dice André Frossard, "un amore escluso dalla propria creazione"! (cfr. C'è un altro mondo ,ed. SEI, p. 89). 3. La figura di Gesù ci porta a riconoscere che l'Assoluto si è manifestato pienamente nell'uomo Gesù di Nazaret. Il cristianesimo è un messaggio religioso che si basa su una affermazione storica ben precisa : noi testimoniamo che Gesù è risorto dai morti ! (come storica è la fede ebraica : Dio ha parlato per mezzo dei profeti). Tale dichiarazione è lo scandalo assoluto : nessun altro uomo, in tutta la storia dell'umanità , è detto essere risorto dai morti ed essere identificato con Dio! Ed allora i casi sono purtroppo solo due : o è la più colossale menzogna della storia umana oppure … dobbiamo riconoscere che è successo per una volta qualcosa di talmente eccezionale che ci fa dire : perché no? Perché non potrebbe essere veramente successo? A questo riguardo, vi possono essere soltanto tre spiegazioni : 1) l'ipotesi critica, per cui Gesù è stato divinizzato dai suoi discepoli; 2) l'ipotesi mitica, per cui Gesù non è mai esistito, è una leggenda, un mito appunto; 3) l'ipotesi della fede, per cui dobbiamo ammettere che Gesù sia vero uomo e vero Dio.(cfr. MESSORI, Ipotesi su Gesù, ed. SEI ). Obiezioni alla prima ipotesi : Come poteva Gesù essere divinizzato dai suoi discepoli se l'ebraismo, di fronte alla adorazione di

un uomo, grida allo scandalo? Eppure tutti i discepoli erano ebrei. Come poteva essere divinizzato se, nei 4000 anni di storia dell'ebraismo, non solo non è mai

avvenuto l'inspiegabile processo di divinizzazione operato per Gesù, ma non è neppure mai avvenuto che qualcuno dei discepoli dei tanti Messia che vi sono stati abbia mai pensato di equiparare il suo "Cristo" al Dio sommo!

Quegli ebrei avrebbero immaginato ciò che neppure il più fanatico adulatore dell'imperatore arrivò mai a dire : che cioè questo Cristo era Dio "ancor prima della nascita" e che questa incarnazione giungeva dal ventre di una donna!

Vi è insomma una impossibilità culturale nella divinizzazione di un uomo in una società come quella ebraica: mentre quegli ebrei proclamarono subito che Gesù è il Signore, equiparandolo quindi subito a YHWH !

Obiezioni alla seconda ipotesi : Come mai gli episodi narrati nei vangeli sarebbero leggendari mentre la cornice di quella

"leggenda" si è rivelata sempre più esatta e storicamente documentata? Se all'inizio non c'è una persona reale, dove sarebbe la scintilla che dà origine al grande incendio cristiano? Un "mito" come quello evangelico avrebbe bisogno, per precisarsi, di una lunga serie di

generazioni. Invece la prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi fu composta verso l'anno 50, vicinissima dunque alla data della morte stessa di Gesù (tra il 30 e il 36 d.C.) ! Tutto il contenuto fondamentale del cristianesimo è già "codificato" così come noi lo conosciamo.

Si noti che i manoscritti del Nuovo Tstamento sono i testi antichi meglio conservati ! Per fare un

27

paragone, si pensi che per Platone si lavora su manoscritti distanti 13 secoli dall'originale e per Eschilo si risale a 1500 anni!

Si potrebbe obiettare che vi sono diverse discordanze che fanno dubitare della autenticità dei racconti evangelici. E' però una obiezione che non regge perché sono proprio le varianti presenti nei quattro racconti ufficiali che fanno pensare che all'origine ci sia una storia realmente accaduta e non inventata. La comunità cristiana primitiva fu "costretta" ad accettare quei quattro testi, e quelli soltanto, anche se imbarazzanti e scomodi. Un obbligo che poteva discendere solo dalla convinzione motivata che in quei testi erano conservati i ricordi dei testimoni più attendibili. Ricordi talvolta contrastanti, persino confusi in alcuni punti ma, tra tutti, i più aderenti ad una vicenda di cui molti erano stati testimoni. Cogliamo qui lo scrupolo della comunità primitiva di accordare fiducia solo a quei testimoni che giudica attendibili. I soli credibili perché (nel giudizio della comunità stessa) hanno visto o sentito di persona o hanno raccolto le deposizioni di testimoni diretti. E quanto ricordato e raccontato da questi super-testimoni è considerato appunto come immodificabile, bloccato una volta per sempre.

Si noti che nei Vangeli vi è sempre il tono distaccato del cronista : soltanto i fatti, nudi e crudi. Manca ogni esaltazione. Anche i miracoli più strepitosi sono raccontati senza nessuna enfasi, con la consueta semplicità. Allora, o li si accetta in blocco o si rifiuta tutto quanto!

La terza ipotesi, quella della fede. Visto tutto quello che precede, si ritiene che sia tutto sommato più ragionevole ammettere una misteriosa irruzione del divino in un punto della storia umana. E' l'ipotesi che, per quanto imbarazzante possa sembrare, spiega chi è questo Gesù di Nazaret, vissuto duemila anni fa in Israele! Infatti quel Gesù fa delle cose che nessun altro uomo può fare (guarisce i malati, calma le tempeste, resuscita i morti), insegna come uno che ha autorità ("vi è stato detto, ma io vi dico…"), rimette i peccati (cosa che solo Dio può fare!); si dichiara "padrone del Sabato"(che per gli ebrei è sacro!); infine si identifica con Dio stesso ("Prima che Abramo fosse, Io sono",Gv.,8,58; "Io e il Padre siamo una cosa sola",Gv.,10,30 e 10,38;"Allora il sommo sacerdote gli disse: 'Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio'. 'Tu l'hai detto', gli rispose Gesù",Mt.,26,63-64). Vogliamo scandalizzarci? Facciamo pure. Ognuno di noi deve però rispondere, prima o poi, a questa tremenda domanda:"Voi, chi dite che io sia?"(Mt.,16,15). Ultima osservazione : di fronte alla croce di Gesù, l'uomo che soffre capisce che anche il dolore ha un senso. Il Figlio di dio che soffre e muore ci dà la sicurezza che, al di là del dolore, c'è la gioia, al di là della morte c'è la resurrezione. Così solo nel cristianesimo il male è trasformato nel mistero di una Onnipotenza che è vicina alle sue creature. Potrei concludere con André Frossard :"Ma che ci posso fare, se il cristianesimo è vero, se c'è una verità, dr questa verità è una persona che non vuole essere inconoscibile? "(Dio esiste,io L'ho incontrato, SEI,p.148). BIBLIOGRAFIA GUITTON-BOGDANOV, Dio e la scienza, Saggi Tascabili 29 Bompiani MESSORI-BRAMBILLA, Qualche ragione per credere, Oscar Mondadori Bestsellers 934

28

10. LE RAGIONI DELL’ATEISMO Il problema di Dio è un problema specificamente umano. E' per l'uomo che Dio è un problema, un mistero, una certezza, un dubbio, una negazione, una esperienza. E' solo l'uomo che si pone il problema di Dio, che tenta di risolverlo con le più diverse soluzioni. Così il problema di Dio è inevitabile e, direi, squisitamente "esistenziale" nel senso che in esso ne va anche della vita umana, ne va anche del significato da dare alla nostra esistenza, implica anche una morale conseguente che determina il nostro atteggiamento nei confronti di noi stessi e degli altri. Ritengo che il problema di Dio sia uno di quelli appunto inevitabili perché prima o poi, direttamente o indirettamente, tutti gli uomini devono confrontarsi con esso. Anche coloro i quali dicono che, per essi, Dio non è mai stato un problema (o perché il problema non sussiste, è uno pseudo-problema perciò è privo di qualsiasi significato, o perché non hanno mai avuto dubbi o questioni a riguardo, non se lo sono mai posto), l'hanno comunque risolto, almeno indirettamente, e l'hanno risolto in modo negativo. Negare infatti che esista il problema - o un problema - è già aver dato una risposta allo stesso, affermando implicitamente che lo si è risolto con la sua negazione. Direi anche che il problema di Dio è uno di quelli ineliminabili perché … se esso si pone alla mente umana, resterà per ciò stesso presente almeno finché vi sarà una mente umana ,e quindi l'uomo non potrà mai evitare di porselo almeno in quanto problema, come non potrà evitare di affrontare tutti gli altri problemi, finché vi sarà. Fatto questo preambolo, veniamo all'ateismo. Vi sono delle persone - vi sono sempre state - che ritengono che Dio non esista e che dicono di non fare riferimento, nella loro vita, ad un Essere personale, trascendente, creatore (questa potrebbe una definizione approssimativa di Dio ). Debbo precisare, a questo riguardo, che per me l'ateo è colui che afferma che Dio non esiste e che motiva la sua posizione con varie argomentazioni. In altre parole, nelle pagine seguenti mi riferirò ad atei dichiarati e quindi non prenderò in esame posizioni come il panteismo (Dio si identifica col mondo), lo scetticismo (dubito che ci sia un Dio) , l' agnosticismo (non conosco se Dio c'è o non c'è) , il deismo (esiste un qualche essere supremo ma si rifiutano religioni rivelate, dogmi, culti) , e non mi occuperò neppure delle concezioni orientali della divinità presenti nel Buddhismo, nell’Induismo, nel Confucianesimo, nel Taoismo ecc. perché, in quest'ultimo caso, sono modi diversi di affrontare il problema di Dio, molto complessi e comunque "distanti" dalla nostra comune mentalità. Limitato così il campo della mia indagine, comincerò con l'illustrare sinteticamente lo sviluppo dell'ateismo in occidente. I primi "atei" li possiamo già trovare nella Grecia antica (si noti, en passant , che l'ateismo in generale non può essere legato alla sola concezione ebraico-cristiana di Dio per cui chi non avesse il concetto di Dio tipico di questa tradizione sarebbe un ateo!) . Diagora di Melo (5° sec. a.C.) e Teodoro di Cirene (4°-3°sec. a. C.) sono i primi nomi che incontriamo. Teodoro ad es. esortava tutti a rubare e a compiere sacrilegi giacché pensava che non vi fosse nessuna divinità che lo potesse fermare o punire che quello che avrebbe fatto. Nel caso di Diagora, si dice che fosse stato spinto all'ateismo nel vedere che gli dèi permettevano che fosse felice un uomo colpevole, a quanto pare, di avergli rubato un poema. Da queste poche righe, si può già vedere qual è una delle cause più profonde che portano all'ateismo : il vedere che la divinità non interviene quando viene commessa una ingiustizia ! Dunque si tratta dell'eterno problema del male. Infatti perché si viene portati , in generale, alla miscredenza ? Io ritengo essenzialmente ,oggi (e dico oggi perché non pretendo di estendere il mio parere su tutta la storia), per tre motivi, che vedremo comunque nelle pagine seguenti : lo scandalo e il non senso della morte o di certi tipi di morte, lo scandalo del male e della sofferenza, ed infine, in ambito più specificamente cristiano-occidentale, a causa della incoerenza di certi uomini appartenenti alla Chiesa o della stessa istituzione ecclesiastica (quanti dicono : Cristo sì ,Chiesa no!) . Direi che ce n'è a sufficienza per mettere in questione la presenza di Dio nel mondo e i suoi rapporti con l'uomo.

29

Torniamo subito a quello che stavo dicendo prima : se Dio c'è, perché permette il male e la sofferenza? Si noti però che una tale questione se la potrebbe porre solo un credente e non un ateo. Un vero ateo non potrebbe ovviamente tirare in ballo Dio ma dovrebbe solamente prendere atto che Dio non c'è e c'è invece il male, spiegando quest'ultimo con, ad esempio, la malvagità umana o simili, senza far ricorso ad una divinità. A parte questo, si potrebbe anche dire che, visto che c'è il male, non può esserci Dio, ritenendo che l'esistenza di un Dio buono sia in contraddizione con la presenza del male nel mondo. Questa potrebbe essere una prova indiretta della non esistenza di Dio che, a proposito, molti pensatori atei hanno sostenuto (ad es. Schopenhauer). Eppure altri potrebbero dare una risposta esattamente opposta, e cioè sostenere che Dio esiste proprio perché c'è il male o, addirittura, arrivare alla posizione estremistica di chi sostiene che Dio c'è ed è il male! Non stupitevi! Questa concezione è stata formulata nel Settecento dal "divin marchese" de Sade(1740-1814), il quale, nel romanzo Juliette (cfr. de Sade, Opere scelte,ed.Feltrinelli,oppure Opere complete, ed.Newton Compton) mette in bocca ad un personaggio, un certo Saint-Fond,l'idea che Dio esiste ma è il male! "Giro gli occhi sull'universo e vedo il male, il disordine, il delitto regnarvi dovunque dispoticamente … Convinto di tale premessa, io mi dico : esiste un Dio, una mano qualsiasi ha necessariamente creato tutto quanto vedo, ma essa l'ha creato soltanto per il male, essa si compiace soltanto del male; il male è la sua essenza… Ora, se il male, o almeno ciò che chiamiamo tale, è l'essenza del Dio che ha creato tutto, sia degli individui formati a sua immagine, come non esser certi che le conseguenze del male debbano essere eterne?". Nessun altro pensatore fino ad oggi si è spinto a sostenere una tesi tanto radicale quanto quella descritta da Sade! Egli rappresenta il limite estremo di un pensiero che definirei però anti-teistico (cioè contro Dio) più che puramente ateistico. In effetti si potrebbe diventare atei per … odio contro Dio o contro l'immagine che ci siamo fatti o che ci hanno trasmesso di Dio. Se infatti in Dio fosse sintetizzato tutto ciò che vi è di negativo, di malvagio, di brutto, non sarebbe naturale respingere tale idea? Dipende infatti dal concetto che abbiamo di Dio : se Dio fosse invece il bene supremo, la felicità somma, l'amore puro e assoluto, che ragioni avremmo di rifiutarlo? La summa dell'ateismo settecentesco la troviamo però in un'opera di Paul Henri Dietrich d'HOLBACH (1723-1789), il Sistema della natura (trad.it. UTET). In essa egli vi fa professione di un radicale materialismo (tutto è materia, che esiste dall'eternità), di meccanicismo (tutti i fenomeni avvengono per cause necessarie, come negli ingranaggi di una macchina), di determinismo (la libertà è un'illusione, tutto dipende da cause precedenti, necessarie e immutabili), di razionalismo (esiste solo ciò che è spiegabile con la ragione, il resto sono favolette). D'Holbach sostiene inoltre che, se non esistesse il male nel mondo, l'uomo non avrebbe mai immaginato una divinità. "Fu quindi nella fabbrica della tristezza che l'uomo infelice formò il fantasma di cui fece il suo Dio" ( Op.cit.,p.374). L'ignoranza dei fenomeni naturali ha fatto nascere gli dèi : il concetto di Dio non serve che a corrompere gli uomini. Dio è un essere superfluo : il caso ha prodotto l'universo, che esiste da sempre. Bisogna aspettare l'Ottocento per trovare le grandi figure dell'ateismo moderno : citerò tra loro solo Feuerbach, Marx, Nietzsche. Ludwig FEUERBACH (1804-1872) afferma che l'essere divino non è altro che l'essere umano liberato dai limiti dell'individuo ed oggettivato. "L'uomo - questo è il mistero della religione - proietta il proprio essere fuori di sé e poi si fa oggetto di questo essere metamorfosato in soggetto, in persona"(cfr. L'essenza del cristianesimo, tr.it. Feltrinelli,p.50). Il sentimento di dipendenza dell'uomo è il fondamento della religione: l'oggetto di questo sentimento di dipendenza è però la natura e non un Dio. La credenza che Dio abbia un'esistenza indipendente da quella dell'uomo ha la sua radice nel fatto che in origine è considerato come Dio l'ente che esiste fuori dell'uomo, cioè il mondo, la natura. Tutte le proprietà di Dio non sono altro che proprietà astratte della natura. Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare, l'uomo è illimitato, onnipotente, Dio; ma nel potere, nell'ottenere, nella realtà, l'uomo è condizionato, dipendente, limitato. Il fine della religione è togliere tale contrasto : e l'ente in cui le contraddizioni sono tolte è Dio. Si trova Dio solo nella fede perché Dio non è altro che l'essenza della fantasia e del cuore umano (cfr l'altra grande opera di F: che riassume il suo ateismo, L'essenza della religione ,tr.it. Laterza o Newton

30

Compton). Come si può vedere da questi brevi cenni, la critica di F. è pacata, è priva di ogni antiteismo e anticlericalismo tipici di molti pensatori o di certi atteggiamenti anche odierni, ma è radicale, va in profondità e vuole cogliere il "vero" motivo per cui un uomo crede in Dio. L'ateismo moderno, secondo F., vuole "solo riconoscere il senso e il motivo vero, il testo originale non falsificato della divinità e dell'immortalità o, che è tutt'uno, della fede in esse - un riconoscimento attraverso cui la questione della loro esistenza si risolve da sé"(cfr. Spiritualismo e materialismo tr.it. Laterza, p. 44). Karl MARX (1818-1883) ritiene l'ateismo un punto di partenza, non un punto di arrivo. Il comunismo è naturalmente ateismo perché l'uomo deriva solo dall'uomo. "Per l'uomo socialista tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell'uomo mediante il lavoro umano, null'altro che il divenire della natura per l'uomo, egli ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita mediante se stesso, del processo della sua origine (cfr. Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr.it. Einaudi, p. 125). La religione è quindi legata ad un particolare momento storico e sociale, è una sovrastruttura che dipende dalla struttura economica della società. La religione è "il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato … è l'oppio del popolo"(cfr. Per la critica della filosofia del diritto di Hegel.Introduzione,cfr. tr.it. in Kamenka, Il meglio di Marx, Oscar Mondadori p. 232). Dunque la religione è per M. il prodotto di una umanità alienata e sofferente che cerca illusoriamente nell'aldilà ciò che le è negato nell'aldiqua. Ma se la religione è il sintomo di una condizione umana e sociale alienata, l'unico modo di eliminarla sarà non la critica semplicemente filosofica (come M. rimprovera a Feuerbach) ma l'azione rivoluzionaria che instaurerà il comunismo. In altre parole, se la religione è "il frutto malato di una società malata", l'unico modo di sradicarla sarà quello di distruggere le strutture sociali che la producono, e cioè il capitalismo e la proprietà privata dei mezzi di produzione. Nella futura società comunistica non vi sarà neppure più il bisogno religioso (giacché le condizioni di vita saranno diverse) e non avrà più senso parlare né di religione né di ateismo inteso come critica alla religione stessa. Anche per Friedrich NIETZSCHE (1844-1900) l'ateismo è un punto di partenza, una cosa ovvia. "In me l'ateismo non è né una conseguenza, né tanto meno un fatto nuovo : esiste in me per istinto. Sono troppo curioso, troppo incredulo, troppo insolente per accontentarmi di una risposta così grossolana. Dio è una risposta grossolana, un'indelicatezza verso noi pensatori; anzi, addirittura, non è altro che un grossolano divieto contro di noi : non dovete pensare"(cfr. Ecce homo,tr.it. Adelphi, p. 35). Ogni religione - ed in particolare il cristianesimo - è nata per N. dalla paura e dal bisogno e si è fondata sugli errori della ragione. Il cristianesimo è visto da N. come la forma più pericolosa di una "volontà di distruzione" ed è il segno di stanchezza e di impoverimento della vita. "Dio è morto!" ed è l'uomo stesso che lo ha ucciso (cfr. La Gaia scienza, aforisma 125) perché in Dio era sintetizzato tutto ciò che era contro la vita. N. confessa infatti di aver dichiarato guerra "all'anemico ideale cristiano" per "por fine alla sua tirannia e sgombrare il campo per nuovi ideali, per ideali più robusti"(cfr. Frammenti postumi 1887). Abbiamo dunque in N. diverse motivazioni per giustificare il suo ateismo : dalla critica al concetto stesso di Dio visto come alienante e repressivo, alla proclamazione di un ateismo istintivo, naturale, direi "terapeutico" e "salutare", visto che Dio non può mai essere la risposta definitiva. L'ateismo ha così storicamente raggiunto la sua piena "maturità" poiché pretende di essere l'unica posizione degna di una persona adulta e responsabile che vuole aiutare gli altri a liberarsi dalla illusione religiosa. Una posizione simile la troviamo in Sigmund FREUD(1856-1939) ,il quale, ne L'avvenire di un'illusione (cfr. Opere ,ediz. Boringhieri), sostiene che le rappresentazioni religiose sono delle illusioni ,appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell'umanità. La vita - dice F. - è dura da sopportare con le privazioni derivanti dalla civiltà e dalla natura. L'uomo, per proteggersi dalle forze naturali, le umanizza e dà loro il carattere di padre, ne fa degli dèi. Tuttavia, con ciò "non intendo dire che la religione sia necessariamente falsa". "Piuttosto, significa che tutte le credenze religiose sono indimostrabili e nessuno può essere costretto a crederci; del resto, come sono indimostrabili, sono anche inconfutabili, e sappiamo ancora troppo poco a loro riguardo". Comunque F. non intende aderire a nessuna religione per lo meno perché "non è riuscita a rendere

31

felici la maggioranza degli uomini". L'uomo adulto può dunque fare a meno della religione. Distogliendo dall'aldilà le sue speranze e concentrando sulla vita terrena tutte le sue forze, l'uomo riuscirà probabilmente a rendere sopportabile la vita per tutti e la civiltà non sarà più oppressiva per nessuno. Vorrei concludere questo panorama dell'ateismo occidentale citando un ultimo pensatore, il quale non è un filosofo di professione bensì un antropologo, il quale sostiene un ateismo di tipo particolare, che vale la pena di ricordare. Si tratta del famoso studioso francese Claude LEVI-STRAUSS (1908-viv.), creatore della antropologia strutturale, che spiega nel modo seguente il problema di Dio :"Si tratta di un problema che non mi pongo, che non mi sono mai posto… Per me, non vi è mai stato problema". A parte la sua posizione, egli sostiene che il fenomeno religioso è perfettamente spiegabile "nel senso che possediamo meccanismi intellettuali, cerebrali, imperfetti rispetto al compito cui devono assolvere …Il sentimento religioso, e tutto il complesso di idee che si raccolgono attorno alla nozione di una divinità, mi sembra rappresentino quella specie di virtuale crogiolo nel quale si compirebbe la sintesi ultima : quella di cui proviamo il bisogno, ma che non riusciamo mai a portare a termine": Il problema di Dio è un problema tra gli altri che … sparirà quando l'uomo non ci sarà più. "L' uomo non è sempre esistito sulla faccia della terra … è verosimile che esso non esisterà per sempre. Quindi tutti i problemi che noi poniamo, un giorno non esisteranno più perché non esisterà più coscienza per porli". "Quel che noi chiamiamo uomo, quel che chiamo io … sono solo fantasmi illusori di qualcosa che accade in un certo momento, in un certo luogo, e che domani non accadrà più : tutto ciò non ha maggiore importanza del resto". Come si può vedere, l'ateismo di Levi-Strauss non ha nulla di critico, non è una posizione contraria alla religione in sé : piuttosto è, da un lato, la semplice assenza di interrogativi riguardanti il problema di Dio ("l'ateismo è … l'assenza di certi problemi, di certe domande, di certi interrogativi… i credenti si pongono problemi che io non mi pongo"). Ma dall'altro è indubbiamente qualcosa di molto più radicale : non sussiste il problema del senso, del significato perché è solo un problema posto dalla coscienza umana che un giorno non esisterà più. Mai forse la negazione del problema di Dio è stata così estrema! Non si può infatti neppure impostare il problema del senso perché esso è solo "umano, troppo umano"(direbbe Nietzsche) ed è negata alla radice la stessa individualità in cui poteva essere posto il problema di Dio. L'unica obiezione che gli si potrebbe fare è : ma sarà poi vero? Chi ci dice che l'uomo finirà, che non esisterà più coscienza per porre dei problemi? Ma così dicendo entriamo già in una prospettiva diversa, che implica una opzione o di fede o altro. Ultima annotazione: oggi sembra che non si parli volentieri di ateismo. Anche coloro che ritengono di definirsi non credenti, sono portati a chiamarsi laici perché il termine ateo sembra forse riduttivo o inesatto. Parlando in generale, ritengo che la maggior parte degli uomini d'oggi non siano né miscredenti convinti né credenti coerenti bensì … purtroppo indifferenti al problema religioso. Mi spiego meglio: credo che la maggior parte di noi si porti dietro qualche ricordo dell'educazione religiosa ricevuta da bambini e che dimostri la sua "religiosità" nelle tappe fondamentali della vita (nascite, matrimoni, morti);per il resto sono molto pochi coloro che si pongono il problema religioso indagando più o meno approfonditamente il problema, il quale è accantonato salvo in alcuni momenti critici (come malattie, disgrazie ecc.). Questo naturalmente non dimostra nulla né pro né contro la religione ed indica, per quanto riguarda l'ateismo vero e proprio, che ben pochi possono essere definiti veri atei, come ci ha fatto notare la storia, in cui le posizioni radicalmente atee sono in minoranza rispetto alla grande maggioranza dei pensatori che hanno affermato l'esistenza di una divinità, concepita comunque nei modi più diversi. BIBLIOGRAFIA Per le citazioni da Levi-Strauss, si veda CHABANIS, Dio esiste?No, rispondono…, Mondadori TORNO, Senza Dio ?, ed. Mondadori.

32

11. OMICIDIO E SUICIDIO

Quando sentiamo parlare di "omicidio" e di "suicidio" la nostra prima reazione è forse di netto rifiuto: lungi da noi anche solo l'idea di poter commettere simili abomini! Eppure, se riflettiamo un poco, potremmo subito constatare che, in determinate circostanze, non ci apparirebbero affatto delle azioni così aberranti. In primo luogo perché ... noi stessi non siamo affatto immuni da siffatte eventualità. Come già dicevo due lezioni fa, fino all'ultimo istante di vita, purtroppo, ciascuno di noi rischia di commettere qualche "brutta" azione e dunque è prudente non escludere mai, dalle nostre potenzialità, anche e soprattutto le "cattive" azioni. Chi di noi infatti non ha mai pensato di poter "far fuori" qualcuno che ci dava fastidio? Certo, si dirà che una cosa è l'idea di voler ammazzare qualcuno per liberarsene, ed una cosa ben diversa è il farlo realmente, in maniera premeditata; come pure è ben diverso il caso di pensare al suicidio dal farlo, poi, effettivamente. Però ciò dimostra come tali idee siano per lo meno pensate per la nostra testolina, e come potremmo quindi giudicarle "immorali" riferite ad altri? In secondo luogo perché la stessa legge morale e giuridica ha stabilito dei casi ben precisi in cui l'omicidio potrebbe essere giustificabile mentre, nel caso del suicidio, la questione è e rimane controversa. Pur rimanendo valido il divieto di uccidere - nel senso che una persona non deve mai decidere di togliere la vita ad un'altra - vi sono però le eccezioni della legittima difesa, della guerra e, ultimo ma non meno importante, della stessa giustizia che, in alcuni Stati ammette la punibilità dell'omicidio e di altri crimini efferati con la pena di morte. La legittima difesa è dunque un caso particolare in cui l'omicidio di un'altra persona sarebbe giustificato moralmente e non vi sarebbe pena giuridica. Se ad esempio si viene aggrediti e noi ci difendiamo dalla violenza che stiamo subendo opponendo resistenza e, involontariamente, provochiamo la morte dell'aggressore, non siamo imputabili di omicidio appunto perché è stato un atto, da parte nostra, non intenzionale. Insomma, si tratta della volontarietà o meno dell'atto che stabilisce la sua punibilità: solo "se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito" (diceva già San Tommaso, cfr. Summa theologiae, II, 64, 79). Sarà indubbiamente un'esperienza terribile, ma non è moralmente condannabile. Come si vede, perciò, anche una parola così tremenda quale "omicidio" può veder stemperato il suo significato per antonomasia negativo. Del resto, pur valendo il divieto in generale di uccidere per tutte le epoche e per tutte le civiltà, la stessa Bibbia si riferisce specificamente alla proibizione dell'uccisione "dell'innocente e del giusto" (cfr. Esodo, 23, 7). E' soprattutto nei loro confronti, infatti, che l'omicidio può dare scandalo mentre, nel caso dei malfattori, la loro uccisione è un fatto di giustizia; anzi nell'antichità era ammessa in genere la pena di morte (eseguita da parte dell'autorità costituita e non certo dal singolo), mentre sarà con l'avvento del Cristianesimo e, storicamente dell'Illuminismo in poi ( si ricordi il celebre libello di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, del 1764) che comincerà a portare in discussione la legittimità della pena di morte e delle torture fino a considerarla del tutto inaccettabile, come lo è oggi in quasi la metà dei Paesi del mondo. In molti Stati invece è la società stessa che si ritiene in diritto di poter privare della vita un uomo se questi ha compiuto delle azioni così tremende che non vi è altro rimedio che toglierlo definitivamente di mezzo per la salvaguardia della società. I pareri sulla liceità o meno della pena di morte sono discordanti ed io non posso fare altro che esprimere la mia opinione: per dirla subito come la penso, io sono contrario alla pena di morte. Credo che essa sia inutile perché non serve come deterrente, cioè non fa diminuire la delinquenza, e ciò si può vedere negli Stati Uniti dove, pur avendo molti Stati la pena capitale, la percentuale di criminalità rimane altissima. Inoltre vi è sempre il caso limite: e se uccidessimo un innocente? Insomma, io opterei comunque per l'ergastolo e i lavori forzati ( e terrei in carcere solo i colpevoli dei crimini più gravi, mentre cercherei delle pene alternative per gli altri). Vi è poi il caso della guerra. E' ovvio che essa sia moralmente inaccettabile, però la posizione

33

più concreta, secondo me, è escludere la necessità e la naturalità della guerra (come pensavano ad esempio Hobbes, Hegel, Proudhon) ma anche escludere il pacifismo ad oltranza. Secondo me bisogna prender atto che le guerre ci sono state, ci sono e molto probabilmente ci saranno ancora in futuro. E allora come la mettiamo? Ma il riconoscere che vi saranno molto probabilmente delle guerre nel prossimo futuro non implica ammettere che l'uomo sia una sorta di bestia feroce per natura (homo homini lupus diceva Hobbes e ancor prima Plauto, Asinaria, 475). Io ritengo al contrario che la guerra non sia lo stato naturale dell'uomo, bensì che ogni uomo persegua la pace e la tranquillità del vivere. Pensate infatti agli stessi killer, criminali e compagnia bella: non mi direte mica che vorrebbero continuare ad ammazzare 24 ore su 24 per 80 anni di seguito? Anche coloro che hanno manie di grandezza, dopo aver conquistato l'universo, che faranno? Se ne staranno tranquilli al caldo dei Tropici, per esempio, e dunque, dopo aver esaurito la furia omicida o la smania di potere giungeranno alla stessa situazione in cui si trovava il saggio Diogene, che se ne stava tranquillo a prendere il sole e giunse Alessandro Magno. Il sovrano gli disse: "Chiedimi quello che vuoi". E Diogene: "Lasciami il mio sole" (cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 38). Tornando alla guerra, come nel caso della singola persona valeva il principio della legittima difesa, così è per gli Stati: se una nazione è attaccata ingiustamente, ha il diritto di difendersi: in altri termini, una guerra può essere moralmente giustificabile quando è per una causa giusta e per difesa e non di offesa. Sia però ben chiaro che, anche se una guerra dovesse malauguratamente scoppiare ( e dovrebbe essere l'eccezione e non la regola), non diventa automaticamente tutto lecito o permesso perché "tanto, si è in guerra". Ciò che è moralmente lecito o illecito continua ad essere tale anche nelle situazioni estreme: mi riferisco, ad esempio, al dovere di obbedire nell'eseguire gli ordini; ebbene, l'obbedienza non deve mai essere una obbedienza cieca. Anzi è vero il contrario: si è moralmente in obbligo di rifiutare l'obbedienza in certi casi se ripugnano alla coscienza morale, e non c'è codice militare o legge che tenga, perché la legge morale è ad essi superiore ( è il caso successo di recente del processo a Priebke per l'eccidio delle Fosse Ardeatine). Passiamo ora al suicidio. Anche in questo caso, i pareri sulla liceità o meno del suicidio sono diversi, fin dalla più remota antichità. E' interessante notare però che, da un lato, la stragrande maggioranza dei pensatori sono contrari mentre, dall'altro, anche coloro che non vedono obiezioni a commettere suicidio (Seneca, Hume, Montesquieu, Nietzsche, Sartre), hanno comunque concluso la loro vita di morte naturale con l'unica eccezione di Seneca, il quale, a ben vedere, fu indotto a uccidersi per ordine di Nerone e dunque non dipese da lui la decisione di por fine alla propria vita; forse, più avanti negli anni l'avrebbe fatto, ma chissà ? ... Inoltre il suicidio di Seneca fu un gesto "filosofico" che egli compì come ultimo insegnamento da dare ai posteri, e non certo un gesto superficiale come quello di certi giovani d'oggi che sprecano stupidamente la loro vita ... (cfr. per la vita di Seneca, Tacito, Annali, XV, 62-64, Opere complete, Newton Compton). Forse proprio qui (e anche nel caso dei giovani) possiamo scorgere uno dei motivi che possono spingere una persona al suicidio: vuole essere un atto di affermazione della propria vita, un ultimo atto che le dia importanza, che le dia un senso. Beninteso, è solo uno dei tanti possibili motivi: altre persone si uccidono per ... smettere di soffrire, oppure per disperazione o ancora per una delusione ecc. ecc. Comunque sia, mi chiedo se - soprattutto nei casi dei giovani che sembrano averlo fatto con noncuranza - tutti costoro abbiano tenuto conto delle conseguenze del loro gesto. Hanno riflettuto sul fatto che i loro parenti e conoscenti ne avrebbero sofferto? E poi - questione per nulla secondaria - hanno riflettuto che, dopo la morte, potrebbe esserci ancora qualcosa ... ed in questo caso si sarebbero amaramente resi conto dello sbaglio compiuto? Non credo che ci sia molto da sorridere a riguardo, visto che non siamo affatto certi che non vi sia nulla dopo la vita terrena. Da parte mia provo molta compassione per i suicidi ma non lo considero un gesto "opportuno": so soltanto che ... domani è un altro giorno, che ammazzarmi vorrebbe dire privarmi della possibilità di vedere quello che succederà in futuro, che potrei far soffrire coloro che mi vogliono bene. In certi casi, come ad es. nelle malattie, si può certo desiderare di morire, ma ritengo che si invochi la morte come liberazione dalla sofferenza e non per odio nei confronti della propria vita

34

(en passant, è la questione dell'eutanasia, a cui comunque io sono contrario), per cui non c'è il desiderio di uccidersi ma, appunto quello di non soffrire troppo. In conclusione, ritengo e spero che la vita sia sempre più forte della morte. Pensate anche al caso di chi ... dà la vita per salvare un altro. Anche in questo caso è pur sempre la vita che vuole dimostrare di essere più forte della morte. BIBLIOGRAFIA PLATONE, Fedone, Laterza o Mondadori o altre HUME, Saggio sul suicidio in Opere, Laterza o UTET

35

12. L’UOMO E GLI ANIMALI Oggi l’uomo non ha più molta dimestichezza con gli animali. Vive in genere nelle grandi città, dove gli animali sono confinati negli zoo, nei circhi o tenuti nei salotti di casa. Solo in campagna possiamo ancora credere che gli animali aiutino l’uomo nel suo lavoro e siano per lui fonte di alimentazione, compagni di lavoro, amici. Quello che interessa all’uomo d’oggi è soprattutto la macchina (dall’automobile al computer, ai telefonini alla televisione ecc.), cioè qualcosa che egli stesso ha costruito. Forse perché si rende conto che il suo rapporto con gli animali è, comunque, in generale, un rapporto sui generis : riesci a far fare all’animale tutto quello che vuoi? riesci veramente a comunicare con lui? lo capisci o ti illudi soltanto di poterlo conoscere? Come diceva Montaigne, un pensatore del Cinquecento, “Come può egli [cioè l’uomo ] conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali?”; “Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei?” (cfr. Saggi, Mondadori, Milano, 1970, vol. 1°, p. 584). Mentre l’uomo può usare la macchina a suo piacimento (quando non lo lascia in panne), la conosce fin nelle sue più piccole parti, sa cosa aspettarsi da essa (per ora i robot che si ribellano sono fantascienza). Paradossalmente però, più l’uomo sembra allontanarsi dall’animale, più cerca di avvicinarselo : ed ecco allora l’invenzione di teorie che sostengono la completa - o quasi – identità tra l’uomo e l’animale, come la sociobiologia, e il sorgere, su un altro versante, dei movimenti ecologisti, le società protettrici degli animali, le lotte contro la vivisezione ecc. Sembra quasi che l’uomo cerchi di riparare – “meglio tardi che mai” – quello che ha fatto agli animali nei secoli precedenti, distruggendo intere specie e alterando l’equilibrio naturale di molte zone del nostro pianeta. E’ forse con questa malafede, con una sorta di “coscienza sporca” che l’uomo si accinge oggi a studiare, finalmente, gli animali così come sono e, se possibile, nel loro ambiente (l’etologia è una scienza recentissima). Non credo comunque che si possa guardare al futuro – ancora – con ottimismo. Se da un lato c’è una maggiore attenzione nei confronti degli animali, è anche vero che molte volte sono tuttora maltrattati, sfruttati, uccisi, per non parlare, più in generale, delle violenze su coloro che sono i più deboli - animali o uomini che siano – come i bambini, i vecchi, gli emarginati. I malati, le donne, insomma l’altro : è l’antichissima paura di riconoscere che … anch’io sono l’altro ! Tornando agli animali, la prima domanda che sorge spontanea è, direi, di definizione : che cos’è un animale? In che cosa si distingue un animale - se si distingue - da un essere umano ? Per rispondere a tale domanda è interessante vedere quel che ci indica, brevemente, la storia. Facendo un rapidissimo e sintetico panorama, la conclusione è che, fin dall’antichità, è chiara l’affermazione della differenza tra l’uomo e l’animale. Nel mondo greco è importante ricordare ARISTOTELE (384-322 a.C.), il quale, tra le moltissime opere che scrisse, ne dedicò diverse agli animali ed esse sono il primo grandioso tentativo sistematico e scientifico, nel senso moderno del termine, di dire qualcosa di valido “oggettivamente” su di essi e sull’uomo. Si pensi che le teorie aristoteliche resteranno immutate fino al 1700 e bisognerà aspettare Linneo (1707-1778) e Cuvier (1769-1832) per avere una revisione globale della classificazione aristotelica ! Aristotele divise gli animali in due grandi gruppi : i sanguigni (che corrispondono più o meno ai nostri vertebrati) e i non sanguigni (i nostri invertebrati). I sanguigni si dividono a loro volta in vivipari (= mammiferi), ovipari (= rettili e uccelli) e ovovivipari (= pesci), mentre i non sanguigni si dividono in cefalopodi, crostacei, insetti e gasteropodi. Mi fermo qui ma si può notare la precisione della sua classificazione, tenendo conto dei tempi ! In quanto poi alla distinzione tra l’uomo e l’animale, Aristotele ritiene che vi siano parecchie differenze : ad esempio l’uomo è l’unico ad avere posizione eretta, l’uomo è l’unico che ride, che ha la capacità di deliberare, che ha il linguaggio, che ha, in ultimo, la capacità di essere felice. Non mi soffermo sulle giustificazioni che Aristotele dà per sostenere le sue tesi, mentre vorrei sottolineare il fatto che già molti secoli fa un pensatore ha saputo cogliere le “differenze

36

specifiche” tra l’uomo e l’animale e che oggi, forse, si possa dire ben poco di diverso o di originale rispetto ad allora. Dopo i Greci, nel pensiero ebraico-cristiano è ulteriormente ribadita la distinzione tra uomo e animale. Comunque per la Bibbia il destino degli animali e dell’uomo è strettamente legato. Gli animali hanno una propria dignità che la Scrittura sottolinea più volte (ad es. il sabato tutti gli animali hanno diritto di riposare). Pur essendo solo l’uomo “ad immagine e somiglianza di Dio”, l’uomo non deve trattare gli animali con disprezzo : è anzi responsabile di ogni malvagità commessa nei confronti degli animali e del mondo che lo circonda. Abbiamo qui, come si può vedere, forse il primo messaggio “ecologista” della storia ! Tutto ciò che è seguito, nella storia dell’Occidente, è stato influenzato, direttamente o indirettamente, da queste concezioni. Nell’Ottocento, con Darwin, viene avanzato l’ipotesi dell’origine dell’uomo da forme di vita più semplici. Per alcuni poi tra l’uomo e l’animale vi è solo una differenza di quantità e non di qualità. Fino a quasi tutto l’Ottocento si è comunque cercato di spiegare l’animale e l’uomo guardando all’indietro, cercando qualcosa di più semplice a cui l’uomo potesse essere ricondotto o addirittura ridotto. Verso la fine dell’Ottocento si fa invece strada un’ipotesi del tutto diversa, e cioè che l’uomo e l’animale siano degli abbozzi di essere, cioè che essi siano soltanto una tappa verso una forma diversa di essere a cui tendono in futuro (cfr. Bergson, Blondel ecc.). Oggi siamo a questo punto della riflessione. Se volete conoscere la mia personalissima opinione, dovrei dire che essa è in linea con la tradizione : per me l’uomo non è un animale, così come un cavallo non è una pulce o una orchidea. Inoltre direi che l’uomo è una specie unica. Tra l’uomo e l’animale vi è comunque diversità dal punto di vista culturale (l’animale rimane sempre allo stesso livello e non può creare libri, poesie, filosofie ecc.) e costituzionale : l’animale è privo del linguaggio simbolico, non modifica se stesso e il suo ambiente ecc. Insomma tutte queste differenze fanno sì che l’uomo debba riconoscersi come qualcosa di unico e sarebbe assurdo, credo, negarlo, a parte le convinzioni etico-religiose di ciascuno di noi. Da questo punto di vista, mi sembra strano voler parlare dell’uomo come di un animale razionale o di un animale qualcos’altro. Se l’uomo è unico, allora l’uomo è l’uomo e l’animale è l’animale. Se introduciamo il termine di animale nella definizione di uomo, facciamo una sorta di gioco degli specchi tra la società umana e gli animali (cfr. a questo riguardo M.VEGETTI, Il coltello e lo stilo, Il Saggiatore, Milano, 1979, p. 45). Del resto, non definiamo mica l’animale come, che so, vegetal movens, no ? … L’uomo, per me, è un essere particolare, con caratteristiche sue proprie che lo distinguono dagli altri esseri, come – ripeto – una pulce è diversa da un cavallo : lo psichismo di un insetto non è certo quello di un vertebrato, no ? Ritengo insomma che sia una vera e propria mania (ed anche un grossolano errore) voler ridurre ogni cosa a pochi elementi, tralasciando le differenze enormi che vi sono tra l’uomo e gli animali. Come diceva uno studioso fautore dell’evoluzionismo (e dunque al di là di ogni sospetto), “Se noi discendiamo da primati antropoidi, non che consegue che noi non siamo altro che scimmie più evolute … un organismo è sempre qualcosa di più che la semplice somma dei suoi elementi”(cfr. J.HUXLEY, Il sistema umanistico in AA.VV., Idee per un nuovo umanesimo, Feltrinelli, Milano 1973,pp.41-42). In altre parole, non penso che tornare indietro, alla ricerca delle origini dell’uomo, alla ricerca del cosiddetto “anello mancante”, possa spiegare l’uomo quale è diventato o possa farci scoprire il momento preciso in cui è nato l’essere umano (potremmo scoprire al massimo delle emergenze, ma non illuderci che corrispondano al momento esatto dell’origine) diverso dall’animale. E’ forse una illusione ritenere che scoprire le origini possa risolvere il problema della nostra umanità per distinguerla dalla animalità. Sono più propenso a ritenere che, come diceva Teilhard de Chardin, “gli esseri non manifestano le loro proprietà nei germi, bensì nella loro definitiva espansione … se vogliamo comprendere la natura specifica dell’uomo e indovinarne il segreto, l’unico metodo è quello di osservare ciò che la riflessione ha già dato e ciò che essa preannuncia, in avanti” (cfr. Il fenomeno umano , Il Saggiatore, Milano 1973, p. 253). Che è poi il

37

normale procedimento scientifico (risalente ad Aristotele : si pensi alla priorità dell’essere in atto rispetto all’essere in potenza) : una teoria è confermata nel futuro. Continuando a citare de Chardin, si può dire che “gli spiritualisti hanno ragione nel difendere così tenacemente una certa trascendenza dell’uomo sul resto della natura. E neppure hanno torto i materialisti quando sostengono che l’uomo è soltanto un termine nuovo nella serie delle forme animali. In questo caso, come in tanti altri, le due evidenze antitetiche si risolvono in un movimento, purché in tale movimento venga data la parte essenziale al fenomeno, così altamente naturale, di cambiamento di stato … dalla cellula all’animale pensante … uno stesso processo … si svolge senza interruzione, sempre nella medesima direzione. Ma, per la stessa continuità del processo, è inevitabile, dal punto di vista della fisica, che certi salti trasformino bruscamente il soggetto sottoposto all’operazione. Discontinuità nella continuità. Tale si definisce e si presenta a noi, nella teoria del suo meccanismo, esattamente come la prima apparizione della vita, la nascita del pensiero”(op.cit, pp. 223-224). A chi obiettasse che la natura potrebbe essere giunta gradualmente al pensiero, alla riflessione, all’autocoscienza, si potrebbe rispondere come ha fatto de Chardin (o come esige la logica più elementare) : a parte il tempo quasi infinito che ci vorrebbe per creare casualmente il pensiero, “o l’essere è ancora al di qua - oppure è già al di là – del cambiamento di stato” (op.cit,p. 227). Insomma anch’io ritengo che la posizione meno erronea sia quella di ammettere che in natura, a volte, vi possono essere dei salti di qualità, che qualcosa può essere successo d’un sol colpo, come nel caso del passaggio fatidico dalla cosiddetta animalità alla cosiddetta umanità. Vorrei concludere con due brevi considerazioni. La prima : è così ovvio considerare l’uomo come disceso dall’animale? Non si potrebbe pensare al contrario, e cioè non potremmo pensare all’animale come un uomo, diciamo così, imperfetto, non riuscito, in bozze? Non sembri troppo paradossale quanto ho appena detto : intanto abbiamo degli antecedenti illustri che sostenevano una teoria simile (si vedano Platone e Comte), in più essa è stata ultimamente ripresa da un filosofo come Karl Jaspers, il quale cita le ipotesi di un certo Edgard Dacque (paleontologo tedesco, 1878-1945, autore tra l’altro del libro Mensch und Tier del 1931), il quale sosteneva che l’uomo è esistito da sempre, che è vissuto sotto varie forme del mondo animale, come pesce, rettile ecc. L’uomo sarebbe da sempre l’autentica forma di vita, rispetto a cui le altre forme ne rappresentano la “caduta”, per cui non sarebbe l’uomo che deriva dalla scimmia ma è la scimmia a derivare dall’uomo (cfr. K.JASPERS, La fede filosofica, Marietti, Torino 1973, p. 96). Si badi : non voglio sostenere certo una simile idea però teorie simili possono contribuire a non ritenere mai nulla dato per scontato e ridimensionano così tutto quello che presumiamo di sapere. La seconda : come mai tutti gli uomini sono esteriormente tutti uguali, a parte il colore della pelle ed i tratti del viso, mentre tra i vari tipi di animali c’è a volte moltissima differenza? Che somiglianza c’è fra un lombrico, un cane e una balena ? Ritengo che, nel caso dell’uomo, ci troviamo appunto di fronte a qualcosa di unico, come ho detto a più riprese. L’uomo è lo stesso sotto le diverse latitudini perché, forse, ha la stessa caratteristica in comune, e cioè la riflessività, il linguaggio, la razionalità e simili. BIBLIOGRAFIA Cito solo tre opere : CASTIGNONE, Povere bestie, Marsilio MORRIS, Noi e gli animali, Oscar Mondadori MORUS, Gli animali nella storia della civiltà, Einaudi

38

13. L’ESPERIENZA DEL DOLORE E DEL MALE

Tema eterno di riflessione è la presenza nel mondo del dolore e del male. Non solo ogni essere umano ma ogni creatura vivente - animale e forse pianta - lo ha provato: chi in modo acuto e atroce, chi meno, però tutti ne sappiamo qualcosa. Comincerei dunque con il notare la loro inevitabilità: il dolore e il male ci sono sempre stati, a memoria d'uomo. Ma il fatto che ce li porteremo sempre dietro non è di per sé qualcosa di negativo, almeno per quel che riguarda il dolore o la sofferenza. Infatti, se io non provassi dolore - parlo fisiologicamente - non potrei neanche accorgermi che ad es. sto sanguinando perché mi sono tagliato e quindi non penseremmo a curarci, tanto ... non sentiamo nulla! Dunque non è il problema del dolore in generale che ci tormenta quanto il significato che noi uomini cerchiamo di dare a questo dolore. Perché infatti, ci chiediamo, dobbiamo soffrire? Perché deve soffrire, soprattutto, l'innocente? Perché, se c'è un Dio, permette tanto dolore e la sofferenza dei giusti? Queste sono le domande-chiave che vengono sempre poste in relazione alla sofferenza. A queste domande sono state date le risposte più disparate nel corso dei secoli. Cosa potrei dire io di diverso o di particolarmente originale? Ecco comunque le "mie" risposte. Alla domanda: "Perché dobbiamo soffrire?" risponderei dicendo che non è affatto obbligatorio soffrire a volte tutti vorremmo farne a meno. Però ... è inevitabile ... nel senso sia fisiologico che accennavo prima e sia tenendo conto che siamo esseri finiti, limitati, imperfetti e dunque, prima o poi, la nostra condizione umana incontrerà la sofferenza; inoltre la nostra libertà si scontra o si incontra con quella altrui per cui in ogni tipo di relazione bisogna mettere in conto una certa dose di dispiacere. Alla domanda: "Perché deve soffrire l'innocente?" risponderei forse banalmente: perché un altro essere umano lo ha fatto soffrire. Se un bimbo piange è perché un altro individuo lo ha fatto piangere: é colpa nostra, solo nostra, se un innocente soffre. Alla domanda: "Se Dio c'è, perché permette la sofferenza in genere e in particolare la sofferenza del giusto?" risponderei dicendo che, se Dio esiste, ci ha creati liberi e responsabili delle nostre azioni; il che significa che dobbiamo tenere conto delle conseguenze dei nostri atti, altrimenti non saremmo persone ma solo delle marionette guidate da un Dio crudele. In altre parole, Dio ci ha voluto creare liberi ed ha tenuto conto che avremmo fatto anche del male, però non c'era alternativa: o liberi col dolore o marionette senza responsabilità. Se ha preferito la prima alternativa è perché ci ha voluti considerare delle persone come Lui (siamo "immagine e somiglianza" di Dio secondo la Bibbia, Genesi, 1, 26), cioè ha voluto essere amato od odiato da essere liberi e responsabili e non da marionette. Certo, la domanda di cui sopra è terribile e forse non c'è nessuna risposta umanamente e razionalmente soddisfacente. Ma siamo così limitati, che forse ci sfugge il senso stesso della domanda. Ritengo che non vi siano che due possibilità: per chi è credente non c'è che da abbandonarsi al mistero, accettare di non capire tutto, affidarsi con fiducia nelle mani di Dio sapendo che Lui ci è Padre e Lui sa qual è il nostro bene; è tremendo sapere che Dio c'è ma non parla, non sembra intervenire, ma rimane in silenzio. Forse però questo ci indica che Egli richiede da noi una fede vera e non una credenza facile e tranquillizzante in un Dio tappabuchi o macchinetta automatica. Il silenzio di Dio ci fa intuire che dobbiamo cercare altrove la risposta: cercarla nella volontà umana che ha fatto soffrire l'innocente. Anche per chi non è credente questa può essere una risposta: permane certo lo scandalo della sofferenza perché "compatiamo" chi soffre, ma le cause saranno cercate nella volontà malvagia di certi uomini e solo in essa. Finora ho parlato soprattutto del dolore e della sofferenza e non tanto del male. Sono infatti due cose distinte: dolore e sofferenza diventano male quando sono provocati apposta, quando insomma vogliamo - come si dice in italiano - far del male agli altri (o a noi stessi). Ed allora sorge la domanda: "Perchè il male? Perché alcuni scelgono il male?". Lo vediamo tutti: azioni malvagie sono compiute ad ogni secondo su questa Terra. Se chiediamo, a chi le ha fatte, per quale motivo le ha appunto commesse, le risposte sono svariatissime: "Perché dovevo

39

farlo", "perché la/lo odiavo", "perché mi dava fastidio", "perché la/lo amavo", "non lo so, è stata questione di un attimo", "non so, mi andava di farlo e così l'ho fatto", ecc. Ritengo che il male non sia la semplice trasgressione, il piacere del proibito, il gusto di sfidare le regole per sentirsi "forte" o " superiore" o "libero". Il male è proprio la volontà di compiere una azione malvagia, è il capovolgimento dei valori, è la menzogna, è il disprezzo nei confronti della verità, del bene, della legge, è la pretesa orgogliosa di essere l'unico arbitro delle proprie scelte, è volere il male per il male. E' dunque una volontà perversa, che non ha più la nozione del bene e del male, che è indurita nella sua abiezione e non riesce più a rendersene conto. E' terribile, eppure ci sono degli uomini che sono giunti a tal punto! Ci sono degli uomini che sono talmente invischiati nel male da non poter più tornare indietro e anzi non fanno altro che discendere sempre più l'abisso! Attenti però: non crediamo mai, noi esseri umani "normali", di non poter arrivare ad imitare simili nostri! Fino all'ultimo istante di vita potremmo anche noi combinarne di cotte e di crude. Come diceva Sofocle, "Mai nessuno giudichi felice un uomo / prima del giorno della sua morte / prima che la sua vita sia trascorsa priva di dolore" (cfr. Edipo re, v.v. 1528-1530). Dunque andiamoci cauti a pensare che ... certe cose capitano solo agli altri ... e non sfidiamo troppo la sorte! A parte questo, si può notare che il male, portato all'estremo, reca sempre con sé la distruzione e la morte e mai la vita. Il malvagio tende ad imporre se stesso sugli altri, vuole distruggere tutto e tutti per realizzare i suoi fini, giungendo, in taluni casi, alla sua stessa autodistruzione. Vengono in mente, a questo proposito, molti casi di cronaca nera di persone che ammazzano altra gente e poi si uccidono. Eventi terribili, che ci lasciano sgomenti. Eppure è così semplice: il male si distingue dal bene perché e distruttivo, perché preferisce la morte alla vita. Se io scelgo il male sono destinato alla distruzione e ciò è dimostrato proprio da quelle persone di cui ho appena parlato: esse sono spinte ad uccidere ma desiderano anche uccidere loro stesse per ... finire per sempre la loro situazione! Anelano alla loro stessa morte e chiedono implicitamente di essere fermate: continuano cioè ad ammazzare per giungere ad una situazione insostenibile che esige un unico sbocco, cioè la morte! E' forse con un senso di liberazione che salutano la loro cattura o la loro morte, che è la fine di un incubo che li vedeva protagoniste! Come avete potuto notare, parlando del male non ho voluto apposta far intervenire né Dio né il diavolo. Sarò forse troppo severo, tuttavia ritengo che si tratti sempre e comunque di una colpa "umana, troppo umana", che non ha nulla a che vedere con la possessione diabolica o simili. All'origine, secondo me, vi è sempre una scelta - terribile ed orribile - da parte di un uomo che crede forse di attuare meglio la sua libertà preferendo il male. Invece dalla trasgressione passa alla perversione e ne diventa sempre più schiavo. A questo riguardo, ecco forse un modo "pratico" di distinguere tra ciò che ci porta bene e ciò che ci porta male: se quello che fai ti rende libero e felice, allora la scelta è giusta; se quello che fai, dopo il primo momento di piacevolezza, ti rende triste e schiavo, allora c'è da stare attenti... a noi tutti, come al solito, la decisione. BIBLIOGRAFIA RICOEUR, Il male, Morcelliana NATOLI, L'esperienza del dolore, Feltrinelli SCHELER, Il dolore, la morte, l'immortalità, LDC GORRES-RAHNER, Il male, Paoline KANT, Il male radicale nella natura umana, Oscar Mondadori SUBILIA, Il problema del male, Claudiana

40

14. SIAMO SOLI NELL’UNIVERSO? Siamo soli nell’universo o esistono altre civiltà extraterrestri ? La domanda è vecchia quanto l’uomo : dai Greci a Lucrezio a Bruno a Kant (per non citare che alcuni nomi) fino ad oggi, l’umanità ha sempre scrutato il cielo e si è sempre chiesta se è solo essa l’unica specie vivente in tutto il cosmo. Se però nei tempi passati si potevano fare soltanto delle ipotesi o avanzare delle teorie più o meno fondate, le cose sono cambiate in questi ultimi anni. Oggi possiamo finalmente fare qualcosa di concreto per poter rispondere a questo affascinante interrogativo. Vi è per esempio il progetto di ricerca SETI (=ricerca di intelligenza extraterrestre) che, da circa trent’anni a questa parte, cerca di sondare le profondità dell’universo alla ricerca di un segnale diverso dal solito che possa indicare una fonte di energia sconosciuta. A poco più di un quarto di secolo fa risale poi il primo tentativo di inviare un messaggio umano nel cosmo: il 2 Marzo 1972 fu lanciata la sonda Pioneer 10. Fissata su una parte della sonda vi è una placca dorata su cui sono incise due figure (un uomo e una donna) e, accanto a loro, le posizioni di 14 pulsar (un tipo di stelle a neutroni) che costituiscono una sorta di mappa per poter risalire al pianeta da cui la sonda è partita. Per la prima volta un manufatto terrestre sta viaggiando oltre il sistema solare! Ma ci pensate ! Sono passati migliaia e migliaia di anni da quando i nostri progenitori scheggiavano selci nelle savane ! Questo vuol dire che … benché molti ritengano l’umanità ormai vecchia, benché alcuni parlino di una imminente fine del mondo, io ritengo, al contrario, che siamo ancora agli inizi della nostra “avventura intellettuale”, che la nostra conoscenza è ancora molto limitata e che nessuno possa dire che cosa ci riserverà l’esplorazione dello spazio (l’uomo è andato sulla Luna nel 1969 !). penso che il secolo appena iniziato e questo millennio saranno dedicati soprattutto alla ricerca spaziale perché i vari governi dovranno rendersi conto dell’importanza di spendere soldi in quella direzione : in altre parole, credo proprio che l’esplorazione di altri mondi sarà la principale avventura a cui l’uomo si dedicherà negli anni a venire. Ma torniamo al quesito iniziale. Siamo veramente soli nell’universo ? La risposta è per adesso una sola : non lo sappiamo. E dico per adesso perché ovviamente nulla vieta che un domani potremo saperlo. Per ora possiamo soltanto dire :”Non lo sappiamo, possiamo fare solo delle stime statistiche”. A questo riguardo, il prof. Frank Drake (radioastronomo e presidente del progetto SETI) ha elaborato un’equazione diventata ormai famosa per calcolare quante civiltà potrebbero esistere nella nostra Via Lattea. Eccola :

N=R x Fp x N1 x F1 x Fi x Fc x L Tradotta in termini comprensibili alla maggior parte delle persone, vorrebbe dire che nella nostra galassia potrebbero esistere ben 600 civiltà extraterrestri! Una cosa è però la statistica e un’altra la realtà concreta. Infatti a noi interesserebbe venire in contatto con gli eventuali extraterrestri e non ci accontentiamo affatto di stare a calcolare se essi ci possono essere oppure no. In effetti, alcuni dicono che i contatti ci sono stati : molti avrebbero visto i cosiddetti UFO e molti sarebbero addirittura stati “rapiti” dagli extraterrestri e poi riportati sulla Terra! Se volete sapere la mia opinione …beh, io non credo né agli uni né agli altri. Nel primo caso perché quello che alcuni ritengono di aver visto può rivelarsi un’illusione : ho letto ultimamente che la CIA, il servizio segreto statunitense, ha dichiarato di aver lasciato credere che molti avvistamenti di velivoli insoliti fossero degli UFO – mentre erano dei prototipi o delle armi segrete – per difendere appunto il segreto militare ! Nel secondo caso perché mi sembrano delle frottole bell’e buone, anche perché … nessuno dei sedicenti rapiti,guarda caso, ha riportato a casa un qualunque oggetto alieno,un qualche ricordino dopo un’esperienza del genere ! Beninteso, ciò non esclude, a priori, che un giorno non potrà avvenire qualcosa del genere (il film Incontri ravvicinati del terzo tipo è un verosimile esempio di quello che potrebbe accadere) ma, per ora, ripeto, mi permetto di dubitarne. Si rifletta anche su tutte le condizioni che un ipotetico sistema solare simile al nostro dovrebbe soddisfare affinché vi si possa sviluppare la vita. Secondo il chimico Shapiro e il fisico Feinberg, vi

41

sono almeno tre condizioni essenziali : disponibilità di energia; un sistema di materia capace di interagire con l’energia e di usarla per diventare un sistema ordinato; infine abbastanza tempo a disposizione per costruire quella complessità che è legata alla vita. Fra l’altro, essi non escludono la possibilità di forme di vita in un liquido diverso dall’acqua, come per esempio l’ammoniaca, ed una vita basata su minerali invece che sul carbonio. Ammesso però tutto questo, a noi non interessa dialogare né con organismi unicellulari né con mostri ma con esseri intelligenti almeno quanto noi e in grado di comunicare. Per i ricercatori della SETI, molto concretamente, intelligenza vuol dire saper costruire dei radiotelescopi ed essere in grado di trasmettere dei segnali radio ! Se non si arriverà almeno a quel punto, ogni discorso rimane una bella favoletta ma non avrà mai dei risultati effettivi. E per ora, tanto per ribadire il concetto, non ne sappiamo ancora nulla! Prima di concludere, vorrei ancora invitare a riflettere sulla seguente questione : ma sarebbe proprio così brutto o incuterebbe così tanta paura l’ammettere o lo scoprire (un giorno lontano) di essere soli nell’universo ? E se lo fossimo veramente ? E se fossimo davvero l’unica specie vivente nell’intero universo ? E poi, come possiamo dire di “soffrire di solitudine cosmica” (se non vi fosse la vita extraterrestre), se già su questo pianeta, in mezzo a cinque miliardi di nostri simili, ci sono un sacco di problemi per instaurare delle relazioni durevoli ? Non basta. Ammesso di incontrare gli extraterrestri, come ci comporteremmo ? Pensiamoci un attimo. O saranno per lo meno al nostro livello scientifico e tecnologico oppure saranno nettamente superiori. In quest’ultimo caso, cosa potrebbe succedere? Noi potremmo diventare una sorta di colonia di questi extraterrestri e … i film come Visitors e Indipendence Day ci hanno già fatto intravedere la sorte che ci toccherebbe ! Direi dunque di … essere realistici e smorzare il troppo entusiasmo che potrebbe suscitare, di primo acchito, una scoperta del genere. Comunque, se davvero … siamo soli nell’universo, questo mi farebbe sentire il peso di una enorme responsabilità nei confronti dell’immensità del cosmo. Spetterebbe solo a noi, e da soli , fare tutto il possibile per creare delle condizioni di vita migliori, e avremmo il dovere di non starcene con le mani in mano per continuare a vivere. In un certo senso, allora, gli extraterrestri potremmo essere noi stessi, nel senso che, nei prossimi secoli saremmo noi (e lo saremo comunque noi) ad andare alla scoperta degli altri mondi per eventualmente abitarli e far sì che la vita continui ad essere presente in più parti dell’universo. BIBLIOGRAFIA P. ANGELA, Nel cosmo alla ricerca della vita, Garzanti ASIMOV, Civiltà extraterrestri, Oscar Mondadori G. BERNARDI, La vita extraterrestre, Newton Compton P.DAVIES, Siamo soli? , Laterza M. HACK, L’universo alle soglie del Duemila , BUR Rizzoli

42

15. E DOPO LA MORTE ? Permettetemi di iniziare con una citazione tratta dal famoso monologo di Amleto (atto 3°,scena 1^):

“…chi sopporterebbe le sferzate e gli insulti del mondo, l’ingiustizia dell’oppressore … gli scherni che il paziente merito riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe

fare la sua quietanza con un semplice pugnale? Chi vorrebbe portar fardelli, gemendo e sudando sotto una gravosa vita, se non per il timore di qualche cosa dopo la morte, il paese

non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che

abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo? “. That is the question, questo è il problema: la morte è o non è la fine di tutto ? Se consideriamo la morte come un semplice decesso, come un puro accadimento biologico, allora non sussiste neppure un problema filosofico della morte. Se essa è la fine naturale di tutti gli esseri cosiddetti viventi, non ha senso temerla e non dobbiamo neppure aspettarci qualcosa al di là di essa. Da questo punto di vista, vale ancora sempre quello che già diceva Epicuro :”Quando noi ci siamo, la morte non c’è; e quando essa sopravviene, noi non ci siamo più”(Lettera a Meneceo, 125).Dunque nessun problema o, meglio, tutti gli eventuali problemi – e l’aver fatto del bene o del male con le loro conseguenze - finiscono appunto con la nostra morte. Però … se le cose fossero davvero così semplici, non si capisce come mai l’uomo continui ad interrogarsi sulla morte, perché continui, in pratica, a non volerla accettare come evento che segna, per lo meno, la conclusione di questa vita terrena, e continui invece a credere, a sperare, immaginare, desiderare, affermare che la morte non è e non può essere la fine di tutto bensì … l’inizio di una diversa esistenza in un’altra dimensione. A quanto ci dice l’antropologia, non esistono culture che non abbiano dei riti per seppellire i morti e non abbiano elaborato delle risposte per spiegarsi come mai si muore e che cosa vi sia dopo la morte. Tuttavia qualcuno potrebbe sempre chiedere : ma perché ci deve per forza essere qualcosa dopo la morte ? Non è invece l’unica cosa assolutamente certa? Non è negare l’evidenza, essere dei pazzi, degli illusi, affermare che l’uomo continua a vivere anche dopo la morte ? L’evidenza dei sensi ci dice che, di fronte a noi, c’è un cadavere. Questo è certo. Ma una cosa è dire che questo essere davanti a me è un morto, ed una cosa ben diversa è affermare che questo cadavere non esista più in alcun modo, che insomma la sua “vita” è annullata. Questa seconda affermare è del tutto gratuita e senza prove. Che ne sappiamo infatti di quello che succede ad un cadavere quando scompare dalla nostra esperienza sensibile? Negare l’esistenza di qualcosa perché non la percepiamo … non è un po’ troppo superficiale? Non solo. Come ho già accennato, non è affatto così pacifico che la morte sia la fine di tutto, almeno per la stragrande parte dell’umanità (e non solo dei tempi antichi). Almeno statisticamente, coloro che sostengono che la morte è la fine di tutto sono pochi e dunque … questo è un altro dato che ci può far riflettere. Perché infatti, nonostante i sensi ci dicano che una persona è morta, abbiamo difficoltà ad ammetterlo? Sarà forse la paura, sarà forse una illusione, sarà la non accettazione della nostra condizione di mortali, sarà tutto quel che si vuole, ma appunto perché, perché l’uomo è così aggrappato alla vita al punto di negare la sua fine? Si badi : non è una domanda bislacca, che lascia il tempo che trova. E’ invece volersi interrogare sul perché di questa reazione atavica nei confronti della morte : qui c’è un cadavere però … rifiuto che sia tutto finito, la sua vita non può essere annullata ! Io ritengo anzi che forse solo noi, uomini d’oggi, che ci crediamo smaliziati, possiamo sostenere con una relativa indifferenza che la morte è la fine di tutto. Per altre culture e in altri tempi, non era affatto così ovvio. A questo punto permettetemi un’altra citazione, questa volta da Carl G. Jung, il famoso fondatore della psicologia analitica (già allievo e collaboratore di Freud, da cui si staccò per fondare un a propria psicologia del profondo): “…mentre colui che nega va incontro al nulla, colui che ha riposto

43

la sua fede nell’archetipo segue i sentieri della vita e vive realmente fino alla morte. Entrambi, naturalmente, restano nell’incertezza; ma l’uno vive in contrasto con l’istinto, l’altro in accordo con esso, e la differenza è notevole ed è a favore del secondo”(da C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, trad. it. BUR Rizzoli, Milano 1978, pp. 361-62). Insomma, io mi chiedo se il sostenere che la morte è la fine di tutto non sia che una razionalizzazione, un tentativo di mascherare il desiderio di voler continuare a vivere, perché a volte abbiamo paura di abbandonarci a quello che ci suggerisce l’inconscio, e l’inconscio non ci parla certo del nulla ma … lascia la porta aperta ad una ulteriore riflessione. Mi si può naturalmente obiettare: ma che ne sai tu che l’uomo continua a vivere ? Beh, io potrei intanto rispondere che … non abbiamo nessuna conoscenza del nulla e del presunto annichilamento della materia. Le poche conoscenze che abbiamo sull’universo e sulla materia ci dicono, ad esempio che “nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma”(Lavoisier). In altre parole, le particelle di quella che chiamiamo materia si trasformano in energia, la materia si trasforma in luce. E’ dunque per lo meno possibile ammettere che … ciò che esiste continui ad esistere, anche se non in una forma o dimensione non percepibile dai nostri sensi o al di fuori della nostra esperienza. Al di là di questo, con la pura riflessione, non credo sia possibile andare. Se volessimo procedere oltre, dovremmo ricorrere ad una risposta di carattere religioso che, naturalmente, ci potrebbe dire parecchio di più. Vogliamo provare ? Le religioni, parlando in generale, ammettono una qualche forma di sopravvivenza dopo la morte corporea. Io mi riferirò in particolare a due religioni : da un lato il cristianesimo e dall’altro l’induismo. Il primo perché, volenti o nolenti, ci portiamo sulle spalle duemila anni di influenza ebraico-cristiana e sarebbe alquanto stupido non volerne tener conto; il secondo perché è una prospettiva diversa dalla precedente ma appartiene a milioni di uomini ed è viva e vitale da millenni. Comincerei dall’Induismo perché è, fra le due, la religione più antica. In esso, come è noto, si parla di metempsicosi, trasmigrazione dell’anima, anche se il termine sanscrito è samsara, cioè il ciclo continuo delle nascite e delle morti. L’Induismo afferma che ogni momento della nostra vita è condizionato dai precedenti (karma). L’uomo che diciamo che è oggi venuto al mondo era in realtà in cammino dall’eternità per quel giorno, e l’eternità è di nuovo il cammino che deve percorrere. Egli è in un certo senso sempre stato : dunque per l’Induismo non solo l’uomo non muore ma, in verità, non è mai nato (nel senso di essere spuntato dal nulla). Il che significa che l’io profondo di ogni uomo, che gli induisti chiamano Atman, è identico all’assoluto, il Brahman. Come ora l’uomo è emerso dal seno del Brahman in questo mondo, così fluttuerà per sempre tra le onde del grande oceano cosmico a meno che la grazia della liberazione non lo riporti in seno al brahman : in altre parole, finché l’uomo non attingerà l’Assoluto non riuscirà a liberarsi del samsara. Dunque la cosiddetta reincarnazione non è vista dall’Induismo come qualcosa di positivo(come è invece immaginata nelle dottrine spiritistiche e teosofiche occidentali : m’è andata male questa volta, mi rifarò nella prossima vita…), ma è qualcosa da cui bisogna liberarsi. Però, come avvenga tutto ciò, cosa significhi assumere diversi corpi, come sia possibile all’uomo conservare la propria identità attraverso tutto questo, l’Induismo non lo dice (a differenza dello spiritismo e di molte religioni pseudo-orientaleggianti) perché è una questione di fede e richiede, inoltre, una conoscenza che non necessariamente coincide con quella che l’uomo riesce ad ottenere in questa vita. Per quanto riguarda il Cristianesimo, bisogna anzitutto dire che la morte è la fine naturale dell’essere umano : l’uomo è una creatura e, in quanto tale, non può essere eterno (eterno è solo Dio); per cui la vita terrena, al momento opportuno, finirà. Però Dio … non ha voluto che la nostra vita finisse con la morte del corpo. Egli ci ha donato l’immortalità. In altri termini, l’immortalità è un dono soprannaturale, non è iscritta nel nostro DNA ma è qualcosa di più che Dio, ripeto, per bontà sua, ha voluto donarci. Ma come possiamo essere certi di questo ? Lo possiamo grazie alla resurrezione di Gesù! Questa è la dichiarazione più sconvolgente di tutta la storia: Gesù di Nazaret è l’unico uomo che … sia risorto ! (Cfr. Giovanni,20;Matteo, 28; Marco, 16; Luca, 24 ). Soprattutto

44

la descrizione che si trova nel Vangelo di Giovanni è particolarmente interessante. Il cuore della testimonianza è il passaggio seguente:

“Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro

e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, scorge le fasce distese ma non entrò. Giunge intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entra nel sepolcro e contempla

le fasce distese e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto in una posizione unica. Allora entrò anche l’altro discepolo,

che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette”(Vangelo di Giovanni, 20, 3-8). Le parole sconvolgenti, che solo nel testo greco originale ci lasciano stupefatti (mentre in traduzione non sono rese adeguatamente, bensì con espressioni tipo “in un luogo a parte”), sono eis héna tópon , che possiamo tradurre con “in una posizione unica”. Che cosa vuole dire? Vuol dire che il sudario, invece di essersi afflosciato come le bende che avvolgevano prima il corpo di Cristo, era rimasto, diciamo così, inamidato, a causa della forza sconvolgente dell’evento della risurrezione. E’ questo fenomeno strano che si presenta di fronte agli occhi dei due discepoli, che hanno due reazione diverse : Pietro guarda ma non riesce a capire, mentre Giovanni “vide e credette” perché comprende che è successo qualcosa di straordinario, unico, per cui, d’ora innanzi, la storia umana sarà trasformata ! Come è avvenuta quindi la resurrezione ? Beh, possiamo ipotizzare, per quanto lasciano dedurre i Vangeli, che “se qualcuno fosse stato presente nell’interno del sepolcro, illuminato dai primi raggi del sole, avrebbe visto le tele risplendere intensamente e ,subito dopo, spegnersi; con somma meraviglia avrebbe assistito all’istantaneo asciugarsi delle tele, reso evidente da un loro cambiamento di colore; e, nello stesso tempo, avrebbe osservato il volatilizzarsi di tutti i profumi e ne avrebbe percepito il fragrante odore; avrebbe constatato con trepidazione il lento abbassarsi, sulla pietra sepolcrale, delle fasce, che non avvolgevano più il corpo di Gesù; ed infine avrebbe ammirato, stupefatto, il rimanere in posizione rialzata del sudario, che non avvolgeva più il capo di Gesù, ma, come per incanto, non si abbassava con le fasce. Tutti questi fenomeni potevano essere provocati solo dalla risurrezione. Il corpo di Gesù si trasfigurò, producendo luce e calore, e, senza uscire dalle tele, entrò nella dimensione dell’infinito e dell’eterno”(cfr. ANTONIO PERSILI, Sulle tracce del Cristo risorto, Ed. Casa della Stampa, Tivoli, 1988,pp.187-188). Vi rendete conto dell’enormità del fatto? Qui è in gioco la parte più intima di ogni nostra certezza e verità; qui non si sta scherzando ma si sta dicendo che, visto come sono andate le cose, è molto probabile che Dio esista e che Gesù sia il Figlio di Dio !!! Insomma, sono affermazioni che … mettono paura e ci lasciano sconvolti perché, volenti o nolenti, dobbiamo prendere posizione a riguardo e … noi uomini ne faremmo volentieri a meno, visto che non ci piace affatto impegnarci seriamente in qualcosa! Prima di concludere, vorrei accennare brevemente alla vita ultraterrena. In altri termini . se c’è un aldilà, com’è fatto? Possiamo dire, in generale, che le religioni ritengono vi sia uno stato di felicità per i cosiddetti “buoni” ed una condizione di infelicità e sofferenza per i “cattivi”. Il che indica, per lo meno, che è una esigenza profonda dell’uomo veder punito il malfattore e premiato il buono, se ciò non è potuto accadere in questa vita, e dunque le religioni rispondono a quanto la nostra coscienza esige. A parte questo, ritengo che, se vi è un aldilà, essendo qualcosa di soprannaturale, noi uomini non lo possiamo neppure immaginare (o meglio, l’abbiamo immaginato benissimo, ma con raffigurazioni a volte fin troppo umane, da non prendere alla lettera bensì, al massimo, da attribuire loro un valore simbolico). Ricordiamoci del detto di San Paolo : “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano”(1 Corinti, 2,9) . E forse è anche meglio così. Credo che l’essenziale sia appunto questo : che vi sia o no l’aldilà, la saggezza umana e quella religiosa ci invitano entrambe a vivere bene in questa vita, visto che è l’unica di cui sappiamo qualcosa. Se poi vi sarà un Paradiso, tanto meglio, altrimenti ci addormenteremo sereni,

45

consapevoli di non aver fatto troppo danno ai nostri simili e lasciandoli semmai con un po’ di bene. Per chi crede, un giorno egli saprà; per chi non crede, l’ultima domanda resterà per sempre senza risposta poiché non potrà neppure dire :”Visto, te l’avevo detto che non c’era nulla!”. Mi auguro comunque - ed auguro a tutti – di lasciare comunque un segno della nostra presenza su questo pianeta. Ma anche se un giorno l’umanità intera dovesse perire, e quindi non esisterà neppure più il ricordo (come già diceva Virgilio, “omnia fert aetas, animum quoque”, “il tempo porta via tutto, anche la memoria”, cfr. Bucoliche, IX,51), beh, sarà stato comunque bello … aver avuto l’opportunità di vivere … e ringrazieremo il buon Dio o il caso per avercela offerta. BIBLIOGRAFIA Bhagavad Gita, il capolavoro dell’India, si trova nelle edizioni BUR o UTET o Adelphi ecc. MESSORI, Ipotesi su Gesù , edizioni SEI o TEA MESSORI, Scommessa sulla morte, ed. SEI MOODY, La vita oltre la vita , ed. Mondadori

46

CONCLUSIONE CHE VA BENE ANCHE COME PREFAZIONE

In queste pagine non ho voluto dire tutto o dimostrare chissà quale originalità. Per affrontare alcuni problemi ho scelto una esposizione diciamo storica o cronologica, mentre altri li ho discussi in maniera diversa. Inoltre si badi: non è detto che quello che ho scritto sia definitivo e non possa ancora cambiare idea. Quello che mi premeva era farvi leggere qualcosa di relativamente semplice per introdurre una qualunque persona alle tematiche filosofiche. Adesso che avete letto qualcosa a riguardo della filosofia, beh, potete procedere anche da soli, leggendo altro e soprattutto riflettendo e pensando su qualunque cosa. In fondo, c’è gioia nel pensare, no?

E.R.