I Naviganti 3 Prkori - Quarto Universo - La magia delle parole · di volte, si era convinta, ormai,...

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I Naviganti 3: “Prkori (Diversità) – Quarto Universo”

di Monica Monti Castiglioni

Dedicato a mia Madre

Rating: NC-17 – qualche scena un po’ spinta. Genere: Romanzo – avventura – familiare Riassunto: In un Quarto Universo, quale sarebbe la vita di Trip e T’Pol? – Universo Alterna-

tivo. Spoilers: Tutto fino a “Un Tuffo nel Futuro”, più qualche riferimento qua e là a tutto Star

Trek. Dichiarazioni: “Star Trek: Enterprise” e tutti i suoi personaggi sono proprietà della Para-

mount e dei suoi autori. Questo è un racconto di fantasia, creato da una fan al solo scopo di intrattenimento e senza scopo di lucro.

******* Charles “Trip” Tucker lanciò un’occhiata al volto della bambina che teneva in braccio. I ca-

pelli neri, corti e spettinati, le ricadevano leggermente sugli occhi, ma lui non fece nulla per scostarglieli. La sua espressione beata e il leggero respiro ritmico gli dicevano che stava dor-mendo profondamente, con la testa appoggiata alla sua spalla e le labbra socchiuse.

Spense il PADD da cui stava leggendo una fiaba e lo appoggiò sul letto. Lui e T’Pol erano diventati genitori sette anni prima e T’Mir era ancora l’unica bambina a

bordo dell’Enterprise NX-01. Lentamente, cercando di non svegliare la figlia, si alzò. Sapeva che le precauzioni erano pra-

ticamente inutili, dato che T’Mir pareva avere un sonno pesante, e di questo Trip, visti i suoi precedenti, era grato.

Quella sera, però, la bambina era molto agitata. T’Pol non era stata bene e T’Mir sembrava risentirne più di quanto la sua metà vulcaniana

volesse mettere in mostra. Per questo le aveva permesso, con il benestare della madre, di ad-dormentarsi in braccio a lui sul letto matrimoniale.

Entrò nella piccola stanza retrostante, la sdraiò sul letto e le rimboccò le coperte. Rimase a guardarla a lungo, quasi per convincersi che esisteva davvero. Era così bella e dolce.

A malincuore lasciò la bimba ai suoi sogni e tornò in camera. Raccolse il PADD. Era arrivato a metà della favola preferita di T’Mir, “Il gatto con gli stivali”, quando lei si era addormentata.

Si chiese da dove venisse la passione per quella favola. Probabilmente era a causa di Athos, il gatto del capitano Archer. T’Mir aveva una spiccata

passione per l’animale. T’Pol, poi, contribuiva sottilmente, dato che più di una volta aveva apprezzato doti vulcaniane nel gatto terrestre.

Tucker, invece, era giunto alla conclusione che quella favola era terribilmente cinica e pare-

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va premiare i furbi, più che i buoni, come accadeva di solito nelle fiabe. Cenerentola e Biancaneve simboleggiavano il fascino delle donne, ma erano entrambe buo-

ne al limite dell’idiozia. Pollicino e i vari principi azzurri erano l’incarnazione del coraggio dell’uomo e naturalmen-

te erano assolutamente buoni e sconfiggevano i cattivi. Il gatto con gli stivali no. Era un cinico, impostore, spaccone, approfittatore. Lo faceva per il

bene del suo buon e imbranato “padrone”, ma aveva montato, nel vero senso della parola, un intero castello di menzogne basato sulla stupidità e sulla faciloneria altrui.

Mentre le fiabe, di solito, avevano la morale “sii buono e i tuoi sogni si realizzeranno”, “Il gatto con gli stivali” era più un “impara a fingere e ad approfittarti della stupidità altrui e avrai successo.” E Trip non aveva dubbi in proposito: il gatto con gli stivali aveva ragione. La vita andava come diceva il gatto, non come sognava quella poveraccia di Cenerentola, tanto sfiga-ta che pure il principe suo sposo l’avrebbe chiamata con quell’idiota soprannome, nemmeno fosse ancora la piccola sguattera sempre alla prese con cenere e pentole.

Già, il gatto aveva ragione. Anche T’Pol lo diceva. Sospirò. Avrebbe voluto andare da lei in infermeria, per sapere come stava, ma non voleva lasciare

sola T’Mir. Il problema, fortunatamente, si risolse in fretta, perché T’Pol entrò nell’alloggio pochi minuti

dopo. «Allora?» le chiese subito. «Come stai?» Otto anni prima, Trip e Hoshi Sato erano stati vittime di un virus a base silicio, preso in una

discarica klingon. Era ancora un mistero come si fossero salvati. Tucker ricordava quanto Ho-shi avesse vomitato, in camera di decontaminazione. E quando T’Pol, quella mattina, aveva rimesso l’intero pasto, lui aveva tremato.

«Sto bene.» disse lei. Si sedete sul letto e prese lentamente la mano di Trip nella sua. «Sono incinta.»

Trip rimase a fissarla per qualche istante. «Davvero?» T’Pol annuì. «La notizia non ti rende felice?» Lui la tirò delicatamente verso di sé, per baciarla. «Ma certo! Temevo qualcosa di serio.» «La gravidanza è una cosa seria.» replicò lei. «Sì, intendevo.... qualcosa di brutto.» La tenne stretta a sé. «T’Mir sarà contenta.... la sve-

gliamo? Voleva tanto una sorellina.» «No.» rispose T’Pol. «Lasciala dormire. Anche perché.... è un maschio.» «Be’, sono convinto che ne sarà comunque contenta.» Trip sorrise e si sdraiò. «Un ma-

schio.... che bello.» «Tu hai detto che preferivi le femmine.» replicò T’Pol. «Come prime figlie sì.» mentì lui. In realtà aveva sempre pensato che avrebbe voluto un fi-

glio maschio, anche due, ma una volta nata T’Mir - o meglio, quando aveva scoperto il con-cepimento - ne era stato così innamorato che si era dimenticato dei sogni fatti con Ruby ri-guardanti un bel giardino e due pargoletti maschi a cui insegnare a giocare a baseball. Anche perché sull’Enterprise non c’erano giardini. «Come secondo è perfetto un maschio.»

«Perché ho la sensazione che tu mi stia mentendo?» Trip sospirò. «Per te conta tanto il sesso dei figli?» «Sarebbe illogico.» rispose lei. «Be’, ti sembrerà strano» rise lui. «ma in questo caso sarebbe illogico anche per me.» La vulcaniana si accomodò meglio sul letto e chiuse gli occhi. «Charles Tucker IV?» «Non avevamo detto che avremmo spezzato la tradizione?»

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«Allora dovremo trovargli un nome.» Trip infilò le dita tra i suoi capelli. «Phlox ha fatto le sue indagini genetiche?» «Avrà le orecchie a punta, i tuoi capelli, i tuoi occhi e sangue verde.» Trip fece una smorfia. Aveva sperato che i due figli avessero lo stesso sangue. Erano unici e

questo non era ideale. D’altra parte non poteva non apprezzare il fatto che avesse le orecchie di T’Pol e i suoi occhi. Anzi, in realtà aveva sperato che anche T’Mir avesse gli occhi azzurri. Nonostante tutto, gli occhi azzurri erano sempre molto apprezzati e con i capelli neri di T’Mir, che dovevano venire da un qualche carattere vulcaniano rimasto recessivo in T’Pol che si era fatto strada sgomitando, avrebbero dato un contrasto favoloso.

Non che lui non amasse gli occhi castani della figlia, naturalmente. «Credi che la fiaba del “Gatto con gli stivali” sia veramente educativa?» le chiese. T’Pol aprì gli occhi e lo guardò con una vena di stupore. «Che cosa intendi?» «Di solito le fiabe hanno protagonisti buoni. Il gatto è.... è perfido.» «Non è perfido. Si batte per il suo....» T’Pol s’interruppe e rimase in silenzio. Trip aprì gli occhi e la guardò. «Suo?» «Com’era definito nel libro di Sepulveda?» «“La Gabbianella e il Gatto”?» Loro figlia aveva la mania anche di quello. Ma era compren-

sibile. T’Mir stessa era un po’ la gabbianella in mezzo ai gatti del porto. Quel libro era l’esaltazione della tolleranza, della fratellanza universale.... e della ricerca di sé e della pro-pria identità.

«Sì, quello.» disse la vulcaniana. Aveva paragonato il rapporto Terrestri-Vulcaniani a quello tra i paesani e la creatura di Frankenstein. Leggendo il libro di Sepulveda a T’Mir per decine di volte, si era convinta, ormai, che il rapporto era più simile a quello tra i gatti e la gabbianel-la, per lo meno per quanto riguardava la piccola. Tutti sulla nave la adoravano.

Anche perché, pensò, aveva il carattere di Trip. Già. Tutti sulla nave avevano sempre amato l’ingegner Tucker. E per tanto tempo avevano odiato

lei. Un tempo questo pensiero non le faceva male, ora sentiva una fitta allo stomaco. Colpa del

trellium-D, dei danni che aveva fatto. Prese un profondo respiro e ripensò all’amore incondi-zionato che le aveva dato Trip, all’amicizia leale di Archer, a tutte le volte che l’equipaggio si era prodigato per lei, per sua figlia.

«Umano domestico.» rispose Trip. «E ci sono anche umani selvatici?» Lui sorrise. «Ah, questo viziaccio di far battute che ti ho passato....» «Credo che il gatto con gli stivali abbia ingannato per far star bene il suo umano domestico,

che altrimenti rischiava di morire. Forse il vecchio padre gliel’ha lasciato apposta perché sa-peva che il gatto avrebbe portato molta fortuna al figlio minore. E il gatto ha fatto quel che doveva.»

«Ma con l’inganno. S’è mangiato un orco.» «Ha eliminato il malvagio. Non ha fatto niente di meno del principe che uccide la strega per

salvare la bella nel castello.» Trip annuì e la baciò sulla fronte. «Lo stesso la reputo una fiaba cinica. Pensi che i fratelli

maggiori del padrone del gatto si siano messi in società? Uno aveva l’asino, l’altro il mulino.» «Sarebbe stata la cosa più logica.» «Già!» Trip rise. «Mi viene in mente una curiosità di cui mi aveva parlato Elisabeth al suo ri-

torno da un viaggio in Spagna. A Maiorca, ai tempi dei feudi, la tradizione imponeva di la-sciare al primo figlio le terre in pianura, coltivabili e quindi ricche, al secondo la montagna, dove potevano essere tenuti i pascoli. Al terzo, il più sfigato, veniva data la spiaggia, dove

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non si poteva né coltivare né pascolare. Con l’avvento del turismo, i discendenti di questi ter-zi figli, hanno fatto una fortuna.»

T’Pol aprì gli occhi. «Stai pensando a un terzo figlio?» Trip rise leggermente. «Per lo meno non mi dispiacerebbe la fase preparatoria.» Lei scosse la testa e si alzò. «Vado a vedere come sta T’Mir.» «15 per 5 fa 75, più 2 di riporto 77.» T’Mir scrisse sul PADD i numeri e poi alzò lo sguardo

sulla madre. «15 per 5 fa 80.» disse. T’Pol non la corresse. «M’aih, 15 per 5 fa 80 000.» «Mhm.» replicò lei. «Devo smettere di fare i conti?» T’Pol alzò lo sguardo sulla figlia. «Perdonami. Non ti ascoltavo.» «Stai pensando a Lorian?» Lei annuì leggermente. Sarebbe stato davvero Lorian? Come il Lorian che loro avevano co-

nosciuto dieci anni prima, un Lorian venuto dal passato? O tutto sarebbe cambiato, a causa dell’incursione temporale della T’Mir dell’altro universo? (5° universo....)

Era stato strano vedere la propria figlia piccola, dopo averla vista già cresciuta. Era strano anche doverla crescere già sapendo come sarebbe diventata. O sarebbe stata diversa? E que-ste differenze erano determinate dal fatto che loro l’avevano vista cresciuta e ora, in un certo senso, si attenevano a uno schema definito da quella T’Mir del futuro di un altro universo, o perché in effetti questo era un altro universo?

La T’Mir che li aveva salvati dall’attacco degli Xindi del suo universo aveva detto di essere lì, proprio in quell’universo, perché lì Trip e T’Pol avrebbero avuto un figlio, Lorian, che avreb-be condotto l’Enterprise all’incontro con Archer e quindi, ad evitare che commettessero l’errore di tornare indietro di 117 anni.

L’incontro con Lorian era stato strano. All’inizio quasi non si ricordavano di quella traccia che T’Mir aveva lasciato loro. L’affetto e

l’amore incondizionati che la ragazza aveva portato con sé, così forti e aperti, senza pudore, avevano messo in secondo piano l’effettiva esistenza di Lorian, così diverso da lei.

T’Mir aveva detto anche che, a quattordici anni, i suoi genitori sarebbero morti in un attenta-to per rapire la figlia. Andavano su un pianeta dal mare turchese per festeggiare la prossima nascita di una sorellina.

Ma T’Mir non aveva mai parlato di fratelli maschi, in quella linea temporale. Poteva aver cambiato anche il corso della storia? Di certo ora stavano molto attenti, quando la portavano su qualche pianeta.

T’Pol spostò lo sguardo sul PADD della figlia. «77 è giusto. Vai avanti così.» Forse la storia si stava replicando allo stesso modo. Forse T’Mir non ricordava che, quando

aveva sette anni, sua madre era incinta di un maschietto. Forse non l’aveva citato perché quel bambino.... Quel bambino non c’era. Si alzò in piedi di scatto. «M’aih, che c’è?» Perché T’Mir era così apprensiva nei confronti dei suoi genitori? Sapeva che i bambini si

preoccupano degli adulti molto più di quanto non si creda, ma.... che forse avesse già in sé una parte, una sorta di memoria genetica di quello che aveva svelato la sua controparte futura di un altro universo?

Trip e T’Pol avevano deciso che T’Mir non avrebbe fatto la fine della sua controparte. Cono-

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scevano i rischi ed erano disposti a tutto per fare in modo che la figlia potesse avere una vita diversa, tranquilla e serena.

«Vieni, devo portarti da Hoshi.» «Perché? Non è ora della lezione di klingon.» Trip aveva insistito perché T’Mir imparasse il

klingon, assieme ad altre lingue. Poteva venir utile, secondo lui. T’Mir non aveva una partico-lare passione per le lingue e, in effetti, non era nemmeno molto portata. Hoshi era così brava da farle apprezzare lo studio. C’era poi quel fattore della lingua xindi rettile, su cui T’Pol a-vrebbe voluto indagare....

«Devo andare in sala tattica.» mentì. Arrivarono all’alloggio di Hoshi molto velocemente. «So che siamo in anticipo....» esordì T’Pol. Lasciò la frase in sospeso, sperando che l’ufficiale alle comunicazione capisse al volo. E difatti fu così.

«Non c’è problema.» Porse la mano alla bimba. «Vieni, oggi dobbiamo iniziare i verbi in klingon.»

T’Mir attese che la porta si chiudesse dietro di lei e chiese: «/Mi insegni ancora qualche cosa in dialetto xindi rettile?\»

Phlox si girò e sorrise a T’Pol. «Cosa la porta qui?» chiese. «Questo bambino.... potrà nascere?» Il medico indicò alla vulcaniana di sedersi sul lettino. «Perché questa preoccupazione?» «Nella letteratura medica si legge tutti gli ibridi umano-vulcaniani non sono riusciti a svilup-

parsi. Vengono abortiti a pochi mesi.» «T’Mir è nata.» replicò lui, controllando un tricorder. «T’Mir ha sangue rosso. Ed è.... un miracolo.» Phlox abbassò il tricorder. «Per ora sembra tutto a posto. Cosa la porta a pensare che sia il

sangue che conta?» T’Pol scosse la testa. «Non lo so. Ma.... T’Mir.... intendo la T’Mir dell’altro universo.... non

ha mai parlato di fratelli.» «Citò Lorian, se non erro.» «Sì, ma come figlio unico. Non come secondo figlio.» Phlox annuì. «Va bene, facciamo un esame nella camera ad immagini, così, solo per tran-

quillizzarla.» «T’Mir?» La bambina si girò verso Hoshi. «Scusa.» disse. «Cosa mi stavi dicendo?» «Nuq tlhIngan yab?» «Hab.» «Sei preoccupata?» le chiese Hoshi, lasciando da parte il klingon. «Quando mai si è comportata così?» «Stare qui a pensare a lei non cambierà la situazione.» «No. Infatti. Voglio andare da Trip.» La ragazza scosse la testa. «Tuo padre sta lavorando in sala macchine.» «Sono cresciuta in sala macchine.» Hoshi non poté darle torto. Anche se quel “cresciuta” non era ancora del tutto appropriato.

«Va bene, andiamo.» «Papi?» Trip si girò e sorrise alla figlia. «Che ci fai qui, frugola?» Scese dalla passerella e la prese in

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braccio. «Non credo m’aih che stia bene. Mi ha portato a lezione di lingue mezz’ora prima.» Trip le sorrise, cercando di sdrammatizzare. «Sono gli ormoni della gravidanza.» disse. «An-

che quando aspettava te aveva molte stranezze.» In realtà era spaventato tanto quanto la fi-glia.

«Sì, ma oggi.... sembrava davvero tanto strana.» «Be’, facciamo così: tu finisci la tua lezione di lingue con Hoshi. Io vado a vedere come sta.

D’accordo?» «Ma poi me lo dirai?» «Certo.» Trip la baciò sulla fronte. «Fa’ la brava!» Lasciò che la figlia uscisse, quindi salì di corsa verso l’infermeria. «T’Pol!» esclamò entrando. «Cosa ci fai qui?» disse lei, ancora seduta sul lettino ergonomico nero. «T’Mir mi ha detto che ti comportavi in modo strano.» T’Pol lanciò un’occhiata a Phlox, poi riportò l’attenzione su di lui. «Dobbiamo parlare.» «D-di cosa?» «Di Lorian.» «M’aih!» T’Mir corse ad abbracciare la madre, seduta sul letto. «Come stai?» «Sto bene.» Le diede un bacio sulla fronte. «Stai tranquilla, sto bene.» «E Lorian?» «Lorian..... starà bene. Il dottor Phlox sta cercando una cura che lo farà stare bene. E sono

certa che al più presto tutto si risolverà per il meglio.» Tenne stretta a sé T’Mir, quella bambi-na che era stata concepita quasi per caso, al di fuori di ogni logico schema, che era cresciuta dentro di lei senza particolari problemi ed era nata sana. Probabilmente Trip aveva ragione. Sarebbe stato meglio se anche questo bambino fosse stato come lei.

Era possibile che fosse proprio il sangue verde a provocare difficoltà nel proseguimento del-la gravidanza? T’Mir era unica, certo. Secondo Phlox il sangue rosso con gruppo sanguigno vulcaniano era un carattere recessivo, negli ibridi, ed era molto difficile che apparisse. Poiché in realtà gli ibridi umano-vulcaniani erano pochissimi, non c’era abbastanza casistica per dire se davvero fosse il sangue rosso ad aver tenuto in vita T’Mir.

La baciò di nuovo. Forse quella era l’unica figlia che avrebbero mai potuto avere. Doveva difenderla a tutti i costi. Anche a costo delle vite sua e di Trip.

E a costo della vita di Lorian. «Cosa c’è?» T’Pol si rigirò nel letto, il buio della stanza era completo per evitare che Tucker precipitasse

nei periodi d’insonnia. «Ti ho svegliato.» «Continui a muoverti, cos’hai?» «Mi sento.... agitata. E non mi piace.» Trip le fece scorrere le braccia intorno e la tirò verso di sé. «Sono agitato anch’io.» sussurrò.

«Ma se domani su Dekendi Tre Phlox riuscirà a trovare qualche notizia sulla cura.... non do-vremo più preoccuparci e potremo....»

«Trip.» «Cosa?» «Ricordi quel che ha detto T’Mir?» «Che le piacerebbe avere anche lei un gatto?»

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T’Pol, nell’oscurità, alzò gli occhi al cielo. «Intendevo quel che ha detto la T’Mir dell’altro universo. Di una gita su un pianeta.»

«Non ci porteremo T’Mir su Dekendi Tre.» Le prese al buio le mani tra le sue. «No, ma cosa c’entra?»

«Se andando su quel pianeta io e te fossimo....» Trip sospirò. «Ci faremo accompagnare da un MACO. Anzi, chiederò a Malcolm di venire

con noi. Scenderemo col teletrasporto.» «No. Tu devi rimanere qui. Se ci succedesse qualcosa, T’Mir....» «Smettila.» Trip le lasciò andare le mani e si rintanò sotto le coperte. «E tu dimmi che starai qui con lei.» «T’Pol.... tu e Lorian avete bisogno di me.» La Vulcaniana si avvicinò a lui. «Io andrò su Dekendi Tre con Phlox e Reed. Tu rimarrai qui

con T’Mir.» «Senti....» «Non voglio discutere su questo.» Trip non replicò. In fondo aveva ragione. «E se dovesse succedermi qualcosa....» «T’Pol!» «....Promettimi che.... che andrai avanti ad essere il padre che sei.... e che la farai avvicinare

alla disciplina vulcaniana.» «T’Pol, questi discorsi non mi piacciono.» «Promettimelo!» Le promesse del gatto Zorba alla gabbiana Kenga. “Prometti che non mangerai l’uovo, che

te ne prenderai cura finché il piccolo non sarà nato, e che....” «Prometto che le insegnerò a volare.» sussurrò Trip.

«Mi state dicendo che non posso dare speranze alla mia paziente?» Phlox avrebbe voluto ur-

lare. Non era giusto. Ricordava la sofferenza per la morte di Elizabeth, il clone binario di Tu-cker e T’Pol. Sentiva ancora quel dolore bruciare dentro di lui.

«Non alla sua paziente, ma ciò che lei porta in grembo.» replicò un medico kreetassano dall’altra parte del tavolo.

--Viscido bastardo.-- pensò Phlox. «E’ un essere vivente e senziente.» «E’ un ibrido.» replicò l’altro, pronunciando quella domanda come fosse “è un abominio”. Era inutile continuare a parlare davanti a questa a corte di medici poco interessati al pro-

blema. Uscì dalla stanza quasi di corsa e si guardò in giro nella piccola sala d’attesa deserta. Non vedeva T’Pol.

Aprì il comunicatore: «Tenente Reed? Dove vi trovate?» Attese alcuni istanti, in cui sentiva il panico salire dentro di sé. «Comandante T’Pol? Mi sentite?»

Gli rispose, di nuovo, il silenzio. «Phlox a Enterprise.» «Qui Archer.» sentì finalmente una risposta. «Non ritrovo più il comandante T’Pol e il tenente Reed.... Erano nella sala d’aspetto.... e non

vedo nemmeno il MACO che era con loro!» Malcolm Reed, girandosi sulla schiena, non poté trattenere una smorfia per il dolore. Aprì

gli occhi, ma intorno a lui tutto era buio. Si mise a sedere con cautela, quindi si portò una mano sulla spalla: sentiva del liquido che gli aveva inzuppato l’uniforme. Era sangue. «Male-

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dizione.» sussurrò. Faticava a usare il braccio destro, la ferita doveva essere abbastanza pro-fonda.

«Comandante T’Pol!» urlò nel buio, ma non gli tornò nessuna risposta. Ricordava di essere nella piccola sala d’aspetto, mentre Phlox, all’interno dello studio, parlava a lungo con medici di altre specie. Erano soli, lui, T’Pol e un MACO.

Ad un tratto aveva sentito una sonnolenza irresistibile. Aveva tenuto gli occhi aperti abba-stanza per alzarsi e andare verso T’Pol, che stava crollando a terra. L’aveva presa tra le brac-cia, facendola sdraiare delicatamente a terra. Poi aveva visto qualcosa.... qualcuno, dietro le sue spalle, e subito il dolore lancinante alla spalla che ancora lo accompagnava.

Poi buio. Estrasse il comunicatore: «Reed a Enterprise.» Attese qualche secondo, poi riprovò. «Reed a

Enterprise. Rispondete.» Estrasse una pila portatile da una tasca e fece girare il fascio luminoso intorno a sé. Molto spesso si era detto che era inutile portarsela dietro, infatti non l’aveva mai usata prima di allora. Qualcosa dentro gli diceva che era meglio portarla.

Si guardò intorno. La stanza sembrava uno scantinato, alcune tubature dell’acqua passavano sul soffitto e c’era odore di chiuso. Quando il fascio di luce intercettò una porta, Malcolm non perse tempo. Le si buttò contro per sfondarla, ma la porta si rivelò già aperta e si spalan-cò senza il minimo sforzo.

Reed cadde in avanti pesantemente e trattenne a stento un urlo di dolore. (Povero cristo, nei miei racconti prima o poi gli faccio sempre fare la figura del pirla....)

Dovette aspettare qualche istante per lasciare che la fitta alla spalla diminuisse, quindi si ri-mise in piedi.

Davanti a lui c’era una rampa di scala, la salì senza pensarci. Aprì la porta in cima e si ritro-vò di nuovo in una stanza buia. Questa volta era più grande e asciutta e, sul fondo, c’era una tenda bianca da ambulatorio.

Senza indugio, la scostò. «T’Pol!» esclamò vedendola sdraiata sul lettino dietro di essa. La prese per le spalle, scuotendola e cercando di ignorare il dolore. «T’Pol, si svegli!»

La Vulcaniana sbatté gli occhi leggermente: «Trip?» «No, sono Reed. Dobbiamo andarcene di qui.» «Trip, hai detto che volevi fare un terzo figlio....» Malcolm la guardò sgranando gli occhi. «Comandante....» T’Pol mise le braccia intorno al collo di Malcolm. «Lasciamoci andare, come piace a te.» Reed arrossì. Non gli piaceva indagare nella vita sessuale altrui e venire a sapere cosa piace-

va a Trip non era certo il massimo per lui. Senza contare il fatto che era stato a letto con la loro figlia! Era vero che era ben più che maggiorenne e che veniva da un altro universo.... ma era pur sempre la versione cresciuta di quella pargoletta che girava ora per l’Enterprise.... a cui aveva fatto una promessa.... di difendere Trip e T’Pol.... e ora....

Reed cercò di tirarsi indietro, ma T’Pol lo trattenne. «Non hai voglia di accoppiarti?» Con quella frase, pensò lui, avrebbe fatto scappare la voglia anche a un maniaco sessuale.

«Comandante, la prego....» T’Pol si tirò su: «Trip, ti amo....» E lo baciò sulle labbra. Lui fece uno scatto indietro. T’Pol, che ancora lo tratteneva, gli cadde addosso e finirono en-

trambi a terra. «Sono il tenente Malcolm Reed, non Trip!» esclamò lui. «Ah.» sussurrò lei. Chiuse gli occhi e si lasciò andare, appoggiando la testa alla sua spalla. Malcolm si morse la lingua per non urlare dal dolore e si mise faticosamente a sedere.

«Dobbiamo uscire di qui!» Fece passare un braccio intorno alle spalle della Vulcaniana. «T’Pol.... mi sente?»

«Mhm....» mugugnò lei.

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Reed la tirò in piedi a fatica e, mentre la teneva con il braccio sinistro, con la mano libera fece girare il fascio luminoso della torcia in giro per la stanza, finché non vide una porta. Tra-scinò la Vulcaniana con sé e spinse la pesante porta di piombo, ritrovandosi in un viottolo buio e fumoso. Estrasse di nuovo il comunicatore. «Reed a Enterprise.»

«Qui Enterprise.» Malcolm lasciò andare un enorme sospiro di sollievo: «Hoshi!» esclamò. «Malcolm, dove sei?! Vi stiamo cercando!» «Sono.... non ne ho idea, sono con T’Pol, non sta bene. Non vedo né Phlox né il MACO.» «Sono già qui.» rispose Archer. «Restate dove siete, agganciamo i vostri segnali e vi riteletra-

sportiamo a bordo.» Quando le figure di T’Pol e Malcolm apparvero sulla piattaforma del teletrasporto, Jonathan

Archer tirò un sospiro di sollievo. T’Pol sembrava addormentata. «Come state?» chiese lui, salendo sulla piattaforma per aiutare Reed. «T’Pol è in stato confusionale.» disse lui. Difatti la vulcaniana aprì lentamente gli occhi e disse: «Ciao Jonathan. Come ti butta?» «Decisamente. E lei, tenente? Quella ferita alla spalla non sembra lieve.» Archer prese T’Pol

sotto le spalle per aiutarla ad alzarsi. «Sì, l’anguilla di Phlox si divertirà un sacco.» «Jon, dov’è Trip?» chiese T’Pol, mentre seguiva il capitano, con un’andatura ubriaca, verso

l’infermeria. «E’ a calmare T’Mir. Non so come ci riesca.» «Devo andare da lui. Dobbiamo fare sesso.» Archer lanciò un’occhiata stranita al suo ufficiale scientifico. «Ci andrà dopo, prima deve andare da Phlox.» «No, Phlox non ha voluto fare sesso con me, la prima volta che ho avuto il pon farr.» Le porte dell’infermeria si aprirono al loro passaggio e Phlox corse da loro. «Devo andare da Trip.» replicò lei. «Dobbiamo fare il nostro terzo figlio.» «Ora si sdrai qui.» disse Phlox. T’Pol fece come le era stato detto, ma appena distesa disse: «Ma è scomodo ‘sto letto per ac-

coppiarsi, è stretto.» Phlox scosse leggermente la testa. «Ora stia calma.» Velocemente le diede un ipospray che

la fece subito addormentare. «Ma che cosa le hanno fatto?» chiese Archer. «Probabilmente le hanno somministrato qualche droga. Devo fare altri esami.» «Anche il tenente Reed ha bisogno di lei.» «Posso aspettare.» rispose lui. Phlox gli lanciò un’occhiata. «Dovrebbe perdere il vizio di fare l’eroe. T’Pol è al sicuro ora.

E quella ferita continua a sanguinare.» Quando si fu assicurato che i suoi due ufficiali erano al sicuro, Archer si diresse verso

l’alloggio di Trip e T’Pol. «Li abbiamo recuperati entrambi.» disse, entrando. «Posso vedere m’aih?» chiese subito T’Mir «Ora no, sta riposando.» «Ti prego..... camminerò in punta di piedi e non parlerò.» Archer sospirò. «Dobbiamo chiedere al dottor Phlox.» Trip guardò il capitano con preoccupazione. Archer annuì. «Starà bene.»

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T’Mir arrivò al letto senza nemmeno quasi respirare. Appoggiò la sua mano su quella di T’Pol con una delicatezza incredibile. «Ti voglio tanto bene m’aih.» Poi si girò e tese la mano a Jonathan. «Torneremo qui domattina.»

Uscirono dall’infermeria in silenzio e solo quando furono a metà strada verso l’alloggio T’Mir parlò: «Lorian non c’è più, vero?»

Archer sospirò. Quella bambina sembrava davvero avere incredibili doti. «Sì. Purtroppo è così. Come lo sai?» T’Mir si fermò sulla porta dell’alloggio e scrollò le spalle. « I Vulcaniani hanno doti telepatiche e tu le hai ereditate.» disse Archer. «Lei è mia madre.» Lui annuì. «Vuoi che resti qui?» T’Mir scosse la testa. «No. Ora io devo essere grande. I miei genitori hanno bisogno di me.» T’Pol trattenne a stento un urlo, quando si svegliò. Si mise a sedere di scatto. «T’Pol, calma.» sussurrò Trip, che fino a quel momento aveva dormicchiato seduto su una

sedia accanto al letto. «No.» disse lei. «No, non può essere.» Trip si alzò in piedi e la prese per le spalle. «Hai bisogno di dormire. Calmati ora.» «Dammi un tricorder.» disse. «T’Pol, sdraiati e dormi. Phlox ha....» «DAMMI UN TRICORDER!» Trip corse a raccattare lo strumento richiesto. Lei glielo strappò dalla mano e se lo passò da-

vanti. «Non può essere.» Lui sospirò e si sedette sul letto accanto a lei. «T’Pol.» «NO!» urlò lei. «NO! Non è possibile!» Si coprì la bocca con una mano. Trip la strinse a sé, sentendola tremare. «Lo so. E’ orribile.» T’Pol chiuse gli occhi. Doveva riuscire a controllare le sue emozioni.... lei era una Vulca-

niana. Respirò a fondo per qualche minuto, poi allontanò Trip da sé. «T’Mir.» disse. «Che cosa?» «Come sta T’Mir?» «Sta bene. Sta dormendo nella sua stanza. Stai tranquilla.» Lei scosse la testa e si alzò di corsa dal letto. «Dove vai?» «Da T’Mir.» «T’Pol!» esclamò Trip, seguendola di corsa fuori dall’infermeria. «Torna indietro!» La vulcaniana spalancò, senza molta finezza, la porta della stanza della figlia. Corse verso il

letto e prese tra le braccia la figlia. «M’aih?» chiese lei, svegliandosi. «Come stai?» «Sto bene, amore.» sussurrò T’Pol, stringendola a sé. «Sto bene.» Trip Tucker alzò lo sguardo stupito verso il ragazzo che aveva appena parlato. «Parla sul se-

rio?» chiese. Il ragazzo gli sorrise con aria di sfida. «Certo. L’unico modo per superare gli attuali limiti è

quello di creare un subspazio nel subspazio. Così si andrà a una curvatura elevatissima. An-che 100.»

Dall’aula si levò un leggero brusio. Trip scosse leggermente la testa. «Be’, questa.... è una teoria interessante.» «Non è una teoria. Ormai sono fatti, le vecchie navi che vanno al massimo a curvatura 7, sa-

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ranno obsolete nel giro di poco.» «Creare un subspazio nel subspazio non è esattamente un’idea concreta.» «E’ da questo che bisogna partire.» Il ragazzo si sporse in avanti, quando sentì suonare la

campanella. «Abbandonare i vecchi preconcetti e i manuali polverosi sulla curvatura.» Trip gli lanciò uno sguardo di traverso. Questo ragazzino era insolente più di quanto non lo

fosse stato lui a quell’età. «Ma purtroppo è suonata la campanella.» disse il giovane. «Ne parleremo ancora.» La classe si riempì di voci, quando Trip annuì e diede il permesso ai suoi allievi di andarse-

ne. Raccolse il PADD. «Professore.» disse il ragazzo, avvicinandosi. «Spero di non averla infastidita.» Pronunciò

quella frase con lo stesso tono strafottente. Era una presa in giro anche quella. «Ho incontrato gente più spaccona di te.» replicò Trip. «Molti di loro son finiti a pulire i miei

alloggi.» Il ragazzo sorrise. «Già. Ma io conto di essere il capo ingegnere sulla prima nave a curvatura

100.» «Disturbo?» disse una voce femminile dalla porta. Il ragazzo si girò, fissando una donna dagli occhi castani e i capelli neri, corti, da cui spun-

tavano orecchie a punta, che indossava l’uniforme della Flotta Astrale. «No.» rispose Trip. «La lezione è finita.» Il ragazzo si avviò verso la porta e, passando accanto alla donna, le sorrise maliziosamente. Lei lo ignorò, mentre Tucker scuoteva leggermente la testa. Non gli era simpatico. «Ehi, a-

more, che ci fai qui?» disse, abbracciando la figlia. «Non dirmi che sei venuta a sentire le le-zioni sui “vecchi” motori a curvatura.»

«Anche tu eri un po’ spaccone.» Trip rise. «T’Mir, T’Mir.... se non lo fossi stato, non sarei stato il capo ingegnere di Archer.»

La baciò sulla fronte. «Allora, che ci fai qui?» «Ti saluta Amanda Cole.» Lui le rivolse uno sguardo interrogativo. «Come mai hai incontrato Cole?» chiese. T’Mir si sedette sulla cattedra. «Be’....» Indugiò un istante. «E soprattutto dove. Amanda Cole ora lavora all’istituto di detenzione....» Il fiato gli morì in

gola. Si appoggiò al muro per non crollare. «Non ho osato dirlo a m’aih.» sussurrò lei. Trip sospirò e scosse la testa. «Io non riesco a capirla.» «Be’, allora siamo in tre.» Si alzò in piedi. «Ma se non ci sforziamo in minimo, sarà sola. So-

no parole tue.» Tucker annuì leggermente. «Quanto bisogna pagare di cauzione?» T’Mir indugiò qualche istante. «Vogliono....» Sospirò. «Vogliono il tuo avallo.» Trip sgranò gli occhi: «Che diavolo ha fatto ora?!» «Violazione di domicilio.» disse T’Mir. «E per la violazione di domicilio ora vogliono l’avallo?!» «E’ la.... quarta volta.... Non la rilasceranno per la quarta volta sulla parola.» Lui scosse la testa. «D’accordo, andiamo. O meglio.... vai a casa, ci penserò io.» T’Mir non si alzò dalla cattedra. «C’è un’altra cosa.» Trip chiuse gli occhi. No, non ce la faceva più. «Cos’ha fatto di preciso?» «Il bagno in una Iacuzzi.... bevendo e.... fumando.» rispose lei. «Ma il punto è che.... non

basterà il tuo avallo. Vogliono anche quello di m’aih e dovrà andare sotto i servizi sociali.» «Avverti tua madre. Ci troviamo al penitenziario tra mezz’ora.» «Papi!» esclamò T’Mir. «Non farmi fare questo. Chiamala tu.» Trip stava per ribattere, ma si fermò. Annuì. «Va bene, vai a casa. Ci penso io.»

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T’Mir distese la tovaglia di cotone rosa sul tavolo. Mise quattro piatti, quattro fondi e poi passò alle posate, forchetta a sinistra, coltello e cucchiaio e a destra, come chiedeva il galateo terrestre. Controllò che le lame dei coltelli fossero rivolte verso il piatto, quindi mise in tavola i bicchieri rovesciati e l’acqua. Sua madre aveva insistito molto perché lei imparasse sia il ga-lateo terrestre che quello vulcaniano.

T’Mir controllò la pasta e il sugo, quella sera aveva deciso di farlo alle olive verdi, dato che era il preferito di Izar.

Già, Izar. Lanciò un’occhiata all’orologio e sospirò. Uscì in giardino per cogliere una rosa da mettere

in centro tavola, mentre controllava la strada. Non le piaceva dover dire ai suoi genitori che Izar si era messa nei guai. La copriva da anni, ma spesso non poteva farlo da sola. Era la sua sorellina. Generalmente preferiva tirarla fuori dai guai da sola, piuttosto che interpellare i loro genito-

ri. Ma Izar era ancora minorenne e quella sera, quando era andata al penitenziario, le aveva-no detto che una sorella non ha la patria potestà necessaria. Dovevano andare Trip e T’Pol.

T’Mir colse una rosa fuxia e la portò in casa. La mise in un vaso azzurro, al centro del tavo-lo.

Scolò la pasta, la condì col sugo e la coprì perché rimasse calda. Si sedette al suo posto a tavola: era quello vicino alla porta, che guardava verso la finestra,

fin da quando erano scesi dall’Enterprise NX-01 per stabilirsi a San Francisco. Spesso di sera, mentre i suoi genitori facevano discorsi che non la riguardavano, o discutevano con Izar, pas-sava i lunghi momenti a tavola a guardare il cielo stellato, sognando di tornare nello spazio. I primi tempi a San Francisco erano stati duri.

Soffriva di mal di terra, per iniziare. Aveva solo nove anni e in quanto ibrido era presa di mi-ra dalle cattiverie dei coetanei. Trip le aveva detto che doveva essere fiera di essere metà Vul-caniana e metà Umana, perché poteva dire di aver preso il meglio dalle due razze. T’Pol le aveva insegnato la superiorità dei Vulcaniani a certe idiozie.

Velocemente aveva appreso che le parole crudeli non erano dei coetanei. Le riferivano so-lamente, in realtà erano gli adulti a inculcarle. All’inizio era stata dura, ma poi aveva fatto del-la sua diversità la sua forza e pian piano aveva stretto amicizie molto più profonde di quelle che avrebbe potuto avere essendo una normale ragazzina.

Lei era diversa, come diversi erano i suoi amici: un gruppo di ragazzi intelligenti, per questo si trovava bene. Nel corso degli anni alcuni amici si erano persi, ma T’Mir frequentava ancora l’Accademia con altri. Si sentiva fortunata ad averli trovati, perché in fondo, erano tutti isolati ed emarginati, ma assieme non erano più soli.

Aveva fatto da apristrada a Izar. Lei non era stata presa in giro e isolata come T’Mir. Lei l’aveva sempre protetta ed era contenta che Izar non avesse dovuto subire quelle cattiverie.

Forse era per questa sicurezza in più che Izar era cresciuta così diversamente da T’Mir. Era nata quando T’Mir aveva poco più di sette anni e dalla sua nascita erano passati solo due

anni prima che la famiglia tornasse a San Francisco. Non era cresciuta in mezzo a 83 adulti intelligenti e dalla mente aperta, che la facevano sentire come parte di una grandissima fami-glia, ma in un appartamento con un piccolo giardino in un normalissimo quartiere di una grande città terrestre, e per di più senza dover far fronte al problema di essere il primo ibrido umano-vulcaniano.

T’Mir invidiava la sicurezza della sorella. Era una ragazza molto più indipendente di lei, più sfacciata e disinibita e questo, decisamen-

te, la portava a divertirsi molto di più. Mentre Izar usciva di sera con gli amici, andava in giro con minigonne che lei definiva “coprimutande”, si era fatta tatuare una rosa sulla spalla, an-

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dava a ballare in discoteca e a dormire sulla spiaggia.... T’Mir ancora arrossiva quando incon-trava Malcolm Reed e adorava stare sul divano a guardare vecchi film con la testa appoggiata alla spalla di suo padre.

Eppure avevano avuto gli stessi genitori, avevano frequentato le stesse scuole.... per lo meno per i primi anni. Poi T’Mir aveva scelto l’Accademia della Flotta Stellare, mentre Izar, quando era stato per lei il momento di scegliere, aveva deciso di intraprendere una scuola d’arte.... dalla quale aveva rischiato di essere espulsa. T’Mir stava ormai per finire il secondo corso di perfezionamento. Naturalmente stava diventando ingegnere di motori a curvatura, con un pizzico di dispiacere da parte di sua madre, che sperava diventasse ufficiale scientifico.... so-prattutto quando si era resa conto che Izar non avrebbe seguito le sue orme.

T’Mir lanciò l’ennesima occhiata all’orologio. Si stava facendo tardi. Sospirò. Sembrava che il problema al penitenziario fosse più serio di quello che Amanda Cole le a-

veva lasciato intendere. Chiuse gli occhi e il volto di Trip quando lei gli aveva parlato di A-manda poche ore prima le riapparve davanti agli occhi. C’era qualcosa di più di semplice stupore, ma T’Mir non sapeva dire cosa.

Qualcosa di indefinito era passato nei suoi occhi d’azzurro intenso, lo stesso colore degli occhi di Izar, che facevano un bellissimo contrasto coi capelli, dato che il gene vulcaniano dei capelli neri aveva preso il sopravvento anche in lei.

T’Mir si alzò in piedi e tornò invano a guardare fuori dalla finestra per vedere se i suoi geni-tori e sua sorella stessero arrivando a casa. Fece un passo indietro per specchiarsi nel vetro. Aveva sempre scelto di tenere i capelli corti, ma si era rifiutata di pettinarli alla vulcaniana. Izar aveva i capelli così lunghi che le arrivavano ai fianchi. Talora T’Mir pensava che prima o poi i capelli le avrebbero coperto il sedere più della gonna.

Raccattò il PADD dal tavolo e riprese a leggere gli ultimi studi in campo di curvatura. Si fermò quasi subito, quando alla mente gli tornò quel ragazzo che stava parlando con aria stra-fottente a suo padre poche ore prima.

Cercò di ricordare il suo aspetto fisico. Era un vulcaniano, le sue orecchie a punta si notava-no decisamente poiché portava i capelli chiari alla moda terrestre, corti e lasciati spettinati. Era un bel ragazzo, decisamente attraente, dal fisico atletico e muscoloso al punto giusto. Si vedeva che ci teneva all’aspetto. La sua pelle era abbronzata, probabilmente faceva surf o qualche altro sport sulla spiaggia.

T’Mir emise involontariamente un gemito di insofferenza. Non gli piacevano gli spacconi, ma chissà perché, quel ragazzo l’aveva attratta in modo strano. Quando le era passato di fian-co, lanciandole uno sguardo dissoluto, T’Mir aveva provato una strana sensazione.

Era combattuta tra fargli la mossa Navorkot e chiedergli se gli andava di invitarla ad uscire. Alla fine aveva deciso di ignorarlo. O almeno tentarci. Quel pensiero svanì quando sentì la porta che si apriva. Fece per correre sulla soglia, ma fu

bloccata dalle urla. I suoi genitori stavano litigando con Izar. Sentì la ragazza correre verso la sua stanza e sbat-

tere la porta. Un’altra serata a litigare. Non era la prima volta. «Te ne starai in casa per il prossimo mese!» esclamò Trip. «Uscirai solo per il servizio sociale

e la scuola.» I genitori andarono nella loro camera e ripresero a discutere tra di loro. «Cos’ho fatto di sbagliato?» chiese Trip. T’Pol scosse la testa. «Tu l’hai viziata tanto quanto T’Mir. Non hai cambiato atteggiamento.

E’ colpa mia, dovevo essere rigida quanto lo sono stata con lei.» «Forse avrei dovuto essere rigido anch’io.» replicò Trip. «Ma quel che dico, non si sente ab-

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bastanza amata?! Deve per forza attirare l’attenzione in questo modo?» «Io non sono del tutto convinta che lo faccia per questo.» replicò T’Pol. «Probabilmente lo fa

semplicemente perché gli va.» «T’Pol! Ma renditi conto, ha rotto la finestra di una casa privata, è entrata con quel gruppo di

sbandati ed è stata in una vasca da bagno a bere vino e a fumare.... fumare non voglio nem-meno sapere cosa!»

Mentre i suoi genitori continuavano a discutere in sottofondo, T’Mir trasferì la pasta in un contenitore di plastica e lo mise nel frigorifero. Infilò la padella nella lavastoviglie, controllò di aver sistemato i fornelli, raccolse il suo PADD e andò in camera sua.

Grazie alle microonde la pasta sarebbe stata buona anche il giorno dopo. La casa era immersa nel silenzio e T’Mir sospirò per l’ennesima volta. Non era riuscita a

prendere sonno. Le era successo raramente, ma quando capitava, di solito, chiedeva aiuto ai suoi genitori. La

neuropressione faceva miracoli. Quella notte doveva decisamente farne a meno. Si alzò e andò in bagno. Si rese conto che

allo specchio aveva un aspetto spaventoso. Si sciacquò il viso con acqua fresca, cercando di rilassarsi. Poi sentì la porta del bagno aprir-

si e si girò. «Izar, ciao.» «Sei una stronza.» disse subito lei. «Perché cazzo l’hai detto a m’aih e papà?» «Saresti ancora là dentro se non avessi avvertito papà. E quindi l’avrebbe saputo lo stesso.» «E’ facile fare la parte della sorella buona!» T’Mir sbuffò. «Oh, smettila. E non urlare, o li sveglierai.» «Vaffanculo, sei una stronza!» Izar diede alla sorella uno spintone. «Ma se ti ho sempre coperto!» «Sei andata a dire a papà che era la quarta volta che mi trattenevano per violazione di domi-

cilio, ma lui sapeva che era successo solo un’altra volta!» T’Mir cercò di spingere indietro la sorella. «Come potevo fargli credere che volevano il loro

avallo se era solo la seconda volta?!» «Tu che sei così intelligente» replicò lei in tono polemico. «dovevi arrivarci!» «Piantala di urlare, sveglierai....» Izar si buttò addosso alla sorella. T’Mir perse l’orientamento, quando si ritrovò a terra. «Ti odio!» urlava Izar. «Odio te, odio T’Pol, odio Trip!» T’Mir parò un colpo quasi per caso, senza però riuscire a schivare un pugno che le arrivò di-

rettamente sulla mandibola. Istintivamente, allungò il braccio e colpì la sorella. «Che diavolo state facendo?!» Trip sollevò di peso Izar. T’Mir si tirò in piedi. «Noi....» sussurrò. Izar si portò una mano sotto il naso. Quando la scostò era sporca di sangue rosso. «Mi hai

colpito sul naso....» «E tu....» iniziò T’Mir, ma venne interrotta da uno schiaffone tale da farle voltare la testa

dall’altra parte. «E’ questo che vi abbiamo insegnato?» T’Mir si portò una mano sulla guancia e fissò sconvolta il padre. «Tu dovresti essere la sorella maggiore.» continuò Trip. «E’ così che ti comporti? Cercando di

romperle il naso?» T’Mir abbassò le braccia lungo i fianchi. «Le mie scuse, padre.» disse, con il tono piatto che

aveva imparato da T’Pol. «Vorrei tornare a dormire ora.» Senza aspettare una risposta, uscì dal

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bagno e si rintanò in camera sua. «Cosa ci fai lì sulla porta?» T’Pol si girò verso Trip. «Guardavo la tavola apparecchiata.» Tucker lanciò uno sguardo interrogativo verso il tavolo. «Perché è apparecchiata per la cena?

Oh....» Realizzò di colpo. «No.... T’Mir aveva preparato.... e noi non abbiamo mangiato.» «Aveva messo anche una rosa in centro tavola.» disse T’Pol. Lui scosse la testa. «A volte mi chiedo come possano essere sorelle. E la zuffa di stanotte....» T’Pol guardò verso le porte delle camere delle ragazze. «C’è qualcosa di strano.» disse. «C’è

troppo silenzio.» Trip corse verso la camera di Izar e spalancò la porta. «No, merda.» disse. «Izar è scappata.»

Fissò la finestra aperta della camera in disordine. «Se non si presenta ai servizi sociali, la ripor-teranno al penitenziario.»

«Forse è quello che le serve.» disse T’Pol, ancora ferma sulla porta. «Non dire così, è pur sempre nostra figlia.... e sono preoccupato per lei.» T’Pol alzò lo sguardo su di lui. «Izar se la sa cavare sulla strada. Sono più preoccupata per

T’Mir.» Trip scosse la testa. «Cosa intendi?» La Vulcaniana camminò fino alla porta della stanza di T’Mir. La aprì lentamente. Tutto era in

ordine. Non un ordine perfetto come quello di T’Pol, ma l’ordine di una stanza vissuta e or-ganizzata per essere funzionale. Il letto era stato rifatto.

«D-dov’è T’Mir?» balbettò Trip. «Ciao.» Malcolm Reed sorrise alla giovane e si scostò per farla entrare. «Che ci fai qui a

quest’ora?» «Sono appena stata in Accademia.» disse T’Mir. «Rimarrò nei miei alloggi anche il week

end.» «E’ successo qualcosa?» T’Mir si buttò sul divano. «Non sopporto più Izar. Ha oltrepassato i limiti.» Malcolm si sedette accanto a lei e le sfiorò la mandibola con il dorso delle dita. «Riguarda

questo?» La ragazza annuì. «Anche.» Lui si sporse in avanti e le posò un bacio sopra il livido ormai evidente. «Va meglio, ora?» «Sì, ora va meglio.» Si girò e gli sorrise. «Cosa farei senza di te?» «Conteresti meno bugie ai tuoi genitori.» sussurrò lui. T’Mir rise. Si tirò su e si mise a sedere a cavalcioni sopra le sue gambe. Si chinò in avanti e

lo baciò, muovendo lentamente i fianchi contro i suoi. «Dobbiamo andare in Accademia, tra poco....» sussurrò lui, tenendo gli occhi chiusi. «Sei un capitano, cosa te ne frega?» Reed infilò le mani sotto la maglietta della ragazza. «Non dovrei essere più ligio al dovere di

altri?» T’Mir si tirò indietro quel tanto che bastava per aprirgli i pantaloni. «Faremo in fretta.» «Ciao Jonathan.» disse T’Pol, guardando l’immagine del suo ex capitano sullo schermo. «Per

caso Izar è venuta da te?» Archer sorrise leggermente. «E’ sul portico a parlare con Erika. Stavo per mandarvi un mes-

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saggio.» «Bene, almeno una l’abbiamo trovata.» Jonathan le lanciò uno sguardo interrogativo. «Almeno una?» «Sì, anche T’Mir se n’è andata. Senza lasciare detto nulla e questa è una cosa strana per

lei....» L’uomo lanciò un’occhiata a Erika Hernandez che stava parlando con la ragazza. «Izar mi ha

detto che avete fatto una.... “megalitigata”.» «Sì, ci sono stati dei problemi. Ma lei se la cava. Ho paura per T’Mir.» Archer le sorrise. «San Francisco non è una città così pericolosa, T’Pol.» «No. Non lo è.» rispose lei. «Ma vorrei comunque ritrovarla.» Lui lasciò andare un lungo sospiro. «Avete.... avete provato da....» Esitò un istante. Poi cam-

biò idea. «In Accademia?» «Ci è andato Trip. Per ora non l’ha trovata.» «Vedrai che andrà tutto bene.» replicò lui. T’Pol annuì leggermente e chiuse la comunicazione. Archer rimase a pensare per qualche istante, poi premette un pulsante sulla tastiera del ter-

minale e attese qualche secondo prima di vedere l’immagine di Malcolm Reed apparire sullo schermo.

«Ammiraglio.» disse lui, sorridendo. «Qual buon vento?» «Quante volte devo ancora dirti di chiamarmi Jonathan?» «Vecchie abitudini.» replicò lui. «T’Mir è da te?» Reed distolse lo sguardo per un istante, poi riportò l’attenzione sul monitor. «Non ora.... è

andata in Accademia, perché?» «Te l’ha detto che è scappata di casa?» Malcolm sospirò. «Ha omesso questo particolare, ma ha venticinque anni, più che una fuga

direi che è uscita di casa.» «Avvertirò T’Pol e Trip. La stanno cercando.» Lui esitò un istante. «Non credo che voglia essere trovata.» «Dirò loro solo che sta bene.» «Ma dai. Sai che questa cosa è ben strana. Un subspazio nel subspazio.» T’Mir tolse la cilie-

gina dal gelato e la mangiò per prima. Il vulcaniano dai capelli chiari sorrise. «Tuo padre non te ne ha parlato?» «M-mio padre?» balbettò lei. «Sì, il capitano Charles Tucker.» «Come fai a sapere che è mio padre? Voglio dire, io ho le orecchie a punta.» T’Mir prese un

cucchiaino di gelato alla panna. «Hai le sue stesse mani.» disse. «E gli assomigli.» «E la cosa non ti schifa?» «Perché dovrebbe? Sono anch’io mezzo umano.» Lui sorrise. «No.... Davvero?» T’Mir sorrise. «Sì, ma ho una madre umana e un padre vulcaniano.» «Non credevo ci fossero altri come me in giro.... a parte mia sorella.» «Hai una sorella?» T’Mir sospirò. «Sì.... Izar. Lei è.... è.... lei.... non è nella Flotta Stellare.» Il ragazzo sorrise. «Wow. La pecora nera.» «Surek....» Iniziò lei poi si interruppe. Sospirò.

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«Che c’è?» «Preferirei non parlare di mia sorella. Non mi godrei il gelato.» «Oh, ok. Ma.... se posso chiedere, perché? Il suo essere pecora nera è così sconcertante?» T’Mir rise leggermente. «No, è il suo essere una ragazzina di diciassette anni ad esserlo.» In-

dicò il livido sulla mandibola. «Wow.» replicò lui. «Ma.... quel livido è viola.» «E allora?» T’Mir riprese a mangiare il suo gelato. «Tu hai sangue rosso?» La ragazza annuì. «Io verde.» disse Surek. «L’ho ereditato da mio padre.» «Il medico di mia madre le disse che avevo ereditato il gruppo sanguigno da lei e la base fer-

rosa da mio padre.» «Questa cosa è ancora più strana del subspazio nel subspazio.» replicò Surek. T’Mir rise. «Confronti arance e mele.» «Le arance son più buone.» Allungò una mano e la mise delicatamente sopra quella di T’Mir. Lei lo guardò imbarazzata e rise a disagio. «Surek.... io vedo già una persona. Capisco che....

la nostra condizione di ibridi può sembrare.... ideale, ma....» Rise di nuovo e si sentì idiota. «Possiamo almeno essere amici.» «Sì, be’, ma.... non so se.... ecco, vedi la storia con questa persona è molto seria e....» «Non dirmi che è un Vulcaniano D.O.C., di quelli gelosissimi!» esclamò lui, ridendo. T’Mir scosse la testa. «Ma no, è un umano!» Surek alzò una mano. «Alt, alt. Ferma. E chi sarebbe quest’uomo che ha conquistato così

tanto il tuo cuore da farti arrossire di sangue rosso?» «T’Mir!» I due ragazzi alzarono lo sguardo quando sentirono il nome di lei. «Padre.» disse lei, tenendo il tono piatto. «Possiamo parlare?» T’Mir spostò lo sguardo su Surek. «Sto facendo una conversazione di piacere con un amico.»

disse. «Oh, non ti preoccupare. Ci rivedremo ancora.» Surek si alzò. «Le lezioni sono iniziate già

da un quarto d’ora, forse è meglio che vada.» Si rivolse all’uomo. «Signore.» Quindi andò via. «Mi stavo divertendo.» disse T’Mir. «Vorrei che tornassi a casa. So che hai fatto richiesta di restare in Accademia anche nei week

end e....» «Non tornerò a casa.» replicò lei. Trip sospirò. «T’Mir.... Sono.... mortificato per quello che è successo stanotte. Ti chiedo scu-

sa dal più profondo del mio cuore.» La ragazza finì di mangiare il gelato. «Mi chiedi scusa mandando via un mio amico?» «Il cadetto Surek sarebbe un tuo amico?» «Perché no?» «Stava tacchinando con te, non te ne sei accorta?» T’Mir poté sentire una vena di fastidio nel-

la voce di Trip. «E’ stato piacevole, per una volta tanto....» «Ti sei inventata anche la storia che stai con qualcuno per tenertelo lontano. E’ uno spacco-

ne, una testa calda.» «Forse è il caso che inizi anch’io a frequentare quel genere di persone. Così magari non mi

prenderei schiaffi da te.» Trip sospirò. «Ho sbagliato. Ma ero.... ero così arrabbiato quando ho visto che hai fatto san-

guinare il naso a tua sorella che....»

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«Sì, non m’interessa.» «Andiamo a mangiare la tua pasta?» disse Trip, con un sorriso dolce. «Io non torno a casa, padre. Forse la cosa non è chiara. Forse non hai curiosato abbastanza

nei miei files.» Trip scosse la testa. «Sì, lo so, non avrei dovuto farlo ma....» «No, anzi, avresti dovuto arrivare in fondo.» Prese il PADD che aveva accanto e lo spinse

lentamente verso di lui. «Fino all’ultima riga, dove dice che la mia richiesta di finire il tiroci-nio in missione è stata accettata.»

Trip si sentì crollare il mondo sotto i piedi. Non provava quella sensazione così fortemente da quando aveva visto la T’Mir dell’altro universo sulla nave xindi che stava sparando contro di loro. «L’Intrepid? E quando?»

«Due mesi.» rispose lei. «E’ stato un colpo di testa, ritira la domanda. Finirai il tirocinio in orbita e poi riuscirai ad a-

vere un incarico su una nave Enterprise.» «Forse non hai capito: io voglio andare sull’Intrepid, non m’interessa l’Enterprise.» Trip appoggiò il PADD e sospirò. «Vorrei che ci ripensassi. E che tornassi a casa, stasera.

Domani è sabato, possiamo parlarne anche con tua madre e....» «Io non voglio parlarne. La decisione è presa.» Lui chiuse gli occhi. «T’Mir, ti chiedo almeno di tornare a casa stasera.» La ragazza scosse la testa. «Sei proprio convinto che io me lo sia inventato un compagno,

per tenere alla larga Surek?» Trip la fissò. «C-cosa?» Una paura atroce gli prese lo stomaco in una morsa. «Suona strano, vero? Izar ha perso la verginità a quindici anni, con un Klingon, su una

spiaggia, e si è pure rotta una clavicola. Bene, dicono che sia di buon auspicio. E tutto questo è normale. Ma tu non riesci a credere che io, a venticinque anni, abbia una relazione con un uomo?»

Tucker distolse lo sguardo da lei. Il fattore “Klingon” gli era sfuggito. Quanto era stata brava T’Mir a tenere nascoste le magagne della sorella?

«Da sette mesi ho una relazione seria e solida con un uomo.» «Perché non ce ne hai mai parlato?» replicò lui. «Evidentemente non ero pronta per farlo. Izar ha priorità più alte.» Trip sospirò. «Capisco che tu possa essere arrabbiata. Ne hai tutte le ragioni. Ma non ti pare

di esagerare?» «No, non credo.» «Potevi presentarcelo, almeno.» Trip sfoderò di nuovo il suo sorriso. Questa volta fu T’Mir a sospirare. Si alzò e strappò di mano il PADD al padre. «E’ Malcolm.»

disse, prima di lasciare Trip solo al tavolo. Tucker la guardò allontanarsi, sentendosi un completo imbecille in stato di shock. «Quel fi-

glio di puttana....» sussurrò. T’Mir si tirò le coperte fino alle spalle. «Dimmi che non dovremo rinunciare al sesso.... Capi-

tano Reed.» Malcolm prese il bicchiere dal comodino. «Sarai una mia subordinata. Il regolamento della

Flotta è chiaro su questo punto.» Bevve un sorso di vino, quindi passò il bicchiere alla ragaz-za.

«Lo faremo di nascosto. Sempre meglio che stare un anno lontana da te.» T’Mir bevve dal bicchiere, quindi glielo rese. «Tanto ci siamo abituati.» Gli mise un gamba intorno ai fianchi. «Anche se credo che a quest’ora....» T’Mir rise.

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«A quest’ora?» «L’ho detto a Trip. Immagino che ora lo saprà anche T’Pol.» Malcolm la baciò sui capelli. «Credo che la catena si sia interrotta lì.» «Probabile.» Sospirò. «Sono a malapena riuscita a dire a Trip.... che invece di stare sempre

nel mio alloggio all’Accademia, un paio di volte alla settimana vengo qui da te. Riesco appe-na a.... fare l’amore con te con le luci soffuse.» Appoggiò la fronte alla sua spalla. «E mia sorel-la ha fatto sesso per la prima volta dieci anni prima di me, su una spiaggia. Perché sono co-sì.... così diversa da lei?»

Malcolm la fece sdraiare sulla schiena e la baciò sul collo. «Io preferisco te.» Il campanello suonò. T’Mir sbuffò. «Che rottura.» disse. Reed sospirò e si alzò dal letto. «Farò mettere un blocco fisico sulla porta del mio alloggio

sull’Intrepid.» Raccattò i vestiti e se li mise di corsa. Il campanello suonò di nuovo. «Un mo-mento, arrivo!» urlò. Andò in sala e guardò il monitor del videocitofono. Alzò gli occhi al cie-lo. «E’ Trip!» riferì a T’Mir.

«Oh merda.» sussurrò lei. Raccolse i vestiti dal pavimento e, velocemente, se li reinfilò. «Ciao. Che ci fai qui?» disse Reed, aprendo la porta. «T’Mir, è qui, vero?» chiese lui, senza dire altro. Malcolm chiuse la porta dietro di lui. «Pensavo che questa fase l’avessimo già superata una

trentina di anni fa.» «Perché sei venuto qui?» chiese T’Mir, uscendo dalla camera da letto. «Per proporvi di venire a cena da noi, stasera.» disse lui, tentando un sorriso incerto per

spingere in basso la rabbia e la gelosia che provava. Avrebbe voluto prendere a pugni Mal-colm. Come poteva fare una cosa del genere? T’Mir era la sua bambina! La sua piccola cuc-ciola adorata.

Si morse la lingua. T’Mir non era più una bambina. E aveva già preso a pugni Reed per aver fatto sesso con la T’Mir dell’altro universo. La ragazza alzò un sopracciglio e Malcolm le lanciò uno sguardo compiaciuto. «E’ stata un’idea di tua madre.» replicò Trip, lanciando un’occhiataccia a Malcolm. «Se hai

proprio scelto lui, non ci resta che prenderne atto.» T’Mir piegò lentamente la schiena fino a raggiungere le proprie caviglie. Incrociò le mani

dietro di esse e tenne la posizione. «Ehi.» La ragazza aprì gli occhi e, senza alzarsi, guardò chi l’aveva chiamata. «Ehi.» rispose. «Fai solo stretching?» chiese Surek, mentre alzava pesanti manubri. «No, non solo. Anche. Cosa ci fai qui?» Si alzò lentamente, tendendo le braccia verso l’alto. «La stessa cosa che fai tu.» T’Mir sorrise. «Io sto facendo stretching, davanti allo specchio controllo i movimenti.» «Io sono qui per farti compagnia.» Appoggiò a terra i manubri. «Sei qui tutta sola.» T’Mir non poté fare a meno di notare i muscoli perfettamente scolpiti del Vulcaniano, che si

muovevano in sincronia sotto la pelle abbronzata. «I miei amici dell’Accademia non frequentano molto la palestra.» disse lei. A parte Malcolm,

pensò, che però in quel momento era impegnato nella scelta dell’equipaggio dell’Intrepid. «Io sì.» replicò lui, abbassandosi per fare piegamenti sulle braccia. «Posso invitarti a prendere

un altro gelato?» «Magari un’altra volta.» T’Mir si sedette a terra e riprese a fare stretching. Una volta Izar le

aveva detto che, se voleva cuccare qualcuno dell’Accademia, poteva approfittarne in palestra.

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“Sdraiati sulla schiena, muovi lentamente le gambe e poi sempre con calma, divaricale pia-no.... fingi di fare stretching, in realtà fai le stesse mosse che faresti durante un amplesso.” T’Mir chiuse gli occhi e appoggiò la fronte al ginocchio. Non era in grado di far quelle mosse, nemmeno ora che finalmente l’aveva fatto. In quel momento nemmeno le interessava, ma si rese conto che era Surek a dare sfoggio di sé.

T’Mir sospirò e si alzò in piedi. «Devo andare. Ho una cena dai miei.» «Ciao.» disse semplicemente lui, sorridendole. «Non entriamo?» T’Mir restò a fissare la porta della casa per qualche secondo ancora. «Ok, andiamo.» disse,

ma non si mosse. «Ti offendi se dico che spero che non abbia cucinato tua madre?» «No.» replicò lei. «Credo che ordineremo la pizza. In caso contrario puoi sempre nascondere

i plomeek nel tovagliolo.» Quando entrarono e vennero accolti dai genitori di T’Mir, Reed poté notare ancora che gli

sguardi di Trip e T’Pol mascheravano disapprovazione e severità, gli stessi sguardi che aveva visto decenni prima, quando, senza saperlo, era andato a letto con la loro figlia dell’altro uni-verso.

La conversazione partì con una serie di banalità convenevoli fino al momento di ordinare la pizza.

Poi entrò in scena Izar. Quella sera si era truccata gli occhi pesantemente, con larghi tratti di

matita nera che facevano un netto contrasto con gli occhi azzurri, e si era messa un rossetto color sangue. Alcuni ciuffi di capelli le cadevano davanti agli occhi e l’abbigliamento era, come al solito, minimo.

Passò accanto a Reed guardandolo e sbattendo le ciglia, ma quando fece per sfregarsi contro di lui, Malcolm fu più svelto a ritrarsi per evita-re il contatto.

Izar gli era simpatica, ricordava anche quando era nata, anche se, per fortuna, in quel caso non aveva assistito al parto. Ma gli dava fastidio quel suo atteggiamento da predatrice.

T’Pol, che stava ordinando la pizza su un terminale, si rivolse alla fi-glia: «Allora Izar, tu come la vuoi?»

«Quattro salumi. Con salame piccante.» Sua madre lo sapeva che lo faceva solo per infastidirla. Finì di digitare

sul terminale, quindi disse: «Vieni ad aiutarmi a preparare la tavola.» Lasciarono Trip, Malcolm e T’Mir all’aperitivo in sala e si infilarono in cucina. Izar stese la tovaglia storta e T’Pol, passandole dietro, le tirò uno scappellotto sulla nuca.

«Ahia!» esclamò lei. «Non ti ho fatto male.» «No, ma non mi sembra il caso per una tovaglia storta.» «Non te l’ho dato per la tovaglia, ma per come ti sei atteggiata con Malcolm.» Izar sbuffò, iniziando a mettere i piatti sul tavolo. «Non posso sorridere a un uomo?» «Non in quel modo e soprattutto non se è il fidanzato di tua sorella.» «Non durerà.» T’Pol le tirò un altro schiaffo, leggero, ma pur sempre tale. «Ma cos’hai?!» esclamò la figlia. «Non sono stata abbastanza rigida con te, in passato, quindi devo esserlo ora.»

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Izar finì di apparecchiare. «Mi state ricattando.» «Lo facciamo per il tuo bene.» replicò T’Pol. «Allinea i piatti. Le forchette vanno a sinistra, i

coltelli a destra, con la lama verso il piatto. I bicchieri si mettono rovesciati.» «Ma è la stessa cosa.» «No, non lo è. E se non vuoi che t’imponga di imparare anche il galateo vulcaniano, cerca

almeno di imparare quello terrestre.» «E’ arrivata la pizza.» disse Trip, entrando in cucina con le scatole calde. Le appoggiò sul ta-

volo e diede un bacio sui capelli a Izar. «Mi aiuti?» «Ma ho già messo giù io la tavola.» Si scostò appena in tempo per non prendere l’ennesimo

scapaccione da sua madre. «D’accordo!» Si sedettero a tavola a mangiare e per qualche minuto nessuno parlò. Fu T’Pol a spezzare l’imbarazzante silenzio. «Allora, quando vi siete messi assieme?» «Circa sette mesi fa.» rispose T’Mir. «Quando c’è stata quella festa all’Accademia. Diciamo

che è stata un po’ la.... scintilla.» «Sì, anche se la paglia già c’era.» disse Reed. «Ma Malcolm, tu non hai trent’anni in più di T’Mir?» chiese Izar, sbattendo le ciglia. «M’aih ne ha trenta in più di Trip.» T’Pol diede un’altra sberla alla figlia minore, forte appena per farle alzare i capelli. «La fai fi-

nita?» Izar si massaggiò la testa istrionicamente. «Era pura curiosità.» «Mhm....» fece Reed, stentando a non ridere. «Non avevamo mai saputo l’età di T’Pol, ora la

so.» T’Pol trattenne a stento un sospiro. «Sapete,» T’Mir interruppe la conversazione che temeva diventasse pesante. «oggi ho cono-

sciuto un altro ibrido vulcaniano-umano.» «Davvero?» chiese Malcolm. «Pensavo che voi due foste le uniche.» «Ti piacciono gli ibridi, vero?» Izar gli sorrise e si passò la lingua sulle labbra lentamente. «-I tar na’ tu kroikah ish.-» le disse T’Pol. (Ti ho detto di smetterla.) T’Mir lanciò un’occhiata di traverso alla sorella. «-I tar na’ tu isha.-» (Anche io te lo dico.) Trip lanciò un sorriso verso Reed: «Cosa vuoi farci, ogni tanto capita che si mettano a parlare

in vulcaniano. Sono quasi tentato di portarmi sempre a dietro un traduttore universale.» «Sono segreti tra donne.» replicò T’Mir, sorridendo ai due uomini. «Che dicevi di questo ibrido?» chiese il padre. «Si chiama Surek. Suo padre è venuto sulla Terra e ha conosciuto una ragazza che gli piace-

va e ha avuto un figlio da lui. Però lei non lo voleva, e quindi lui se l’è riportato su Vulcano. Penso che la madre vulcaniana di Surek sia stata grandiosa, l’ha cresciuto come fosse suo.»

«E’ quel cadetto con cui eri seduta oggi al bar?» «Sì, proprio lui. E’ un ragazzo interessante. Mi ha detto che lui ha sangue verde.» T’Pol distolse lo sguardo di colpo dalla figlia, ma nessuno se ne accorse. Sentì il cuore strin-

gersi e ripensò a Lorian, quel loro figlio mai nato in quella linea temporale. «Pensa che il padre è un appassionato degli insegnamenti di Surak, per questo ha chiamato

il primo figlio Sarek e lui Surek. Sono stati in giro tanto per l’universo, come me.» Trip scoppiò a ridere. «Oddio, che fantasia. E la madre, era d’accordo sui nomi?» «Immagino di sì.» T’Mir gli sorrise. «Sai, sul tuo nome non abbiamo avuto molti dubbi. Era abbastanza ovvio che ti saresti

chiamata così.» «Non avevate pensato alla possibilità che T’Mir fosse un maschio?» chiese Izar. «No.» rispose Trip. «Abbiamo saputo che T’Mir era una femmina praticamente subito, quindi

non abbiamo pensato ad altri nomi. Io ho scelto T’Mir, il nome della vostra trisavola, e T’Pol

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ha scelto Elizabeth Tucker IV, il nome di vostra zia.» «E per Izar?» chiese T’Mir. «Anche per lei abbiamo aspettato di sapere il sesso. Le idee poi erano Izar, T’Les, T’Pau,

V'Lar.... e.... quali altri, T’Pol?» La Vulcaniana riportò l’attenzione su di lui. «Oh, io.... non ricordo.» «Alla fine abbiamo scelto Izar T’Pau.» «Mi sbaglio» intervenne Malcolm «o avete scelto quel nome perché quando è stata.... con-

cepita, eravamo nei pressi della stella Izar?» «Sì, è vero.» Trip sorrise alla figlia minore. «Izar è una stella doppia, con due componenti di

due colori diversi, arancione e azzurra. E’ così particolare che veniva chiamata “Pulcherrima”, cioè “bellissima”.»

La ragazzina sorrise al padre con uno sguardo sincero e dolce da bambina. Trip ricambiò il sorriso. «E’ stato bello....» S’interruppe. «Dopo Lorian.» concluse T’Pol, sottovoce. La stanza cadde nel silenzio per qualche istante, quindi fu proprio T’Pol a riprendere: «E

questo Surek.... che tipo è?» «E’ un allievo di sa-mekh.» disse T’Mir. «Di chi?» chiese Malcolm. T’Mir rise leggermente. «Scusa. Sa-mekh, è “padre” in vulcaniano.» «Lo “spaccone”?» chiese T’Pol. «Sì, lui. Ma guarda che a conoscerlo meglio secondo me è un bravo ragazzo.» «No, non lo è.» replicò Trip. «Cosa ne sai?» «Io lo vedo a lezione tutti i giorni. A te ha solo offerto un gelato.» Malcolm guardò T’Mir. «Un gelato?» T’Mir alzò gli occhi al cielo. «Tranquillo, non è il mio tipo.» T’Pol appoggiò delicatamente il bicchiere sul tavolo. «Malcolm, vorrei sapere che intenzioni

hai con nostra figlia.» «I-in ch-che senso?» balbettò Malcolm. «Trip mi ha detto che T’Mir si imbarcherà tra due mesi con te sull’Intrepid. Mi piacerebbe

sapere se è solo.... un’avventura o qualcosa di serio.» «Certo che è qualcosa di serio!» esclamarono assieme T’Mir e Reed. «Etteppareva.» disse Izar. «Figuriamoci se la sua storia non doveva essere seria.» Questa volta lo scappellotto che ricevette fu vero, ma lei non si lamentò, si abbassò sul piat-

to e riprese a mangiare la pizza. «Sai, Malcolm....» riprese Trip. «Il fatto è che.... come genitore ti preoccupi sempre di chi in-

contrerà tua figlia.» Lui sorrise. «Lo so, ma voi mi conoscete.» «Già, ma io ho cominciato a preoccuparmi che le mie figlie potessero incontrare il tizio sba-

gliato.... quando Phlox mi ha detto “è una femmina”. Ora.... comincio a preoccuparmi che T’Mir abbia trovato quello giusto.»

«Perché? Io.... insomma, non credo di dovermi.... guadagnare la vostra fiducia.» «Il punto è che.... se tu sei quello giusto, me la porterai via. E con te non sarà solo “m’aih,

papi, vado ad abitare in Australia”. Sarà “me ne vado in giro per la galassia a curvatura 10”.» «O 100, come dice Surek.» T’Mir gli sorrise e si sporse di lato per dargli un bacio sulla guan-

cia. Trip rise. «Tu sai sempre come sdrammatizzare.» «Parlava di curvatura 100? Com’è possibile?» chiese Reed. «L’idea è di creare un subspazio nel subspazio.»

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«Sì, per ora è fantascienza. Per ora.» Trip sorrise. Izar alzò gli occhi al cielo. «Oh, gente, non vi metterete a parlare di curvatura, ora, vero?» «No, non ti preoccupare.» disse T’Mir. «E Surek come ha questa idea? Se ho ben capito è al primo anno dell’Accademia. E’ figlio di

scienziati?» «No, il padre è un traduttore.» T’Pol la guardò con un sopracciglio alzato. «Suo padre è Skon?» «Sì, come lo sai, m’aih?» La Vulcaniana lasciò andare un leggero sospiro e si alzò da tavola. «In tutti questi anni che

questo libro è stato in giro....» Si diresse verso la libreria, quindi tornò con un consunto libro dalla copertina rossa con le scritte in oro e lo passò a T’Mir. «....non l’hai mai letto con ab-bastanza attenzione?»

T’Mir guardò sulla copertina, in basso c’era la scritta: “Tradotto dal Vulcaniano da Skon di Shi'Kahr”.

«Ops.» disse T’Mir. «Ti assicuro che comun-que questo libro l’ho letto.»

T’Pol annuì e le rivolse l’imitazione vulca-niana del sorriso materno. «E’ il figlio di Sol-kar, il primo ambasciatore vulcaniano sulla Terra.» Tornò a sedersi accanto a Izar e le por-se il libro. «Puoi iniziare a leggerlo, visto che in questi giorni hai molto tempo.»

La ragazza prese il volume e lo mise sul ta-volo senza aprirlo. «Sì, magari quando soffro d’insonnia.» Subito le arrivò un’altra pacca.

Trip lanciò uno sguardo di disapprovazione a T’Pol che lei ricambiò con uno di sufficien-za.

«Stavo pensando oggi che se devi ammettere qualche cadetto sulla nave, potresti prendere lui.»

«Ci penserò.» rispose Reed, non troppo con-vinto.

«E voi due? Come risolverete....» Trip s’interruppe. «Come risolverete la cosa tra voi due?»

«La “cosa”?» chiese T’Mir. «Sì, voglio dire.... il regolamento è abbastanza chiaro a proposito. Non sono ammesse rela-

zioni tra capitani e subordinati. E nel momento in cui T’Mir prenderà servizio sull’Intrepid di-verrà tua subordinata.»

«C’incontreremo di nascosto.» disse lei. «L’abbiamo fatto per sette mesi, continueremo così.» «L’Intrepid non è San Francisco. E’ un pochino più difficile passare inosservati.» obiettò Trip.

«Ve lo dico per esperienza, quando io e T’Pol facevamo neuropressione.... voglio dire, all’inizio, quando facevamo *solo* neuropressione.» Puntò l’indice contro Reed. «E tu sei sta-to uno dei primi a spettegolare.»

Malcolm tossì nervosamente. Non aveva mai detto a Trip quel che era successo quando a-veva ritrovato T’Pol su Dekendi Tre.

«Perché non risolvete la cosa in modo semplice, come ha fatto Shran con Talas?» disse la Vulcaniana.

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«Come?» chiese T’Mir. «Talas era una subordinata di Shran. Gli fece avance pesanti e lui poteva denunciarla o ce-

dere. Si mise con lei. Se vi sposate, il regolamento della Flotta Stellare non vi vieterà di stare insieme e, anzi, ci saranno meno possibilità che T’Mir sia trasferita altrove finito il tirocinio perché le coppie vengono tenute assieme.»

La ragazza si alzò e corse ad abbracciare la madre. «Ti adoro, m’aih.» disse lei. «Con la logica si sistema tutto.» Poi si girò verso Reed. «E tu sei d’accordo?» «Naturalmente sì.» rispose lui. «Allora devo chiedervi la mano di T’Mir.» Izar si alzò in piedi di scatto, sbattendo il tovagliolo sul tavolo. «Siete così sdolcinati che mi

fate vomitare.» Così dicendo uscì di corsa dalla cucina. T’Mir sospirò. «Che non ci sia una volta che mi rovina la festa.» Tornò lentamente a sedersi.

«Quando finirò il tirocinio mi chiameranno guardiamarina Tucker, non Reed, vero?» Malcolm rise: «Credo che sarà una tua scelta.» «Non ho niente contro il tuo cognome, ma ci tengo al mio.» Lui annuì. «Comprensibile.» «Be’, allora....» Trip alzò il bicchiere per fare un brindisi. «A T’Mir e Malcolm. Che siano fe-

lici tra le stelle.» T’Mir si fermò davanti alla porta della cucina e sbirciò all’interno. Stava per tornare a casa,

quando aveva notato la luce provenire dalla sala mensa dell’Accademia. «Ehi.» disse. Surek alzò lo sguardo e le rispose: «Ehi.» T’Mir si appoggiò allo stipite e restò a guardare il giovane per qualche secondo. «Che hai fat-

to stavolta?» Lui smise di sbucciare una patata e le refilò uno sguardo di traverso. «Sei venuta a infierire?» «No.» Camminò fino al tavolo accanto al quale Surek, appollaiato su una sedia alta, sbuccia-

va patate. Si sedette di fronte a lui e raccolse una patata e un coltello. «Non devi tornare a casa dai tuoi?» chiese lui, la sua voce scocciata. «Ti piacerebbe essere tra i cadetti che saliranno sull’Intrepid?» Surek lasciò andare una risata amara. «Falla finita.» «Tu dimmi che hai fatto ‘sta volta e io vedrò di mettere una buona parola con il capitano

Reed. Deve ancora scegliere gli ultimi cadetti.» Il ragazzo finì di sbucciare la patata che aveva già in mano quando T’Mir era arrivata. Lei

appoggiò vicino alle sue la terza. «Perché dovrebbe prendere me?» disse lui. «Sono un casini-sta, un rompipalle, creo solo danni a chi mi sta intorno e non ho la minima disciplina!» Sca-gliò la patata contro la parete opposta. L’ortaggio andò in pezzi, spruzzando il muro e il pa-vimenti di piccoli pezzetti gialli.

T’Mir, senza scomporsi, lo guardò alzando un sopracciglio. «Bene, ora mi toccherà anche pulire il pavimento.» «Non si direbbe che sei stato allevato da Vulcaniani, sai?» Surek sospirò. «Vattene.» «D’accordo. Ma sai, io potrei convincere il capitano a farti salire a bordo....» Appoggiò la

quarta patata sul piano del tavolo. «Ho molto ascendente su di lui.» «Permettimi di dubitarne, non riesci ad avere ascendente su di me.» T’Mir si avvicinò a lui e gli mostrò la mano sinistra, sull’anulare aveva un anello di fidanza-

mento: «Ci sposiamo tra due settimane.» Surek sbiancò di colpo. «Merda.» disse. «Scusa.... io....» Lei rise. «Non ce n’è bisogno.» Fece per andarsene, ma lui la bloccò: «Ti prego....» Indicò lo

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sgabello. «Resta qui.» «Solo se mi dici che cos’hai combinato.» «Be’, io.... niente di strano.» «Senti, abbiamo sintetizzatori di cibo e macchine che possono sbucciare queste patate in un

millesimo del tempo che ci metterai tu. Non venirmi a dire che non hai fatto niente.» Surek le lanciò un sorriso tagliente. «E quanto a te? Voglio dire, guarda come le sbucci bene.

Quante volte sei stata punita?» «Aiutavo il cuoco dell’Enterprise. Inoltre ho la manualità di mio padre.» Prese un’altra patata.

«E mi diverte.» «Ti diverti con poco.» Lei gli lanciò una buccia di patata addosso. Surek rise. «Non hai ancora risposto alla mia domanda.» Lui tornò serio. «Ne ho fatte tante.» «Ah, be’, allora non credo che il mio capitano ti vorrà a bordo.» «No! No, aspetta io.... ho.... ho chiesto a una professoressa di uscire con me.» T’Mir lo fissò con un mezzo sorriso. «Ok, le ho fatto avance abbastanza pesanti.» Lei continuò a fissarlo. «Molto pesanti.» «Sei un pirla.» replicò lei. «Insomma, chi te lo fa fare ficcarti sempre nei guai?» Surek appoggiò il coltello e la patata al tavolo, si asciugò le mani in uno strofinaccio e rac-

cattò il suo PADD dalla giacca. «Vediamo un po’....» T’Mir alzò un sopracciglio. «Se cerchi quante volte sono stata messa in punizione, ti troverai

male.» «Oh no. Non questo. Ma.... Vediamo. 2141, l’allora cadetto Charles Tucker III venne trovato

a infiltrare birra nel dormitorio dell’Accademia....» La ragazza scoppiò a ridere. «Hai hackerato nei record di mio padre?!» Lui le passò il PADD. «Sono molto interessanti.» Lei scosse la testa. «Non c’è bisogno che me li passi. Li conosco tutti: me li ha raccontati lui

stesso. Ma lui è mio padre, non sono io.» «No, infatti, purtroppo non ho trovato nulla né su di te, né su tua madre. O meglio, su tua

madre ho trovato appunti di insubordinazione all’Alto Comando Vulcaniano, il che sincera-mente per quanto mi riguarda sono pregi, non difetti.» Reinfilò il PADD nella giacca e riprese a sbucciare patate.

«Peccato che mia sorella non sia nella Flotta Stellare. Scommetto che ti batterebbe.» Gli sor-rise. «Ma torniamo a te. Chi era la prof?»

Surek esitò. «Ellie Bishop.» T’Mir lo fissò per qualche istante. «Proprio la Vergine di Ferro dovevi tacchinare?» Il ragazza sbuffò. «Non sapevo che fosse vergine.» Lei rise. «Non so se lo sia davvero. Ma la chiamano così.» «E’ una bellissima donna.» «Non lo metto in dubbio, ma non è la tipa che accetta le avance. Dammi il PADD.» «Perché?» «Tu dammelo.» Surek scrollò le spalle e le passò il terminale. «Vediamo.... non è la prima volta che finisci nei guai per aver fatto proposte indecenti.» «Che fai, violi la mia privacy?» chiese Surek. «Senti chi parla.» replicò lei, proseguendo a leggere. «Ma questa è la prima volta che fai

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avance a un’insegnante.» Surek finì di sbucciare una patata e guardò il mucchio che ancora doveva pelare. Non ne

mancavano molte, ma era stufo. T’Mir riprese: «Sai, un tempo anche mio padre e il mio futuro marito si divertivano a tacchi-

nare. Ma non si mettevano nei guai per le donne. Be’.... a parte quella volta su Risa.... ma quella non conta, non erano donne.»

Surek le strappò il PADD dalla mano. «Tu non sai cosa vuol dire.» «Cosa vuol dire cosa?» chiese lei, appoggiando i gomiti al tavolo. «Essere schifato da tutti. E soprattutto da tutte. Sei un ibrido, hanno paura a starti vicino. A

maggior ragione a stare con te.» «E’ stata dura anche per me, i primi anni.» «Sì, ma l’anima gemella l’hai trovata, alla fine. E poi, tu sei una femmina!» Lei alzò un sopracciglio: «E con questo che vuoi dire?» «Noi maschi siamo animali. Non c’importa di chi abbiamo nel letto. Invece voi femmine....

siete raffinate, non.... non vi va di stare con chiunque pur di starci. E quindi.... e quindi uno come me viene schifato.»

T’Mir lo fissò per un istante, poi prese un’altra buccia di patata e gliela tirò dritta nel petto. «Ma piantala di fare la vittima.»

Lui la guardò a bocca aperta. «La “vittima”?» «Sì, “io sono poverino, sono un ibrido, nessuno mi calcola”.» «Ma....» «Forse se ci mettessi un po’ di cuore nelle tue relazioni riusciresti a stare con una ragazza.»

T’Mir si alzò in piedi. «Invece ti comporti come un divo del cinema hard in pubblico e ti piangi addosso perché non sei mai stato con nessuna.»

Surek rimase a fissarla, mentre lei parlava. Aveva voglia di cacciarla via. Prese una manciata di bucce e gliela scagliò addosso. «E tu sei stronza!» «Senti chi parla.» Replicò lei, rendendogli le bucce. «Sei tu che offendi!» esclamò lui e, presa la prima cosa che gli capitò sotto tiro, gliela scagliò

contro. T’Mir si abbassò in tempo per non prendersi una patata. Lo guardò stupita: «Vuoi la guerra?!»

esclamò. «L’avrai!» Raccolse uno strofinaccio e lo scagliò dritto in faccia. «Questa è la mia punizione, non la tua!» esclamò Surek, raccogliendo un’altra manciata di

bucce e scagliandogliele addosso. «Ma quanto sei stronzo!» urlò lei e, raccogliendo una bottiglia d’acqua frizzante, la sbatté e

l’aprì contro il suo nemico improvvisato. «Oh, no, smettila, cazzo!» Surek prese un barattolo dallo scaffale dietro di lui, lo aprì e lan-

ciò il contenuto verso T’Mir. Una nuvola bianca si sparse nell’aria quando la farina uscì dal barattolo e andò a coprire il tavolo, T’Mir e lo stesso Surek.

La ragazza, ridendo, raccattò una pallina di pasta per il pane, posta a lievitare su un tavolo della cucina, e gliel’ha scagliò contro, prendendolo in piena spalla.

«Ehi, questo faceva male!» disse lui, ridendo. Si staccò la pasta appiccicosa dalla divisa e la riscagliò indietro verso T’Mir, prendendola sui capelli. Surek aprì il rubinetto del lavandino e sfilò il tubo, dirigendolo verso l’avversaria.

«Ma sei stronzo!» urlò lei. «E’ gelida!» «Oh, mi scusi, miss “ibrido perfetto”.» T’Mir gli si buttò contro e lo tirò a terra. «E tu signorino “son bravo solo io ma non batto un

chiodo”, sei tanto stronzo quanto ibrido! Dovresti provare a tacchinare una Klingon!» «MA CHE DIAVOLO SUCCEDE QUI?!» T’Mir si tirò subito in piedi, cercò invano di raddrizzare la divisa e ripulirla. «Ammiraglio

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Gardner....» disse lei, arrossendo. «Mi volete spiegare?» «Io.... ho.... stavo....» «E’ colpa mia.» disse Surek, rimettendosi in piedi. «Ho.... irritato il guardiamarina Tucker e

poi.... e poi ho iniziato a lanciare bucce.» «E cosa ci faceva lei qui, guardiamarina Tucker?» «Ero venuta a.... a fraternizzare con un collega, e a.... dare una mano a sbucciare le patate.» «Sapeva che quella del cadetto Surek era una punizione?» «Sissignore.» replicò lei. «Ma volevo fare solo due parole con lui e.... sono abbastanza brava

a sbucciare patate.» «Mi rincresce solo che siano quasi finite.» replicò lui, con tono duro. «Perché altrimenti avrei

fatto in modo di inchiodare qui entrambi a sbucciarle per tutta la notte.» «E’ stato un grave errore, signore, non si ripeterà più.» replicò T’Mir. «I vostri superiori saranno informati. E ora ripulite tutto.» L’ammiraglio girò sui tacchi e se ne

andò. T’Mir guardò Surek sorridendo. «Al lavoro.» «Vaffanculo.» replicò lui. «Se non era per te avrei quasi finito.» «Se non era per me, ne avevi ancora più di trenta da sbucciare. E poi se tu che hai tirato la

farina.» Surek raccolse una scopa con rabbia. «Merda! Questa cosa rimarrà sul mio stato di servizio

per chissà quanto tempo.» «Falla finita di lamentarti.» Raccolse uno spazzolone. «Rimarrà anche sul mio e questo non

mi spaventa.» «Per forza, hai un curricolo immacolato!» «Appunto: una macchiolina su foglio bianco si nota di più di una su un foglio pieno di

chiazze.» Surek rise. Rimasero a pulire per diversi minuti finché, quando ormai avevano quasi finito,

la porta della cucina si aprì di nuovo. Istintivamente, senza di preciso sapere il perché, si ab-bassarono insieme a nascondersi dietro il tavolo.

«T’Mir!» La ragazza si tirò in piedi di scatto. «Padre.» Surek rimase accucciato. «Che cosa è successo?» «Be’.... ho.... sono.... io.... be’, insomma lo vedi da te come ho conciato questa cucina.» «Surek, venga fuori di lì.» rispose Trip. «So benissimo che questa cosa non l’ha fatta da sola

T’Mir.» Il ragazzo si alzò lentamente, senza guardare Trip negli occhi. «Signore, mi dispiace.... è tut-

ta colpa mia, ho iniziato io.» «Lasciamo perdere questa stronzate.» disse Trip. «Si può sapere cosa vi è saltato in testa?» Surek lanciò uno sguardo a T’Mir. Si era reso conto solo allora che, fino al suo trasferimento

sull’Intrepid, Tucker era ancora il superiore di T’Mir, oltre che il suo. «Abbiamo avuto un piccolo scontro.» disse lei. «E il motivo?» «L’ho insultato.» replicò T’Mir. «No, mi ha solo.... fatto ragionare.» Tucker si avvicinò alla figlia e Surek ebbe la tentazione di scappare. Rimase fermo, rigido,

con una decisa e profonda paura. Era passato per quella strada troppe volte con suo padre e, anche se sapeva di avere il doppio della forza di un umano, non poteva certo difendersi a pu-gni.... altrimenti avrebbe dovuto dare l’addio alla Flotta Stellare. In ogni caso, come maschio,

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aveva il dovere di difendere T’Mir. Ma avrebbe potuto prendersi a pugni con il capitano Tu-cker? Come sarebbe finita la cosa se, per difendere una compagna, avesse aggredito un supe-riore?

«Lotta di pasta di pane?» chiese lui, togliendo un pezzo di pasta dalla divisa di lei. T’Mir annuì. Tucker guardò per qualche secondo Surek, poi riportò l’attenzione sulla figlia. Era sporca di

farina e pasta di pane e aveva anche dei pezzi di buccia di patate tra i capelli. Trip scoppiò a ridere e strinse a sé la figlia. T’Mir si unì a lui nella risata e ricambiò subito l’abbraccio. Surek rimase a guardare sconvolto a bocca aperta padre e figlia che si scompisciavano dal

ridere. E lui che si era aspettato che Tucker - come minimo - tirasse alla figlia uno schiaffo! Trip la baciò sulla guancia. «Devo dire che attendevo con ansia questa macchiolina sul tuo

statino. Finalmente qualcosa fuori dalle righe.» «Non è la prima volta.» disse lei. «Ai tempi non eri nella Flotta. E poi è stata colpa mia.» Si girò verso Surek: «Perché non vie-

ne a cena da noi, stasera? Così parliamo un po’.» «M’aih.» disse T’Mir entrando in sala. T’Pol lasciò il libro sul divano e saltò in piedi, andando velocemente verso i tre appena en-

trati. «T’Mir, cos’hai fatto?» chiese. «Niente che non abbia già fatto.» replicò lei. «Stai tranquilla, non è niente di grave.» «Hai della farina tra i capelli.» fece lei. Poi alzò lo sguardo su Trip. «Ancora?» «Questa volta io non c’entro.» rispose Trip, baciandola sulle labbra. «Ho invitato a cena il

cadetto Surek. Spero sia ok per te.» T’Pol annuì senza dare troppa importanza alla cosa, ma restando a fissare quanto fosse con-

ciata la divisa di T’Mir. Il ragazzo avanzò lentamente. «Signora.» salutò lui, un netto colorito verdognolo gli tingeva

le guance. T’Pol lanciò uno sguardo di traverso a Trip, che le sorrise. «Vieni, Surek, ti faccio vedere

dov’è il bagno, per darti una sistemata. Ti presterò dei miei vestiti, dovrebbero andarti bene.» «Signora Tucker, questa zuppa di ploomik è ottima. Mi ricorda quella di mia madre.» disse

Surek. «In che città è nato, Surek?» gli chiese T’Pol. «Qui.» disse lui. «A San Francisco.» «Ah, sei tu l’altro ibrido.» disse in tono piatto Izar, che fino a quel momento lo aveva ignora-

to. «Sì, e da quel che ne so anche tu.» Izar lo guardò storto da sotto i ciuffi neri e continuò a mangiare. «Non ricordo la mia madre terrestre. Non mi ha voluto tenere, così sono cresciuto a bordo

della nave di mio padre.» T’Mir sorrise. «Anch’io sono cresciuta a bordo di una nave, per lo meno per i primi dieci

anni. Un’esperienza stupenda.» Surek non rispose, abbassò lo sguardo sulla zuppa di plomeek e riprese a mangiare. «Oh.... scusa, ho toccato un tasto dolente?» Surek le sorrise leggermente. «Be’.... mio padre era molto severo con me. Aveva.... paura

che il mio lato umano prendesse il sopravvento.» Non osò guardare Trip in faccia.

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«Un po’ come quando oggi avete fatto la lotta a pasta di pane?» chiese lui, ridendo. T’Pol sospirò leggermente. «Signora, è stata colpa mia. Ho iniziato io.» disse subito Surek. «Immagino che T’Mir non abbia lasciato la stanza, quando ha iniziato.» «No.» disse la ragazza. «Anzi, in realtà ho iniziato io con le bucce di patate....» «E non è la prima volta.» replicò la Vulcaniana. T’Mir le sorrise. «E dai, m’aih.... avevo dieci anni.... ne sono passati quindici, non puoi la-

sciar cadere la cosa?» T’Pol alzò un sopracciglio. «C-che cosa?» chiese timidamente Surek. Fu Trip a spiegare: «Un giorno io e T’Mir ci siamo messi a fare una lotta con la pasta di pa-

ne.... nella cucina dell’Enterprise. Fu una delle poche volte che il capitano Archer si è davve-ro adirato con noi.»

«Un ufficiale superiore non dovrebbe fare certe idiozie.» disse T’Pol. «Fatto sta,» continuò T’Mir. «che Jonathan non degradò Trip a guardiamarina giusto perché è

un ingegnere troppo bravo.... ma passammo le due settimane successive confinati in cucina a sbrigare le faccende più infime....»

«Però ci siamo divertiti un mondo.» finì Trip. «Il capitano Archer è stato troppo indulgente.» disse T’Pol. «E se facessi io una cosa del genere?» chiese Izar. «Non ci provare nemmeno!» esclamarono T’Pol e Trip contemporaneamente. «Perché T’Mir può farlo e io no?» «T’Mir l’ha fatto nella cucina dell’Accademia e ne ha subite le conseguenze.» rispose Trip. Izar sospirò. «-Kroihkah.-» disse T’Pol in vulcaniano. “Smettila.” «Vorrei fermarmi a dormire qui, stanotte.» disse T’Mir. «Malcolm è in orbita e non ho voglia

di stare a casa da sola.» «Sei fuori di testa? La tua stanza l’abbiamo subaffittata.» replicò Trip, mentre T’Pol gli lancia-

va uno sguardo interrogativo. T’Mir gli sorrise. «Lo sapevo che non avresti fatto una piega.» Trip tirò la figlia verso di sé e le diede un bacio sui capelli. «Non vedevo l’ora che tornassi.

Mmhm.... Profumi di pasta di pane.» T’Mir scoppiò a ridere. «Però non siete stati gentili. Potevate invitare anche me.» continuò Trip. «Dai, un giorno pro-

grammiamo una bella incursione in cucina e facciamo una partita a cinque.» T’Pol alzò un sopracciglio. «Vorrai dire a quattro. Io da questa cosa mi tolgo subito. Anzi a

tre, tolgo anche Izar.» «M’aih!» esclamò lei. «Izar, rimanderemo tra un anno: allora io sarò tornata dalla missione sull’Intrepid e tu sarai

maggiorenne. Così potrai partecipare.» La giovane sorrise alla sorella come non faceva da giorni. Erano di nuovo complici. T’Pol sospirò. «Lasciamo perdere.» Si alzò per portare in tavola il secondo. «Sei vegetariano,

Surek?» «Non più.» disse lui. «I miei mi hanno costretto a una dieta vegetariana, ma ora l’ho abban-

donata.» «Erano molto rigidi, i tuoi.» disse Izar. «Sì, mio padre diceva che, come ibrido, dovevo esaltare la mia essenza superiore. E quindi

tutte le volte che uscivo dalle righe, venivo punito severamente.» «Mi ricorda qualcuno.» disse Izar, guardando sua madre.

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Trip e T’Mir scoppiarono a ridere. «Ma piantala!» esclamò Trip. T’Pol alzò un sopracciglio verso la figlia minore. «Ultimamente!» spiegò la ragazza. Trip si girò verso T’Mir e le diede uno schiaffo come quelli che T’Pol era ormai solita dare

alla figlia minore. «T’ho fatto male?» «Ma se non l’ho neanche sentito?» disse lei, senza scomporsi. Non era la prima volta che su-

biva lei qualcosa per prima, per dare il buon esempio alla sorella. Ricordava le vaccinazioni. Izar aveva uno strano terrore verso gli ipospray, anche se erano praticamente indolori. Fortu-natamente, a differenza di T’Mir, Phlox aveva trovato un anestetico per la ragazza.

Izar atteggiò il broncio per qualche secondo, poi scoppiò lei stessa a ridere. «E’ tardi.» disse T’Pol. «Perché non si ferma a dormire, Surek? Non abbiamo la camera degli

ospiti, ma il divano è molto comodo.» Surek arrossì (o meglio, inverdì) leggermente. «Be’.... grazie.» «Merda!» esclamò Izar e subito si prese uno scapaccione dalla madre. «Ho tirato i fili delle

collant con qualcosa qui sotto!» si spiegò. «Non è un buon motivo per dire parolacce.» rispose T’Pol. T’Mir si alzò e andò a vedere su cosa Izar si era impigliata. «C’è una vite che esce, vado a

prendere un cacciavite....» «NO!» esclamarono Trip e T’Pol assieme. «Lascia stare le viti! Ci penso io.» completò Trip,

uscendo dalla cucina. T’Mir guardò sua madre con gli occhi sgranati. «Che ho fatto ora?» «Tu nulla. Tuo padre alla tua età distrusse un tavolo.» Lei alzò uno sopracciglio. «Da quand’è che in questa casa i peccati del padre ricadono sulla

figlia maggiore?» «Vuoi restare confinata nella tua stanza per un mese?» chiese Trip, abbassandosi ad avvitare. «No....» replicò lei. «E poi tra due settimane mi sposo.» «Ok, allora tieni le mani lontane dalle viti dei tavoli.» replicò lui. «Guarda che parlavo sul serio, quando ho detto che ti avrei ceduto il mio letto.» disse T’Mir

portando in sala un cuscino e una coperta. «Ma figurati, sarebbe da cafone per un maschio rubare il letto a una fanciulla.» Surek le sor-

rise. «Ti volevo ringraziare.» Lei scosse la testa. «Non è usanza vulcaniana, non te ne preoccupare.» «No, ma è usanza terrestre. Sono stato davvero bene stasera.» Fece una smorfia. «Anche se

devo ammettere che ho provato un po’ di invidia.» «Per cosa?» fece lei, sedendosi sul tavolino di fronte a lui. «Siete una famiglia fantastica.... io.... non ho mai avuto il rapporto bello che tu hai coi tuoi

genitori. Anche con T’Pol. Sai, posso capire che mia madre non mi amasse molto. Lei strave-deva per Sarek.... ed è comprensibile. Però lei quando mi picchiava, lo faceva con la mano, perché così sentiva quanto poteva proseguire.»

T’Mir sospirò. «Mia madre non mi ha mai picchiato.» disse. «Neanche una volta, nemmeno quelle finte sberle che ora dà Izar.»

«Mio padre usava un bastone.» T’Mir rabbrividì. «Che stronzo.... Scusa.» «No, hai ragione. E tuo padre?» «Due volte. Una stasera, per finta, una.... qualche giorno fa. Ma non mi ha fatto male. Be’,

l’altro giorno in effetti ci sono rimasta male, ma non posso dire che di aver provato dolore fi-sico. Una volta, da piccola.... avevo circa sei anni....» Rise. «Mi ha sparato con una pistola

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phaser.» Surek sgranò gli occhi. «Lui? Ti ha sparato?!» «Sì, avevo un braccio rotto e il medico non riusciva ad anestetizzarmi. Mio padre sperava

che di potermi stordire con il phaser. Ma non ha funzionato. Mi ha lasciato una bruciatura.» «Come ti sei rotta il braccio?» T’Mir alzò la manica del pigiama, mostrando una cicatrice. «Sono caduta in palestra.» Surek girò il braccio e le mostrò una cicatrice più o meno nella stessa posizione di quella di

T’Mir. «Ma dai.... anche tu ti sei rotto un braccio?» «Precisamente me l’ha rotto mio padre. Frattura esposta mentre m’insegnava il tal-shaya.» «Dovrebbe essere una disciplina non violenta, anche io l’ho appresa. Naturalmente da mia

madre. Malcolm mi ha insegnato l’autodifesa terrestre. E qualche mossa klingon.» Surek rise. «Sì, non è violenta, ma il fatto che io non volessi dargli molta retta faceva diven-

tare violento lui.» T’Mir gli mise una mano sulla spalla. «E’ per questo che sei entrato nella Flotta? Per allonta-

narti da lui?» Lui sospirò. «Be’, in parte per questo. In parte perché.... sono un idiota.» Lei scrollò le spalle. «Non posso darti del tutto torto.» Surek rise. «Sì, ma.... è che nonostante tutto continuo a cercare figure forti di riferimento. Ed

è per questo che mi piace la tua famiglia. Sono forti.... tutti, anche Izar. Ma c’è anche un tale affetto che non ho mai visto.»

T’Mir annuì. «Sai, anche mia madre sa essere molto affettuosa. Anche se non lo dimostra in giro, in casa è.... incredibile, ci sono dei momenti in cui mi sembrava una terrestre. Da picco-la, poco prima che nascesse Izar, mi abbracciava spesso, mi cullava. Mi teneva stretta a sé per ore, mi accarezzava, mi coccolava....»

«E’ cambiato molto da quando è nata Izar?» T’Mir scosse la testa. «No.... be’, un po’ sì, ma non tanto. Ero più io che avevo deciso di at-

teggiarmi da grande, ma spesso e volentieri m’infilavo nel loro letto, la mattina presto, in cer-ca di coccole.... e anche mia madre ne dispensava. Penso che a un certo punto abbia avuto paura di perdermi e quindi mi teneva stretta a sé il più spesso possibile.»

Il ragazzo le sorrise. «Io.... quando ti ho visto la prima volta, quel giorno dopo la lezione di tuo padre, non pensavo ad altro che....» Rise, a disagio. «A portarti a letto. Pensavo che un al-tro ibrido non avrebbe.... Sì, vabe’, insomma, fatto sta che ora.... ora mi piace il fatto che tu sia mia amica.»

«Non hai molti amici, vero?» Lui scosse la testa. «Ti lascio dormire.» disse T’Mir. «Ci vediamo domattina.» «Ehi, cos’è la storia del tavolo?» T’Mir rise. «Ah.... è una bricconata di mio padre che non conoscevo. Tolse le viti al tavolo

da pranzo dei miei nonni. Rimase in piedi finché non ci misero il tacchino.» Surek scoppiò a ridere. «Grandioso!» «Fermati!» La voce proveniva dalle sue spalle, dura e adirata. «Fermati o questa volta ti ammazzo sul serio.» Doveva continuare a correre. Doveva infilarsi nella stiva di prua, quella dove c’era così tanta

merce che nessuno l’avrebbe scovato. Nessuno l’avrebbe più picchiato perché non era all’altezza della sua perfezione di ibrido.

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Aprì le porte e si trovò davanti una figura imponente. «Padre.» sussurrò. L’uomo lo spinse contro il muro. «Ti pentirai di essere scappato quando la pelle si spacche-

rà.» Surek iniziò a urlare. Sentiva la stretta di grandi e forti mani sulle spalle, che non volevano lasciarlo andare. Si muoveva, per cercare di liberarsi, ma la stretta era forte.... «Svegliati!» Il dolore era forte. «Svegliati, Surek!» Troppo forte. «SUREK!» Il ragazzo aprì gli occhi e si ritrovò di fronte Trip Tucker. «C-capitano?» balbettò. «Era un sogno.» Tremando, sussurrò: «Era un ricordo.» «Calmati ora. E’ finita. Qualsiasi cosa fosse è finita.» Trip lasciò che il ragazzo si appoggiasse

alla sua spalla. «Va meglio?» chiese dopo qualche secondo. Lui annuì. «Mi scusi.» disse, tirandosi indietro. «Mi scusi, capitano. Le chiedo perdono, devo

averla svegliata.» «No, stavo andando a bere un po’ d’acqua. Non stavi urlando. Eri solo molto agitato.» Surek tirò su col naso. «Che è successo?» Lui scosse la testa. «Niente. Solo un ricordo.» Trip gli batté una mano sulla spalla. «Vieni, andiamo bere qualcosa.» Andarono silenziosamente in cucina e Trip e mise un bicchiere nel distributore. «Latte caldo

zuccherato. Tu cosa vuoi?» «E’ perfetto il latte anche per me. Grazie.» Trip gli passò il bicchiere caldo. «Concilia il sonno. Ci vuoi una goccia di cognac?» Surek sorrise e scosse la testa. «No, grazie. Non bevo alcolici.» «Davvero?» Lui annuì. «Non voglio perdere il controllo di me stesso.» «Buona idea.» Trip bevve un sorso di latte. «Sei sicuro di star bene?» Surek si accorse che stava ancora tremando leggermente. «Sì.... sto bene.» disse. «Solo che....

i sogni che coinvolgono mio padre sono spesso molto angoscianti.» Trip pensò che cambiare discorso sarebbe stato meglio. «T’Mir mi ha detto che ti ha propo-

sto al capitano Reed per l’Intrepid.» «Sì. E’ stata gentile.» «Ti consiglio di accettare. Se io avessi potuto fare l’addestramento su una nave....» «Non oso pensare dove sarebbe potuto arrivare!» disse Surek. Trip rise. «Forse avrei fatto carriera più velocemente.» «Ancora di più?» Surek sorseggiò il latte. «Mi scuso per come mi sono presentato a lezione.

Facevo il cafone per darmi sicurezza.» «Tranquillo.» rispose lui. «Devo ammettere che alcune tue teorie non sono male. Anche se io

non sono un teorico, dovresti parlarne con T’Pol. Io sono un meccanico, in fin dei conti. E anche T’Mir.»

«E Izar?» «Izar è un’artista.» Trip si alzò in piedi, finendo di bere il latte. Indicò un quadro appeso ac-

canto alla finestra. Ritraeva la Nebulosa Centauro, la NGC5128, ma le ombre erano modifica-

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te in modo che nella luce delle stelle apparisse il volto di T’Mir. «E’ molto bello.» disse Surek. «T’Mir adora quella galassia. Ricordo che non perdeva occasione per guardarla quando era-

vamo sull’Enterprise e poi anche qui, a San Francisco. Una sera la fece vedere col suo tele-scopio alla sorella.... Izar avrà avuto.... dodici, tredici anni. Un’incredibile talento. Non so da chi l’abbia preso. Non credo dalla parte di T’Pol, forse dalla mia, mia sorella era un’architetto, disegnava bene.... anche se era brava soprattutto nel disegno tecnico. Izar ha.... un dono per il disegno artistico.»

«Capitano.... ha ragione. Spero che il capitano Reed mi dia l’incarico.» Surek finì di bere il suo latte e mise il bicchiere nella lavastoviglie. «Per lo meno potrò avere vicina T’Mir.... e sarà un po’ come essere qui.»

«Qui?» Surek annuì. «Non mi ero mai sentito così bene. Come fossi davvero a casa....» Rise, a disa-

gio. «Sarek non è.... non è mai stato lontanamente in anni quel che è stato T’Mir in questi giorni, per me.»

«Devi capirlo, è Vulcaniano.» «Lei ha sposato una Vulcaniana.» «Ti sorprenderebbe vedere cosa una mente così elevata può fare a contatto di un umano.»

Trip sorrise. «Logica e passione fuse insieme arrivano molto più in alto che da sole.» Surek sorrise, ripensando agli avvenimenti della sera precedente: «Una.... lotta con la pasta

di pane. Quando mai abbiamo fatto cose del genere, nella mia famiglia? Mi prendevano a botte tutte le volte che uscivo dai loro schemi.... e lei, capitano, abbraccia sua figlia, ridendo e festeggiando, perché lei ha fatto qualcosa di.... sbagliato.»

«Io sono umano.» disse Trip, sorridendogli. «Sì, ma sua moglie no. Eppure quando T’Mir è tornata a casa sporca di pane, l’unica cosa

che ha fatto è stato.... alzare un sopracciglio. E anche con Izar.... T’Mir mi aveva detto che è un periodo che siete molto duri con lei, per riportarla sulla giusta via.» Scosse leggermente la testa. «Se quello è essere duri, non saprei definire mio padre.»

«Sai, un anno prima della nascita di Izar, mia moglie perse un figlio maschio. L’avremmo chiamato Lorian, se fosse nato. Avrebbe più o meno la tua età.»

Surek abbassò lo sguardo. «Avrebbe voluto un figlio maschio?» «Non posso negarlo. Ma al momento, T’Mir e Izar sono la cosa più preziosa che ho al mon-

do e se, come ha detto T’Pol ai tempi, il sacrificio di Lorian è valso la vita di T’Mir, e poi quel-la di Izar.... va bene anche così.»

«Sono fortunate ad averla come padre.» Trip sorrise. «E io ad avere loro.» Tornarono lentamente in sala. «Se per qualche motivo non

andrai sull’Intrepid, ricordati che qui sarai sempre il benvenuto. Magari potremmo dare un’occhiata a quella tua teoria sul subspazio nel subspazio.»

Surek sorrise: «Grazie, capitano.» T’Mir ritrasse il saldatore laser e reinfilò i cavi nello scomparto, quindi chiuse il portello.

«Fatto!» gridò. Il capo ingegnere si sporse dalla passerella dei motori e disse: «“Fatto” cosa?» T’Mir si tirò in piedi e lo guardò. «Quello che mi aveva chiesto. Ho sistemato i cavi di cali-

brazione laterali. Cosa dovevo fare, signore?» «E’ scesa là sotto dieci minuti fa. Come ha fatto ad aver già finito?» La ragazza infilò il saldatore e gli altri strumenti che aveva usato nella cassetta dei ferri. «Be’,

era una calibrazione di routine.»

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«Sì, ma....» L’ingegner Carter fece scorrere le mani velocemente sulla consolle per controlla-re. «Li ha portati al 110%. Come diavolo ha fatto?»

«Era colpa di una saldatura fatta male. In effetti non sono facili da fare le saldature su quei cavi, basta sbagliare di un micron e metà dell’impulso luminoso va perso.» Salì sulla passerel-la. «Come le sembra?»

«Mi chiedo se suo marito non abbia scelto il capo ingegnere sbagliato.» bofonchiò sottovo-ce.

«Sono solo un guardiamarina, comandante. Ne ho di strada da fare.» «Non direi così, ma.... che dire? Meglio.» «Converrebbe ricalibrare la commutazione laterale su questo valore, in modo che se ci do-

vesse essere un difetto di saldatura lo sapremmo subito.» «Lei ha studiato con suo padre sull’Enterprise, vero?» chiese Carter, mentre faceva come lei

aveva proposto. «Sì, esatto. Fino a dieci anni, poi sono stata a due normalissime scuole di San Francisco.»

Sorrise. «Scuola Elementare Jonathan Archer e Scuola Media Jonathan Archer. Ma mio padre mi ha sempre insegnato tanto.»

«E si vede.» Carter le sorrise: «Sono contento di averla nella mia squadra.» «A cosa stai pensando?» Malcolm spostò lo sguardo sulla moglie, distesa nuda, sotto le lenzuola, accanto a lui. Pote-

va sentire il calore del suo corpo, caldo e umido. «A niente.» Non era vero. «Non devo farti una fusione mentale, per capire che è una palla.» Reed sciolse l’abbraccio e si mise a sedere sul letto. «Devo andare sul ponte di comando.» T’Mir sbuffò e si rintanò sotto le coperte. «Che cos’hai?» Malcolm iniziò a vestirsi frettolosamente. «Niente. Sono solo agitato per la delegazione klin-

gon che deve salire a bordo.» La ragazza si girò sulla schiena e sospirò. «Ci vediamo a cena?» «Sì, certo. Diciannove in punto.» Si chinò in avanti per baciarla. «A dopo.» Uscendo dai suoi alloggi sentì una sorta di colpevole sollievo. Non era per T’Mir, assoluta-

mente. Era, anzi, per l’immenso amore che provava per lei. Aveva notato come T’Mir si fosse affezionata a Surek. E questo l’aveva portato a pensare troppo. Lui era un umano, aveva ormai oltrepassato la metà della sua vita. T’Mir sarebbe vissuta an-

cora centosettanta, centottant’anni. L’avrebbe lasciata vedova quando ancora sarebbe stata troppo giovane. Era plausibile che T’Mir avrebbe avuto l’età in cui sua madre si era messa con Trip, per allo-

ra. Arrivato sul ponte di comando, il suo secondo gli lasciò subito la sedia libera. Reed si sedet-

te a guardare il cielo davanti a loro, le stelle passavano a curvatura ai fianchi della nave con un moto tranquillo e regolare.

Tutto andava bene. Quando aveva dovuto scegliere l’ingegnere capo, l’aveva proposto a Trip. Sapeva già che lui

avrebbe rifiutato, dato che Tucker stesso avrebbe potuto avere una sua nave, se avesse voluto. Malcolm ci aveva sperato comunque.

Ma Trip aveva preferito stare a terra. «Perché?» gli aveva chiesto. «T’Mir e Izar hanno bisogno di me. T’Mir sta facendo il secondo corso di perfezionamento

e.... e ha bisogno di me. E’.... un po’ strana in questi giorni.»

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Reed si era dovuto morsicare la lingua per non dirgli che la stranezza dipendeva da lui. Si erano incontrati alla festa della Flotta. Avevano parlato un po’, come facevano sempre,

quando si incrociavano. Poi c’era stata una canzone, Reed non ricordava quale. Ricordava lo sguardo di T’Mir, disperso nel vuoto, quando aveva appoggiato il mento su una mano e aveva sussurrato qualcosa del tipo “io adoro questa canzone”.

Era stato Malcolm a invitarla a ballare. E lui non sapeva ballare. T’Mir doveva aver imparato da Trip. Alla fine del ballo, quando la festa era ancora nel suo

pieno, T’Mir gli aveva detto: “Vorrei prendere un po’ di aria fresca.... mi accompagni fuori?” E da lì tutto era iniziato.... si erano scambiati, quasi di comune accordo, un bacio, poi Mal-

colm l’aveva invitata a casa sua.... ricordava ancora la T’Mir dell’altro universo, così disinvol-ta.... questa T’Mir era diversa. Aveva la stessa dolcezza, gli stessi occhi curiosi, ma era timi-da.... e vergine.

Era quasi imbarazzante, per Malcolm, fare l’amore con lei. L’aveva conosciuta già cresciuta, ma un’altra persona. L’aveva vista nascere, aveva accompagnato sua madre in sala parto, do-ve era svenuto.... l’aveva tenuta in braccio a pochi minuti dalla nascita, era stato suo padrino e insegnante.

Poi, finita la missione dell’Enterprise, lui era ripartito subito sulla Pegaso. Era rimasto in giro per l’universo altri dieci anni e poi, al suo ritorno, aveva trovato una T’Mir cresciuta e matura-ta.

Forse T’Mir avrebbe dovuto sposare qualcun altro. Poteva garantirgli il posto sull’Intrepid, ma che futuro poi avrebbe potuto darle? Non sapeva nemmeno se avrebbero potuto aver figli. Chiuse gli occhi per un istante, ricordando la notte d’amore appena finita. T’Mir adorava le

carezze sulle orecchie. Era una cosa a cui Reed non aveva mai pensato, prima di incontrare lei. Passava le ore con T’Mir raggomitolata accanto, la testa sulle sue ginocchia, ad accarez-zarle le perfette orecchie a punta.

«Capitano? Mi sente?» Reed si girò verso il suo capo ingegnere. «Signor Carter?» chiese. «Posso parlarle un minuto?» Lui annuì e lo seguì nella sala tattica. «E’ riguardo.... il guardiamarina Tucker. T’Mir.» Reed sentì una lieve ondata di panico. «S-sì?» «Sta facendo un ottimo lavoro giù in sala macchine. E.... posso parlare liberamente?» Il capitano annuì. «Ho come l’impressione che sia stata.... non so da chi....» Naturalmente era ovvio ad en-

trambi che Carter intendesse Reed stesso. «....tenuta indietro.» «Che intende dire, con “tenuta indietro”?» «Be’, una persona con l’esperienza sui motori del guardiamarina Tucker dovrebbe per lo

meno essere già tenente....» Malcolm lo fissò per qualche istante. «E pensa che sia stato io a metterle i bastoni tra le ruo-

te?» «No no no no!» esclamò l’altro. «Intende dire che ho coperto mia moglie con una sorta di paternalismo, per impedirle di fare

carriera e magari superarmi?» Erano in missione da quasi due mesi, Carter aveva avuto la pos-sibilità di mettere alla prova le capacità di T’Mir diverse volte.

«No, signore, io non....» «T’Mir non è una persona ambiziosa.» replicò lui. «La carriera non le interessa. Non mira al

comando. Per questo è ancora guardiamarina. Preferisce passare le ore sui motori, che infilar-

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si in burocrazie che ritiene inutili.» Sospirò. «E se mi superasse.... ne sarei felice. Per lo meno vorrei vederla arrivare in alto. Ma non credo che sarà possibile.»

«Signore?» Lui riportò l’attenzione su Carter. «Al prossimo collegamento con la Flotta Stellare, chiederò

una promozione a tenente per T’Mir, con la sua raccomandazione.» «Non può farlo lei stesso?» Reed scosse la testa. «Siamo sposati.» «Già. Mi.... mi scusi se mi sono permesso.» «Non si preoccupi.» Lasciò che il comandante uscisse dalla stanza, quindi si sedette al ter-

minale. «Computer. Mostrami il guardiamarina Tucker.» Sullo schermo apparve la ragazza: era in palestra, stava chiacchierando con Surek. Malcolm si rese conto che doveva prendere una decisione al più presto. «Reed a T’Mir.» La ragazza corse a un terminale. «Ciao!» esclamò. Veramente poco formale. «Ho.... ho qualche problema, per stasera. Non riuscirò a cenare con te.» T’Mir fece un’espressione decisamente delusa. «Ok.... io....» «Perché non ceni nella mia mensa con Surek, questa sera?» Lei annuì. «Sì, ok. Allora a dopo.» Il turno di notte era già iniziato da qualche ora, quando il capitano Reed tornò nei suoi al-

loggi. T’Mir si girò lentamente nel letto. «Malcolm?» farfugliò, mezza addormentata. «Ma che è successo?»

«Niente, solo caos burocratico.» Si sedette sul bordo del letto. «Mhm.... la vita del capitano non mi attira.» disse T’Mir, alzandosi e mettendo le braccia sul-

le spalle di lui, appoggiandosi alla sua schiena. «Ma quella della moglie del capitano....» «No.» Reed si alzò. «Che c’è?» «Io credo che....» Prese un profondo respiro. «E’ meglio che dormiamo in alloggi separati.» T’Mir sgranò gli occhi, ma non riuscì a dire nulla. «Posso andarmene io, se preferisci.» «Ma di cosa stai parlando?» Lui non rispose. Rimase fermo per qualche secondo, senza guardarla. «Malcolm.» «Voglio il divorzio.» sussurrò lui. «Non ci riesco a vivere così, T’Mir.» «Ma che cazzo dici?! Di cosa stai parlando?!» «VATTENE!» urlò lui. T’Mir raccattò velocemente la sua divisa e uscì di corsa dall’alloggio. Malcolm si lasciò cadere sul letto. Non si era mai sentito così male. --Ho fatto la cosa giusta.-

- si ripeteva. --T’Mir troverà qualcuno più adatto a lei.... e sarà felice.-- Se lo ripeteva in conti-nuazione e l’unica cosa che riuscì a fare, quella sera, fu prendere il cuscino di T’Mir e rima-nere a respirare il suo odore.

«Wow.» Surek alzò le mani in segno di resa, quando, entrando nella sala di esercitazione,

T’Mir gli puntò involontariamente contro un fucile phaser. La ragazza abbassò l’arma. «E’ solo luce.» disse. «Hai preso sette bersagli in quindici secondi. Hai avuto un ottimo maestro, vero?» T’Mir gli lanciò un’occhiata di traverso e riprese a sparare.

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«Mi chiedevo se ti va di venire in palestra.» T’Mir annuì. Spense il fucile e lo ripose nell’armadietto con una certa violenza. «Andiamo.» «C’è qualcosa che non va?» La palestra era appena di fianco il poligono di tiro ed arrivarono subito a destinazione. «No, tutto ok.» «Ho sentito parlare di una promozione....» Surek lasciò la frase in sospeso. «Sì, qualcosa del genere.» T’Mir si avviò subito verso il fondo della palestra, dove c’era il

tappeto per gli allenamenti di autodifesa. «Non ti ho mai vista venire qui.» «Oggi ne sento il bisogno.» T’Mir si avvicinò al grosso sacco che pendeva dal soffitto e si mi-

se a prenderlo a misurati e calcolati calci e pugni. Aveva appreso l’arte della difesa da sua madre e da.... Malcolm. Diede un calcio più rabbioso al sacco, sotto lo sguardo stupito di Su-rek, che rimase a guardarla ancora per qualche minuto, poi si avvicinò un po’ di più. «Ma che ti prende?»

T’Mir cacciò un urlo, tirando un ultimo rabbioso pugno al sacco. «Ho bisogno di sfogarmi.» «Dai, allora. Facciamolo in due.» La ragazza sospirò. «Surek....» «Mi comporterò come un vero gentiluomo.» disse lui. «Io ho imparato anche l’arte del combattimento terrestre. Che non è logica.» «Allora insegnamela.» T’Mir esitò. «Hai detto che tuo padre.... ti picchiava.» «Sì, ma io avrei la possibilità di difendermi.» Lei gli sorrise. «E picchieresti una donna?» «Stiamo parlando di un incontro a due, senza armi, un gioco leale. Giusto? Un po’ come la

lotta a pasta di pane, ma senza pasta.» T’Mir scrollò le spalle. «Dipende da come la vedi.» Fece per andare in direzione opposta.

Poi si girò di scatto e tirò un calcio sul retro delle caviglie di Surek. Il ragazzo cadde pesantemente a terra. «Ahia!» esclamò lui. «Non avevi detto che si partiva.» «Non fare la piaga.» replicò lei, mettendosi in posizione di difesa. «Spalle a terra?» «Chi fa tre su cinque vince.» T’Mir gli sorrise. «Naturalmente partiamo ora da zero.» «Ah no, non voglio che mi fai la pietà di un vantaggio. Siamo uno a zero per te. Anche la

sorpresa ha il suo valore strategico.» Surek prese T’Mir per un braccio, velocemente la fece girare e la buttò a terra. «Uno pari.»

Lei annuì e si rialzò. «Cos’è questa cosa, Surek? Ogni tanto dobbiamo prenderci a botte, io e te?» Allungò un braccio, ma Surek la schivò. Le prese il braccio teso e cercò di girarla di nuo-vo sottosopra, ma T’Mir si aspettava esattamente quella mossa. Saltò, obbligandolo a piegarsi in due e girò sulla sua schiena, quindi gli sferrò di nuovo un calcio sul retro delle caviglie, tirando il proprio braccio verso di sé.

Surek perse l’equilibrio e cadde indietro, di nuovo con le spalle a terra. «Due a uno.» disse T’Mir. «Questa era una mossa scorretta.» sorrise Surek. «Per la disciplina vulcaniana anche il tuo sorriso è scorretto.» «E’ vero.» ammise lui e si tirò in piedi con un solo colpo di reni. «Se faccio un altro punto.... Qaplà!» disse T’Mir, mentre iniziavano di nuovo a girare uno in-

torno all’altro. «“Qaplà”?» chiese Surek. «“La vittoria è mia”, in klingon.» «Conosci anche il klingon?»

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«L’ho studiato da piccola.» «Sai un sacco di lingue. Beata te, io non sono portato.» «Taci e riprendi a combattere.» lo zittì lei. «La vittoria è mia!» «Lo so. Ma confido nel tal-shaya.» «Naturalmente.» Si girarono intorno, colpendo a vuoto per qualche minuto. T’Mir, di colpo, abbassò le braccia, guardando verso il soffitto della palestra. «Che c’è?» chiese Surek, girandosi. T’Mir attaccò e lo stese con un solo colpo. «Ma che cazzo!» esclamò lui, trovandosi a terra, un ginocchio di lei in mezzo al petto che lo

teneva a terra, e lei che, sopra di lui con le braccia alzate in segno di vittoria, urlava: «QA-PLA’!».

Surek scoppiò a ridere: «Che stronza!» Lo liberò, alzandosi in piedi. «Non è stato difficile.» «Tu.... hai barato!» «Non ho barato. Ho solo usato qualche trucco terrestre e qualche mossa klingon.» Surek le sorrise. «Me li insegnerai.» Lei annuì. «Ora mi vuoi dire che cos’hai?» «No.» rispose lei. «Dai, per lo meno dimmi se è vero che ti hanno già promossa a tenente.» T’Mir andò verso le spalliere. Sospirò. «Sì, è vero.» «Perché non mi sembri contenta?» Surek si massaggiò una spalla dolente su cui era caduto

un po’ troppe volte. «E’ stato un contentino.» Si morse le labbra. Poi restò a fissare la porta per un istante. «No, ‘sta volta non ci casco.» disse lui. Ma poi si girò. C’era il capitano sulla porta. Reed guardò nella loro direzione. Rimase un istante fermo, quindi uscì dalla palestra. «Avete litigato.» T’Mir non gli rispose. Si morse le labbra talmente forte da ferirsi. Si girò e tirò un pugno nel

muro così forte che Surek poteva giurare di aver sentito le ossa fratturarsi. Urlò e si lasciò ca-dere a terra.

«Posso dire due a tre?» sussurrò Surek. «No, niente di rotto, per fortuna.» La dottoressa Luzzi spense il tricorder. «La mano è mal-

concia, per il resto c’è qualche leggera contusione qua e là, ma è normale se avete fatto uno stupido incontro di lotta. Ma com’è successo?»

«Ci stavamo allenando in autodifesa. Surek è davvero molto veloce e io sono stata stupida. Ho cercato di tirargli un pugno davanti al muro.»

Surek, in piedi vicino al lettino, non disse una parola, ma si chiese perché T’Mir stesse in-ventando tutte quelle bugie. Aveva la vaga idea che ci fossero problemi tra lei e il capitano.

Sperò fosse solo una stupida litigata e non qualcosa di serio. Gli dispiaceva per lei. «Te la fascerò e proveremo con un altro tipo di ipospray. E’ a base di valeriana, su altri Vul-

caniani ha fatto effetto.» La dottoressa le piazzò l’ipospray direttamente sul collo senza chie-derle nulla.

T’Mir annuì leggermente. «Sì, in effetti mi sembra che questo inizi a fare effetto.» Il medico sospirò. «Devo ammettere che, vista la tua condizione, speravo che saresti stata un

pochino più contenta per questa mia scoperta.» La ragazza forzò un sorriso. «Sì, grazie. Sei davvero splendida, come il solito.»

40

T’Mir si specchiò, controllando che la divisa fosse in ordine e i gradi di tenente ben dritti. «Preferivo restare un guardiamarina e restare con te....» sussurrò alla stanza vuota. Aveva ri-

cevuto la promozione direttamente da Jonathan Archer, dalla Terra, che le aveva detto di aver ricevuto una richiesta dai toni entusiasti dal comandante Carter. «Non avevo dubbi sul tuo talento per i motori.» le aveva detto.

«Jonathan, perché?» chiese T’Mir. Ma nessuno le rispose. Erano lontani da casa, stavano fa-cendo rotta per lo spazio klingon per prendere la delegazione da accompagnare su Triaxa. Ricordava che suo padre le aveva portato un vestitino rosso con margherite bianche, da quel pianeta. Un vestitino con cui aveva sfilato davanti a Malcolm Reed più di una volta. E lui non aveva capito nulla, allora.

Lasciò che le lacrime scorressero in silenzio, mentre si spogliava. Si sedette sul letto a una piazza del primo alloggio libero che aveva trovato e si infilò la vestaglia.

Le mancava così tanto suo padre.... se fosse stato con lei, adesso si sarebbe di certo sentita meglio. Sarebbe andata da lui, si sarebbe semplicemente appoggiata alla sua spalla, lui le a-vrebbe accarezzato una guancia e tutto sarebbe stato perfetto.

Invece era in mezzo al nulla, da sola, in un alloggio senza nemmeno un oblò sulle stelle. Si asciugò il volto. Ma tutto sarebbe stato molto più semplice, in pochi giorni. T’Mir sarebbe sbarcata su Triaxa

e lì avrebbe cercato una qualsiasi nave che tornava sulla Terra.... o che le poteva dare un pas-saggio verso casa. E poi avrebbe dato retta a suo padre. Avrebbe fatto un altro corso di specia-lizzazione, poi forse un altro ancora, e poi si sarebbe imbarcata su una nave Enterprise.

L’ultima volta che li aveva sentiti, i suoi genitori le avevano detto che anche Izar ora stava meglio. Aveva superato la fase ribelle, per lo meno, “ribelle” anche per gli standard di Trip. Ora che aveva fatto pace col mondo e con la famiglia, stava meglio. E forse Trip avrebbe ri-chiesto il comando di una nave. A quel punto lei avrebbe saputo esattamente su che nave andare.

Poteva portarsi dietro Surek, a ben pensarci. E Malcolm. Scosse la testa. I suoi pensieri finivano sempre lì. «Merda.» sussurrò. Reed non avrebbe la-

sciato il comando per sottostare di nuovo a Trip, tanto meno per stare a contatto con l’ex mo-glie.

Già, perché ormai erano passati cinque giorni e lui non aveva ritrattato quel che aveva det-to.

Anzi, non avevano proprio parlato. Il campanello la fece sobbalzare. «Avanti.» disse, convinta che fosse Surek. Fu stupita di vedere Malcolm, in abiti civili, entrare nell’alloggio. Si alzò in piedi e andò verso il fondo della stanza, per mettere più possibile distanza tra di

loro. «Cosa vuoi?» chiese, ma il suo tono non fu duro come sperava. «Non parlare.» disse Malcolm. «Ascoltami senza parlare.» T’Mir si girò, sempre più stupita. L’uomo le si avvicinò e lei ebbe la tentazione di mollargli un calcio ben piazzato e scappa-

re. Malcolm la guardò dritta negli occhi, con una sicurezza che raramente gli aveva visto. «Non posso più andare avanti così. Ho calcolato il percorso di una nave cargo sulla nostra

rotta verso Triaxa. Riusciremo ad avere il rendevouz tra una settimana. Ti riporterà sulla Ter-ra.»

«Capitano--»

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«Non parlare.» la interruppe lui. «E’ un ordine.» La ragazza serrò le labbra, lanciandogli un tagliente sguardo d’odio. Malcolm si avvicinò ancora. T’Mir si sentì come una preda in trappola. Le sue spalle si scon-

trarono con la paratia e sentì il dolore bianco irradiarsi a causa delle cadute di quel giorno in palestra.

«Surek è un bravo ragazzo.» «Surek è solo un amico.» ribatté lei. «Non ti ho dato il permesso di parlare.» Si avvicinò ancora, tanto che ormai la sfiorava. «Non

ti voglio punire perché non obbedisci a un mio ordine.» Le mise delicatamente una mano sul fianco e T’Mir si sentì rabbrividire. «Sono orgoglioso della tua promozione, T’Mir. Molto or-goglioso.»

Lei lo guardò senza parlare. Malcolm mise la mano sotto la sua vestaglia, infilandola tra le sue gambe. T’Mir non sapeva se voleva ritrarsi o no. Poteva stendere Reed con la presa vulcaniana tanto

velocemente che lui non se ne sarebbe nemmeno accorto. Invece spinse contro la sua mano e chiuse gli occhi. «Io ti amo, T’Mir.» «Tu mi....» «Shhh.» La baciò sulla bocca. «Ti amo e non voglio che tra vent’anni ti ritroverai da sola. Hai

davanti una vita lunga e prospera, un Umano non va bene per te. Comunque non un Umano della mia età.»

T’Mir ricambiò il bacio, muovendo i fianchi contro la mano di Reed. «Non voglio che la tua carriera sia impedita involontariamente da me. Non voglio che la

gente pensi che tu sei qui solo perché sei mia moglie.» Ritrasse la mano, sentendo la moglie bagnata ed eccitata.

La ragazza emise un gemito di frustrazione e si morse le labbra. Il capitano la spinse indietro, contro il muro. «Vivrai meglio se trovi qualcun altro.» «Ma io voglio te.» disse lei. Lui le mise le mani sulle spalle, per tenerla contro il muro. «Cambia idea.» «No. Son diciott’anni che la penso così.» Malcolm si aprì i pantaloni, unì i fianchi ai suoi e velocemente entrò in lei. «Anch’io voglio

te.» sussurrò. T’Mir gli mise le braccia intorno al collo e appoggiò la fronte al suo collo. C’era troppa luce

e loro erano in piedi contro il muro. Sentì il sangue arrossarle le guance di timidezza. Chiuse gli occhi e alzò le gambe, intrecciando le caviglie dietro la schiena di Malcolm. Si strinse a lui con tutte le sue forze, come se avesse paura di cadere nello spazio vuoto. Lo sentì venire den-tro di lei, quindi stringerla a sé con forza come lei amava.

La ragazza appoggiò il volto al suo petto. «Non lasciarmi....» sussurrò. «Capiterà.» «Per ora no.» «Fatti un amante.» Malcolm si scostò appena da lei per riallacciarsi i pantaloni. «Sei pazzo?» «No.» Le accarezzò la guancia. «Parlo seriamente. Il distacco sarà meno doloroso se amerai

qualcun altro.» T’Mir lo prese per mano. «O smetti di fare questi discorsi, o facciamo un figlio. Così avrò

qualcun altro da amare.» «Ne parleremo.» «Dove vai, ora?» Malcolm lanciò un’occhiata all’uniforme. «Dove verrai anche tu.»

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«Nei nostri alloggi?» Lui annuì. «Se ti va. Abbiamo saltato la “fase coccole”.» T’Mir rise. «Mi vesto e arrivo.» Malcolm si sedette sul letto: «E se ti aspettassi qui?» La ragazza sorrise a disagio. «Malcolm....» «Sei mia moglie, ti ho già vista nuda.» «Sì, ma....» Scosse la testa. «Cos’è, la mia punizione per aver parlato?» Lui sorrise, abbassando lo sguardo. «Pensavo che sarebbe stato più facile parlarti, se non tu

potevi controbattere. Invece.... sono venuto qui per spiegarti perché non ti volevo più come moglie e ora stiamo per andarcene assieme sapendo che non ci lasceremo.»

T’Mir gli sorrise. Prese un profondo respiro d’incoraggiamento, sciolse la vestaglia e la lasciò cadere a terra. «E se uscissi in corridoio così?»

«Di sicuro riusciresti a trovarti un amante, ma forse questo eccesso mi farebbe diventare un po’ geloso.»

Lei rise. «Girati, mi vesto in un minuto.» «Perché devo girarmi?» «Girati, dai!» esclamò. Reed scosse la testa e si lasciò cadere sul letto, chiudendo gli occhi. «Hai avuto la promo-

zione appena ti ho allontanata. Non sono sicuro che la nostra relazione faccia bene alla tua carriera.»

«Non mi hai proposto tu per la promozione?» chiese lei, mentre si infilava la biancheria in-tima.

«Principalmente è stato Carter. Io naturalmente ho appoggiato la cosa.» «Te l’ho detto che non mi interessa la carriera, vero?» T’Mir si infilò la divisa. «Lo dici ora.» «No, lo dico perché pensare di star seduta su una sedia a prendere decisioni su cosa fare o

non fare non mi attira. Mi piace stare tra i motori, smanettare con iperchiavi e crimper, essere sporca di grasso e far funzionare le cose.... ho vissuto tutta la mia infanzia tra i motori.... in quel periodo ero innamorata di mio padre.» Si allacciò la divisa. «Ho fatto.»

«Perché non restiamo qui?» propose lui, senza alzarsi né aprire gli occhi. «In un letto a una piazza? No, non se ne parla nemmeno. Nel nostro alloggio abbiamo un

letto a due piazze. Alzati.» Reed si tirò su a fatica. «Va bene.» Le sorrise e aggiunse. «*Capitano*.» T’Mir incrociò le braccia. «Sì, bravo. Potresti proprio iniziare a chiamarmi così....» «Ma se hai detto che non ti interessa la carriera?» «Sì, infatti intendevo solo in privato.» Malcolm le sorrise maliziosamente. «Comandi tu.» T’Mir annuì. «E non trattarmi mai più così male.» «Dovrò farti un bel regalo, per farmi perdonare.» Si alzò e la seguì fuori di lì. «Fammici pensare.... un gatto?» «Se ci tieni.» replicò lui. «Piuttosto, questo Surek.... che tipo è? E’ un partito valido?» «Ma la smetti?» disse lei. «Non ho intenzione di farmi un amante. Tanto meno Surek.» «Passate molto tempo assieme.» «Siamo due ibridi umano-vulcaniani, se escludiamo Izar, siamo unici la mondo. Apprezzia-

mo la compagnia reciproca.» Entrarono nel loro alloggio. «Mi do una lavata. A bordo c’è il delegato klingon con le tre fi-

glie che puzzano abbastanza per tutti.» disse il capitano. «Poi arrivo per le coccole.» Lei annuì. «Ah, Malcolm?» «Sì?»

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«Se ripeti ancora una volta una delle stronzate di farmi un amante o che schiatterai presto, ti faccio la presa vulcaniana.»

Lui la guardò fingendo di essere serio: «Non c’è un paragrafo nel regolamento, riguardo le minacce al capitano?»

T’Mir alzò un sopracciglio. «Sì, scusa, mio capitano.» replicò lui. Le sorrise e fece per entrare in bagno, ma fu fermato da

T’Mir: «Malcolm. Preferisco averti per pochi anni che non averti per nulla.» Surek si concentrò sugli occhi e si lasciò andare in un sorriso amabile. Il leggero rumore della mensa in sottofondo non era fastidioso, ma si sarebbe trovato più a

suo agio in un locale più tranquillo, o per lo meno non circondato da gente in divisa. «Buona sera.» disse, la sua voce calda e piena di miele. Si chiese se era il tono giusto da usa-

re in quell’occasione. «Ciao.» disse la Klingon davanti a lui. «E’ libero questo posto?» Lei gli fece cenno con la mano. «Accomodati.» Si sedette di fronte a lei, appoggiando con calma il piatto di gamberi davanti a sé. Continua-

va a fissarla negli occhi, per evitare di pensare ad altri tratti klingon che non amava partico-larmente. Fortunatamente non avevano più creste frontali. Una bella mutazione, pensò lui, anche se sapeva benissimo che loro non l’apprezzavano.

«Li mangi morti?» chiese la donna. «I gamberi? Cotti sono favolosi.» Surek sorrise, ne prese uno tra le dita e lo addentò lenta-

mente. «Vuoi provare?» «Non mangio cibo morto.» replicò lei, ma il suo tono non era scortese. Lo guardava con un

mezzo sorriso. «Mi chiamo Surek.» disse lui, porgendole la mano. «K'Ihlayra.» replicò lei. Fece per prendergli la mano, ma lui si alzò in piedi, girò la sua mano

con il palmo verso il basso e la baciò sul dorso. «Piacere.» K'Ihlayra lo squadrò ampliando il mezzo sorriso. «Per essere un Vulcaniano sorridi parec-

chio.» Surek prese un altro gambero e lo mangiò lentamente. «Sono aperto a nuove culture.» disse. «Sei il mezzo sangue di cui mi ha parlato mio padre?» Lui sentì la rabbia mordergli lo stomaco. Ma perché mai tutti come prima cosa dicevano era

che era mezzo Umano? Spinse la rabbia in fondo e sorrise: «Sono un pura razza vulcaniana-umana.» replicò.

K'Ihlayra gli sorrise e pescò dal suo piatto un gamberetto. «Una buona definizione.» Mangiò il gambero. «Sai, hai ragione, non sono male. Da vivi devono essere molto buoni.»

«So che vi dirigete a Triaxa. Cosa ci fa una ragazza così bella, in viaggio verso Triaxa?» La Klingon rise. «Faccio viaggi di studio assieme alle mie sorelle e a mio padre.» «Anch’io ho studiato a bordo di una nave, quella di mio padre, fino a due anni fa. E ora sono

tornato a bordo.» «P’taQ....» disse lei, sorridendo. «Come?» chiese Surek, ricambiando il sorriso. «E’ un vezzeggiativo.» mentì lei. «E’ adatto a un bel ragazzo come te.» Gli posò una mano

sopra la sua. «Finisci di mangiare il tuo cibo morto con calma. Vieni nei miei alloggi, tra un’ora.»

Surek guardò l’imponente e alta figura klingon andare via, apprezzando il suo fondoschiena. --Ah, T’Mir....-- pensò. --Avevi proprio ragione. Al primo colpo e senza sforzi!--

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Surek suonò il campanello dell’alloggio di K'Ihlayra. Al di là dei tratti klingon, la donna ave-

va dei bellissimi occhi e labbra perfette, il seno prosperoso e la vita sottile. La divisa non na-scondeva quei tratti, nonostante la quantità di metallo che si portava addosso, e lui ne era at-tratto.

La porta si aprì e questa volta il Vulcaniano-Umano non dovette usare l’immaginazione. K'I-hlayra indossava una gonna molto corta, marrone scura con lustrini scintillanti e un top dello stesso tipo, abbastanza corto da mettere in mostra l’ombelico. I capelli castani, lunghi fino a metà schiena, ondeggiavano al suo passo da guerriera.

«Vieni, Surek.» disse lei. «Quel vestito ti dona.» replicò lui. «E’ uno di quelli che voi chiamereste “pigiama”.» --Wow.-- pensò lui. --Sto cominciando a rivalutare i Klingon.-- Aspettò che la porta si chiu-

desse: «Vi trovate bene a bordo dell’Intrepid?» «Viene incontro alle nostre piccole necessità. Sarà comunque un viaggio breve.» rispose K'I-

hlayra. Gli mise una mano sul petto: «Prendi sempre così alla larga il problema?» «Pr-problema?» balbettò lui. Si schiarì la gola. «Oh, be’.... sai com’è.... di solito alle donne

piace flirtare....» La Klingon rise. «Gli uomini....» K'Ihlayra, velocemente, avvolse un braccio muscoloso in-

torno alle spalle di lui, sbattendolo con forza contro la paratia. Surek sentì i muscoli della schiena dolergli. T’Mir non era stata del tutto leale in quel com-

battimento, ma di certo gli aveva insegnato qualche trucchetto umano non da poco. Si abbas-sò di colpo, liberandosi dalla presa di lei e togliendo le spalle dal muro.

«Cosa ne dici se--» Iniziò la frase, ma non riuscì a finirla. Si ritrovò a terra, appoggiato su mani e ginocchia. Sentiva sulla schiena un peso caldo e soffice. La Klingon gli cinse i fianchi con un braccio, facendolo girare.

Istintivamente Surek alzò il braccio per difendersi e sentì al tatto la guancia di K'Ihlayra che sbatteva proprio nel suo gomito.

«Oh merda!» esclamò lui. «Scusa!» K'Ihlayra emise un gemito di dolore, poi gli sorrise. «Bravo, vedo che cominci a imparare.» «Eh?» farfugliò lui. K'Ihlayra si abbassò su di lui e lo baciò, sfilandogli la maglietta per scoprirgli i muscoli per-

fettamente allenati sotto la pelle abbronzata. Surek chiuse gli occhi, assaporando quel bacio così diverso da quelli che aveva dato precedentemente. La bocca di K'Ihlayra era calda e ve-loce, e spingeva contro di lui quasi dovesse saziarsi. Lui infilò le mani tra i capelli di lei, acca-rezzandoli.

Poi emise un urlo di dolore quando sentì il morso della Klingon sul labbro inferiore. «Che cavolo fai?!»

K'Ihlayra si tirò leggermente indietro. «Hai ancora molto da imparare sull’arte amatoria degli Klingon.» disse. Si chinò in avanti, fissandolo. «Hai dei bellissimi occhi azzurri, lo sai?»

Surek, d’un tratto, non era più sicuro di volerne davvero sapere di più. «Ah, senti....» Fece per alzarsi, ma K'Ihlayra lo inchiodò al suolo e lo baciò. «Mordimi.» disse.

«No....» replicò lui, ridendo per l’imbarazzo. K'Ihlayra lo baciò di nuovo, questa volta a lungo, lentamente. Surek decise che valeva la pena tentare ancora. Chiuse gli occhi, ma li riaprì subito quando

sentì la mano di lei sotto il mento. Non fece quasi in tempo a pensare, la Klingon alzò la ma-no di scatto, obbligandolo a morderla. Sentì il sapore di sangue viola sulla lingua e K'Ihlayra che gemeva e premeva i fianchi contro i suoi.

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--Me ne voglio andare.-- pensò. Cercò di tirarsi su, ma la donna lo inchiodò di nuovo al suo-lo.

«P’taQ, abbi un po’ di pazienza.» disse la Klingon. Iniziò a muovere i fianchi lentamente ma con forza contro i suoi.

Surek chiuse gli occhi, al tempo stesso stupito e imbarazzato che il suo corpo stesse rispon-dendo alle pesanti avance della Klingon.

K'Ihlayra si sedette sui suoi fianchi e lui ringraziò i suoi allenamenti: se non avesse passato ore e ore a sudare in palestra probabilmente la Klingon gli avrebbe sfondato il bacino.

Lei si sfilò il top, liberando il seno prosperoso. Gli prese le mani e se le mise sul petto. L’attenzione di Surek, che aveva sempre concentrato sugli occhi e sulla bocca della Klingon,

si spostò istantaneamente. Anche perché al momento le labbra di K'Ihlayra erano sporche di sangue verde.

--Oh merda.-- pensò Surek, d’un tratto. --No, non posso fare una cosa del genere.-- Era la sua metà vulcaniana che gli urlava nella mente: “Vattene. Ferma questa idiozia e vattene.”

K'Ihlayra gli sorrise. «Fa’ qualcosa con quelle belle mani, mezzo sangue.» Quindi si alzò ap-pena per aprirgli i pantaloni. Lei non portava biancheria sotto la gonna del pigiama.

Surek fece per spostarsi, senza riuscirci. Era eccitato e faticava a muoversi e a ragionare, no-nostante la sua metà vulcaniana urlasse. Ma quando K'Ihlayra si abbassò sulla sua erezione, la metà vulcaniana si zittì di colpo.

Spinse in fianchi in alto, incontrando la Klingon, mentre ancora aveva le mani sul suo seno. «Usa le mani, p’taQ!» urlò lei. Surek obbedì, in parte impaurito, in parte desideroso di proseguire quello che al momento

gli appariva uno strano ma intrigante amplesso. Sentì il cuore accelerare, battere contro il pet-to, forte e veloce.

Le mani gli scivolarono sui fianchi di lei, quando venne, e smise di spingere. K'Ihlayra non era ancora soddisfatta e si chinò in avanti di colpo, appoggiando la mano pe-

santemente appena sotto il collo. Surek urlò per il dolore, cercò di alzarsi, ma lei gli prese i capelli nel pugno. Lo tirò verso di sé, per baciarlo. Poi lo rispinse indietro con violenza.

L’ultima cosa che Surek si ricordava, prima di perdere i sensi, era la Klingon che, sopra di lui, urlava di piacere.

Surek si risvegliò in posizione fetale, tremante di freddo, steso mezzo nudo sul pavimento

del suo alloggio. Sentiva dolori in posti che non sapeva nemmeno di avere. Quando cercò di tirarsi sul letto, trattenne a stento un urlo. Non riusciva a muovere il brac-

cio sinistro dal dolore. Anche respirare provocava dolore. Si portò una mano sulla clavicola e trasalì. «Merda.» esclamò. «Merda!» Andò in bagno e fu spaventato dall’immagine riflessa. Si vedeva a occhio che la sua clavico-

la sinistra era rotta. Aveva un aspetto orribile, era pieno di graffi e aveva macchie di sangue verde e viola sulla pelle. Si portò la mano destra alla nuca e soppresse a stento un urlo di do-lore.

Si rese conto che la pelle che era stata a contatto con la Klingon era irritata per eccessivo sfregamento.

Decise che si sarebbe fatto una doccia e poi sarebbe andato in infermeria implorando la dot-toressa perché lo imbottisse di anestetico.

Andò in bagno, ma l’Intrepid si spostò di colpo sotto i suoi piedi. Surek cadde sul braccio sinistro e questa volta non riuscì a trattenere un urlo di dolore.

Si aggrappò al lavabo, per alzarsi e stabilizzarsi, ma la nave continuava a scuotersi.

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Sentì dagli altoparlanti l’allarme tattico, quello che, tra i cadetti, veniva chiamato “allarme Reed”, dato che era stato proprio l’attuale capitano dell’Intrepid a introdurlo trent’anni prima sull’Enterprise NX-01.

Surek tirò un insulto sottovoce e corse a mettersi una divisa. Strinse i denti, quando dovette infilare il braccio. Corse all’impazzata nei corridoi per raggiungere la sala macchine, il suo posto di lavoro. Scese la scala scivolando sulle ringhiere.

«T’Mir!» esclamò, vedendo la ragazza alle prese coi motori. «Dov’è il comandante Carter?» chiese.

Lei scosse leggermente la testa. «Vieni subito qui!» urlò. «Cerca di mantenere il campo stabi-le dal terminale.»

Surek si guardò in giro. C’erano altri macchinisti in giro, ma tutti sembravano occupati in qualche altra attività, dallo spegnere i fuochi a tenere insieme la sala macchine a mano. Non vedeva il comandante Carter. «Ma io....» iniziò lui.

«Fallo e basta!» urlò lei, quindi, appoggiando un piede sulla consolle accanto ai tasti si tirò su, salendo sopra il motore. Era una manovra poco ortodossa, di solito si usavano le scalette laterali, ma in quel caso aveva troppa fretta per fare il giro. «Devo cercare di stabilizzare i mo-tori manualmente!»

Surek riportò l’attenzione sui controlli elettronici e mosse le dita più velocemente possibile. Era difficile, perché il braccio sinistro gli mandava insulti e grida di dolore.

T’Mir iniziò a lavorare sulla parte superiore del motore. Ma l’Intrepid continuava a tremare. «Reed a sala macchine.» «Qui sala macchine.» rispose Surek, riportando subito le mani dall’interfono alla consolle. «Come siete messi là sotto?» La voce di Reed era veloce e traspirava preoccupazione. «T’Mir sta cercando di riprendere i controlli manuali, la consolle elettronica è quasi inutiliz-

zabile....» Surek si morse le labbra e trasalì per il dolore. --Dove cazzo sono gli altri?-- T’Mir scivolò giù dal lato del motore, atterrando in piedi e premendo quasi al volo il comu-

nicatore. «Malcolm, siamo nella merda!» esclamò. «Il campo di curvatura è instabile, se u-sciamo saltiamo in aria, se continuiamo così anche!»

«Abbiamo la gondola di dritta fuori uso.» comunicò il capitano. Poi, quasi con rassegnazio-ne, disse: «Fate quel che potete.»

T’Mir guardò Surek che smanettava come un pazzo sulla consolle. «Partenza a freddo.» dis-se.

«Non possiamo farlo.» riprese Malcolm. «Il nucleo salterà in aria se non manteniamo il cam-po di curvatura.»

T’Mir saltò sulla pedana, continuando a parlare con Reed. «Dopo l’incidente sull’Enterprise nel 2154, Trip propose delle modifiche per creare l’inerzia di curvatura. L’Intrepid le ha e tu dovresti saperlo.»

«Sono sperimentali!» esclamò Reed. «Non andremo avanti più di due minuti per inerzia.» «Malcolm, non riusciremo a tenere l’assetto di curvatura con i controlli fuori uso e una sola

gondola! Bisogna cambiare i moduli o salteremo in aria per la deformazione del campo!» Reed si aggrappò alla poltrona. T’Mir aveva ragione: non avevano altre scelte. Ma il reset in

un minuto era stato fatto solo una volta prima di allora. Era vero che quella volta era riuscito alla grande, ma....

Ma quella volta l’aveva effettuato Trip Tucker. Nessuno aveva più tentato l’esperimento. T’Mir aveva evidentemente appreso la tecnica direttamente dal padre, ma solo in via teorica. Era da pazzi ritentare l’esperimento. Tuttavia T’Mir era l’unica persona, a parte Trip stesso, a cui Malcolm avrebbe affidato un la-

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voro del genere. Il capitano annuì. «T’Mir. Procedi.» «Ok.» replicò lei. «T’Mir!» urlò Malcolm, fermandola. «Ti amo.» disse. «Reed, chiudo.» La ragazza aprì il pannello a lato della consolle. «Ci siamo.... pronti allo spegnimento in....

dieci....» Surek deglutì a fatica e si scostò per dare più spazio all’amica. «Nove.... otto....» T’Mir sfilò i moduli dagli slot e li lanciò a Surek, che li prese al volo quasi per caso. Strinse i

denti, quando sentì la clavicola che urlava vendetta. «....due.... uno....» T’Mir si aggrappò alla barra posteriore della passerella. «ORA!» Il moto inerziale entrò di botto in azione e l’Intreprid iniziò a ruotare sul suo asse orizzonta-

le, spinta solo da sinistra. Le piastre di gravità potevano far ben poco contro la rotazione in curvatura.

T’Mir si spinse a fatica in avanti e iniziò a rimpiazzare i moduli appena tolti con quelli di scorta.

«Mancano quarantasette secondi!» esclamò il capitano dalla plancia, attraverso l’interfono. T’Mir si morse le labbra e spinse gli ultimi moduli al loro posto. Chiuse il pannello, scavalcò

la ringhiera e cadde pesantemente sul pavimento, a causa della spinta centrifuga. Sentì in sot-tofondo il conto alla rovescia che diceva che mancavano meno di dieci secondi.

Si aggrappò alla barra del pannello posteriore, lo sfilò e diede il reset. L’Intrepid si spense completamente, supporto vitale compreso. T’Mir trattenne il fiato nel buio completo. «Andiamo, cucciola.» sussurrò. «Dai!» Ma l’Intrepid non sembrava volerne sapere di tornare attiva. «FORZA!» urlò T’Mir. La luce riapparve come d’incanto e da tutta la nave si levarono urla di gioia. T’Mir lasciò andare un sospiro di sollievo. «Reed a T’Mir. Ben fatto.» Sentì la voce del capitano e sorrise. Si alzò e fece una smorfia di

dolore. Saltando giù dalla ringhiera aveva battuto il ginocchio e ora le faceva male. Premette il pulsante dell’interfono e disse: «E’ un dono di famiglia. Usciamo dalla curvatura, ora.» Si aggrappò alla ringhiera e salì sulla passerella. «Anche tu, Surek, non te la sei cavato per niente male. Ingegneri di curvatura in famiglia?» Spense i motori di curvatura e l’Intrepid scese a im-pulso.

«No.» replicò lui. «Dalla parte della mia madre terrestre sono agricoltori per quel che ne so. Dalla parte di mio padre filosofi.»

«Mi piacciono le pecore nere.» gli sorrise T’Mir. «Ah....» «Ti sei fatta male?» chiese Surek. «Ho battuto il ginocchio. Ma ora è tutto ok.» Si girò verso di lui. «E tu? Hai sbattuto il brac-

cio?» «La spalla.» disse lui, restando vago. «Be’, a noi è andata bene.» «Bene?» T’Mir chiuse gli occhi. «Il comandante Carter è.... deceduto. E anche molti altri....» Surek poté sentire dolore nella sua voce. «Mi dispiace.» La ragazza si girò verso di lui. «E’ ora che andiamo a farci vedere in infermeria.»

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Reed s’infilò lentamente sotto le coperte. «Malcolm?» sussurrò T’Mir, mezza addormentata. «Tutto a posto?» Lui l’abbracciò, premendo il petto contro la sua schiena. «Sì. Il delegato e le figlie sono arri-

vati sani e salvi su Triaxa, la fazione klingon che ci ha aggrediti è stata consegnata al tribunale dell’Impero....» La baciò sul collo. «Quello che non è a posto è che stiamo tornando a casa.... e per di più a curvatura due.»

«Ci metteremo un po’ di più.» sussurrò lei. «Non sembra che ti dispiaccia molto.» «Forse non sono fatta per missioni lunghe.» sussurrò. «Mi manca mio padre.... e anche mia

madre e Izar.» Il capitano annuì. T’Mir si girò e appoggiò la fronte al suo petto. «Ma se stessimo lontani, mi mancheresti an-

che tu....» Malcolm le accarezzò le orecchie lentamente. «....Tu e le tue carezze....» Il capitano Reed sarebbe sbarcato per ultimo e Surek approfittò per raggiungere T’Mir e

scendere con lei. «Oltre ai trucchi di combattimento, un giorno m’insegnerai anche quelli sui motori a curvatura.» le disse.

«Certo.» T’Mir gli sorrise e, scendendo sulla pista di lancio, si guardò in giro. Lasciò cadere la borsa e corse incontro al padre, che l’abbracciò stretta e la baciò ripetutamente sul viso. Pochi istanti dopo, Izar e T’Pol si unirono all’abbraccio.

Surek distolse lo sguardo, provando una certa innegabile invidia. Si guardò brevemente in giro, per vedere se qualcuno stava camminando verso di lui.

Nessuno era andato a dargli il benvenuto. La sua famiglia probabilmente era in giro per l’universo, o forse su Vulcano. Non certo a San Francisco. Non certo lì per lui. Abbassò lo sguardo, sentendo una profonda tristezza e un senso di solitudine che gli attana-

gliavano il cuore nel petto, quel cuore che batteva nel petto, come quello di un Umano. Sentì una mano sulla spalla e trasalì. Si girò. Era Trip Tucker. «Ciao Surek.» «Capitano.» «Se non hai altri impegni, potresti venire a cena da noi. Temo che il capitano Reed non po-

trà raggiungerci, ma almeno potrete raccontarci in due la vostra missione.» Surek annuì. «Grazie.» Gli sorrise e iniziarono a camminare verso le tre donne che li atten-

devano pochi metri più in là. «Ha saputo che T’Mir ha replicato il suo reset dei motori?» «Senza la routine d’inerzia» disse T’Mir. «non sarei mai riuscita a fare quel che ho fatto.» «Io ce l’avevo fatta.» replicò Trip. «Perché non dovevi farcela anche tu?» «Perché ci ho messo ben più di un minuto a farlo. E perché voi avevate la Columbia che vi

teneva nel campo di curvatura.» «Sono certo che in quelle condizioni ci saresti riuscita anche tu.» disse Trip, mettendo un

braccio intorno alle spalle della figlia. «Mi aspetto che Archer ti promuova.» T’Mir rise. «No, due promozioni in un anno sono sufficienti.» «Hai ripreso a dipingere?!» esclamò T’Mir, correndo verso un cavalletto che teneva in verti-

cale una tela dipinta. «Mi diverte.» disse Izar, lasciandosi cadere sul divano. Vestiva ancora abiti minimi, utilizza-

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va sempre il suo trucco marcato, ma non era più aggressiva come prima. T’Mir notò quanto in quei mesi fosse maturata. Nel giro di poco sarebbe diventata maggiorenne. Allora avrebbero fatto una lotta a pasta di pane.

Osservò il quadro, una rappresentazione fantasiosa dell’Intrepid. «Bello.» disse. «E’ davvero bello, Izar.» La ragazza sorrise. «Anche quello che hai fatto tu è bello.» C’era orgoglio nella sua voce.

«Tutti qui dicevano “ehi, ma è tua sorella quella che ha salvato l’Intrepid?”.... e io: “Certo, perché hai dubbi?”»

T’Mir le sorrise. «Non ho capito di preciso cosa e come l’hai fatto, ma m’aih dice che l’ha fatto anche papà,

decenni fa.» «Naturalmente lui ha fatto una cosa più complessa con tecnologia che aiutava meno. Però

sì, il concetto è quello.» Surek entrò in sala e guardò il quadro. «Caspita.» disse. «L’hai fatto a pennelli e tempere?» «Sì.» sorrise Izar. «Io non mi ci metterei nemmeno. Sono riuscito anche a rovinare l’intonaco a casa dei miei,

cercando di imbiancarlo.» Le ragazze risero. «Concordo con te, Surek. E’ praticamente impossibile anche fare una cosa

del genere a computer, per me....» «Ognuno ha i suoi talenti.» replicò Izar. Surek si sedette accanto a lei. «Quindi stai finendo la scuola d’arte?» «Sì, pochi mesi e poi potrò andare all’università. Ma non ho ancora deciso esattamente che

corsi farò.» T’Pol entrò in sala e rimase per alcuni istanti a guardare i tre ragazzi parlare tranquillamente.

Era una cosa che le piaceva e non voleva interromperli. «E’ quasi pronto.» disse, poi quando i tre smisero di parlare. «Ha cucinato Trip, stasera.» «Bene.» disse Izar e poi rivolse un sorriso dolce alla madre. T’Pol annuì leggermente. Andò da T’Mir e l’abbracciò, baciandola sulla fronte. «Mi sei man-

cata tanto, lo sai?» T’Mir ricambiò l’abbraccio, ricordando l’ultimo anno da figlia unica. «Anche tu, m’aih.» Andarono in cucina e Trip servì gli fusilli alla norma. «Adoro le melanzane.» disse T’Mir. Dopo qualche attimo di silenzio, Surek si rivolse a Trip e T’Pol: «Volevo.... chiedervi una

cosa.» La sua voce era esitante. «Mio padre non mi ha mai detto chi fosse mia madre.... voglio dire, la mia madre terrestre. Non avevo mai sentito un gran bisogno di cercarla.... ma quando glielo chiedevo, lui non ha mai risposto. E ora.... vorrei incontrarla. E’ probabile che lei abbia scelto di tagliare i ponti, solo che.... mi chiedo se non abbia cambiato idea, magari mi sta cer-cando anche lei. C’è un modo di saperlo.... intendo, senza dover mettere un annuncio?»

T’Pol annuì: «Sì, attraverso la banca dati del DNA. So che viene fatta una ricerca incrociata. Puoi trovarla tramite la comparazione del DNA.»

Surek sorrise. «Forse allora.... potrei cercarla.» Trip lo interruppe. «Surek....» Nella sua voce c’era preoccupazione. «Sei proprio certo di vo-

ler fare una cosa del genere? Voglio dire.... chissà che emozioni può scatenare una scoperta del genere.... anche.... se bella, non voglio dire....»

«Sono comunque per metà Vulcaniano. So come gestire le emozioni.» T’Pol alzò un sopracciglio verso Trip, che le sorrise. «Posso accompagnarti io, se vuoi.» disse Trip.

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Seduto davanti al terminale, Surek ascoltava attentamente il tecnico spiegarne il funziona-mento.

Gli porse un lungo cotton-fioc. «Passa questo all’interno della guancia. Raccoglierai abba-stanza cellule per il confronto. Quindi sfrega il bastoncino sul vetrino e inseriscilo nello slot. Il computer analizzerà il tuo DNA, poi farà una scansione con quelli in archivio. Se c’è qual-cosa, i risultati ti appariranno sullo schermo. Ma non voglio darti vane speranze. E’ molto dif-ficile trovare informazioni. Generalmente chi abbandona i neonati nega il consenso per que-ste ricerche.»

Surek annuì. «Grazie.» Il tecnico gli batté una mano sulla spalla e uscì dal cubicolo. Surek guardò il cotton-fioc per qualche secondo, quindi fece come il tecnico gli aveva detto. Si lasciò andare contro lo schienale e guardò il computer che snocciolava i dati del suo

DNA, quindi passava a paragonarlo con quelli che aveva nel database. Sospirò dopo che i primi minuti non diedero risultati. «Nemmeno un nonno? Uno zio?» sussurrò. Si alzò in piedi e uscì dal cubicolo. Trip stava parlando con un tecnico. Surek aspettò che fi-

nissero, poi si avvicinò a lui. «Hai già fatto?» chiese Trip. «No, la ricerca sta ancora girando, ma....» Scosse la testa. «Credo che sia un buco nell’acqua.

Ero preparato a questa evenienza.» disse lui. «Ma lo stesso mi dispiace.» Il terminale emise improvvisamente un cicalio. Surek e Trip si girarono contemporaneamente, ma da quella distanza non potevano leggere

le scritte. «Ha trovato qualcosa.» disse il ragazzo, ma non si mosse. «Be’? Non vai a vedere?» gli sorrise Trip. «Forse dovrei lasciar perdere.» Tucker gli mise le mani sulle spalle. «Arrivato a qui, molli?» Surek distolse lo sguardo. «E se fosse.... se fosse una delusione?» «Non credo che possa essere peggio di come l’hai sempre vista.» Lui scosse la testa. «No, io.... credo di averci ripensato.» Incrociò le braccia e guardò a terra. «Credi o ne sei sicuro?» Il ragazzo non rispose. «Vuoi che guardi io, per te?» chiese Trip. Surek annuì impercettibilmente. Tucker gli sorrise e andò a sedersi al terminale. Il monitor era diviso in quattro fasce orizzon-

tali, le prime due mostravano due sequenze di DNA, nelle altre erano ancora in atto le ricer-che.

Trip saltò i grafici dei nucleotidi e andò a leggere i nomi. Rimase qualche secondo a fissare il monitor. Poi sussurrò: «Non è possibile.» Surek si girò verso di lui. «C-cosa?» Il terminale emise di nuovo il cicalio e una terza sequenza di DNA apparve sullo schermo. Trip abbassò gli occhi sulla sequenza appena apparsa. «No, non è possibile.» disse. Il ragazzo ebbe la tentazione di scappare. Cosa doveva dirgli? Aveva antenati che erano

criminali di guerra? O magari Potenziati delle guerre eugenetiche? Fece un passo indietro, appoggiandosi allo stipite. Aveva provato la paura. Ma ora era nel totale terrore. Pesò di scappare, ma quando guardò Trip, si rese conto che anche lui era sconvolto.

«Capitano Tucker?» sussurrò. Trip si girò verso di lui e sussurrò: «Lorian.»

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Per tutto il viaggio di ritorno non dissero una parola. Non c’erano parole per esprimersi. Entrati in casa, T’Pol, seduta sul divano, li salutò e chiese come fosse andata. Trip guardò Surek, il quale gli porse il PADD che aveva in mano e annuì. Tucker prese il

PADD. T’Pol si alzò per andargli incontro, ma lui scosse la testa. «No, resta seduta.» T’Pol alzò un sopracciglio, ma fece come lui aveva detto. Ricevette il PADD, chiedendosi

cosa fosse successo. Quel silenzio era quasi angosciante. Guardò i dati sul PADD. «Avremmo dovuto capirlo.» sussurrò Trip. «Il periodo coincide.» «Come.... com’è possibile?» disse T’Pol. Surek scosse leggermente la testa. «Non lo so.» «Il DNA non mente.» disse Trip, tentando un incerto sorriso, mentre ricordava le parole di

T’Pol quando lui aveva messo in dubbio che la T’Mir dell’altro universo fosse sua figlia. T’Pol riguardò ancora il PADD. Aveva ragione. Tutto coincideva. Guardò Surek, in piedi sulla porta con l’aria di chi l’ha fatta grossa e vuole scappare. «Phlox l’aveva detto....» sussurrò, rivolta a Trip. «Che cosa?» chiese lui. T’Pol si alzò, si avvicinò con calma a Surek, che resistette a stento all’impulso di fuggire.

«Che avrebbe avuto il sangue verde, le orecchie a punta e....» Prese delicatamente il volto del ragazzo tra le mani. «E i tuoi occhi.... E’ un miracolo. Il nostro terzo miracolo.» Baciò sulla fronte Surek. «-Sa-fu animo.-» (Figlio mio.)

Surek, trattenendo a stento le lacrime, abbracciò la Vulcaniana. «Madre.» disse. «-M’aih. Tun-tor tu.-» (Madre, ti voglio bene.) «Credo che Skon ci debba delle spiegazioni.» sussurrò.

T’Pol annuì. «-Ah.-» (Sì) «Ma ora....» Prese per mano Surek e lo accompagnò a sedersi sul di-vano, vicino a Trip. «Abbiamo tante cose di cui parlare.»

Surek non riuscì a trattenere le lacrime, questa volta. «E tutta la vita per farlo.» sussurrò. Trip annuì. «Devo assolutamente chiamare T’Mir e Izar.» disse T’Pol. Raccattò un comunicatore. «T’Pol

a T’Mir, Izar.» Le ragazze erano in giro assieme a fare shopping e rispose T’Mir. «M’aih, Izar si sta provan-

do una gonna lunga ben quaranta centimetri. Direi che è un miracolo.» Trip sorrise. «Venite a casa il più presto possibile. C’è una bella sorpresa.» disse T’Pol. T’Mir si avvolse in un maglione a rete nero che si era comprata quel giorno e uscì nel giar-

dino. Si sedette sulla panca accanto a Surek e guardò il cielo. «Stai guardando Keid?» Lui annuì, continuando a fissare il lontano sole del pianeta natale di sua madre. «Sei stata

anche tu su Vulcano, vero?» T’Mir annuì. «Svariate volte. Era bello stare da mia.... nostra nonna. Ci alleavamo contro

T’Pol.... bonariamente.» Surek rise. «Non ti preoccupare se ancora non ti va giù questa storia.» Lei sorrise. «No, non è che non mi va giù. E’ che devo abituarmi all’idea. Penso che per Trip

e T’Pol, ritrovarti sia stato.... grandioso.» «“Trip” e “T’Pol”?»

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«Sono cresciuta su una nave dove tutti li chiamavano così. Non sempre li ho chiamati “m’aih” e “papi”.» Gli sorrise. «Ho vissuto quegli anni in cui pensavamo che T’Pol avesse a-bortito. E’ stato tremendo per i miei genitori.»

«Ma per fortuna poi è arrivata Izar.» T’Mir annuì. «Mi dispiace che tu ti sia perso tutto.... tutto l’amore che abbiamo avuto noi.» «Non è colpa vostra.» «Hai parlato con Skon?» Surek annuì. «Sì. Non è stata.... colpa sua. E’.... finito in mezzo a vortice di menzogne per

caso e ha deciso di mantenere il segreto perché pensava che fosse meglio così. Solo che.... ho lo stesso sentimenti contrastanti e in questo caso è difficile seppellirli.» Sospirò. «M’aih non avrebbe portato a termine la gravidanza. Così, mi hanno strappato a lei e messo in un utero artificiale, continuando a modificarmi finché non sono arrivato all’equilibrio. Ma invece che rendermi ai nostri genitori.... mi tennero in osservazione. Quando avevo un anno, Skon sco-prì la cosa. A patto di potermi portare via di lì e crescere in un modo per lui migliore, man-tenne il segreto sulla base dove facevano esperimenti, come l’ibridazione.... L’ha fatto per salvarmi da una crescita ben più solitaria e difficile. Inventò tutte quelle balle, non sapeva chi fossero i miei veri genitori.... Insomma, lui ha fatto del suo meglio, ma non posso non sentire un po’ di rancore, verso di lui.»

T’Mir annuì e gli mise una mano sulla spalla. «Senza quegli scienziati non sarei vivo. Ma loro mi hanno.... condannato a un’infanzia....»

S’interruppe. «Che non è stata lontanamente bella come la mia o quella di Izar.» concluse T’Mir. Lui annuì e le sorrise. «Mi reputo fortunato ad avervi trovato. L’universo è così immenso

che.... è quasi assurdo quello che è successo.» Lei scosse la testa. «Io non credo. In fondo era ovvio: hai ripercorso la strada dei nostri geni-

tori, nell’Accademia della Flotta Stellare.» T’Mir scrollò le spalle. «Be’, veramente loro hanno iniziato quando si chiamava Flotta Astrale, ma il concetto è quello.» Rise. «Hai capito da dove veniva tutto quel talento per i motori?»

Surek si unì a lei nella risata. «Se fossi cresciuto con Trip, forse non sarei diventato lo spac-cone testa di cazzo che sono.»

T’Mir scosse la testa. «Da chi credi abbia preso Izar?» «Oh, be’, non certo da T’Pol. Sai.... ti ho dato retta.» disse poi Surek. «Ho tacchinato una

Klingon. La figlia maggiore del delegato.» T’Mir lo guardò incuriosita: «Io non dicevo sul serio.» «Già, però.... be’, l’ho fatto.» «E com’è andata?» «Ha finito per tacchinarmi lei e.... mi ha rotto una clavicola.» T’Mir scoppiò a ridere: «Non era per le botte del vascello della fazione nemica.» «No.» Le guance di Surek si tinsero di verde. «Per il resto è stato.... piacevole, a tratti. Alme-

no ho rotto il ghiaccio.» La ragazza rise leggermente. «Izar mi disse una cosa del genere.... anche la sua prima volta è

stata con un Klingon. Mi disse: “Ho rotto il ghiaccio. O meglio, qualcos’altro.”» Surek rise. «E la tua prima volta?» «Malcolm Reed.» disse lei. «Solo lui.» «Credi che faccia un po’ troppo “azienda di famiglia” se chiedo di essere ancora sotto il co-

mando di Malcolm?»

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La ragazza scrollò le spalle. «Io pensavo che potremmo salirci tutti assieme, Izar compresa, sulla prossima nave. Siamo spaziali, soffriamo il mal di terra.»

«E chi sarà il capitano? Reed o Tucker?» T’Mir restò a pensare per qualche secondo, poi, ricordando una cosa che aveva detto Trip

quasi trent’anni prima su Risa, disse: «Faranno a turno!»

FINE (24/12/2007) Musica: “Ma l’Amore No” - Gigliola Cinquetti “Di Sole e d’Azzurro” - Giorgia Il feedback positivo e/o costruttivo è benvenuto su [email protected] L’incontro di Surek con la Klingon è stato ampiamente ispirato da “Eternal Warrior” di Stub e

Quills. Ogni altra somiglianza a racconti, fanfiction, persone reali o fatti realmente accaduti è puramente casuale.

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“I Naviganti”

(http://fabuland.wordpress.com/2010/08/08/i-naviganti/) I Naviganti 1: K'lalatar Prkori K'lalatar Prnak'lirli I Naviganti 2: K'lalatar Prnak'lirli K'lalatar Priori I Naviganti 3: Prkori - Quarto Universo I Naviganti 4: Mélangées I Naviganti 5: Gajtuian I Naviganti 6: Io Sono la Quarta I Naviganti 7: Voi Siete il Mio Equipaggio I Naviganti 8: Ghemor I Naviganti 9: My! My! Time Flies! I Naviganti 10: Myra e Shedar I Naviganti 11: They I Naviganti 12: Killing Me Softly I Naviganti 13: Teneri Paciocchini I Naviganti 14: Drifting I Naviganti 15: Perché il Mondo È Concavo ed Io Ho Toccato il Cielo I Naviganti 16: Bad Romance I Naviganti 17: Against All Odds I Naviganti 18: Il Profumo dei Limoni