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1 Questo documento, ideato quale strumento di lavoro, è la versione informatica, leggermente corretta e aggiornata, delle dispense Essere e spirito. antologia. bibliografia, pubblicata dall’Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, nel 1987. Accompagnava il corso di metafisica dato all'epoca da Paul GILBERT sj, in facoltà di filosofia della Gregoriana. L’uso di questo documento è riservato agli studenti di codesta Università. I N D E X Introduzione generale. 00. Bibliografia generale. 01 Essere e spirito. 02 Metodo. 03 Prima- o meta-fisica. Prima parte. Principio di ragione. 04 Sensibilità e intendimento. 05 Universalità e necessità. 06 Spiegazione e ragione. 07 Percezione. 08 Apprensione e comprensione. 09 Intelligibilità e causalità. 10 Empirismo. 11 Idealismo. 12 Principio di ragione. Gerarchia delle scienze. 13 Astrazione qualitativa. 14 Scienze fisiche. 15 Qualità e quantità. 16 Unità e legge matematiche. 17 Fisica matematica. 18 Oltre la matematica. Scienza prima. 19 Possibilità delle scienze. 20 Metafisica. 21 Specificità della metafisica. 22 Astrazione precisiva.

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Questo documento, ideato quale strumento di lavoro, è la versione informatica,

leggermente corretta e aggiornata, delle dispense Essere e spirito. antologia.

bibliografia, pubblicata dall’Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, nel

1987. Accompagnava il corso di metafisica dato all'epoca da Paul GILBERT sj, in

facoltà di filosofia della Gregoriana. L’uso di questo documento è riservato agli

studenti di codesta Università. I N D E X Introduzione generale. 00. Bibliografia generale. 01 Essere e spirito. 02 Metodo. 03 Prima- o meta-fisica. Prima parte. Principio di ragione. 04 Sensibilità e intendimento. 05 Universalità e necessità. 06 Spiegazione e ragione. 07 Percezione. 08 Apprensione e comprensione. 09 Intelligibilità e causalità. 10 Empirismo. 11 Idealismo. 12 Principio di ragione. Gerarchia delle scienze. 13 Astrazione qualitativa. 14 Scienze fisiche. 15 Qualità e quantità. 16 Unità e legge matematiche. 17 Fisica matematica. 18 Oltre la matematica. Scienza prima. 19 Possibilità delle scienze. 20 Metafisica. 21 Specificità della metafisica. 22 Astrazione precisiva.

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23 Astrazione formale, totale. 24 Trascendentalizzazione. 25 Dialettiche ascendenti. 26 Spirito e ente in quanto è. 27 Sintesi predicativa. 28 Sintesi oggettiva. 29 Causalità metafisica. 30 Idea d’essere. Seconda parte. Disposizione fondamentale. 31 Disposizione dell’intelligenza. 32 Reciprocità volontà - intelligenza. 33 Volontà e intelligenza nell’essere. Struttura dell’ente. 34 Unità di fatto. 35 Stupore e mistero. 36 Stupore e ontologia. 37 L’ente e i suoi fenomeni. 38 Sostanza. 39 Essenza. 40 Quiddità. 41 Sostanza e intelligibilità. 42 Sostanza e accidente. 43 Accidente e quiddità. 44 Forma e materia. 45 Individuo. Accesso alla metafisica. 46 Superamento dello stupore. 47 Infinito del volto. 48 L’atto è mio. 49 L’atto ed il reale. 50 Atto, sostanza, essenza. 51 Atto e potenza. 52 Essenza ed esistere. Terza parte. Analogia dell’essere. 53 Univocità. 54 Equivocità. 55 Analogia. 56 Attribuzione intrinseca. 57 Proporzionalità. 58 L’atto spirituale. 59 Causalità. 60 Contingenza e atto. 61 Partecipazione. 62 Gerarchia degli enti.

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63 Minerale. 64 Vegetale. 65 Animale. 66 L’uomo. Trascendentali. 67 Unità logica e ontologica. 68 Unità trascendentale. 69 Intelligibilità dell’ente. 70 Adeguazione. 71 Manifestazione. 72 Trascendentalità della verità. 73 Presenza dell’essere. 74 Bene e perfezione. 75 Analogia del bene. 76 Trascendentalità del bene. Conclusione generale. 77 Bellezza. 78 Creazione. I N D I C E D E I T E S T I C I T A T I AGAZZI E., Introduzione ai problemi dell’assiomatica (§ 16) AGOSTINO, Le confessioni (§ 26) AGOSTINO, Del libero arbitrio (§ 65) AGOSTINO, La Trinità (§ 34, 58) ANSELMO d’A., La verità (§ 69) ARISTOTELE, Etica nicomachea (§ 74) ARISTOTELE, Metafisica (§ 35, 55, 67) ARISTOTELE, Secondi analitici (§ 02) BERGSON H., Introduzione alla metafisica (§ 20) BLONDEL M., L’azione 1893 (§ 04, 33) CHENU M.D., Introduzione allo studio di s. Tommaso (§ 32) DE FINANCE J., Connaissance de l’être (§ 66) DESCARTES R., Il discorso del metodo (§ 61) DESCARTES R., Seconda meditazione (§ 48) FABRO C., La difesa critica del principio di causalità (§ 09) FICHTE G.A., Dottrina della scienza (§ 49) FOREST A., L’avvento dell’anima (§ 22) FOREST A., Orientazioni metafisiche (§ 11) GIACON C., Motivi plotiniani (62) GILSON Et., Le thomisme (§ 38-45, 50-52) HEGEL G.W.F., Fenomenologia dello spirito (§ 36) HEIDEGGER M., Essere e tempo (§ 19, 31) HEIDEGGER M., Introduzione alla metafisica (§ 00) HEIDEGGER M., Sull’essenza della verità (§ 71, 73)

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HEISENBERG W., Mutamenti nelle basi della scienza (§ 14) HENRICI P., Per una rilettura del discorso metafisico (§ 46) HUME D., Ricerche sull’intelletto umano (§ 10) JACOB Fr., La logica del vivente (§ 64) JASPERS K., Ragion ed esistenza (§ 12) KANT Im., Critica della ragion pura (§ 27, 37) KANT Im., Prolegomeni ad ogni futura metafisica (§ 05) KOYRE Al., Studi newtoniani (§ 15) LADRIERE J., L’articolazione del senso (§ 17) LEVINAS Em., Totalità e infinito (§ 47) LONERGAN B., L’intelligenza (§ 06) LOTZ J.B., Essere e concetto (§ 30) LOTZ J.-B., Das Urteil und das Sein (§ 08) MARCEL G., Giornale metafisico (§ 01) MARECHAL J., Le point de départ de la métaphysique (§ 28) MARITAIN J., Breve trattato (§ 24) MARITAIN J., I gradi del sapere (§ 13, 23) MERLEAU-PONTY M., Fenomenologia della percezione (§ 07, 60) MOLINARO A., Linguaggio, logica, metafisica (§ 57) NAGEL E. e NEWMAN J.R., La prova di Gödel (§ 18) PLATONE, Repubblica (§ 29) PLATONE, Simposio (§ 25) PLOTINO, Il bene e l’uno (§ 68) PLOTINO, Il primo bene e gli altri bene (§ 75) RICOEUR P., La metafora viva (§ 54) SCAPIN P., DUNS SCOTO, Il primo principio (§ 53) SCIACCA M.F., E’ possibile una metafisica ? (§ 21) SELVAGGI F., Il problema filosofico (§ 59) TOMMASO d’A., La verità (§ 70, 72) TOMMASO d’A., Somma contro i gentili (§ 03, 56, 76) TREANOR P.J., Origine ed evoluzione del mondo fisico (§ 63) VON BALTHASAR H.U., Nello spazio della metafisica (§ 78) VON BALTHASAR H.U., La percezione della forma (§ 77)

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[La domanda : «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla»] è tuttavia sempre la prima […] per il suo rango. Ciò risulta evidente da un triplice punto di vista. La domanda : «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?» reclama il primo posto anzitutto perché è la più vasta, in secondo luogo perché è la più profonda, infine perché è la più originaria. Si tratta della domanda di più vasta portata. Essa non si ferma ad un ente qualsiasi, ma investe tutto l’essente nel suo senso più lato, né si limita al dato attuale, ma riguarda anche quanto è stato per l’addietro e sarà in futuro. L’estensione di questa domanda non incontra nessun limite se non in ciò che non è né sarà in alcun modo, ossia nel nulla. Tutto ciò che non è un nulla ricade sotto questa domanda, ed infine lo stesso nulla: non già perché esso divenga qualcosa dal momento che né parliamo, ma perché «è» il nulla. La nostra domanda è di cosi vasta portata che non sapremmo oltrepassarla. Essa non verte su questo o su quello ente in particolare, né sull’intera serie degli enti, ma sull’essente in toto, o, come vedremo meglio più avanti, sull’essente nella sua totalità come tale. Per il fatto che questa domanda è la più vasta, è anche la più profonda. «Perché vi è, in generale, l’essente...?» Chiedere perché è come chiedere: quale ne è la ragione, il fondamento (Grund)? Da quale fondamento l’essente proviene? Su quale fondamento si basa? A quale fondamento risale? La domanda non concerne questo o quello aspetto dell’essente, né il suo essere qua o là, né come è fatto o come può risultare modificato o venire utilizzato, e via dicendo. Il domandare mira al fondamento dell’essente in quanto essente. Cercare il fondamento significa indagare la ragione, investigare. Tutto ciò che viene investigato si rapporta al fondamento. Solo che, per il fatto dello stesso domandare, rimane incerto se questo fondamento sia veramente fondante, se realizzi la fondazione, se sia un fondamento originario (Urgrund); ovvero se questo fondamento rifiuti la fondazione, se sia assenza di fondamento (Abgrund); o se, infine, non sia né una cosa né l’altra, ma presenti solo un’apparenza, forse necessaria, di fondazione, costituendo così solo un non-fondamento (Un-grund). Comunque sia, la domanda va in cerca di una risposta decisiva perseguendola in un fondamento che fondi, giustifichi l’essente come tale in ciò che esso è. Tale domanda sul perché non ricerca, per l’essente, cause della stessa natura o poste sul medesimo piano di esso. Essa non si muove su di un piano indifferente o solo in superficie, ma penetra nella zona più profonda, proprio fino all’ultimo, fino al limite: rifuggendo da qualunque superficialità e appiattimento tende al profondo, cosicché, oltre che come la più ampia, si presenta nel contempo, fra tutte le domande più profonde, come la più profonda. Infine, in quanto è la domanda più ampia e profonda, si presenta anche come la più originaria. Che cosa si deve intendere con questo? Se ci si rende conto di tutta l’ampiezza di questa domanda, che problematizza l’essente come tale nella sua totalità, apparirà chiaro che essa non concerne in alcun modo questo o quello ente singolo in particolare. Ciò che noi intendiamo considerare è propria l’essente nella sua totalità, senza alcuna preferenza particolare. Tuttavia, c’è un essente che si fa avanti sempre di nuovo con insistenza in questo domandare: quello degli uomini stessi che pongono la domanda. Pure, in questa domanda, non deve trattarsi di un qualche ente particolare. In ragione della sua portata illimitata tutti gli enti per essa si equivalgono. Un qualunque elefante in una qualsiasi foresta vergine dell’India è altrettanto essente che un qualsiasi processo chimico di combustione sul pianeta Marte, o quel che si

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voglia.

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Quando si osserva l’evoluzione delle dottrine metafisiche da circa un secolo, si è colpiti nel constatare come i filosofi idealisti siano d’accordo in generale nel ridurre al minimo la funzione dell’esistenza, dell’indice esistenziale nell’economia generale della conoscenza, e ciò a vantaggio delle determinazioni razionali su tutti i piani – alcuni diranno dei valori – che conferiscono al pensiero un contenuto intelligibile. L’esistenza appare quindi come un qualcosa a cui il pensiero forse si appoggia, ma che esso tende a perdere sempre più completamente di vista. Senza dubbio si potrà discutere se un simile atteggiamento sia effettivamente quello di questo o di quel filosofo in particolare: non si può negare, crediamo, che esso si sia sempre più chiaramente definito nel corso dell’ultimo secolo; neanche si può negare che questa posizione sia racchiusa nella definizione stessa di un certo idealismo. È importante notare che quanto più si metterà l’accento sull’oggetto come tale, sui caratteri che lo costituiscono in quanto oggetto, e sulla intelligibilità di cui bisogna che sia dotato per dare presa al soggetto che gli sta di fronte, tanto più si sarà portati a lasciare invece nell’ombra il suo aspetto – non diremo il suo carattere – esistenziale. Anche qui una semplice metafora sembra rendere conto della situazione logica che lo spirito tende a creare a se stesso: noi diremo che il pensiero conferisce agli oggetti, in rapporto a se stesso, una specie di insularità: l’oggetto si immerge in essa, come l’oggetto si immerge nello spazio e forse proprio perché si immerge nello spazio. Per il fatto stesso che le sue aderenze più strette al fondo, al Grund ipotetico delle cose, sono rotte secondo ogni apparenza, l’oggetto appare accessibile da tutte le parti. Con ciò tende a istituirsi un legame, una intesa rigorosamente stabile e soddisfacente, tra il pensiero e l’oggetto, sulla cui base la scienza si potrà facilmente edificare, senza che per questo ci sia bisogno di accogliere necessariamente nei loro particolari le tesi criticiste. Ciò che invece non sarà preso deliberatamente in considerazione è il modo in cui l’oggetto è presenza a colui che lo considera; oppure, ed è la stessa cosa, il misterioso potere di affermazione di sé, grazie al quale l’oggetto si rivela davanti ad uno spettatore. Sarà anche lasciato da parte e in un modo più radicale il problema di sapere come possa accadere che questo oggetto non sia soltanto uno spettacolo razionalmente articolato, ma possegga anche il potere di colpire in mille modi l’essere stesso di colui che lo contempla e lo subisce. Questa presenza sensibile della cosa, se non si identifica con la sua esistenza, appare almeno a una rivelazione non prevenuta come la sua

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manifestazione, la sua rivelazione più immediata: ecco ciò che una filosofia, rivolta ad un tempo alle idee e agli oggetti, tenderà necessariamente a far sparire. Ci si può allora rendere conto facilmente che al di là di tale idealismo, – che, senza negare l’esistenza, la scarta, la respinge all’infinito – possa nascere una tesi più radicale, secondo la quale l’esistenza dovrà essere considerata revocabile in dubbio, e forse contraddittoria.

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Ordunque, che senza conoscere i primi principi immediati non sia possibile sapere mediante dimostrazione, già si è detto in precedenza. D’altro canto, ci si può domandare se la conoscenza dei principi immediati sia o meno identica alla conoscenza dimostrativa, se i principi immediati e le proposizioni dimostrabili siano o

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meno oggetto di scienza, oppure se le seconde lo siano, mentre i primi sarebbero oggetto di un qualche genere diverso di conoscenza, e infine, se le facoltà dei principi si sviluppino senza sussistere in noi sin dall’inizio, oppure se esse siano innate, senza che ce ne avvediamo. In verità, se le possedessimo sin dall’inizio, si andrebbe incontro a delle conseguenze assurde, poiché si dovrebbe concludere che, pur possedendo conoscenze superiori alla dimostrazione, noi non ci accorgiamo di ciò. D’altra parte, se noi acquistiamo queste facoltà, senza averle possedute in precedenza, come potremo render noto un qualcosa e come potremo imparare, quando non si parta da una conoscenza preesistente? Tutto ciò è infatti impossibile, come dicevamo già a proposito della dimostrazione. È dunque evidente che non è possibile possedere tali facoltà sin dall’inizio, e che non è neppure possibile che esse si sviluppino in coloro che sono del tutto ignoranti e non posseggono alcuna facoltà. Di conseguenza, è necessario che noi siamo in possesso di una qualche capacità, non però di una capacità tale da essere più pregevole delle suddette facoltà, quanto ad acutezza. [...] È dunque evidentemente necessario che noi giungiamo a conoscere gli elementi primi con l’induzione. In effetti, già la sensazione produce a questo modo l’universale. Ora, tra i possessi che riguardano il pensiero e con i quali cogliamo la verità, alcuni risultano sempre veraci, altri invece possono accogliere l’errore; tra questi ultimi sono, ad esempio, l’opinione e il ragionamento, mentre i possessi sempre veraci sono la scienza e l’intuizione, e non sussiste alcun altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all’infuori dell’intuizione. Ciò posto, e dato che i principi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d’altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i principi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere come oggetto i principi. Tutto ciò risulta provato, tanto se si considerano gli argomenti che precedono, quanto dal fatto che il principio della dimostrazione non è una dimostrazione; di conseguenza, neppure il principio della scienza risulterà una scienza. E allora, se oltre alla scienza non possediamo alcun altro genere di conoscenza verace, l’intuizione dovrà essere il principio della scienza. Così, da un lato l’intuizione risulterà il principio del principio, e d’altro lato la scienza nel suo complesso sarà in questo stesso rapporto rispetto alla totalità degli oggetti.

03 Prima- o meta-fisica. AA.VV., Metafisica e ontologia, Atti del 22o convegno degli assistenti universitari di filosofia,

Padova, 1978. AA.VV., Maître Eckhart à Paris. Une critique médiévale de l’ontothéologie. Études, textes et

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Si deve notare che le cose sensibili, dalle quali la ragione umana desume la conoscenza, conservano in sé un certo vestigio della causalità divina, però così imperfetto da essere del tutto insufficiente a manifestare la natura stessa di Dio. Poiché gli effetti conservano in una certa misura la somiglianza con la loro causa, perché ogni agente produce una cosa a se somigliante; ma l’effetto non sempre raggiunge una perfetta somiglianza. Perciò la ragione umana nel conoscere le verità di fede, che possono essere evidenti solo a coloro che contemplano l’essenza di Dio, è in grado di raccoglierne certe analogie, che però non sono sufficienti a dimostrare codeste verità o a comprenderle per intuizione intellettiva. Tuttavia è proficuo per la

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mente umana esercitarsi in tali ragionamenti per quanto inadeguati, purché non si abbia la presunzione di comprendere o di dimostrare : poiché poter intendere anche poco e debolmente le cose e le realtà più sublimi procura la più grande gioia, come abbiamo già notato sopra (c. 5). Tale considerazione è confermata dall’autorità di S. Ilario, il quale afferma nel secondo libro del De trinitate (cc. 10, 11), a proposito delle verità di fede : «Nella tua fede inizia, progredisci, insisti: sebbene io sappia che non arriverai alla fine, mi rallegrerò del tuo progresso. Chi infatti si muove con fervore verso l’infinito, anche se non arriva mai, tuttavia va sempre avanti. Però, non presumere di penetrare il mistero, e non ti immergere nell’arcano di una natura infinita, immaginando di comprendere il tutto dell’intelligibile: ma cerca di capire che si tratta di realtà incomprensibili».

P R I M A P A R T E DINAMICA DELLA SPIEGAZIONE

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04 Sensibilità e intendimento AUSTIN J.L., Sense and sensibilia, reconstructed from the manuscript, Oxford, 1963. MERLEAU-PONTY M., Phénoménologie de la perception, Paris, 1945 (tr. it.: Fenomenologia

della percezione, Milano, ³1980). RYLE G., The concept of mind, London, 1951. M. BLONDEL, L'action (1893), Paris, ²1950 (tr. it.: L’azione, Firenze, 1930, 85-87):

A primo aspetto, l’impressione sensibile è, per ognuno, tutto che può essere, unico punto su cui non si possa mai discutere, poiché non si comunica mai la realtà medesima di ciò che si sente. La qualità della sensazione che io provo è unica nel suo genere, di specie incomparabile, senza analogia; e ciò che è peculiare a questa intuizione non potrebbe essere né analizzato, né misurato, né descritto; degli stessi gusti e colori non si discute. In questo ordine della qualità pura, non c’è se non eterogeneità. Sono ciò che sento, nell’atto in cui sento. Ma perché io la senta, non occorre forse che nella sensazione medesima ci sia altro? La qualità sensibile non è il solo dato immediato dell’intuizione: se lo fosse, svanirebbe, perché discontinua, sufficiente, incomparabile, sempre perfetta e sempre scomparsa, essa sarebbe sempre un puro sogno senza ricordo, senza passato, né presente, né futuro. Perché non è così? perché dal momento in cui la sensazione appare, cela una incoerenza e come un’antinomia interna: poiché essa è soltanto in quanto sentita; ed è sentita soltanto in quanto è rappresentata nello stesso tempo che presente, immaginata nel tempo stesso che provata; di modo che in essa sono necessariamente racchiuse queste due affermazioni all’apparenza inconciliabili: «Sono ciò che sento, sento ciò che è». Dualità anteriore persino alle leggi che governano la successione e i contrasti degli stati di coscienza e in cui pure si è preteso scoprire la forma primitiva di qualsiasi intuizione; poiché, anche a supporre che le sensazioni non siano percepite se non per “discriminazione”, occorre pur sempre che in ognuno degli stati contrastanti ci sia di che renderlo possibile. Si tratta qui dunque di ciò che nel fenomeno sensibile, fa ch’esso sia un fenomeno, nello stesso tempo che è sensibile: ora fra questi due termini c’è un’opposizione radicale che non si è abbastanza osservata, benché sia il punto di partenza di qualsiasi investigazione scientifica o filosofica. Si rifletta in fatti a questa strana e universale curiosità: in ciò che si vede e che si ode, nell’istante medesimo in cui ci si persuade che l’impressione sentita è l’assoluta e

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completa realtà, si cerca altro da ciò che si ode e si vede. Pascal da ragazzo vuol cogliere il suono che ha percepito come se il suono fosse ad un tempo altro e tale e quale lo percepisce. A nostra insaputa tutti invincibilmente facciamo altrettanto. Non ho sensazione se non a questa doppia condizione: da un lato ciò che provo ha da essere tutto mio, dall’altro ciò che provo deve parermi del tutto esterno a me ed estraneo alla mia propria azione. Non è forse la credenza e l’aspirazione del popolo? ci si immagina che il visibile non è nulla più di ciò che è veduto, come se la sensazione fosse difatti la misura di ogni cosa, e si rimane convinti che ciò che è veduto è la cosa medesima, come se la sensazione non fosse nulla e l’oggetto tutto. Incoerenza costante che si manifesta nei minimi particolari della vita.

05 Universalità e necessità BLANCHE R., Structures intellectuelles. Essai sur l’organisation systématique des concepts,

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Anzi tutto, per ciò che concerne le fonti d’una conoscenza metafisica, già cade nel concetto di questa, ch’esse non possano essere empiriche. I suoi principi (non solo le pure proposizioni prime, ma i concetti fondamentali) non devono dunque esser presi mai dall’esperienza; poiché esse deve essere conoscenza non già fisica, bensì metafisica, cioè che sta di là dall’esperienza. Dunque non le potrà servir di fondamento né l’esperienza esterna, fonte della fisica in senso proprio, né quella interna, la quale offre le base della psicologia empirica. Quella metafisica è dunque una conoscenza a priori, cioè che scaturisce dal puro intelletto e dalla pura ragione. […] La conoscenza metafisica deve constare di puri giudizi a priori; come esige la caratteristica propria delle sue fonti. Ora, i giudizi possono aver un’origine qualsivoglia, od anche esser costruiti come si voglia nella loro forma logica: non di meno c’è sempre una distinzione fra di essi, quanto al contenuto, per cui essi possono essere o puramente esplicativi, e nulla aggiungono al contenuto della conoscenza, ovvero estensivi, ed ampliano la conoscenza già data; i primi potranno denominarsi giudizi analitici, i secondi sintetici. I giudizi analitici non dicono nel predicato se non ciò che era già pensato, benché non così chiaramente né con pari coscienza, nel soggetto. Quanto io dico: «tutti i corpi sono estesi», non ho minimamente ampliato il mio concetto del corpo, ma l’ho soltanto risoluto, in quanto l’estensione, sebbene non espressamente detta, era però realmente già pensata, di quel concetto, prima del giudizio; il giudizio è, dunque analitico. Al contrario, la proposizione: «alcuni corpi sono pesanti», contiene nel predicato un qualche cosa, che nel concetto generale di corpo non viene realmente pensato; essa, perciò, aumenta la mia conoscenza, in quanto al mio concetto aggiunge qualche cosa; e perciò deve dirsi giudizio sintetico.

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06 Spiegazione e ragione

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390. L’essere, dunque, è l’obiettivo del puro desiderio di conoscere. Per desiderio di conoscere si intende l’orientamento dinamico manifestato in domande per l’intelligenza e per la riflessione. Non è l’espressione verbale delle domande. Né la loro formulazione concettuale. Non è un’intelligenza o un pensiero. Non è un’apprensione riflessiva o un giudizio. È l’impulso primo e avvolgente che porta il processo conoscitivo dal senso e dall’immaginazione all’intendimento, da questo al giudizio, da questo al contesto completo di giudizi corretti che si chiama conoscenza. Il desiderio di conoscere è allora, semplicemente, lo spirito indagatore e critico dell’uomo. Spingendolo a cercar di intendere, gli impedisce di accontentarsi del mero flusso dell’esperienza esterna e interna. Richiedendo un adeguato intendere, immette l’uomo nel processo di auto-correzione del sapere in cui ulteriori domande forniscono intelligenze complementari. Spingendo l’uomo a riflettere, a cercare l’incondizionato, a concedere un assenso senza restrizioni solo all’incondizionato, gli impedisce di accontentarsi delle dicerie e delle leggende, delle ipotesi non verificate e delle teorie non provate. Infine, ponendo all’intelligenza e alla riflessione ulteriori domande, esclude un’inerzia compiacente; se infatti le domande restano senza riposta, l’uomo non può compiacersi; e se la risposte sono cercate, l’uomo non è inerte. Poiché questo differisce radicalmente da tutti gli altri desideri, è stato chiamato puro. Esso si conoscerà per erronea analogia con gli altri desideri, ma dando libero corso alla coscienza intelligente e razionale. Esso è, invero, impalpabile, ma nondimeno potente. Spinge l’uomo fuori della solida routine di percezioni e conati, istinti e abitudini, attività e conquiste. Lo tiene col fascino dei problemi. Lo impegna nella ricerca delle soluzioni. Lo tiene lontano da quel che non é stabilito. Impone l’assenso all’incondizionato. È la calma scaltrezza del buon senso, il disinteresse della scienza, il distacco della filosofia. È l’interesse assorbente della ricerca, la gioia della scoperta, la sicurezza del giudizio, la modestia della conoscenza limitata. È la pacata serenità, la calma determinazione, l’imperturbabile incalzare della domanda che segue appropriatamente un’altra domanda nella genesi della verità. Questo puro desiderio ha un obiettivo. È un desiderio di conoscere. Come mero desiderio, è quello di soddisfare gli atti conoscitivi, di soddisfare l’intelletto, di intendere pienamente, di intendere correttamente. Ma come puro, calmo, disinteressato, distaccato desiderio non riguarda gli atti conoscitivi e la soddisfazione che danno al

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soggetto, ma i contenuti conoscitivi, quel che dev’essere conosciuto. La soddisfazione di un’errata comprensione, purché non si conosca come errore, può eguagliare la soddisfazione di una comprensione corretta. Il puro desiderio, tuttavia, disprezza la prima e apprezza la seconda; l’apprezza in quanto differisce della prima; e l’apprezza non per la soddisfazione che offre, ma perché il suon contenuto è corretto. L’obiettivo del puro desiderio, però, non è esso stesso un conoscere e quindi la sua sfera non coincide con quella del conoscere. Inizialmente in ogni individuo, il puro desiderio è un orientamento dinamico verso un totalmente sconosciuto. A misura che la conoscenza si sviluppa, l’obiettivo diventa sempre meno sconosciuto, sempre più noto. In qualunque momento, l’obiettivo include sia tutto ciò che è noto sia tutto ciò che resta ignoto, poiché è la meta del dinamismo immanente del processo conoscitivo, e questo dinamismo soggiace al raggiungimento attuale e insieme lo oltrepassa con sempre nuovi interrogativi.

07 Percezione AA.VV., Logique et perception, Paris, 1958. BAERTSCHI B., «Sensus est quodammodo ipsa sensibilia. Le réalisme aristotélicien et le

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Vedere un oggetto significa o averlo al margine del campo visivo e poterlo fissare, o rispondere effettivamente a questa sollecitazione fissandolo. Quando lo fisso, io mi ancoro in esso, ma questo “arresto” dello sguardo non è se non una modalità del suo movimento: io continuo all’interno di un oggetto l’esplorazione che poco prima li sorvolava tutti, con un solo movimento richiudo il paesaggio e apro l’oggetto. Non a caso le due operazioni coincidono: non sono le contingenze della mia organizzazione corporea, per esempio la struttura della mia retina, che, se voglio vedere nitidamente l’oggetto, mi costringono a vedere sfocato ciò che lo circonda. Anche se non sapessi nulla di coni e bastoncelli, penserei che, per meglio vedere l’oggetto, è necessario porre in letargo ciò che lo circonda e perdere in sfondo ciò che si guadagna in figura: infatti, guardare l’oggetto significa immergersi in esso, e gli oggetti formano un sistema in cui uno di essi non può mostrarsi senza nascondere altri. Per essere più precisi, l’orizzonte interno di un oggetto non può divenire oggetto senza che gli oggetti circostanti divengano orizzonte, e la visione è un atto a due facce. Io non identifico infatti l’oggetto dettagliato che ho ora con quello sul quale il mio sguardo scorreva poco fa confrontando espressamente questi dettagli con un ricordo della prima veduta di insieme. Quando in un film la macchina da presa si dirige su un oggetto e gli si avvicina per darcelo in primo piano, noi possiamo sì ricordare che si tratta del portacenere o della mano di un personaggio, ma non l’identifichiamo effettivamente. Il fatto è che lo schermo non ha orizzonti. Per contro, nella visione io appoggio il mio sguardo su un frammento del paesaggio: esso si anima e si dispiega, gli altri oggetti si ritirano in margine ed entrano in letargo, ma non cessano di essere là. Orbene, con essi io ho a mia disposizione i loro orizzonti, nei quali è implicato, ma visto in visione

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marginale, l’oggetto che fisso attualmente. L’orizzonte è quindi ciò che assicura l’identità dell’oggetto nel corso dell’esplorazione, è il correlato del potere diretto che il mio sguardo conserva sugli oggetti che ha appena percorso e che ha già sui nuovi dettagli che sta per scoprire. Nessun ricordo espresso, nessuna congettura esplicita potrebbero svolgere questa funzione: essi darebbero solo una sintesi probabile, mentre la mia percezione si dà come effettiva. Pertanto, la struttura oggetto-orizzonte, cioè la prospettiva, non mi intralcia quando voglio vedere l’oggetto: se è il mezzo che gli oggetti hanno per dissimularsi, è anche il mezzo che essi hanno per svelarsi. Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro agli altri, o dietro a me. In altri termini: guardare un oggetto significa venire ad abitarlo, e da qui cogliere tutte le cose secondo la faccia che gli rivolgono.

08 Apprensione e comprensione DE SAINTE MARIE J., «Intentionnalité et réflexivité, base psychologique d’un fondement

critique du réalisme de la connaissance» in Congresso internazionale st. Tommaso d’Aquino nel suo 7o centenario, vol. 6, L’essere, Napoli, 1977, 501-510.

HUSSERL Ed., Logische Untersuchungen, 3 voll., Halle, 1921-1922, II, 2. LONERGAN B., «Cognitional structure» in Collection, New-York, 1967, 221-239. LOTZ, J.B., Das Urteil und das Sein. Eine Grundlegung der Metaphysik, Pullach, ²1957. LOTZ J.B., Metaphysica operationis humanae methodo transcendantali explicata, Roma,

1958. J.B. LOTZ, Das Urteil und das Sein, 15 (trad. V. Marcozzi).

La comprensione giornaliera non cade in nessun modo fuori della sfera dell’essere, come se ciò venisse escluso dalla scienza. Al contrario, la nostra conoscenza si trova fin dall’inizio nell’essere; se noi cerchiamo di raggiungere questo soltanto dopo ogni sorta di artifizi filosofici, «si burlerebbe di questo se non fosse in sé e per sé presso di noi e non volesse essere» (Hegel). Parlando più esattamente, il nostro sapere è sempre una iniziale comprensione dell’ente in quanto tale. Ma con ciò, noi afferriamo e comprendiamo anche il fondo ultimo o l’estremo orizzonte di tale comprensione, cioè l’essere come immediata comprensione di se, senza la quale ogni comprensione di questo genere sarebbe impossibile. L’apprensione dell’ente, che è così sempre già presente, penetrando e rendendo possibile la comprensione dell“essere”, fa così dell’essere l’intelligibile per sé, nel senso della conoscenza volgare o l’immediatamente accessibile a ciascuno. Quod primo intellectus concipit quasi notissimum et in quod omnes conceptiones resolvit, est ens (De Ver., I, 1).

09 Intelligibilità e causalità BRETON St., «Réel et rationnel dans la philosophie hégélienne» in AA.VV., La crise de la

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La riflessione trova pure un ordine ben definito nel mondo psicologico all’interno di noi stessi fra le azioni esterne e gli atti interni, e negli atti interni fra le azioni volitive ed intellettuali ove la volontà precede l’azione, e la volontà stessa a sua volta è stata preceduta dalla deliberazione e dal pensiero. Nei pensieri stessi e nelle deliberazione, anche all’infuori della loro connessione pratica, appare un ordine ben definito e che siamo obbligati di rispettare; poiché quelli particolari e più determinati sono subordinati e derivati, cioè «non si comprendono», se non in relazione ad altri più generali e indeterminati. Se organizziamo un po’ queste persuasioni del pensiero spontaneo, troviamo che la relazione, ora accennata, consiste in un riferimento di “priorità” che una cosa ha verso un’altra, e chiamiamo la cosa che precede “principio” e quella che segue “principiato”, intendendo per “principio” soltanto id a quo aliquid procedit quocumque modo. E se con Aristotele vogliamo organizzare e mettere un po’ di “ordine” fra questi vari modi di “precedere” e “procedere”, possiamo radunarli attorno a tre modi generalissimi, che rispondono ai tre modi di essere in generale: una cosa può aver “ordine” (seguire a... dipendere da...) ad un’altra o nell’essere come tale (essere, quantità, qualità assolute), o nel divenire (moto fisico) o nella conoscenza (moto intellettuale). Finora questa nozione di principio presenta un contenuto assai vago: implica soltanto «un certo ordine» di priorità in relazione ad un processo di origine qualsiasi, e per sé prescinde da modalità particolari di questo procedere. Ma non tardiamo con l’osservazione, e spesso per urgenti necessità pratiche, a scoprire delle differenze notevoli fra quei vari modi di precedere e procedere. Alle volte notiamo che fra ciò che succede e ciò che segue media soltanto una relazione estrinseca, che diciamo di pura “contiguità” temporale o spaziale: la notte precede il giorno ed un carro nella via precede quello che gli viene appresso, senza che nulla di intimo li leghi in questa successione. Altre volte siamo persuasi che la precedenza di una cosa ad un’altra si trova in connessione necessaria per l’essere di questa; così il padre precede il figlio nelle vita, l’illuminazione solare il riscaldamento della pietra, ed i principî le conclusioni. Tali cose e principî, che precedono altre in questa maniera, noi (latini) li chiamiamo con il nome speciale de “causa”, il quale plus dicit quam principium, poiché esprime un modo di precedere ben definito in relazione ad una dipendenza reale nell’essere: la cosa che dipende è chiamata “effetto”. La coscienza di questa profonda diversità tra causa e principio, e la persuasione che la causa sia ciò da cui dipende l’essere od il divenire di altre cose sono vivissime in ogni uomo e su di esse poggia e si fonda l’esplicarsi delle sue attività sia nella vita privata come in quella sociale, l’attenzione sua vigila di continuo ed indirizza le energie alla ricerca delle cause per conoscerle e dominarle, con sete inestinguibile, per cui l’uomo è stato appunto chiamato «animale delle cause, che mai non posa» (J. Hessen), quasi che fosse agitato continuamente da un istinto causale.

10 Empirismo ARMSTRONG D. & MALCOLM N., Consciousness and causality, Oxford, 1984. AYER J.A., The foundation of empirical knowledge, New-York, 1969. AYER J.A., Linguaggio, verità e logica, Milano, 1987. BLOCH G.B., «Il principio empirico di causalità» in Antonianum, 1985, 478-504. BONTADINI G., «Osservazione sulla critica empiristica del concetto di sostanza» in Rivista di

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Può essere, dunque, materia degna di attenzione il ricercare quale sia la natura dell’evidenza che ci assicura di una qualsiasi reale esistenza e d’un qualsiasi fatto, al di fuori della presente testimonianza dei sensi a dei ricordi della memoria. Questa parte della filosofia, è facile osservarlo, è stata poco coltivata sia dagli antichi che dai moderni; perciò i nostri dubbi ed errori, nella prosecuzione d’una ricerca così importante, possono essere fra i più scusabili, poiché camminiamo attraverso sentieri così difficili senza guida o direzione alcuna; essi possono perfino mostrarsi utili, col sollecitare l’attenzione e col distruggere quella fede implicita e quella sicurezza che sono il veleno di ogni ragionamento e di ogni libera ricerca. La scoperta di difetti nella filosofia comune, se ve ne sono, non sarà, penso, di scoraggiamento, ma piuttosto di incitamento, come suol avvenire, a tentare qualche cosa che sia più completo e soddisfacente di quanto finora è stato proposto al pubblico. Tutti i ragionamenti relativi a materie di fatto sembrano fondati sulla relazione di causa ed effetto. Soltanto per mezzo di questa relazione possiamo andare al di là dell’evidenza della memoria e dei sensi. [...] L’udire una voce articolata e un discorso razionale al buio, ci assicura della presenza di qualche persona: perché? perché questi sono gli effetti della struttura della fabbrica umana, strettamente connessi con essa. Se anatomizziamo tutti gli altri ragionamenti di tale natura, troveremo che sono fondati sulla relazione di causa ed effetto e che questa relazione è vicina o remota, diretta o collaterale. Il calore e la luce sono effetti collaterali del fuoco, ed uno di questi effetti può, appunto per questo, essere inferito dall’altro. Se, dunque, vogliamo metter capo a una spiegazione soddisfacente intorno alla natura dell’evidenza che si assicura dei fatti, dobbiamo ricercare come arriviamo alla conoscenza di causa ed effetto.

11 Idealismo EWING A.C., Idealism. A critical study, New-York, 1974. FOREST A., «Thomisme et idéalisme» in Revue néo-scolastique de philosophie, 1934, 317-

336. GARDEIL D.H., Les étapes de la philosophie idéaliste, Paris, 1935. VON BALTHASAR H.U, Prometheus. Studien zur Geschichte der deutchen Idealismus,

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Il pensiero, in quanto ha l’irriducibile, ha per carattere la perfetta immanenza. L’idea d’un aldilà è contraddittoria in quanto quello sarebbe ancora raggiunto dal pensiero e dovrebbe, così, diventargli interiore. Ora, elemento peculiare del pensiero è ancora la sua indipendenza e spontaneità. Non può, senza cessar d’esser se stesso, subire un influsso esterno e esser determinato da qualche oggetto o da un’azione che le cose eserciterebbero dal di fuori. In nessun modo può esser «pittura di un di fuori su un di dentro». La rappresentazione non è un affezione. Il pensiero si coglie ancora come legislatore; la verità non è conformità a un oggetto, ma carattere intrinseco della rappresentazione, in modo che la norma del vero è il pensiero agente. Lo riconosciamo inoltre come fonte di valore, in quanto esso è capacità d’andare al di là del dato e permette così d’innalzare, al di là del reale, l’affermazione di ciò che non è e che pur merita d’essere. Così, sotto qualsiasi aspetto la consideriamo, torniamo sempre a riconoscere che il pensiero non dipende che da se stesso. L’esperienza spirituale tradotta dall’idealismo è, prima di tutto, quella

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dell’indipendenza, che è, per lui, manifesta nell’analisi riflessiva del pensiero. Si comprende che possa assumere altre forme e che questa stessa ispirazione la si ritrovi nello studio della libertà. In verità, non possiamo distinguere i valori della libertà da quelli della ragione, che traducono, insieme, ciò che è, in noi, lo spirito stesso, colto nel suo carattere primitivo. Così l’idealismo appare sempre accordato, in certo senso, con il volontarismo. Esso traduce l’esperienza d’una volontà pura, del tutto indipendente tanto dalla sensibilità quanto dalle ragioni obbiettive dell’amore, dando il valore all’oggetto verso cui si porta. La libertà, nel suo puro slancio, è sempre causa dell’attrazione che apparentemente subisce, mentre, in realtà, non procede che da se stessa. Questa indipendenza è la stessa per cui si scarta dalle proprie realizzazioni, come da un dato che diventa in un certo modo obbiettivo, in rapporto ad essa. Né si esaurisce in un istante, ché non deve riconoscer nulla che verrebbe a determinarla o a fissarla. Si afferma nella creazione di motivi nuovi che paiono spiegarla e di cui è autrice. Essa è al principio di tutte le ragioni di affermarsi e di volersi. L’indipendenza è sempre il carattere che permette allo spirito di riconoscersi e di stabilirsi in se stesso.

12 Principio di ragione CRESCINI A., «Considerazioni sull’essenza del realismo» in Divus Thomas, 1984, 347-359. CRUZ C.J., Intelecto y razón. Las coordenadas del pensamiento clásico, Pamplona, 1983. DA ARENZANO I., «Necessità e contingenza nell’agire della natura secondo s. Tommaso» in

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L’esistenza diviene luminosa solo mediante la ragione; la ragione ha consistenza solo mediante l’esistenza. Nella ragione vi è l’impulso a passare dalla stagnazione e dalla giustezza puramente arbitraria alla viva connessione di tutte le idee dello spirito e da questo all’esistenza, in quanto essa sola dà allo spirito il suo vero e proprio essere. La ragione deve allora necessariamente fare riferimento a ciò che è altro: al contenuto dell’esistenza che la produce, che nella ragione si rischiara mentre procura ad essa stimolazioni determinanti. Senza questa consistenza la ragione non sarebbe che intelletto e, come tale, priva di corpo. Come i concetti dell’intelletto senza intuizione sono vuoti, allo stesso modo la ragione è vuota senza esistenza. La ragione non esiste come pura ragione, ma è il farsi dell’esistenza possibile. Anche l’esistenza nondimeno deve necessariamente fare riferimento a ciò che è altro: alla trascendenza, in virtù della quale solo essa, che non si è creata da sé, ha nel mondo una origine propria. L’esistenza, ordinata dalla ragione, nella cui luce soltanto sperimenta l’inquietudine e il richiamo della trascendenza, entra così per lo stimolo della ragione indagante nella propria dinamica. Senza la ragione, l’esistenza rimane

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inattiva, sonnecchiante, come non esistente. Ragione ed esistenza pertanto non sono due forze in lotta tra loro, ciascuna delle quali cerchi di sopraffare l’altra. Ognuna è invece in virtù dell’altra. E mentre si compenetrano, trovano reciprocamente realtà e chiarezza. Sebbene esse non realizzino mai una piena totalità, ogni vera realizzazione è tuttavia per esse un tutto. La ragione, non sorretta dall’esistenza, incorre in una attività di pensiero, che, nonostante tutta la ricchezza possibile, è arbitraria, puro intellettualismo della coscienza universale, o della dialettica dello spirito. E nel momento in cui, tagliata la radice che la lega alla sua storicità, cade nella universalità astratta dell’intelletto, la ragione cessa di essere ragione. A sua volta, l’esistenza, non illuminata dalla ragione, e che si fonda sul sentimento, sull’esperienza vissuta, sull’impulsività acritica, sull’istinto e sull’arbitrio, incorre nella cieca violenza e quindi nell’empirica universalità che è tipica di quelle forze individuali. Senza storicità, nella pura particolarità della sua realtà contingente, nell’affermazione di sé senza trascendenza, l’esistenza cessa di essere esistenza. Ragione ed esistenza, dunque, separate l’una dall’altra, perdono quella autentica continuità dell’essere e la fidatezza che sono proprie, allo stesso modo, dell’autentica ragione e della autentica esistenza. Infine esse non si distinguono per altro che per il limite della comunicabilità della forma. Isolate, ragione ed esistenza non sono più quello che si ritiene che siano: alla loro formulazione rimane soltanto l’utilità dei mezzi che esprimono l’essere reale, che si combatte e si annulla in se stesso, senza principio e senza fine, nella sua limitatezza, nel velo di false giustificazioni, a cui, del resto, nessuno presta fede.

13 Astrazione qualitativa ARON R., Les étapes de la pensée sociologique, Paris, 1967. DE ANDREA A., «Astrazione e conoscenza razionale della realtà concreta nella noetica

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Il filo conduttore ci è fornito dalla dottrina dei tre gradi di astrazione, o dei tre gradi secondo cui le cose offrono allo spirito la possibilità di cogliere in esse un oggetto più o meno astratto e immateriale, quanto all’intelligibilità stessa che discende dalle premesse alle conclusioni e, in ultima analisi, quanto al modo di definire. Lo spirito può considerare oggetti astratti e purificati solamente dalla materia, in quanto è fondamento della diversità degli individui in seno alla specie, in quanto, cioè, è principio di individuazione; l’oggetto resta, così, e anche in quanto presentato all’intelligenza, impregnato di tutte le note derivanti dalla materia, eccettuate solamente le particolarità contingenti e strettamente individuali che la scienza trascura. Lo spirito, allora, considera i corpi nella loro realtà mobile e sensibile, i corpi rivestiti dalle loro qualità e proprietà sperimentalmente constatabili: un tale oggetto non può né

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esistere senza materia e senza le qualità che le sono connesse, né essere concepito senza essa. È il grande ambito di quella che gli antichi chiamavano Physica: conoscenza della Natura sensibile, primo grado di astrazione. Oppure lo spirito può considerare degli oggetti astratti e purificati dalla materia in quanto essa, in generale, fonda le proprietà sensibili, attive e passive, dei corpi. Allora lo spirito considera soltanto una proprietà che isola dai corpi quella che resta quando tutto il sensibile é caduto la quantità, numeri di estensione considerati in sé: oggetto di pensiero che non può esistere senza la materia sensibile, ma che può essere concepito senza di essa: nulla infatti di sensibile o di sperimentale entra nella definizione di ellisse o di radice quadrata. È il grande campo della Mathematica: conoscenza della quantità in quanto tale, secondo le relazioni d’ordine e di misura che le sono proprie; secondo grado di astrazione. Infine lo spirito può considerare oggetti astratti e purificati da ogni materia, non conservando nelle cose altro che l’essere stesso di cui sono penetrate, l’essere in quanto tale e le sue leggi: oggetti di pensiero che non soltanto possono essere concepiti senza materia, ma che anche possono esistere senza di essa, sia che non abbiano mai l’esistenza nella materia, come [...] i puri spiriti, sia che la loro esistenza si dia nelle cose tanto materiali quanto immateriali, come la sostanza, la qualità, l’atto e la potenza, la bellezza, la bontà, ecc. È il grande ambito della Metaphysica: conoscenza di ciò che sta oltre la natura sensibile, o dell’essere in quanto essere; terzo grado di astrazione.

14 Scienza fisiche AA.VV., «Colloque “Philosophie de la physique”, Paris, 16-18/10/1961» in Revue de

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Nondimeno, da un altro punto di vista, il compito della fisica atomica doveva sembrare

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insolubile. La chimica tratta infatti di qualità specifiche, che in una determinata materia si presentano sempre nella stessa maniera: cioè di qualità che presentano una particolare stabilità di fronte a tutte le possibili perturbazioni. Un pezzo d’oro ha sempre lo stesso colore rossiccio, in qualunque modo sia stato prodotto e abbia ottenuto la sua forma. Una simile stabilità dell’aspetto esteriore è estranea ai sistemi meccanici; il corso dei pianeti attorno al Sole, per esempio, sarebbe modificato per sempre da una perturbazione esteriore, quale il passaggio di una cometa di grande massa; il sistema planetario, una volta cessata la perturbazione, non riprenderebbe la configurazione di prima. Bisognerebbe escogitare qualità ben singolari da attribuire agli atomi, se si volesse spiegare meccanicamente una simile stabilità. Questa difficoltà si rivelò nel corso dei decenni come il vero problema centrale della fisica atomica, e la sua soluzione riuscì soltanto in base all’ipotesi dei quanti, enunciata nel 1900 da Planck. Allo sviluppo storico della teoria dei quanti e della rappresentazione che della struttura dell’atomo ha dato Bohr possiamo qui soltanto accennare. Planck aveva scoperto, nelle sue ricerche sulla radiazione dei corpi caldi, una singolare discontinuità nel contenuto energetico degli atomi. Sembrava che un piccolo sistema radiante fosse capace solo di valori di energia discreti, ben determinati. Poi Rutherford, in base ai suoi esperimenti, aveva esposto l’idea che l’atomo fosse paragonabile a un piccolo sistema planetario, nel cui centro sta il nucleo atomico carico di elettricità positiva, che costituisce quasi l’intera massa dell’atomo, e attorno al quale ruotano gli elettroni negativi. Alcuni anni dopo Bohr poté rendere comprensibile la stabilità di questo sistema ricorrendo all’ipotesi dei quanti di Planck, e infine, un quarto di secolo dopo la scoperta di Planck, fu trovata la precisa forma matematica delle leggi che governano la struttura dell’atomo. Effettivamente, secondo le nostre attuali conoscenze, questa teoria quantistica della struttura dell’atomo soddisfa in certo qual modo tutti i desideri coi quali ci si era accinti allo studio della fisica atomica. Almeno in linea di principio, la teoria permette il calcolo e in ugual misura la “spiegazione” delle proprietà della materia in grande. Di molte sostanze particolarmente semplici, ad esempio del gas idrogeno, siamo riusciti a calcolare con grande esattezza le più importanti proprietà chimiche, il colore nei tubi di scarica, il comportamento a bassa temperatura e simili; questi calcoli hanno messo in luce parecchi fenomeni che prima erano sfuggiti all’accuratezza del fisico sperimentatore. Per molte altre sostanze la teoria dei quanti dà una spiegazione almeno qualitativa del loro comportamento [...] cosicché si può forse ammettere a buon diritto di aver raggiunto qui uno stadio della ricerca che corrisponde a quello della meccanica celeste dopo Newton; che sia cioè possibile calcolare quantitativamente le proprietà della materia dovunque la complicazione matematica non impedisce la pratica esecuzione del compito.

15 Qualità e quantità D’ESPAGNAT B., Conceptions de la physique contemporaine. Les interprétations de la

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La scomparsa – o distruzione – del cosmos indica che il mondo della scienza, il mondo reale, non è più visto o concepito come un tutto finito e ordinato gerarchicamente, cioè qualitativamente e ontologicamente differenziato, bensì come un universo aperto, indefinito e anche infinito, tenuto insieme non dalla sua struttura immanente, ma soltanto dall’identità dei suoi contenuti e leggi fondamentali. Un universo nel quale, in contrasto alla tradizionale concezione di una separazione o opposizione tra mondo dell’essere e mondo del divenire, vale a dire tra cielo e terra, tutti i componenti sembrano sistemati al medesimo livello ontologico. Un universo nel quale la physica coelestis e la physica terrestris vengono identificate e unificate, nel quale astronomia e fisica diventano interdipendenti e strettamente connesse a motivo della loro comune subordinazione alla geometria. Questo, a sua volta, implica la scomparsa – o la violenta espulsione – dal pensiero scientifico di tutti i ragionamenti fondati sul valore, sulla perfezione, sull’armonia, sul significato, e sul fine, poiché questi concetti, da adesso in poi semplicemente soggettivi, non trovano posto nella nuova ontologia. In altre parole, le cause finali o formali come criteri di spiegazione spariscono o vengono respinte – dalla nuova scienza mentre subentrano al loro posto le cause efficienti e materiali. Soltanto queste ultime sono ammesse nel nuovo universo della geometria ipostatizzata ed è solo in questo mondo astratto-reale (archemideo), dove i corpo astratti si muovono in uno spazio astratto, che le leggi dell’essere e del movimento della nuova scienza – la scienza classica – appaiono valide e vere. È facile adesso comprendere perché la scienza classica – come spesso è stato detto – ha sostituito a un mondo di qualità un mondo di quantità: come già Aristotele sapeva perfettamente, non vi sono infatti qualità nel mondo dei numeri, né in quello delle figure geometriche. Le qualità non trovano posto nel regno dell’ontologia matematica. È adesso facile anche comprendere perché la scienza classica – come raramente è stato notato – ha sostituito al mondo del divenire e del mutamento quello dell’essere: come già Aristotele aveva affermato, non c’è mutamento o divenire nei numeri e nelle figure. Ma nel fare ciò, si vide costretta a ricomporre e riformulare o riscoprire i suoi concetti fondamentali, come quelli di materia, movimento, ecc.

16 Unità e leggi matematiche AGAZZI E., Introduzione ai problemi dell’assiomatica, Milano, 1961. ALVAREZ L.J., La filosofía de las matemáticas en san Tomas, Messico, 1952. BETH E.W., Les fondements logiques des mathématiques, Louvain, 1950. BETH E.W., Mathematical thought. An introduction to the philosophy of mathematics,

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Gli antichi, e anche i logici successivi fino al secolo scorso, erano portati a concepire gli assiomi come un gruppo di asserti particolarmente semplici ed evidenti, dei quali non si chiedeva dimostrazione proprio perché non ne abbisognavano; i logici moderni, invece, almeno nella maggior parte, ritengono di dover prescindere dal punto di vista dell’evidenza. Alcune ragioni storiche che condussero al prevalere di questo atteggiamento esistono, ed almeno due sono anche ben note: lo sviluppo di geometrie non euclidee verso la metà del secolo scorso mostrò che è possibile costruire delle geometrie coerenti (nel senso che non si è riusciti a dedurre in esse delle contraddizioni) anche movendo da sistemi di assiomi ai quali il senso comune parrebbe negare ogni evidenza (ad esempio contenuti assiomi che contraddicono il postulato euclideo dell’unicità della parallela); in secondo luogo i lavori di sistemazione concettuale operati nell’ambito delle matematiche mostrarono che certi paradossi e certe difficoltà nelle quali ci si era imbattuti derivavano dall’aver troppo fidato su nozioni “intuitive”, ed erano stati eliminati proprio sistemando secondo ben precise “definizioni” di tipo sostanzialmente assiomatico certi “concetti” ritenuti anteriormente di prima evidenza e tali quindi da non necessitare neppure di definizione. L’aver rinunciato al criterio dell’evidenza, tuttavia, insieme a tutti i suoi vantaggi conduceva con sé anche un numero non piccolo di problemi, dei quali ce si limita ad enunciare alcuni fra i più immediati. Una prima conseguenza del fatto che gli assiomi non sono più ritenuti proposizioni di per sé evidenti è questo: che essi non godono di nessun “privilegio” rispetto alle altre proposizioni di un certo ambito di sapere. Secondo il punto di vista classico essi erano ritenuti i “principi fondamentali” di una data scienza, in quanto “più noti” di quanto non fossero le altre proposizioni di essa, ma dal punto di vista moderno essi sono semplicemente un certo gruppo di proposizioni dalle quali le altre possono venir dedotte, il che conferisce loro puramente il carattere di una semplice anteriorità logica rispetto a queste ultime. In altre parole, mentre secondo il punto di vista classico non ci sarebbe mai stato il rischio di scambiare l’enunciato di un teorema per quello di un postulato, in quanto il primo non è evidente, mentre il secondo lo è, dal punto di vista odierno non esiste nessuna prerogativa “interna” agli enunciati che ci possa far asserire nulla di simile. In linea di principio non esiste nessuna difficoltà che impedisca di assumere i postulati di una geometria piana, ad esempio, l’enunciato del teorema di Pitagora.

17 Fisica matematica AA.SS. Discussione sulla fisica moderna, Torino, 1959. AGASSI J., «The consolations of science» in American philosophical quartely,1986, 129-141. ARCIDIACONO G., «La relatività dopo Einstein» in Responsabilità del sapere, 1985 (155-156),

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172. Il dominio del formale è il dominio del pensiero puro. E il dominio del pensiero puro è il dominio delle operazioni: il pensiero puro è pensiero di se stesso, non nel senso della filosofia riflessiva, non nel senso d’una presa di possesso dell’attività affermante come tale per se stessa, ma nel senso dell’attività operante, cioè della messa in opera degli schemi puri della connessione. Il pensiero puro è pensiero di se stesso, perché non è altro che la comprensione dei modi diversi della concatenazione e della trasformazione, nelle quali si risolve la pratica operativa, e perché questa comprensione ha luogo precisamente sotto la forma d’una attività operativa, che si impadronisce effettuando. In quanto il pensiero puro è svincolato da ogni oggetto e in quanto non mette in opera altra intuizione che quella delle attività algoritmiche, esso può esser detto a priori. E in quanto a priori, ha un carattere demiurgico, poiché, per così dire, abbraccia, nella totalità che esso è, l’insieme di tutte le possibilità di costruzione. Mirando alla propria totalizzazione, esso non apprende le forme particolari di connessione che come momenti d’un organismo universale di tutti i legami possibili, cioè come elementi d’un sistema totale virtuale. Ora il cammino che lo conduce nella direzione dell’attualizzazione progressiva di questo orizzonte virtuale è un cammino che lo porta verso il concreto. E questo in un doppio senso. In primo luogo, si può dire che il sistema formale totale, se potesse essere costruito, sarebbe, in rapporto ai sistemi parziali, nella relazione del concreto all’astratto: sarebbe concreto in quanto renderebbe manifesta la totalità delle costruzioni possibili (di cui ciascuna, presa in se stessa, resta parziale e, in quanto isolata, è astratta) e renderebbe per così dire effettive simultaneamente tutte le correlazioni concepibili. Il passaggio alla totalità sarebbe allo stesso tempo, e necessariamente, chiusura, e questa sarebbe passaggio all’esistenza: nel sistema totale, il campo formale assoluto, che per noi non è che l’indicazione d’un sistema di virtualità, diventerebbe reale, entrerebbe per così dire in un corpo visibile d’effettuazione. E d’altra parte, si può dire che il sistema totale, in quanto fornirebbe precisamente la rappresentazione di tutti i modi di costruzione possibile nei loro legami necessari e nella loro unità, in quanto con questo riceverebbe la pienezza dell’esistenza logica, apparirebbe, per il fatto stesso, come possibilità immediata di realizzazione e quindi come imminenza dell’esistenza fisica. Nella stessa misura con cui accederebbe alla pienezza della rappresentazione formale, e in questo senso diventerebbe come organismo formale compiuto, organismo logico concreto, esso apparirebbe come richiesta della sua messa in opera al livello dell’effettività reale, cioè in un dominio di oggetti sostanziali, o ancora come richiesta della sua immersione nel campo fenomenale della physis. In quanto dominio d’apparizione del formale puro, cioè dell’operativo in quanto tale, la logica rivela il legame ontologico che la lega alla fisica; essa mostra ciò che, in essa, oltrepassa il logico puro, appare come la messa in evidenza della struttura a priori del mondo, come sapere del mondo delle forme di cui il mondo reale è insieme il supporto, la trasposizione visibile e la verità.

18 Oltre la matematica BACHELARD G., Le nouvel esprit scientifique, Paris, 51949. DUBARLE D., «Remarques sur la philosophie de la formalisation logico-mathématique» in

Revue de métaphysique et morale, 1955, 352-390. DUBARLE D., «Le mathématicien et l’ontologie» in Les Études philosophiques, 1960, 197-203. DUBARLE D., «Les machines calculatrices, le langage et la pensée» in AA.VV., L’ère des

ordinateurs, Paris, 1966, 127.

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Ma negli ultimi due secoli il metodo assiomatico ha incominciato ad essere usato a fondo con una potenza e un vigore sempre crescenti. Rami nuovi e vecchi della matematica, come la familiare aritmetica dei numeri cardinali (o “interi”), sono stati corredati con insiemi, apparentemente adeguati, di assiomi. Si è così creato un diffuso convincimento che tacitamente suppone che ogni settore del sapere matematico possa essere corredato con un insieme di assiomi sufficienti per sviluppare sistematicamente l’infinita totalità delle proposizioni vere nell’ambito di una data area di ricerca. Il lavoro di Gödel ha dimostrato che questa ipotesi è insostenibile. Egli offrì ai matematici la stupefacente e melanconica conclusione che il metodo assiomatico possiede certe limitazioni intrinseche, che escludono la possibilità di una piena assiomatizzazione anche per l’ordinaria aritmetica degli interi. Vi è di più: egli ha dimostrato che è impossibile provare la coerenza logica di una classe molto ampia di sistemi deduttivi (per esempio, l’aritmetica elementare), a meno che non si adottino principi di ragionamento così complessi che la loro coerenza interna è dubbia come quella dei sistema stessi. Alla luce di tali conclusioni, si può vedere come non sia raggiungibile alcuna sistemazione finale di molte aree importanti delle matematiche, e come non si possa fornire alcuna garanzia infallibile che molti rami significativi del sapere matematico siano completamente esenti da contraddizioni interne. Le scoperte di Gödel, perciò, hanno distrutto preconcetti profondamente radicati e hanno deluso antiche speranze nel momento in cui sembravano prendere consistenza in seguito alle ricerche sui fondamenti della matematica. Ma questo lavoro non è stato del tutto negativo. Esso ha introdotto, nello studio dei problemi fondamentali, una nuova tecnica di analisi paragonabile, nella sua natura e nella sua fecondità, al metodo algebrico che René Descartes introdusse nella geometria. Questa tecnica ha suggerito e creato nuovi problemi nell’indagine logica e matematica. Esso ha provocato una rivalutazione, che è tuttora in corso, di filosofie della matematica molto diffuse, e di filosofie della conoscenza in generale.

19 Possibilità delle scienze AA.VV., Il problema delle scienze nella realtà contemporanea. Atti dei seminari varesini, 1980-

1984, Milano, 1985. ATLAN H., A tort ou à raison. Intercritique de la science et du mythe, Paris, 1986. BOYD R. & KUHN T.S., La metafora della scienza, Milano, 1983. GREGOIRE F., «Condition. Conditionné. Inconditionné» in Revue Philosophique de Louvain,

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rivoluzione scientifica, Torino, 61978).

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I concetti fondamentali sono le determinazioni in cui l’ambito di cose che sta alla base di tutti gli oggetti tematici di una scienza perviene alla comprensione preliminare che guida ogni ricerca positiva. Questi concetti ottengono pertanto la loro determinazione e la loro “fondazione” soltanto mediante una corrispondente esplorazione preliminare del relativo ambito di cose stesse. Ma poiché ognuno di questi ambiti può esser tratto esclusivamente da un dominio dell’ente, questa indagine preliminare che istituisce i concetti fondamentali è null’altro che l’interpretazione di questo ente rispetto alla costituzione fondamentale del suo essere. Un’indagine del genere deve precedere le scienze positive e lo può. L’opera di Platone e di Aristotele lo sta a dimostrare. Una fondazione delle scienze di questo genere è diversa in linea di principio dalla “logica”, che va dietro alle scienze per fare oggetto di indagine il “metodo” di una di esse in uno stadio momentaneo del suo sviluppo. Si tratta invece di una logica produttiva, nel senso che essa, per così dire, si installa anticipatamente in un determinato ambito dell’essere, incomincia con l’aprirlo nella sua costituzione d’essere e mette a disposizione delle scienze positive, quali regole sicure dell’indagine, le strutture così ottenute. Così, ad esempio, ciò che è filosoficamente primario non è la teoria della formazione del concetto di storiografia e neppure la teoria della conoscenza storica o la teoria della storia come oggetto della storiografia, ma l’interpretazione dell’ente autenticamente storico nella sua storicità. Perciò l’apporto positivo della Critica della ragion pura di Kant non consiste in una “teoria” della conoscenza, ma nel suo contributo all’elaborazione di una ricerca intorno a ciò che appartiene a una natura in generale. La sua logica trascendentale è una logica a priori delle cose che cadono in quello ambito d’essere, che è la natura. Ma un’indagine di questo genere, che è ontologia nel senso più largo della parola e senza riferimento a particolari indirizzi o tendenze dell’ontologia, abbisogna ancora esse stessa di un filo conduttore. La ricerca ontologica è certamente più originaria che la ricerca ontica delle scienze positive. Ma resta essa stessa ingenua e opaca se le sue indagini intorno all’essere dell’ente non prendono in esame il senso dell’essere in generale. E proprio il compito ontologico di una genealogia, da non costruirsi deduttivisticamente, delle diverse possibili maniere dell’essere, abbisogna di una chiarificazione anticipata di ciò «che intendiamo propriamente con l’espressione ‘essere’». Il problema dell’essere mira perciò alla determinazione a priori delle condizioni di possibilità non solo delle scienze che studiano l’ente, che è tale in questo o quel modo, e che si muovono quindi già sempre in una comprensione dell’essere, ma anche delle ontologie stesse che precedono le scienze ontiche e le fondano.

20 Metafisica AA.VV., «Metaphysics, its function, consequences and criteria» in Journal of philosophy, 1946, AA.VV., «Il compito della metafisica» in Archivio di filosofia, 1952. AA.VV., «È possibile une metafisica? Come si pone oggi il problema della metafisica» in

Giornale di metafisica, 1956, nE 4. AA.VV., Analysis and metaphysics. Essays in honor of R.M. Chisholm, Dordrecht, 1981. H. BERGSON, «Introduzione alla metafisica» in ID., La filosofia dell’intuizione, Lanciano, 1920,

16-18. Per la stessa ragione, di certo, si è spesso identificato l’assoluto e l’infinito. Se io voglio comunicare a chi non sa il greco la semplice impressione che mi lascia un verso di Omero, io darò la traduzione del verso, poi commenterò la mia traduzione, poi svolgerò il mio commento, e di spiegazione in spiegazione mi avvicinerò sempre più a

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ciò che voglio esprimere, ma non ci arriverò mai. Quando voi alzate il braccio fate un movimento di cui avete, internamente, la percezione semplice; ma esternamente, per me che lo guardo, il vostro braccio passa per un punto, poi per un altro punto, e fra questi due punti ce ne saranno degli altri, in modo che, se comincio a contare, l’operazione non finirà mai. Visto di dentro un assoluto è dunque una cosa semplice; ma considerato dal di fuori, cioè relativamente ad altre cose, diventa, rispetto ai segni che l’esprimono, la moneta d’oro di cui non si finisce mai di rendere il resto. Ora ciò che si presta nello stesso tempo a un apprendimento indivisibile e ad una enumerazione inesauribile è, per definizione, un infinito. Ne segue che un assoluto non può esser dato che da un’intuizione, mentre tutto il resto appartiene all’analisi. Si chiama intuizione quella specie de simpatia intellettuale per cui ci si trasporta nell’interno d’un oggetto, per coincidere con ciò che ha di unico e per conseguenza d’inesprimibile. Al contrario, l’analisi è l’operazione che riporta l’oggetto a elementi già noti, cioè comuni a questo oggetto e ad altri. Analizzare consiste dunque nell’esprimere una cosa in funzione di ciò ch’essa non è. Ogni analisi è così una traduzione, uno sviluppo in simboli, una rappresentazione presa di punti di vista successivi da cui si notano altrettanti contatti fra l’oggetto nuovo, che si studia, e altri che si crede di conoscer di già. Nel suo desiderio eternamente insaziato di abbracciare l’oggetto intorno al quale è condannata ad aggirarsi, l’analisi moltiplica senza fine i punti di vista per completare la rappresentazione sempre incompleta, varia senza posa i simboli per perfezionare la traduzione sempre imperfetta cioè si continua all’infinito. Ma l’intuizione, s’è possibile, è un atto semplice.

21 Specificità della metafisica BOGLIOLO L., «Sulla specificità della filosofia» in Seminarium, 1974, 537-559. M.F. SCIACCA, «È possibile una metafisica?» in Giornale di metafisica, 1956, 744-745.

Invece l’essere non è al limite, ma l’esperienza è esperienza di essere (e degli esseri); il mio esperire è l’esperienza di me come essere. Ho coscienza del mio essere («io sono») non dal di fuori, ma dal di dentro del mio essere stesso e dal di dentro dell’essere. Il problema di me che sono è anche problema dell’essere. «Io sono» significa io sono “partecipazione” dell’essere. Affermare che qualcosa è, è affermare l’essere: «io sono» implica l’affermazione «l’essere è». Il discorso sull’esperienza o è discorso sull’essere o diversamente non ha senso, perché già inizialmente rende inesplicabile l’esperienza. Il concetto “critico” dell’esperienza, si osserva, investe principalmente il “concetto” di essere. Appunto, investe il “concetto”, non l’“Idea” dell’essere o l’essere soggettivo. Parlare del concetto dell’essere è non parlare dell’essere, è porre l’essere al limite, al di fuori, un contenuto da conoscere. L’empirismo, infatti, ne fa un quid inafferrabile al di là dell’esperienza, come se l’essere non fosse presente in ogni esperienza, che è l’esperienza di esseri (di “esistenti”) nell’essere; e il razionalismo prima e l’idealismo trascendentale dopo lo risolvono nello stesso conoscere logico, cioè nel concetto, mentre dell’essere c’è Idea, cioè esso è la matrice di tutti i concetti. Perciò la critica dell’esperienza (perseguita dal pensiero moderno) e del conoscere in generale è critica del “concetto” di essere che invece non è concetto, è autocritica, cioè critica della concezione erronea (empiristica e gnoseologistica) che il pensiero moderno stesso ha avuto dell’essere, che pretende conoscere come “oggetto” esterno, mentre esso è l’oggetto costituivo del “pensare” e ad esso interiore. Oggetto che non si coglie al limite, al di là dell’esperienza, né nella forma del concetto, perché vi è esperienza di “esistenziale” del “reale”, logicamente mediata (concetto) per l’apriorità (rispetto all’esperire e al giudicare) dell’intuito dell’essere come Idea. In altri termini, è l’essere l’idea che rende possibile il giudicare (l’attività della ragione) e perciò è madre di tutti i concetti, senza che essa sia concetto; vi sono i concetti degli enti particolari, non vi è il concetto bensì l’idea dell’essere. Infatti, “concetto dell’essere in universale” significa che l’essere sia qualcosa da giudicare; ed è questo il paralogismo del cosiddetto “pensiero critico”: l’essere in universale non è giudicato o un giudicabile, ma il principio

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d’intelligibilità (l’atto primo del pensare) con cui si giudica ogni cosa, con cui si formano i concetti degli enti reali; non è un “concetto puro”, forma di tutti i concetti, ma l’“idea”, madre di ogni concetto. Anche se «conoscere è giudicare», il conoscere (ed ogni conoscenza) ha il suo principio nel “pensare”, il cui oggetto interiore è l’essere, costitutivo dell’atto del pensare stesso. Se l’essere universale fosse un conoscibile, un contenuto reale, con quale principio potrebbe essere conosciuto per avere un concetto di esso? Con nessuno, e perciò non vi è concetto dell’essere. Parlare di giudicabilità dell’essere significa presupporre, senza dirlo, l’essere come idea con cui si formula ogni concetto, cioè dare ragione a noi che dell’essere non c’è concetto, ma idea. L’essere come concetto è l’essere gnoseologico, ma è l’idea dell’essere (l’intuito fondamentale dell’ente) che rende possibile la gnoseologia, cioè il giudizio sul reale.

22 Astrazzione precisiva BRUNNER A., La connaissance humaine, Paris, 1943, 221-230. DALOS P.M., The critical value of concepts and universal ideas, Roma, 1959. FLØISTAD G., & VON WRIGHT G.H., Philosophy of language: philosophical logic, Den Haag,

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Lo studio della conoscenza ci conduce sempre a riconoscere un progresso del nostro pensiero. Esso non è, in ciascuna delle sue tappe, eguale all’ispirazione che lo sostiene e lo guida. Non può cogliersi che nel suo itinerario verso forme più alte, più compiute di se stesso. Il pensiero s’afferma nell’appercezione e nel possesso interiore. La trasparenza appare così come la condizione del suo completamento. Ma esso non è in ogni momento ugualmente chiaro a se stesso; la sua aspirazione è sempre ripresa e l’incompiutezza è, senza dubbio, la sua legge. È proprio del nostro pensiero essere una conquista su realizzazioni che gli appaiono provvisorie, inferiori. L’idea dell’intelligenza prende il suo significato in questo progresso della coscienza. Essa ci appare come l’ideale che il pensiero può formare di se stesso, come l’esigenza di una costante ripresa, di un possesso più sicuro, interiore e fine. Essa si eleva al di sopra di ciò che ci appare come una sorta di limitazione, di ristrettezza della conoscenza e di abbandono del nostro progetto intellettuale. Per accedere all’intelligenza dobbiamo realizzare una conquista su queste traduzioni imperfette e povere. Questa elevazione e questa esigenza ci appaiono quando consideriamo l’intelligenza in modo concreto. L’analisi non porta qui sulle funzioni di conoscere nella loro distinzione presa in maniera formale, così come il concetto e l’intuizione. Noi consideriamo invece la vita dell’intelligenza e la distinguiamo, per ben coglierla, da un pensiero esclusivamente oggettivo e per ciò stesso ancora astratto. Le idee che traducono questa condotta ci appaiono pesanti, opache; esse sono mantenute in una specie di isolamento e restano chiuse in se stesse. Si impongono forse a noi, ma come dal di fuori; non sono ricreate nel movimento del pensiero che le esamina e dovrebbe, sembra, purificarle in vista di un possesso più sicuro. Il rischio che ci minaccia nel prolungamento di queste condotte è “la conversione dell’essere in avere”. Lo spirito è come alienato, ossessionato nelle idee che non sa dominare e che vengono così a minacciare ciò che bisogna mantenere di attivo, di personale e di libero nell’adesione. La nostra esperienza è quella di un pensiero che vuole fissare e determinare per ben possedere, ma che si lascia anche andare ad escludere, a separare, che manipola i segni come sostitutivi delle cose, senza rapportarli all’atto del pensiero che li elabora, formando il senso giusto di ciò che devono essere le idee e le immagini mediatrici.

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L’idea dell’intelligenza è quella di un’esperienza più alta del nostro pensiero. Essa ci appare in modi assai diversi. I caratteri che le riconosciamo sono quelli della penetrazione, della finezza e dell’esattezza. Essa vuol essere un adattamento esatto dello spirito alle cose nei regni diversi che avviciniamo soltanto secondo la legge dell’analogia. Ma è degno di nota che cerchiamo allora di realizzare una vittoria contro quel che ci appare come una sorta di dimissione e, nel principio dell’oscurità in cui siamo lasciati, come un ammanco di fervore. L’intelligenza non considera più le cose nel loro isolamento e nel loro contrasto; essa è anzi la ricerca delle convergenze; è guidata da questo pensiero: che mantenendo le verità in ciò che hanno di esclusivo noi perderemmo, al tempo stesso, i valori del rapporto e quelli del concreto.

23 Astrazione formale, totale DONDEYNE A., «L’abstraction de l’être» in Revue néo-scolastique de philosophie, 1938, 5-20

e 339-373. GUIL BLANES F., «La distincion cayetanista entre abstractio formalis y abstractio totales» in

Sapientia, 1955, 44-55. HORGAN J., «L’abstraction de l’être» in Revue néo-scolastique de philosophie, 1939, 161-

181. KALINOWSKI G., Sémiotique et philosophie. A partir de et à l’encontre de Husserl et de

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J. MARITAIN, I gradi del sapere. Distinguere per unire, Brescia, ²1981, 60.

Bisogna, qui, notare, con il Gaetano e Giovanni di San Tommaso, che questi tre gradi di astrazione si riferiscono all’astrazione chiamata dagli scolastici abstractio formalis. Vi sono, in effetti, due tipi di astrazione: l’abstratio totalis, diciamo astrazione o estrazione di tutto l’universale, con la quale traiamo “uomo” da “Paolo” e “Pietro”, “animale” da “uomo”, ecc., passando così ad universali sempre più vasti. Questo tipo di astrazione, per cui lo spirito si eleva al di sopra della conoscenza semplicemente animale del singolare percepito hic et nunc dai sensi, e che in realtà inizia con le nozioni più generali e più indeterminate, è alla base di tutto il sapere umano ed è comune a tutte le scienze, poiché ogni scienza procede in questo ordine, verso la più grande determinazione, ed esige che l’oggetto sia chiuso, per così dire, in una nozione propria e non inviluppato in una nozione comune più o meno fluttuante. E vi è anche un secondo tipo d’astrazione, l’abstractio formalis, diciamo astrazione o estrazione del tipo intelligibile, mediante la quale noi separiamo dai dati contingenti e materiali ciò che è della ragione formale o dell’essenza di un oggetto di sapere. Secondo i gradi appunto di questa abstractio formalis le scienze speculative differiscono l’una dall’altra, gli oggetti della scienza superiore essendo come una forma o tipo regolatore rispetto agli oggetti della scienza inferiore. Senza dubbio gli oggetti della metafisica sono più universali di quelli della fisica. Ma il metafisico non li considera a questo titolo, non li considera, cioè, come nozioni più comuni sul medesimo piano; ma piuttosto a titolo di forma o di tipo intelligibile su un piano più elevato, come oggetto di sapere d’una natura e di un’intelligibilità specificamente superiori, e di cui il metafisico acquista una conoscenza propria, scientifica, con mezzi che trascendono in modo assoluto quelli del fisico o del matematico. Se è permesso usare qui un linguaggio figurato, diciamo che l’opera dell’intelligenza potrebbe essere paragonata ad una magia immateriale: dal flusso delle cose singolari e contingenti come sono offerte alla apprensione del senso, un primo colpo d’occhio dell’intelligenza fa scaturire il mondo delle sostanze corporee e le loro proprietà; un secondo colpo d’occhio fa scaturire un tutt’altro universo, il mondo ideale dell’estensione e del numero; un terzo colpo d’occhio fa scaturire un universo ancora

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affatto diverso, il mondo dell’essere in quanto essere e di tutte le perfezioni trascendentali comuni agli spiriti e ai corpi, nel quale noi potremo, come in uno specchio, attingere le realtà puramente spirituali e il principio stesso di tutta la realtà.

24 Trascendentalizzazione AUBENQUE P., «Plotin et le dépassement de l’ontologie grecque classique» in M. SCHUHL –

P. AUBENQUE (edd.), Le néoplatonisme, Paris, 1971, 101-108. BOGLIOLO L., Essere e conoscere, Vaticano, 1983. DUBARLE D., «La logique de la réflexion et la transition de la logique de l’être à celle de

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scolastique de philosophie, 1927, 137-165. MARECHAL J., «Abstraction ou intuition» in Revue néo-scolastique de philosophie, 1929, 27-

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Non si è filosofi se non si è metafisici. È l’intuizione dell’essere – anche se tradita da un sistema come quello di Platone o di Spinoza – che fa il metafisico: cioè l’intuizione dell’essere nelle sue proprietà pure e omnipenetranti, nella sua densità intelligibile tipica e primordiale, l’intuizione dell’essere secundum quod ens. L’essere così percepito non è né l’essere vago del senso comune, né l’essere particolarizzato delle scienze e della filosofia della natura, né l’essere derealizzato della logica, né lo pseudoessere della dialettica scambiata per filosofia, ma è l’essere per sé, nei suoi valori e in quelle sue risorse d’intelligibilità e di realtà, cioè in quella ricchezza e in quella ampiezza analogica e trascendentale insita nell’imperfetta e molteplice unità del suo concetto, che gli permette di estendersi all’infinità dei suoi analogati e di traboccare o sovrabbondare in valori trascendentali e dinamici di tendenzialità per cui l’idea dell’essere trascende sé medesima. Questo è l’essere colto o percepito al vertice di una intellezione astrattiva, di una visualizzazione eidetica o intensiva, così illuminatrice e pura, solo perché l’intelligenza è stata un giorno svegliata nelle sue profondità e illuminata dall’urto dell’atto di esistere colto nelle cose, e perché si è elevata fino a riceverlo o ad ascoltarlo in sé medesima nella integrità intelligibile e sovrintelligibile del suono che gli è proprio. Per giungere a questa intuizione ci sono vie o cammini diversi. Nessuna è preventivamente fissata e nessuna è più legittima dell’altra: appunto perché non si tratta di un’analisi razionale o di un procedimento induttivo o deduttivo o di una costruzione sillogistica, ma di una intuizione che è un fatto primo. I sensi, e quello che san Tommaso chiama «giudizio del senso», la cieca percezione esistenziale del senso, vi hanno una funzione primordiale e indispensabile. Ma questo è solo un requisito presupposto, è necessario che gli occhi del cieco-nato siano aperti, che un tocco delle virtù spirituali dell’intelletto liberi nella luce intelligibile quello atto di esistere che il senso coglieva senza scoprire e toccava senza vedere. Non ha importanza se l’intuizione dell’essere sia come un dono innato d’un’intelligenza sovrana, riposante

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sulla sua forza limpida e sul fondamento d’una complessione corporea delicata e pura e su una sensibilità viva e equilibrata come sembra sia avvenuto per san Tommaso; non ha importanza se sorge bruscamente come una grazia naturale, alla vista di un filo d’erba o di un mulino a vento o all’improvvisa percezione della realtà dell’io; o se proviene dalla implacabilità con cui l’essere delle cose da me indipendente mi si impone all’improvviso, ricacciando il mio essere nella sua solitudine e nella sua fragilità; o se io mi dirigo verso di essa avendo in me l’esperienza della durata, o quella dell’angoscia, o di certe realtà morali che trascendono il trascorrere del tempo: l’essenziale è di compiere il passo, di liberare in un’autentica intuizione intellettuale il senso dell’essere, il senso del valore delle implicazioni dell’atto di esistere. L’essenziale consiste nell’avere visto che l’esistenza non è un semplice fatto empirico, ma un dato primo per lo spirito, al quale apre un campo infinito di osservazione, in breve la fonte prima e sovrintelligibile dell’intelligibilità.

25 Dialettiche ascendenti AA.VV., Aspects de la dialectique, Paris, 1956. BRUAIRE Cl., La dialectique, Paris, 1985. GOLDSCHMIDT V., Les “Dialogues” de Platon. Structure et méthode dialectique, Paris, 1963. ISAYE G., «L’idée de la mesure et l’existence d’un maximum selon St Thomas» in Archives de

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Chi vuole rettamente procedere a questo fine – disse – conviene che fin da giovane cominci ad accostarsi ai bei corpi e dapprima, se il suo iniziatore lo inizia bene, conviene che s’affezioni a quella persona sola e con questa produca nobili ragionamenti; ma in seguito deve comprendere che la bellezza di un qualsiasi corpo è sorella a quella di ogni altro e che, se deve perseguire la bellezza sensibile delle forme, sarebbe insensato credere che quella bellezza non sia una e la stessa in tutti i corpi. Convinto di ciò deve diventare amoroso di tutti i bei corpi e allentare la passione per uno solo, spregiandolo e tenendolo di poco conto. Dopo ciò giunga a considerare che la bellezza delle anime è più preziosa di quella del corpo, cosicché se qualcuno ha l’anima buona ma il corpo fiorisca di poca bellezza, egli ne sia pago lo stesso, lo ami, ne sia premuroso, e produca e ricerchi ragionamenti tali da rendere migliori i giovani per esser poi spinto a contemplare la bellezza nelle attività umane e nelle leggi, e a vedere come essa è dappertutto affine a se stessa finché non si convinca che la bellezza del corpo è ben piccola cosa. Ma dopo le attività umane, l’iniziatore lo deve condurre alle varie scienze perché veda ancora la loro bellezza e, ormai fatto l’occhio a una bellezza così vasta, non sia più affezionato, come un servo di casa, a un solo aspetto della bellezza, di un fanciullo o di un uomo, o di una sola attività, né sia più, come un servo, sciocco e frivolo, ma, rivolto a contemplare il vasto mare della bellezza, cavi fuori da sé un gran numero di nobili ragionamenti e splendidi pensieri, nell’illimitata aspirazione alla sapienza, finché, rinvigoritosi e sviluppatosi, possa scorgere una scienza unica e siffatta che è la scienza delle bellezze che ti dirò. Sforzati ora di offrirmi il massimo della tua attenzione. Chi sia stato educato fin qui nelle questioni d’amore attraverso la contemplazione graduale e giusta delle diverse bellezze, giunto che sia ormai al grado supremo

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dell’iniziazione amorosa, all’improvviso gli si rivelerà una bellezza meravigliosa per sua natura, quella stessa, o Socrate, in vista della quale ci sono state tutte le fatiche di prima: bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s’accresce né diminuisce, che non è bella per un verso e brutta par l’altro, né ora sì né ora no; né bella o brutta secondo certi rapporti, né bella qui e brutta là, né come se fosse bella per alcuni, ma brutta per altri. In più questa bellezza non gli si rivelerà con un volto né con mani, né con altro che appartenga al corpo, e neppure come concetto o scienza, né come risedente in cosa diversa da lei, per esempio in un vivente, o in terra o in cielo, o in altro, ma come essa è per sé e con sé, eternamente univoca, mentre tutte le altre bellezze partecipano di lei in modo tale che, pur nascendo esse o perendo, quella non s’arricchisce né scema, ma rimane intoccata.

26 Spirito e ente in quanto è ARNOU R., L’homme a-t-il le pouvoir de connaître la vérité?, Roma, 1970. GARDEIL A., «La perception expérimentale de l’âme par elle-même d’après saint Thomas» in

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Condotto il discorso a questa conclusione: che di fronte alla giocondità di quella vita il piacere dei sensi fisici, per quanto grande e nella più grande luce corporea, non ne sostiene il paragone, anzi neppure la menzione; elevandoci con più ardente impeto d’amore verso l’Essere stesso, percorremmo tutte le cose corporee e il cielo medesimo, onde il sole, la luna e le stelle brillano sulla terra. E ancora ascendendo in noi stessi con la considerazione, l’esaltazione, l’ammirazione delle tue opere, giungemmo alle nostre anime e anch’esse superammo per attingere la plaga dell’abbondanza inesauribile, ovi pasci Israele in eterno col pascolo della verità, ove la vita è la Sapienza, per cui si fanno tutte le cose presenti e che furono e che saranno, mentre essa non si fa, ma tale è oggi quale fu e quale sempre sarà; o meglio, l’essere stato e l’essere futuro non sono in lei, ma solo l’essere, in quanto eterna, poiché l’essere stato e l’essere futuro non é l’eterno. E mentre ne parlavamo e anelavamo verso di lei, la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente, e sospirando vi lasciammo avvinte le primizie dello spirito, per ridiscendere al suono vuoto delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine. E cos’è simile alla tua Parola, il nostro Signore, stabile in se stesso senza vecchiaia e rinnovatore di ogni cosa? Si diceva dunque: «Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell’acqua e dell’aria, tacessero i cieli, e l’anima stessa si tacesse e superasse non pensandosi, e tacessero i sogni e le rivelazioni della fantasia, ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che nasce per sparire se per un uomo tacesse completamente, sì, perché, chi le ascolta, tutte le cose dicono: “Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece. Chi permane eternamente”; se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l’orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse, non più con la bocca delle cose, ma con la sua bocca, e noi non udissimo più la sua parola attraverso lingua di carne o voce d’angelo o fragore di nube o enigma di parabola, ma lui direttamente, da noi amato in queste cose, lui direttamente udissimo senza queste cose, come or ora protesi con un pensiero fulmineo cogliemmo l’eterna Sapienza stabile sopra ogni cosa, e tale condizione si prolungasse, e le altre visioni, di qualità grandemente inferiore, scomparissero, e questa unica nel contemplarla ci rapisse e assorbisse e immergesse in gioie interiori, e dunque la vita eterna somigliasse a quel momento d’intuizione che ci fece sospirare: non sarebbe questo l’entra nel gaudio del tuo Signore? E quando si realizzerà? Non forse il giorno in cui tutti risorgiamo, ma non tutti saremo mutati?».

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27 Sintesi predicativa

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Questo tentativo riesce conforme al desiderio, e promette alla metafisica, nella sua prima parte, dove ella si occupa dei concetti a priori, di cui possono esser dati nell’esperienza gli oggetti corrispondenti ad essi adeguati, il cammino sicuro di una scienza. Si può infatti spiegare benissimo, secondo questo mutamento di metodo, la possibilità di una conoscenza a priori, e, ciò che è più, munire delle prove sufficienti le leggi che a priori sono a fondamento della natura, come complesso degli oggetti dell’esperienza; due cose che, col tipo di procedimento fin oggi seguito, erano impossibili. Ma da questa deduzione della nostra facoltà di conoscere a priori, nella prima parte della metafisica, ne viene uno strano risultato, in apparenza assai dannoso allo scopo generale cui essa mira nella seconda parte, cioè: che noi con essa non possiamo oltrepassare i limiti dell’esperienza possibile, che è tuttavia proprio l’assunto più essenziale di questa scienza. Ma proprio in ciò consiste l’esperimento d’una controprova della verità del risultato di questo primo apprezzamento della nostra conoscenza a priori della ragione: che essa giunge solo fino ai fenomeni, mentre lascia che la cosa in sé sia bensì per se stessa reale, ma sconosciuta a noi. Giacché quel che ci spinge a uscire necessariamente dai limiti dell’esperienza e di tutti i fenomeni, è l’incondizionato, che la ragione necessariamente e a buon diritto esige nelle cose in se stesse, per tutto ciò che è condizionato, a fine di chiudere con esso la serie delle condizioni. Ora, se ammettendo che la nostra conoscenza sperimentale si regoli sugli oggetti come cose in sé si trova che l’incondizionato non può esser pensato senza contraddizione, mentre, al contrario, se si ammette che la nostra rappresentazione delle cose, quali ci sono date, non si regoli su di esse, come cose in se stesse, ma piuttosto che questi oggetti, come fenomeni, si regolino sul nostro modo di rappresentarceli [si trova che] la contraddizione scompare, e che perciò l’incondizionato non deve trovarsi nelle cose in quanto noi le conosciamo (esse ci son date), ma nelle cose in quanto noi non le conosciamo, come cose in sé, ciò che noi abbiamo ammesso prima, soltanto in via di tentativo si vede che è ben fondato.

28 Sintesi oggettiva

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philosophie critique, Paris, ²1949, 313-314 (trad. F. Selvaggi). L’affermazione ci appare, così, ai confini di due ordini di finalità intellettuale, il cui punto di incontro, in noi, si chiama intelletto; essa è, insieme, termine di un’esigenza anteriore e punto di partenza d’una nuova esigenza; acquisto “formale” e valore di “azione” possibile; in breve, appagamento parziale e rimbalzo immediato dello stesso desiderio che costituisce il fondo della nostra natura intellettiva, il desiderio oscuro e insaziabile dell’Essere. Bisogna aggiungere che la doppia finalità, antecedente e conseguente dell’affermazione rende conto di questa proprietà esclusiva propria del giudizio, di far nascere nel nostro intelletto il rapporto di verità logica, la conoscenza almeno implicita dell’oggetto come oggetto. Infatti, una forma rappresentativa già assimilata e unificata con un soggetto, per rivestire il carattere di oggetto, deve inoltre opporsi in qualche modo al soggetto. Ora, l’abbiamo appena ricordato, una forma, coinvolta in un “divenire”, vi si inserisce, tutt’insieme e indivisibilmente, come un bene già posseduto e come un bene ancora desiderabile, come Forma e come Fine. Essa, dunque, vi godrà insieme delle proprietà logiche della forma e delle proprietà logiche del fine; vale a dire che, senza cessare d’essere immanente al soggetto attivo, essa si opporrà a questo come lo scopo s’oppone alla tendenza. Giacché non si acquista né si persegue, ciò che si è o ciò che si ha. Se la facoltà (nella quale la forma rappresentativa si trova così allo stadio di indivisione fra due fasi successive d’uno stesso divenire) è spirituale, capace di riflessione completa, le proprietà dinamiche della rappresentazione – e conseguentemente, la sua opposizione al soggetto – potranno tradursi direttamente o indirettamente nella coscienza. Non è proprio questo il meccanismo dell’affermazione? e non è proprio in virtù di questo meccanismo che essa è necessariamente “oggettivante”? Considerata come un momento nell’ascesa dell’intelligenza verso il possesso finale del “vero” assoluto, che è il “bene” dello spirito, essa <l’affermazione> proietta implicitamente (exercite) i dati particolari nella prospettiva di questo ultimo Fine, e per ciò stesso li oggettivizza davanti al soggetto.

29 Causalità metafisica

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BRETON St., Approches phénoménologiques de l’idée d’être, Lyon, 1959. CONTAT A., «Réalisme de l’être et structure de la métaphysique» in Doctor communis, 1986,

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Ora, questo elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi conosce dà la facoltà di conoscere, di’ pure che è l’idea del bene; e devi pensarla causa della scienza e della verità, in quanto conosciute. Ma per belle che siano ambedue, conoscenza e verità, avrai ragione se riterrai che diverso e ancora più bello di loro sia quello elemento. E come in quello altro ambito è giusto giudicare simili al sole la luce e la vista, ma non ritenerle il sole, così anche in questo è giusto giudicare simili al bene ambedue questi valori, la scienza e la verità, ma non ritenere il bene l’una o l’altra delle due. La condizione del bene deve essere tenuta in pregio ancora maggiore. - Straordinaria deve essere, rispose, la bellezza che gli attribuisci, se è il bene a conferire scienza e verità e se le supera in bellezza; perché dicendo “bene” non intendi certo riferirti al piacere. - Zitto, feci io; continua piuttosto a esaminare la sua immagine, così. - Come? - Dirai, credo, che agli oggetti visibili il sole conferisce non solo la facoltà di essere visti, ma anche la generazione, la crescita e il nutrimento, pur senza essere esso stesso generazione. - E come potrebbe esserlo? - Puoi dire dunque che anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal bene la proprietà di essere conosciuti, ma ne ottengono ancora l’esistenza e l’essenza, anche se il bene non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l’essenza.

30 Idea d’essere AA.VV., L’essere. Problema, teoria, storia, Roma, 1967. ALCORTA J.I., El ser, conocer trascendental, Barcelona, ²1975. CRESCINI A., Enigma dell’essere. Introduzione a una metafisica integrale, Genova, 1990. D’AMORE B., «Il problema dell’essere e del dover essere» in Congresso internazionale s.

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Milano, 2000. J.B. LOTZ, «Essere e concetto» in Aquinas, 1983, 370-371.

Il sovraconcetto è concetto, in quanto concepisce inconfondibilmente l’essere, ce lo avvicina espressamente come tale e noi lo comprendiamo nella sua pecularietà; in quanto con ciò ci sgorga anche la parola che è adatta all’essere e per mezzo della quale siamo in grado di parlare dell’essere e di comunicare qualcosa. Il sovraconcetto è sovraconcetto, in quanto ciò che è concepito e detto sorpassa l’essenziale e l’universale; in quanto non è un concetto fra gli altri, ma un concetto al di sopra degli

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altri. Esso sorpassa l’essenziale, perché l’essere non è limitato ad un ambito categoriale, bensì abbraccia tutti gli ambiti come il loro fondamento comune e quindi denota l’illimitata pienezza; perché l’essere a causa della sua illimitatezza raggiunge il contenuto e insieme, e inseparabilmente, la sua effettiva realtà, ossia lo raggiunge come effettivamente reale. Così questo concetto è la più illuminante coattuazione dell’essere effettivamente reale nella sua effettiva realtà: l’essere effettivamente reale si illumina così in se stesso e da se stesso. Invece di svolgersi come una riflessione, che segue all’esperienza dell’essere, questo concetto è la stessa esperienza, che chiarisce se stessa e in cui l’essere è presente in modo chiaro o (meglio) in una chiarificazione progressiva. Il sovraconcetto sorpassa l’universale, perché l’essere è una pienezza, anzi l’unica e irrepetibile pienezza, che a causa della sua illimitatezza non può essere moltiplicato, e dunque non può avere accanto a sé alcuna pienezza a lui simile. Una siffatta moltiplicazione non si trova neppure nei molti enti, giacché essi non si rapportano all’unico essere in alcun modo come singolari all’universale. Piuttosto in questo rapporto è in gioco la partecipazione, in forza della quale ogni ente prende parte nel suo modo limitato all’essere o riceve dalla pienezza dell’essere una minima partecipazione all’essere, cosicché a questo non viene sottratto nulla. Tutti gli enti, a motivo della partecipazione all’essere, che loro compete, sono sotto ogni aspetto dipendenti dall’essere come pienezza illimitata o sono ad esso riferiti con assoluta necessità. Inversamente però lo essere come illimitata pienezza non dipende dagli enti finiti né è ad essi rimesso; infatti quella pienezza è costituita in se stessa e da se stessa. Se al contrario gli enti finiti fossero indispensabili per la costituzione dell’essere, quest’ultimo dovrebbe essere qualificato come finito, ossia non sarebbe la pienezza illimitata e quindi non sarebbe l’essere. La connessione qui accennata rientra nel nostro sovraconcetto dell’essere, il quale quindi mostra una struttura relazionale, che corrisponde esattamente all’emergere dell’essere nella riduzione trascendentale (in vece dell’intuizione immediata). Più in particolare si tratta della reale relazionalità dell’ente effettivamente reale all’essere effettivamente reale, in forza della quale il sovraconcetto si differenzia a sua volta dal concetto universale, in cui una relazionalità solo logica unisce l’universale al singolare.

S E C O N D A P A R T E DINAMICA DEL SENSO

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31 Disposizione dell’intelligenza AA.VV., «Teoría su fundamentación metafísica de la experiencia humana» in Anthropos

(Venezuela) 1985, 17-31. GIANNINI G., «Fenomenologia ermeneutica in metafisica» in Aquinas, 1983, 333-352. LEBACQZ J., Certitude et volonté, Paris, 1962. MAISONNEUVE J., Les sentiments, Paris, 41957. RICOEUR P., Philosophie de la volonté, I, Le volontaire et l’involontaire, Paris, 1949. SCHELER M., Wesen und Formen der Sympathie, Bonn, 1923 (tr. fr.: Nature et formes de la

sympathie, Paris, 1950). TURIEL B., El habito-cualidad, Madrid, , 1961. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Milano, 61976, 22-23.

L’essere si trova nel che-è, nell’esser-così, nella realtà, nella semplice presenza, nella sussistenza, nella validità, nell’Esserci, nel “c’è”. In quale ente si dovrà cogliere il senso dell’essere? Da quale ente prenderà le mosse l’aprimento dell’essere? Il punto

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di partenza è indifferente o un determinato ente possiede un primato per quanto concerne l’elaborazione del problema dell’essere? Qual è questo ente esemplare e in che senso possiede un primato? Se il problema dell’essere deve esser posto esplicitamente e portato a soluzione nella piena trasparenza di se stesso, l’elaborazione di questo problema richiederà, in conseguenza delle delucidazioni da noi date, l’esplicazione del modo in cui si può volger lo sguardo all’essere, realizzarne la comprensione e afferrarne concettualmente il senso; e richiederà la preparazione della possibilità della scelta corretta dell’ente esemplare, nonché l’elaborazione della giusta via di accesso a questo ente. Ma volger lo sguardo, comprendere, afferrare concettualmente, scegliere, accedere a, sono comportamenti costitutivi del cercare e perciò parimenti modi di essere di un determinato ente, di quello ente che noi stessi, i cercanti, sempre siamo. Elaborazione del problema dell’essere significa dunque: render trasparente un ente (il cercante) nel suo essere. La posizione di questo problema, in quanto modo di essere di un ente, è anche determinata in linea essenziale da ciò a proposito di cui esso si cerca: dall’essere. Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esser-ci [Dasein]. La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere richiede l’adeguata esposizione preliminare di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere.

32 Reciprocità volontà-intelligenza BOURKE V.J., Will in western thought. An historico-critical survey, New-York, 1964. CAMODONICO A., Etica della ragione. La filosofia dell’uomo tra nichilismo e confronto

interculturale, Milano, 2000. DE WAELHENS A., Existence et signification, Louvain, 1958. KALINOWSKI G., «La théorie aristotélicienne des habitus intellectuels» in Revue des sciences

philosophiques et théologiques, 1959, 248-260. MICHALSKI C., «Le problème de la volonté à Oxford et à Paris au 15e s.» in Studia

philosophica, 1937, 233-365. M.D. CHENU, Introduzione allo studio di s. Tommaso d’Aquino, Firenze, 1953, 162-163.

Si è già avuta occasione, a proposito dell’analisi metafisica, di mettere in rilievo l’originalità e le esigenze di una siffatta operazione dello spirito; qui la si ritrova, se pur per altro verso, e non è affatto inutile tornare di nuovo sul suo comportamento e sulle strutture. San Tommaso non ha, è vero, come invece ha fatto per la deduzione sillogistica, dato particolari sui suoi modi; ma ne ha fatto uso, e non senza una precisa consapevolezza della sua originalità. Il caso di maggior rilievo è quello dei trascendentali: la “riduzione”, infatti, ci porta a individuarli nella loro stessa nozione, e ci dà lo strumento di analisi ad essi proprio. Esempio, l’implicanza reciproca del vero e del bene: il bene suppone il vero, poiché, in quanto finalità, è una forma, dunque una realtà conoscibile, vera tra i veri; il vero implica il bene; e di fatto, il vero, termine ultimo dell’operazione intellettuale, è per questa un bene. Cfr. De malo, q. 6, a. 1; De veritate, q. 21, a. 1. La dialettica dell’azione umana si illumina attraverso questo procedimento di risoluzione alle ultime profondità dell’umano volere: la volontà persegue il fine immediato dei propri atti in virtù della validità di un fine supremo, di modo che i suoi beni particolari assumono valore in codesto volere universale, che per il loro tramite ci porta fino alla felicità; la minima azione, col suo bene particolare, è pregna, sia nell’ordine reale che intelligibile, della volontà umana, che ci porta all’assoluto, nel che è la misura della sua moralità. Quel consenso all’amore di un bene particolare – che il giansenismo condanna come una cupiditas in quanto separa codesto amore dal volere universale – trova la sua legittimità, la sua forza, la sua purezza, in questa intrinseca riduzione, in questo inarrestabile moto di approfondimento al di là della sua concreta determinazione. Tutto il principio della Ia-IIae (q. 1 e 2) illustra in modo puntuale questo metodo.

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33 Volontà e intelligenza nell’essere FONTAN P., Adhésion et dépassement, Louvain, 1952. FOREST A., Consentement et création, Paris, 1943. KALINOWSKI G., «La réforme du thomisme et de la phénoménologie chez Karol Wojtyla selon

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Perché la verità risieda realmente nella conoscenza che ne abbiamo, occorre, in ciò ch’è in essa necessario, che noi si voglia ciò che può non essere voluto, e che si adegui quel tanto di libera adesione che essa esige a quel tanto di inevitabile chiarezza che impone. Sembrerà forse che in tal modo si commetta una confusione di competenze, attribuendo alla conoscenza un carattere che non è più propriamente intellettuale, poiché pare subordinato a un atto volontario. Ci si disinganni. Non si tratta, volendo, di fare in modo che la realtà sussista in sé perché un decreto arbitrario l’avrebbe creata in noi; si tratta, volendo, di fare in modo che essa sia in noi perché e come è in sé. Questo atto di volontà non la fa dipendere da noi; ci fa dipendere da essa. È compito appunto di questa conoscenza necessaria che precede e prepara l’opzione, di essere una regola inflessibile; ma, dal momento in cui ciò che ha di necessariamente volontario è liberamente voluto, non cessa per questo di essere una conoscenza. Tutto all’opposto, essa ci guadagna a portare, realmente presente in sé, l’essere di cui aveva finora la sola rappresentazione. Quel che era semplicemente idea dell’oggetto diventa, in tutta verità, certezza obbiettiva e possesso reale. Poiché la conoscenza ha bisogno di essere completata e come riempita da una libera adesione che, senza mutarne la natura, ne muta la portata, che s’ha dunque ad accogliere in sé per metterlo in essa? come si insinua in noi questa pienezza dell’oggetto? Se, per conoscerli veramente, ci dobbiamo dare agli altri, che mezzo c’è di darli a noi e di dare noi a noi stessi? Donde procede che, invece d’essere una causa di confusione, l’unione universale appare la condizione della distinzione reale degli esseri? In che modo le apparenze stesse che li distinguono devono e possono essere fondate assolutamente? In che senso sussiste il determinismo dei fenomeni? In che modo finalmente tutto, anche ciò che sembra non essere veduto se non dal di fuori, deve essere reintegrato nell’essere, e servire a costituire la vera esistenza obbiettiva? [...] Si tratta infatti di vedere in che modo tutto questo determinismo, spontaneamente prodotto e implicito in ogni operazione volontaria, in che modo questo determinismo che deve essere accolto e voluto da ciò che c’è di più intimo in noi, trova nondimeno fra questi due termini subiettivi una propria consistenza e una realtà veramente obbiettiva, senza che essa cessi di essere nostra: solo mezzo di salvare ciò che la conoscenza deve attingere ad un tempo in sé e nell’essere, e di conciliare la necessaria originalità del pensiero con la necessaria autorità della verità.

34 Unità di fatto JASPERS K., Vernunft und Existenz, Groeningen, 1935 (tr. it.: Ragione ed esistenza, Torino,

1971; tr. ingl.: Reason and existenz, New-York, 1959). VELEZ S.J., «La función de las categorías en la ontología» in Ideas y valores (Bogota), 1978,

39

9-24. S. AGOSTINO, La Trinità, IX, 4, 5-6, Roma, 1973, 371-373.

Nello stesso tempo ci accorgiamo anche, per quanto ci è possibile, che queste cose sussistono nell’anima e quasi da implicite diventano esplicite, così da farsi avvertire ed analizzare quale sostanza o, per così dire, essenza, non come esistenti in un soggetto alla maniera del colore o della figura o di altre qualità o quantità in un corpo. Tutte queste proprietà sono limitate al soggetto in cui si trovano. Infatti questo colore o la forma di questo corpo non possono essere anche quelli di un altro corpo. Invece lo spirito con l’amore con cui si ama, può amare altra cosa diversa da sé. Ed allo stesso modo lo spirito non conosce solo se stesso, ma anche molte altre cose. Dunque l’amore e la conoscenza non ineriscono allo spirito come ad un soggetto, ma si trovano, anch’essi, come lo spirito, in senso sostanziale, perché, anche se li esprimiamo in senso relativo riferendoli l’uno all’altra, considerati a parte, esistono ciascuno nella loro propria sostanza. La loro relazione non è come quella del colore e dell’oggetto colorato, che sono relativi l’uno all’altro, ma nel senso che il colore è nel corpo colorato senza avere in sé la propria sostanza, perché il corpo colorato è sostanza, ma il colore è nella sostanza. La relazione di cui parliamo è invece come quella che esiste tra due amici, che sono ambedue uomini e quindi due sostanze; quando li si designa con il nome di uomini, non si dicono in senso relativo, ma amici si dicono in senso relativo. Così, sebbene sia sostanza colui che ama e conosce, sia sostanza la sua conoscenza e sostanza sia il suo amore, tuttavia colui che ama e l’amore, o colui che conosce e la conoscenza, sono termini relativi l’uno all’altro, come lo sono gli amici. Invece l’anima intellettiva o lo spirito non debbono essere considerati termini relativi, come nemmeno gli uomini sono realtà relative. Tuttavia, se gli amici possono essere separati tra loro, non lo possono al contrario chi ama e il suo amore, chi conosce e la sua conoscenza. È vero che anche gli amici sembra che possano stare separati fisicamente, ma non spiritualmente, in quanto amici, ma può accadere tuttavia che un amico incominci ad odiare l’amico e perciò stesso cessi d’essere amico, all’insaputa dell’altro, che ancore lo ama. Se invece cessa di esistere l’amore con cui lo spirito si ama, nello stesso tempo lo spirito cessa di amare. Così pure, se cessa di esistere la conoscenza con cui lo spirito si conosce, nello stesso momento lo spirito cessa di conoscersi. Alla stessa maniera, è naturale, non c’è testa se non c’è un corpo di cui è testa. Essi sono termini relativi sebbene siano anche sostanze, perché la testa e ciò di cui è testa sono realtà fisiche e se non ci sarà il corpo, non ci sarà un qualcosa che porti la testa. Tuttavia queste due realtà possono venir separate l’una dall’altra, ma per le cose dello spirito è impossibile.

35 Stupore e mistero DE WAELHENS A., «Heidegger et le problème de la métaphysique» in Revue philosophique

de Louvain, 1954, 110-119. DONDEYNE A., «La différence ontologique chez M. Heidegger» in Revue philosophique de

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Che [la filosofia prima] non sia una scienza produttiva risulta con chiarezza anche da qualche considerazione su quelli che diedero inizio alla riflessione filosofica; infatti gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto

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per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo. Chi è nell’incertezza e nella meraviglia crede di essere nell’ignoranza (perciò anche chi ha propensione per le leggende è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose); e quindi, se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza col puro scopo di sapere e non per qualche bisogno pratico. E ne è testimonianza anche il corso degli eventi, giacché solo quando furono a loro disposizione tutti i mezzi indispensabili alla vita e (quelle) che procurano benessere e agiatezza, gli uomini incominciarono a darsi ad una tale sorta di indagine scientifica. È chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale indagine senza mirare ad alcun bisogno che ad essa sia estraneo, ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non per un altro, così anche consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto esiste di per sé. Perciò giustamente si può anche ritenere che il possesso di essa è cosa sovrumana, giacché per molti aspetti la natura dell’uomo è schiava [...]. È indispensabile, comunque, che l’acquisizione della Sapienza sollevi, in un certo modo, ad un punto di vista che è contrario a quello in cui noi ci trovavamo all’inizio delle nostre ricerche. Tutti, infatti, come dicevamo, cominciano col provar meraviglia che le cose siano in un determinato modo, come sono soliti comportarsi di fronte alle marionette o ai solstizi o all’incommensurabilità della diagonale (difatti a tutti [quelli che non ne abbiano ancora indagato il motivo] sembra un prodigio il fatto che una certa lunghezza non possa essere misurata neppure dall’unità minima); ma come avviene nei suddetti casi allorché gli uomini li abbiano compresi, così anche noi dobbiamo approdare, alla fine, al punto di vista contrario, che è anche, secondo il proverbio, quello migliore: difatti per un uomo esperto di geometria la maggiore stranezza del mondo sarebbe la commensurabilità della diagonale rispetto al lato.

36 Stupore e ontologia McCABE H., «Categories» in Dominican studies, 1954, 147-179. REGVALD R., «Heidegger et l’éclaircissement de la négativité» in Études philosophiques,

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Il sapere che da prima o immediatamente è nostro oggetto, non può essere niente altro da quello che è esso stesso sapere immediato, sapere dell’immediato o dell’essente. Il nostro comportamento dovrà essere non meno immediato; dovremo quindi apprendere questo sapere come si offre, senza alterare niente in esso; e dal nostro assumere dovremo tener lungi il concepire. Il contenuto concreto della certezza sensibile fa sì che essa appaia immediatamente come la conoscenza più ricca, come una conoscenza d’infinita ricchezza per la quale non è dato trovare un limite, sia che noi trascorriamo fuori nello spazio e nel tempo, dov’essa si espande; sia che noi prendiamo una parte di tanta abbondanza e in essa penetriamo dentro con una suddivisione. Questa conoscenza appare inoltre come la più verace; infatti niente ancora dell’oggetto essa ha tralasciato, anzi lo ha in tutta la sua pienezza dinanzi a sé. In effetto però tale certezza si dà a divedere essa stessa come la verità più astratta e più povera. Di ciò che essa sa, non enuncia che questo: esso è; e la sua verità non contiene che l’essere della cosa. Da parte sua in questa certezza la coscienza è soltanto come puro Io; o Io vi sono soltanto come puro questi, e l’oggetto similmente soltanto come puro questo. Io, questi, sono certo di questa cosa non già perché Io mi sia sviluppato come coscienza o abbia mosso variamente il pensiero. E neppure perché, secondo una moltitudine di caratteri distinti, la cosa di cui io son certo sia un ricco rapporto in lei stessa, o una molteplice relazione verso l’altro. Tutto ciò non riguarda la verità della certezza sensibile. Né Io né la cosa ha qui il

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significato di una varia e molteplice mediazione; Io non ha il significato di un rappresentare o di un pensare molteplice e vario; né la cosa ha il significato di molteplicità di caratteri vari: anzi la cosa è, ed è soltanto perché è; essa è, – ecco ciò che per il sapere sensibile è l’essenziale; e questo puro essere o questa semplice immediatezza costituisce la verità della cosa medesima. Altrettanto, in quanto rapporto, la certezza è immediato, puro rapporto: la coscienza è Io e niente altro, un puro questi; il singolo sa il puro questo, ossia sa il singolo. Ma nel puro essere, che, costituendo l’essenza di questa certezza, è da lei proferito come verità di lei stessa, vi è in gioco, se noi ben guardiamo, molto altro ancora. Una reale certezza sensibile non è solamente una siffatta pura immediatezza, ma è anche un esempio di essa e di quanto vi ha gioco. Tra le innumerevoli differenze che ivi vengono in evidenza, noi troviamo ovunque la differenza principale: che cioè in tale certezza escono tosto fuori dal puro essere i due già ricordati questi: un questi come Io, e un questo come oggetto. Se noi riflettiamo su tale differenza, risulterà che né l’uno né l’altro sono nella certezza sensibile soltanto immediati, ma vi sono in pari tempo come mediati: io ho la certezza mediante qualche cos’altro, ossia mediante la cosa, e anche questa è nella certezza mediante qualche cos’altro, ossia mediante Io.

37 L’ente e i suoi fenomeni CORETH Em., «Das fundamentalontologisch Problem bei Heidegger und Hegel» in

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Ora, è facile mostrare che nella conoscenza umana esistono realmente simili giudizi, necessari ed universali nel senso più rigoroso, e quindi puri, a priori. Se si vuole un esempio tolto dalle scienze, non si deve far altro che guardare tutte le proposizioni della matematica; se si vogliono esempi tolti dal più comune uso dell’intelletto, può bastare la proposizione che ogni cangiamento deve avere una causa; anzi, in questa ultima proposizione, il concetto di causa contiene così manifestamente il concetto di una necessità del legame con un effetto e di una rigorosa universalità della legge, che esso andrebbe interamente perduto, se lo si volesse derivare, come fece Hume, dal frequente associarsi di ciò che accade con ciò che precede, e da una abitudine che ne deriva (e perciò da una necessità semplicemente soggettiva) di collegare certe rappresentazioni. Si potrebbe anche, senza aver bisogno di simili esempi per trovare la reale esistenza di principi a priori nella nostra conoscenza, dimostrare che essi sono indispensabili per la possibilità della stessa esperienza, e quindi a priori. Perché, dove l’esperienza stessa cercherebbe mai d’attingere la sua certezza, se tutte le leggi, secondo le quali essa procede, fossero sempre empiriche e però contingenti; e se, per conseguenza, esse non potessero farsi valere come primi principi? Per altro, qui può bastarci di aver esposto come un fatto l’uso puro della nostra facoltà di conoscere insieme coi segni distintivi di esso. Ma non solo nei giudizi, sebbene anche nei concetti, apparisce un’origine a priori d’alcuni di essi. Infatti, se sottraete a poco a poco dal vostro concetto empirico d’un corpo tutto ciò che vi è di empirico, il colore, la durezza, la mollezza, la pesantezza e la stessa impenetrabilità, resta tuttavia lo spazio che esso (che ora è del tutto svanito) occupava, e che non può essere soppresso. Così, se togliete via dal vostro concetto empirico di ciascun oggetto, corporeo o

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incorporeo, tutte le proprietà che l’esperienza vi insegna, non gli potete nondimeno togliere quella, per cui lo pensate come sostanza, o aderente a una sostanza (sebbene questo concetto abbia una determinazione maggiore che quello di oggetto in generale). Spinti dalla necessità con cui questo concetto vi si impone, dovete dunque convenire che esso ha la sua sede nella vostra facoltà di conoscere a priori.

38-45 Categorie ontiche 38 Sostanza BRETON St., «Substance et existence» in Giornale di metafisica, 1967, 183-200. BROAD C.D., «Berkeley’s denial of material substances» in Philosophical review, 1954, 155-

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170-174 (trad. M.T. La Vecchia). Muovendo, con san Tommaso stesso, dagli entia, o enti, che sono dati nella esperienza sensibile, noi li designeremo con il termine “sostanze”. Ogni sostanza forma un tutto completo, provvisto di una struttura che analizzeremo, e che costituisce un’unità ontologica, un’unità di essere se si preferisce, suscettibile di ricevere una definizione. Dal momento che la sostanza può essere concepita come una e definitiva, essa prende il nome di “essenza”. L’essentia non è dunque che la substantia in quanto suscettibile di definizione. Con più esattezza, l’essenza è ciò che la definizione dice che la sostanza è. Ed è anche per questo che san Tommaso, seguendo qui la terminologia di Aristotele, introduce un terzo vocabolo nella sua descrizione del reale. Significare ciò che una sostanza è, è rispondere alla questione quid sit; ed è perciò, in quanto espressa nella definizione, che l’essenza si denomina la “quiddità”. Sostanza, essenza, quiddità, vale a dire l’unità ontologica concreta presa in se stessa, poi considerata come suscettibile di definizione, in ultimo presa come significata dalla definizione, questo è il primo gruppo di termini di cui se deve costantemente fare uso. Questi termini sono troppo strettamente imparentati, perché non si producano degli scivolamento dall’uno all’altro, ma si deve essere in grado di ricondurli, ogni volta che è necessario, al loro senso primitivo. Poiché l’essenza è la sostanza in quanto conoscibile, essa deve includere questa ultima nel suo essere completo, e non solamente questo o quello degli elementi che la compongono. Si definisce talvolta la sostanza come un “essere per sé”. Ciò non è falso, ma non è tutta la verità, ed è nel completare questa formula come si deve che si scopre il senso proprio della nozione di essenza. La sostanza, infatti, non è concepibile, e per conseguenza non può essere definita, a meno che non la si pensi come questa sostanza determinata. Ed è perciò un “essere per sé”, che non sarebbe nient’altro, oppure sarebbe Dio, oppure non potrebbe esistere senza una determinazione complementare. Questa determinazione l’essenza sola l’apporta. Si deve dunque definire la sostanza una essenza, o quiddità, che può essere per sé, se essa riceve il suo proprio esse. Lo si comprenderà ancora meglio esaminando il senso della formula “essere per sé”. Consideriamo una sostanza qualunque, un uomo per es. Si dice che egli esiste per sé, perché è una essenza distinta che contiene in sé tutte le determinazioni richieste per la sua esistenza, a condizione tuttavia che essa sia, vale a dire che essa abbia l’atto di esistere. Le altre determinazioni non esistono nell’uomo allo stesso titolo né alla stessa maniera. Vi sono innanzitutto quelle determinazioni che esprimono le definizioni. Qui, l’essenza è un uomo, perché è quella di un animale provvisto di ragione. Poniamola come attualizzata dal suo esse, tutte le determinazioni

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complementari lo saranno allo stesso tempo, e lo saranno tramite essa. Dal momento che è un animale, un uomo deve avere un certo colore e una certa dimensione, esso occuperà necessariamente nello spazio un certo luogo ed una certa posizione. Si chiama sostanza il soggetto di queste determinazioni complementari, che ricevono esse stesse il nome di accidenti. Senza dubbio, nella nostra esistenza non esiste in misura maggiore sostanza senza accidenti che accidenti senza sostanze, ma sono gli accidenti che appartengono alla sostanza, e non la sostanza agli accidenti. Qui può prodursi un equivoco. Si sente dire che il tomismo consiste nell’immaginare la struttura del reale come analoga a quella del linguaggio umano. Le frasi si compongono di un soggetto e di predicati; san Tommaso avrebbe dunque concluso da ciò che il reale è fatto di sostanze, di cui si predicano degli accidenti, e di accidenti che si attribuiscono alle sostanze. Ciò è fraintendere il suo pensiero e confondere la sua logica con la sua metafisica. Porre il problema dell’essere, e definire questo tipo di enti che si chiamano sostanze, è inoltrarsi nella densità di ciò che esiste. Il linguaggio analitico che si usa per descriverlo significa allora un oggetto situato al di là del linguaggio stesso, e sul quale il linguaggio si sforza di modellarsi. Parlare delle cose come di sostanze non è concepirle come gruppi di accidenti riferiti ad un soggetto tramite qualche copula; al contrario, è dire che esse si pongono come delle unità di esistenza, di cui tutti gli elementi costitutivi sono in virtù di un solo e medesimo atto di essere (esse), che è quello della sostanza. Gli accidenti non hanno esistenza da sé, questa si aggiungerebbe a quella della sostanza per completarla. Essi dunque non hanno altra esistenza all’infuori dell’esistenza della sostanza. Per essi esistere è semplicemente “esistere nella sostanza” o, come si dice ancora, il loro esse est inesse. Il senso pieno dell’espressione “essere” per sé, si rivela qui nella sua profondità. La sostanza non esiste per sé, in questo senso che essa non avrebbe la causa della propria esistenza: Dio, che solo esiste senza causa, non è una sostanza; esiste per sé nel senso che essa gli appartiene in virtù di un atto unico di esistere, e si esplica immediatamente attraverso questo atto, ragione sufficiente di tutto ciò che essa è. L’analisi di ciò che forma l’essere stesso delle cose può dunque fare astrazione dall’accidente, spogliato dall’essere proprio, e fermarsi sulla sostanza. Le sole sostanze di cui noi abbiamo una esperienza diretta sono le cose sensibili di cui percepiamo le qualità. Una proprietà notevole di queste sostanze è di poter essere distribuite in classi, ciascuna delle quali è l’oggetto di un concetto, anch’esso esprimibile mediante una definizione. In qualsiasi maniera lo si interpreti, è un fatto che noi pensiamo per mezzo di idee generali, o concetti. Perché questo fatto, che è reale, sia possibile, occorre pure che il dato della nostra esperienza sensibile sia almeno concettualizzabile, vale a dire che la sua natura si presti alla conoscenza mediante concetti. Indichiamo dunque con un termine distinto ciò che, nel reale, ne rende possibile la conoscenza concettuale. Chiamiamo questo elemento la forma della sostanza. Diremo allora che ogni sostanza implica una forma, e che è in virtù di questa forma che una sostanza si colloca in una specie determinata, la cui definizione esprime il concetto. D’altra parte, è ancora un fatto di esperienza che le specie non esistono come tali; “uomo” non è una sostanza; le sole sostanze che noi conosciamo sono gli individui. Si deve dunque avere nell’individuo un elemento diverso dalla forma, quello precisamente che distingue gli uni dagli altri i rappresentanti di una medesima specie. Indichiamo a sua volta questo nuovo elemento del reale con un termine distinto. Lo chiamiamo materia. Noi diremo allora che ogni sostanza è un’unità di essere che, a sua volta e in modo indiviso, è quella di una forma e di una materia. Domandarsi ciò che autorizza a dire di questa sostanza che è un ente (ens) è domandarsi se ciò che fa essa è deve essere cercato nella sua materia, o nella sua forma, o nel composto che costituisce la loro unione. Che la materia non sia ciò che la sostanza è, lo si riconosce da questo che la materia non è suscettibile di esistenza separata da una forma qualsiasi. Essa è sempre la materia di una sostanza che, poiché ha une forma, è oggetto di concetto e di definizione. È d’altra parte perciò che la materia può entrare nella composizione della sostanza senza frantumarne l’unità esistenziale. Considerata proprio in quanto materia, separata dal tutto di cui fa parte, essa non esiste: «L’essere (esse), infatti, è

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l’atto di ciò di cui si può dire: questo è; ora non si dice della materia che essa è; non lo si dice che del tutto; non si può dunque dire che la materia è; è la sostanza stessa che è ciò che è». Non avendo esistenza propria, la materia non potrebbe causare quella della sostanza. Non è dunque in virtù della sua materia che si dice di una sostanza qualunque: essa è un ente (ens), essa è. Per quanto riguarda la forma, si pone la stessa conseguenza, e per la medesima ragione. Certamente, la forma è un elemento della sostanza più nobile che non la materia, poiché è essa che la determina e le conferisce l’intelligibilità. La forma di un individuo umano, Socrate per es., è ciò per cui la materia è quella di questo corpo organizzato che si chiama un corpo umano. La materia è solo una potenzialità determinabile mediante la forma, ma la forma stessa è l’atto che fa che la materia sia quella di questa sostanza determinata o di quell’altra. Il ruolo proprio della forma è dunque di costituire la sostanza in quanto sostanza. Come dice san Tommaso d’Aquino, essa è il completamentum substantiae, ciò che ne assicura il completamento. Così concepita, la forma è ciò per cui la sostanza è ciò che è. Si è riconosciuta la distinzione, divenuta tradizionale presso i lettori di Boezio, fra il quo est e il quod est, distinzione il cui ruolo è notevole nella dottrina tomista, ma che, per la sua tendenza più profonda, questa dottrina ha cercato costantemente di superare. Ciò che importa è infatti comprendere bene su quale piano san Tommaso pone i problemi, quando li esamina dal punto di vista della sostanza. Nell’ordine del finito che noi consideriamo al presente, solo le sostanze esistono. Composta di materia e di forma, ciascuna di esse è un “qualche cosa che è”, un ens specificamente determinato. Ogni problema relativo all’ordine della sostanza si pone dunque di pieno diritto sul piano dell’essere, ma non sarebbe in grado di sorpassarlo. Spiegare un essere come sostanza equivale a dire perché questo essere “è ciò che è”. È già molto, e noi abbiamo visto che san Tommaso ammira Platone ed Aristotele per essersi innalzati fino a quel punto. Questo, però, non è tutto, poiché, una volta spiegato il motivo per cui un ente è ciò che è, resta da spiegare ciò che lo fa esistere. Dal momento che né la materia né la forma possono esistere separatamente, si vede bene che l’esistere del loro composto è possibile, ma non si vede come la loro unione potrebbe generare l’esistenza attuale. In che modo l’esistenza avrebbe inizio da ciò che non è? Bisogna dunque arrivare a far passare l’essere primo come il termine ultimo che possa raggiungere l’analisi del reale. Quando la si considera così in rapporto all’esistenza, la forma cessa infatti di apparire come l’ultima determinazione del reale. Conveniamo di denominare “essenziale” ogni ontologia, o dottrina dell’essere, per la quale la nozione di sostanza e la nozione di essere si equivalgono. Si dirà allora che, in una “ontologia essenziale” l’elemento che realizza l’integrazione della sostanza è l’elemento ultimo del reale. Non può essere invece così in una “ontologia esistenziale”, dove l’essere si definisce in funzione dell’esistenza. Da questo ultimo punto di vista, la forma sostanziale non appare più che come un quo est secondario, subordinato a questo quo est primo che è l’atto stesso di esistere. D’altra parte la forma fa che un essere sia questo essere, facendolo rientrare in questa specie determinata; bisogna dunque collocare l’esse, o atto di esistere, che fa che la sostanza così costituita sia un ens. Come dice san Tommaso: «L’essere stesso (ipsum esse) è atto anche nei riguardi della forma. Poiché se si dice che, nei composti di materia e di forma, la forma è principio di esistenza (principium essendi) è perché essa porto a compimento la sostanza, il cui atto è l’essere stesso (ipsum esse)». Così la forma non è principio di esistenza che in quanto essa determina la compiutezza della sostanza, che è ciò che esiste, ma essa stessa non esiste che in virtù di una determinazione suprema, che è il suo atto stesso di essere. In questo senso, l’esse è il quo est della forma, essa stessa quo est della sostanza; è dunque ciò che fa che la sostanza sia un ente (ens), in quanto ha l’atto stesso di esistere: «la forma può tuttavia essere detta quo est, in quanto essa è principio di esistenza (principium essendi): ma ciò che è il quod est stesso, è la sostanza totale essa stessa, e ciò per cui la sostanza si denomina ente (ens) è l’essere stesso (ipsum esse)». In breve, nelle sostanze concrete che sono oggetti di esperienza sensibile, due composizioni metafisiche si stratificano in profondità: la prima, quella della materia e della forma, costituisce la sostanzialità stessa della sostanza; la seconda, quella

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della sostanza con l’atto di esistere costituisce la sostanza, come un ens, un ente.

46 Superamento dello stupore DE WAELHENS A., «The outlook for existential phenomenology» in International philosophical

quartely, 1962, 458-473. FOREST A., «Doute et clarté sur l’âme» in AA.VV, Permanence de la philosophie, Neuchâtel,

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Da adulto, poi, posso tematizzare questi tratti caratterizzanti del “tu”, della persona a cui mi rivolgo e che amo. E scoprirò che amo non solo la bellezza (diversamente dall’eros platonico) né alcuna altra interna o esterna che tu potresti possedere, bensì “te stesso”, ciò che tu sei, anzi, in ultima analisi, la meraviglia stessa che tu sei. È questo tuo essere stesso, il fatto che tu sei, che costituisce per me che ti amo un valore supremo, che non si lascia ridurre alle spiegazioni più o meno razionali che se ne potrebbero dare. E sono ben cosciente che non si tratta di un’illusione o di una proiezione mia, bensì di una scoperta, perché la relazione a te, man mano che si rafforza e diventa più intima, mi fa vedere e capire qualcosa che già esisteva, ma di cui non mi ero accorto. L’aspetto negativo di questa scoperta è la coscienza sempre più chiara che prende ogni amore, man mano che cresce, che non è lui a costituire il suo oggetto, ma che ne dipende e lo riceve, anzi da esso riceve se stesso, come un dono – come già Platone nel discorso di Diotima l’aveva insinuato parlando della povertà dell’eros. In questo modo, qui troppo rapidamente abbozzato, il tuo essere, il fatto che tu sei, mi appare come qualcosa che trascende i semplici dati di esperienza e il semplice esistere (o esserci): «tu che sei» non si lascia ridurre all’esperienza che ne ho o ai concetti che potrei formarmene, e per di più esso è, nella sua unità ed originarietà, certamente non costituibile trascendentalmente. Devo pertanto riconoscere (e ho sempre già riconosciuto) nel Tu un essere sempre già dato a me, un altro da me, che non nasce per derivazione dialettica (poiché tu non sei il mio “limite”) ma qualcosa che conosco, sì, ma che precede ed eccede in modo inscrutabile ogni mia possibile conoscenza. Per riassumerlo ancora in altra maniera, l’essere del Tu si manifesta, sì, e non solo come un groviglio di predicati possibili; ma nello stesso tempo esso non si esaurisce in questo suo manifestarsi, perché il mio rapporto a te non si riferisce, appunto, al tuo manifestato, né al tuo manifestabile, ma a te stesso, a quella tua identità con te stesso, che tu stesso ignori e che non posso non chiamare il tuo “essere”. Il ruolo privilegiato del “tu sei” nella scoperta dell’essere è confermato dal fatto che io stesso scopro il mio “essere” autentico per il fatto che “tu” mi interpelli ed esigi da me una riposta. La tua interpellazione infatti si rivolge alla mia identità con me stesso, in quanto suppone e mi fa scoprire che io non mi posso dissociare dalle mie manifestazioni e dai miei atti, passati, presenti e futuri. Scopro altresì una certa necessità di questo mio essere, in quanto mi risulta impossibile di non riconoscermi in qualche modo in questo Io da te invocato e di non dare una qualche risposta alla tua invocazione, non foss’altro che per un rifiuto di rispondervi o mostrandomi indifferente.

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47 Infinito del volto

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L’infinito paralizza il potere con la sua resistenza infinita all’omicidio, che, dura ed insormontabile, risplende nel volto d’altri, nella nudità totale dei suoi occhi, senza difesa, nella nudità dell’apertura assoluta del Trascendente. Si tratta qui di una relazione non con una resistenza grandissima, ma con qualcosa di assolutamente Altro: la resistenza di ciò che non ha resistenza – la resistenza etica. L’epifania del volto fa nascere questa possibilità di misurare l’infinito della tentazione dell’omicidio, non solo come una tentazione di distruzione totale, ma come impossibilità – puramente etica – di questa tentazione e di questo tentativo. Se la resistenza all’omicidio non fosse etica ma reale, ne avremmo una percezione con tutto quello che nella percezione diventa soggettivo. Resteremmo nell’idealismo di una coscienza della lotta e non in relazione con Altri, relazione che può mutarsi in lotta, ma che va già al di là della coscienza della lotta. L’epifania del volto è etica. La lotta che può essere minacciata da questo volto presuppone la trascendenza dell’espressione. Il volto minaccia la lotta come una eventualità, senza che questa minaccia esaurisca l’epifania del volto, senza che essa ne formuli la prima parola. La guerra presuppone la pace, la presenza preliminare e non-allergica d’Altri; non rappresenta il primo fatto dell’incontro. L’impossibilità di uccidere non ha un significato semplicemente negativo e formale; la relazione con l’infinito o l’idea dell’infinito in noi la condiziona positivamente. L’infinito si presenta come volto nella resistenza etica che paralizza il mio potere e si erge dura ed assoluta dal fondo degli occhi senza difesa nella sua nudità e nella sua miseria. La comprensione di questa miseria e di questa fame instaura proprio la prossimità dell’Altro. Ma è così che l’epifania dell’infinito è espressione e discorso. L’essenza originale dell’espressione e del discorso non risiede nell’informazione che fornirebbero su un mondo interno e nascosto. Nell’espressione un essere si auto-presenta. L’essere che si manifesta assiste alla propria manifestazione e quindi fa appello a me. Questa assistenza non è il neutro di un’immagine, ma una sollecitazione che mi riguarda con la sua miseria e la sua Maestà. Parlarmi significa superare in ogni istante ciò che vi è di necessariamente plastico nella manifestazione. Manifestarsi come volto significa imporsi al di là della forma, manifestata e puramente fenomenica, presentarsi in un modo irriducibile alla manifestazione, come la rettitudine stessa del faccia a faccia, senza la mediazione di nessuna immagine nella sua nudità, cioè nella sua miseria e nella sua fame. Nel Desiderio si confondono i movimenti che vanno verso la Maestà e l’Umiltà d’Altri.

48 Atto mio CHISHOLM R.M., The first person. An essay on reference and intentionality, Minneapolis,

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1981. DE FINANCE J., Existence et liberté, Lyon, 1955. FABRO C., Introduzione a s. Tommaso. La metafisica tomista e il pensiero moderno, Milano,

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Suppongo che tutte le cose che vedo siano false; mi convinco che non sia mai esistito nulla di quanto la mia menzognera memoria mi rappresenta; penso di non possedere alcun senso; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non sono che finzioni del mio spirito. Che cosa dunque potrà ancora essere considerato vero? Nessuna altra cosa, forse, se non che al mondo non c’è nulla di certo. Ma sono proprio sicuro che non ci sia qualche altra cosa, diversa da quelle che ho giudicato incerte, sulla quale non possa avanzare il minimo dubbio? Non ci sarà qualche Dio o qualche altra potenza che mi insinui nella mente questi pensieri? Ciò che è necessario, perché forse sono capace di produrli da me stesso. Ma dunque io almeno non sono qualche cosa? Ma ho già negato di avere sensi od un corpo. Eppure io esisto, perché altrimenti che cosa ne segue? Sono talmente dipendente dai sensi e dal corpo da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono persuaso che non esisteva niente nel mondo, che non c’era né cielo, né terra, né spirito, né corpo; ma non mi sono anche persuaso di non esistere? Par nulla ! Senza dubbio io esistevo, dal momento che mi sono persuaso di qualche cosa o anche soltanto che l’ho pensata. Ma vi è un non so qual potentissimo ed astutissimo ingannatore, che impiega tutta la sua abilità ad ingannarmi continuamente. Non c’è dubbio che io esista, se egli mi inganna; e mi inganni fin tanto che vorrà, non potrà mai fare che io sia nulla, nel momento in cui penserò di essere qualcosa. In tal modo, dopo aver ben pensato ed esaminato tutte le cose, devo infine concludere e tenere per certo che questa proposizione: io sono, io esisto, è necessariamente vera, ogni volta che la pronuncio o la concepisco nel mio spirito.

49 Atto e reale CARLO W., «The role of essence in existential metaphysics» in International philosophical

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Ora, in qual senso l’Io è posto come infinito; in qual altro, come finito? L’uno e l’altro gli sono assolutamente attribuiti; il puro atto del suo porre è il fondamento tanto della sua infinità, quanto della sua finità. Solo per il fatto che esso pone qualcosa, nell’uno come nell’altro caso esso pone sé stesso in questo qualcosa, ascrive a sé stesso questo qualcosa. Se noi, perciò, potessimo trovare una differenza nel puro atto di questo differente porre, il problema, allora, sarebbe risoluto. In quanto l’Io si pone come infinito, la sua attività (di porre) cade sull’Io stesso, e su nient’altro che l’Io. Tutta la sua attività cade sull’Io, e questa attività è il fondamento e l’ambito di ogni essere. Perciò l’Io è l’infinito, in quanto la sua attività ritorna in sé

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stessa, e per questo riguardo, dunque, anche la sua attività è infinita, perché infinito è il prodotto di essa, l’Io ([...]. Prodotto, attività, agente sono qui una sola e medesima cosa (’1), e noi non li distinguiamo se non per poterci esprimere). Solo la pura attività dell’Io, solo il puro Io è infinito. Ma la pura attività è quella, che non ha punto oggetto, ma rientra in sé stessa. In quanto l’Io pone limiti, e, secondo quel che sopra è stato detto, in quanto pone sé stesso in questi limiti, la sua attività (del porre) non cade immediatamente su sé stessa, ma sopra un Non-Io, che deve essere opposto (”2,3). Perciò essa non è più attività pura, ma attività oggettiva (che si pone un oggetto. La parola oggetto indica a meraviglia ciò che deve indicare. Ogni oggetto di un’attività, in quanto esso è tale, è necessariamente qualcosa di opposto all’attività, ad essa resistente o contrastante. Se non v’è resistenza, non v’è neppure, in generale, oggetto dell’attività, né attività oggettiva, ma, se questa è attività, è attività pura, rientrante in sé stessa. Già nel semplice concetto dell’attività oggettiva è incluso che ad essa sia opposta resistenza, e che, quindi, essa sia limitata). Quindi l’Io è finito, in quanto la sua attività è oggettiva. Ora, questa attività, in entrambi i rapporti, così in quanto ritorna sull’agente stesso, come in quanto deve cadere sopra un oggetto al di fuori dell’agente, deve essere una sola e medesima attività, attività di un solo e medesimo soggetto, che, sotto tutti e due gli aspetti, pone sé stesso come un solo e medesimo soggetto. Perciò tra le due specie di attività deve esserci un vincolo di unione, per il quale la coscienza è condotta dall’una all’altra; e tal vincolo sarebbe precisamente la richiesta relazione di causalità. Voglio dire che l’attività dell’Io ritornante in sé stessa sta con quella oggettiva nella stessa relazione della causa al suo effetto; che l’Io, per mezzo della prima, determina sé stesso alla seconda; che, quindi, la prima cade immediatamente sull’Io stesso, ma, in forza della determinazione – che così si verifica – dell’Io stesso, come di ciò che determina il Non-Io, cade mediatamente sul Non-Io, e così sarebbe realizzata la richiesta causalità.

50-52 Categorie ontologiche 50 Atto, sostanza, essenza AA.VV., «Etienne Gilson» in Doctor communis, 1985, nE3. BERNARD A., Introduction à la philosophie thomiste, Avignon, 1954. BONETTI I., «Il problema di fondo della metafisica tomista: l’“essere” e la struttura del concetto

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51

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174-178 (trad. M.T. La Vecchia). Questa dottrina, il cui posto è centrale nel tomismo, merita che ci si fermi piuttosto a lungo per coglierne il senso e per prevederne la portata. Dire che l’essere (esse) si comporta come un atto, anche nei riguardi della forma – ad ipsam etiam formam comparatur esse ut actus – è affermare il primato radicale dall’esistenza sull’essenza. La luce non è ciò che essa è, ed essa stessa non è che per il fatto che si esercita un atto di illuminare che la causa; la bianchezza non è ciò che essa è, ed anch’essa non è che per il fatto che esiste un essere che esercita l’atto di essere bianco; allo stesso modo, la forma della sostanza non è tale e non esiste che in virtù dell’atto esistenziale che fa di questa sostanza un ente. Così inteso l’atto di esistere si colloca al centro o, se si preferisce, alla radice stessa del reale. È dunque il principio dei principi della

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realtà. Assolutamente primo, esso oltrepassa il Bene stesso, poiché un essere non è buono che in quanto è un ente, ed esso non è un ente che in virtù dell’ipsum esse che permette di dire: questo è. Per comprendere questo principio nella sua natura propria, occorre ricordarsi che, come ogni parola, il verbo esse indica un atto e non un ente. L’ente nel quale l’esse colloca ciò che lo riceve, è la condizione di ens, vale a dire di ciò che è un “ente”. Noi tendiamo senza tregua a ridiscendere dal piano dell’esistere a quello dell’essere; è la nostra inclinazione naturale, ma lo sforzo del metafisico deve tendere a risalirla. È importante infatti rialzare, al contrario, l’ens fino al piano dell’esse, non per confonderli, ma per mettere bene in evidenza che l’ente non è tale che attraverso e nel suo rapporto con l’atto di esistere. Non è questo il caso nella maggior parte della altre filosofie, così si vedono spesso gli interpreti di san Tommaso passare accanto al senso vero della sua dottrina ed impegnarsi in controversie che a quella sono estranee, oppure crivellarlo di obiezioni che non colpiscono altro che un fantasma. Occorre dunque spingersi avanti fino a questo punto per intenderlo bene, e, una volta lì, bisogna mantenersi in quella posizione. Al di là di ciò che vi è di più perfetto e di più profondo nel reale, non vi è più nulla. Ciò che vi è di più perfetto è l’esistere (ipsum esse) «poiché esso si comporta nei riguardi di tutte le cose come il loro atto. Niente infatti ha attualità se non un quanto esiste. L’esistere (ipsum esse) è l’attualità di tutto il resto, comprese le forme stesse. Il suo rapporto con le altre cose non è dunque quello di ciò che riceve a ciò che è ricevuto, ma piuttosto quello di ciò che è ricevuto a ciò che riceve. Quando infatti io dico di un uomo o di un cavallo o di qualsiasi altra cosa: ciò esiste, l’esistere (ipsum esse) è considerato come formale e come elemento ricevuto, e non come ciò a cui appartiene l’esistere». Visibilmente san Tommaso fa qui una sorta di sforzo estremo, e tale che il senso fa erompere le formule, per esprimere la specificità dello ipsum esse e la sua trascendenza; ma appunto perché esso è la sommità del reale, ne è anche il cuore. «L’essere è più intimo a tutto di ciò che lo determina». Si potrebbe con difficoltà concepire una ontologia più pienamente e più consapevolmente centrata sull’essere attuale di quella di san Tommaso d’Aquino. È anche ciò che rende così difficile insegnarla senza tradirla. La si tradisce innanzitutto troppo spesso presentando come occupata principalmente dalle essenze una filosofia che non ne parla che per situare degli esistenti. E non è tuttavia questo il tradimento più grave, perché la si tradisce più comunemente ancora riducendo a una dottrina dell’essere in quanto essere quella che san Tommaso stesso ha concepito invece come una dottrina dell’atto di essere. Questo errore non è in nessuna parte più manifesto che nel punto che ci interessa. Sono passati secoli sulla distinzione tomista tra l’essenza e l’ente, e mai dottrina fu più aspramente discussa né meno compresa. Il titolo stesso sotto il quale questa controversia è divenuta celebre ne spiega il motivo. Parlare della distinzione tra essenza ed essere è esprimersi come se l’esistenza fosse essa stessa un’essenza: l’essenza dell’atto di essere. È dunque impegnarsi a trattare come una cosa ciò che è un atto, per cui ci si trova quasi infallibilmente condannati a rappresentarsi la composizione di essenza e di esistere come se si trattasse di una sorta di preparazione chimica, in cui qualche operatore molto potente, Dio per es., prendesse da una parte un essenza, dall’altra parte un atto di essere e ne effettuasse la sintesi sotto l’azione del raggio creatore. Si tratta di ben altra cosa e, per spiacevole che ciò possa essere, di qualche cosa di estremamente più difficile da concepire. Se si volesse assolutamente usare l’immaginazione, ciò che sarebbe meglio evitare in metafisica, si dovrebbe piuttosto simboleggiare l’esistenza con un punto di energia di intensità data, che produce un cono di forza di cui esso sarebbe il vertice e la cui base sarebbe l’essenza. Questa non sarebbe tuttavia che un’approssimazione molto grossolana. La sola strada che possa condurre alla meta è anche la più difficile. Essa penetra immediatamente al cuore stesso dell’atto di esistere. Porre un tale atto, senz’altra determinazione, è porlo come puro, perché non è che l’Ipsum esse, ma è anche porlo come assoluto, poiché esso è tutto l’atto di esistere, ed è in ultimo porlo come unico, poiché non si può concepire nulla come ente che l’atto puro di esistere non sia. Se è di questo atto di esistere che si parla, nessun problema di essenza e di esistenza si potrebbe porre. È

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quello che noi chiamiamo Dio. Gli esistenti di cui si tratta qui sono di tutt’altra specie. Questi sono, l’abbiamo detto, le sostanze concrete, oggetti dell’esperienza sensibile. Nessuna di esse è da noi conosciuta come un puro atto di esistere. Ciascuna di esse si distingue per noi dalle altre come ente “un albero esistente”, o “un animale esistente”, o “un uomo esistente”. Questa determinazione specifica degli atti di esistere, che colloca ciascuno di essi in una specie definita, è precisamente ciò che noi chiamiamo la loro essenza. Ora, se si tratta di un albero, o di un animale, o di un uomo, la loro essenza è di essere o un albero, o un animale, o un uomo; in nessun caso la loro essenza non è di essere. Il problema del rapporto dell’essenza al suo atto di essere si pone dunque in una maniera inesorabile a proposito di tutto ciò la cui essenza non è di esistere. Questa è anche la portata della composizione detta di essenza e di esistenza, che varrebbe la pena, senza dubbio, di denominare in maniera più adeguata come la composizione di essenza e di essere (esse). Non si dovrebbe dubitare in alcun modo che questa composizione sia reale, ma essa si pone nel ordine metafisico dell’atto e della potenza, non nell’ordine fisico del rapporto delle parti all’interno di un tutto materiale. Questa composizione è reale al più alto grado, poiché essa esprime il fatto che un ente la cui essenza non è l’atto di essere non ha da se stesso di che cosa esistere. Che tali esseri esistano noi lo sappiamo per esperienza, poiché non conosciamo anche direttamente che quelli. Essi dunque sono, ma noi sappiamo pure che essi non sono di pieno diritto. Dal momento che è a loro innata, questa mancanza di necessità esistenziale accompagna necessariamente il corso della loro durata; in quanto esistono, essi restano esseri la cui esistenza non trova nella loro essenza sola alcuna giustificazione. La composizione di essenza e di essere è proprio questa, ed è per il fatto che è profondamente reale che essa obbliga a porre il problema della causa delle esistenze finite, che è il problema dell’esistenza di Dio. Quando la si pone così sul piano dell’esistere, questa composizione cessa di escludere l’unità della sostanza; essa la esige al contrario per questo motivo. La natura concettuale della nostra conoscenza ci induce naturalmente a concepire l’esistere come un valore indeterminato al quale l’essenza si aggiungerebbe dall’esterno per determinarlo. Che la ragione raggiunga qui il suo limite, lo si vede bene nell’imbarazzo che prova san Tommaso per escogitare nel nostro linguaggio concettuale il modo di formulare un tale rapporto. È una regola generale che, in ogni rapporto di determinante a determinato, il determinato si tiene dal lato della potenza e il determinante dalla parte dell’atto. Nel caso presente, al contrario, questa regola non potrebbe applicarsi. Benché si possa immaginare chi determina l’esistere, la forma o la materia, per es., questo non può essere un puro nulla, dunque è dall’essere, e non è dall’essere che in virtù di un atto di esistere. È dunque impossibile che la determinazione di un atto di esistere venga ad esso dal di fuori, vale a dire da altra cosa che da esso stesso. L’essenza di un atto finito di esistere consiste, infatti, nel non essere che questo o quelle esse, non l’esse puro, assoluto ed unico di cui noi abbiamo parlato. L’atto di esistere si specifica quindi per mezzo di ciò che ad esso manca, seppure qui è la potenza che determina l’atto, in questo senso almeno che il suo grado proprio di potenzialità è inscritto in ciascun atto finito di esistere. Il vigore delle formule che usa san Tommaso e che in qualche modo cesellano questi pensieri, mostrano a sufficienza che i limiti del linguaggio sono raggiunti insieme con i limiti dell’essere. Ciascuna essenza è posta da un atto di esistere che essa non è e che la include come sua autodeterminazione. Al di fuori dell’Atto puro di esistere non può esistere nulla se non come questo o quell’esistere; è dunque la gerarchia degli atti di esistere che fonda e regola quella delle essenze, ciascuna delle quali non esprime altro che l’intensità propria di un certo atto di esistere.

T E R Z A P A R T E L’ESSERE COME DONO

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53 Univocità ANDERSON J.F., The bond of being. An essay on analogy and existence, St Louis, 1949. BELLEFIORE L., «Le basi gnoseo-metafisiche dell’univocità e dell’analogia» in Rivista di

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25. Secondo lo Scoto, l’essere è la perfezione assolutamente semplice per eccellenza. Ciò vuol dire che la perfezione rappresentata dall’essere si può concepire in maniera distinta dai modi concreti sotto i quali l’essere esiste di fatto e quindi, dar luogo a un concetto assolutamente semplice. Conviene seguire un poco lo Scoto nel suo sforzo di cogliere l’essere come perfezione assolutamente semplice e i rapporti che l’essere sostiene con i suoi modi intrinseci, specialmente l’infinità e la finitezza, perché tutto ciò costituisce, a suo avviso, la vera scienza dell’essere o la metafisica. Se noi riflettiamo sulla conoscenza che abbiamo dell’essere, pensa lo Scoto, ci accorgiamo che, nell’esperienza, più che l’essere noi troviamo gli esseri o gli enti. Ognuno di questi è sempre un ente particolare che possiede, sì, l’essere, ma senza esaurirne tutta la perfezione, giacché essere pietra, per esempio, significa, sì, essere, ma significa anche non essere uomo. Si potrebbe dire che tutti gli enti, in quanto esseri, si oppongono soltanto al nulla o al non essere e sotto questo aspetto, tutti convengono nell’essere. In quanto, però, ciascun essere è quello che è o possiede un suo grado essenziale di essere, ogni ente si distingue da tutti gli altri. Ciò che differenzia, per esempio, il cavallo dall’uomo è il fatto che l’uomo possieda l’essere sotto forma umana

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e non sotto forma equina. Per questo, per comprendere l’essere in quanto essere, uno deve cogliere l’essenza stessa dell’essere ovvero ciò che fa sì che, per esempio, il cavallo e l’uomo siano egualmente esseri, pur essendo tra loro distinti. Quando si rifletta in questa direzione, ci si accorge appunto che c’è una specie di dimensione comune a tutti gli enti concreti che si può giustamente chiamare la loro comunanza nell’essere o, come dice lo Scoto, il loro essere comune. In effetti, ci si rende conto che il cavallo è tale perché è privo di una perfezione entitativa di cui, come cavallo, sarebbe incapace, ma di cui, come essere, sarebbe, invece, perfettamente capace. In tal modo, appare evidente all’intelligenza che l’essere in quanto essere è una perfezione di natura sua illimitata o una perfezione assolutamente semplice, abbracciante tutte le perfezioni all’infuori del nulla. Si comprende, allora, come la metafisica, studiando l’essere comune, si proponga effettivamente di cogliere non qualche aspetto particolare dell’essere, come la Fisica che, in un certo senso, studia l’ente mutevole o, più esattamente la mutabilità dell’essere così fatto, ma la perfezione suprema dell’essere in tutta la sua comprensione e in tutta la sua estensione.

54 Equivocità CORETH Em., «Dialektik und Analogie des Seins. Zum Seinsproblem bei Hegel und in der

Scholastik» in Scholastik, 1951, 57-86. RICOEUR P., «Herméneutique des symboles et réflexion philosophique» in AA.VV., Il

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99. P. RICOEUR, La metafora viva, 341-342.

Il Trattato delle Categorie [di Aristotele] pone il problema della connessione tra i vari significati dell’essere solo perché la Metafisica pone il problema che rompe sia con il discorso poetico che con quello ordinario. Il problema è: che cosa è l’essere? Un problema che è completamente al di fuori di tutti i giochi di linguaggio. Ecco perché, quando il filosofo si imbatte nel paradosso secondo il quale «l’essere si dice in molti modi», e quando, per sottrarre alla dispersione i molteplici significati dell’essere, fissa tra questi una relazione di rinvio ad un termine primo che non è né l’univocità di un genere, né l’equivocità puramente casuale di una sola parola, la plurivocità che egli esprime nel discorso filosofico è d’altro genere rispetto al senso molteplice prodotto dall’enunciazione metaforica. È una plurivocità del medesimo tipo dell’interrogativo che ha aperto il campo speculativo. Il primo termine – ousia – pone tutti gli altri termini entro lo spazio di senso ritagliato dal problema: che cosa è l’essere? Poco importa, per il momento, che questi altri termini abbiano, con il primo termine, un rapporto che possiamo, più o meno legittimamente, chiamare di analogia; l’importante è che venga identificata, tra i molteplici significati dell’essere, una filiazione la quale, pur senza discendere dalla divisione di un genere in specie, costituisce, comunque, un ordine. Questo ordine è un ordine di categorie, nella misura in cui è la condizione di possibilità dell’estensione ordinata del campo dell’attribuzione. La polisemia regolata dell’essere conferisce ordine alla polisemia in apparenza disordinata della funzione predicativa come tale. Come talune categorie che non sono quella di sostanza sono “predicabili” della sostanza e, in tal modo, accrescono il senso primo dell’essere, analogamente, per ogni essere dato, l’ambito di predicabilità presenta la medesima struttura concentrica d’allontanamento a partire da un centro “sostanziale”, e di accrescimento di senso per aggiunta di determinazioni. Questo processo regolato non ha alcun punto in comune con la metafora, nemmeno con quella analogica. Equivocità regolata dell’essere ed equivocità poetica si muovono su piani radicalmente distinti. Il discorso filosofico si pone alla stregua di un attento guardiano delle estensioni di senso regolate, a partire dalle quali si fanno le estensioni di senso inedite del discorso poetico. Che non vi sia alcun punto in comune tra l’equivocità regolata dell’essere e la metafora

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poetica, è indirettamente provato dall’accusa rivolta da Aristotele a Platone. L’equivocità regolata deve rimpiazzare la partecipazione platonica, che non è altro che metaforica: «Dire che le forme sono modelli e che le cose sensibili partecipano di esse significa parlare a vuoto e far uso di mere immagini poetiche» (Metafisica, D, 9, 991a19-22). Quindi la filosofia non deve né metaforizzare né poetizzare, anche quando si occupa dei significati equivoci dell’essere. Ma, può non fare quel che non deve fare?

55 Analogia AA.VV., Metafore dell’invisibile. Ricerche sull’analogia in Contributi al 33o congresso del

Centro di studi filosofici di Gallarate, aprile 1983, Brescia, 1984. ABRANCHES C., «Ser e analogia» in Pensamiento, 1959, 33-45. BOURG D., Transcendance et discours. Essai sur la nomination paradoxale de Dieu, Paris,

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Il termine “essere” è usato in molte accezioni, ma si riferisce in ogni caso ad una sola e ad un’unica natura e non per omonimia; ma, come tutto ciò che è sano si riferisce in ogni caso alla salute – sia in quanto la conserva sia in quanto la procura sia in quanto la manifesta in quanto è in grado di riceverla – e come tutto ciò che è medico si rapporta alla medicina (giacché una cosa si dice medica perché possiede l’arte della medicina, e un’altra perché è naturalmente adatta ad essa e un’altra ancora perché è opera della stessa medicina – anzi possiamo assumere anche altri termini usati in modo simile a quelli precedenti), così anche il termine “essere” viene usato in molte accezioni, ma ciascuna di queste si riferisce pur sempre ad un unico principio. Alcune

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cose, infatti, si chiamano “esseri” perché sono sostanze, altre perché sono determinazioni affettive della sostanza, altre perché aprono la via verso la sostanza o ne indicano la distruzione o la privazione o le qualità, o perché sono produttrici o generatrici di una sostanza ovvero dei termini relativi alla sostanza, o anche perché sono negazioni di qualcosa di questi termini o della sostanza; ed è questo il motivo per cui noi diciamo che anche il non-essere è in-quanto-non-essere. E come, dunque, di tutte le cose sane esiste un’unica scienza, parimenti avviene questo anche per le altre cose. Difatti è riservato ad un’unica scienza lo studio non solo di quei termini che sono relativi ad una sola natura, giacché anche questi ultimi, in un certo senso, esprimono una nozione comune. Quindi è chiaro che spetta ad un’unica scienza anche lo studio degli esseri-in-quanto-esseri. In ogni caso, poi, la scienza ha come suo oggetto peculiare ciò che è primo, ossia ciò da cui le altre cose dipendono e mediante cui esse ricevono le loro denominazioni. Pertanto, se questa prima cosa si identifica con la sostanza, allora il filosofo dovrà avere in suo dominio i principi e le cause, appunto, delle sostanze. Ma di ogni genere determinato di cose, come esiste un’unica sensazione, così esiste anche un’unica scienza, allo stesso modo che, ad esempio, la grammatica, che pur è una, studia tutte quante le parole. Perciò è compito di una scienza unica per genere studiare quanto siano le specie dell’essere-in-quanto-essere, ed è compito delle parti specifiche di questa scienza studiare le parti specifiche dell’essere.

56 Attribuzione intrinseca BOGLIOLO L., «Analogia e identità» in Atti dell’8o congresso tomistico, vol. 5: Problemi

metafisici, Vaticano, 1982, 147-165. S. TOMMASO d’AQUINO, Somma contro i gentili, I, 34, Torino, 1975, 136-137. Da quanto abbiamo detto (nei capitoli precedenti) si impone la conclusione che i

vocaboli usati per Dio e per le altre cose non hanno valore né univoco né equivoco, ma analogico; ossia valgono in base a un ordine o a una relazione con qualcosa di unico.

E ciò può avvenire in due modi. Primo, mediante il riferimento di più cose a un’unica realtà: come quando in relazione all’unica sanità (dell’animale), il termine sano si applica all’animale in quanto ne è il soggetto, alla medicina che la procura, al cibo che la conserva e all’urina che ne è un segno. Secondo, nel caso in cui l’ordine, o la relazione di due cose non si riferisce a una terza, ma a una di esse: ente, p. es., si dice della sostanza e dell’accidente in quanto quest’ultimo dice relazione alla sostanza, non già perché sostanza e accidente si riferiscono a una terza realtà. Ora i nomi cui accenniamo si riferiscono analogicamente a Dio e alle altre cose non nella prima maniera, poiché nel caso bisognerebbe supporre qualche cosa di anteriore a Dio, bensì nella seconda. Ma in codesta predicazione analogica talora si ha l’identico ordine, sia rispetto al significato del vocabolo, che secondo la realtà: talora invece codesti due ordini sono diversi. Poiché l’ordine di significazione segue quello della conoscenza, essendo la parola l’espressione della intuizione intellettiva. Perciò quando ciò che è prima nell’ordine reale è prima anche nell’ordine conoscitivo, l’identica realtà è prima nello appropriarsi il significato del nome, oltre che nella realtà: la sostanza, p. es., è prima dell’accidente sia in natura, in quanto è causa dell’accidente; sia nella conoscenza, in quanto la sostanza rientra nella definizione stessa dell’accidente. Quindi ente si dice prima della sostanza che degli accidenti, sia secondo l’ordine di natura, che secondo l’ordine della significazione del termine. – Quando invece ciò che è prima per natura è posteriore in ordine di conoscenza, allora negli analogati non è identico l’ordine reale e quello di significazione del termine: la virtù di risanare, p. es., che si riscontra nelle medicine, per natura è prima della sanità che si produce nell’animale, come la causa è anteriore all’effetto; ma poiché codesta virtù si conosce dall’effetto, è dall’effetto che la denominiamo. Ecco perché i mezzi sanitari sono anteriori nell’ordine reale, ma il

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termine sano quanto al valore semantico appartiene prima di tutto all’animale. Perciò siccome noi arriviamo alla conoscenza di Dio partendo dalle cose, il contenuto dei termini attribuiti a Dio e alle cose si trova in lui prima che nelle cose nel suo valore intrinseco, ma il loro significato si applica a Dio posteriormente. Ecco perché si dice che Dio viene denominato dai suoi effetti.

57 Proporzionalità LANDRY B., «La notion d’analogie chez st Bonaventure» in Revue néo-scolastique de

philosophie, 1922, 137-169. LANDRY B., «L’analogie de proportion chez st Thomas» in Revue néo-scolastique de

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tomistica tra XIV e XV secolo, Milano, 1989. SIEWERTH G., Die Analogie des Seienden, Einsiedeln, 1965. TIROT P., «Autour du débat sur l’analogie de proportionnalité propre chez st Thomas d’Aquin»

in Angelicum, 1986, 90-125. A. MOLINARO, «Linguaggio, logica, metafisica. Il problema dell’analogia in s. Tommaso

d’Aquino» in Aquinas, 1974, 55-57. La convenienza può essere di uguaglianza, e abbiamo la proporzionalità matematica: 6:3 = 8:4. La ragione proporzionale, inerente in ambedue i rapporti, il doppio, è identica e quindi assolutamente univoca. La convenienza può essere di somiglianza soltanto, e allora abbiamo l’analogia di proporzionalità: la sostanza sta al suo essere come l’accidente sta al suo. Anche qui la ragione proporzionale è inerente in tutt’e due i rapporti, ma lungi dall’essere identica, essa è verificata in modo essenzialmente diverso, simile sotto qualche rispetto, per il quale i due rapporti si possono unificare in una comunità non di uguaglianza. L’ordine con cui la sostanza si rapporta al suo essere è ben altro da quello con cui l’accidente si rapporta al suo: sono infatti due essenze simpliciter diverse e quindi anche la corrispondente relazione deve essere diversa. Ma ciononostante tutt’e due, sostanze ed accidente, si accomunano nella nozione di ente, sono enti, gradi o modi particolari dell’essere, uno in riferimento all’altro, uno in ragione dell’altro, poiché la sostanza habet esse firmum et solidum, perfectissimum, cui sicut ad primum et principale omnia alia (accidentia) referentur (IV Metaph. lec. 1). Solo in riferimento e in dipendenza dalla sostanza io riconosco all’accidente la sua ratio entis, giacché l’accidente nel rapportarsi al suo essere è dipendente dalla relazione che la sostanza ha al suo. Senza questo ordine alla sostanza questa ratio non si potrebbe applicare con verità all’uno e all’altro, dato che sono essenzialmente diversi. Così si dice del vedere che si attribuisce all’occhio e all’intelletto. Esso inserisce realmente sia nell’uno che nell’altro, ma si dice principalmente e propriamente dell’occhio, secondariamente e in quanto assomiglia al vedere dell’occhio, dell’intelletto: senza questa relazione io non capisco il vedere dell’intelletto, che è essenzialmente diverso. Da ciò si vede che ciò che fonda l’analogia nella proporzionalità non è l’intrinsecità che può essere anche univoca. Essa piuttosto è un elemento che distingue l’analogia puramente logica da quella reale. La ragione della comunità analogica nella proporzionalità è la non eguaglianza, la diversità della stessa forma partecipata, il prius et posterius, il magis et minus, insomma l’ordo ad unum. [...] Così della sostanza e dell’accidente, così della conoscenza del senso e dell’intelletto: sempre una delle proporzioni è l’unum in ordine al quale si istituisce il sistema dell’analogia. Si deve dunque esplicitamente ammettere l’ordo a unum in dipendenza del quale sono tali tutti i secondari analogati. Così per questo esplicito, dichiarato ricorso al principale, al centro luminoso di intelligibilità della serie analogica, anche la proporzionalità acquista

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il suo vero valore di analogia e ci apre la strada per il passaggio conoscitivo di un termine all’altro.

58 Atto spirituale BOYER Ch., «Le sens d’un texte de saint Thomas (De veritate, I, 9)» in Gregorianum, 1924,

424-443. PUTTALAZ F.X., Le sens de la réflexion chez s. Thomas d’Aquin, Paris, 1991. S. AGOSTINO, La trinità, IX, 12, 18, Roma, 1973, 387-389.

Anzitutto sia chiaro che può accadere che vi sia una cosa conoscibile, cioè che si potrà conoscere e che tuttavia si ignora, e che, al contrario, non può accadere che si conosca ciò che è inconoscibile. Si deve dunque tenere come evidente che ogni cosa che noi conosciamo coingenera in noi la conoscenza che abbiamo di essa. Infatti la conoscenza è generata da tutti e due, dal conoscente e dal conosciuto. Perciò, quando lo spirito conosce se stesso, esso solo genera la sua conoscenza, perché esso è insieme il conosciuto e il conoscente. Esso era conoscibile a sé, anche prima che si conoscesse, ma non era in esso la conoscenza di sé, quando esso non conosceva se stesso. Per il fatto che si conosce, genera una conoscenza uguale a sé, perché non si conosce meno di quello che è, e la sua conoscenza non è quella di un’altra essenza, e questo non solo perché è esso che conosce, ma anche perché conosce se stesso, come abbiamo detto prima. Che dobbiamo dunque dire dell’amore? Perché non riteniamo ugualmente che quando ama se stesso, lo spirito genera anche il suo amore? Infatti esso era amabile a sé anche prima che si amasse, perché poteva amare se stesso, come era conoscibile a sé anche prima che si conoscesse, perché poteva conoscersi. Infatti se non fosse conoscibile a sé, non avrebbe mai potuto conoscersi. Perché allora non si dice che, amandosi, genera il suo amore come, conoscendo se stesso, genera la sua conoscenza? Sarà forse perché appare sì ben chiaro che il principio dell’amore è ciò da cui procede e l’amore procede dallo spirito che è amabile a sé prima di amarsi e dunque è lo spirito il principio dell’amore di sé con cui si ama, ma non si può dire secondo verità che è generato da esso, come la conoscenza di sé con cui si conosce, perché è per mezzo della conoscenza che è già stato scoperto ciò che, si dice, è generato e riprodotto, scoperta che è spesso preceduta da una ricerca che non si appaga che giungendo a questo suo termine? Infatti la ricerca è desiderio di scoprire, o, che è la stessa cosa, di riprodurre. Le cose che si riproducono, è come se si generassero; per cui sono simili ad una prole, e dove accade ciò se non nella conoscenza? Là infatti, come esprimendosi, vengono formate. Perché se già esistevano le cose che la ricerca scopre, non esisteva tuttavia la conoscenza, che paragoniamo ad un figlio che nasce. Il desiderio che ispira la ricerca, procede da chi cerca e sta, in qualche modo, in sospeso e non riposa nel termine cui tende se non quando ciò che è cercato, una volta trovato, sia unito a colui che cerca. E questo appetito, cioè questa ricerca, sebbene non sembri essere amore – perché con l’amore si ama ciò che già si conosce e qui non si tratta che di una tendenza a conoscere – tuttavia è qualcosa dello stesso genere. Infatti la si può già chiamare volontà, perchè chiunque cerca vuole trovare e, se si cerca qualcosa che appartiene alla conoscenza, chiunque cerca vuol conoscere. [...] E questo stesso desiderio, che spinge verso la cosa da conoscere, diventa amore della cosa conosciuta quando possiede ed abbraccia questa prole in cui si compiace, cioè la conoscenza, e la unisce al principio generatore.

59 Causalità SORABJI R., Time, creation and the continuum. Theories in antiquity and the early middle

ages, New-York, 1983. STEGMÜLLER W., Erklärung, Begründung, Kausalität, Berlin, ²1983.

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F. SELVAGGI, «Il problema filosofico» in Problemi delle origini, Roma, 1966, 300-301.

Innanzi tutto, dal nulla non si fa nulla e dal meno non viene il più. Tutto ciò che è o diviene deve avere una ragione sufficiente per essere o divenire. Tutto ciò che diviene, che si muta o che si perfeziona, diviene, si muta e si perfeziona da uno stato di partenza passiva o capacità reale rispetto al nuovo essere e alla nuova perfezione. Ma nulla passa dalla potenza all’atto, dalla capacità di perfezione al possesso della perfezione stessa, se non per qualche essere in atto, che è la causa del movimento e della nuova perfezione. Ora niente dà ciò che non ha. Quindi la causa deve possedere in modo eguale o equivalente la perfezione dell’effetto, la causa parziale deve possedere l’aspetto parziale che è il suo proprio effetto, la causa totale la totalità dell’effetto. Più in particolare, ogni agente tende a produrre qualcosa di simile a sé, a comunicare il suo essere e la sua perfezione. Ma insieme l’azione dell’agente è ricevuta secondo le disposizioni e le capacità del soggetto che riceve l’azione e che reagisce ad essa. Pertanto, eccetto che si tratti della produzione totale di un essere dal nulla [...], in ogni divenire dovrà applicarsi un principio di distribuzione della ragione sufficiente [...]: quanto più la materia o il soggetto del divenire è remota dall’atto o perfezione da raggiungere, tanto maggiore deve essere l’influsso e la potenza attiva della causa efficiente; e viceversa, quanto più la materia è in potenza prossima all’atto, meglio disposta e preparata alla nuova perfezione, tanto minore è l’azione richiesta da parte della causa efficiente. Ma in ogni caso, la totalità delle cause efficienti, aggiunte anche le disposizioni e la potenzialità del soggetto, deve essere non inferiore all’effetto da produrre. L’insieme di questi aforismi è di tale evidenza e logica necessità, che può sembrare superflua la loro enucleazione. L’abbiamo però ritenuta necessaria, perché non solo qualsiasi spiegazione filosofica o scientifica, per essere accettabile, deve necessariamente soddisfare ad essi, ma anche perché di fatto a questi principi sono esplicitamente ispirate le principali obiezioni mosse contro l’evoluzione. Essi devono essere accettati in tutta la loro forza, ma anche in tutte le loro implicazioni e conseguenze logiche. Ora, è facile riconoscere che, se questi principi sono applicati in modo rigoroso e, nello stesso tempo, la causalità viene ristretta in modo esclusivo alle cause di ordine materiale e finito, essi condurrebbero logicamente non solo al rigetto di ogni origine naturale di nuovi gradi di essere e di ogni evoluzione da forme inferiori a forme superiori e più perfette, ma altresì alla negazione di ogni vero divenire, di ogni mutazione, di ogni generazione di nuovi individui anche della stessa specie dei generanti. Infatti, dovunque c’è un vero divenire o una vera mutazione, comincia ad esistere qualcosa di più e di nuovo che prima non esisteva, c’è un nuovo atto e una nuova forma che viene all’essere oltre l’atto e la forma dell’agente, un nuovo organo nell’individuo adulto che non era preformato nell’embrione, un nuovo individuo della stessa specie che si somma all’individuo già preesistente. [...] Sarà [...] un paradosso; ma non è possibile comprendere la portata metafisica di un principio, se non si vede la necessità logica delle conseguenze paradossali, che esso può implicare.

60 Contingenza BERGER G., «Le temps et la participation dans l’oeuvre de Louis Lavelle» in Giornale di

metafisica, 1952, 451-460. DOZ A., «L’ontologie fondamentale et le problème de la culpabilité» in Revue de

métaphysique et de morale, 1956, 166-194. FABRO C., «Intorno alla nozione “tomista” di contingenza» in Rivista filosofica neoscolastica,

1938, 132-149. JALBERT G., Nécessité et contingence chez st Thomas d’Aquin et chez ses prédécesseurs,

Ottawa, 1961. MARITAIN J., «Réflexions sur la nécessité et la contingence» in Angelicum, 1937, 281-295.

61

M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Milano, 1965, 520-522. In definitiva, che cosa sono io nella misura in cui posso intravedermi fuori di ogni atto particolare? Io sono un campo, sono un’esperienza. Un giorno e una volta per tutte è stato messo in moto qualcosa che, anche durante il sonno, non può più cessare di vedere o di non vedere, di sentire o di non sentire, di soffrire o di essere felice, di pensare o di riposarsi, in breve di “spiegarsi” con il mondo. Non è nato un nuovo aggregato di sensazioni o di stati di coscienza, e nemmeno una nuova monade o una nuova prospettiva, poiché io non sono fissato a nessuna prospettiva e poiché posso mutare punto di vista, costretto soltanto a occuparne sempre uno e a occuparne soltanto uno per volta – è nata invece una nuova possibilità di situazioni. L’evento della mia nascita non è passato, non è caduto nel nulla alla stregua di un evento del mondo oggettivo: esso impegnava un avvenire, non già come la causa determina il suo effetto, ma come, una volta intrecciata, una situazione mette capo inevitabilmente a qualche scioglimento. C’era ormai un nuovo “ambiente”, il mondo riceveva un nuovo strato di significato. Nella casa in cui nasce un bambino, tutti gli oggetti mutano senso, cominciano ad attendere da lui un trattamento ancora indeterminato, c’è qualcun altro, qualcuno di più, una nuova storia, breve o lunga, è appena stata fondata, un nuovo registro è aperto. Con gli orizzonti che la circondavano, la mia prima percezione è un evento sempre presente, una tradizione indimenticabile; anche come soggetto pensante, io sono ancora questa prima percezione, il seguito della medesima vita che essa ha inaugurato. [...] La prima verità è sì «Io penso», ma a condizione che con ciò si intenda «io inerisco a me» inerendo al mondo. Quando vogliamo spingerci più profondamente nella soggettività, mettendo in dubbio tutte le cose e sospendendo tutte le nostre credenze, noi non riusciamo a intravedere lo sfondo inumano – in rapporto al quale, come diceva Rimbaud, «noi non siamo al mondo» – se non come l’orizzonte dei nostri impegni particolari e come potenza di qualcosa in generale che è il fantasma del mondo. L’interiore e l’esteriore sono inseparabili. Il mondo è tutto dentro e io sono tutto fuori di me. [...] Noi non diciamo che la nozione del mondo è inseparabile da quella del soggetto, che il soggetto si pensa inseparabilmente dall’idea del corpo e dall’idea del mondo: infatti, se si trattasse solo di una relazione pensata, per ciò stesso essa lascerebbe sussistere l’indipendenza assoluta del soggetto come pensatore, e il soggetto non sarebbe situato. Se il soggetto è in situazione, se anzi non è altro che una possibilità di situazioni, è perché non realizza la sua ipseità se non essendo effettivamente corpo ed entrando nel mondo tramite questo corpo. Se, riflettendo sull’essenza della soggettività, io la trovo legata a quella del corpo e a quella del mondo, è perché la mia esistenza come soggettività fa tutt’uno con la mia esistenza come corpo e con l’esistenza del mondo, e perché il soggetto che io sono, concretamente considerato, è inseparabile da questo corpo e da questo mondo.

61 Partecipazione ALLEN R.E., «Participation and predication in Plato’s middle dialogues» in Philosophical

review, 1960, 147-164. FABRO C., La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, Torino,

²1950. FABRO C., Participazione e causalità secondo s. Tommaso d’Aquino, Torino, 1960 (tr. fr.:

Participation et causalité selon st Thomas d’Aquin, Louvain, 1961). FAVRE A., «La philosophie de Przywara, métaphysique de la créature» in Revue néo-

scolastique de philosophie, 1934, 65-88. GEIGER L.B., La participation dans la philosophie de st Thomas d’Aquin, Paris, ²1953. HAYEN A., «Analogia entis, méthode et épistémologie du P. Przywara» in Revue néo-

scolastique de philosophie, 1934, 345-364. KRENN K., Vermittlung und Differenz? Vom Sinn des Seins in der Befindlichkeit der

Participation beim hl. Thomas von Aquin, Roma, 1962. LITTLE A., The platonic heritage of thomism, Dublin, 1949. PHILIPPE M.D., «La participation dans la philosophie d’Aristote» in Revue thomiste, 1949,

254-277.

62

PRZYWARA E., Analogia Entis. Metaphysik, München, 1932. SÖHNGEN G., «Wesen und Akt in der scholastischen Lehre von der Participatio und Analogia

Entis» in Studium generale, 1955, 649-662. ZDYBICKA Z.J., «Le réalisme de la connaissance et la participation de l’être» in Congresso

internazionale s. Tommaso nel suo 7o centenario, vol. 6, L’essere, Napoli, 1977, 440-465.

R. DESCARTES, Il discorso del metodo, in Opere filosofiche, Torino, 1969, 155-156.

In seguito a ciò, riflettendo sul fatto che dubitavo e che per conseguenza il mio essere non era tutto perfetto, dato che vedevo chiaramente che il conoscere era molto più perfetto del dubitare, mi diedi a cercare donde avessi imparato a pensare qualcosa di più perfetto di quanto io ero, e conobbi con evidenza che doveva essere da qualche natura effettivamente più perfetta. Per ciò che riguarda i pensieri che avevo di molte altre cose a me esterne, come del cielo, della terra, della luce, del calore e, di molte altre, non mi davo pena di sapere da dove mi provenissero perché, non trovando in esse nulla che mi sembrasse renderle superiori a me, potevo credere che se esse erano vere, dipendevano dalla mia natura per quel tanto di perfezione che questa ha e, se non erano vere, che mi provenivano dal nulla, cioè che erano in me per quel che avevo di difetto. Ma ciò non poteva accadere riguardo all’idea di un essere più perfetto di me; derivare tale idea dal nulla, infatti, era cosa manifestamente impossibile; e poiché non è meno contraddittorio che il più perfetto segua e dipenda dal meno perfetto che qualcosa derivi dal nulla, non potevo nemmeno avere quella idea da me stesso. Restava dunque che essa mi fosse stata immessa da una natura verosimilmente più perfetta di me, ed anzi che avesse tutte le perfezione di cui potevo avere qualche idea, o, per spiegarmi con una parole sola, da Dio. A ciò aggiungi che, poiché conoscevo perfezioni che non possedevo, io non ero il solo essere che esisteva (userò liberamente qui, se vi piace, alcuni termini scolastici), ma bisognava necessariamente che ne esistesse qualche altro più perfetto, dal quale io dipendessi e dal quale avessi acquistato tutto ciò che avevo; infatti, se io fossi stato solo e indipendente da tutto, in modo da aver avuto da me stesso tutto quel poco con cui partecipavo all’Essere perfetto, avrei potuto ottenere da me per lo stesso motivo tutto il soprappiù di cui mi sapevo mancante ed essere così io stesso infinito, eterno, immutabile, onnisciente, onnipotente ed avere insomma, tutte le perfezioni che potevo notare in Dio. Infatti, seguendo i ragionamenti fatti or ora, per conoscere la natura di Dio nei limiti in cui la mia mente ne era capace, avevo solo da considerare, di tutte le cose di cui trovavo in me qualche idea, se fosse perfezione o no il possederle; ed ero sicuro che nessuna di quelle che mostravano qualche imperfezione fossero in lui, ma tutte le altre vi erano.

62 Gerarchia degli enti BERNARD Cl., Leçons sur les phénomènes communs aux animaux et aux végétaux, Paris,

1966. DE FINANCE J., «La finalité de l’être et le sens de l’univers» in AA.VV., Mélanges Joseph

Maréchal, vol. 2, Paris, 1950, 141-158. C. GIACON, Motivi plotiniani, Padova, 1950, 41-42.

L’intelligenza e l’intelligibile costituiscono però una dualità, e una dualità non può essere mai qualche cosa di assolutamente primo, qualche cosa di assolutamente assoluto; una dualità è sempre qualche cosa di posteriore, che viene dopo, e non solo che viene dopo i componenti, ma i cui componenti non possono essere assolutamente primi: l’assolutamente primo deve essere l’assolutamente uno, l’assolutamente semplice, ciò che esclude ogni possibile composizione, anche la composizione di intelligenza e di intelligibile, di intelletto e di essere. Tutto ciò infatti è composto, è causato, e tutto ciò che è causato, non può essere primo. I componenti di ciò che è composto non possono essere due entità perfettamente uguali, perché allora si avrebbe un due e non una dualità; affinché si abbia una dualità è necessario che i due

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componenti si completino a vicenda, e uno non abbia ciò che ha l’altro, uno sia destinato a completare l’altro, l’uno perciò dipenda in qualche modo dall’altro. Nessuno quindi dei componenti può essere qualche cosa di assoluto, e ciò che risulta da due non-assoluti non può certamente essere qualche cosa di assoluto. Non vi possono essere poi due assolutamente assoluti, due assolutamente primi, perché ciò che sarebbe l’uno sarebbe ciò che sarebbe l’altro, essendo, per ipotesi, ciascuno semplicissimo, e non avendo nient’altro per distinguersi se non ciò che avrebbero per identificarsi. L’assolutamente primo è e deve essere assolutamente Uno e unico. Partire dalla verità e, attraverso l’intelletto, giungere all’Uno, è stato l’itinerario di Plotino. L’esperienza immediata però, di cui Plotino doveva dar ragione se voleva veramente filosofare, era assai complessa, e conteneva molto di più che la sola verità: gli si presentava nell’esperienza, oltre il proprio io pensante la verità, anche il proprio corpo, la propria sensibilità, e per mezzo del corpo e della sensibilità gli si presentava tutto un mondo corporeo, corpi vivi e corpi non vivi, corpi terrestri e corpi celesti, costituenti tutti un universo, un insieme tutto meravigliosamente congegnato, armonizzato, ordinato sì da far splendere una profonda unità regolatrice della moltitudine sconfinata, ordine e unità sia nell’universo, sia nei singoli esseri, specialmente negli essere viventi, ma anche in quelli non viventi, con fissità e stabilità di comportamenti, con disposizioni e inclinazioni destinate alla mutua unione; ordine, unità, finalità erano espressioni di intelligenza che predispone i mezzi in vista di un fine. Oltre all’intelletto e all’Uno vi doveva essere qualche altro principio per dar ragione della complessa esperienza, un principio di unità e vita, un principio che, da una parte non fosse così immateriale e spirituale da non aver nulla a che vedere con la materia e i corpi, e dall’altra fosse capace di raggiungere e di essere a contatto in qualche modo col mondo intellettivo, poiché era un principio di ordine e di unità dominato da finalità e da intelligenza. Ecco l’Anima, e dall’Anima-ipostasi l’anima del mondo per dar ragione dell’unità e dell’ordine dell’universo, e le anime particolari per dar ragione dell’unità e dell’ordine di ogni essere particolare. Doveva infine essere affermata la materia come causa della molteplicità, come radice dell’estensione e quindi dello spazio, del tempo, del moto, del divenire, come sostrato delle determinazioni formali ed essenziali, come fondo comune e permanente in tutte le mutazioni. Anche il più esaltato idealista e spiritualista non può fare a meno di incontrarsi con questo fondo opaco dell’essere, con questa massa resistente, pesante, impenetrabile [...]. La materia però non poteva essere principio di nulla, doveva essere soltanto l’estremo limite nella scala degli esseri; principi potevano essere soltanto l’Anima, il Nous e l’Uno. Con la materia però, l’Anima, il Nous e l’Uno, Plotino aveva a disposizione tutti gli elementi necessari e sufficienti per dar ragione del mondo dell’esperienza, di tutte le sue molteplici e diverse manifestazioni e realtà.

63 Minerale AA.VV., Problemi delle origini, Roma, 1966. BLANDINO G., Problemi e dottrine di biologia teorica, Torino, 1960. BRUNNER A., Der Stufenbau der Welt. Ontologische Unterrsuchungen ûber Person, Leben,

Stoff, München, 1950. LAVERDIERE R., Le principe de causalité. Recherches thomistes récentes, Paris, 1969. P.J. TREANOR, «Origine ed evoluzione del mondo fisico» in AA.VV., Problemi delle origini,

26-27. Ogni tentativo di creare un modello matematico dell’Universo si è dovuto basare su supposizioni e generalizzazioni semplificanti, non in aperto conflitto con i dati delle osservazioni, ma tuttavia non strettamente dimostrabili. Nel secolo scorso, quando nacque la vera cosmologia matematica, si suppose che l’Universo fosse in stato di equilibrio termodinamico e dinamico, soggetto alle leggi della fisica di Newton. Per rendere possibile una formulazione matematica, si presuppose che la distribuzione della materia e dell’energia dell’Universo avesse un’uniformità su vasta scala; vale a

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dire che, osservando una porzione sufficientemente vasta dell’universo, si ha un campione rappresentativo dell’intero Universo. Questa supposizione finale, cosiddetta “principio cosmologico”, è l’unica sopravvissuta in quasi tutte le teorie susseguenti. Neumann nel 1875 e Seeliger nel 1895 incontrarono difficoltà inattese nel concepire un universo che avesse questi requisiti, all’apparenza modesti. La massa di un universo newtoniano deve essere finita; ma un universo finito in equilibrio statico nello spazio newtoniano si sarebbe alla fine spopolato da sé. Poco dopo questa congiuntura critica, la teoria della relatività speciale, proposta da Einstein, portava alla revisione del concetto newtoniano di spazio e di tempo, culminando con la teoria della relatività generale. Entro questi nuovi termini di riferimento, Einstein propose un modello matematico di Universo, in equilibrio, occupante uno spazio non-euclideo finito, ma illimitato, il volume e la geometria del quale erano determinati dal campo di gravitazione. Servendosi anche lui della relatività generale, de Sitter creò un modello alternativo corrispondente praticamente a un Universo vuoto in stato di espansione. Questo modello suscitò speciale interesse con la scoperta dello spostamento verso il rosso delle galassie, scoperta che costrinse anche Einstein a modificare la sua teoria originale. Friedmann nel 1922 e 1924 trovò altre soluzioni alle equazioni di campo di Einstein, corrispondenti agli spazi con curvatura positiva, negativa o nulla. Lemaître applicò questi modelli all’Universo attuale. Il quadro di Lemaître include la supposizione di una fase di alta condensazione in qualche lontana epoca dei tempi remoti. Un’esplosione nucleare iniziale (responsabile forse della formazione degli elementi pesanti) dà inizio a un periodo di espansione temporanea finché subentra una condizione di equilibrio instabile e pertanto temporaneo. Questa fase, che corrisponde al modello di Universo di Einstein, presuppone un’epoca in cui la materia dell’universo potè condensarsi in galassie. La fase seguente, della espansione relativistica, corrisponderebbe all’epoca in cui l’Universo si trova ora. [...] Una serie totalmente differente di teorie cosmologiche ha avuto inizio con i modelli matematici non evolutivi di Bondi e de Hoyle [... Bondi] propone [...] la continua creazione di nuova materia nello spazio con un ritmo che, mentre è molto difficile da osservare, basta per controbilanciare l’effetto della espansione sulla densità media.

64 Vegetale BERNAL J.D., The origin of life, London, 1967. CANGUILHEM G., «Le concept et la vie» in Études d’histoire et de philosophie des sciences,

Paris, 1968, 335-364. CANGUILHEM G., «Biologie et philosophie» in AA.VV., Contemporary philosophy. A survey –

La philosophie contemporaine. Chronique, t. 2, Firenze, 1971, 376-394. GILSON Et., D’Aristote à Darwin et retour. Essai sur quelques constantes de la biophilosophie,

Paris, 1971. JACOB Fr., La logique du vivant. Une histoire de l’hérédité, Paris, 1970 (tr. it.:La logica del

vivente. Storia dell’ereditarietà,Torino, 1971. MONTREUIL J., «Évolution des idées sur la nature et la multiplication des virus-protéines» in

Revue des questions scientifiques, 20/01/1956. ROLDAN A., «Vida en el laboratorio?» in Pensamiento, 1957, 127-157. SELVAGGI F., «Alcune considerazioni sulla origine della vita» in Gregorianum, 1958, 147-152. Fr. JACOB, La logica del vivente, 13-14.

In un essere vivente tutto è organizzato in vista della riproduzione. Un batterio, un’ameba, una felce, quale destino possono sognare se non quello di formare due batteri, due amebe, moltissime felci? Sulla terra esistono oggi degli esseri viventi solo perché altri esseri si sono accanitamente riprodotti da più di due miliardi di anni. Immaginiamoci un mondo ancora disabitato. Non è difficile comprendere come possano organizzarvisi dei sistemi dotati di alcune proprietà della vita, come la capacità di reagire a certi stimoli, di assimilare, di respirare, di crescere anche, ma non di riprodursi. Possiamo chiamare viventi simili sistemi? Ognuno di essi rappresenta il frutto di un lungo e faticoso processo di elaborazione. Ogni nascita è un avvenimento

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unico e irripetibile, senza domani; ogni volta, si ricomincia da capo. Sempre alla mercé di qualche cataclisma locale, queste organizzazioni non possono avere che un’esistenza effimera; inoltre, la loro struttura è fissata rigidamente una volta per tutte, senza possibilità di cambiamento. A un certo punto emerge un sistema capace di riprodursi, anche imperfettamente, anche con lentezza e a duro prezzo: ebbene, esso è; senza possibilità di dubbio, un essere vivente. Questa organizzazione comincia a diffondersi là dove le condizioni glielo permettono, e più si disperde, più si trova al riparo dalle catastrofi. Una volta compiuto il lungo periodo di incubazione, essa si perpetua attraverso la ripetizione di avvenimenti identici: il primo passo vale una volta per tutte. Ma, per un sistema di tal genere, la riproduzione, che costituisce la causa stessa della sua esistenza, diventa anche il fine: esso è condannato a riprodursi o a sparire. Esistono esseri che si sono succeduti immutabilmente per un enorme numero di generazioni; si conoscono piante a ciclo annuale nelle quali nulla è cambiato per milioni di anni, e quindi per milioni di cicli successivi. Il limalo delle spiagge è rimasto identico ai suoi antenati dell’èra secondaria, come dimostrano i reperti fossili; ciò significa che, durante tutto questo tempo, il suo programma non è mutato, che ogni generazione ha svolto scrupolosamente il suo ruolo, consistente nel riprodurre con la massima esattezza il programma stesso per la generazione successiva. Se poi, all’interno del sistema sopravviene un evento che "migliora" il programma e facilita, in un modo o nell’altro, la riproduzione di alcuni discendenti, questi ereditano in modo naturale la capacità di riprodursi meglio. Il finalismo del programma trasforma, così, certi cambiamenti del programma stesso in fattori adattativi, perché la variabilità è una qualità inerente alla natura della vita, alla struttura del programma, al modo in cui esso viene riprodotto di generazione in generazione.

65 Animale RUYER R., L’animal, l’homme et la fonction symbolique, Paris, (tr. it.: L’animale, l’uomo e la

funzione simbolica, Milano, 1972). S. AGOSTINO, De libero arbitrio in ID., Dialoghi, Roma, 1976, 223-225.

È chiaro anche, suppongo, che il senso interno non percepisce soltanto gli oggetti che ha ricevuto dai cinque sensi esterni, ma che da esso sono percepiti i sensi stessi. La bestia non si modificherebbe sensibilmente o appetendo un oggetto o fuggendolo, se non percepisse di percepire, non per avere scienza che è soltanto della ragione, ma per modificarsi, e questo certamente non lo percepisce con qualcuno dei cinque sensi. Se il concetto rimane oscuro, si chiarirà se poni attenzione a ciò che, a titolo d’esempio, si nota sufficientemente in un senso, come la vista. Sarebbe infatti assolutamente impossibile alla bestia aprire gli occhi e modificare la vista osservando l’oggetto che istintivamente vuol vedere se precedentemente non percepisse di non vederlo perché o tiene gli occhi chiusi o non modificati dall’oggetto in parola. Se poi percepisce di non vedere mentre non vede, è necessario anche che percepisca di vedere mentre vede, giacché non col medesimo stimolo modifica la vista se vede e la modifica se non vede. Indica così di percepire l’uno e l’altro. Ma non è altrettanto evidente che una tale vista, che percepisce di percepire i sensibili, sia cosciente di sé. Certo che ciascun uomo, se si analizza, scopre che ogni essere vivente rifugge dalla morte. E poiché essa è contraria alla vita, è necessario che la vita abbia coscienza di sé nell’atto che rifugge dal suo contrario. E se in concetto non è ancora evidente, si passi avanti. Dobbiamo muoverci verso il nostro obiettivo con argomenti pienamente evidenti. Frattanto sono evidenti le nozioni: che col senso si percepisce gli oggetti sensibili, che un senso non si può percepire da sé, che col senso interno si percepiscono i sensibili mediante il senso e immediatamente il senso stesso, che con la ragione si conoscono tutte le suddette nozioni ed essa stessa e divengono così contenuti di scienza.

66 Uomo

66

AROSA F., El hombre: su grandeza y tragedia, Barcelona, 1969. BENI G., La persona umana. Origine e metafisica, Roma, 1962. BRUAIRE Cl., Philosophie du corps, Paris, 1968. CORETH Em., Was ist der Mensch? Grundzüge einer philosophischen Anthropologie,

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Delmirani). Da tutto quello che abbiamo detto risulta che la persona non è soltanto il punto di confluenza o la sintesi delle categorie, ma è la sintesi ed il riassunto di tutto l’ordine metafisico. Essa è la forma più alta dell’essere, l’essere “in libertà”, che si svolge in tutta la sua ricchezza che manifesta la sua potenza d’espansione. Senza dubbio, al livello della nostra esperienza la persona è sempre soggettivamente limitata, ma essa gode di una infinità oggettiva, essa è di diritto, in quanto dotata di una natura spirituale, “captatrice dell’essere totale”. Così, nella persona, l’esse rivela il suo duplice carattere di atto esistenziale (che pone il soggetto nella propria individualità compiuta ed incomunicabile) e di pienezza, che trascende di per se ogni determinazione (da cui deriva una capacità illimitata di progresso e l’indifferenza dominatrice verso ogni valore finito). La persona appare dunque come la realtà ontologica per eccellenza, l’esistente in cui l’essere diventa logos dell’essere, l’essere specificato come tale essere per il suo rapporto all’essere come tale. Per ciò stesso, la persona si presenta come una sintesi del singolare e dell’universale. Nella sua particolarità finita, essa ha valore di totalità ed è per questo che non può essere mai considerata come semplice parte di un tutto. Nella persona, le forme della modalità si verificano in modo originale. La realtà vi partecipa della necessità e non soltanto nel senso banale per cui ciò che esiste, esiste e non può non esistere finché esiste. La persona è necessariamente nel senso, innanzitutto, che il sistema dell’essere deve comportare almeno una realtà personale: la necessità del pensiero è correlativa alla necessità dell’essere e non c’è un vero pensiero se non in un soggetto pensabile, in una persona.

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67 Unità logica e ontologica BÄRTHLEIN K., Die Transzendentalienlehre der alten Ontologie, Berlin, 1972. BRACKEN J.A., «Essential and existential truth» in Philosophy today, 1984, 66-76. BRETON St., «L’idée de transcendantalité et la genèse des transcendantaux chez st Thomas

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ARISTOTELE, Metafisica, I, 2, 1053b34-1054a19, Bari, 1982, 283-284.

E similmente, se tutte le cose esistenti fossero melodie, ci sarebbe pure un numero, e questo sarebbe indubbiamente quello dei semitoni, ma la sostanza di quelle melodie non sarebbe affatto un numero: l’uno sarebbe un qualcosa di determinato, la cui sostanza non è affatto l’uno, ma il semitono. E similmente, anche a proposito delle voci articolate, tutte le cose esistenti sarebbero un numero di lettere dell’alfabeto e l’uno si identificherebbe con una vocale. E se tutte le cose esistenti fossero figure rettilinee, esse sarebbero un numero di figure, e l’uno si identificherebbe col triangolo. Lo stesso discorso vale anche per gli altri generi, e la conseguenza è che, se è vero che nelle affezioni, nelle qualità, nelle quantità o nel movimento, insomma in ciascuna di queste determinazioni, sono presenti certi numeri ed è presente un’unità, e se è vero che il numero è proprietà di cose particolari e l’uno è una unità determinata e non già esso stesso sostanza, allora la faccenda sta allo stesso modo anche per quanto concerne le sostanze, giacché questo medesimo ragionamento va esteso similmente a tutte le categorie. Che, dunque, l’uno, in ogni genere di cose, sia un’entità determinata e che in nessun caso la natura dell’uno si identifichi con l’uno-in-sé, è cosa ormai evidente; e come, nell’ambito dei colori, l’uno-in-sé che noi dobbiamo ricercare è un colore, così anche nell’ambito della sostanza l’uno-in-sé bisogna ricercarlo unicamente come sostanza; che, poi, l’uno e l’essere abbiano, in un certo senso, lo stesso significato risulta chiaro in primo luogo dal fatto che l’uno si accompagna ugualmente a ciascuna categoria senza risiedere, però, specificamente in nessuna di esse (ad esempio, esso non risiede né nella sostanza né nella qualità, ma è con queste nel medesimo rapporto in cui è l’essere), e in secondo luogo dal fatto che l’espressione “un uomo” non contiene un predicato diverso rispetto a quello che è contenuto nell’espressione “uomo” (proprio come neppure l’essere esiste ove si prescinda dalla sostanza o dalla qualità o dalla quantità), e infine perché l’espressione “essere uno” si identifica con l’espressione “essere una cosa individuale”.

68 Unità trascendentale BEIERWALTES W., Identität und differenz zum Prinzip cusanischen Denkens, Opladen, 1977

(tr. it.: Identità e differenza, Milano, 1989). COURTES P.C., «L’un selon st Thomas» in Revue thomiste, 1968, 198-240. BRUMBAUGH R.S., Plato on the one, New Haven, 1961. GEIGER L.B., «De l’unité de l’être» in Revue des sciences philosophiques et théologiques,

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Tutti gli enti sono enti in virtù dell’Uno, sia quelli che sono enti in senso originario, sia quelli di cui si dice che in un senso qualsiasi rientrano tra gli enti. Infatti, che cosa potrebbe esserci se non fosse unità? Tant’è vero che, privati appena dell’unità che viene loro attribuita, gli enti non sono più quelli. Esemplificando, non si ha esercito se esso non sa presentarsi uno, né si ha coro né greggia, se non sono “uno”. Anzi, niente casa o nave se non hanno unità, dal momento che la casa è una unità, e così pure la nave, tanto che se perdono l’unità, la casa non sarà più casa e la nave non sarà più nave. Così, le grandezze continue non esisterebbero se non fosse loro presente l’unità; certo, una volta che vengano tagliate, in quanto perdono l’unità, mutano il loro essere. Tant’è pure dei corpi delle piante e degli animali: ognuno è un’unità, e, se sfugge a questa unità, sminuzzandosi in una pluralità, perde quel suo primo essere, che aveva, non risultando più quello che era; ma, pur divenendo qualcosa di diverso, anche il nuovo essere esiste in quanto unità. E, del resto, la salute stessa si ha solo allora che il corpo sia coordinato in unità; e si ha bellezza quando le parti siano tenute insieme dalla virtù dell’uno; ma finanche la virtù dell’anima ha luogo allorché le potenze si siano fuse nell’unità e precisamente in una concordia unitaria. Ebbene, dal momento che l’anima adduce tutte le cose ad unità col suo creare, plasmare, formare, coordinare, una volta che noi siamo pervenuti sino a costei, dobbiamo forse dire che proprio questa anima elargisce l’unità ed è, proprio lei, l’Uno? Oppure, come somministra ai corpi le altre proprietà senza peraltro identificarsi, essa, con quello che dà (per esempio forma e figura – realtà diverse dall’anima) così, se essa dà pure unità, occorre credere che la dia come qualcosa di diverso da sé e che porti ogni singola cosa ad unità volgendo lo sguardo sull’uno, a quel modo che essa stessa mirando l’Uomo, crea un uomo, raccogliendo con l’umanità l’uno che si trova in essa? Invero, ogni essere che sia riconosciuto come “uno” è uno proprio in quella misura che il suo essere implica: di conseguenza, gli esseri minori hanno in minor grado l’unità; gli esseri maggiori ne hanno di più. Naturalmente, anche l’anima – benché sia differente dall’Uno – possiede l’unità in più alto grado, proporzionatamente al suo più alto e appropriato essere; e, nondimeno, essa non è l’Uno in sé; tanto è vero che l’anima è una e questa unità in un certo senso è accidentale e, di fatto, qui abbiamo due termini: anima più unità; né più né meno che corpo e unità. Così il discontinuo – il coro, ad esempio – è quanto mai lontano dall’uno; mentre il continuo gli è già più vicino; e più vicino ancora gli sta l’anima, che è finanche in comunione con l’Uno.

69 Intelligibilità dell’ente

69

DE WAELHENS A., Phénoménologie et vérité, Louvain, ²1965. S. ANSELMO, La verità, cap. 2, in ID., Opere filosofiche, Bari, 1969, 159-161.

Maestro - Domandiamoci prima di tutto che cosa sia la verità dell’enunciazione, poiché, per lo più, di questa diciamo che è vera o falsa. Discepolo - Domanda tu, e io terrò a mente ciò che avrai trovato. M. - Quando una enunciazione è vera? D. - Quando dice come stanno le cose, sia affermando sia negando. Dico infatti che enuncia anche quando nega che sia ciò che non è; poiché anche così enuncia come stanno le cose. M. - Ti pare dunque che la cosa enunciata sia la verità dell’enunciazione? D. - No. M. - Perché? D. - Poiché una cosa è vera solo partecipando alla verità; e perciò la verità del vero è nella cosa vera, mentre la cosa enunciata non è contenuta nella enunciazione vera. Perciò la cosa vera non è la verità dell’enunciazione, ma ne è la causa. Bisogna dunque cercare la verità del discorso nel discorso stesso. M. - Vedi dunque se ciò che tu cerchi sia il discorso stesso o il suo significato o uno degli elementi che appartengono alla definizione dell’enunciazione. D. - Non credo. M. - E perché? D. - Poiché se fosse così, l’enunciazione sarebbe sempre vera, dato che restano identici i caratteri che appartengono alla sua definizione, sia quando le cose stanno come essa dice, sia quando non stanno così. Identico resta infatti il discorso e il suo significato. M. - E allora cosa ti sembra che sia la verità dell’enunciazione? D. - Niente altro che questo: quando un’enunciazione dice come stanno le cose, allora c’è in essa verità ed è vera. M. - Ma per che cosa è fatta l’affermazione? D. - Per significare come stanno le cose. M. - Dunque deve far questo. D. - Certo. M. – Quando dunque significa come stanno le cose, significa ciò che deve. D. - È chiaro. M. - Ma quando significa ciò che deve, rettamente significa. D. - Sì. M. - E quando significa rettamente, è retto il suo significato. D. - Non vi è dubbio. M. - Quando dunque significa come stanno le cose, il suo significato è retto. D. - Così segue. M. - E quando significa come stanno le cose il suo significato è veramente retto e vero. D. - Quando significa come stanno le cose è veramente retto e vero. M. - Per una enunciazione è dunque la stessa cosa essere retta ed essere vera, cioè significare come stanno le cose. D. - È proprio la stessa cosa. M. - Dunque la verità dell’enunciazione non è altro che una rettitudine. D. - Vedo chiaramente che la verità è questa rettitudine. M. - Ed è lo stesso quando l’enunciazione significa che le cose non stanno in un certo modo. D. - Vedo cosa vuoi dire. Ma dimmi che cosa potrei rispondere se uno mi obiettasse che anche quando il discorso significa le cose come non sono, esso significa sempre ciò che deve. Infatti un discorso è capace di significare le cose come sono e anche come non sono, poiché se non fosse capace di significare le cose anche come non sono, non potrebbe significarle così. E allora anche quando le cose come non sono, significa ciò che deve. Ma se l’enunciazione è retta e vera quando significa ciò che deve, come mi hai dimostrato, essa sarà vera anche quando enuncia le cose come non sono. M. - L’enunciazione non suole dirsi vera quando significa le cose come non sono; ma

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tuttavia ha una certa verità e rettitudine, poiché fa ciò che deve fare. Ma quando significa come stanno le cose, allora fa doppiamente ciò che deve: poiché significa ciò che è capace di significare e ciò per cui è fatta.

70 Adeguazione BIRAULT H., «Existence et vérité d’après Heidegger» dans AA.VV., Phénoménologie.

Existence, Paris, 1953, 139-191. MUGNIER R. Le problème de la vérité, Paris, 1959. POPPI A., La verità, Brescia, 1984. QUINE W.V.O., «Carnap e la verità logica» in Rivista di filosofia, 1957, 3-29. RESCHNER N., The coherence theory of truth, London, 1973. SEIFERT J., Erkenntnis objectiver Wahrheit. Die Transzendenz der Menschen in der

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Come il vero si trova in primo luogo nell’intelletto piuttosto che nelle cose, così si trova in primo luogo nell’atto dell’intelletto componente e dividente, piuttosto che nell’atto dell’intelletto che forma le essenze delle cose. La nozione di vero, infatti, consiste nell’adeguazione della cosa e dell’intelletto. Ora, l’uguaglianza è propria delle cose diverse, perché niente si adegua a se stesso. Per cui, si trova la nozione di verità nell’intelletto, quando l’intelletto inizia a possedere qualcosa di proprio, che la cosa al di fuori dell’anima non possiede, ma che corrisponde ad essa, cosicché tra queste due cose può compiersi una adeguazione. Invece, l’intelletto che forma le essenze, possiede soltanto l’immagine della cosa che esiste fuori dall’anima, proprio come i sensi, che ricevono la specie della cosa sensibile. Ma quando l’intelletto inizia a giudicare una cosa appresa, allora questo suo giudizio è qualcosa che gli è proprio, e che non si trova nella cosa esterna. Quando, poi, ciò che esiste nella cosa esterna, si adegua all’intelletto, si dice che il giudizio è vero. Ora, l’intelletto giudica una cosa appresa, nel momento che afferma che qualcosa è o non è: e questo atto è proprio dell’intelletto componente e dividente. Per cui, anche il Filosofo dice, nel sesto libro della Metafisica, che la composizione e la divisione sono nell’intelletto, e non nelle cose. Per conseguenza, la verità si trova in primo luogo nella composizione e divisione operate dall’intelletto; ed in secondo luogo, nell’intelletto che forma le definizioni, poiché una definizione si dice vera o falsa, in ragione della composizione vera o falsa. Ad esempio, si può dare la definizione di una cosa ad un’altra, come quando la definizione del circolo è attribuita al triangolo. Oppure, anche, quando le parti di una definizione non possono essere unite l’una all’altra; come se dicessimo che “animale insensibile” è la definizione di una cosa. Infatti, è falsa l’affermazione implicita in tale definizione, cioè che “qualche animale è insensibile”. Allora, come una cosa si dice vera in relazione all’intelletto, così una definizione si dice vera o falsa in relazione ad un giudizio. Da quanto è stato affermato, risulta che, in primo luogo, il vero si predica della composizione e divisione operate dall’intelletto; poi, delle definizioni delle cose, in quanto in esse è implicito un giudizio vero o falso; delle cose, in quanto si adeguano all’intelletto divino, o sono, per natura, capaci di adeguarsi all’intelletto umano; dell’uomo, che sceglie i propri giudizi, veri o falsi; oppure in quanto dà un’opinione vera o falsa di sé e degli altri, per mezzo di ciò che dice o fa. Inoltre, il vero si predica delle parole, perché si dicono veri i concetti che esse significano.

71 Manifestazione ALVAREZ-GOMEZ M., «Adecuacion e identidad. Sobre la idea de veridad en s. Tomas y

Nicolas de Cusa» in Anales catedra Fr. Suarez, 1964, 5-52. ALVAREZ-GOMEZ M., «Sobre la verdad en Tomas de Aquino y Hegel» in Congresso

internazionale di s. Tommaso d’Aquino nel suo 7o centenario, vol. 6, L’essere, Napoli, 1977, 81-103.

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VATTIMO G. (ed.), Filosofia ’88, Bari, 1989. M. HEIDEGGER, Sull’essenza della verità, 21-23.

Il giudizio che rende-presente enuncia, in ciò che è detto, la cosa appresentata così come questa è in se stessa. Il “così-come” coglie l’appresentare e il suo (essere) appresentato. Appresentare qui significa lasciar sorgere la cosa davanti a noi come oggetto, prescindendo da tutti i presupposti “psicologici” e “gnoseologici”. Ciò che si costituisce di-contro deve, in quanto così costituito, comprendere un di-contro che si dispiega nella sua apertura, presso di lui deve restare nella inseità del suo esser-cosa e mostrarsi come un che di stabile e consistente. Questo apparire della cosa, nella comprensione di un di-contro, si realizza all’interno di un aperto, la cui apertura non è già creata dall’appresentazione, ma è investita e assunta da questa come campo di relazione. Questo riferimento alla cosa, da parte del giudizio che se la appresenta, è l’attuazione di quel rapporto che originariamente e ogni volta si realizza in un rapportarsi. Ma ogni rapportarsi è caratterizzato dal fatto che, stando nell’aperto, si riferisce a ciò che è manifesto come tale. Ciò che solo così e in senso stretto si manifesta, nel pensiero occidentale è stato sperimentato, fin dall’inizio, come “ciò che è presente” e, da lungo tempo è stato denominato “l’ente”. Il rapportarsi è lo stare aperto sull’ente. Ogni relazioni che sta aperta è un rapportarsi. Dalla natura dell’ente e dal modo di rapportarsi dipende la differenza dell’atteggiamento di apertura dell’uomo. Ogni opera e ogni esecuzione, ogni azione e ogni calcolo si colloca e si mantiene nell’apertura di un orizzonte, all’interno del quale, l’ente come tale può porsi ed essere enunciato proprio per ciò che è e come è. Ciò accade solo se l’ente stesso si appresenta nel giudizio appresentante, così che questo si sottopone alla direttiva di enunciare l’ente così-come esso è. Il giudizio, in quanto segue questa direttiva, si conforma all’ente. Il dire, che così vi corrisponde, è conforme (vero). Ciò che così è detto è il conforme (il vero). Il giudizio possiede la sua conformità a partire dall’apertura costante del rapportarsi; infatti, solo attraverso questa apertura, ciò che si manifesta può, in generale, diventare misura-di-conformità per l’adeguazione che appresenta. Lo stesso rapportarsi che-sta-aperto deve lasciarsi dirigere da questa misura. Ciò significa che deve assumere, come un presupposto, la misura di conformità per ogni appresentare. Ciò appartiene all’apertura costante del rapportarsi. Ma se la conformità (la verità) del giudizio è possibile solo attraverso la costante apertura del rapportarsi, allora solo ciò che rende possibile la conformità deve valere, con un diritto più originario, come l’essenza della verità. In questo modo cade la tradizionale ed esclusiva attribuzione della verità al giudizio, come se questo fosse l’unico luogo essenziale di quella. La verità non ha sua dimora originaria nella proposizione. Nello stesso tempo, però, si solleva il problema del fondamento dell’interna possibilità del rapportarsi che sta costantemente aperto e presuppone una misura di conformità; è infatti solo questa possibilità quella che, in generale, dà alla conformità della proposizione l’apparenza di realizzare l’essenza della verità.

72 Trascendentalità della verità BOYER Ch., L’idée de vérité dans la philosophie de st Augustin, Paris, ²1940. BRUNNER E., Wahrheit als Begegnung, Zürich, ²1963.

72

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cah. 2, 1925, pp. 1-54. S. TOMMASO, De veritate, q. 1, a. 9, c, Padova, 1970,

La verità è nell’intelletto e nei sensi, sebbene non allo stesso modo. Nell’intelletto, infatti, la verità esiste come conseguenza dell’atto dell’intelletto, e come conosciuta dall’intelletto. Essa consegue all’operazione dell’intelletto, in quanto appartiene all’intelletto il giudizio sull’esistenza di una cosa. La verità, poi, è conosciuta dall’intelletto in quanto l’intelletto riflette sopra il suo atto, non soltanto perché lo conosce, ma perché l’intelletto conosce la proporzione tra il suo atto e la cosa. Questa proporzione non può essere conosciuta, se non è conosciuta la natura dell’atto stesso di conoscere; il quale, a sua volta, non può essere conosciuto, qualora non si conosca la natura di quel principio attivo, che è l’intelletto stesso, alla cui natura appartiene il conformarsi alle cose. Per cui, da questo punto di vista l’intelletto conosce la verità perché riflette su se stesso. Ma la verità esiste nei sensi come conseguenza del loro atto; cioè nella misura in cui appartiene ai sensi il giudizio sull’esistenza di una cosa. Tuttavia, la verità non esiste nei sensi come conosciuta dai sensi: infatti anche se i sensi giudicano veramente le cose, non conoscono tuttavia la verità per mezzo di cui giudicano veramente. Sebbene, poi, i sensi abbiano conoscenza del loro sentire, tuttavia non conoscono la propria natura, e per conseguenza nemmeno la natura del proprio atto, o la proporzione tra questo atto e la cosa. In tal modo, i sensi non conoscono la verità di tale atto. La ragione di questo fatto si spiega così. Gli enti più perfetti, come le sostanze intellettuali, ritornano alla propria essenza con un ritorno completo. Infatti, in quanto conoscono qualcosa posto al di fuori di sé, tali enti, in un certo senso, procedono al di fuori di se stessi. Ora, in quanto sanno di conoscere, cominciano già a ritornare verso di sé, poiché l’atto della conoscenza è intermedio fra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Ora, questo ritorno si attua completamente, in quanto tali enti conoscono la loro propria essenza. Per cui, nel libro De causis si afferma che «ogni ente che conosce la propria essenza, ritorna ad essa con un ritorno completo». Ora, i sensi, che fra tutti gli altri enti sono i più vicini alla sostanza intellettuale, cominciano a ritornare alla propria essenza, poiché non conoscono soltanto il sensibile, ma anche il loro proprio sentire. Tuttavia, il loro ritorno non si attua completamente, perché i sensi non conoscono la propria essenza. Avicenna dà una spiegazione a questo fatto, dicendo che i sensi conoscono qualcosa soltanto per mezzo di un organo corporale. Ora, non è possibile che un organo sia intermedio tra una potenza sensitiva e se stesso. Invece, le potenze naturali insensibili non tornano su di sé in nessun modo, poiché non sanno di agire: il fuoco, ad esempio, non sa di riscaldare. Da quanto è stato detto, risulta anche la soluzione di ogni difficoltà.

73 Presenza dell’essere BLONDEL M., «L’anticartésianisme de Malebranche» in Revue de métaphysique et de morale,

1916, 1-26. COLORNI E., «Le verità eterne in Descartes e in Leibniz» in Travaux du 9e congrès

international de philosophie, Paris, 1937, fasc. 1, 132-140.

73

GIACON C., Verità, esistenza, causa, Bologna, 1973. M. HEIDEGGER, Sull’essenza della verità, Brescia, 1977, 21-23.

L’indicazione che rinvia alla connessione essenziale tra la verità come conformità e la libertà è in grado di scuotere questi presupposti ben radicati, se però noi siamo disposti ad un capovolgimento del modo di pensare. La riflessione sulla connessione essenziale tra verità e libertà ci porta a perseguire il problema dell’essenza dell’uomo, da un punto di vista che ci garantisce l’esperienza di un fondamento nascosto ed essenziale dell’uomo (dell’esserci), che ci consente di trasferirci innanzitutto nell’ambito originario ed essenziale della verità. Da quel punto di vista si può vedere anche che la libertà è il fondamento dell’intrinseca possibilità della conformità, per il solo fatto che riceve la propria essenza dall’essenza più originaria della verità che, sola, è veramente essenziale. La libertà è stata da noi poco anzi definita come libertà per l’apertura di ciò che si manifesta. A questo punto, come bisogna pensare questa essenza della libertà? Ciò che si manifesta, e a cui un giudizio appresentante si adegua come ad una norma, è l’ente che, di volta in volta, è manifestato in un rapportarsi che si mantiene nell’apertura. La libertà nei confronti di ciò che si manifesta nell’apertura lascia che l’ente sia sempre quello ente che è. La libertà ora si scopre come il lasciar-essere l’ente. Abitualmente noi parliamo di lasciar-essere quando, ad esempio, vogliamo astenerci da un’impresa progettata. In questo caso, il «noi lasciamo essere qualcosa» significa: noi non ci prendiamo più cura di una cosa, non ci diamo più da fare intorno ad essa. Lasciar-essere qualcosa ha qui il significato negativo di astenerci da qualcosa, di rinunciare a qualcosa e, in genere, di tralasciarla nella più completa indifferenza. Il senso che qui è necessario conferire all’espressione: lasciar-essere l’ente, non si riferisce al tralasciare e all’indifferenza, ma al suo contrario. Lasciar-essere significa: affidarsi all’ente. Questo affidarsi non è da intendere, ancora una volta, come un mero avere-a-che-fare o un mero aver-cura, nel senso di custodire o inserire in un piano l’ente che di volta in volta si incontra o si cerca. Lasciar-essere – nel senso di lasciar-essere l’ente come quell’ente che è – significa affidarsi a ciò che è manifesto e alla sua manifestazione, in cui ogni ente entra a dimora, e che ogni ente che si manifesta porta ad un tempo con sé. Questo manifestarsi dell’ente è stato concepito dal pensiero occidentale, fin dall’inizio, come [...] il non-nascosto. Se noi traduciamo [alèteia], invece che con “verità”, con “non-nascondi-mento”, allora questa traduzione non è solamente “più letterale”, ma contiene anche l’indicazione di pensare e ripensare il concetto abituale di verità, nel senso della conformità del giudizio, in quella luce, non ancora compresa, dell’esser-svelato e dello svelamento dell’ente. L’affidarsi all’esser-svelato dell’ente non è un perdersi in esso, ma è un dispiegare uno sfondo, tirandosi indietro, davanti all’ente, in modo che questo si manifesti in ciò che esso è, e come è, sicché l’adeguazione appresentativa possa prendere da esso la misura della conformità. Così inteso, il lasciar-essere è un esporsi all’ente come tale, è un porre ogni rapportarsi in ciò che è manifesto. Il lasciar-essere, ossia la libertà, è l’eksistente che in sé si espone. Vista alla luce dell’essenza della verità, l’essenza della libertà si rivela come l’esporsi nell’essere-svelato dall’ente.

74 Bene e perfezione AA.VV., «Le bien» in Revue internationale de philosophie, 1956, nE 4. WRIGHT G.H.V., The varieties of goodness, London, 1963. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, I, 7, 1097a15-1097b17, Bari, 1983, 12-13.

Torniamo dunque alla questione del bene, che cosa esso sia. È evidente che esso è diverso nelle diverse azioni e arti; diverso infatti è nella medicina e nella strategia e così nelle altre. Che cos’è dunque il bene di ciascuna? È forse ciò in vista del quale si fan le altre cose? Tale è nella medicina la salute, nella strategia la vittoria, nell’architettura la casa, e così di seguito, è il fine in ogni azione e in ogni proposito: è in vista di esso che tutti compiono le altre cose. Cosicché, se vi è un fine di tutte le

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cose che si compiono, questo deve essere il bene realizzato; e se vi sono più fini, questi sono il bene. Così su questa via il nostro ragionamento ritorna al punto di partenza. Tuttavia dobbiamo cercare di chiarire ciò ancor meglio. Poiché dunque i fini appaiono esser numerosi, e noi scegliamo alcuni di essi solo in vista d’altri, come ad esempio la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti, è evidente che non tutti sono fini perfetti mentre il sommo bene deve essere qualcosa di perfetto. Cosicché, se vi è un solo fine perfetto, questo è ciò che cerchiamo, se ve ne sono di più esso sarà il più perfetto di essi. Noi diciamo dunque che è più perfetto il fine che si persegue di per se stesso che non quello che si persegue per un altro motivo e che ciò che non è scelto mai in vista d’altro è più perfetto dei beni scelti contemporaneamente per se stessi e per queste altre cose, e insomma il bene perfetto è ciò che deve esser sempre scelto di per sé e mai per qualcosa d’altro. Tali caratteristiche sembra presentare soprattutto la felicità; infatti noi la desideriamo sempre di per se stessa e mai per qualche altro fine; mentre invece l’onore e il piacere e la ragione e ogni altra virtù li perseguiamo bensì di per se stessi (infatti se anche essi dovessero esser privi di ulteriori effetti, noi desidereremmo ugualmente ciascuno di essi), tuttavia li scegliamo anche in vista della felicità, immaginando di poter esser felici attraverso questi mezzi. Invece la felicità nessuno la sceglie in vista di questi altri beni, né in generale in vista di qualcosa d’altro. Ma anche dall’autosufficienza sembrano provenire gli stessi risultati. Il bene perfetto sembra infatti essere autosufficiente. Noi intendiamo per autosufficienza non il bastare a sé solo di un individuo, che conduca una vita solitaria, ma anche il bastare ai suoi parenti, ai figli, alla moglie e infine agli amici e concittadini, poiché per natura l’uomo è un essere politico. Ma qui bisogna porre un limite; infatti chi si rivolge ai genitori e ai discendenti e agli amici degli amici procede all’infinito. Ma questo lo esamineremo in seguito; per ora definiamo autosufficiente colui che rende la sua vita a sé bastante e piacevole e non ha bisogno di nessuno. Tale dunque pensiamo essere la natura della felicità, cioè il bene preferibile a tutti, senza che altri elementi gli si debbano aggiungere.

75 Analogia del bene HESSEN J., «Omne ens est bonum. Untersuchung einer alten Axiom» in Archief für

philosophie, 1958, 317-329. MONGELLI G., «Il bene nel pensiero di s. Tommaso» in Miscellanea Franciscana, 1960, 241-

346. VON RINTELEN F.J., «Le fondement métaphysique de la notion du bien» in Revue des

sciences philosophiques et théologiques, 1951, 235-248. PLOTINO, Il primo bene e gli altri beni, Enneade, I, 7, 1, Bari, 1947, 110-111. Che altro è mai, si dica, il bene di ogni singolo essere, se non l’attività della vita

secondo natura, e, se si tratta di un essere risultante da molteplicità, l’attività nativamente propria di quanto vi è di meglio in esso, attività conforme a natura, tale che non venga mai meno in nulla, non è essa il suo bene? Per l’anima, dunque, si è la sua stessa attività il bene conforme a natura. Ora, se essa, ottima com’è, orienta persino verso quanto v’è di meglio la sua attività, quello allora non soltanto relativamente ad essa sarà il bene, ma sarà altresì Bene in se stesso, semplicemente. Se, quindi, una cosa non orienta il suo atto verso un’altra cosa, perché essa stessa è la migliore delle cose che esistono ed è pure al di là degli enti; se, anzi, le altre cose si orientano ad essa, è chiaro, allora, che ella si è proprio il Bene stesso, attraverso il quale anche alle altre cose è dato partecipare al bene; e, precisamente, queste altre cose – finché in questo senso ne partecipano – sono in grado di possedere il Bene in due maniere, una volta, per assimilazione a Lui e un’altra volta con l’orientare la loro attività verso di Lui. Perciò, dal momento che non vi è tendenza ed attività se non verso il sommo Bene, necessariamente consegue che il Bene, non mirando ad altro e non desiderando altro, ma essendo come una fonte tranquilla, essendo un principio di attività secondo natura, creando nella forma del bene le altre cose non già, beninteso,

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con una sua attività volta su quelle – sono esse, infatti, rivolte su quel principio – non dunque, ripetiamolo per virtù di attività e neppure per virtù di pensiero, è il bene, ma solo per quel suo quieto restare. Egli è, diciamolo ancora, il Bene. Inoltre: poiché è al di là dell’essenza, Egli è pure al di là dell’attività, e al di là dello Spirito e del pensiero. Ché, anzi, insistiamo, si deve ammettere come Bene quello da cui tutto dipende, mentre Esso stesso, poi, non dipende da nulla: così soltanto si avvera l’espressione «Cui tutto aspira». È quindi necessario che Esso sia immobile dal canto suo; ma a Lui tutte le cose devono rivolgersi, come i punti di una circonferenza si volgono al centro donde si dipartono tutti i raggi. E valga come esempio il sole che è come un centro relativamente alla luce che da esso scorre e ad esso è avvinta: ond’ella, per certo, è dappertutto con lui e non può mai esserne scissa; che se anche tu volessi spaccarla in due, avresti la luce solo dalla parte del sole.

76 Trascendentalità del bene DE FINANCE J., «La motion du bien» in Gregorianum, 1958, 5-42. MANCINI I., «Il bene come trascendentale» in Filosofia e vita, 1965, 47-56. S. TOMMASO d’AQUINO, Somma contro i gentili, III, 16, Torino, 1975, 580-581. Ma se l’agente, come abbiamo già dimostrato, agisce per il bene, ne segue pure che il

bene di tutti gli esseri è il loro fine. Infatti: I. Ogni essere è ordinato al fine mediante la propria operazione: perciò, o la sua stessa operazione è il fine; oppure il fine di codesta operazione è anche il fine di chi la compie. Ma questo non è altro che il suo bene. 2. Il fine di qualsiasi cosa è il termine in cui si acquieta il suo appetito. Ora, l’appetito di qualsiasi cosa ha il suo termine nel bene: infatti i filosofi definiscono il bene «ciò che tutti appetiscono» (Ethic. I, c. 1, n. 1). Dunque il fine di qualsiasi cosa è un bene. 3. Il fine di una cosa è il termine cui tende quando è lontano e in cui si acquieta quando lo possiede. Ebbene, ogni cosa, se manca della propria perfezione, tende per quanto può verso di essa; e se la possiede, si acquieta in essa. Perciò fine di tutte le cose è la loro perfezione. Ma poiché la perfezione di ogni cosa è il bene di essa, è evidente che ogni cosa è ordinata al bene come a suo fine. 4. Sono ordinati al fine tanto gli esseri che lo conoscono, quanto quelli che non lo conoscono, sebbene quelli che lo conoscono si muovano da se stessi verso il fine, mentre quelli che non lo conoscono vi tendono come guidati da altri, com’è evidente nel caso dell’arciere e della freccia. Ma gli esseri che conoscono il fine non cercano come fine altro che il bene: poiché la volizione, la quale è la brama del fine conosciuto, non tende a una cosa che sotto l’aspetto di bene, che è il suo oggetto. Perciò anche gli esseri che non conoscono il fine sono ordinati al bene come a loro fine. Dunque il bene è il fine di tutte le cose.

C O N C L U S I O N E ------------------------------------

77 Bellezza. GILSON Et., Les arts du beau, Paris, 1963. HUISMAN D., L’esthétique, Paris, 1963. KOCKELMANS J.J., Heidegger on art and art works, Dordrecht, 1985. KOVACH F.J., «The transcendentality of beauty in Thomas Aquin» in AA.VV., Die Metaphysik

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im Mittelalter, Berlin, 1963, 386-392. MARC A., «Métaphysique du beau» in Revue thomiste, 1951, 112-133 e 1952, 64-94. MARITAIN J., Art et scolastique, Paris, ³1935. MELENDO GRANADOS T, «La expansion perfectiva del ente en el trascendental pulchrum»

in Estudios philosophicos, 1986, 103-128. PETRUZZELLIS N., Filosofia dell’arte, Napoli, ³1964. POUILLON H., «Le premier traité des propriétés transcendantales. La Summa de bono du

Chancelier Philippe» in Revue neoscolastique de philosophie, 1939, 40-77. POUILLON H., «La beauté, propriété transcendantale chez les scolastiques. 1220-1270» in

Archives d’histoire doctrinale et littéraire du moyen-âge, 1946, 263-329. ROIG GIRONELLA J., «Metafisica della bellezza» in Pensamiento, 1951, 29-53. VALVERDE J.M., «Introducción a la polémica aristotélico-tomista sobre la transcendentalidad

metafísica de la belleza» in Revista de ideas estéticas, 1955, 305-317. VON HILDEBRAND D., «Zum Problem des Schönheit des Sichtbaren und Höbaren» in

AA.VV., Mélanges Maréchal, Bruxelles, 1950, 180-191. H. U. VON BALTHASAR, Gloria, vol. 1, La percezione della forma, Milano, 1975, 10-12.

La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esoterico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare. [...] In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. [...] In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica: i sillogismi cioè ruotano secondo il ritmo prefissato, come delle macchine rotative o dei calcolatori elettronici che devono sputare un determinato numero di dati al minuto, ma il processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda più nessuno e la stessa conclusione non conclude più. [...] Le parole che tentano di esprimere il bello, ruotano in primo luogo attorno al mistero della forma o della specie. Formosus proviene da forma, speciosus da species. Immediatamente si pone però la questione sul «grande splendore che irraggia dall’intimo» e rende speciosa la species: splendor. Nello stesso istante si ha la specie e ciò che irraggia da essa facendola preziosa e degna di essere amata. Nello stesso istante si ha il confluire degli elementi, indifferentemente dispersi, al servizio dell’uno che si rappresenta ed esprime e l’espressione dirompente di colui che riuscì a crearsi un siffatto corpo-parola: da se stesso, a partire da una interiorità, da una particolarità, da una radice dell’essere ed in sovrana ed elevata libertà. Nello stesso istante si ha l’interiorità e la sua comunicazione, l’anima e il suo corpo, la libera partecipazione secondo le leggi e la comprensibilità di un linguaggio. Questo è il fenomeno originario e chi afferma di non vederlo o di non poterlo cogliere, chi non lo vuole accettare, ma lo risolve criticamente (con il pretesto di volerne

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scoprire la genesi) in qualcosa che pretende di stare ancora prima, precipita nel vuoto e, ciò che è ancora peggio, nell’antibene. L’originario non è né uno spirito senza corpo, uno spirito che si guarda attorno per trovare un ambito dove esprimersi, ne trova uno e se lo adatta (allo stesso modo in cui si mette a punto una macchina da scrivere e si inizia a battere sui tasti) per abbandonarlo quindi nuovamente, né un corpo senza spirito, agglomerato risultante, in un modo o nell’altro, da un giuoco inesplicabile di forze materiali (dire tendenze sarebbe già troppo), per disgregarsi quindi nuovamente subito dopo.

78 Creazione BALTHASAR N., L’abstraction métaphysique et l’analogie des êtres dans l’être, Louvain, 1935. BAVER J., Kausalität und Schöpfung, München, 1947. BIANCHI L., L’errore di Aristotele. La polemica contro l’eternità del monde nel 13o secolo,

Firenze, 1984. BLONDEL M., L’être et les êtres, Paris, 1935. BOUILLARD H., Karl Barth, II, Parole de Dieu et existence humaine, 1, L’interpellation divine,

Paris, 1957, 165-218. GILSON Et., «L’être et Dieu» in Revue thomiste, 1962, 181-202 e 398-416. JOLIVET R., Essai sur les rapports entre la pensée grecque et la pensée chrétienne, Paris,

1931. KOESTLER A., The act of creation, London, 1964. MOLINARO A., «La nozione di creazione» in Studia patavina, 1965, 175-206 e 401-444. MÜLLER-MARKUS S., Protophysik. Entwurf eines Philosophies des Schopferischer, ’s

Gravenhagen, 1971. PEREZ RUIZ F., «Ex nihilo nihil y la creacion ex nihilo» in Pensamiento, 1966, 55-69. SANTELER J., Vom Nicht zum Sein. Eine philosophische Schöpfungslehre, Feldkirsh, 1949. SERTILLANGES A.D., L’idée de création et ses retentissements en philosophie, Paris, 1945. TOINET P., «L’être, demeure commune du philosophe et du théologien» in Congresso

internazionale s. Tommaso nel suo 7o centenario, vol. 6, L’essere, Napoli, 1977, 410-425.

TRESMONTANT Cl., La métaphysique du christianisme et la naissance de la philosophie chrétienne. Problèmes de la création et de l’anthropologie. Des origines à st Augustin, Paris, 1961.

H. U. VON BALTHASAR, Gloria, vol. 4, Nello spazio della metafisica, Milano, 1977, 362-363.

Tommaso ha appunto ricavato da Dionigi un filosofumeno tutto suo particolare, la dottrina dell’actus essendi come prima, immediata e universale operazione di Dio nel mondo. Tommaso parla di un processus essendi a divino principio in omnia existentia; nomen entis designat processum essendi a Deo in omnia entia. Egli si oppone (con Dionigi) a una ipostatizzazione di “emanazioni” (essere-in-sé, vita-in-sé, ecc.) e le intende come un’unica causa divina; tuttavia per lui il per-se-esse è primum et dignius quam per-se-vita et per-se-sapientia; ed egli enuncia in questi termini, non una particolare opinione platonica, ma la sua propria costante posizione di fondo. Il processo dell’essere –Tommaso parla spesso anche di emanazione dell’essere da Dio – è quello della realtà (e non, poniamo, quella di un nudo là); [...] actus, essere reale o essere di fatto, ma è una pienezza che nessun essere particolare può esaurire, una vastità che nessun concetto può interamente pensare, in ordine a cui soltanto ogni essenza come ogni concetto si possono unificare. È lungi dall’accostarsi esteriormente a una essenza finita pensata come possibile (che può essere o non essere), al contrario la possibilità di ogni possibile si radica nelle realtà: nel fatto che un essere può essere fatto entrare nell’ambito vasto del realmente esistente e ammesso alla sua comunione. Così l’esse è a un tempo comunissimum – ciò in cui tutti comunicano come all’inconcepibilmente perfectissimum – e intimum, quod profundius omnibus inest, esso fonda infatti, come si è detto, l’unità più intimamente profonda di ogni essere singolo e particolare. Esso è la vastità che tutto abbraccia (che non è esauribile) da nessuna addizione di nature, ma che può essere partecipato senza fine

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in modi infiniti), solo comunque in modo da realizzare le nature come cingendole e penetrandole: realizza le nature solo in quanto si realizza nelle nature. Non ha in se stesso una sussistenza ma inerisce alle nature: esse non est subsistens sed inhaerens. Tommaso si vieta rigorosamente di pensare questa autorealizzazione del reale come attuazione di una potenza (passiva): “piuttosto” le nature sono potenziali verso l’atto realizzante dell’essere. Ma poiché l’esse non subsiste, non si può neppure dire che esso faccia emergere le nature come “sue” possibilità; solo in esse appunto esso perviene a “stare” e alla sussistenza. Sulla infinità del possibile che può partecipare all’atto dell’essere solo l’intelletto divino può “escogitare” e tracciare le forme ben definite dell’attuazione, anche se queste non vengono aggiunte all’atto come un elemento esterno, bensì stampate, diciamo così, sulla sempre illimitata estensione dell’actus essendi. [...] Ma proprio in questo si rende chiara una nuova specie di intimità di Dio nella creatura, un’intimità concepibile unicamente in forza della distinzione tra Dio e l’esse. Non dovendo più concepire la partecipazione alla realtà – arcipropria prerogativa di Dio – da parte della creatura come una scomposizione o come un depotenziamento dell’essere divino specifico (il che si era sempre verificato in campo extracristiano), anche le essenze delle cose possono apparire non come pure scomposizioni di segno negativo, ma come posizioni e determinazioni positive da parte dell’onnipotente libertà di Dio e quindi fondate nel solo amore di Dio.