I. LETTURA DEI PROCESSI DI GLOBALIZZAZIONE E ... · I.3 Internazionalizzazione dei distretti ......

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INDICE INTRODUZIONE I. LETTURA DEI PROCESSI DI GLOBALIZZAZIONE E INTERNAZIONALIZZAZIONE Pag. 9 I.1 Modalità di globalizzazione I.2 Internazionalizzazione dell'impresa I.3 Internazionalizzazione dei distretti II. L'INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI DISTRETTI INDUSTRIALI TREVIGIANI Pag. 31 II.1 Il distretto della meccanica II.2 Il distretto del tessile-abbigliamento II.3 Il distretto della calzatura II.4 Il distretto dell'arredamento III. L'INTERNAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA DELLE IMPRESE TREVIGIANE Pag. 59 III.1 Caratteri di base del decentramento produttivo III.2 Un'indagine campionaria III.3 Alcuni impatti dell'internazionalizzazione produttiva III.4 Performance e dimensioni delle imprese che internazionalizzano la produzione IV. UNA NUOVA "POLITICA" COME RISPOSTA ALL'INTERNAZIONALIZZAZIONE Pag. 91 V.1 Aspetti critici dell'internazionalizzazione V.2 Interventi atti a consolidare la base produttiva locale CONCLUSIONI Pag. 109 BIBLIOGRAFIA Pag. 113 APPENDICE. QUADRO GIURIDICO, ECONOMICO E INFRASTRUTTURALE DI ALCUNI PAESI DELL'EUROPA DELL'EST Pag. 121

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INDICE

INTRODUZIONE I. LETTURA DEI PROCESSI DI GLOBALIZZAZIONE

E INTERNAZIONALIZZAZIONE Pag. 9

I.1 Modalità di globalizzazione I.2 Internazionalizzazione dell'impresa I.3 Internazionalizzazione dei distretti

II. L'INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI DISTRETTI

INDUSTRIALI TREVIGIANI Pag. 31

II.1 Il distretto della meccanica II.2 Il distretto del tessile-abbigliamento II.3 Il distretto della calzatura II.4 Il distretto dell'arredamento

III. L'INTERNAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA

DELLE IMPRESE TREVIGIANE Pag. 59

III.1 Caratteri di base del decentramento produttivo III.2 Un'indagine campionaria III.3 Alcuni impatti dell'internazionalizzazione produttiva III.4 Performance e dimensioni delle imprese che internazionalizzano

la produzione

IV. UNA NUOVA "POLITICA" COME RISPOSTA

ALL'INTERNAZIONALIZZAZIONE Pag. 91

V.1 Aspetti critici dell'internazionalizzazione V.2 Interventi atti a consolidare la base produttiva locale

CONCLUSIONI Pag. 109 BIBLIOGRAFIA Pag. 113 APPENDICE. QUADRO GIURIDICO, ECONOMICO

E INFRASTRUTTURALE DI ALCUNI PAESI DELL'EUROPA DELL'EST

Pag. 121

PRESENTAZIONE

La Camera di Commercio di Treviso è lieta di presentare questo studio commissionato dalla stessa e curato dal Prof. Ferruccio Bresolin e dal dott. Quirino Biscaro, entrambi docenti dell’Università “Ca’ Foscari” di Venezia.

L’argomento da tempo era stato individuato dall’Ente, nell’ambito delle sue attività di approfondimento e di intervento nell’economia locale, come strategico per lo sviluppo territoriale.

Da un lato, infatti, l’economia trevigiana presenta una forte vocazione internazionale, tanto che, all’interno del Veneto, seconda regione dopo la Lombardia per livello di internazionalizzazione (esportazioni più importazioni), detiene il secondo posto per volume di esportazioni ed il primato nel saldo positivo dei rapporti commerciali con l’estero (esportazioni meno importazioni). Dall’altro, la composizione distrettuale del tessuto produttivo della nostra provincia favorisce tale internazionalizzazione e permette il conseguimento di una competitività superiore proprio nei settori di punta e ciò rappresenta il fattore fondamentale di sviluppo dell’economia locale sia in Italia che all’estero. Ma le sfide del futuro non consentono di ipotizzare automaticamente “trends” altrettanto favorevoli nel medio – lungo termine rispetto all’evoluzione passata e quindi sorge l’esigenza di una riflessione sulla tenuta e sulle modalità di internazionalizzazione dei nostri distretti e delle PMI che li compongono.

A tale proposito, si può osservare che negli ultimi anni i distretti non si sono distinti soltanto per gli elevati livelli di esportazione, ma anche perché hanno saputo prontamente adeguarsi alle tendenze del mercato globale attraverso il decentramento produttivo e la cooperazione internazionale. Questo fenomeno, certamente positivo e vincente se osservato con i rigidi principi della concorrenza internazionale, può tuttavia alimentare timori per il futuro delle economie locali in presenza di piccole e medie imprese che non possono delocalizzare o che non sono attrezzate per farlo.

La ricerca, pertanto, si propone di rassicurare gli “attori” dei distretti trevigiani sulla possibilità di tenuta delle relative economie anche a livello locale, in quanto: - fornisce strumenti di analisi dei comportamenti e delle convenienze per

gli operatori che hanno o che intendono delocalizzare; - suggerisce strategie di rafforzamento all’interno per coloro che

comunque rimangono radicati nel territorio;

- presenta un sintetico, ma esauriente quadro di interventi per i “policy makers” in favore dell’internazionalizzazione nel senso più ampio del termine, cioè sia per migliorare i rapporti produttivi all’estero che per consolidare la base produttiva locale.

Le conclusioni affermano che l’evoluzione internazionale rappresenta

comunque una necessità e dovrebbe essere realizzata adeguatamente e tempestivamente, perché le reti distrettuali e quelle globali non sono in antitesi. Occorre però che la congenita flessibilità delle PMI trovi rafforzamento nei vantaggi della rete, altrimenti si tramuterà in un elemento di debolezza che alimenterà il modello di sviluppo estensivo, oramai giunto a livelli di saturazione. La ricetta per i nostri distretti è quindi saper fare rete ancor meglio che in passato e la Camera di Commercio si sta prodigando anche in questa direzione con idonei interventi.

Federico Tessari Presidente della Camera di Commercio di Treviso

Renato Chahinian

Segretario Generale della Camera di Commercio di Treviso

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INTRODUZIONE L'apertura internazionale dell'economia veneta e provinciale ha subito nel corso degli ultimi anni una profonda evoluzione, passando da una prevalente forma di internazionalizzazione commerciale, vale a dire fondata sull'esportazione, ad una nuova fase di internazionalizzazione produttiva, basata sul trasferimento di fasi e processi di lavorazione. L'internazionalizzazione produttiva, rispetto a quella commerciale, impone mutamenti di organizzazione e di strategie da parte delle imprese e dei pubblici poteri. Infatti sul piano delle imprese, mentre l'internazionalizzazione commerciale impone concorrenzialità e quindi strategie competitive, l'internazionalizzazione produttiva impone strategie collaborative, accordi e capacità di scambio di informazioni e di conoscenza. Sul piano dell'intervento pubblico, l'evoluzione dei processi di internazionalizzazione comporta un orientamento delle politiche industriali che dovranno essere più orientate alle capacità innovative per evitare il decentramento non solo della produzione ma anche quello dei centri decisionali e progettuali delle imprese. L'internazionalizzazione, come fatto strutturale nell'organizzazione del lavoro e della produzione, sta provocando un crescente interesse anche in merito alla fattibilità di trasferimento/riproduzione di un distretto industriale in paesi a medio-basso livello di sviluppo. Per aversi un trasferimento internazionale occorre che il distretto raggiunga quella configurazione che renda visibile all'esterno l'entità distrettuale, cioè rappresenti il distretto in modo unitario. È però fondamentale verificare l'esistenza delle variabili spaziali, sociali ed economiche che consentono la localizzazione di un'attività di produzione specializzata, tipica degli agglomerati distrettuali. Quando l'internazionalizzazione coinvolge la funzione di produzione, impatti negativi sono evidenti sulla rete di subfornitori distrettuali, soprattutto imprese artigiane, che vedono sfumare la rete di relazioni con committenti che rivolgono la loro attenzione oltre confine. Più in generale, un policy maker deve inevitabilmente mantenere alta l'attenzione verso le imprese che ritardano o accantonano il processo di internazionalizzazione, vagliando da un lato la fattibilità di interventi finalizzati a rimuovere i vincoli all'internazionalizzazione, e dall'altro favorire i processi di ristrutturazione e upgrading riconversione tecnologica. In ipotesi di trasferimento/riproduzione internazionale di un distretto, la tensione è massima quando il fenomeno non si limita alle fasi di lavorazione ma giunge fino alle funzioni strategiche. In tal caso, se il trasferimento diviene massiccio il rischio è l'impoverimento del tessuto imprenditoriale e manageriale della Provincia.

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Alla luce di tutto questo, la ricerca si è così articolata: 1. Capitolo I. Si riassumono le varie posizioni di studiosi ed esperti sui temi

dell'internazionalizzazione, allo scopo di tracciare le linee di demarcazione tra i caratteri e gli effetti della globalizzazione, dell'internazionalizzazione dell'impresa, dell'internazionalizzazione del distretto.

2. Capitolo II. Vengono riassunti i fattori pro e contro l'internazionalizzazione riscontrabili nell'ultima parte degli anni '90 nei distretti della meccanica, del legno-arredamento, del tessile-abbigliamento, delle calzature.

3. Capitolo III. Si commentano i risultati di un'indagine campionaria sul tema del decentramento produttivo, ponendo l'accento sui fattori critici. Si sviluppano aspetti particolari ma rilevanti del fenomeno: gli impatti sull'utilizzo della forza lavoro nel territorio di origine dell'impresa, le strategie di prezzo più razionali per il subfornitore distrettuale, la soglia dimensionale minima riscontrabile nelle esperienze di decentramento oltre confine.

4. Capitolo IV. Vengono ipotizzati alcune modalità di sostegno e assistenza per quelle imprese non coinvolte dai processi di internazionalizzazione produttiva, con particolare riferimento ai servizi finanziari.

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I. LETTURA DEI PROCESSI DI GLOBALIZZAZIONE E INTERNAZIONALIZZAZIONE

I fenomeni della globalizzazione dei mercati, dell'internazionalizzazione e della delocalizzazione produttiva delle imprese stanno segnando profondamente l'evolversi del sistema economico di tutto il Paese, con profondi effetti sul Nord Est che (attualmente) ne costituisce il motore. I distretti industriali hanno assunto un ruolo fondamentale nel panorama produttivo locale, facendo assumere alle imprese che li compongono una posizione considerevole a livello internazionale. Ma proprio i nuovi fenomeni sovranazionali stanno imponendo ai distretti un nuovo modo di pensare e di agire. Chiunque voglia tracciare l'evoluzione internazionale dei distretti locali non può prescindere da una lettura profonda e razionale di questo nuovo dinamismo internazionale.

I.1 Modalità di globalizzazione L'economia globale ha cessato di essere un fatto elitario riservato a poche grandi imprese ed organizzazioni, ed è oramai un fenomeno pervasivo che sta investendo l'attività di qualsiasi impresa, piccola o grande che sia. La globalizzazione è inquadrabile con svariate chiavi di lettura, ma certamente non è adatta quella che si limita alla standardizzazione dei mercati. Trattasi di un'interpretazione molto riduttiva giacché da un lato i prodotti globali in senso stretto sono molto pochi, dall'altro lato non si considerano i caratteri complessi dello scenario entro cui si muovono le imprese. Da un punto di vista geografico, si concreta con una forte spinta all'integrazione di aree diverse, grazie al ruolo unificante della tecnologia e delle comunicazioni interattive. Si attivano così due serie di flussi: • di beni tangibili: merci e capitali • di beni intangibili: servizi ed informazioni che impattano fortemente le dinamiche concorrenziali e quindi, in ultima analisi, le strategie industriali. Da un punto di vista storico, si va dall'approccio classico a quello moderno: con il primo la globalizzazione non è altro che il passaggio da impresa internazionale a multinazionale, mentre il secondo la interpreta come varietà di opzioni strategiche che inducono all'integrazione dei mercati [Abravanel (1991)].

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Più generalmente intesa come apertura all'esterno nelle diverse opzioni possibili, ha due anime ben distinte: quella reale e quella finanziaria. La prima, che qui è oggetto di studio, è caratterizzata dalla riorganizzazione su scala mondiale dei processi produttivi basata sulla crescente integrazione dei sistemi internazionali di divisione del lavoro. Si può perciò ritenere che non esiste uno stereotipo della globalizzazione ma una serie di nuovi modelli di sviluppo internazionale, svincolati (totalmente o parzialmente) dai presupposti socio-economici imperanti negli ultimi decenni e caratterizzati da una molteplicità di strategie alla ricerca di sinergie tra scala di produzione locale e globale.

I.1.1 Determinanti e strategie della globalizzazione Ogni settore produttivo possiede sue proprie spinte alla globalizzazione, ma si possono cogliere almeno tre determinanti trasversali. In primo luogo va considerato il più tradizionale trade off tra i fattori di produzione: lo shift tra configurazioni produttive labour intensive e capital intensive. Nell'impresa è congenita la ricerca di economie di costo che porta con se una continua evoluzione delle modalità tecniche di produzione1. Dato che il nostro Paese si annovera tra quelli a maggior costo del lavoro, è scontata la ricerca di configurazioni capital intensive tendenti a trasferire costi del personale sugli ammortamenti. Di per sé ciò costituisce una forte spinta alla globalizzazione, motivi: • l'impresa che riesce ad aumentare la propria intensità di capitale lo fa a

scapito di nuovi rilevanti investimenti fissi, il che a sua volta richiede uno sviluppo della quota di mercato per raggiungere rendimenti di scala ottimali;

• l'impresa la cui attività permane a bassa intensità di capitale va alla ricerca di mercati del lavoro meno costosi e più flessibili.

In secondo luogo v'è l'acceso alle fonti tecnologiche. La concorrenza di prezzo dei Paesi emergenti nei settori tradizionali, presenti in tutta Italia e imperanti nel Nord Est2, non può essere vinta ma è aggirabile attraverso prodotti innovativi. Ciò induce inevitabilmente alla globalizzazione:

1 In taluni casi queste trasformazioni sono radicali e repentine, in altri invece sono modeste e scaglionate nel tempo, ma ovunque sono presenti. 2 Proprio tra questi settori si annoverano quelli che costituiscono i distretti della nostra Provincia.

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• le imprese in grado di attivare in prima persona nuovi processi tecnologici si trovano nella stesa condizione di quelle che cercano una minore intensità del fattore lavoro; infatti, i necessari e rilevanti investimenti fissi richiedono un forte incremento della quota di mercato per essere convenientemente ammortizzati, poiché il differenziale di prezzo con i prodotti a basso contenuto tecnologico può essere accettato dal mercato ma non può assumere qualsiasi ampiezza;

• quando l'azienda non ha le disponibilità finanziarie per implementare direttamente gli investimenti in nuove tecnologie, l'accesso al know how si realizza con forme di collaborazione/cooperazione internazionale.

Ultimo ma non meno importante è il ruolo del consumatore. Va ribadito che i prodotti mondiali in senso stretto sono molto pochi, ma è innegabile che le tecnologie consentono prodotti con standard riconosciuti globalmente. Verso questo processo converge una latente ma progressiva globalizzazione dei bisogni favorita da: • tendenze all'omogeneizzazione della scolarizzazione; • azione dei mass media, che diffondendo conoscenze ed informazioni

favoriscono la tangenza delle preferenze al consumo; • diffusione di comuni strategie di marketing consentita dalla crescente

analogia di segmenti nazionali di mercato, prima diversi ed ora tendenti alla riunificazione transnazionale.

Il processo di globalizzazione dei settori industriali può essere meglio inquadrato mediante lo screening delle strategie che lo accompagnano. Sono molteplici poiché l'impresa che si globalizza è influenzata [Porter (1987)]: • dal settore di attività; • dalla disponibilità di risorse; • dal management; • dalla tipologia dei vantaggi competitivi che possiede; • dagli obiettivi aziendali; • dall'azione dei concorrenti. L'intrecciarsi di questi fattori genera un ventaglio di alternative strategiche che passano dalla dimensione locale a quella globale man mano che aumenta la propensione internazionale dell'azienda. Se le alternative di globalizzazione possono essere numerose, sono però sintetizzabili in quattro grandi tipologie [Jolly Vijay (1987)]:

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1. Omogenea. Connessa alla visione classica della globalizzazione (passaggio da impresa internazionale a multinazionale), si caratterizza sulla dominanza da imporre su un unico mercato mondiale indifferenziato. Perciò è perseguibile nei rari casi in cui il settore è globale in senso stretto (domanda dei consumatori omogenea) e le differenze tra paesi sono irrilevanti, ma non solo: è adatta ad imprese le cui attività della catena del valore sono concentrate sia funzionalmente che geograficamente.

2. Riproduzione della formula imprenditoriale. Presenta analogie con la precedente. È adottata da imprese che tendono a presentarsi all'esterno in modo omogeneo anche se il mercato non lo è.

3. Differenziata. Molto più frequente dell'omogenea, vista la rarità dei mercati globalmente omogenei e standardizzati, è finalizzata a sfruttare la varietà dei processi e delle reti globali nella continua ricerca di economie di scala. Le varianti interne a questa tipologia riguardano sostanzialmente la produzione ed il marketing, con una modularità di presenza sui mercati esteri, con una politica di sviluppo che spazia dalla penetrazione alla cooperazione. È adatta ad imprese in grado di mantenere il necessario coordinamento su funzioni e/o attività aziendali geograficamente disperse; questo sforzo operativo porta ulteriori vantaggi: la valorizzazione degli intangible asset e dell'esperienza organizzativa.

4. Multidomestica. È una variante della precedente. Tende a massimizzare le diversità regionali, soprattutto se riguardano differenziali di costo e l'accesso a fonti di innovazione tecnologica. È più rischiosa della precedente, poiché un eccessivo frazionamento strategico può disperdere parte dei vantaggi competitivi; inoltre, se il grado di coordinamento è modesto v'è l'ulteriore rischio di trasformare l'impresa in una sorta di federazione di unità locali. Le imprese che l'adottano dovrebbero avere una conoscenza molto approfondita dei contesti in cui operano ed una elevata capacità di differenziare il prodotto, con un'organizzazione a rigida pianificazione centrale (obiettivi definiti localmente ma strettamente vincolati a quelli programmati centralmente, assegnazione alle unità periferiche di risorse specifiche da integrare eventualmente mediante una loro autonoma capacità di autofinanziamento).

I.1.2 Principali effetti della globalizzazione Nei decenni seguenti al secondo conflitto mondiale l'impresa internazionale vincente era quella organizzata secondo il ben noto modello della multinazionale, poiché si riteneva che chi ambiva ad estendere il proprio raggio d'azione oltre confine dovesse dislocarsi in unità

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autosufficienti dalla produzione alla vendita, con la casa madre che esercitava un controllo soprattutto finanziario. La multinazionale, però, nacque e si sviluppò in un contesto mondiale non globalizzato nel senso corrente del termine. Non a caso la globalizzazione attuale ha come primo effetto proprio quello di rendere il modello della multinazionale sempre meno aderente alle nuove realtà dei mercati. I nuovi modelli emergenti (per approfondimenti si rinvia alla sezione I.2.1) possono essere letti trasversalmente al fine di mettere a fuoco la relazione tra la globalizzazione ed il territorio d'origine dell'impresa, uno dei principi ispiratori di questa indagine. Emergono due visioni contrastanti: 1. Nella prima i legami con il territorio d'origine vengono negati,

sostenendo che l'impresa globale può aver successo se perde la sua identità locale assumendone una più idonea al contesto mondiale. Due sono i caratteri assolutamente necessari: la disponibilità/capacità di stringere alleanze per non affrontare da soli le inevitabili complessità globali, un'estrema flessibilità per poter aderire a specifiche realtà locali senza perdere nel contempo l'interdipendenza globale.

2. Nella seconda, al contrario, la specifica origine locale risulta fondamentale per il successo globale. A tal fine, però, l'impresa deve potere e sapere attivare i vantaggi competitivi domestici in ambito internazionale. In altri termini, diventa determinante la capacità di sfruttare efficacemente le potenzialità maturate nel contesto d'origine [Porter (1987)].

La globalizzazione, com’è facilmente intuibile, solleva alcune questioni critiche, riguardanti in particolare la produzione, il commerciale, l’assetto tecnologico, le strategie finanziarie: 1. Produzione. in questa funzione aziendale le scelte spaziano dall’estremo

giapponese (centralizzazione di tutte le attività produttive) a quello di una configurazione produttiva quasi totalmente decentrata, che concentra nel territorio di origine solo alcune fasi particolarmente importanti. Le PMI locali, ma il fenomeno interessa tutto il Nord Est, stanno progressivamente avvicinandosi a quest’ultima scelta. Ma non si tratta solo di questo. Infatti l’abbandono dell’assetto produttivo alla giapponese a favore della delocalizzazione, coniugato con la fortissima propensione verso l’export delle nostre PMI, porta con se inevitabili ripercussioni sulla logistica: il trasferimento dei prodotti finiti, infatti, non segue più lo schema "dal centro alla periferia" ma "da periferia a periferia".

2. Commerciale. È noto che il marketing dipende fortemente dalla localizzazione del cliente piuttosto che da quella della produzione, ma le

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strategie di vendita globali dipendono anche da tutto quanto ruota attorno allo sviluppo del prodotto; nelle imprese globali questo aspetto della produzione può essere piuttosto complesso.

3. Tecnologia. L'aspetto più stringente riguarda la eventuale delocalizzazione della funzione R&S. Le opinioni sul tema sono articolate. Una vasta parte della letteratura economica afferma che questa funzione aziendale dovrebbe localizzarsi nelle vicinanze dei mercati più grandi, ma la scelta dipende anche dalle specifiche interne alla funzione. Inoltre sembra definitivamente caduto il teorema che la localizzazione migliore sia da confinarsi all'Europa. D'altra parte la delocalizzazione di questa attività pone non pochi problemi di coordinamento.

4. Finanza. Un'impresa globalizzata ha l'opportunità di ottimizzare la gestione delle fonti di capitale, non solo per la diversità globale del suo costo ma anche per la presenza di una varietà di forme di incentivazione. Le specificità delle gestioni valutaria e fiscale, necessariamente variegate a livello globale, unite ai diversi ritmi dell'inflazione rendono complessa la valutazione di investimenti delocalizzati, al punto che non di rado le imprese confondono le performance reali con quelle nominali.

Ulteriori aspetti critici derivano dalle possibili derive protezionistiche di alcuni paesi, ma soprattutto le diseconomie generate da una internazionalizzazione disordinata quando si esplica con pura imitazione dei concorrenti. Al di là di tutto questo, però, i vantaggi della globalizzazione sono evidenti e derivano dalle cosiddette "varietà globali" [Valdani (1991)]: 1. Varietà territoriali. Sono le più evidenti. L'attuale facilità e velocità delle

comunicazioni consentono alle imprese di aumentare il proprio potere di condizionamento del mercato.

2. Varietà etnico-culturali. I contesti sociali globali sono piuttosto differenti, ma possono essere affrontati vantaggiosamente mediante opportuni posizionamenti di mercato.

3. Varietà politiche. Nonostante gli sforzi di armonizzazione, si è ben lontani da un sistema integrato di regole vincolanti. Ai fini dell'attività d'impresa, le diversità più evidenti riguardano le politiche fiscali, di incentivazione agli investimenti, del lavoro, nonché l'efficienza e l'efficacia della burocrazia e dello sfruttamento del patrimonio tecnologico.

4. Varietà finanziarie. Si tratta prevalentemente dei tassi di cambio e del costo del denaro. V'è inoltre la possibilità di ottenere rendite grazie all'opportuno sfruttamento delle imperfezioni dei mercati monetari e finanziari.

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5. Varietà competitive. I vantaggi competitivi vengono acquisiti/diffusi e aggregati mediante una varietà di opzioni, tra le quali vanno ricordate acquisizioni, fusioni, crescita dimensionale autonoma, partecipazioni, consorzi, franchising, licensing, joint venture.

6. Varietà di mercato. È altrettanto evidente di quella territoriale, ed esiste sia nei mercati di approvvigionamento che quelli sbocco. Nei primi si concretizzano nella diversa dotazione di risorse dei sistemi-paese, generando differenziali anche significativi nei costi dei fattori. Nei secondi sono generate sia dai gusti e preferenze dei consumatori che dalle modalità organizzative della distribuzione commerciale.

7. Varietà di competenze. La capacità di apprendimento ed il know-how intrinseco nell'organizzazione aziendale consentono/ostacolano la sopravvivenza in ambienti anche molto diversi.

8. Varietà dei rischi. L'ampliamento dell'orizzonte operativo, conseguente alla globalizzazione, aumenta la gamma dei rischi da affrontare: a quello puramente commerciale si aggiungono quelli macroeconomici, politici, di risposta dei concorrenti, di acquisizione delle risorse.

L'opportuna gestione di queste diversità globali può portare a notevoli vantaggi, tra i quali vanno prevalentemente ricordati i seguenti: 1. Sistema-paese. Capacità del paese di destinazione di offrire condizioni

favorevoli per la delocalizzazione, con particolare riferimento ai costi ed alla qualità dei fattori.

2. Economie di scala. La catena del valore aziendale si può arricchire dei risparmi soprattutto nella logistica e negli approvvigionamenti, ma anche nella produzione, commercializzazione-distribuzione, finanza.

3. Raggio d'azione. Si tratta di sinergie derivanti dalla contiguità ed interdipendenza geografica dei mercati.

4. Differenziazione del prodotto. Praticamente necessaria quando aumenta la varietà dei consumatori, aumenta il valore aggiunto della produzione e diffonde la fama e la credibilità dell'azienda.

5. Informazioni su tecnologie e mercati. La loro disponibilità favorisce la mobilità di alcune risorse aziendali, che si concretizza in applicazioni tecnologiche a nuove aree d'affari, nel superamento di tradizionali vincoli produttivi, nell'affievolimento dei confini settoriali.

6. Omogeneizzazione (tendenziale) dei bisogni e delle motivazioni dei consumatori. Favorita prevalentemente dai mass-media, consente una (tendenziale) unificazione dei processi produttivi ed una più evidente uniformità delle tecniche manageriali.

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Su queste "famiglie" di benefici occorre estrema chiarezza. Si possono concretizzare sfruttando le varietà globali e non puntando aprioristicamente alla standardizzazione dei processi e dei prodotti, che, invece, è un effetto e non la causa del successo globale. I.2 Internazionalizzazione dell'impresa

L'internazionalizzazione è oggi una necessità per le nostre imprese, non solo perché oramai la competitività richiede una divisione del lavoro su scala globale, ma anche per assicurarsi una presenza diretta in mercati in espansione soprattutto se caratterizzati da barriere commerciali all'ingresso [Rullani (1995), Centro Europa Ricerche (1993)]. Più in generale, com'è noto, il Nord Est ed il Veneto da lungo tempo sono aree a grande vocazione esterna, ma ora questa propensione si sta allargando andando ad abbracciare un gran numero di nuovi paesi e regioni che offrono opzioni per gestire con maggiore efficienza i rapporti con i mercati di sbocco e di approvvigionamento, un più rapido accesso alle fonti tecnologiche, una rete comunicativa più snella. Il successo nell'internazionalizzazione si misurerà proprio dalla capacità a selezionare le migliori opportunità, sfruttandole per creare soluzioni produttivo-commerciali innovative [Rispoli (1994)].

I.2.1 Percorsi di internazionalizzazione Le imprese raggiungono il massimo grado di internazionalizzazione quando costituiscono proprie unità di produzione e vendita all’estero. Normalmente ciò avviene mediante un processo modulare il cui pieno successo è funzione di un complesso set di componenti ambientali e interne. Tra le prime vanno segnalate: 1. ambito competitivo

• concorrenti attuali e potenziali • produttori di prodotti sostitutivi

2. ambito politico • barriere normative • agevolazioni finanziarie e incentivi agli investimenti • politica monetaria (cambi, tassi)

3. ambito tecnologico • capienza del mercato a coprire i costi della tecnologia • tecnologia che consente/non consente un’offerta differenziata

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• alleanze estere per attività di ricerca mentre le più rilevanti tra le seconde possono essere così sintetizzate: 1. dimensione dell'impresa: grande, media o piccola impresa familiare 2. caratteri strutturali

• assetto organizzativo (i meccanismi operativi sono adeguati ?) • assetto del personale (ci sono le necessarie competenze ?) • assetto tecnologico (la tecnica produttiva è la più razionale ?) • assetto patrimoniale (qual è il grado di dipendenza finanziaria ?).

Ogni impresa si internazionalizza seguendo percorsi specifici. I processi più efficaci sono quelli orientati a obiettivi di medio-lungo periodo; al di là dell'ovvio desiderio di massimizzare la redditività, tra i più frequenti vi sono [Depperu (1993)]: • opportunità di sviluppo prospettate dai mercati esteri • necessità di seguire la propria clientela che si internazionalizza • lo fanno anche rivali razionali • conseguire economie di scala • conseguire un'immagine internazionale • acquisire nuove tecnologie • accesso a fattori produttivi a costi più contenuti • accesso ai mercati finanziari internazionali ma ovviamente non mancano obiettivi tattici, come ad esempio: • aggirare la stagnazione del mercato nazionale • sfuggire all’eccessiva tensione concorrenziale del mercato d'origine • accelerare la copertura dei costi fissi • smaltire produzione in eccesso. Gli obiettivi dell'internazionalizzazione sono normalmente perseguiti attivando quattro strategie di base, suscettibili di numerose varianti e combinazioni. La strategia di scrematura (si sceglie prima la clientela migliore per passare poi al resto del mercato) è più orientata a obiettivi reddituali piuttosto che a quelli di volume, e si caratterizza per buoni ritorni economico-finanziari, modesti investimenti e rischi, sforzo ridotto per l’adattamento al mercato. La strategia di dumping (si vende a prezzi molto più contenuti dei concorrenti, anche sotto costo) quasi sempre è legata all'obiettivo (tattico) di smaltire eccessi di produzione; ciò consente un

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minimo rischio e coinvolgimento, nonché rapidità d'ingresso sia in entrata che in uscita, ma non massimizza la redditività. La strategia di esplorazione assicura la priorità d’accesso in network tecnologici, con costi e coinvolgimento non molto elevati; nel breve periodo, però, non consente di massimizzare né la redditività né la quota di mercato. La strategia di penetrazione consolida la presenza nel medio e lungo periodo, ma sono necessarie capacità tecnologiche e di marketing e impone costi e rischi elevati. Queste politiche aziendali possono essere attivate mediante due approcci: a) Approccio diretto. Impatto frontale sui punti di forza dei concorrenti per

la conquista di significative posizioni competitive in tempi ragionevolmente brevi. Richiede risorse finanziarie sufficienti per un confronto prolungato, la capacità di difendere i propri vantaggi dalle imitazioni, la convinzione di riuscire a scalfire la fedeltà ai marchi locali, una lunga preparazione, la dislocazione di supporti organizzativi per tempi non brevi.

b) Approccio indiretto. Ci si concentra su segmenti di mercato scoperti o poco serviti, con una sorta di "ingresso laterale" sui punti di debolezza dei concorrenti, anche sfruttando il fattore sorpresa. Si caratterizza per una segmentazione geografica e/o di prodotto, e può essere un primo passo verso l'approccio diretto.

Tali approcci possono svilupparsi con tempistiche differenti: a) Seriale. Si aggrediscono simultaneamente più mercati esteri. b) Sequenziale. Si aggrediscono i mercati esteri uno dopo l'altro. Per le

piccole e medie imprese è l'approccio di più naturale poiché il seriale impegna simultaneamente molte risorse.

Tenuto conto di tutto questo, la numerosità delle variabili in gioco non può che produrre svariati modelli di impresa internazionale [Rullani e Grandinetti (1996), Scott (1991), Soda (1994)]:

1. Etnocentrica. Si ritiene che la formula imprenditoriale locale possa essere esportata senza particolari adattamenti. La gestione dell'attività è molto centralizzata.

2. Policentrica. La presenza sul mercato estero viene pianificata con cura. Si dà molta autonomia alle filiali estere. Si preferisce l'investimento diretto in loco.

3. Regiocentrica. Si cercano mercati con specificità omogenee a quelle locali. Avviene prevalentemente con la delocalizzazione. Ha lo

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scopo di ottenere economie di scala, nonché differenziali di costo e di qualità.

4. Geocentrica. Si prevede un'unica soluzione organizzativa e produttiva, poiché si considerano i mercati esteri tutti uguali per i propri prodotti (quindi è un modello diverso dall'impresa etnocentrica)3.

5. Multinazionale. Si adatta a specifici bisogni locali. Concede autonomia alle filiali, che sviluppano conoscenze autonomamente. Gestisce l'attività estera con una logica di portafoglio.

6. Internazionale eterarchica. Come la geocentrica ha un approccio uniforme ai mercati esteri. Concede qualche autonomia alle filiali. I processi decisionali orizzontali le conferiscono una struttura a rete. Le conoscenze critiche sono sviluppate in casa madre ma poi trasferite alle filiali.

7. Transnazionale. Accentua la struttura a rete dell'internazionale eterarchica poiché ciascuna filiale può sviluppare le innovazioni. Subisce alti costi di coordinamento. Le conoscenze sono sviluppate congiuntamente tra casa madre e filiali.

I.3 Internazionalizzazione dei distretti Se l'internazionalizzazione non riguarda imprese territorialmente "sparse" ma organicamente contigue, allora l'apertura internazionale coinvolge il distretto in quanto tale. Se questo livello di internazionalizzazione diviene incontrollabile e "selvaggio", può far sorgere conflitti d'interesse al punto da minare la base cooperativa distrettuale [Rullani (1995)]. Tutto ciò può avvenire poiché in qualunque distretto esistono due distinte tipologie di imprese: quelle che hanno interiorizzato un'autonoma capacità di relazione esterna, e quelle che invece non la possiedono. Quando le reti produttive di sistemi locali diventano globali, tendono a occupare il posto non solo delle grandi imprese fordiste ma anche dei sistemi produttivi basati sulla contiguità territoriale, cioè i distretti industriali. La questione più pressante è se tutto ciò porta ad una sovrapposizione di ruoli, ad un'evoluzione parallela, alla nascita di una nuova tipologia di distretto. La dimensione locale non è più sufficiente a mantenere la competitività e la presenza nei mercati internazionali, visto che le conoscenze tecnologiche e

3 Esistono varianti in funzione del grado di centralizzazione dell'attività. Nella forma più rigida le strategie sono imposte dalla casa madre, le conoscenze sono sviluppate in casa madre ed ivi mantenute.

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commerciali si riorganizzano su scala globale. La sfida che si profila per i distretti tradizionali è quella di diventare nodi di reti globali, mettendo in secondo piano il desiderio di autosufficienza e, talvolta, la diffidenza, senza però annacquare la propria originalità. Sembra questa la via migliore che consentirà ai distretti attuali di interagire efficacemente ed efficientemente con gli altri nodi della rete globale, apprendendo nuove tecnologie e penetrando in nuovi mercati.

I.3.1 Esportabilità del modello distrettuale Dall'interesse per l'internazionalizzazione si è sviluppato nella distrettualistica un filone di studi sulla fattibilità del trasferimento o riproduzione del distretto [Alessandrini (1997)]. Su questa linea d'indagine ciò che interessa è la somma dei singoli comportamenti aziendali. In tale direzione è necessario approfondire due aspetti generali [Baragani (1996)]: • riproducibilità del modello distrettuale; • validità del modello come strumento per lo sviluppo di un Paese che si

sta industrializzando. A loro volta questi aspetti si estrinsecano sequenzialmente in 3 quesiti: 1. con quali contesti è compatibile l'innesto del distretto industriale ? 2. i distretti, così come configurati nel Nord Est, sono esportabili ? 3. l'evoluzione attuale dei distretti è favorevole ad una loro

internazionalizzazione ? Com'è noto, la categoria del distretto interpreta una miriade di sistemi produttivi a base territoriale localizzati nel Centro e nel Nord Est del Paese4 [Sforzi (1991)], con un contributo all'economia del Paese di tipo strutturale nel senso di Porter (vantaggio competitivo nazionale). Nonostante tra i teorici dei distretti ci siano varie scuole, vi è unanime consenso nel ritenere la nascita dei distretti un fatto spontaneo; mancherebbe così una volontà pianificatrice, sia essa pubblica o privata. Questo convincimento, radicato per la genesi dei distretti nazionali, almeno per il momento non ha ragioni per essere smentito quando questi si trasferiscono oltreconfine. Per quanto riguarda le determinanti dell'innesto distrettuale [Graziani (1975), Bagnasco (1977), Becattini (1979), Brusco (1991)], le ipotesi

4 Molti estendono il concetto di distretto anche alle aree dell'industrializzazione leggera del Mezzogiorno.

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possono essere sintetizzate nell'opzione "difensivistica", che si poggia sulla risposta del mondo industriale alle turbolenze nei mercati dei fattori, ed in quella che privilegia il ruolo della domanda estera. Nel primo caso si reagisce alla maggiore turbolenza e insicurezza del mercato scomponendo il ciclo produttivo in svariate fasi e decentrando il più possibile nei paesi che consentono di contenere i costi dei fattori. Per il secondo filone interpretativo, un merito maggiore ha la domanda fattasi più dinamica e qualitativamente più differenziata, che crea pressione sulla produzione e sulla produttività. Le due posizioni conducono a valutazioni diverse sulla riproduzione internazionale del distretto. Infatti, se si dà avvio al distretto come forma organizzativa per recuperare saggi di profitto sul fattore lavoro, il suo innesco prescinde dal contesto congiunturale e dai vantaggi localizzativi. Se invece si da peso alla dipendenza del distretto dal tipo di domanda che affronta, si discute la possibilità di riprodurlo in un contesto ambientale molto diverso da quello d'origine. Tra gli esperti dei fenomeni distrettuali si fa largo l'ipotesi che manchi un'identità formale che renda visibile all'esterno l'entità distrettuale, cioè rappresenti il distretto in modo riconoscibile e unitario. Questa mancanza sarebbe confermata da almeno due fattori: • il legislatore con la legge 317/91 ha incluso i distretti tra i destinatari di

interventi agevolativi per investimenti in innovazione, condizionando tale possibilità ad una loro previa individuazione da parte delle Regioni competenti;

• gli agglomerati distrettuali solo recentemente stanno evolvendo da assetti omogenei e paritari a configurazioni gerarchiche con un'impresa leader, che funge da parziale formalizzazione del distretto [Nuti (1992)].

Il tema è rilevante poiché si discute se l'attività internazionale derivante dal trasferimento del modello richieda una configurazione distrettuale formale, se l'emergere di differenziazioni gerarchiche rappresenti il primo passo per una progressiva operatività internazionale dei distretti italiani. In tale direzione si deve constatare che questi sembrano orientati ad una maggiore formalizzazione; non a caso la stessa legge 317/1991 richiede l'individuazione sul territorio del distretto inteso come centro di decisioni e di autonoma personalità, rappresentativa delle imprese, della comunità e delle istituzioni locali. A questo proposito occorre puntualizzare che ottenendo la formalizzazione, sia a seguito di un provvedimento legislativo sia per una modifica dell'assetto produttivo che va nella stessa direzione, si attenuerebbe la natura del distretto come modello alternativo alla divisione del lavoro altrove dominante. In particolare, con l'assunzione di un ruolo

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leader da parte di una o poche grandi imprese, la trasferibilità/riproducibilità internazionale dipende strettamente da tale supremazia, ammesso e non concesso che un distretto formale possa avere maggiori possibilità di trasferimento/riproduzione di un distretto più tradizionale. Nell'ipotesi di trasferire un tipico distretto del Nord Est in un'area a sviluppo intermedio [i cosiddetti paesi NIC's (New Industrializing Countries] occorre verificare l'esistenza delle variabili spaziali, sociali ed economiche che consentono la localizzazione di un'attività di produzione specializzata, tipica degli agglomerati distrettuali. Ad un primo livello d'analisi, è facile constatare la necessità di elementi spazialmente caratterizzanti. Sommariamente essi sono [Becattini (1979), Sforzi (1989)]: 1. Territorio. È forse l'elemento più importante per la caratterizzazione

distrettuale e anche quello più difficilmente introducibile dall'esterno. Infatti non funge solo da base localizzativa ma anche da tessuto connettivo tra gli operatori economici e sociali.

2. Dimensione delle imprese. In letteratura si assume che in un distretto le unità produttive siano piccole e medie imprese. È noto però che la dimensione è un concetto relativo, che assume significati diversi a seconda del settore produttivo.

3. Contesto socio-economico. La sua importanza deriva dal coinvolgimento delle componenti localizzative nel generare economie di scala e di agglomerazione.

4. Relazioni tra imprese. Intese come forma permanente di interazione, implementano il processo di specializzazione territoriale che da solo non è sufficiente a giustificare l'esistenza di un distretto.

Questi quattro "ingredienti" di base favoriscono/ostacolano la continuità dei contatti tra imprese, carattere necessario (anche se non sufficiente) al distretto. Questi rapporti, che vanno dalla naturale condivisione dei saperi produttivi al trasferimento delle tecnologie, da un lato riducono la concorrenza tra imprese di fase, dall'altro lato, attraverso il conseguimento di vantaggi agglomerativi, consentono una riduzione dei costi di transazione. Ciò porterebbe a considerare la trasferibilità non solo dei distretti industriali in senso stretto, ma anche aree a specializzazione territoriale con omogeneità di tipo settoriale, filiere territoriali (in cui la specializzazione interessa le fasi di un processo di produzione), consorzi e altre forme di associazioni tra produttori [Baragani (1996)]. Nell'ipotesi più semplice, quella dicotomica, le agglomerazioni geografiche vengono classificate a seconda che abbiano ottenuto oppure no il riconoscimento formale. Nel primo caso non si va oltre ad aree a specializzazione territoriale, filiere territoriali, consorzi e altre forme di

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associazioni tra produttori. Nel secondo caso abbiamo i distretti formali, non formali ma gerarchici e non gerarchici. Si possono così delineare queste opzioni di internazionalizzazione distrettuale [Baragani (1996)]: 1. trasferimento tout court del distretto (transnazionalità); 2. investimento diretto (delocalizzazione); 3. forme di accordi tra imprese di diversa nazionalità che prevedano lo

scambio dei rispettivi pacchetti azionari; 4. forme di accordi tra imprese di diversa nazionalità che non prevedono lo

scambio dei rispettivi pacchetti azionari (accordi non equity); 5. semplice esportazione. L'ipotesi prevalente è che solo ai distretti formali ed ai non formali gerarchici siano aperte tutte e cinque le opzioni di internazionalizzazione. Assume così rilevanza il grado di formalizzazione raggiunto dal distretto. Si parlerà così di istituzione formale se il distretto è rappresentabile all'esterno nella sua unità e non più come molteplicità di piccole imprenditorialità, per quanto legate da un tessuto connettivo di vincoli economici e sociali. In caso contrario, avremo un'istituzione informale a limitata autonomia operativa verso l'esterno. Tenendo in debita considerazione i costi e i rischi derivanti da sopportare nella ricerca di economie esterne di tipo internazionale, è opinione diffusa che la formalizzazione sia la via maestra affinché le piccole e medie imprese distrettuali possano consentirsi una presenza internazionale che goda dei vantaggi localizzativi e agglomerativi presenti nei territori d'origine. Sembra però che la via più tipica all'internazionalizzazione praticata oggi dai distretti sia quella della gerarchizzazione, piuttosto che la formalizzazione. Altri fattori, però, possono agevolare il trasferimento/riproduzione internazionale del modello distrettuale. Nell'ipotesi di un'area in un Paese a medio livello di sviluppo, occorre anzitutto verificare che in essa esistano condizioni proto distrettuali, atte ad assicurare che l'innesto del distretto avverrà su un terreno di potenziale accoglibilità e che le imprese del Paese d'origine avranno a disposizione le condizioni per realizzare le economie di agglomerazione su cui si fonda il successo del distretto come modello di sviluppo. Altre variabili da considerare sono le caratteristiche della domanda e dei fattori di produzione. Per la prima si tratta di riscontrare un dinamismo funzionale all'assorbimento della produzione tipica del distretto. Per i secondi, va valutato se la loro qualità, con la priorità di quello umano, rende possibili sviluppi produttivi di tipo x-efficienti5.

5 La teoria dell'x-efficiency di Leibenstein, partendo dall'osservazione degli scostamenti empirici rispetto alla relazione tecnologica tra input e output della

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Il diverso grado di interesse per l'internazionalizzazione, riscontrabile per le imprese appartenenti al distretto e per il Paese destinatario, può essere misurato con un'analisi costi-benefici [Baragani (1996)]: 1. Il distretto.

• Deve sostenere costi di trasferimento, costi di investimento (acquisizione di nuovi impianti e macchinari), costi di sviluppo delle economie esterne indispensabili, costi di qualificazione del fattore lavoro ed infine costi derivanti dal rapporto tra imprese originarie e imprese locali attratte dai vantaggi localizzativi del distretto così innestato.

• Dal lato dei benefici ci sono i minori costi di produzione e commercializzazione, che si riducono ulteriormente quando la penetrazione commerciale interessa mercati protetti e siano superate le barriere all'ingresso.

2. Lo Stato di destinazione. • I costi principali sono generati dalla costruzione di infrastrutture e per

consentire l'adattamento delle istituzioni locali al nuovo paradigma produttivo, fatto quest'ultimo di importanza non secondaria per creare l'atmosfera industriale che agevola i flussi informativi ed i processi di apprendimento on the job. Si aggiungono una maggiore dipendenza dagli operatori stranieri ed eventuali costi finanziari se il Paese destinatario prevede agevolazioni per nuove iniziative industriali nella localizzazione in questione.

• Dal lato dei benefici avremo aumenti nel reddito e nell'occupazione, un miglioramento della bilancia commerciale, introduzione nel Paese di nuove tecnologie produttive, maggiore qualificazione del fattore lavoro, un più elevato grado di x-efficienza per effetto di un migliore sistema organizzativo.

Il saldo costi-benefici può assumere quattro realizzazioni: 1. Entrambi gli agenti realizzano benefici netti. 2. Il Paese ottiene un miglioramento mentre per il distretto i costi sostenuti

eccedono i benefici. In questo caso solo una politica di cooperazione può sostenere e agevolare l'opzione dell'internazionalizzazione evoluta (trasferimento tout court del distretto).

funzione neoclassica di produzione, associa l'efficienza dell'impresa all'azione di variabili non tecnologiche associate al fattore umano (per cui agiscono dei meccanismi di incentivazione sulla discrezionalità dell'impegno manageriale) e al sistema organizzativo (non tutti i fattori sono scambiati sul mercato).

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3. Il distretto ottiene benefici netti mentre il Paese patisce le conseguenze di tale insediamento produttivo. Un modo per superare le conseguenti resistenze è l'attuazione da parte del distretto di una politica di internazionalizzazione che si accolli parte dei costi che lo Stato deve sostenere.

4. L'internazionalizzazione non si realizza essendo sconveniente sia per il distretto che per lo Stato ospitante.

Per sintetizzare, soddisfatte tutte le condizioni indispensabili al successo del distretto come modello di sviluppo in un contesto diverso da quello di origine [Baragani (1996)]: • endogene: grado di tecnologia impiegato nel processo produttivo,

formalizzazione del distretto (che lo proietta all'esterno come entità) • esogene: qualità dei fattori, dinamiche della domanda interna ed

internazionale, maggiore vicinanza a mercati protetti e, soprattutto, esistenza di condizioni proto distrettuali

non ci sono ragioni valide per escludere che l'internazionalizzazione evoluta (il trasferimento tout court del distretto) sia praticabile. Al di la di questo, è chiaro che le tendenze dell'economia globale certamente stanno accelerando i tentativi di internazionalizzazione evoluta sia nei confronti dei Paesi dell'Est Europa che dell'America Latina.

I.3.2 Internazionalizzazione distrettuale: l'ipotesi del distretto simbiotico6

Il paradigma distrettuale prevede che le economie esterne all’impresa ma interne al distretto, come ad esempio una generale e complessiva riduzione dei costi di produzione [Bellandi (1982)], abbiano un ruolo autopropulsivo. Tali economie normalmente assumono i seguenti caratteri: 1. localizzate: poiché operano solo per le imprese dell'area distrettuale; 2. diffuse: non possono essere a esclusiva disposizione di qualche impresa; 3. prevalentemente di stampo manifatturiero; 4. generate inconsapevolmente;

6 Questo nuovo approccio all'internazionalizzazione del distretto è stato sviluppato in Borghesi (2001).

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5. condizionate: da fattori di mercato, istituzionali e tecnologici in buona parte esogeni al distretto.

Non a caso nel dibattito sulle origini dei distretti ci si chiede se, una volta attivato, il distretto riesca a svilupparsi per crescita endogena. Ma ancor prima di questo, una volta che sia verificata l'esportabilità del modello distrettuale (si rinvia al paragrafo precedente), si tratta pragmaticamente di vedere le modalità con cui ciò può avvenire. Su ciò la vasta e complessa analisi distrettuale può essere semplificata, scindendola in due grandi filoni teorici, ognuno dei quali fornisce la propria interpretazione sulle vie percorribili per l'internazionalizzazione del distretto. Le teorie classiche (Marshall, Becattini, Lorenzoni, Mariotti, Varaldo) vedono nel distretto la risposta flessibile alla variabilità dei mercati. Seguendo questa impostazione ne consegue che internazionalizzare le economie distrettuali, senza perdere le conoscenze critiche, è più facile se esiste un'impresa leader che si interpone tra il mercato e le piccole e medie imprese del distretto: in tal modo la volatilità del mercato è almeno in parte filtrata dalla leader. Per l'approccio istituzionalista-cognitivista (Loveman, Sangenberg, Stroper, Harrison, Rullani, Vaccà) il distretto è un sistema di per sé aperto, che può essere competitivo su scala globale assumendo configurazioni al tempo stesso specializzate e flessibili, nonché coordinate da meta-organizzazioni. Quale che sia l'approccio più aderente alle realtà dei nostri distretti, è evidente che nella loro internazionalizzazione si pongono alcune questioni critiche riguardo alcune loro fondamentali determinanti [Ordanini (1995)] 1. Determinanti culturali. Nel trasferimento/riproduzione del distretto si

deve poter contare su un'area di destinazione culturalmente e socialmente omogenea, poiché ciò consente di evitare un mismatch tra variabili socio-culturali e variabili economiche, premessa fondamentale al miglioramento dell’offerta delle imprese distrettuali. Inoltre questa omogeneità consente la creazione di un sistema di interrelazioni che trasmette agevolmente le informazioni.

2. Determinanti di mercato. Il trasferimento/riproduzione del distretto non garantisce che ciò avvenga in una sorta di "terra di nessuno"; più precisamente, distretti di altri paesi potrebbero anch'essi trovare la convenienza ad un'analoga operazione di trasferimento/riproduzione. Se questi si rivelassero omogenei ai nostri, si potrebbe così scatenare una competizione di prezzo tra distretti dello stesso tipo, fatto inusuale nel nostro territorio giacché le forme distrettuali sono quasi sempre eterogenee dal punto di vista dell’offerta e si evolvono in modo differenziato.

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3. Determinanti tecnologiche. La tecnologia disponibile nel Paese di destinazione agevola il trasferimento/riproduzione se consente una scomposizione dei processi in fasi analoghe a quelle riscontrabili nel territorio d'origine. Conta anche la "turbolenza" tecnologica: laddove si possa contare su assetti tecnologici stabili è possibile mantenere a lungo i vantaggi distrettuali. Diversamente gli investimenti necessari potrebbero introdurre nel distretto barriere di entrata (e anche di uscita se la "turbolenza" tecnologica genera i cosiddetti costi irreversibili).

I percorsi operativi di internazionalizzazione delle imprese distrettuali si poggiano essenzialmente sulla loro capacità di adattamento. Sul fatto che questa flessibilità sia piuttosto spinta, molti hanno ipotizzato che per PMI quali quelle del Nord Est la "norma" sia un coinvolgimento internazionale a progressione continua; ciò consentirebbe la gradualità del presidio sui vari mercati esteri. In questa linea di pensiero la scala di internazionalizzazione progressiva si compone di: • esportazione semplice: lo sforzo conoscitivo sui mercati esteri è minimo; • esportazione mediante intermediari: è necessario un più consistente

flusso informativo sui mercati esteri; • apertura di filiali commerciali: il coinvolgimento va oltre i flussi

informativi, richiedendo investimenti strutturali, pur se non così rilevanti come nel caso di delocalizzazione produttiva, ed una politica commerciale ad hoc;

• delocalizzazione produttiva: si raggiunge il massimo grado di coinvolgimento dell’impresa sia in termini di risorse sia in termini di rischio.

Questa tesi dell'espansione internazionale sequenziale è appoggiata da molti [Tookey (1969), Wind, Douglas e Perlmutter (1973), Cunningham e Homse (1982), Bilkey e Tesar (1977), Johanson e Vahlne (1977), Kirpalani (1985)], e porta a ritenere che il progressivo aumento dell'internazionalizzazione è a sua volta consentito da altrettanto progressivo accumulo di conoscenze sui mercati esteri, e può portare l'impresa ad una riorganizzazione interna perlomeno delle strutture interessate dall'attività internazionale. Esiste però una tesi praticamente opposta [Reid (1983), Turnbull e Valla (1986), Turnbull (1992), Varaldo (1992)], che appare più coerente ai processi di internazionalizzazione delle nostre imprese distrettuali. Si tratta dell'ipotesi che l'espansione internazionale sia prevalentemente dettata da motivi contingenti, anche se ovviamente si possono riscontrare progressioni internazionali strategicamente

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programmate. Basti pensare alle motivazioni prevalenti che spingono le nostre piccole e medie imprese alla delocalizzazione internazionale. Dall'indagine ora realizzata (si rinvia al secondo paragrafo del terzo capitolo) prevalgono motivazioni: • inerenti ai fattori produttivi: accesso a fattori produttivi a costi più bassi,

soprattutto riguardo al lavoro; • inerenti al sistema fiscale: trasferimento di parte dei profitti su regimi

impositivi più "leggeri". Non bisogna infatti dimenticare, in ultima analisi, che per una PMI l'accesso stabile e sostenibile ad una dimensione operativa internazionale dipende dall'accumulazione di adeguate conoscenze. Ma il necessario patrimonio informativo quasi sempre si forma in modo sperimentale, cioè mediante "prove dirette sul campo". I timori sull'ipotesi di delocalizzazione di interi distretti non si poggiano tanto nelle trasformazioni indotte nel territorio di origine, quanto sul possibile trasferimento anche delle fasi a maggior valore aggiunto, delle attività di progettazione e di regia complessiva. Nell'affrontare questi timori occorre essere consapevoli che gli attuali processi di globalizzazione richiedono contemporaneamente competenze superiori in fatto di tecnologia e marketing. Se nel distretto non si riscontrano entrambe al livello adeguato, l'evoluzione aziendale arriva ad un bivio: le aziende distrettuali dovranno attivare processi di adattamento per abbinare alle consuete capacità produttive anche quelle tecnico-commerciali tali da poter competere sul mercato globale, oppure, ma non necessariamente si tratta di un'alternativa, ritrovano competitività dal lato dei costi con un'internazionalizzazione evoluta (insediamenti produttivi all'estero). Normalmente le imprese che reagiscono nel secondo modo tendono a delocalizzare in modo tale che se il distretto si riproduce, lo fa in modo pressoché speculare a quello originario, replicando i consueti rapporti distrettuali ed i modelli organizzativi. In questa ipotesi, la definizione che verrebbe data al nuovo agglomerato di imprese è quella di "distretto gemmato". Non necessariamente sarà per sempre interdipendente al territorio d'origine, ma è certo che perlomeno nella sua fase iniziale, sulla cui durata non si possono fare previsioni, avrà bisogno del supporto del distretto di partenza. Il sistema complesso che ne risulta, distretto originario collegato a quello gemmato, costituiscono il "distretto simbiotico". Questa nuova concezione distrettuale sopravviverà se e finché la "gemma" non si evolverà in un distretto del tutto autonomo da quello d'origine. Se è questo il percorso internazionale che prevarrà nei nostri distretti, lo scenario ipotizzabile potrebbe essere il seguente:

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• si supera definitivamente la concezione tipica di distretto fondato su relazioni a base locale; la rete produttiva-informativa prescinde dalla contiguità spaziale;

• nel nostro territorio permane un distretto piuttosto selettivo, che ruota attorno a prodotti di alta qualità e/o a fasi dei cicli produttivi ad elevato valore aggiunto;

• una delle caratteristiche distintive del distretto tradizionale, la "condivisione interna" al distretto stesso, nel simbiotico si attenua.

In ultima analisi, il distretto simbiotico si configura come una sorta di distretto allargato, in cui la componente originaria e quella gemmata sono interconnesse, caratterizzandosi con una rete di relazioni che prescinde dalla contiguità spaziale giacché la sua importanza è drasticamente ridotta dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

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II. L'INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI DISTRETTI INDUSTRIALI TREVIGIANI 7

Nei distretti è riscontrabile una flessibilità interna che fa fluttuare il numero delle imprese a seconda del momento congiunturale; esiste una fascia di produttori marginali che aumentano e riducono l'offerta complessiva a seconda del livello della domanda. In questa fluttuazione si modificano anche i confini fra l'interno e l'esterno del distretto. Le modalità con cui ciò avviene sono sostanzialmente due: • imprese medio-grandi tentano di inserirsi nel distretto per valorizzare i

propri investimenti; • le imprese distrettuali si aprono all'esterno, arrivando anche a

rilocalizzare la propria attività. In questa sede l'attenzione è posta alla seconda modalità, poiché quando l'apertura all'esterno è di tipo internazionale e coinvolge un buon numero di imprese la discussione si sposta dall'internazionalizzazione dell'impresa a quella del complessivo distretto. In questa ipotesi, il cuore del dibattito si divide tra ambito geografico e insieme di relazioni: • l'estensione del primo rafforza il distretto ? • il decentrare le seconde indebolisce il distretto ? Ogni azienda ha motivazioni sue proprie che la spingono a livelli di internazionalizzazione superiori a quello della sola esportazione. Quando questi processi assumono una dimensione distrettuale, è possibile una lettura trasversale di queste determinanti aziendali che normalmente consente la seguente sintesi: • l'internazionalizzazione si concreta in nuove linee di divisione del lavoro,

perseguite come obiettivo strategico; • si sfruttano reti e/o rapporti di collaborazione internazionali per sfuggire

dall'eccesso di concorrenza, e talvolta dalla precarietà, dei mercati interni; • si trasferiscono altrove le proprie conoscenze nel tentativo di specializzarsi

nelle fasi a monte ed a valle del proprio processo produttivo.

7 In questa sede sono riportate risultanze di più ricerche degli autori, non ufficialmente pubblicate. Si ringraziano i dottori S. Munaro, M. Pivato, P. Bordin, F. Barbisan.

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Nei processi di internazionalizzazione dei distretti può modificarsi anche la catena di produzione del valore, poiché accanto alla dimensione quantitativa emerge preponderante anche quella qualitativa. Per semplicità di analisi, volendo schematizzare in modo estremo: • l'internazionalizzazione creerà stabilmente nuovo valore se si poggia su

vantaggi competitivi generati da competenze esclusive (o quasi esclusive), e se l'apertura oltreconfine non è occasionale;

• l'internazionalizzazione rischia di creare vantaggi solo nel breve periodo se si fonda su sbocchi precari ed è sospinta esclusivamente da risparmi sui costi di produzione e di gestione dell'ambiente circostante.

Va anche notato che l'internazionalizzazione del distretto non è un fatto che avviene in blocco con un'unica operazione, ma la risultante finale di molteplici processi di internazionalizzazione attuati dalle singole imprese distrettuali, spesso anche in momenti diversi. Questa constatazione, che appare scontata, in realtà sottende un altro fondamentale ordine di problemi. In questi processi le imprese devono aggiornare e accrescere il proprio patrimonio di conoscenze, nonché cambiare almeno in parte il proprio stile organizzativo, giacché non può contare sul sostegno di un insieme distrettuale che ancora non si è completamente internazionalizzato. Ciò deve avvenire mediante: • formalizzazione di "linguaggi" e procedure che facilitino le

comunicazioni a distanza; • professionalizzazione del lavoro, a qualsiasi livello, atta a gestire

relazioni maggiormente formali; • maggiore propensione ad investimenti immateriali; • uso di servizi specialistici localizzati fuori del distretto. Alla luce di tutto questo, di seguito si vaglieranno brevemente i processi di internazionalizzazione dei distretti trevigiani. II.1 Il distretto della meccanica

Le modalità d'internazionalizzazione del distretto risentono fortemente dei caratteri delle imprese che lo compongono. Queste possono essere inquadrate mediante un identikit ben preciso: • di piccola e media dimensione e molto dinamiche; • spesso i proprietari partecipano in prima persona all'attività produttiva;

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• producono prevalentemente, se non quasi esclusivamente, su commessa; • in pochi casi ricorrono a lavorazioni esterne, raramente integrano la

produzione principale offrendo lavorazioni i conto terzi; • la qualità dell'output è strettamente legata a quella delle materie prime e

dei semilavorati; • i fornitori sono di medie dimensioni e provengono in massima parte dal

Nord Est; • avvertono il bisogno di assistenza in campo amministrativo, fiscale,

per la certificazione di qualità e per i finanziamenti, ma non più del 50% prendono in considerazione l'ipotesi del ricorso a consulenti esterni;

• la propensione all'internazionalizzazione si riscontra nel 70-80% dei casi, ma la maggioranza è scettica sull'utilità strategica dell'internazionalizzazione produttiva;

• ricercano costantemente nuova clientela; • i mercati esteri preferiti sono, nell'ordine, l'Europa centro-settentrionale,

l'Asia, l'America Latina; • predispongono la rete commerciale con metodi piuttosto tradizionali; • sono sensibili alla carenza ed al costo della manodopera, alla scarsità di

risorse finanziarie, alla concorrenza di prezzo; • considerano alla stregua di una minaccia la velocità dei cambiamenti

tecnologici e l'instabilità della domanda; • compiono sforzi per diversificare la produzione e ricercano competitività

soprattutto dal lato dei costi; • considerano insoddisfacenti e poco accessibili gli incentivi pubblici a loro

sostegno, e preferiscono aiuti diretti e mirati. In pratica, si può tratteggiare un'impresa tipica dei settori maturi: organizzata in modo tradizionale, dotata di strategie non molto diversificate, molto sensibile al costo dei fattori, chiusa non solo nella struttura di proprietà ma anche nel ricorso a professionalità esterne. II.1.1 Caratteri pro e contro l'internazionalizzazione

Alcuni dei caratteri prima menzionati meritano attenzione, poiché si rivelano determinanti nei processi d'internazionalizzazione.

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In primo luogo va analizzata la propensione all'internazionalizzazione. Nella maggioranza dei casi, l'apertura all'estero si concreta nella tradizionale attività d'esportazione. I clienti esteri sono localizzabili prevalentemente, ma non esclusivamente, in Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Grecia, Gran Bretagna, ex-Jugoslavia, Austria, Sud Corea, Giappone, USA, Canada, Argentina, Cile, Messico, Sud Africa, Russia, Ucraina; in prospettiva l'interesse viene rivolto anche a Cina, Taiwan, Venezuela, Brasile, Slovenia, Croazia. Tra le imprese che esportano, circa l'80% lo fa regolarmente; quelle che invece esportano occasionalmente lo fanno perché sono i clienti stranieri che le contattano in periodi particolari dell'anno o in determinate occasioni. La quota di produzione esportata è piuttosto variabile: per circa un quarto dei casi non si oltrepassa il tetto del 20%, ma per un altro quarto circa si va oltre il 60%, con imprese che superano l'80%. Nel breve periodo i mercati potenzialmente più interessanti sembrano essere quelli centro-nord europei, mentre nel medio periodo spuntano quelli asiatici e centro-sud americani. Ma ciò che più interessa sono le motivazioni dell'internazionalizzazione, pur se limitata alla semplice esportazione. Nel caso del distretto trevigiano della meccanica sembra avvalorarsi l'ipotesi (discussa nella sezione I.3.2) di un'internazionalizzazione dettata da motivi contingenti piuttosto che da consapevoli strategie implementate con progressività. Infatti nella gerarchia della motivazioni all'internazionalizzazione non prevale l'opzione strategica ma l'esplicita sollecitazione da parte dei clienti esteri; tra l'altro l'opzione strategica è un fattore di internazionalizzazione che prevale di poco su quello dell'eccedenza di produzione da smaltire. Se è vero che la sollecitazione dei clienti esteri rappresenta la principale spinta ad internazionalizzarsi, è altrettanto vero che gran parte delle imprese distrettuali non aspettano che questo. Infatti, come prima evidenziato, sono alla continua ricerca di diversificare la clientela. Il motivo è piuttosto semplice: circa la metà delle imprese intrattiene rapporti commerciali con pochi clienti dominanti; tra queste, nel 60% dei casi8 si tratta addirittura di un solo cliente dominante. Inoltre, al di là della dominanza o meno, in quattro imprese su dieci il cliente più importante copre una quota di fatturato che oscilla tra il 10% ed il 30%, e solo in due imprese ogni dieci il primo cliente non supera il 10% del fatturato. Con questi numeri è chiaro che la strategia di sviluppo non sia la motivazione prevalente all'internazionalizzazione, e che le imprese distrettuali siano molto "ricettive" ai segnali provenienti dai clienti esteri. Il fatto che attivano la rete commerciale con metodi tradizionali può invece essere un freno al processo d'internazionalizzazione. Nonostante i vari servizi a ciò finalizzati sia da soggetti privati che pubblici, la tipica

8 In pratica il 30% delle imprese totali.

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impresa distrettuale sembra attivare il primo contatto mediante la partecipazione a fiere e la missione individuale all'estero. Il ricorso a banche dati internazionali è limitato, quasi assente l'appoggio ad agenzie e forme associative private come anche a strutture pubbliche. Una volta che la rete commerciale estera è attivata, le sue caratteristiche consentono prevalentemente una presenza sui mercati mediante esportazione diretta (80% delle imprese operanti all'estero9); il mercato viene servito prevalentemente mediante agenti e dipendenti venditori, anche se vi sono casi di creazione di proprie filiali commerciali. Molte delle imprese che si affidano all'esportazione diretta ricorrono anche all'esportazione indiretta (60% delle imprese operanti all'estero10); in tal caso si opta comunque per soluzioni organizzative tradizionali, soprattutto agenti plurimandatari e commissionari, mentre piuttosto raro è l'appoggio ad aziende capocommessa ed a trading company, e praticamente assente il ricorso a buyer. Al di là delle forme di esportazione diretta ed indiretta, vi sono aziende, anche se non molto numerose, che tentano la via di forme più evolute per il rafforzamento della propria rete commerciale estera. In particolare, un 10-15% circa delle imprese che operano sui mercati esteri11 ricorrono al franchising, alla selezione del distributore più efficiente, a joint venture distributive. Interessante notare che, oltre alle forme evolute di supporto alla rete commerciale, quasi nelle stesse percentuali12 vi sono imprese che ricorrono a forme evolute per rafforzare la collaborazione industriale. Le maggiori preferenze vanno alla cessione di licenze di produzione, di modelli e disegni, di tecnologia. Meno gettonate sono la cessione di marchi e di brevetti. Però, da quanto dichiarano titolari e amministratori, questa modalità d'internazionalizzazione sembra quella meno preferita, e quindi molto difficilmente potrà condurre all'internazionalizzazione del distretto. I motivi sono ben chiari e precisi: • consente un modesto controllo del mercato estero; • la controparte estera può divenire un pericoloso rivale; • viene scarsamente pubblicizzato il proprio marchio. La ricerca di competitività dal lato dei costi, carattere che sembra abbastanza diffuso nel distretto, è strettamente funzionale all'internazionalizzazione di settori maturi, che soffrono cioè la concorrenza

9 65% circa delle totali. 10 45% circa delle totali. 11 8-11% circa delle totali. 12 10% circa delle imprese che operano sui mercati esteri (8% circa delle totali).

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di prezzo dei paesi emergenti; com'è noto, infatti, tra i settori così definiti ricade la meccanica di tutto il Nord est del Paese. Per le imprese distrettuali la compressione dei costi è fondamentale proprio perché nel contesto appena descritto, nonostante riconoscano il ruolo della qualità e dei servizi accessori al prodotto, sembrano ancora contare sulla politica di prezzo come politica prevalente per vendere all'estero. Il motivo per cui le imprese distrettuali sembrano continuare a puntare così tanto sulle strategie di prezzo, pur nella consapevolezza di agire in un settore maturo, trova origine nella loro convinzione di poter offrire prezzi equivalenti o comunque competitivi rispetto ai rivali (circa il 70-80% delle imprese). La convinzione della propria capacità di aggredire i concorrenti con i prezzi sembra però avere un punto debole, poiché questa valutazione probabilmente si basa soprattutto su paragoni con concorrenti distrettuali e nazionali. Questo ottimismo si accentua ancor più se i prezzi vengono valutati non in confronto ai rivali ma all'immagine del proprio prodotto: in tal caso sono pochissime le imprese che ritengono di praticare prezzi troppo alti (meno del 10%). Infine, per l'internazionalizzazione del distretto sembra essere piuttosto rilevante l'atteggiamento verso i servizi a ciò preposti. In media le imprese distrettuali sono poco soddisfatte di quelli pubblici. I servizi esterni di cui sentono maggior bisogno sono, nell'ordine, la consulenza amministrativa-fiscale, l'assistenza per la certificazione di qualità, l'assistenza per l'ottenimento di finanziamenti, informazioni sulla solidità-solvibilità dei clienti. La consulenza amministrativo-fiscale, il servizio più richiesto, è ovviamente importante ma non determinante nell'apertura ai mercati esteri, dimostrando nel contempo l'esistenza di un "fianco scoperto" negli stessi mercati nazionali. Il desiderio di certificare la qualità del prodotto e/o dei processi da un lato conferma la consapevolezza sulle possibili difese contro i concorrenti dei paesi emergenti, dall'altro lato, però, cozza inevitabilmente contro l'adozione delle strategie di prezzo come principale politica per l'export. Le richieste di consulenza per ottenere i finanziamenti è di per sé positiva, visto le numerose leggi nazionali e comunitarie per il sostegno finanziario all'internazionalizzazione, ma si tratta di una richiesta generica che diviene molto meno pressante qualora sia rivolta specificamente al sostegno finanziario per l'estero. Il bisogno di servizi d'informazione sulla solidità dei clienti dimostra carenze di esperienza e di sistemi aziendali specifici sul problema; si tenga presente che a livello internazionale non sempre esistono garanzie legali per il recupero dei crediti forti tanto quanto le nostre. Inoltre si osservi che servizi specifici di assistenza per i mercati esteri e di promozione dell'export sono i penultimi nella gerarchia delle esigenze delle imprese distrettuali.

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L'impressione complessiva è perciò quella di un processo d'internazionalizzazione distrettuale più subito e determinato da fattori contingenti, che conseguente a precise strategie aziendali. II.1.2 Le imprese non internazionalizzate

Questa visione viene confermata dalla quota di imprese che nemmeno esportano (circa il 20%), modesta se riferita alla situazione nazionale ma rilevante se valutata nello specifico contesto veneto e del Nord Est. Ma ciò che più conta sono le motivazioni che frenano queste imprese, da cui traspaiono ulteriori ostacoli verso un'internazionalizzazione distrettuale tout court. Primeggiano a pari merito la scelta esplicita di limitarsi al mercato nazionale e la produzione non facilmente collocabile all'estero per sue naturali caratteristiche; quest'ultima sembra essere una diretta conseguenza della forte attitudine a produrre quasi esclusivamente su commessa. Dopo queste ragioni seguono, sullo stesso livello, il fatto che ad assorbire la produzione è sufficiente il mercato interno e l'inadeguatezza delle strutture organizzative aziendali. Assume rilievo anche la carenza di dirigenti e quadri con le competenze idonee ai mercati esteri. Infine, ulteriori disincentivi all'internazionalizzazione sono la scarsa conoscenza dei mercati esteri e la loro incertezza, la complessità delle pratiche e procedure. Come si può notare, le ragioni per cui titolari e amministratori adducono alla mancata internazionalizzazione sono in parte contraddittorie, in parte non sono la causa della mancata internazionalizzazione ma l'effetto. Ad esempio, nel momento in cui l'internazionalizzazione è una strategia di sviluppo viene a cadere il motivo del totale assorbimento della produzione nel mercato domestico, poiché se l'internazionalizzazione scatterebbe in presenza di eccessi di produzione allora sarebbe dettata da motivi contingenti e non da una scelta strategica; in altri termini, si dovrebbe decidere se internazionalizzarsi per smaltire produzione oppure internazionalizzarsi per sviluppare la base produttiva. L'inadeguatezza dei caratteri naturali della produzione a renderla esportabile potrebbe riflettere una certa rigidità, o la mancanza di volontà, nell'adeguarsi a standard internazionali. La complessità delle procedure si sta alleggerendo, perlomeno nei mercati dei paesi dell'UE. E ancora, addurre a giustificazioni la mancata conoscenza dei mercati esteri e l'inadeguatezza organizzativa è un'inversione logica del problema: nel momento in cui l'impresa decide strategicamente di espandersi in altri paesi, allora si preoccuperà di conoscerne i mercati e di adeguare le proprie competenze e strutture. In ultima analisi, la vera origine della mancata internazionalizzazione sembra essere più che altro l'inadeguatezza della strategia aziendale. E

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laddove l'avversione per l'estero non è imputabile all'assenza di specifiche strategie allora sembra collegabile a inefficienze legate alla piccola se non piccolissima dimensione. A modesti livelli dimensionali, infatti, nel distretto sembrano più diffusi i timori di minacce provenienti dai mercati esteri che non la percezione di opportunità di crescita. Si temono in particolare il mancato rispetto dei termini di pagamento, il rifiuto delle consegne adducendo motivi svariati ed imprevedibili, la scarsa conoscenza delle abitudini contrattuali del cliente: a ben vedere, queste "paure" riflettono la scarsa attitudine ad operare al di fuori dei legami tipicamente distrettuali. Ma non basta, queste imprese tendono ad isolarsi, confidando solo sulle proprie forze, giacché temono che la partecipazione a forme associative, ad alleanze ed a consorzi porti con sé il rischio di "aprire le porte" ad aziende altrimenti rivali che successivamente potrebbero assumere atteggiamenti free riding finalizzati ad estrometterle dal mercato. II.1.3 L'internazionalizzazione produttiva

Non ci si deve quindi stupire se la presenza internazionale mediante una vera e propria internazionalizzazione produttiva, alla fine degli anni '90 poteva essere presa in considerazione da non più del 5-6% delle imprese distrettuali. I trasferimenti internazionali di capacità produttiva portati a termine, di cui si ha notizia certa, sono rintracciabili in una varietà di paesi: Romania, Bulgaria, Slovenia, Ungheria, Egitto, Sud Africa, Argentina, Venezuela, Germania, Gran Bretagna, Francia. Le specifiche motivazioni non sono state omogenee. Ad esempio: • Sud Africa, Ungheria, Venezuela: vantaggi doganali e fiscali; • Slovenia: costo del lavoro e acquisto di materie prime in compensazione; • Argentina: costo del lavoro e vicinanza a nuovi mercati; • Egitto: vicinanza a nuovi mercati. Tutto sommato, nel distretto l'internazionalizzazione produttiva non sembra essere un'opzione così considerata, valutata e percorsa come invece lo è, in media, nel Nord Italia. Le imprese che hanno un atteggiamento negativo nei confronti di questa strategia aziendale, che allo stato attuale sono ancora la maggioranza, trovano ostacoli relativamente a:

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• disponibilità di manodopera nei paesi di destinazione, idonea a gestire macchinari anche tecnologicamente avanzati; ciò addosserebbe all'impresa elevati costi di formazione e addestramento;

• in alcuni casi, le caratteristiche intrinseche del prodotto rendono la sua produzione difficilmente decentrabile al di fuori del distretto;

• indipendentemente da questo, vi sono comunque difficoltà a gestire una produzione decentrata;

• la dimensione economica dell'azienda non è adatta a sopportare i rischi addizionali che questa soluzione produttiva comporta;

• per prodotti di tipo ingombrante i costi di trasporto sono notevoli. Le imprese distrettuali che invece considerano positivamente l'internazionalizzazione produttiva sono mosse dai seguenti stimoli: • ritengono che i prodotti di fascia medio-bassa saranno comunque

realizzati nei PVS; • considerano questa opzione come uno strumento per la ricerca di mercati

di lungo periodo; • individuano risparmi fiscali e sul costo del lavoro; • molti dei paesi destinatari sono dei potenziali mercati piuttosto

interessanti. L'apertura al decentramento produttivo, però, non è minoritaria soltanto nel numero di imprese ma è anche modesta nei numeri. Più della metà delle imprese potenzialmente disposte a delocalizzare non trasferirebbero più del 10% della produzione, solo un quinto andrebbero oltre il 20%. Con particolare riferimento alla possibilità di conseguire economie nei costi dei fattori, le imprese favorevoli all'internazionalizzazione produttiva ritengono (a torto od a ragione) che esista un buon rapporto tra costo del lavoro e capacità di lavoro in Slovenia, Romania, Bulgaria e negli altri paesi dell'Europa dell'est, Brasile, Argentina, Cile, India, Cina, Sud Corea, Taiwan, Singapore, Malesia, Indonesia, Hong Kong, Turchia, Sud Africa. Se si considerano anche variabili diverse dal costo del lavoro, per il futuro l'interesse al decentramento sembrerebbe confermato su alcuni dei paesi prima menzionati ma anche su paesi comunitari: • Argentina, Cile e Austria: vicinanza a nuovi mercati e vantaggi fiscali; • Brasile: vicinanza a nuovi mercati e costo del trasporto;

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• Bulgaria: vicinanza a nuovi mercati, vantaggi fiscali, costo dell'energia; • Spagna: vicinanza a nuovi mercati, costo delle materie prime, vantaggi

fiscali. II.1.4 Prospettive future

Alla luce di tutto questo, quale futuro si prospetta per l'internazionalizzazione del distretto ? Delle imprese che nemmeno esportano si è già detto (si rinvia alla sezione II.1.2). Considerando solo le imprese che hanno sperimentato una qualche forma d'internazionalizzazione, l'opinione prevalente è che il rafforzamento della presenza sui mercati esteri si scontrerà con problemi strutturali sia esterni che interni all'azienda, nonché problemi organizzativi. Tra i problemi strutturali esterni che più fanno temere per il futuro si ritrovano temi ben noti: la disponibilità di manodopera qualificata e di risorse finanziarie. Tra i meno temuti invece vi sono carenze delle subforniture, delle infrastrutture di trasporto e comunicazione, dei servizi avanzati. I problemi strutturali interni all'azienda sembrano essere più numerosi. Tra questi prevalgono la reattività dell'impresa all'evoluzione tecnologica ed all'instabilità della domanda. I meno preoccupanti sono l'insufficienza di risorse gestionali ed i limiti di capacità produttiva degli impianti. Tra i problemi organizzativi dell'azienda spiccano le capacità di gestione del personale e lo sviluppo dei prodotti, mentre non sembra preoccupare la capacità di accedere a nuovi mercati. In realtà, al di là di problemi strutturali e organizzativi, le imprese distrettuali intravedono anche altri ostacoli al loro decollo internazionale. Temono, ma non in modo determinante, la logistica distributiva, l'assenza di referenti amministrativi e istituzionali, l'assistenza per tutti gli adempimenti richiesti. Creano tensione, invece, l'affidabilità degli agenti/distributori e dei partner esteri, le certificazioni di qualità richieste. Si tratta di sfide non indifferenti che il processo d'internazionalizzazione distrettuale in qualche modo dovrà vincere. Anche in questo gli imprenditori della meccanica hanno le idee chiare su quali saranno le possibili vie da percorrere. Le prime tre soluzioni sono, nell'ordine, la completa ristrutturazione organizzativa, l'accelerazione nello sviluppo dei prodotti, le economie nei costi. Successivamente si confida su un maggior ricorso alla subfornitura ed alla cooperazione con altre imprese su ricerca e innovazione. Poco considerate, invece, appaiono forme di cooperazione in marketing.

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II.2 Il distretto del tessile-abbigliamento L’industria dell’abbigliamento ha attraversato diverse fasi dello sviluppo. Fino agli anni '60 nel settore operavano molte imprese verticalmente integrate, gli anni '70 sono stati caratterizzati da un intenso fenomeno di decentramento produttivo a piccoli laboratori artigiani nazionali, dalla seconda metà degli anni '80 il decentramento si è rivolto all’estero. L’industria dell’abbigliamento trevigiana presenta una struttura disomogenea, una forte bipolarizzazione tra piccole e medio-grandi imprese, caratteri di frontiera rispetto ai processi innovativi, alle correnti commerciali ed alla stessa razionalità di impiego dei fattori produttivi. È dunque una realtà assai dinamica, pervasa da una miriade di piccole e medie imprese, operanti in un ambiente di lavoro fatto di routine e di ritmi quasi insostenibili di lavoro. Data la varietà riscontrabile, il miglior identikit delle imprese distrettuali è probabilmente il seguente: • producono prevalentemente maglieria esterna; • di piccole e medie dimensioni: dipendenti che difficilmente superano i

70-80 (in media 30-40), fatturato quasi sempre oscillante da 3-5 miliardi a 10-11 miliardi;

• produzione sia per conto proprio che per conto terzi; • chi produce prevalentemente per conto terzi ha una dimensione in termini

di addetti pari a circa la metà di quello dei produttori per conto proprio; • le diversità tra conto proprio e conto terzi non sono solo dimensionali, ma

anche organizzative (struttura più o meno complessa) e produttive (numero e tipologia di fasi produttive interne e decentrate, posizione occupata dall’impresa all’interno della filiera produttiva, ecc.);

• quasi tutte le imprese acquistano direttamente i materiali da fornitori accuratamente selezionati, quasi esclusivamente di provenienza del Nord Italia; soprattutto per la produzione di capi di abbigliamento di fascia medio-alta è strategico avere fornitori molto qualificati perché ciò è garanzia di qualità;

• struttura giuridica prevalentemente orientata alla responsabilità patrimoniale illimitata (aziende individuali e società di persone perlomeno nel 70% dei casi); questa impostazione giuridica fa pensare, anche per questo distretto, la dominanza di un’impresa a conduzione sostanzialmente familiare, quindi chiusa nella struttura di proprietà e nel ricorso a competenze manageriali esterne.

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II.2.1 L'internazionalizzazione distrettuale Si tratta di imprese che già da alcuni anni hanno avviato un processo di riorganizzazione produttiva, affiancato dal tentativo di diversificar la committenza. Il distributore estero non raramente è carente dal punto di vista tecnico, e quindi cerca un produttore molto competente, affidabile nei tempi di consegna, flessibile ma soprattutto attento ai servizi (cura della qualità, realizzazione del campionario, controllo dei capi). È noto che le imprese distrettuali hanno una forte propensione all’export. Il mercato tedesco continua ad essere uno degli sbocchi più importanti, seguito dalla Francia, dal Benelux, dagli USA, dalla Gran Bretagna. Il conto proprio conclude buoni affari anche con il Medio e l’Estremo Oriente, in particolare con il Giappone e Hong Kong. Per la maggior parte delle imprese la rete commerciale internazionale non è stata una decisione strategica (di marketing) ma il frutto di contatti alle fiere di settore, con la conseguente richiesta proveniente dai clienti esteri. Soprattutto il conto terzi non ha varcato "con le proprie gambe" i confini regionali e nazionali ma è stato direttamente contattato da altre aziende. Questa latitanza di strategie, però, ha dei risultati positivi. Infatti il cliente estero preferisce contattare direttamente il produttore trevigiano per poter ottenere, visto il rapporto di fiducia che si instaura, una maggior garanzia di qualità del capo, di conformità alle sue richieste ed il rispetto dei tempi di consegna. Dall’altra l’impresa si assicura un rapporto continuativo nel tempo, di reciproca fiducia, e soprattutto pagamenti certi a scadenza. Riguardo alle modalità per collocare i propri prodotti all’estero, le vendite effettuate direttamente dall’Italia, oltre a quelle realizzate tramite grossista, rappresentano forme considerate molto importanti per l’internazionalizzazione delle propria azienda (indipendentemente dalla fascia di fatturato). Seguono poi le vendite realizzate con proprie forze di vendita all’estero. Solo dopo si prendono in considerazione le altre possibili modalità di inserimento nei mercati esteri: la cessione di marchi, licenze o brevetti, le vendite attraverso forme consortili, l’istituzione di stabili unità di vendita all’estero, la costituzione all’estero di società con partner stranieri o italiani. Le imprese che operano per conto proprio hanno compiuto notevoli passi per cercare di diversificare il prodotto a seconda dei gusti del consumatore e dei mercati esteri e nazionali serviti. Nonostante questi sforzi di orientamento al cliente e l'attenzione all’evoluzione dei suoi gusti ed alle sue esigenze, l’attività di marketing non sempre è presente: purtroppo mancano ancora le necessarie risorse economico-finanziarie e gestionali. Lo strumento di marketing internazionale più utilizzato, infatti, è ancora la pubblicità, veicolata e diffusa non sui mass media ma nelle fiere di settore. Le politiche

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di prodotto sono presenti, ma non in modo tale da poter dire che nel distretto l'orientamento al cliente è la politica aziendale che prevale; ancora una volta, il principale ostacolo è la mancanza di risorse economico-finanziarie e gestionali. Per quanto riguarda i servizi all'internazionalizzazione, alla loro fruizione sembrano frapporsi due tipi di ostacoli. Il primo è rappresentato dalla mentalità e dalla cultura diffuse all’interno di queste aziende, il secondo dal fatto che molti servizi sono ritenuti eccessivamente costosi oppure sono poco costosi ma di qualità scadente. In generale le aziende esprimono i seguenti bisogni: • informazioni sui mercati esteri; • informazioni su solidità/solvibilità clienti; • ricerca clienti; • promozione di intese; • ricerca di interpretariato; • promozione e marketing per l’estero. Più della metà delle aziende ricorrono abitualmente ad organismi pubblici o alle associazioni di categoria, ma prevalentemente per ottenere soprattutto informazioni sui mercati esteri. Molto più raro è invece il ricorso a strutture private probabilmente per l’onerosità dei costi. Non a caso uno dei punti deboli dell’impresa minore distrettuale sta nella capacità di avviare e gestire contatti con attori economici che, per diverse ragioni, possono ricoprire un ruolo importante nel loro processo di internazionalizzazione. Le difficoltà ad internazionalizzarsi sono legate anche alla mancanza di risorse umane per gli adempimenti fiscali e normativi relativi al paese di interesse, ma anche all’organizzazione logistica, nonché all’impatto economico-finanziario dei dazi e dei trasporti. La motivazione prevalente che spinge le aziende ad uscire dai confini nazionali può essere semplicemente "occasionale", nel senso che i mercati esteri fungono da serbatoio di domanda per lo smaltimento dei prodotti rimasti invenduti a causa di un negativo andamento delle vendite nazionali13, oppure la presenza all’estero si configura come un’opportunità colta senza però necessariamente rappresentare una strategia aziendale. Alla fine degli anni '90, infatti, l’internazionalizzazione veniva ancora vista come il risultato di opportunità che si sono presentate o come il frutto di contatti avviati (quasi sempre in occasione di fiere) che non come una precisa strategia finalizzata a: 13 Cosa effettivamente avvenuta nelle fasi più buie degli anni '90.

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• sottrarsi a una concorrenza troppo forte ed emulare rivali già presenti all’estero;

• sfruttare le economie di scala o competenze distintive. Questo spiega, almeno in parte, perché ci sia una così elevata propensione nei confronti delle modalità di presenza all’estero meno impegnative e più flessibili. È pur vero, però, che si sta diffondendo la scelta dell'internazionalizzazione produttiva come impostazione strategica dell’impresa. Quando ciò accade, viene meno la coerenza di forme di internazionalizzazione mediate (la vendita attraverso terzi) o poco stabili (vendite dirette occasionali). II.2.2 L'internazionalizzazione produttiva: una necessità o una

strategia vincente ? L'internazionalizzazione produttiva è una strategia emergente, ma non ancora prevalente. Tra i motivi principali, ad esempio, le piccole imprese distrettuali avvertono difficoltà nel controllo della produzione, di accesso al territorio, insomma tutti problemi legati più che altro alla loro dimensione e capacità contrattuale. Più in generale, probabilmente mancano informazioni sufficienti sulle diverse opportunità che i diversi paesi offrono o più semplicemente mancano gli stimoli che tutti vedono ma che evidentemente non sono ancora così sentiti. L'internazionalizzazione produttiva sembra avere maggiori sviluppi nel lungo periodo. Non poche imprese, infatti, la considerano come uno strumento inevitabile per continuare a sopravvivere nel settore. È diffusa la convinzione che il decentramento di alcune fasi della produzione all’estero se è strategico lo è soprattutto come successiva possibilità di esportare sul mercato locale e nelle aree limitrofe. Chi è ostile al decentramento estero anche nel lungo periodo, ha motivazioni pressoché uguali indifferentemente al fatto che produce per conto proprio o per conto terzi. Fra le più comuni si riconoscono la difesa dell’occupazione il bisogno di manodopera altamente qualificata, la salvaguardia del "Made in Italy". Certo l'internazionalizzazione produttiva è sentita in maniera più pesante dai conto terzi perché si vedrebbero espropriare la maggior parte delle commesse; è proprio sul mercato delle lavorazioni in conto terzi che la pressione competitiva è divenuta assai aspra. E non c’è dubbio che il trasferimento produttivo a subfornitori localizzati fuori dai confini regionali e nazionali spieghi buona parte della riduzione occupazionale registrata

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dall’industria di abbigliamento. Tuttavia la motivazione della mancanza nei PVS di manodopera specializzata sembra non molto razionale perché, per quanto riguarda la qualità dei capi prodotti e della manodopera locale, non è che la discriminante sia l’Italia oppure l’estero: nel sud-est asiatico oppure nel nord-Africa vengono prodotti degli articoli che portano le griffe più prestigiose d’Europa. Alla luce di queste considerazioni, le fasi del ciclo produttivo che nel medio e lungo periodo rimarranno in Italia sono quelle dello sviluppo dei campionari, della gestione delle relazioni con la clientela e del controllo della produzione. Le fasi invece più facilmente delocalizzabili sono la confezione, lo stiro e il taglio, ossia quelle a più basso valore aggiunto ed alta incidenza di manodopera. La delocalizzazione internazionale nel distretto nasce certamente come tentativo di contenere i costi di produzione. Va detto, però, che i margini di convenienza nel portare la produzione all’estero sono assai inferiori a quello che i differenziali fiscali e di salario potrebbe far pensare. Su quest'ultimo aspetto, il tentativo sarebbe giustificato giacché nel settore dell’abbigliamento l'incidenza può raggiungere e superare il 40% del valore aggiunto; e infatti la maggior parte delle imprese che rilocalizzano la produzione lo fanno in paesi dell’Est europeo (Romania ed Ungheria), nel nord Africa (Tunisia e Marocco) o in Estremo Oriente (Cina, India, Corea), dove il costo del lavoro è sensibilmente più basso di quello italiano14. Il dubbio, però, nasce dal fatto che nei potenziali paesi di destinazione la produttività è più bassa ed il costo di coordinamento è elevato. Nei paesi dove le imprese distrettuali stanno trasferendo la loro produzione i salari tendono a recuperare terreno con una certa velocità, e ciò va a ridurre il differenziale di costo. Taiwan ed Hong Kong, ad esempio, attualmente non sono più citate come aree di produzione con costo della manodopera particolarmente basso. I salari sono destinati a crescere sempre più anche in alcuni paesi dell’Europa dell'est, come la Repubblica Ceca e la Romania. Al di là di queste motivazioni, per questo settore l'internazionalizzazione produttiva acquisterebbe in razionalità pensandola come strumento di presenza diretta sui mercati esteri più lontani, se non addirittura come modo per ovviare alla maturità dei mercati europei. Vi sono anche altri aspetti su cui testare l'opportunità di questa strategia:

14 Per citare qualche dato, circa alla metà degli anni '90 il costo orario del lavoro per l’Italia oscillava in media tra le 17000 e 19000 lire, per la Tunisia ed il Marocco non superava le 3000 lire, e non arrivava a 1000 lire per la Cina.

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• la riduzione nei costi di trasporto e la diffusione di reti telematiche contribuisce certamente ad allentare il vincolo logistico legato alla distanza;

• si sta diffondendo l'opinione che se da un lato l'internazionalizzazione produttiva aumenta la pressione sull'occupazione, dall’altro consente un aumento del valore aggiunto per addetto e del salario medio;

• proprio perché sono le lavorazioni a più basso valore aggiunto ad essere decentrate, questa strategia cambia la composizione della forza lavoro nel distretto, aumentando la richiesta di figure professionali più qualificate in grado di svolgere funzioni di organizzazione e di controllo della produzione;

• la mancanza di stabilità del quadro legislativo (e a volte politico) tende ad aumentare il fattore rischio nella valutazione degli investimenti esteri;

• l'offerta di lavoro sostenuta dall’immigrazione extra-UE limita la convenienza a decentrare internazionalmente;

• la continua frammentazione della domanda (che richiede lotti produttivi "corti" e circuiti di risposta brevi) e le produzioni che richiedono la vicinanza tra fornitore e committente, sono altri fattori che possono ostacolare la decisione a decentrare oltreconfine.

Il fatto di trasferire fasi o addirittura la totalità della produzione all’estero è stata peraltro una necessità che i principali concorrenti esteri dei nostri distretti, Germania e Francia, hanno intrapreso ormai da molto tempo. In Germania più dell’80% dell’abbigliamento femminile viene importato15. In Francia le imprese hanno concentrato la loro attività sul design e nei presidi commerciali, decentrando la produzione nei paesi a basso costo del salario situati in Africa e America Latina. L’industria dell’abbigliamento britannica ha notevolmente investito all’estero, sia in operazioni commerciali sia produttive, in particolare nell’area del Commonwealth, attraverso trading companies e buying offices, arrivando a controllare una quota rilevante dei mercati dell’Estremo Oriente. Nel complesso, i competitori europei delle nostre imprese distrettuali hanno sviluppato da tempo e con efficacia una strategia di internazionalizzazione che permette di unire l’obbiettivo della penetrazione dei mercati dei paesi avanzati con la capacità di sfruttare i vantaggi propri dei paesi a basso salario, sia attraverso lo strumento delle varie forme di

15 Tra le prime aziende ad andare all’estero vi sono state quelle tedesche che, molto prima di quelle italiane hanno dovuto risolvere sia il problema del costo della manodopera sia la reperibilità della stessa.

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subfornitura sia attraverso il controllo, almeno parziale, delle esportazioni dei paesi emergenti a cui hanno fornito tecnologie. Dove aziende italiane anni dopo sono ritornate in Italia, lamentandosi e riconoscendo che non era possibile produrre in loco, in quegli stessi posti i tedeschi producevano e con molto successo. Quale lezione si può trarre ? Probabilmente non era la qualità della manodopera locale il fattore di insuccesso quanto l’incapacità iniziale delle nostre aziende di riuscire a far esprimere la qualità che serviva, perché non hanno avuto la costanza di rimanere, non hanno creduto di investire in persone e strutture logistiche in maniera sufficiente a garantire un buon risultato. Non a caso gli accordi di produzione vera e propria stipulati dalle imprese distrettuali appaiono minoritari, anche perché si preferisce ancora scommettere sulla qualità dei capi "Made in Italy". Le imprese intervengono generalmente sull’organizzazione della produzione all’estero senza controllarla, poiché le intese sono realizzate ricorrendo a "forme deboli". È anche vero che nella seconda metà degli anni '90 è cresciuto l'interesse per joint-venture, ad esempio, in Slovenia, Croazia e Repubblica Ceca. II.2.3 Prospettive future

Sembrano essere positive, giacché gli sforzi di penetrazione attuati da molte imprese dell’abbigliamento su alcuni mercati lontani hanno consentito: • di far conoscere ed apprezzare il "Made in Italy" anche nelle modalità

produttive; • di creare proficue collaborazioni con le reti distributive locali. Il merito va attribuito a grosse entità come Benetton, Stefanel e Fashion Box, poiché difficilmente la piccola e media impresa, singolarmente considerata, è in grado di affrontare autonomamente le spese necessarie a rendersi visibile sui mercati più lontani, sopportare la rischiosità dell’investimento, gestire i tempi non brevi di risposta del mercato. L’affermazione di un marchio in paesi sempre più lontani e spesso difesi da barriere protezionistiche richiede infatti alle imprese sforzi rilevanti, di natura sia economica che conoscitiva, legati all’acquisizione di informazioni sui gusti dei consumatori locali, alla creazione di legami con le reti distributive, oltre alle necessarie spese per promozione e pubblicità (in particolare fiere e momenti di incontro).

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Le sfide e gli aspetti critici che le imprese distrettuali vedono profilarsi nei processi di internazionalizzazione divergono a seconda si tratti di produttori in conto proprio o contoterzisti. I primi temono di più: • i rapidi cambiamenti della domanda • l’esigenza di migliorare costantemente la qualità • la carenza di risorse finanziarie • i costi del personale mentre invece temono molto meno: • la consistenza delle proprie risorse gestionali • lo stato delle infrastrutture • la disponibilità di servizi locali • la capienza della capacità produttiva. I contoterzisti sono preoccupati da: • l’insufficiente grado di presenza all’estero • la concorrenza di prezzo • l’emergere di marchi competitori a quelli dei loro committenti e temono meno: • i costi del personale • la disponibilità di servizi locali. Alla flessibilità quantitativa come risposta alle variazioni improvvise della domanda, si imporrà una flessibilità qualitativa che dipenderà da maggiori competenze e capacità organizzative, soprattutto per produzioni di qualità elevate. Questo tipo di flessibilità richiede da parte dei lavoratori e della direzione aziendale una grande versatilità (in termini di skill e di organizzazione). Molte imprese distrettuali già detengono entrambe queste due facce della flessibilità, al prezzo di anni di addestramento e formazione della forza lavoro, nella consapevolezza che l’aumento della cultura tecnica e organizzativa sia indispensabile. II.3 Il distretto della calzatura

Nonostante le varietà tra le imprese del distretto, è possibile tracciare l'immagine di una impresa-tipo:

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• produce calzature prevalentemente sportive; • quasi sempre è stata fondata da un unico individuo, e solo raramente da

due o tre soci legati da vincoli di parentela; tra questi, la presenza di soggetti esterni alla famiglia è da considerarsi del tutto eccezionale;

• il governo rimane una prerogativa del fondatore, di un suo erede o di un parente stretto;

• persino nel personale direttivo è trascurabile la presenza di soggetti non appartenenti alla famiglia imprenditoriale;

• il livello di scolarità degli addetti non è tra i più elevati; • producono sia per conto proprio che per conto terzi. Si è quindi in presenza di una piccola e media impresa più che in linea con la tradizione veneta che, come già rilevato per il distretto della meccanica, essendo organizzata in modo tradizionale, non particolarmente spregiudicata sul piano strategico e molto chiusa sia nella struttura di proprietà che nel ricorso a professionalità esterne, sopravvivrebbe con difficoltà in ambienti produttivi tecnologicamente e commercialmente maturi. Per questo distretto non si può dire che il decennio appena concluso sia stato un periodo estremamente positivo. Alcuni momenti di crisi hanno parzialmente rivisto gli assetti interni al distretto, fatto tra l'altro già sperimentato prima degli anni '90. La domanda che esperti del settore ed imprenditori ora si pongono è se, visti gli attuali rapporti produzione-esportazione, nell'immediato futuro si possa delineare un nuovo periodo rigoglioso per le imprese distrettuali. La risposta a questa domanda dipende strettamente dalla propensione all'internazionalizzazione, soprattutto a quella produttiva. Ma non solo, poiché tra i vincoli allo sviluppo distrettuale emersi nel recente passato spicca un atteggiamento di forte individualismo, inusuale in ambito distrettuale, che risulta di forte ostacolo all'attivazione d partnership con altri imprenditori locali ed a maggior ragione con quelli esteri. II.3.1 Caratteri pro e contro l'internazionalizzazione

Al di là di questo, andando a considerare i fattori ed i caratteri distrettuali che possono influire sull'internazionalizzazione, si possono scorgere segnali contrastanti. Si pensi ad esempio al tipico "tallone d'Achille" di un settore maturo: l'innovazione. Negli anni '90, se da un lato circa tre quarti delle imprese hanno introdotto nuovi prodotti e/o nuove metodologie produttive, o perlomeno hanno compiuto sforzi in tale direzione, dall'altro lato

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difficilmente si può individuare in queste aziende una funzione di ricerca e sviluppo ben strutturata, con specifiche risorse umane e finanziarie appositamente dedicate. Per quanto riguarda le prime, infatti, tale attività sembra essere ancora una prerogativa quasi esclusiva dell'imprenditore stesso; per le seconde, nel migliore dei casi il budget sfiora il 5% del fatturato. Questa situazione sembra avere origini soggettive e oggettive. Tra le prime si segnala la mentalità imprenditoriale che, nonostante la volontà di introdurre innovazioni, è paradossalmente poco propensa alla sperimentazione di nuove tecnologie; sembra quasi si voglia legare la capacità innovativa a iniziative individuali ed a capacità "manuali". Tra le seconde occorre rilevare che si tratta di processi produttivi molto maturi, quindi terreno poco fertile per nuove innovazioni decisive e poco suscettibili di ulteriore automazione; inoltre la modesta dimensione d'impresa scoraggia da ingenti investimenti in tal senso. A parte i casi di aziende internazionalmente note, la maggioranza delle imprese distrettuali ritiene di possedere marchi ad immagine medio-bassa. È diffusa la consapevolezza che la forza del marchio sia un adeguato veicolo di commercializzazione, soprattutto oltreconfine. L'attività di selezione dei fornitori è accurata e meticolosa, e ciò può essere paradossalmente un disincentivo al decentramento nell'Europa dell'est, nei PVS o nei NICS; ovviamente non in sé per sé, quanto per le sue motivazioni: la qualità finale del prodotto finito è intrinsecamente legata alla qualità dei materiali e dei componenti. Proprio per questo motivo i fornitori sono in prevalenza nazionali; le imprese distrettuali sembrano rivolgersi all'estero solo per alcuni materiali e componenti, come ad esempio i poliuretani (Germania) e le tomaie (Ungheria, Croazia). Gli imprenditori distrettuali non sono molto fiduciosi dei servizi pubblici all'internazionalizzazione, ritenendo che oramai operatori vi sono privati che si dimostrano più specializzati, con personale più competente, veloce e paziente nel seguire i casi specifici. Ai fini di una internazionalizzazione più spinta le imprese sentono la necessità di informazioni su specifici campi; i servizi più richiesti sono, nell'ordine, i seguenti: • informazioni generali sui mercati esteri • consulenza valutaria16, finanziaria, doganale • trasporti • creazione di strutture comuni per la vendita oltreconfine • informazioni sulla solvibilità dei clienti

16 L'Euro azzera le problematiche valutarie solo in ambito UE, e le spinte all'internazionalizzazione produttiva si dirigono, com'è noto, altrove.

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mentre i meno gettonati sono servizi di interpretariato e la ricerca di clienti. La disponibilità ad attivare accordi e alleanze, più in generale qualsiasi forma di partnership per l'estero, è piuttosto modesta. Circa un quarto degli imprenditori valuta con interesse l'opportunità di integrare la propria opera con quelli di altri imprenditori. Il fatto che gli altri tre quarti la ritengono un'opzione difficilmente realizzabile (circa la metà degli imprenditori) se non addirittura dannosa (il restante quarto), è dovuto ad una serie di concause. Innanzitutto il già citato individualismo unito al timore di non trovare partner all'altezza, ma anche la convinzione che nei nuovi contesti globali la piccola e piccolissima dimensione non costituisca un grosso problema. Ciò nonostante già a partire dalla metà degli anni '80 sia apparso chiaro che nel distretto si instaurava una relazione diretta tra economie di scala e concentrazione settoriale. Ma il voler puntare a tutti i costi sulla piccola dimensione anche negli attuali scenari è un atteggiamento miope per un secondo ordine di motivi: i vantaggi di scala si sono evoluti, evidenziandosi non solo nei costi unitari di produzione ma anche nel marketing, nella ricerca e sviluppo, nell'organizzazione distributiva. Su questo aspetto, però, il distretto non sembra presentare una chiusura netta e irrevocabile, poiché si può cogliere qualche segnale positivo. Sembrano infatti trovare maggior credito le seguenti ipotesi di integrazione: • partecipazione ad una società creata ad hoc e dotata delle necessarie

risorse umane e finanziarie per gestire le politiche commerciali e la comunicazione;

• attivare sinergie con aziende che svolgono attività affini e non concorrenti;

• attivare forme di centralizzazione degli approvvigionamenti esteri. II.3.2 Modalità tradizionali d'internazionalizzazione

Non c'è da stupirsi se la quota di produzione esportata possa raggiungere e superare anche l'80%. Storicamente i mercati più serviti sono stati quelli europei perché il tipico imprenditore distrettuale considerava fondamentale la vicinanza geografica: questa infatti, com'è noto, consente la riduzione dei rischi e dei costi legati al trasporto, alla distribuzione ed al servizio al cliente. Alle prime fasi dell'internazionalizzazione distrettuale questa logica per scegliere i mercati era del tutto naturale, giacché in realtà ancora non si poteva parlare di internazionalizzazione ma di semplice esportazione senza alcun orizzonte di medio periodo.

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Oggigiorno la distanza geografica assume un'importanza relativa, e prova ne è il fatto che tra i primi dieci mercati del distretto si sono da lungo tempo inseriti quello statunitense e quello della penisola arabica, mentre tra i primi venti si conta anche il mercato giapponese, canadese e quello di Hong Kong. Dopo questa seconda fase dell'internazionalizzazione distrettuale se n'è aperta una terza di carattere bivalente: • da un lato l'emergere della concorrenza dei produttori brasiliani e del sud-

est asiatico; • dall'altro lato una nuova forte trazione per l'export proveniente dalla

penisola arabica, dall'Europa dell'est, dall'Australia. Attualmente il distretto serve una serie di mercati che costituiscono un ampio spettro geografico, che non è uno scenario casuale ma la risultante da un lato di una precisa strategia di diversificazione e dall'altro della stagionalità della domanda. Si ricordi che nel distretto prevale abbondantemente la calzatura sportiva, la cui domanda, a parte rari casi, è ovviamente legata anche a fattori climatici; ed ad ogni modo il clima è fondamentale anche per la calzatura non sportiva. La strategia di un'ampia diversificazione geografica sembra spingere verso un'internazionalizzazione più spinta del distretto. Essa infatti non solo segue il naturale svolgimento stagionale, ma è utile anche per: • ridurre i rischi d'impresa, poiché comunque si tratta di una forma di

diversificazione; • consentire volumi di vendita superiori, fatto vitale per conseguire

economie di scala per calzature di sport con modesto numero di praticanti e/o basso tasso di sostituzione.

La diversificazione geografica alla fin fine appare quasi come una scelta obbligata, ma non si deve però pensare che sia praticata in modo indiscriminato e irrazionale. Vi sono segnali che le aziende distrettuali la vagliano attentamente, tenendo in debita considerazione la realtà produttiva, commerciale e distributiva dell'impresa, ma anche e soprattutto i rischi e le opportunità del paese oggetto di attenzione; in particolare, come per qualsiasi altro bene di consumo, si valuta non solo il livello del reddito pro-capite ma anche l'equità della sua distribuzione17.

17 Ovviamente non c'è nulla di etico in questo, ma soltanto il desiderio di evitare mercati con reddito pro-capite elevato che però a livello assoluto si rivela concentrato su una netta minoranza di soggetti.

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Vi sono anche punti deboli nelle modalità d'internazionalizzazione del distretto. Tre sono i più evidenti. Il primo consiste nel non ottimale utilizzo del marchio aziendale: • circa il 30-40% delle imprese distrettuali non vende sotto il proprio

marchio, o perlomeno non lo fa sempre; • ciò dipende però in larga parte dalla forza contrattuale del committente e

non da una scelta aziendale. Il secondo concerne il vettore utilizzato per l'entrata nel mercato: • prevale nettamente un'entrata di tipo indiretto, con un abbondante ricorso

all'importatore-distributore, cui segue a ruota l'impiego di agenti plurimandatari, buyers, commissionari;

• la debolezza di questa strategia è ben nota ma vale la pena di ribadirla: non consente l'affermazione in loco di una propria politica commerciale, il contatto con il mercato è flebile.

Il fatto più sorprendente è che le imprese sembrano chiaramente consapevoli di tutto ciò, ma nonostante questo non più di un terzo appaiono disposte, anche su orizzonti non brevi, a passare su vettori di ingresso più evoluti (proprie filiali, joint venture, forme associative, franchising, ecc.). Il terzo fattore di debolezza appare essere sia l'inadeguata attenzione verso la struttura distributiva, sia l'adozione di politiche commerciali di tipo adattivo ai mercati esteri; questo secondo aspetto, in particolare, conferisce una certa debolezza all'internazionalizzazione giacché implica il subire i cambiamenti del mercato senza cercare di anticiparli. II.3.3 L'internazionalizzazione produttiva

Da valutazioni effettuate alla fine degli anni '90 risulta che il risparmio effettivo netto nei costi aziendali generato dall'internazionalizzazione produttiva non supera mediamente il 10-15%. Questa percentuale sarebbe ottima se conseguita in Italia, ma appare modesta alla luce delle grandi differenze tra il nostro paese e quelli normalmente oggetto di delocalizzazione in tema di costo del lavoro, dell'energia e di altri fattori. I motivi di questa valutazione sono ben chiari, tutti riconducibili alla trasformazione in costi dei rischi e delle difficoltà del decentramento:

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• investimenti iniziali (in beni strumentali, in formazione e addestramento del personale, ecc.);

• controllo dell'avanzamento e della qualità della produzione; • organizzazione della logistica; • assenteismo della forza lavoro (superiore a quello italiano); • problematiche doganali (per localizzazioni extra-UE); • barriere normative, culturali, linguistiche.

Vi sono altresì dei fattori che frenano l'incedere del decentramento produttivo internazionale: • fattori strutturali: la modesta dimensione aziendale si contrappone alla

massiccia esigenza di risorse finanziarie e manageriali; • fattori culturali: sono parecchi gli imprenditori che diffidano (a torto o a

ragione) delle abilità produttive riscontrabili oltreconfine; • fattori strategici: le imprese che puntano su design e qualità temono che

alla scadenza dei contratti con cui trasferiscono all'estero il loro know-how l'ex parte contraente diventi un pericoloso concorrente.

Alla luce di tutto questo non deve stupire che perlomeno la metà degli imprenditori distrettuali ancora non prenda nemmeno in considerazione l'ipotesi di internazionalizzare la produzione. Quelli che invece l'hanno fatto, passando poi "dalle parole ai fatti", negli anni recenti si sono canalizzati prevalentemente in Romania, Bulgaria, Ungheria, Croazia, Repubblica Ceca, Albania. Si può ragionevolmente ritenere che il processo di internazionalizzazione produttiva prima o poi supererà i vincoli ora esposti. Infatti, se anche il risparmio nei costi fosse effettivamente limitato al 10-15%, non si deve dimenticare che in queste produzioni il costo del lavoro può arrivare al 40% dei costi totali. II.4 Il distretto dell'arredamento

Negli anni '90 si è trovata conferma alla bipartizione del mercato mondiale del mobile tra due grandi gruppi di paesi in competizione. Da un lato paesi produttori perché grandi consumatori (USA, Germania, Giappone) e dall'altro paesi ricchi di materia prima ed a basso costo del lavoro (alcuni PVS del sud est asiatico, alcuni paesi dell'Europa dell'est, l'America Latina). Tra questi due grandi gruppi si interpone l'Italia con i suoi distretti del legno

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e del mobile, rappresentando una caso particolare: grande produttore perché grande consumatore, ma anche grande esportatore pur non disponendo di una vasta riserva di materie prime né di un basso costo del lavoro. In questo contesto generale il nostro distretto dell'arredamento si sta caratterizzando per una progressiva crescita dimensionale delle imprese, sia come naturale processo di selezione che premia le aziende con maggiori capacità di esportare, sia per poter servire al meglio le grandi catene estere della distribuzione. II.4.1 L'internazionalizzazione tradizionale

La forma più diffusa di internazionalizzazione è ancora l'attività di esportazione, prassi avviata da più di vent'anni ed oramai consolidata; già dagli anni '90, infatti, hanno acquisito autonomia operativa sull'estero non solo le imprese di più grandi dimensioni ma anche quelle medio-piccole. Com'è noto, l'export distrettuale privilegia il mercato statunitense e quello europeo (con prevalenza di Germania e Francia). In questo ventennio le unità distrettuali, dopo essere penetrate nei mercati internazionali con forme piuttosto tradizionali (appoggio su esportatori abituali, organizzazioni di vendita, agenti, consorzi, ecc.), hanno conseguito adeguati livelli di esperienza che, quando si sono verificati stabili aumenti dei volumi di scambio, hanno permesso di implementare le tradizionali modalità esportative verso forme più prossime all'internazionalizzazione produttiva. Così, nei mercati a maggior rilevanza strategica, sono stati attivati propri punti di vendita e uffici esteri di interfaccia tra l'impresa ed i clienti, talvolta anche con funzione di coordinamento della distribuzione mediante un'organizzazione a rete. Ciò ha favorito una presenza più stabile nel paese d'interesse, con gli ulteriori benefici: • del miglior controllo sulla distribuzione oltreconfine; • della più agevole raccolta di informazioni di mercato; • della più rapida evasione degli ordini; • della pronta individuazione di nuove opportunità di mercato; • del più efficace sviluppo e verifica dei piani di penetrazione. Vi sono ora nuove fasi di internazionalizzazione tradizionale (semplice attività esportativa) verso mercati potenzialmente vastissimi, quali quello russo e cinese. Allo stato attuale il grado di assorbimento di questi mercati è molto modesto, poiché sono molto poche le persone che possono permettersi l'acquisto dei prodotti distrettuali. Ma l'ingresso in questi mercati risponde ad

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una strategia tanto elementare quanto efficace: si tratta di mercati con enormi prospettive di sviluppo, e quando ciò avverrà le imprese che più di altre se ne avvantaggeranno saranno quelle già presenti in loco. Su questi nuovi mercati, ma in parte anche in quelli dei paesi compresi tra l'Europa centrale e la Russia, le imprese distrettuali devono utilizzare sistemi distributivi meno articolati e "sofisticati" di quelli prevalenti nei mercati occidentali. Le modalità più tipiche per il contatto con i clienti si limitano alle fiere di settore e ad agenzie di rappresentanti locali. In alcuni casi v'è l'accesso diretto a punti vendita grazie ad accordi commerciali con partner locali. Specificamente per il mercato cinese, tra gli accessi preferiti sembrano esservi: • l'intermediazione di società finanziarie di Hong Kong che operano come

buyers; • il rapporto vis-a-vis con il cliente mediante visite sul posto; • le esposizioni temporanee dei propri prodotti. Questa nuova fase di internazionalizzazione tradizionale si sta scontrando con il problema dei pagamenti dei clienti: infatti, al normale rischio di tipo commerciale si abbinano sistemi-paesi con struttura finanziaria piuttosto involuta. Le difese più tipiche delle imprese distrettuali sembrano essere la richiesta di pagamenti anticipati o contestuali, nonché il ricorso agli scambi in compensazione affidandosi a società in questo specializzate. II.4.2 L'internazionalizzazione produttiva

Questi primi approcci all'internazionalizzazione produttiva, però, sono oramai datati nel senso di non essere fenomeni recentissimi. Negli anni più recenti il processo di internazionalizzazione del distretto trevigiano non è sfuggito al richiamo del decentramento produttivo. Alcune grandi imprese o gruppi oramai controllano una buona quota del mercato, e sono proprio le unità medio-grandi che per prime hanno cominciato a porsi seriamente il problema della internazionalizzazione produttiva vera e propria, spinte dalla concorrenza delle imprese dei paesi a basso costo del lavoro e ad abbondante disponibilità di materie prime. La modalità di internazionalizzazione produttiva più sperimentata di altre è stata quella del trasferimento delle prime fasi di lavorazione, soprattutto in paesi dell'Europa dell'est. Su questo scenario vanno citate, a titolo di esempio, iniziative che coinvolgono alcuni paesi della ex-Jugoslavia, con particolare riferimento alla Croazia. Sull'onda della inevitabile vivacità

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commerciale tipica di un periodo post-bellico, alcuni imprenditori18 hanno pensato di creare delle joint venture per il primo trattamento del legname. Oltre ad usufruire di un costo del lavoro relativamente più basso di quanto riscontrabile nell'originario territorio distrettuale, l'idea sottesa è quella della contiguità fisico-logistica tra segherie e punti di approvvigionamento del legname; in questo è facile intuire un tentativo di riprodurre uno dei tipici vantaggi distrettuali. Queste iniziative hanno poi goduto di benefici incrementali, giacché le joint venture possono godere dell'acceso alle aree statali di legname riservate ai croati, tra l'altro acquistando la materia prima a prezzi inferiori a quelli praticati agli acquirenti stranieri. Oltre a costituire proprie unità all'estero, una seconda modalità di internazionalizzazione produttiva percorsa dal distretto si sta rivelando quella di appoggiarsi a produttori stranieri sia per la fornitura di semilavorati che di prodotti finiti. In questo sembrano privilegiati i paesi dell'Europa dell'est, con particolare riferimento a Slovenia, Romania e Ungheria, mentre in misura minore si ricorre all'Estremo Oriente. Gli accordi di fornitura finora stipulati prevedono che il partner straniero si occupi solo del reperimento della materia prima e della lavorazione, mentre tecnologia e macchinari sono forniti dall'impresa distrettuale; nel caso di fornitura di prodotti finiti quest'ultima si occupa anche della progettazione del prodotto oltre che di una sua rifinitura per adeguare il mobile agli standard qualitativi richiesti nei mercati occidentali. Questa forma di internazionalizzazione produttiva, che approssima quella di un proprio autonomo decentramento, presenta vantaggi e svantaggi. Tra i primi vanno ricordati il minor coinvolgimento nell'investimento ed i prezzi di fornitura vantaggiosi grazie a partner che sfruttano costi del lavoro e degli approvvigionamenti più modesti dei nostri. Tra i secondi si segnalano problemi di qualità della fornitura e una scarsa affidabilità sui tempi di consegna. Mentre al primo problema si può parzialmente ovviare, come prima rilevato, con ulteriori rifiniture, sul secondo le imprese distrettuali possono fare ben poco: infatti alle carenze logistiche dei partner si possono affiancare carenze infrastrutturali a livello di sistema-paese19. A causa di questi svantaggi alcune unità distrettuali che avevano attivato questa modalità produttiva vi hanno successivamente rinunciato. Solo imprese medio-grandi mettono in cantiere l'ipotesi di delocalizzare impianti produttivi completi, sia mediante la creazione ex-novo che l'acquisto di strutture preesistenti in loco, come pure ad implementare soluzioni particolari come quella di costituire all'estero impianti di

18 Per la verità non trevigiani; appartengono alla "sponda" friulana del distretto. 19 Ad esempio, si sono verificati casi di ritardi di consegna (addirittura di alcune settimane) per la scarsità di carburante per trasporti.

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montaggio al fine di abbattere i costi di spedizione (opzione che ha coinvolto USA ed Estremo Oriente). Sembrano esistere dei freni verso un decentramento più massiccio, per almeno quattro ordini di motivi: • in questo settore l'incidenza del costo del lavoro, pur non trascurabile in

valore assoluto, appare comparativamente più bassa di quella riscontrabile nei settori che hanno attivato forme più consistenti di internazionalizzazione produttiva;

• gli svantaggi di un decentramento più spinto, con specifico riferimento ai costi ed ai tempi di trasporto, tendono a neutralizzarne in benefici;

• le strutture manageriali delle imprese sono mediamente ancora poco articolate;

• si tratta di imprese che contano ancora parecchio sui vantaggi competitivi generati nel distretto di origine e che quindi soffrirebbero non poco allentando i legami con esso.

Ad ogni modo, per i casi in cui le forme di internazionalizzazione produttiva sono state attivate si può osservare la tendenza alla sistematicità e alla stabilità della soluzione. In buona sostanza, si può osservare che le unità di minori dimensioni trovano più funzionale evitare il loro decentramento ed optare per accordi di fornitura. Le unità medio-grandi, invece, si spingono su ipotesi di una propria internazionalizzazione produttiva, soprattutto mediante joint venture; l'esperienza ha dimostrato che nel distretto questa opzione interessa realtà produttive che difficilmente scendono sotto i 50 addetti. Tra i freni alla joint venture vi sono i necessari studi di fattibilità, che richiedono un'analisi lunga mediamente un anno e mezzo circa, e poi non sempre l'esito è positivo. La decisione finale è infatti molto ponderata, anche per le varie difficoltà prima discusse. Il tipico "scambio" proposto ai partner della joint venture sembra essere l'acquisizione di semilavorati contro la cessione di tecnologia, e solo più raramente di prodotti finiti. La principale alternativa alla joint venture è l'acquisizione totale o parziale di aziende preesistenti in loco. In qualsiasi caso, queste forme sono la premessa per un autonomo investimento diretto nel paese estero. Alcune imprese hanno varcato questa soglia, mentre altre sono in attesa che la situazione politica di questi paesi si stabilizzi (ricordiamo che si tratta di paesi in transizione da regimi ad economia collettivista), che aumenti la funzionalità delle infrastrutture, che i mercati locali diventino più trasparenti.

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III. L'INTERNAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA DELLE IMPRESE TREVIGIANE

III.1 Caratteri di base del decentramento produttivo

Un'impresa è considerata fortemente internazionalizzata quando ha realizzato investimenti diretti all'estero (d'ora in avanti IDE) [Rispoli (1994)]. Esistono principalmente tre forme di IDE [Centro Europa Ricerche (1993)]: • acquisizione e fusione; • joint venture; • investimenti green field. Questi ultimi sono frequentemente realizzati da imprese giapponesi, e comunque da imprese non comunitarie. Le esportazioni possono essere considerate un'alternativa agli IDE quando avvengono in misura massiccia e senza trovare grossi ostacoli. Quindi la scelta tra i due ha senso, ad esempio, all'interno dell'UE in cui le barrire commerciali sono state abbattute. Per paesi non comunitari, invece, gli IDE non vanno considerati in sostituzione alle esportazioni. Il decentramento produttivo è il tipico risultato degli IDE, poiché l'esperienza oramai ventennale ha dimostrato che è più facile acquisire mercati esteri effettuando investimenti produttivi in loco, o in paesi contermini, e/o associandosi con produttori locali. Quest'ultima opzione, in particolare, oltre a impegnare meno pesantemente l'impresa in investimenti all'estero, ha il notevole vantaggio di essere una quick response alla creazione di una rete di rapporti e all'adattamento alle preferenze dei consumatori locali, e quindi, in ultima analisi, all'acquisizione di quote di mercato; ovviamente presenta lo svantaggio (non indifferente) di dover condividere l'eventuale successo, e quindi i profitti, con qualcun altro. Per quanto riguarda l'Italia ed il Nord Est, il decentramento produttivo è apparso intorno alla metà degli anni '80, inizialmente come fenomeno nazionale (lungo la dorsale adriatica), e solo successivamente interessò i paesi del Bacino del Mediterraneo e, infine, paesi più lontani (Europa dell'est, PVS, NICS). Negli anni '80 era considerato una strategia aziendale di breve periodo, poiché non si pensava potesse perdurare nel lungo periodo; nacque infatti come una risposta alle fluttuazioni di breve periodo della domanda senza dover modificare sostanzialmente la capacità produttiva. Da allora si è sviluppato assumendo un'importanza internazionale crescente.

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Attualmente tende ad essere considerato un'opzione strategica di medio-lungo periodo. Quando questo processo d'internazionalizzazione coinvolge le nostre aree (Provincia e Nord Est), quasi sempre si concreta nella internazionalizzazione di produzioni a tecnologia matura. Quindi, come si può facilmente intuire, è proprio ciò che sta avvenendo nei distretti industriali trevigiani. Nei settori cosiddetti maturi la concorrenza alle imprese distrettuali proviene normalmente da due tipici soggetti: • imprese di dimensione medio-grande, di qualsiasi paese, che proprio

grazie alla dimensione riescono ad attivare economie di scala; si tratta quindi di una concorrenza che si riflette sulle strategie di prezzo;

• imprese di dimensione medio-piccola operanti nei PVS, che indipendentemente dalla capacità o meno di usufruire di economie di scala subiscono costi di produzione comunque più modesti delle piccole e medie imprese distrettuali; anche in questo caso la concorrenza si riflette sulle strategie di prezzo.

Quindi il decentramento produttivo è legato sia alla dimensione che al paese di origine dell'impresa, e non soltanto a quest'ultimo come spesso si è portati a pensare. In particolare, la frequenza delle iniziative di decentramento internazionale riscontrabili in un'area sembrano dipendere proprio dalla dimensione mediamente prevalente nell'area stessa. Ha un peso anche la dimensione dell'unità delocalizzata: da essa dipende la quantità e qualità delle risorse finanziarie ed umane necessarie alla selezione dei subfornitori, alla organizzazione logistica, a fornire assistenza tecnica ai subfornitori, al controllo dell'esito della produzione e alla organizzazione del trasporto del prodotto finito. Quando l'internazionalizzazione produttiva è attivata con razionalità diventa uno strumento strategico, giacché consente: • di aumentare le quote di mercato già possedute, grazie ad una superiore

competitività di prezzo; • di acquisire nuove quote nei mercati del paese di destinazione o ad esso

adiacenti. Poiché nel caso dei nostri distretti l'internazionalizzazione produttiva coinvolge settori maturi, e quindi è preferibilmente rivolta verso i PVS o i NICS, quasi sempre riguarda prodotti a basso valore aggiunto, a contenuto tecnologico non particolarmente elevato; infatti, se questo livello fosse elevato vi sarebbero meno problemi nell'aggirare la concorrenza di prezzo e le "spinte" alla delocalizzazione sarebbero conseguentemente più deboli.

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L'internazionalizzazione produttiva trova un limite naturale nel trade off tra risparmio nei costi di produzione e costi di trasporto, limite che, com'è intuibile, si attenua o scompare nel momento in cui l'unità delocalizzata opera quasi esclusivamente con i mercati di approvvigionamento e di sbocco locali o tutt'al più contermini. Inizialmente era opinione diffusa che il trasferimento di lavorazioni caratterizzate da basso valore aggiunto trovasse un limite non solo nei costi di trasporto ma anche nel trade off tra risparmi nei costi e qualità del lavoro. Se fosse così, questo trade off favorirebbe il decentramento di lavorazioni molto semplici. In realtà non è così poiché i processi di lavorazione più semplici sono anche quelli più facilmente automatizzabili nel territorio di origine dell'impresa. Quindi, oltre al basso valore aggiunto ed alla tecnologia matura, è da ritenere che l'internazionalizzazione produttiva sia utile per lavorazioni complesse e accurate, con elevati livelli di impiego del fattore umano. L'aspetto più rilevante connesso al fattore lavoro sembra essere la sua quantità piuttosto che la sua qualità, pur nella consapevolezza che un imprenditore si preoccupi anche della qualità del lavoro. Inoltre, al di là della soglia di complessità produttiva che complica l'automazione, la convenienza all'internazionalizzazione produttiva aumenta con l'ampiezza e la standardizzazione dei lotti di produzione, poiché così si decentrerebbe l'attività coniugando i vantaggi propri di questa strategia con un'approssimazione di quelli conseguibili dall'automazione. Va però notato che l'internazionalizzazione produttiva, oltre ai noti vantaggi (risparmi nei costi dei fattori, cui si possono aggiungere l'aspettativa di una crescita rapida e la possibilità di ridurre il numero di giorni che intercorrono tra l'ordine e la consegna), presenta anche degli aspetti negativi [Forti e Silva (1995), ICE (1996)]. Tra questi assumono rilievo: • il diverso e/o inferiore utilizzo della forza lavoro nella sede di origine

dell'impresa; • la possibile imitazione del know how da parte di produttori locali. Allo stato attuale, le prospettive per un'ulteriore accelerazione del fenomeno sembrano strettamente legate al verificarsi o meno di determinate precondizioni [Forti e Silva (1995)]: • sistema economico locale tendente al libero mercato e aperto nei rapporti

con l'UE; • potenzialità per lo sviluppo della subfornitura; • contiguità geografica, nei limiti del possibile; • relativa prossimità della lingua e della cultura, nei limiti del possibile;

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• tradizione industriale preesistente o in fase di consolidamento; • costi dei fattori relativamente inferiori; • accesi preferenziali ad eventuali materie prime locali. Sempre in termini prospettici, contro il più temuto evento dannoso, cioè la possibilità che il trasferimento produttivo possa provocare "imitazioni tecnologiche" che nel lungo periodo si ritorcerebbero contro, l'unica risposta concreta sembra quella di imprimere una forte accelerazione alla capacità di apprendimento e innovazione dell'impresa decentrante, in modo tale da essere sempre "un passo avanti" ai possibili imitatori [Rullani (1994)].

III.2 Un'indagine campionaria 20 L'analisi dei caratteri dell'internazionalizzazione produttiva inizialmente doveva poggiarsi si di un campione statistico oscillante tra le 80 e 100 imprese appartenenti ai macro settori della meccanica, legno-arredamento, calzaturiero, tessile-abbigliamento. A causa però di una inaspettata e diffusa ritrosia degli imprenditori a discutere di questo aspetto dell'attività aziendale, si è optato per approfondite interviste a imprenditori degli stessi settori, cui fanno capo 47 iniziative di internazionalizzazione produttiva. Il campione finale, più modesto di quello estratto statisticamente, è da ritenersi significativo nella sua rappresentatività. Indipendentemente dal settore in cui le aziende operano, l'internazionalizzazione produttiva tende a concentrarsi quasi esclusivamente nei paesi in transizione dell'Europa dell'est (8-9 casi su 10). Le principali preferenze, com'è noto, vanno alla Romania, seguita a ruota dall'Ungheria. Gli insediamenti maggiori sono le capitali (Bucarest e Budapest), l’area occidentale per la Romania (soprattutto le città di Timisoara, Arad, Oradea) e tutta la parte settentrionale per l’Ungheria (Tatabanya, Eger, ad esempio). Si sta sviluppando notevolmente l'interesse per la Bulgaria (soprattutto Varna, sulla costa del Mar Nero) e la Slovacchia. La propensione per Croazia e Slovenia si è rivelata più modesta di quella attesa a priori. È ancora di minor rilievo la presenza delle aziende trevigiane in paesi extraeuropei (vi sono casi di delocalizzazione, ad esempio, in USA, Brasile, Tunisia, India, Cina). "Tra le righe" delle dichiarazioni degli imprenditori contattati, però, si può desumere che i processi di decentramento verso i paesi in transizione dell'Europa dell'est probabilmente stanno entrando in 20 Questa parte della ricerca è stata portata a termine grazie alla preziosa collaborazione della dottoressa S. Danieli (Unindustria Treviso) e del dottor G. De Nardi.

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una fase di maturità poiché emergono propensioni verso altre aree, come ad esempio l’Estremo Oriente (soprattutto nel settore tessile-abbigliamento). Anagraficamente parlando, le iniziative di internazionalizzazione produttiva sono abbastanza recenti: solo nel 15,9% dei casi sono avvenute prima del 1995. Il fenomeno interessa prevalentemente l'area produttiva, ma vi sono casi che coinvolgono funzioni commerciali, attività logistica e anche R&S.

tipologia delle unità decentrate area produttiva 80% area commerciale 7,5% area logistica 2,5% R&S 2,5% altro 7,5%

Modalità giuridiche Dal punto di vista giuridico prevale la costituzione ex-novo di un'azienda residente, che nell'ordine gerarchico delle preferenze è seguita da contratti di fornitura; quest'ultima attività, però, non si può considerare come un'internazionalizzazione produttiva in senso stretto. Viene poi l'acquisizione di un'azienda preesistente. La joint venture appare solo come quarta scelta, mentre non si sono rilevati accordi di tipo non-equity.

modalità giuridiche costituzione ex-novo 40% contratto di fornitura 22,5% acquisizione d'azienda 17,5% joint venture 15% accordi non-equity 0% altro 5%

L'assenza degli accordi non-equity non va giudicata positivamente. Infatti tali accordi si addicono proprio ad aziende di dimensione medio-piccola, se non piccolissima, quali quelle distrettuali. Si tratta di accordi di natura contrattuale, ma anche di semplici alleanze. In ogni caso non richiedono nuove iniezioni di capitale proprio, e quindi di "denaro fresco". Più in generale, sono forme di internazionalizzazione, anche produttiva, che non richiedono un grande coinvolgimento e rilevanti investimenti. Dal punto di vista tecnico-procedurale si distinguono:

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• Accordi non-equity del primo tipo: semplici accordi, e non contratti, mediante i quali si scambia know-how sulle funzioni aziendali. Da evitare, però, lo scambio del tipo "know how contro pagamento di un prezzo", perché può creare una situazione di dipendenza.

• Accordi non-equity del secondo tipo: veri e propri contratti che hanno per scopo una collaborazione sistematica e continuativa. Possono essere semplici (riguardano una sola funzione aziendale) e complessi (investono più funzioni aziendali).

Sono accordi che consentono un gran numero di vantaggi, anche se richiedono determinate cautele: 1. Vantaggi:

• condivisione dei costi, investimenti con dimensione minima indispensabile;

• acquisizione di competenze non possedute, aggiramento di barriere all'entrata, accesso a risorse altrimenti inaccessibili;

• frazionamento del rischio, sia economico che finanziario; • completamento della propria offerta, fertilizzazione della propria

immagine. 2. Svantaggi:

• i partner adatti sono difficili da selezionare: possono assumere atteggiamenti aggressivi, possono essere inadempienti e stringere altre alleanze;

• si rischia di perdere tecnologia critica; • difficoltà a gestire gli obiettivi dell'alleanza.

Motivazioni Come atteso a priori, il principale motivo per cui si internazionalizza la produzione è la forte economicità del fattore lavoro. Gli imprenditori intervistati asseriscono che il costo lordo del lavoro è quantificabile mediamente in un intervallo compreso tra 1/5 e 1/10 del costo italiano. Risulta così, ad esempio, che la retribuzione netta di un operaio rumeno sia all’incirca quantificabile in poco meno di 100 euro mensili (circa 180-190 euro lordi), retribuzione triplicata (o quadruplicata) se trattasi di un manager. Dopo i risparmi nel fattore lavoro, tra le motivazioni segue, a debita distanza, l'interesse per i mercati locali. Poche imprese, però, vedono il decentramento come un facile accesso a mercati contermini. Viene poi la "leggerezza" del sistema fiscale; l'incentivo di questo fattore verso il decentramento produttivo è cosa nota, nonostante le riforme introdotte a partire dal 1996 che infatti, per una serie di motivi, non hanno prodotto un

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decisivo alleggerimento della pressione fiscale [Biscaro (1999b e 2001)]. Nessuno cita come motivazione i benefici legali, e solo nell'1% dei casi si sottolineano i vantaggi politico-ambientali; queste dichiarazioni vanno valutate con circospezione poiché, ad esempio, è noto che nei paesi scelti dalle imprese la normativa del lavoro quasi sempre non è così tutelante come la nostra. Poco rilevante sembra essere l'internazionalizzazione produttiva facilitata da un'azienda leader che fa da "battistrada". Lo stesso livello motivazionale (modesto) si riscontra per i possibili risparmi in fattori produttivi diversi dal lavoro, e ancor meno per la snellezza della burocrazia ed il controllo dei mercati di approvvigionamento di materie prime. Di un certo interesse l'opinione, diffusa tra le aziende del campione, che i costi di insediamento sarebbero di per sé una forte attrattiva (ad esempio, il basso costo di acquisto di un terreno), se tali economie non venissero spesso neutralizzate dai costi per attrezzare le aree (strade, elettrificazione, fornitura d'acqua, ecc.).

motivazioni risparmi nei costi del lavoro 37,8% interesse per mercati locali 19,5% risparmi fiscali 14,6% interesse per mercati contermini 7,3% a seguito di impresa leader 4,9% risparmi in altri costi 4,9% burocrazia più snella 3,7% controllo mercati materie prime 3,7% benefici politico-ambientali 1,2% benefici legali 0% altro 2,4%

Vagliando con attenzione la scala gerarchica delle motivazioni, il fatto che più si mette in evidenza è il basso impulso motivazionale dei risparmi in costi diversi da quelli del lavoro e fiscali. È pur vero che costo del lavoro e imposizione fiscale sono diffusamente ritenute le spinte prevalenti al decentramento, ma nel caso specifico delle imprese del campione non sembra molto razionale. Infatti, come si vedrà successivamente (si rinvia alla sezione III.4.2), considerando medie quadriennali dei dati di bilancio (l'anno della delocalizzazione ed i tre precedenti) i costi del lavoro e quelli fiscali erodono il fatturato in misura molto inferiore rispetto ai costi per acquisti di materiali e servizi.

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Fattori di polarizzazione Per quanto riguarda le condizioni pro-distrettuali, la storia e l'esperienza delle attività economiche provinciali farebbe pensare che da questo lato non pervengano forti spinte all'internazionalizzazione produttiva. V'è da dire, però, che le risultanze dell'indagine tendono a scalfire almeno in parte questa diffusa opinione. Infatti si è rilevato che: 1. La localizzazione nell'area (Veneto, Nord Est) non appare più un fattore

vincente per la permanenza in loco. Infatti solo il 25% delle aziende lo considera tale mentre un altro 50% lo ritiene del tutto indifferente. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che gli scambi commerciali stanno coinvolgendo sempre più l'Europa dell'est ed il sud-est asiatico.

2. Le infrastrutture ed i servizi di trasporto vengono additati come il punto debole distrettuale (47,2%). Basti pensare alla congestione della rete viaria provinciale.

3. Preoccupa soprattutto la valutazione di quella che si può considerare la sintesi di una qualsiasi realtà distrettuale, cioè l'efficienza/efficacia del sistema a rete locale. Le aziende che non lo considerano positivamente sono il 17,1%. La visione non propriamente positiva su questo aspetto è suffragata dal 60% di aziende che guardano con indifferenza alla rete locale. In pratica, v'è una potenziale forte predisposizione, o perlomeno un'assenza di freni, allo smembramento della contiguità geografica.

Gli altri fattori pro-distrettuali, invece, sembrano costituire ancora un freno all'internazionalizzazione produttiva: 1. Non viene valutata negativamente la disponibilità e la funzionalità di aree

attrezzate. Solo l'8,6% delle imprese lo considera un incentivo al trasferimento altrove.

2. Lo stesso vale per i servizi di matrice pubblica (specialmente interporti, raccolta e smaltimento rifiuti, Uffici del Lavoro), per i quali solo il 16,7% delle imprese ha un giudizio negativo al punto da considerarlo un motivo di delocalizzazione.

3. Analoga valutazione viene data a quei fattori che tipicamente sono considerati un valore aggiunto distrettuale: la qualità della manodopera e la locale cultura del lavoro. In tal senso i giudizi negativi si limitano all'11,4%. In relazione alla gestione della forza lavoro, si è messo in evidenza che è molto difficile trattenere i lavoratori una volta formati. In molti paesi dell’Europa dell'est non v'è altro stimolo al lavoro se non quello economico, così molto spesso i lavoratori tendono a "vendersi al miglior offerente", semplicemente per qualche decina di euro in più nella busta paga.

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4. Per quanto riguarda i servizi di progettazione, engineering, design e informatizzazione, e più in generale i servizi di supporto alla gestione, sono ancor meno le aziende che in ambito distrettuale li considerano insufficienti (2,9%).

Funzioni aziendali La fase di preparazione interessa buona parte delle aree di gestione, ma l'esperienza dimostra che l'impegno richiesto ed il grado di coinvolgimento sono piuttosto eterogenei. Ad esempio, se si considerano congiuntamente tecnici e addetti, è l'attività di produzione che più frequentemente subisce la maggiore pressione. Seguono le attività progettuali-logistiche (programmazione, engineering, trasporti, ecc.) e le funzioni di servizio, cioè amministrazione, finanza e sistema informativo. Inaspettatamente rispetto a quanto atteso a priori, l'area commerciale è tra quelle che più raramente subiscono forti impatti dal processo di internazionalizzazione produttiva.

attività aziendali sotto forte pressione area tecnico-produttiva 45,2% progetti-logistica 25,9% di servizio(1) 16,1% commerciale 6,5% altre 6,3%

(1) amministrazione, finanza, sistema informativo Al di là della pressione subita dalle funzioni aziendali prima e durante il processo di internazionalizzazione produttiva, gli imprenditori hanno individuato specifici aspetti della gestione che ex-post si sono rivelati particolarmente cruciali. I primi quattro sono i seguenti:

aree gestionali che si sono rivelate cruciali sistemi di qualità 30% direzione tecnico-produttiva 25% logistica 15% rapporti personali 10%

Tutto ciò che ruota attorno alla qualità del prodotto e del processo riveste un ruolo centrale; il settore che più sta soffrendo oggi tale problema è quello calzaturiero. Più in generale, ciò fa supporre che può essere illusorio decentrare la produzione come alternativa a interventi sul tasso di qualità nel territorio di origine, nel senso che sembra scalfita una radicata opinione sulle risposte alla concorrenza di prezzo delle imprese dei PVS e dei NICS:

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• "giustificazione" di un prezzo superiore mediante un maggior tasso di qualità;

• risparmi nei costi per attutire la tensione sui prezzi; è questa seconda opzione che comunemente si concreta mediante processi di internazionalizzazione produttiva.

Va inoltre notato, contrariamente a quanto comunemente si ritiene a priori, che le imprese ritengono critica la formazione del personale solo nel 5% dei casi. Incrociando le aree sotto pressione e quelle obiettivamente più critiche, i primi tre settori aziendali in cui si sono verificati problemi dovuti a impreparazione sono:

attività gestionali più impreparate settore legale-contrattuale 41,7% settore della produzione 33,3% settore amministrativo 16,7%

Fattori culturali e ambientali Se si cambia la prospettiva di screening dell'azienda, cioè se si abbandona il giudizio secondo l'organigramma (aree, uffici, funzioni), emergono altri e probabilmente più significativi "talloni d'Achille". Tra tutti primeggia un ben noto limite delle PMI trivenete a origine e conduzione familiare: la mancanza di manager professionisti. Dopo di questo, l'ulteriore limite che viene evidenziato è anch'esso un corollario della piccola dimensione, cioè la capacità di innovazione e di controllo della tecnologia. Vanno poi segnalate (sullo stesso piano) la dimensione operativa ed il posizionamento nel ciclo di vita del prodotto. Gli imprenditori che hanno internazionalizzato la produzione, o che stanno per farlo, ritengono che il basso grado di capitalizzazione non sia tra i principali vincoli. Questo giudizio appare contraddittorio, per almeno un paio di motivi: • è noto che il grado di capitalizzazione delle PMI locali è un fattore

strettamente legato alla conduzione di tipo familiare; ma da ciò dipende anche la bassa presenza di managerialità esterne, cioè il fattore giudicato più vincolante; in pratica i due problemi hanno la stessa soluzione (maggiore apertura nella struttura di proprietà),

• è altrettanto noto che le banche finanziano processi di internazionalizzazione in presenza di prioritari (e maggiori) coinvolgimenti del capitale di rischio.

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Servizi esterni Le imprese indagate considerano modesti il sostegno e l'assistenza di associazioni di categoria e organismi pubblici.

giudizio del sostegno e assistenza di enti esterni (pubblici e privati) sufficiente-buono modesto informazioni commerciali e di mercato 35,7% 64,3% norme doganali e contrattuali 25,9% 74,1% finanza e assicurazione 13% 87% ricerca di partner esteri 14,3% 85,7% accesso ad agevolazioni nazionali e comunitarie

17,4% 82,6%

Va detto, però, che in molti casi gli imprenditori intervistati hanno fatto trapelare una certa dose di preconcettualità di giudizio. È emerso infatti lo spirito da "self-made man" che li porta a ritenere sufficienti le proprie valutazioni ed il proprio intuito, prima ancora di considerare l'appoggio ad organismi esterni. Sul tema del sostegno e assistenza, le imprese giudicano essenziali alcuni servizi finanziari ed altri reali. Tra i primi non prevale la necessità di servizi di analisi finanziaria e reddituale, poiché la valutazione dei progetti l’imprenditore molto spesso tende a farla da sé. Potrebbe, invece, rivelarsi utile l'aiuto per la ricerca di idonee coperture finanziarie e assicurative; questa esigenza "quantitativa" conferma le perplessità sul giudizio dato al grado di capitalizzazione.

esigenza di servizi finanziari di supporto ricerca di coperture finanziarie 43,2% valutazione reddituale dei progetti 33,3% analisi finanziarie dei progetti 23,5%

Tra le richieste in tema di servizi reali trova conferma il vincolo dell'impreparazione dell'area legale-contrattuale: la maggior esigenza, infatti, è l'assistenza nella costituzione di nuove imprese all’estero. Seguono poi i servizi di informazione di mercato, di individuazione di occasioni d’investimento e predisposizione di studi di fattibilità. I servizi meno richiesti appaiono essere quelli di supporto al marketing aziendale.

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esigenza di servizi reali di supporto costituzione societaria 21,9% informazioni di mercato 19,3% opportunità di investimento 16% studi di fattibilità 15,1% servizi commerciali 8,4% altro 19,3%

Fattori sovraregionali Molto scarso si rivela l’utilizzo di programmi d’incentivazione comunitari (solo il 16,2% dei casi). Ciò ha delle spiegazioni. Non si tratta di disinformazione o sfiducia nelle forme di aiuto. Le imprese, in generale, ritengono troppo lente e complesse le procedure di avvio di tali programmi. Quelli più utilizzati sono legati agli studi di fattibilità e al rimborso dei costi dei tecnici mandati nelle unità decentrate a formare il personale residente. In relazione all’Euro, molti concordano nell’affermare che oggi è impossibile valutarne appieno gli effetti futuri, anche se gli imprenditori, una volta sollecitati, in realtà si attendono nuovi benefici e opportunità di investimento. Per il presente il giudizio prevalente è l'indifferenza, poiché i vantaggi dell'eliminazione-riduzione del rischio di cambio (rispettivamente infra-extra UE) nel breve periodo sono compensati dai costi di conversione e di controllo.

valutazione dell'avvio della moneta unica nuove opportunità di investimento 32,7% impossibile valutare oggi 26,5% indifferenza nel presente 20,4% nuovi costi 14,3% pressione sui costi presenti 4,1% semplificazione e praticità 2%

Sembra criticabile la "miopia" delle aziende sul tema dell'impatto sui costi correnti dell'impresa (solo il 4,1% delle imprese lo considera). Infatti il processo di avvio dell'Euro ha portato ad un raffreddamento della dinamica dei prezzi, aspetto che dovrebbe accentuarsi nel prossimo futuro; se ciò è vero, la ricerca di maggiori margini di profitto, ma anche la difesa di quelli preesistenti, non può prescindere da economie di costo. L'accelerazione del

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fenomeno della delocalizzazione nella seconda parte degli anni '90 ne è una indiretta conferma. Per la maggior parte degli imprenditori, le principali conseguenze future dell’ingresso nell’UE del paese nel quale si è trasferita la produzione sono l’appiattimento dei vantaggi sul costo del lavoro, l’armonizzazione amministrativo-burocratica e quella politico-legale. Meno accreditata l'ipotesi di appiattimento dei vantaggi fiscali.

conseguenze dell'ampliamento ad est dell'UE aumento del costo del lavoro 29% armonizzazione burocratica 27,5% armonizzazione politico-legale 24,6% scomparsa dei vantaggi fiscali 14,4%

altro 4,5% Strategie imprenditoriali di rilevante impatto locale Gli ultimi due aspetti che sono stati vagliati nel campione sono la disponibilità a trasferire anche il cuore decisionale-strategico dell'impresa e la propensione a reinvestire nel territorio di origine i profitti prodotti all’estero, destinandoli a innovazioni e rinnovamento tecnologico. Nel primo caso si è riscontrata la disponibilità del 20,1% delle imprese. Nel secondo solo il 5,4% reinvestirebbe tutti i profitti in tale maniera, ed un altro 8,1% lo farebbe per non più del 5-10% del loro ammontare. Questi riscontri non sono per nulla tranquillizzanti per il futuro dei distretti. Infatti una delle opzioni più destrutturanti per un sistema economico locale è proprio il trasferimento del cuore decisionale-strategico delle imprese. Inoltre la disponibilità a reinvestire localmente i profitti esteri in investimenti immateriali sembra una delle principali risposte strategiche per distretti che prima subiscono la spietata concorrenza di prezzo dei PVS e dei NICS, e poi vedono sfaldarsi la base produttiva dal tentativo delle imprese di rispondere a questa sfida.

III.3 Alcuni impatti dell'internazionalizzazioneproduttiva

In questa sede l'attenzione si accentra su due particolari ma importanti effetti che il decentramento produttivo esercita sulla gestione aziendale:

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• effetti sull'impiego della forza lavoro dell'impresa che decentra; • effetti sulle strategie di prezzo dell'impresa che non decentra. III.3.1 Il fattore lavoro

È chiaro che quando un'impresa trasferisce la produzione una delle prime ipotesi che si fanno riguarda l'impatto sull'impiego della forza lavoro. Poiché l'indagine si riferisce ad un'area che, com'è noto, è una di quelle che certamente non ha problemi occupazionali se paragonata ad altre zone del Paese, e preso atto della dinamicità imprenditoriale piuttosto spinta, è opinione diffusa che il tasso di disoccupazione permanga sui livelli "naturali" senza peggiorare per effetto di fenomeni delocalizzativi; inoltre si noti che questi non sono così massicci come quelli che negli anni '60 e '70 indebolirono il cosiddetto Triangolo Industriale21. Perciò sembra corretto adottare un'ipotesi più sfumata, spostando l'oggetto della discussione dalla perdita di posti di lavoro ad un eventuale maggior ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni, soprattutto di breve periodo. Giacché i primi effetti operativi di breve periodo dell'internazionalizzazione produttiva sono quelli di trasferire parte della capacità produttiva e/o modificare il volume della produzione ottenuta localmente, si è stimata econometricamente la relazione esistente tra queste variabili aziendali e la CIG. Va notato che, in generale, dal punto di vista metodologico la modellizzazione di questa relazione funzionale crea non pochi problemi vista la forte caratterizzazione istituzionale della CIG, nonché l'erraticità dei dati ed i numerosi cambiamenti legislativi intercorsi; nello specifico contesto territoriale dell'indagine, fortunatamente, viene perlomeno risolto il secondo problema mediante rilevazioni puntuali ed omogenee. Va anche detto che la natura dei dati non consente di distinguere separatamente i settori del tessile-abbigliamento e del calzaturiero; le stime perciò sono state condotte sui macro settori della meccanica, del legno-arredamento e sull'aggregazione dei due suddetti. Come premesso, si è ipotizzato che il ricorso alla CIG, espresso tecnicamente non nel numero delle persone coinvolte ma nella quantità di ore autorizzate, dipenda sia dal grado di utilizzo della capacità produttiva sia

21 L'area Milano-Torino-Genova fu caratterizzata da un decentramento produttivo che trasferì molti posti di lavoro, fatto che consentì l'attecchire dell'attuale modello economico del Nord Est.

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dalla variazione del volume della produzione22. L'impatto di breve periodo di queste variabili dovrebbe sostanzialmente limitarsi alla CIG ordinaria. Però, poiché lo scopo è testare gli effetti di un trasferimento di capacità produttiva e di volumi di produzione all'estero, l'analisi ha coinvolto anche la CIG straordinaria. Quest'ultima, infatti, è funzionale a crisi aziendali strutturali, cioè proprio a fenomeni i cui effetti pratici sono assimilabili a quelli di un trasferimento definitivo (o perlomeno di lungo periodo) di capacità e volumi produttivi23. Si è fatta una duplice valutazione sulla funzionalità della relazione tra CIG, da un lato, capacità produttiva e volume di produzione, dall'altro lato. Si è infatti testata non solo una relazione lineare, che descrive una regolare proporzionalità tra le variabili, ma anche una non lineare; in questo secondo caso, che si rivelerà essere quello più idoneo all'interpretazione del fenomeno, si è optato per una relazione iperbolica al fine di cogliere l'ipotesi che a diminuzioni del grado di utilizzo della capacità (del volume di produzione) il numero delle ore di CIG aumenti in misura crescente. Si è anche tenuto conto di un meccanismo di aggiustamento graduale, giacché dopo il trasferimento definitivo di strutture produttive la CIG di un certo mese o trimestre non può essere molto diversa da quella del mese o trimestre precedente. Inoltre si sono valutati anche eventuali break strutturali nella CIG durante il periodo storico considerato (tutti gli anni '90 e fino alla metà del 2001). In relazione a quest'ultimo punto è stato individuato, per tutti i quattro macro settori che caratterizzano i principali distretti della Provincia, un periodo in cui il ricorso alla CIG è cambiato strutturalmente, diminuendo drasticamente: si tratta del terzo trimestre del 1994. Sulla base di tutte queste considerazioni, utilizzando rilevazioni trimestrali e posto che: • CIG = Cassa Integrazione Guadagni (migliaia di ore autorizzate) • CPU = capacità produttiva utilizzata (percentuale) • VP = variazione del volume di produzione rispetto (percentuale) • D = dummy che esplicita il break strutturale databile al terzo

trimestre del 1994 i modelli lineare e iperbolico che sono stati testati hanno assunto la seguente forma generale:

22 Normalmente si ipotizza che queste due variabili si influenzino a vicenda. A priori è certamente così, ma le rilevazioni provinciali sembrano non rigettare decisamente l'ipotesi contraria, che perciò è stata vagliata. 23 I casi di rientro in patria per ora sono una netta minoranza.

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( ) ( )

( ) ( )D VP

DCPUVCCPU

CIG CIG

D VP DCPUCVCPUCIG CIG

n

i iti

it

n

i ii t

n

ii

it

n

iiit

n

i ii t

n

ii

− + − + + + + =

− + − + + + + =

∑ ∑ ∑

∑ ∑ ∑

= +−+−= + −

=

+−=

+−=

+ − =

1 1 1111

1 1

1 111 1

1

11

11

1 1

δ θ α β φ λ

δ θ α β φ λ

Per quanto riguarda le attese a priori, la teoria economica prevedrebbe impatti negativi di CPU e VP per il primo modello (β,α < 0), e positivi per il secondo (β,α > 0); in entrambi i modelli i coefficienti della dummy dovrebbero essere negativi (θ,δ < 0) poiché a partire dal terzo semestre del 1994 v'è stato una significativa riduzione nel ricorso alla CIG. Dopo una serie di iterazioni la capacità interpretativa del modello lineare si è rivelata molto inferiore a quella del modello iperbolico, quindi l'attenzione si è successivamente concentrata solo su quest'ultimo. Più specificamente, la stima econometrica del modello non lineare ha rivelato la consistenza statistica dei seguenti parametri: • settore della meccanica: t1 θβφ tt− • settore del legno-arredamento: t1 θβφ tt− • settori del tessile abbigliamento e calzature: t1 δαφ tt− In sintesi, i risultati ottenuti sul modello non lineare sono i seguenti: meccanica

( ) 86,0 ; 117001649719,0 21 =−−+⋅= − RD

CPUCPUCIGCIG

ttt

tessile-abbigliamento e calzature

( ) 89,0 ; 113,8129,8862,0 21 =−−+⋅= − RD

VPVPCIGCIG

ttt

legno-arredamento

( ) 92,0 ; 115001477821,0 21 =−−+⋅= − RD

CPUCPUCIGCIG

ttt

Da ciò si possono trarre alcune considerazioni: • tutti e tre i modelli sono statisticamente significativi ma anche "robusti"

sotto il profilo interpretativo, giacché spiegano il ricorso alla CIG per una

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percentuale che va dal 86% (macro settore meccanico) al 92% (macro settore legno-arredamento);

• le variabili selezionate, senza alcuna eccezione, impattano sulla CIG con il segno atteso a priori;

• i lag temporali delle variabili sono stati testati fino a due periodi precedenti, ma non sono risultati statisticamente significativi, fatta eccezione per il meccanismo di adeguamento graduale della CIG (CIGt-1);

• si è confermata l'ipotesi che capacità produttiva e volume di produzione sono ridondanti se considerati contemporaneamente; i risultati dimostrano che il ricorso alla CIG dipende dalla quota di capacità produttiva utilizzata nella meccanica e nel legno-arredamento, e dalla variazione del volume di produzione nel tessile-abbigliamento e nel calzaturiero;

• viene confermata la rilevanza statistica del break strutturale nel ricorso alla CIG avvenuto il terzo trimestre del 1994.

Le stime ottenute consentono di simulare l'impatto sulla CIG di variazioni della capacità produttiva utilizzata e del volume di produzione, provocate dall'internazionalizzazione produttiva. Per quanto riguarda la capacità produttiva, visto che: • tale variabile non è considerata in termini di variazione ma di grado

assoluto di utilizzo • il modello è di struttura iperbolica qualsiasi simulazione dipende strettamente dall'utilizzo mediamente prevalente nel periodo considerato. Ad esempio, tenendo conto del grado medio di utilizzo della capacità produttiva tra l'ultimo trimestre del 2000 ed il secondo trimestre del 200124, si possono stimare impatti sulla CIG statisticamente significativi ma quantitativamente piuttosto modesti:

ore trimestrali di CIG in più per diminuzioni di capacità produttiva utilizzata riduzione capacità produttiva utilizzo capacità produttiva

ottobre 2000-giugno2001 1% 2% 3% meccanica 81,2% +100 h +202 h +307 h legno-arredamento

76,2% +83 h +169 h +257 h

24 Non è possibile prendere a riferimento dati medi annuali poiché non vi sono ancora rilevazioni disponibili successivamente al giugno del 2001, ed inoltre il terzo trimestre 2000 (luglio, agosto e settembre) risente normalmente di una forte componente stagionale.

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Nel modello, il volume della produzione è già considerato in termini di variazione, ciononostante eventuali incrementi (diminuzioni) della CIG dipendono comunque da tre fattori contemporaneamente: • dalla dimensione media della crescita della produzione; • dal divario tra ritmi di crescita successivi; • dall'effetto di per sé non lineare del modello iperbolico, per cui due

punti percentuali in meno (in più) non producono esattamente un effetto doppio di quello generato da un solo punto percentuale in meno (in più).

Quindi occorre porre particolare attenzione nell'interpretare gli effetti dinamici di questa variabile, poiché si deve valutare quale sia il livello medio della crescita della produzione e nello stesso tempo considerare variazioni del secondo ordine decrescenti. Per semplificare, è sufficiente porsi la domanda "tenendo conto che nell'ultimo periodo la produzione è cresciuta mediamente dell'x%, quante ore (trimestrali) di CIG in più si verificherebbero per ogni punto in meno nel ritmo di crescita ?". Sempre con riferimento alla situazione media del periodo ottobre 2000-giugno 2001, si consideri la seguente tabella:

ore trimestrali di CIG in più per diminuzioni nel ritmo di crescita della produzione

diminuzione del ritmo di crescita della produzione

crescita della produzione ottobre 2000-giugno2001 1% 2% 3%

tessile-abbigliamento

3,8%

+763 h

+2.359 h

+7.785 h

calzaturiero Come si può notare, nel tessile-abbigliamento-calzature gli impatti sulla CIG sono molto più evidenti di quanto non accada nella meccanica e nel legno-arredamento, dove invece sono modesti. Quindi, nei limiti di validità dell’ipotesi per cui nel breve periodo una caduta della capacità produttiva e/o della produzione possa provocare incrementi della CIG, i risultati della simulazione sono alquanto preoccupanti soprattutto per i settori del tessile-abbigliamento e delle calzature, notoriamente più esposti a spinte e tensioni delocalizzative.

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III.3.2 Le strategie di prezzo delle imprese che non decentrano la produzione

È tutt’ora aperto il dibattito su quali siano gli impatti dell’internazionalizzazione produttiva sulle aziende che ne vengono escluse. In un ambito distrettuale il tessuto relazionale e la rete di fiducia sono molto più intensi che altrove, al punto che il rapporto tra committente e fornitore può assumere caratteri che approssimano la situazione di monopolio bilaterale. In questo contesto si verificano effetti di spiazzamento per subfornitori che perdono volumi di produzione a causa del decentramento produttivo del committente. Assumendo la massima razionalità dell’impresa, ciò dovrebbe alterare le strategie di prezzo del subfornitore. Lo spiazzamento riguarda le iniziative tecnologiche e di innovazione; è possibile ipotizzare questa sequenza di eventi: • le aziende distrettuali che esportano si scontrano con la concorrenza di

prezzo delle rivali dei PVS e dei NICS; la loro prima reazione è quella di giustificare prezzi superiori puntando sulla maggior qualità del loro prodotto;

• nel far questo mettono sotto pressione il livello qualitativo-innovativo dei loro fornitori, che si adeguano con non poche difficoltà poiché operano in settori maturi, in cui il rendimento marginale della tecnologia è inesorabilmente decrescente;

• quando la pressione della concorrenza internazionale diventa insostenibile, le aziende che esportano adottano inevitabilmente anche strategie cost-saving; quando ciò avviene mediante il decentramento internazionale della produzione allora appare l’effetto di spiazzamento per i subfornitori distrettuali, che sperimentano a loro volta una forte tensione sui prezzi: non riescono infatti a recuperare i costi del loro adeguamento qualitativo-innovativo su un volume di produzione inferiore a quello previsto.

Questo effetto non è empiricamente osservabile, poiché i dati disponibili non consentono di separare gli impatti delle numerose variabili che incidono sulla dinamica dei prezzi, ma è intuitivo che in queste condizioni un subfornitore razionale pratica un prezzo superiore a quello altrimenti possibile in una situazione perfettamente concorrenziale di breve periodo, con un differenziale proporzionale alla probabilità di decentramento produttivo del committente25. 25 Che quindi assume la veste di un vero e proprio risk premium.

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Sulla base delle seguenti convenzioni: • r = tasso d’interesse • k = fattore di sconto intertemporale ; k = 1/(1+r) • h = probabilità che i committenti decentrino la produzione

all’estero • g1 = probabilità di perdere ordini per motivi indipendenti dal

decentramento dei committenti • g2 = probabilità di perdere ordini a causa del decentramento dei

committenti26 è possibile definire: • g = g1 + hg2 probabilità di ridurre i volumi di produzione dopo

aver attivato il rinnovamento tecnologico • m = k(1-g) fattore di sconto intertemporale che congloba la

probabilità di perdere commesse Posto che: • p = prezzo • Q = Quantità • co = costi operativi, esclusi quelli legati all’innovazione ed alla

tecnologia • crt = costi ripetitivi della tecnologica (ad esempio, test di laboratorio

da ripetere su ogni lotto) • cst = costi strutturali della tecnologia (ad esempio, l’adeguamento

degli impianti) e tenendo presente che i costi strutturali della tecnologia sono fissi solo nel breve periodo, e che la piccola dimensione dell'impresa subfornitrice rende conveniente la loro implementazione in relazione alla dimensione delle future commesse:

cst = fcst(Q , …) ; 0>∆∆

=Qff Q

cst 27

26 Ha senso affiancare questo tipo di probabilità a quella del decentramento del committente (h), poiché non v’è automatismo tra quest’ultimo e la riduzione di volumi di lavoro (il committente potrebbe decentrare non come strategia di sostituzione ma di sviluppo).

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i profitti intertemporali del subfornitore sono pari a:

Q(p - co - crt)(1 + m + m2 + m3 + .....) - fcst = cstfQm

crtcop−

−−−

1 28

Anche supponendo che l’impresa prima del rinnovamento tecnologico (crt=cst=0) fosse in equilibrio concorrenziale, cioè operasse sul punto di pareggio tra ricavi e costi marginali (p - co = 0), la suddetta relazione implica che in questo contesto: • il prezzo ecceda il nuovo costo marginale [p = co + crt + f Q(1-m)

≥ co + crt] • il differenziale sia una funzione crescente della probabilità di

decentramento( )∂∂1

0−

>⎡

⎣⎢

⎦⎥

mh

III.4 Performance e dimensioni delle imprese che internazionalizzano la produzione 29

Un dubbio che si pone ai policy-maker, ed agli analisti delle attività economiche, riguarda l'esistenza o meno di una soglia dimensionale per le aziende intenzionate a decentrare la produzione. A tale scopo sono stati considerati i dati fondamentali delle imprese selezionate30, estrapolati dal bilancio dell'anno di trasferimento della capacità produttiva ma anche dai tre precedenti, in modo da valutare dati medi consistenti e prossimi alla data del trasferimento all'estero. Sono stati monitorati sia indicatori assoluti della dimensione d'impresa che indicatori relativi. Inoltre si è valutata non solo la dimensione ma anche la redditività operativa.

27 La dipendenza di lungo periodo dalle quantità attese non rende f Q un costo marginale, poiché f subisce variazioni discrete e non infinitesimali. 28 La razionalità impone il vincolo che i profitti (intertemporali) in un contesto di rinnovamento tecnologico non devono essere inferiori a quelli possibili in sua assenza [Q(p-co-crt)/(1-m)-fcst ≥ Q(p-co)/(1-m)]. 29 Si ringrazia la dottoressa I. Lorenzetto della CCIAA di Treviso per la preziosa collaborazione nella raccolta dei dati. 30 È stata però esclusa un'impresa i cui parametri dimensionali sono di un ordine di grandezza assolutamente superiore alla media di tutte le altre (rapporto 3 a 1 per fatturato e costi di produzione, 8 a 1 per investimenti complessivi).

80

III.4.1 La dimensione operativa assoluta A tal fine si sono considerati: • il fatturato; • i costi di produzione; • il valore (lordo) degli investimenti aziendali. Fatturato Questo fondamentale indicatore dimensionale si attesta mediamente sui 25 mld per il legno-arredamento ed il tessile-abbigliamento, mentre sale a 35 mld per la meccanica ed il calzaturiero. È però azzardato considerare questi dati medi alla stregua di valori di soglia per l'internazionalizzazione produttiva. Si tratta di medie poco consistenti, vista la loro marcata variabilità. Si consideri la tabella seguente:

fatturato campo di variazione (dati in mld)

media min max

standard error

calzaturiero 35,7 9,1 63,8 19,4 legno-arredamento 25,2 6,6 42,2 14,2 tessile-abbigliamento 25,6 3,9 35 11,5 meccanica 34,8 16,7 40 4,1

Considerando lo standard error, uno dei più affidabili indici di variabilità, solo il fatturato mediamente rilevabile nella meccanica sembra essere un dato statisticamente significativo. Costi di produzione La rilevanza di questo indicatore dimensionale viene sancita di per sé dal fenomeno del decentramento produttivo, che ha soprattutto (anche se non solo) una matrice cost-saving. I dati medi indicano costi di produzione che si assestano su 36 mld per il calzaturiero, 25-26 mld per il legno-arredamento ed il tessile-abbigliamento, 28 mld per la meccanica31. 31 Ad eccezione della meccanica, si noti la sostanziale coincidenza tra questi dati medi e quelli del fatturato, segnale inequivocabile del ruolo fondamentale che le valutazioni di magazzino ed i ricavi atipici e straordinari esercitano sulle performance.

81

Anche in questo caso trattasi di medie poco "robuste",quindi poco affidabili, in quanto estrapolate da un contesto estremamente variabile:

costi di produzione campo di variazione (dati in mld)

media min max

standard error

calzaturiero 35,7 8,8 62,7 19,1 legno-arredamento 25,2 7,3 41,3 13,7 tessile-abbigliamento 25,6 3,4 37,7 11,9 meccanica 28,3 0,6 41,3 14,5

Investimenti lordi totali Questo parametro ripresenta una situazione analoga alle precedenti: legno-arredamento e tessile–abbigliamento con valori medi molto simili, praticamente uguali, e inferiori al calzaturiero ed alla meccanica. Gli investimenti complessivi dei primi due macro settori si concentrano sui 18-19 mld, mentre quelli degli altri due oscillano mediamente da 25 a 28 mld. Nemmeno questa variabile dimensionale, però, sfugge alla innegabile eterogeneità dei contesti aziendali considerati.

investimenti lordi totali campo di variazione (dati in mld)

media min max

standard error

calzaturiero 25,5 4,6 43 13,8 legno-arredamento 18,8 5,7 32,5 11,3 tessile-abbigliamento 18,4 2,4 28,6 9,5 meccanica 28 9,7 37,1 7,3

III.4.2 La dimensione operativa relativa La modesta robustezza statistica degli indici dimensionali assoluti sposta inevitabilmente l'attenzione su quelli relativi, con particolare riferimento a: • costi del lavoro rispetto al fatturato; • imposte rispetto al fatturato; • costi dei materiali e dei servizi rispetto al fatturato. Riprendendo quanto già prima anticipato, la scelta è ricaduta su tali criteri, tra tutti i possibili, per un motivo intuibile: l'internazionalizzazione produttiva è volta alla ricerca, pur non esclusiva, di risparmi nei costi di

82

produzione e fiscali. Inoltre, poiché la variabilità dei dati medi assoluti è estrema anche nel caso dei costi di produzione, questo parametro dimensionale va giocoforza testato in termini relativi. Costi del lavoro e fatturato Nei quattro macro settori considerati i costi del fattore lavoro assorbono una quota di fatturato che va dall'11% al 18% circa. Sul gradino più basso si colloca il calzaturiero (11,2%), mentre su quello più alto c'è la meccanica (18,4%); a livello intermedio vi sono il legno-arredamento (15,1%) ed il tessile-abbigliamento (14,8%). Gli indici di variabilità sono più concentrati, in particolare lo standard error.

costo del lavoro/fatturato

campo di variazione

media

min max

standard error

calzaturiero 11,2% 3,1% 15,8% 5,2% legno-arredamento 15,1% 9% 24% 6% tessile-abbigliamento 14,8% 9% 25,5% 6,4% meccanica 18,4% 10,9% 31% 6,7%

Questo indicatore, ad eccezione del macro settore della meccanica, può ritenersi più idoneo dei precedenti come soglia dimensionale per l'internazionalizzazione produttiva. Ciò trova conferma nel rapporto tra media e standard error32:

rapporto tra media e standard error fatturato costi prod. invest. lordi costo

lavoro/fatt. calzaturiero 1,84 1,77 1,85 2,16 legno-arredamento 1,77 1,73 1,66 2,52 tessile-abbigliamento 2,24 2,04 1,94 2,33 meccanica 8,49 4,96 3,81 2,73

32 Dal punto di vista metodologico, va osservato che quanto più alto è questo rapporto tanto più il dato medio è significativo. Infatti, il quoziente tra parametro studiato (la media) ed il suo standard error altro non è che il test T, ed è noto che il comportamento della variabile casuale T di Student sottende una diretta proporzionalità tra detto rapporto e la sua significatività statistica.

83

Imposte e fatturato L'indicatore in oggetto rappresenta un "punto dolente" per le imprese italiane in generale, vista la notevole pressione fiscale tuttora vigente. È controverso nella sua definizione, giacché è evidente che a parità di fatturato l'impatto fiscale può cambiare per tutta una serie di fattori (dimensione dei costi, frazione dei costi non deducibili ai fini IRAP, ricapitalizzazioni valide ai fini DIT, gestione dei "canestri fiscali", ecc.). È altresì chiaro, però, che difficilmente sono contemplabili tutte le possibili varianti, quindi la scelta migliore sembra essere proprio quella di parametrizzare le imposte al fatturato, se non altro per consentire il paragone con gli altri indici relativi. Nel campione questo indicatore assume livelli molto simili tra i quattro macro settori: 2,1% nel calzaturiero, 1,1% nel legno-arredamento e nella meccanica, 2,3% nel tessile-abbigliamento.:

imposte/fatturato campo di variazione

media min max

standard error

calzaturiero 2,1% 0,2% 3,4% 1,4% legno-arredamento 1,1% 0,8% 1,6% 0,3% tessile-abbigliamento 2,3% 1% 6% 1,9% meccanica 1,1% 0% 2,1% 0,7% La sua variabilità, però, come si deduce dalla prossima tabella, è proporzionalmente superiore a quella degli indicatori assoluti, fatta eccezione per il macro settore del legno-arredamento. Quindi, piuttosto sorprendentemente, per tre dei quattro macro settori analizzati non è opportuno utilizzarlo come soglia dimensionale per l'internazionalizzazione produttiva:

rapporto tra media e standard error fatturato costi prod. invest.

lordi imposte/fatturato

calzaturiero 1,84 1,77 1,85 1,57 legno-arredamento 1,77 1,73 1,66 3,34 tessile-abbigliamento 2,24 2,04 1,94 1,24 meccanica 8,49 4,96 3,81 1,51

Costi dei materiali e dei servizi e fatturato Questo indice di dimensione relativa fa sembrare poco razionale l'internazionalizzazione produttiva motivata dalla ricerca di risparmi nei costi del lavoro e fiscali. Infatti, come si potrà notare, le spese per acquisti di materiali e servizi erodono il fatturato in misura assolutamente più rilevante.

84

Il dato medio si colloca in un range variabile tra il 67% (tessile-abbigliamento) e l'83% (calzaturiero).

acquisti/fatturato campo di variazione

media min max

standard error

calzaturiero 82,7% 71,5% 92,5% 7,5% legno-arredamento 75,9% 68,7% 80,7% 4,4% tessile-abbigliamento

67,7% 32,3% 81,2% 18,2%

meccanica 75,4% 56,2% 85% 10,3% Come per il costo del lavoro rapportato al fatturato, il quoziente tra dato medio e standard error rivela che la variabilità è proporzionalmente inferiore a quella degli indicatori assoluti, fatta eccezione per il macro settore della meccanica; per quest'ultimo il dato è controverso, nel senso l'indicatore è preferibile ai valori assoluti dei costi (totali) di produzione ed agli investimenti lordi, ma non al livello del fatturato:

rapporto tra media e standard error fatturato costi prod. invest. lordi acquisti/fatturato

calzaturiero 1,84 1,77 1,85 11,07 legno-arredamento 1,77 1,73 1,66 17,16 tessile-abbigliamento 2,24 2,04 1,94 3,72 meccanica 8,49 4,96 3,81 7,32

Si può perciò ritenere che, per il calzaturiero, il legno-arredamento ed il tessile-abbigliamento, l'indicatore in oggetto può essere utile come soglia dimensionale per l'internazionalizzazione produttiva. III.4.3 La redditività operativa

La performance economica dell'impresa può essere messa in luce in vari modi. In questa sede si è optato per un opportuno set di indici la cui valutazione congiunta è in grado di far luce sulle determinanti della redditività operativa. Com'è noto, su questo tema l'indicatore fondamentale è il return on investment (ROI), che mette a confronto il reddito operativo con l'investimento lordo necessario a produrlo, e che per sua stessa costruzione indica l'efficacia dell'impresa come "macchina per produrre e vendere"

85

indipendentemente dal modo in cui viene finanziata. È perciò un indice che assume un ruolo di primo piano, poiché delimita la capacità dell'impresa di remunerare sia i prestatori di denaro che i proprietari33. Sempre con riferimento a dati medi quadriennali (anno del trasferimento produttivo ed i tre precedenti), le risultanze campionarie sono le seguenti:

ROI campo di variazione

media min max

standard error

calzaturiero 9,1% 6,3% 12,3% 2,2% legno-arredamento 4,2% -0,6% 6,5% 2,8% tessile-abbigliamento 11% 5,6% 18,2% 4,4% meccanica 4,9% 0,1% 7,9% 2,8% Si possono perciò definire due livelli ben distinti: in quello inferiore si trovano il legno-arredamento e la meccanica (4-5%), ed in quello superiore il calzaturiero ed il tessile-abbigliamento (9-11%). Inoltre, nel campione si può riscontrare una sensibile discontinuità non solo nel valor medio della redditività operativa, ma anche nella sua variabilità34. Dati così divergenti possono essere spiegati da: • caratteristiche dimensionali/strutturali dell'attività aziendale; • condizioni di efficienza interna (produttività) ed esterna (competitività); • elasticità delle strategie e delle politiche di gestione in relazione alla

variabilità delle condizioni di mercato. Quindi, come si può intuire, le determinanti del ROI sono le più varie, ma possono essere sintetizzate distinguendo i fondamentali fattori che lo caratterizzano. A tal fine si è valutata un'opportuna decomposizione del ROI. Per la precisione, posto che: • RO = risultato operativo lordo • I = capitale investito • F = fatturato

33 Oltre che, ovviamente, l'amministrazione fiscale dello Stato. 34 Si confrontino, ad esempio, il calzaturiero ed il legno-arredamento. Il primo ha un ROI medio più che doppio rispetto al secondo, ma sia il campo di variazione che lo standard error sono dello stesso ordine di grandezza. E ancora, il tessile-abbigliamento denota la migliore redditività operativa, ma anche la più inaffidabile stando ai test di variabilità.

86

lo schema d'analisi si è fondato sulla seguente relazione:

FRO

IF

IRO

∗=

Le possibili chiavi di lettura sono piuttosto evidenti. Infatti, una redditività operativa non soddisfacente può essere dovuta: • ad un modesto turnover degli investimenti (F/I); il tasso di rotazione del

capitale investito è un indicatore duale, poiché può essere interpretato come il numero di volte in cui, in un dato orizzonte temporale, le vendite ricostituiscono il capitale investito nell'impresa, oppure segnala la capacità di penetrazione nel mercato35

• ad un modesta redditività di ogni singolo atto di vendita, così come definita dal ROS [return on sales, cioè il quoziente RO/F].

Considerandoli congiuntamente, rappresentano l'essenza della resa industriale degli investimenti che trova origine: • nei margini (operativi lordi) che si ottengono in ognuno dei cicli di

acquisto, lavorazione e commercializzazione (RO/F, effetto prezzo36); • nella velocità con cui tali cicli si ripetono nel corso dell’anno (F/I, effetto

quantità37). ROS e turnover, perciò, sintetizzano rispettivamente le condizioni di efficienza (interna ed esterna) ed il livello di attività dell'impresa. Nel campione assumo i seguenti valori medi38:

ROS campo di variazione

media min Max

standard error

calzaturiero 6% 4,2% 7,7% 1,6% legno-arredamento 2,9% -0,8% 5% 2,2% tessile-abbigliamento 7,4% 4,8% 11,5% 2,6% meccanica 3,6% 0,1% 7,7% 2,5% 35 Cresce con l'aumentare delle vendite a parità di capitale investito. 36 La redditività di ciascun atto di vendita. 37 La capacità di far ruotare e rigenerare i capitali impiegati. 38 Sono possibili discrepanze tra il prodotto dei loro valori medi ed il ROI medio. Ciò non è dovuto ad una errata scomposizione del ROI ma al fatto che il prodotto di medie non coincide con la media dei prodotti.

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turnover campo di variazione

media min max

standard error

calzaturiero 1,568 1,195 2,04 0,305 legno-arredamento 1,377 1,168 1,725 0,209 tessile-abbigliamento

1,546 1,07 2,275 0,431

meccanica 1,324 0,871 1,746 0,325 Le risultanze campionarie dimostrano che tra i quattro macro settori la divergenza nella redditività operativa è più che altro imputabile all'efficienza, e non alla capacità di penetrazione nel mercato (i turnover sono pressoché allineati). L'efficienza da monitorare è sia esterna che interna. A tal fine è utile scomporre il ROS. Indicando con P il valore della produzione, la redditività delle vendite è pari a:

FP

PRO

FRO

∗=

cioè nel prodotto tra il mark-up sul valore della produzione (RO/P) ed il rapporto tra il valore della produzione e le vendite (P/F). I riscontri sul campione sono i seguenti39:

mark up campo di variazione

media min max

standard error

calzaturiero 6% 4% 7,9% 1,9% legno-arredamento 2,9% -0,7% 5,1% 2,2% tessile-abbigliamento 7,9% 4,8% 13,6% 3,4% meccanica 4,6% 2,5% 8% 2%

valore produzione/fatturato

campo di variazione

media

min max

standard error

calzaturiero 100,1% 94,3% 111,2% 6,6% legno-arredamento 102,4% 97,7% 110,1% 4,7% tessile-abbigliamento 98,4% 89% 109,1% 6,6% meccanica 99% 96,6% 103,1% 2,5% I risultati assumono questi significati:

39 Vale quanto osservato alla nota precedente.

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• il mark-up sulla produzione sottende un diverso approccio ai mercati di sbocco: più efficiente per le imprese del calzaturiero e del tessile-abbigliamento, meno per quelle del legno-arredamento e della meccanica; l'efficienza/inefficienza, in tal caso, deriva da ricavi operativi adeguati/non adeguati rispetto ai costi ad essi connessi;

• per le imprese del calzaturiero e del legno-arredamento, il valore della produzione tende ad eccedere quello delle vendite, segnalando la propensione40 a produrre non solo quanto strettamente richiesto dalla domanda ma anche per il magazzino; è sintomo di inefficienza nel coordinamento tra le funzioni produttiva e commerciale dell’azienda;

• per le imprese del tessile-abbigliamento e della meccanica, invece, il valore della produzione è mediamente inferiore a quello delle vendite; ciò può avere una duplice interpretazione: indica l'efficienza dell’area commerciale o, anche in questo caso, un’inefficiente coordinamento tra questa e l’area produttiva (si supportano le vendite svuotando il magazzino).

Infine, con la stessa metodologia adottata per la dimensione operativa, anche per la dimensione economica si vagliano quali indicatori siano più robusti statisticamente, e quindi più adatti come livelli di soglia dell'internazionalizzazione produttiva, mediante il quoziente tra ogni valor medio ed il suo standard error:

rapporto tra media e standard error turnover mark up val. prod./fatt.

calzaturiero 5,14 3,16 15,17 legno-arredamento 6,59 1,32 21,79 tessile-abbigliamento 3,59 2,32 14,91 meccanica 4,07 2,3 39,6

In sintesi, graduando gli indicatori di performance economica secondo la loro significatività si perverrebbe al seguente rating: 1° efficienza dell'area commerciale e/o suo coordinamento con l'area

produttiva (rapporto tra valore della produzione e fatturato); 2° capacità di rigenerare i capitali investiti (turnover); 3° approccio ai mercati di sbocco (mark-up sul valore della produzione). 40 Si rammenti che i dati non sono puntuali ma medie quadriennali.

89

III.4.3 Ipotesi di soglia dimensionale minima per l'internazionalizzazione produttiva

Incrociando le rilevazioni precedenti riguardo la dimensione e la redditività operative, è possibile tracciare un identikit dell'impresa che delocalizza mettendo in luce i parametri dimensionali più rilevanti nel loro livello minimo statisticamente significativo. Gli indicatori più consistenti sono scremati in base ai risultati del test T (quoziente tra il dato medio ed il suo standard error). L'individuazione del dato minimo più significativo è affidata ad un classico criterio di "robustezza" statistica, cioè l'intervallo centrato sul dato medio e con estremi pari a più o meno lo standard error. Si sono così selezionate le variabili che, per così dire, possono rappresentare "punti di fuga", cioè la soglia dimensionale alla quale l'impresa prende in considerazione l'ipotesi di decentrare l'attività. Sulla base di questa metodologia si perviene al seguente identikit:

indice di dimensione operativa più consistente e sua soglia minima significativa(1)

acquisti rispetto al fatturato calzature 75,2% legno-arredamento 71,5% tessile-abbigliamento 49,5%

fatturato meccanica 30,7 mld

(1) valor medio – standard error

indice di redditività operativa più consistente e sua soglia minima significativa(1) valore produzione rispetto al fatturato calzature 93,5% legno-arredamento 97,7% tessile-abbigliamento 91,8% meccanica 96,5%

(1) valor medio – standard error

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(2) (3)

IV. UNA NUOVA "POLITICA" COME RISPOSTA ALL'INTERNAZIONALIZZAZIONE

L'apertura dei mercati e l'internazionalizzazione produttiva, con la conseguente"apertura" dei distretti, impone agli enti locali ed alle imprese nuove scelte e nuove strategie in grado di affrontare i processi di integrazione e di competitività a scala globale. In altri termini, occorre da un lato attuare politiche atte a porre le imprese in grado di affrontare le difficoltà e gli ostacoli insiti nel processo di internazionalizzazione. Dall'altro, consentire alle imprese maggiormente radicate nel territorio, e che pertanto non intraprendono processi di internazionalizzazione produttiva, di essere competitive. Infatti lo scenario che si prefigura, per la provincia come per tutto il Veneto, è quello di un sistema economico articolato settorialmente e territorialmente organizzato a rete i cui nodi saranno talora anche molto distanti tra loro, ma necessariamente dovranno avere eguali potenzialità per non far cadere la "tensione" nell'intero sistema. Questa nuova organizzazione impone un upgrading sia dei fattori competitivi interni aziendali che di quelli esterni, ma soprattutto impone alle pubbliche amministrazioni una particolare attenzione a quelle imprese locali che pur non delocalizzano costituiscono un supporto essenziale alla competitività dell'intero sistema. In questo senso, se occorre dare slancio innovativo alle imprese proiettate all'esterno, aiutandole a superare gli ostacoli all'internazionalizzazione, occorre altresì valorizzare quegli elementi della catena del valore che insistono nel nostro territorio. Molte sono le azioni che normalmente i policy-maker possono attivare per incentivare e sostenere l'internazionalizzazione, intesa nel senso più generale del termine. Se però si pone l'accento sull'internazionalizzazione produttiva, tali azioni devono legarsi strettamente alla tipologia dei vincoli che sono emersi dalle indagini empiriche prima discusse41. Per altro verso, sono proprio questi fenomeni emersi anche dall'indagine a rendere più evidente l'esigenza di una politica per le imprese che rimangono nel territorio.

41 Si sta facendo riferimento a quanto discusso nel capitolo II e nei paragrafi III.2 e III.4.

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IV.1 Aspetti critici che ostacolano i processi di internazionalizzazione

I problemi dell'internazionalizzazione emergono nel momento in cui l'impresa deve definire il proprio "raggio d'azione"; spesso le piccole e medie imprese non lo scelgono razionalmente, nel senso che tengono conto solo di una parte dei fattori che lo caratterizzano [normalmente risparmi nei costi di produzione (talvolta anche di commercializzazione) e benefici fiscali]. La definizione del raggio d'azione dipende da una serie di "distanze": culturale (lingua, sistema formativo, comportamenti economici), geografica (effetto dei costi di trasporto), politica-monetaria-economica, competitiva42. In questo l'azienda può incontrare problemi di tipo esogeno (doganali, assicurativi, fiscali, finanziari, connessi alla qualità) oppure problemi di tipo endogeno, cioè interni all'azienda stessa. In questa sede, però, è di rilievo non tanto la bipartizione tra vincolo esogeno ed endogeno, quanto tra vincolo che può essere rimosso/aggirato con interventi locali oppure con interventi nazionali e sovranazionali. IV.1.1 Vincoli aggredibili con strumenti nazionali e

sovranazionali Problemi doganali Al di fuori dell'UE, alle restrizioni doganali in senso stretto si aggiungono barriere non tariffarie (regolamenti nazionali e procedure burocratiche che ostacolano la circolazione delle merci)43. Cosa fare per difendersi ? Si tratta di problemi che prima hanno animato la discussione del GATT, poi del WTO. Qualora questi vincoli non siano conformi a tali accordi, a convenzioni internazionali siglate con il nostro Paese o con l’UE, per l'impresa sono disponibili due ovvie opzioni: un’azione legale presso le

42 Esistono spazi per muoversi in loco se vale almeno una delle seguenti condizioni: i concorrenti locali non sono aggressivi, i concorrenti locali sono piccole e medie imprese, le barriere protettive sono ridotte, il mercato è in crescita, il mercato è molto grande. 43 Per i paesi dell'Europa dell'est, destinazione ancora prevalente per i processi di decentramento delle imprese trevigiane, queste problematiche sono approfondite nelle schede informative dell'Appendice.

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autorità del Paese straniero (ove ve ne fossero gli estremi44), oppure rivolgersi al proprio governo affinché solleciti il Paese estero45. Problemi assicurativi È noto che nei processi di internazionalizzazione si corrono rischi di tipo commerciale, politico, catastrofico, di cambio, di intrasferibilità dei fondi. Esistono vari istituti che si occupano di questi problemi; nel nostro paese il più noto è la SACE che assicura alcuni di tali rischi46: Problemi fiscali La variabile fiscale spesso è centrale nei processi di internazionalizzazione; come è già stato sottolineato, l'imposizione fiscale è una delle motivazioni prevalenti al decentramento produttivo. In tali casi viene redatto un tax planning, cioè uno schema operativo di ottimizzazione fiscale47, il cui ovvio scopo è quello ridurre al minimo il prelievo fiscale. Il problema principale del tax planning è provare la residenza fiscale nel paese desiderato. A questo proposito vi sono disposizioni internazionali. Sul tema

44 Si potrebbe ottenere un'ingiunzione favorevole ed anche la compensazione del danno, ma i costi e le difficoltà per un'azione legale all'estero sono elevati ed i tempi possono essere lunghi. 45 Questa opzione, però, è piuttosto "macchinosa" giacché nel nostro Paese non esiste ancora un'apposita unità governativa dedicata allo scopo. 46 Commerciali, con copertura massima del 90%, finanziari e derivanti da operazioni triangolari, con copertura massima del 95%, derivanti da operazioni di particolare interesse economico-politico per il paese, con copertura che arriva al 100%. Contrattualmente l'offerta si articola in cinque tipi copertura: globale (assicurare più committenti oppure più contratti con lo stesso committente), globale contraente (un unico soggetto stipula la polizza che assicura più aziende, che così si liberano dalle incombenze amministrative e burocratiche), RCF (alla globale aggiunge la copertura della revoca e della sospensione della commessa, del mancato ritiro delle merci, dell’effettiva escussione delle fideiussioni), individuale per crediti a breve termine [si assicurano singoli contratti a breve termine che hanno per oggetto merci (sia beni di consumo, sia beni durevoli, sia beni strumentali), servizi, merci e servizi insieme], rischio di cambio (si integrano le precedenti coperture con clausole esplicitamente dedicate a questo rischio). 47 Si articola in 4 fasi: esame dettagliato dei paesi fiscalmente più favorevoli, scelta della forma giuridica ad hoc, scelta delle forme contrattuali più idonee, scelta della localizzazione regionale/locale fiscalmente ottimale. Per quanto riguarda i paesi dell'Europa dell'est, anche per queste problematiche si rinvia alle schede informative dell'Appendice.

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interviene, ad esempio, l’art. 5 della convenzione OCSE48, superata però da Direttiva comunitaria, nota come "Madre e Figlia", che punta ad evitare la doppia imposizione degli utili49. Su questi temi esistevano due principali "zone d'ombra". Una di queste è stata rimossa. Si tratta dell’articolo 21 della legge 413/91 che introduceva il diritto d’interpello, cioè il diritto ad avere un parere preventivo dall’amministrazione statale. Originariamente questo diritto era limitato ad operazioni straordinarie (fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo, variazione del capitale sociale). Attualmente è allargato ad una serie di problematiche, tra le quali la distribuzione di dividendi di società non residenti e controllate (direttamente ed indirettamente) da soggetti residenti; si applica il meccanismo del silenzio-assenso entro 120 giorni. La seconda "zona d'ombra", ancora attuale, è l'annoso problema dell'armonizzazione fiscale in ambito UE. IV.1.2 Vincoli finanziari aggredibili con strumenti

locali/regionali Le nostre PMI entrano nei mercati esteri supportate da un riconosciuto know-how tecnico e commerciale, ma frenate da strategie finanziarie non consone alla concorrenza globale [Biscaro (1998), pagg. 1-38]. Inoltre, il mantenimento degli equilibri finanziari (soprattutto quelli di breve periodo) sono venuti a dipendere anche dalla gestione valutaria dell'azienda50. Di conseguenza, più che in passato, la mancanza di un'adeguata 48 Individua la residenza fiscale dell’azienda ove la stessa può vantare almeno una delle seguenti strutture: sede direzionale, succursale, officina, laboratorio, miniera, giacimento, cava. Lo stesso articolo indica alcuni casi di esclusione; non c’è residenza fiscale se: la struttura è usata solo come deposito, esposizione, base di consegna delle merci, se le merci vi vengono immagazzinate per essere trasformate da altri, se la sede è usata solo per acquisti, per la raccolta di informazioni, per attività preparatorie alla vera attività d’impresa. Viene stabilita la regola generale per cui i dividendi possono essere imponibili nello stato beneficiario mentre in quello di distribuzione è ammessa una ritenuta alla fonte tra il 5% ed il 25%. 49 La Direttiva, recepita in Italia con il D.L. 136/93 ed ora anche dal TUIR (art. 96 bis), sancisce che nel Paese beneficiario i dividendi concorrono alla base imponibile solo per il 5% se la partecipazione nella "Figlia" non è inferiore al 25% (va commisurata al patrimonio netto e non ai diritti di voto), se la partecipazione è detenuta per almeno un anno successivamente alla distribuzione, se la partecipazione deve essere diretta e non tramite altre partecipate. 50 Le passate misure di liberalizzazione hanno trasformato i finanziamenti in valuta da operazioni a rigido controllo centrale in una normale forma di approvvigionamento di risorse liquide, anche senza alcun legame con l'operatività commerciale.

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programmazione finanziaria scopre il fianco ad alcune situazioni che, se mal gestite, ostacolano il successo di lungo periodo dei processi di internazionalizzazione: 1. L'Euro. La moneta unica ha certamente degli effetti non secondari sulla

capacità di internazionalizzazione delle PMI. Si pensi, ad esempio, alle strategie di prezzo: da un lato le imprese godono dei benefici del controllo sull'inflazione, dall'altro lato non possono più contare sulla sottovalutazione della Lira in ambito comunitario, nel quale si riversa la gran parte dell'export provinciale.

2. Quantità e tipologia delle risorse finanziarie. L’internazionalizzazione richiede ingenti disponibilità, e su scala internazionale è improponibile un modello di sviluppo basato sull'autofinanziamento. La ricapitalizzazione sarebbe l'opzione che offre "ampio respiro" alle strategie di internazionalizzazione, ma l'apertura della compagine sociale è un evento fortemente osteggiato nelle PMI; occorre anche notare che l'ingresso di nuovi investitori in simili realtà aziendali è vincolato dalle scarse possibilità di way-out51. In ultima analisi, la fonte privilegiata sembra essere, ancora una volta, il capitale intermediato.

3. Rapporti con le banche. Dopo l'introduzione dell'Euro i tassi d'interesse sono dapprima calati e poi risaliti alle prime avvisaglie di debolezza nei confronti del Dollaro statunitense. È noto però che, per qualsiasi livello del tasso di riferimento, le PMI spesso subiscono tassi più vicini al top rate che al prime rate, e altrettanto spesso sono le prime ad essere razionate dal sistema bancario.

Emerge la necessità di nuovi strumenti ed interventi più mirati ed incisivi; infatti, è agevole constatare che le forme di incentivazione/agevolazione finanziaria sono spesso inefficaci e/o "inavvicinabili" da imprese medio-piccole e piccolissime. Tra le varie fonti legislative52 si prendano a riferimento, ad esempio, quelle nazionali. Tra queste spicca la fondamentale legge n. 227 del 24 maggio 1977 e successive modificazioni ed integrazioni, in base alle quali gli esportatori possono ottenere delle agevolazioni finanziarie connesse ai crediti esteri che detengono. Si tratta di una serie di norme che le tipiche piccole e medie imprese distrettuali riescono difficilmente a sfruttare poiché le disponibilità limitano l'agevolazione al

51 Resta ovviamente aperta l’opzione del riacquisto da parte dei proprietari originari, ma trattasi di una soluzione poco appetibile perché non consente elevati capital-gain. 52 Per approfondimenti sulle principali forme pubbliche di finanziamento all'internazionalizzazione, sia nazionali che comunitarie, si veda Biscaro (1999a).

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conto interessi e sono riservate alle forniture di beni strumentali53, ed inoltre si richiede il rispetto dei parametri stabiliti dal Consensus54, per certi versi non idonei a PMI in tensione finanziaria55, per altri praticabili solo in presenza di una decisa forza contrattuale56. Si pensi poi alle agevolazioni per i consorzi all'esportazione, con particolare riferimento alle leggi n. 240 del 21 maggio 1981 e n. 83 del 21 febbraio 1989, e loro successive modificazioni e integrazioni, nonché la circolare s/402871 del 13 marzo 1992 del Ministero del Commercio Estero. Viene finanziato praticamente qualsiasi settore di attività, ma la contribuzione non va ad alleggerire i principali costi che normalmente inducono le imprese a decentrare la produzione, come ad esempio quelli del personale, e non spetta nulla a chi già ottiene contributi dalle Regioni, dalle finanziarie regionali e da qualsiasi altro ente partecipato a maggioranza dalle Regioni. Vi sono poi interventi legislativi direttamente finalizzati al sostegno degli investimenti esteri, se questi consentono la penetrazione nelle aree di potenziale sviluppo (legge n. 100 del 24/4/1990 e decreto del Ministero del Tesoro del 30/5/1995). Si tratta di strumenti ben ideati ma con limiti quantitativi57.

53 Limitando l'agevolazione ad una frazione delle PMI della meccanica, giacché quelle del tessile-abbigliamento, dell'arredamento e delle calzature vendono beni di consumo. 54 Arrangement on Guidelines for Officially Supported Export Credit tra tutti i paesi OCSE. 55 Infatti secondo il Consensus si dovrebbe concedere al cliente una dilazione non inferiore ai 24 mesi (si può scendere sotto questo orizzonte temporale solo in un caso, quando la banca finanzia l'esportatore con un tasso pari al prime rate aumentato della percentuale corrispondente alle competenze bancarie, ma è noto che le banche preferiscono praticare alle PMI tassi ben superiori), i pagamenti dovrebbero essere scadenzati semestralmente, se si applicano interessi sulla dilazione (fatto scontato su orizzonti temporali così lunghi) si dovrebbero applicare i tassi appositamente previsti dall'OCSE. Inoltre, quando l'agevolazione è favore della PMI esportatrice (supplier's credit) e il credito non è rappresentato da una promissory note o una bill of exchange (tra l'altro avallati da una banca primaria del Paese del cliente), la PMI dovrebbe esporsi personalmente firmando essa stessa una cambiale a favore della propria banca, con tutti i rischi che ne derivano nel caso di mancato buon fine della transazione. 56 Si dovrebbe richiedere un pagamento contestuale o anticipato per almeno il 15% dell'ordine. Se l'agevolazione è a favore del cliente estero, per incentivarlo ad aderire all'offerta (buyer's credit), dovrebbe essere previsto l'integrale pagamento in contanti. 57 Il finanziamento al massimo arriva a coprire il 70% dell'investimento, e comunque se trattasi di piccola e media impresa non può superare i 5 miliardi per ogni

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L'accesso agli incentivi comunitari, oltre che ad essere complesso, come già evidenziato dalle interviste agli imprenditori (si rinvia al paragrafo III.2), è subordinato al possesso di requisiti e di capacità che spesso le PMI distrettuali non posseggono, che a ben vedere consentirebbero l'internazionalizzazione senza l'appoggio comunitario58. IV.1.2.1 Ipotesi di nuovi strumenti regionali/locali

Sulla base dei vincoli prima evidenziati, è opportuno dare priorità alle agevolazioni finanziarie finalizzate a sostenere:

1. i costi del decentramento produttivo 2. reti commerciali stabili oltre confine 3. innovazioni che migliorano il rapporto prezzo/qualità su mercati

internazionali pervasi dall'offerta dei PVS e dei NICS dando la priorità alle imprese che si trovano in una, o entrambe, le condizioni seguenti: a) appartenenza ad una filiera produttiva in cui le aziende a valle hanno

decentrato la produzione (o stanno per farlo); b) esistenza di vincoli all'accesso ai finanziamenti di matrice nazionale e

comunitaria. iniziativa, i 10 miliardi complessivi per l’impresa, i 15 miliardi complessivi per il gruppo di appartenenza dell’impresa (si fa riferimento ai gruppi stabiliti dall'art. 2359 del Codice Civile). Inoltre il prestito ha una durata media (va restituito in 5-8 anni), occorre prestare una garanzia bancaria sull'intero importo (capitale più interessi), non è cumulabile ad eventuali contribuzioni ottenute in base alla legge n. 49 del 26 febbraio 1987 (finanziamenti a chi costituisce joint venture in paesi destinatari di interventi governativi finalizzati a favorire la cooperazione). 58 Ad esempio, che il programma AL-Invest (investimenti nell'America Latina) tra le altre cose richiede esperienza di cooperazione in paesi extra-comunitari, capacità nelle funzioni informative, capacità di controllo dello sviluppo di progetti oltre confine. I vari programmi che finanziano la nascita di joint venture richiedono che l'impresa abbia già autonomamente individuato i partner esteri più idonei, e che sia stato già definito il progetto in tutti i dettagli. Il programma PHARE, appositamente dedicato ad investimenti nei paesi dell'Europa dell'est, copre attività che praticamente escludono i settori maturi tipici dei nostri distretti industriali (a meno che non siano fornitori di beni utilizzabili nelle infrastrutture, soprattutto di trasporto e delle telecomunicazioni), che possono venir coinvolti solo indirettamente e "trasversalmente" all'oggetto d'impresa (si finanziano ad esempio le spese di formazione professionale).

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Cosa finanziare Gli interventi devono prevalentemente sostenere gli investimenti (incrementali) in intangible assets e l'accesso a servizi esterni avanzati. La modesta presenza di investimenti immateriali, infatti, è uno dei principali punti deboli per la sopravvivenza di lungo periodo delle PMI. Su ciò occorre notare che le piccole e medie imprese del nostro Paese hanno tradizionalmente "disertato" questi investimenti per concentrare le loro disponibilità su quelli circolanti, al fine di massimizzare margini operativi troppo erosi dagli oneri finanziari59.Gli investimenti immateriali da finanziare non si devono limitare a ricostituire la dotazione preesistente e già ammortizzata. L'assistenza finanziaria dovrebbe essere concessa non "a pioggia" ma vincolata ad una soglia minima di investimento (incrementale) oltre la quale le economie di scala per l'impresa sono evidenti e, soprattutto, della tipologia più idonea ad agevolare l'internazionalizzazione. Su questo tema si rammenti che in ambito internazionale le economie di scala si manifestano non solo nella produzione ma anche nel marketing e nella logistica. L'accesso a servizi esterni innovativi è finanziabile se impatta direttamente sull'efficacia/efficienza dell'organizzazione aziendale. In pratica si tratterebbe di sostenere l'acquisto di servizi e consulenze finalizzati a certificazioni di qualità (effetti sulle strategie di prezzo), certificazioni ambientali (effetti promozionali e relazionali), modernizzazione della logistica (effetti sull'efficacia della gestione, economie di costo) e del commerciale (effetti sulla capacità di penetrazione del mercato). É però fondamentale premiare l'acquisto di servizi che vanno oltre il mero adeguamento a norme di legge, poiché oramai questo livello qualitativo deve considerarsi scontato, non idoneo a creare valore aggiunto.

59 Questa strategia aziendale trova riscontro in un'opportuna decomposizione della redditività netta finale del capitale di rischio. Indicando con ROIN la redditività operativa (netta delle imposte societarie), con rN il tasso d’interesse esplicito ed implicito mediamente pagato sull’indebitamento complessivo (netto delle imposte societarie per le quali gli oneri finanziari espliciti ed impliciti sono deducibili) e con L il rapporto d'indebitamento, il legame esistente tra il rendimento netto del capitale di rischio [ROE (return on equity)] e le componenti operative e finanziarie dell'impresa è sintetizzabile con ROE = ROIN + (ROIN-rN)L, da cui si evince che esso aumenta quanto più i rendimenti operativi eccedono i costi delle fonti di capitale (ROIN > rN).

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Come finanziare I fondi pubblici già in essere e destinati al finanziamento di PMI soffrono di alcuni limiti funzionali. Normalmente il sostegno finanziario pubblico alle attività produttive avviene mediante contributi in conto capitale ed in conto interesse, bonus fiscali, sovvenzioni e finanziamenti agevolati. Nella prima opzione l'intervento non è di sicura e immediata applicazione poiché dipende dalla capacità dell’impresa di reperire le risorse da destinare all’investimento, sui cui poi esercitare il diritto alla contribuzione pubblica. Si tratta infatti di strumenti idonei ad imprese medio-grandi, in grado di reperire i fondi necessari con maggior facilità di quanto possibile ad una PMI. Anche la seconda opzione sembra valere soprattutto per le imprese di maggiori dimensioni, che meglio di altre ottimizzano la gestione fiscale60. La terza opzione non presenta i limiti della prima, trattandosi di strumenti con la necessaria disponibilità pubblica di fondi, ma sono criticabili gli strumenti di garanzia e controgaranzia che la completano. Si prendano a riferimento, ad esempio, il Fondo di Garanzia per le PMI (legge 662/96 e legge 266/97) ed il Fondo Centrale di Garanzia per le Imprese Artigiane (legge 1068/64), che evidenziano alcune distorsioni nella loro operatività, un debole carattere di terzietà, l'assenza di una vera regionalizzazione degli interventi61. Alla luce di tutto questo, una nuova ipotesi di intervento finanziario regionale/locale a favore di PMI distrettuali che non riescono ad internazionalizzarsi, dovrebbe sostanzialmente operare con le seguenti modalità: 1. Abbandonare il metodo contributivo a favore del finanziamento

agevolato. La copertura finanziaria non demandata all'impresa (se non parzialmente) lo rende realmente accessibile.

2. Si deve recuperare il ruolo dei Confidi, che dovrebbero interporsi tra i fondi di garanzia e controgaranzia ed i soggetti erogatori.

60 Non solo per le superiori opportunità di fruire della DIT, ma anche per la possibilità di comprimere l’IRAP mediante delocalizzazioni produttive internazionali che "spostano" oltre confine i costi del lavoro non deducibili per questa imposta. 61 Sono fondi pubblici con finalità di politica economica gestiti però da banche ordinarie (Mediocredito Centrale e Artigiancassa, rispettivamente dei gruppi Banca di Roma e BNL), quindi con potenziali conflitti di interessi. Inoltre la legge Bassanini (59/98) e il suo decreto attuativo (112/98) hanno coinvolto nel processo di decentramento solo il Fondo Centrale di Garanzia per le Imprese Artigiane; il Fondo di Garanzia per le PMI ha quindi mantenuto quindi un carattere nazionale, tra l'altro con particolare orientamento al sud del Paese. Infine, il Fondo Centrale di Garanzia per le Imprese Artigiane è poco utilizzato a causa del suo regolamento attuativo oramai datato (alle imprese vengono richieste garanzie ipotecarie).

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3. Il vero fatto nuovo, però, è il coinvolgimento di altre iniziative, come ad esempio fondi di venture capital attivati da consorzi di banche locali62.

IV.1.3 Vincoli connaturati alla dimensione aziendale aggredibili con

strumenti locali/regionali Esistono tutta una serie di limiti strettamente interni alla PMI che tenta l'internazionalizzazione: 1. Ridefinizione del ruolo e dell’operatività del personale. L'efficienza

internazionale dell’impresa spesso dipende dalla sua organizzazione del lavoro, potendo scegliere una struttura gerarchica, tipica delle organizzazioni per linee verticali (funzioni aziendali) e orizzontali (livelli di responsabilità), oppure per processi paralleli e non sequenziali (pochi livelli gerarchici e lavoro per team).

2. Gestione e sfruttamento delle informazioni. Non approfondita conoscenza delle problematiche economiche internazionali, incapacità a sfruttare pienamente le informazioni, necessità di managerialità in campo legale-contrattuale.

3. Vulnerabilità sotto il profilo della governance. L’inevitabile aumento della complessità gestionale si scontra con la "chiusura" della struttura familiare di proprietà. Difficoltà ad organizzare una presenza stabile oltreconfine, insofferenza ai rischi di consegna.

4. Limiti strategici. • si teme di perdere i contatti con il distretto; • nelle alleanze c’è la tentazione ad atteggiamenti free rider; • si privilegiano obiettivi di costo a danno di altri più strategici; • dal lato promozionale ci si limita a partecipare a fiere internazionali; • scarso potere contrattuale; • in caso di difficoltà c’è la tendenza a puntare su sotto-obiettivi

piuttosto che rivedere strategie e comportamenti; • difficoltà a gestire l’accorciarsi del ciclo di vita del prodotto; • tendenza a copiare l’internazionalizzazione di altre aziende.

Anche per questi vincoli sembra opportuna una qualche forma di intervento, anche se per un operatore pubblico è piuttosto problematico agire in sostegno dell'organizzazione interna all'azienda. 62 Per una PMI, infatti, il costituire una nuova unità produttiva in realtà come quelle dei PVS e dei NICS rappresenta un'esperienza del tutto nuova, con i rischi e le incognite tipiche di uno start up.

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L'offerta di servizi di supporto all’organizzazione aziendale può essere complementare a quello finanziario, ma in taluni casi anche succedanea. Il policy-maker locale può ritenere opportuno fornire direttamente le necessarie prestazioni. Si tratta però di una nuova tipologia di servizi giacché quelli preesistenti, infatti, sono tarati per imprese che vedevano nell'export la prevalente, se non l'unica, forma di internazionalizzazione. Questi servizi appaiono perciò inidonei nel fornire la necessaria assistenza a chi deve non solo vendere ma anche produrre all'estero. I nuovi interventi debbono essere rivolti alla funzione di produzione aziendale. IV.1.3.1 Servizi di informazione e di promozione alla

cooperazione in ambito produttivo Vanno intesi come: A. Risposte a problemi e quesiti di tipo tecnico, che presuppongono il solo

accesso alla fonte e la trasmissione della risposta, con particolare riferimento agli obblighi imposti dalle normative ambientali e di sicurezza del Paese di destinazione.

B. Risposte a problemi e quesiti relativi alle opportunità, con particolare riferimento a: • ricerca personalizzata di potenziali fornitori e partner; • valutazione di affidabilità di fornitori e partner; • dati su concorrenti stranieri già dislocati nell’area di destinazione; • informazioni su gare d'appalto di opere e forniture; • informazioni su interscambio di tecnologie.

IV.1.3.2 Servizi di formazione del personale addetto alla

produzione Vanno organizzati sia nel territorio di origine dell’impresa che in quello di destinazione, pur nella consapevolezza delle difficoltà insite nella seconda opzione. I primi vanno rivolti a tecnici, quadri e addetti amministrativi che l’azienda intende dislocare oltre confine. In tal caso le iniziative di formazione devono tener conto che la finalità prevalente dell’impresa è quella di esercitare un controllo il più profondo possibile sull’attività produttiva, e anche amministrativa, dell’unità dislocata.

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I secondi devono emergere nel caso in cui le tecniche di lavorazione del prodotto e l’utilizzo dei macchinari lo richiedono espressamente. Si devono coinvolgere maestranze locali, e l’assistenza si concretizza in un vero e proprio addestramento. Nei limiti del possibile, vanno formati anche tecnici, quadri e addetti amministrativi, con l’obiettivo di medio periodo di ridurre la presenza del personale italiano ad un nucleo minimo indispensabile. IV.1.3.3 Servizi di consulenza

Potrebbero consistere in:

A. Interventi in campo legale-contrattuale, uno dei principali vincoli endogeni all'internazionalizzazione:

• assistenza nella costituzione di nuove società oltre confine e/o nella partecipazione a joint venture, e comunque di sostegno a qualsiasi forma di decentramento produttivo oltre confine;

• informazioni sulla normativa del lavoro, societaria, di agevolazione agli investimenti esteri.

B. Assistenza per problemi richiedenti elaborazioni a mezzo di specifiche professionalità e/o la produzione di pareri su questioni inerenti la tecnologia e l’innovazione63.

C. Gestione delle opportunità: • assistenza negoziale negli incontri con fornitori e partner; • assistenza tecnica nella definizione dei piani e progetti di

produzione64; • verifica della compatibilità dei propri standard di produzione con

quelli richiesti nelle gare d'appalto internazionali; • gestione degli accordi di interscambio di tecnologie. D. Supporto all'organizzazione aziendale: • servizi di traduzione, interpretariato e telecomunicazione; • ricerca di personale specializzato nella gestione dei rapporti con

fornitori e partner; • supporto alla logistica; • supporto nell'espletamento di adempimenti e pratiche amministrative.

63 È noto che le medie e piccole imprese raramente si dotano di propri laboratori di ricerca, fatto che, abbinato alla rarefazione di investimenti immateriali, limita le capacità competitive sui mercati internazionali. 64 Trattasi di un aspetto fondamentale, che spesso vincola l’accesso ai programmi di incentivazione proposti dall’UE.

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IV.2 Interventi atti a consolidare la base produttiva locale

Il fatto che non poche aziende trovino ostacoli non solo nei processi di internazionalizzazione produttiva ma anche commerciale, rende palese l’opportunità di una nuova strategia di politica industriale aderente alle nuove esigenze del territorio e della competitività internazionale. Appaiono ora in tutta evidenza i limiti di un modello di sviluppo industriale, sin qui vincente sul piano della flessibilità, ma che sta trovando ostacoli crescenti sull’incremento della produttività e della competizione internazionale. Soprattutto quest'ultima impone alle imprese problemi di riorganizzazione e di innovazione produttiva, ed ai decisori pubblici una profonda riflessione sul modello di sviluppo e sulla tenuta del sistema produttivo nel quadro europeo ed internazionale. Se le imprese dovranno riorientare i processi produttivi, nel senso di privilegiare gli aspetti qualitativi e della produttività, rispetto a quelli quantitativi e della produzione, non vi è dubbio che ai policy maker locali spetta il compito di fornire un quadro di riferimento idoneo a riprogrammare un modello di sviluppo da un lato troppo "estensivo" nell’impiego di forza lavoro e di territorio, dall'altro moderatamente "intensivo" nello sfruttamento di innovazioni tecnologico-logistiche. Nel momento in cui l'aggiornamento del modello di sviluppo non solo rilancia la competitività delle imprese ma attenua il disagio sociale di flussi crescenti di immigrazione, allora si converrà che l’innovazione, la ricerca e la formazione di capitale umano non sono solo fattori di produzione ma anche vettori del benessere e della qualità del vivere sul territorio provinciale e regionale. IV.2.1 La promozione dell'ambiente economico locale e

dell'impresa Gli effetti di ambiente non sono sistematici e spontanei, e gli scenari prima descritti impongono alla nuova politica industriale locale la transizione da una pianificazione dello spazio, inteso come luogo di aggregazione di più settori economici (ad esempio le zone industriali e artigianali), ad una programmazione di uno sviluppo che valorizzi e implementi i progetti imprenditoriali locali. Inoltre il tessuto industriale locale vede la presenza di enti che offrono servizi alle imprese, ed il loro

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coordinamento con le attività produttive deve essere al centro della politica industriale65. Si possono distinguere due livelli d'intervento: azioni di impulso e azioni di assecondamento dello sviluppo locale. IV.2.1.1 Interventi di impulso allo sviluppo locale

Si deve controbattere al "calo di tensione" che si verificherebbe nei distretti qualora il fenomeno del decentramento produttivo proseguisse incessantemente. Una modalità può essere quella di supportare il tasso netto di sviluppo imprenditoriale, non certamente accrescendo il tasso di natalità che nel territorio provinciale è di per sé molto sostenuto, quanto nel contrastare il tasso di mortalità che è parimenti piuttosto elevato. In questo la nuova politica industriale non partirebbe svantaggiata poiché più un'area è costellata di imprese, e sotto questo aspetto il territorio provinciale vanta pochi rivali, più darà luogo a nuovi start up. Gli interventi devono mirare alla fornitura di servizi reali particolarmente orientati a irrobustire le fasi di progettazione, avvio e primo sviluppo d'impresa, con lo scopo ultimo di ridurre drasticamente il tasso di mortalità. Tra questi si possono citare la diagnosi industriale di supporto al business plan, l'assistenza nelle ricerche di finanziamento e nella predisposizione della documentazione per richieste di agevolazioni, la simulazione di scenari di riferimento per il core business dell'impresa. Questi sono solo alcuni esempi, ma in ogni caso qualsiasi set di misure locali a carattere individuale deve essere determinante sia nell'intensificare i rapporti fra le PMI distrettuali ed il loro ambiente economico, sia nel rafforzare la loro capacità di sviluppare con tale ambiente rapporti multilaterali. È questa infatti la condizione che, ad esempio, può consentire ai subfornitori non internazionalizzati di smorzare l'effetto di spiazzamento che si verifica quando i committenti decentrano all'estero la loro attività. La nuova politica industriale locale, ovviamente, deve anche rafforzare le reti fra imprese. A questo livello l'obiettivo è favorire il perseguimento di interessi comuni. Le situazioni coinvolte sono numerose, e a titolo di esempio si possono considerare le seguenti: • appartenenza ad una filiera ove si intensificano i trasferimenti di know

how;

65 Gli strumenti di aiuto alle PMI non raramente operano in sovrapposizione.

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• imprese di subfornitura che debbono ridare stimolo ai rapporti con i loro committenti;

• imprese che si misurano con il rinnovamento della strategia commerciale. Situazioni come queste pongono all'ambiente locale problemi nuovi, che richiedono una più fitta rete di scambi fra imprese, centri di ricerca e organismi di formazione. IV.2.1.2 Interventi per assecondare lo sviluppo locale

Anche volendo prescindere dalle differenze esistenti tra distretto e distretto, si rende ormai necessario un processo di riorganizzazione e ristrutturazione, in alcuni casi di vero e proprio riposizionamento, di alcune sub-aree provinciali. Infatti la delocalizzazione crea problemi alle imprese di fase, cioè quelle più specializzate che mancano delle funzioni a monte (design, progettazione) e a valle (distribuzione, commercializzazione), funzioni che più di altre qualificano il valore aggiunto unitario. Volendo assecondare ed agevolare la presenza di queste imprese nei circuiti di mercato, le azioni possono essere classiche o di nuova concezione. Poiché tra le azioni classiche riveste particolare rilievo l'animazione dell'ambiente locale, che per essere efficace deve esercitarsi in un ambito ristretto in cui i partner si sentano solidali, andrebbero costituite delle associazioni ad hoc. Ciò consentirebbe l'assecondamento dello sviluppo locale creando complementarietà e sinergie tra i vari attori dell’economia. Le azioni di nuova concezione, invece, accompagnano l'adeguamento del tessuto locale di imprese alle nuove tecnologie. Questo livello di intervento si colloca spesso a monte del sistema di imprese locali, articolandosi in azioni che interessano vari ambiti, ma in particolare la formazione tecnica e la promozione dell'ambiente scientifico. Nella generalità dei casi questi interventi impongono una duplice serie di azioni complesse: le prime geograficamente ben localizzate, le seconde a vocazione molto più ampia, come ad esempio il coordinamento di gruppi di lavoro fra università e industria al fine di definire nuovi tipi di formazione e di avviare la collaborazione fra i laboratori scientifici e le imprese. Sarebbe inoltre opportuno sostenere i servizi alla produzione, verificando se la loro consistenza numerica sia adeguata rispetto alla struttura produttiva industriale esistente. Occorre infatti sapere se esiste una capacità di offerta coerente, perché in tal caso si tratterebbe di collegare questa capacità ad una domanda che va invece sollecitata.

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Non meno importante è la diffusione della formazione imprenditoriale. Se è vero che nel prossimo futuro un giovane su tre sarà imprenditore o lavoratore autonomo, questa tipologia di formazione entrare stabilmente nel bagaglio culturale giovanile. In tal senso sono necessari interventi sostanziali nei punti di raccordo tra sistema scolastico e quello della formazione professionale. Tra le linee prioritarie d'intervento vanno segnalate: • una rete di iniziative formative distribuite sul territorio, con la

partecipazione di soggetti pubblici, accademici, associativi, ecc., finalizzate alla crescita del sistema e raccordate con i circuiti internazionali che si occupano di formazione imprenditoriale e di creazione d'impresa;

• una rete di sportelli per i nuovi imprenditori capace di fornire tutte le informazioni su: caratteristiche giuridiche, adempimenti previsti, facilitazioni finanziarie, aree di localizzazione, opportunità di joint venture, ecc..

IV.2.2 La diffusione della tecnologia e dell'innovazione

Poiché la capacità tecnologica dell'impresa ne aumenta il valore aggiunto e le quote di mercato, e visto che a livello macroeconomico più valore aggiunto significa maggior reddito pro-capite, migliori spese sociali e qualità della vita più elevata, l'innovazione deve essere un obiettivo di politica economica non solo nazionale ma anche locale. Non meno importante è il fatto che l'innovazione stimola l'impiego di forza lavoro altamente qualificata, incoraggia i giovani ad intraprendere carriere di studio significative, e coloro che già lavorano a mantenere aggiornate e flessibili le proprie competenze professionali. In merito alla R&S l'interesse pubblico dovrebbe essere diretto a due essenziali obiettivi: • mediante lo sviluppo dell'innovazione, incrementare il valore aggiunto

della produzione; • mediante la diffusione dell'innovazione, migliorare la competitività sui

mercati dei beni e dei servizi, accrescendo l'efficienza complessiva del sistema.

Le vie per accrescere il tasso d'innovazione delle imprese possono essere:

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• il collegamento tra le strutture organizzate che svolgono ricerca scientifica e tecnologica [Università, enti di ricerca (pubblici e privati)] ed il sistema produttivo, mediante lo sviluppo di progetti di ricerca congiunti;

• il miglioramento delle competenze professionali delle forze di lavoro, sia prima che dopo l'inserimento in azienda;

• la promozione della cooperazione tra imprese per lo sviluppo comune di nuove tecnologie.

Nel territorio provinciale già esistono iniziative per il trasferimento della ricerca all'applicazione industriale. Ciò che manca, invece, è la strutturazione necessaria a far radicare queste iniziative nei tessuti locali d'impresa, con stabilità e continuità di azione. Non v'è l'esigenza di nuovi strumenti normativi bensì di strumenti operativi di interconnessione, soprattutto a livello locale. Un'altra grande area d'intervento è quella della validazione, che richiede sia il potenziamento degli organismi di accreditamento della certificazione, sia un'idonea selezionare dei soggetti che offrono servizi sul tema della qualità e dell'impatto ambientale IV.2.2.1 Interventi a sostegno della ricerca industriale

Esistono inequivocabili segnali che localmente la ricerca industriale va potenziata; il più evidente di questi è la modesta proliferazione di brevetti industriali. Tra le misure idonee allo scopo vanno segnalate le seguenti: 1. Incentivare la ricerca comune tra più imprese, meglio se con l'appoggio

di Centri di Eccellenza. È opportuno soffermarsi sulla partnership di ricerca poiché quella individuale ha già molti strumenti nazionali di incentivazione.

2. Supportare spin-off aziendali di ricerca. Com'è noto, trattasi della gemmazione di una nuova impresa appositamente ideata per concretizzare un progetto di ricerca di un'altra impresa (già esistente). L'impatto positivo di questo intervento va oltre il fatto in sé per sé; infatti colmerebbe una sorta di lacuna nella normativa nazionale, visto che il D.Lgs. 297/99 dispone per gli spin-off universitari e dei centri di ricerca66, ma non per quelli aziendali.

66 Ridefinisce la procedura di accesso agli aiuti sulla ricerca industriale.

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3. Promuovere l'istituzione di consorzi misti che abbiano l'attività di ricerca come oggetto sociale esclusivo, o perlomeno prevalente. Il termine "misti" sta appositamente ad indicare la presenza di imprese, associazioni di categoria, CCIAA e altri operatori pubblici locali.

IV.2.2.2 Interventi a sostegno dell'innovazione

Se la ricerca sostiene e potenzia le funzioni aziendali ad elevato contenuto di conoscenza tecnica, segnatamente quelle della progettazione e della produzione, lo sviluppo dell'innovazione di prodotto ne aumenta la capacità di penetrazione sul mercato. Sul tema della nascita e della diffusione dell'innovazione di prodotto molto si sta già facendo, ma è presumibile che altrettanto si debba ancora fare. Alcuni interventi sembrano più urgenti di altri: 1. Sostenere finanziariamente la progettazione e l'industrializzazione di

nuovi prodotti, con premi incrementali nel caso in cui si arrivi al deposito di un brevetto.

2. Diffondere tra le imprese la cultura del check-up aziendale sistematico, in tutti i settori dell'azienda e non solo in campo tecnologico, giacché lo forzo innovativo è credibile se lo è anche l'impresa che lo attua.

3. Integrare l'attività di innovazione con quella di formazione, poiché è noto che uno dei prevalenti limiti delle piccole unità produttive è quello di non saper gestire razionalmente i progetti innovativi.

4. Aggregare l'innovazione di aziende di subfornitura poste in sequenza nella filiera produttiva: l'obiettivo è quello di indurle a sviluppare un proprio prodotto finito incentivandole così alla ricerca di sbocchi di mercato indipendenti da quelli dei loro committenti.

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CONCLUSIONI Uno dei problemi attuali dei distretti è quello del passaggio da una dimensione locale ad una globale. In questo occorre essere consapevoli che la divisione del lavoro su scala globale richiede sistemi di integrazione che consentano di cooperare allo sviluppo delle conoscenze. In tal caso i vantaggi della rete globale possono sostituire quelli della contiguità territoriale tipica del distretto tradizionale. Per quanto riguarda l'iter dell'internazionalizzazione distrettuale, l'esperienza dimostra che la soluzione migliore sarebbe un'evoluzione completa e più veloce possibile. È innegabile che quanto più il processo è unitario e rapido, tanto meno sono probabili divergenze di interessi e di strategie interne al distretto che potrebbero comprometterne la funzionalità. In caso contrario, cioè con una transizione lenta, parziale e discontinua appaiono due possibili fonti di inefficienza: • quella subita dalle imprese che decentrano la produzione, poiché lo

farebbero senza poter contare sui tipici vantaggi distrettuali; • quella subita dalle imprese che non decentrano la produzione, che vedono

saltare, parzialmente se non anche completamente, i legami operativi con le imprese che decentrano, e che permangono in un contesto locale dove le sinergie distrettuali diventano sempre più tenui.

Una ulteriore e particolare fonte di inefficienza graverebbe sui subfornitori distrettuali di imprese che internazionalizzano la produzione. Queste ultime, in tensione sui mercati internazionali a causa dei produttori a basso costo residenti nei PVS e nei NICS, normalmente reagiscono anche aumentando il contenuto qualitativo della produzione, riversando parte di questo onere sui subfornitori. Questi si adeguano con difficoltà, visto che in settori maturi come quelli distrettuali il rendimento marginale della tecnologia è decrescente. Il punto critico è che poi rischiano di veder ridotta la loro operatività a causa del decentramento produttivo del committente. Alla luce di tutto questo, il dubbio che impera riguarda gli effetti complessivi sulla rete distrettuale. Il nodo della questione sembra essere la distinzione tra core competences, che sarebbe auspicabile mantenere nella localizzazione originaria, e conoscenze e servizi che invece possono essere distribuiti nella rete globale. Questo è il tema fondamentale nel generale processo di decentramento produttivo internazionale. L'indagine campionaria ha infatti dimostrato che circa 1/5 delle imprese distrettuali non sarebbe ostile al trasferimento oltre confine anche del centro decisionale-strategico, cioè il "luogo aziendale" dove si pianifica e si accumula il valore aggiunto. In tale ipotesi vi sarebbe una perdita netta per il sistema economico locale,

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non solo per il valore aggiunto che non si formerebbe nel territorio di origine dell'impresa ma anche per lo sfaldamento del tessuto imprenditoriale. Non vi sono ancora segnali, però, che ciò attivi un processo di sfaldamento del distretto che porti alla sua scomparsa. Anche perché i timori prima espressi potrebbero rivelarsi infondati: non è stato infatti ancora dimostrato, o verificato sul campo, che reti distrettuali e reti globali siano antitetiche. È pur vero che l'internazionalizzazione del distretto estende la dimensione geografica delle relazioni e attenua gli effetti della contiguità spaziale, ed è altrettanto vero che l'indagine ha rivelato una crescente indifferenza verso i tipici vantaggi localizzativi, ma non v'è automatismo tra questo e la scomparsa delle economie di agglomerazione, cioè i fattori che fanno la fortuna della scala produttiva locale. Già dalla metà degli anni 90 ci si è resi conto che la dimensione globale e quella locale possono coabitare poiché esiste, per certi versi, una certo grado di complementarietà [Corò (1995)]: • l'attività su scala globale si concentra su processi estesi di divisione del

lavoro e su conoscenze codificabili e per questo trasferibili; • l'attività su scala locale s'impernia invece su conoscenze contestuali non

codificabili e quindi non trasferibili, utilizzabili perciò solo in loco. È quindi probabile che la dimensione internazionale non sopprima quella locale, ma più realisticamente trasformi i sistemi locali in nodi della rete globale. Anzi, la divisione del lavoro su scala globale potrebbe sostenere costi e rischi degli investimenti immateriali, che com'è noto sono funzionali alla sopravvivenza di lungo periodo dell'impresa. La domanda che ora sorge spontanea è se il successo dei distretti tradizionali possa essere riproposto anche dopo i processi di internazionalizzazione. Probabilmente lo è, e non si tratta di un ipotesi eccessivamente ottimistica. Si pensi che il loro successo si fonda sulla rinuncia alla massima integrazione verticale a favore della specializzazione, evitando le inefficienze della conseguente frammentazione mediante l'attivazione di una rete di collegamento. Per riprodurre i successi del distretto tradizionale è necessario che la trasformazione abbia luogo senza indugi, pena il decadimento competitivo di lungo termine. Questa trasformazione non coinvolge solo il distretto nella sua interezza, ma anche le singole unità produttive. Si profila un'impresa capace di creare valore aggiunto non massificando la produzione ma decentrandola con una continua ricerca di nuovi collegamenti tra preferenze della domanda e soluzioni tecniche. Sta prevalendo un'impresa con una nuova tipologia di flessibilità, che non trova esclusivo fondamento nella piccola dimensione ma

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anche in una struttura sempre più reticolare. Si diffondono infatti forme organizzative del tipo: • un centro strategico, che fornisce capitali, know-how e "tutoraggio"

organizzativo, con più centri operativi distaccati; • società integrate, caratterizzate da piccole unità alla ricerca di business

ideas vincenti, che non appena individuate costituiscono un nucleo strategico-operativo di dimensione consona alla concorrenza globale;

• concessione di licenze, affiliazioni commerciali, ecc.; • accordi di subfornitura internazionale. Nel processo di trasformazione dei distretti tradizionali verso una configurazione più internazionale, occorre saper riprodurre/individuare nelle aree di destinazione i fattori di successo e limitare quelli di debolezza. Tra i primi vanno prioritariamente ricercati: • disponibilità elevata di risorse umane e organizzative specifiche • domanda intermedia, cioè interna al distretto, particolarmente sensibile al

binomio tecnologia-qualità, tale da stimolare innovazioni • forte competizione con le imprese non distrettuali, allo scopo di acquisire

quante più possibili nicchie di mercato • fitta rete di fornitori selezionati mentre tra i secondi occorre rifuggire da: • modesti investimenti in ricerca • domanda intermedia sottodimensionata • ricerca di protezione pubblica per le quote di mercato • filiera produttiva a monte frammentata e poco qualificata. Per concludere, il decentramento sembra una via obbligata per attenuare l'incessante processo di sviluppo di tipo estensivo che sembra volersi perpetuare in Provincia, nel Veneto e nel Nord Est. Se è consistente la previsione di un PIL regionale che nel 2002 crescerà del 2,5%, allora saranno necessari alcune decine di migliaia di nuovi immigrati, visto lo stato di quasi piena occupazione. Il problema si pone in misura ancor più rilevante se si pensa che la produttività dell'industria veneta cresce meno della produzione, contrariamente a quanto accade nell'economia italiana. Al di là di spiegazioni più raffinate, si può dire che il fenomeno dipende da un eccesso di flessibilità della piccola e media impresa veneta, ovvero da un eccesso di investimenti in capitale circolante rispetto al capitale fisso, che

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alla lunga può impoverire il processo di innovazione tecnologica [Bresolin (2001)]. Ma non si tratta solo di questo: uno sviluppo ostinatamente estensivo impatta sempre più sulla qualità dell'ambiente, porta al collasso la rete infrastrutturale e consuma, spesso irreversibilmente, crescenti porzioni di territorio.

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APPENDICE. QUADRO GIURIDICO, ECONOMICO E INFRASTRUTTURALE DI ALCUNI PAESI DELL'EUROPA DELL'EST

In questa sede si tracciano i caratteri salienti di alcuni paesi selezionati in base ad un duplice criterio: • sono già oggetto di delocalizzazione produttiva da parte di imprese distrettuali; • hanno una certa probabilità di diventarlo nel prossimo futuro. Fatta questa prima selezione, sono stati esclusi quei paesi per i quali organismi nazionali ed internazionali hanno stimato un rischio-paese estremamente alto. Le fonti informative sono le più varie: World Bank, FMI, ICE, Standard & Poor's, cui si sono aggiunte nostre stime e valutazioni. Le informazioni messe a disposizioni dagli enti citati, che com'è noto sono di amplissimo spettro, sono state filtrate al fine di mettere in stretta evidenza quelle rilevanti per i distretti trevigiani67. La selezione si è limitata all'Europa dell'est visto che attualmente è l'area del mondo prevalentemente (ancorché non esclusivamente) considerata dalle nostre imprese distrettuali per la delocalizzazione. BULGARIA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20#

PIL (reale) vap 5,9 6 5,4 5,1 3,4 Investimenti Fissi Lordi (reali) vap 6,6 7,9 6,2 6,1 4,2 Produzione industriale (reale) vap 7,7 7,3 6,9 6,6 3,9 Disoccupazione qp 8,3 7,4 6,7 6,4 4,8 Cambio con l'Euro vap 25,1 21,5 12,5 10,6 4,1 PIL (reale) pro-capite vap 6,1 6,2 5,6 5,3 3,6 Prezzi al consumo vap 24,3 20,7 17,6 14,9 8,1 Prezzi all'ingrosso vap 20,7 17,6 14,9 12,7 6,9 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's Caratteri politici e sociali 1. I principali obiettivi governativi sono il contenimento del deficit e

l'europeizzazione dell’economia. Le modeste retribuzioni del settore pubblico 67 NOTA METODOLOGICA I valori in Euro sono ottenuti applicando il cambio del 27 novembre 2001.

122

provocano inefficienza e corruzione. Principali infrastrutture pubbliche (sanità, giustizia, altri servizi) piuttosto inadeguate.

2. La crescente attenzione che le imprese e le istituzioni italiane stanno dedicando al paese ha un ritorno in termini assistenza agli operatori italiani che intendono operare nei mercati locali.

3. La povertà è generalizzata e diffusa. Non esiste un ceto medio nel senso occidentale del termine. Le tensioni etnico-sociali con le minoranze sono diminuite.

Tessuto e tradizione industriale 1. Lo sviluppo economico è basato sulle attività di trasformazione, con particolare

attenzione alle lavorazioni per conto terzi. 2. Il contoterzismo è diffuso nel calzaturiero e nel tessile/abbigliamento, grazie a:

• basso costo della manodopera • infrastrutture industriali accettabili • qualità delle lavorazioni

Legislazione sull'import-export 1. La legislazione doganale ha accolto i principi del WTO. 2. I dazi sono ad valorem, e oscillano tra il 2% (materiali elettrici ed elettronici,

alcune apparecchiature meccaniche, ecc.) ed il 70% (alcuni prodotti alimentari). C'è però la tendenza ad una liberalizzazione crescente; le merci provenienti dall'UE sono sottoposte a regimi agevolati: • dazi azzerati, in particolare per importazioni di alcuni beni strumentali

destinati alla produzione industriale, tra cui le macchine tessili, le macchine per l’industria conciaria e calzaturiera

• dazi ridotti del 40%, 70%, 80% o 85% 3. Si deve corrispondere l’IVA del 20%. 4. È stato abolito il contingentamento all'export di prodotti tessili verso l’UE. 5. Il regime di importazione temporanee si applica, tra gli altri, a beni destinati a

fiere o mostre, a campionature, a imballaggi recuperabili, a merci lavorabili per conto terzi. È caratterizzato dal pagamento del 10% dei diritti doganali ma solo a titolo di garanzia, e non sono richieste coperture bancarie purché il proprietario della merce rimanga lo straniero committente. È possibile anche l’importazione temporanea di macchine e di attrezzature necessarie al contoterzismo; in tal caso si richiede un versamento a garanzia pari al 20% dell'imposizione doganale prevista per l'importazione definitiva.

6. Il countertrade è ammesso ma scarsamente utilizzato (il paese è povero di materie prime, e attualmente è in grado di produrre beni competitivi in misura limitata); nei casi in cui si ricorre al countertrade lo si fa nella forma di buy back nella fornitura di impianti all’industria leggera.

7. L'importazione è vietata sono in casi limitati (in particolare per prodotti dannosi per l’ozono), mentre il regime di autorizzazione si applica in relazione ad accordi internazionali o alla legge bulgara [come misura protettiva per l'import (beni inquinanti, armi, ecc.) e come salvaguardia di tipici prodotti locali per l'export (oggetti d'arte, cacciagione viva, ecc.)].

123

8. Esistono zone franche a Burgas, Vidin, Ruse, Plovdiv, Svilengrad, Dragoman. Al loro interno hanno libero accesso, nonché il diritto a svolgere qualsiasi attività produttiva,, imprese di qualsiasi nazionalità. Al loro interno, la forma di collaborazione preferita è la joint venture con almeno un partner bulgaro. Sono caratterizzate da una buona localizzazione geografica (situate su incroci di importanti vie stradali e fluviali), dall'esenzione di dazi per tutte le merci destinate alla produzione, alla trasformazione ed alla riesportazione, da infrastrutture interne sono accettabili, da contatti diretti con le autorità locali.

Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. Nel paese non esiste una specifica normativa su contratti quali quello di

affiliazione commerciale (franchising) e di agenzia, che sia paragonabile a quella italiana; un soggetto con un ruolo simile all'agente è previsto nel contratto di "commissione di vendita". L'unico vincolo alle parti contraenti è il rispetto dei principi generali del diritto bulgaro.

2. Si può prevedere un positivo sviluppo del franchising, vista l'esigenza di by-passare il carente sistema distributivo tradizionale; il contratto è, tra l'altro, idoneo all'affermazione "Made in Italy".

Legislazione societaria 1. Una serie di emendamenti alla legge del 1991 rende la normativa molto prossima

alle direttive in materia dell’Unione Europea. 2. Sono previste le principali forme societarie presenti anche in Italia (snc, sas, srl,

spa, sapa), e sono regolamentate sostanzialmente allo stesso modo. Sono ammesse sia la srl che la spa unipersonale.

3. Per le società i capitali, il capitali sociali minimi agevolano ancor più che in Italia la piccola dimensione, limitandosi ai circa un quarto di quanto richiesto nel nostro paese [5.000 BGN per la srl (circa 2.568 €) e 50.000 BGN per la spa (circa 25.681 €)]

4. La srl viene omologata quando almeno il 70% del capitale è versato, ed in modo tale che ciascun socio abbia versato almeno un terzo di quanto sottoscritto; la spa viene omologata quando almeno il 25% del capitale viene versato.

5. Non vi sono particolari vincoli al rimpatrio dei profitti (e sufficiente certificare l'avvenuto pagamento delle tasse).

6. La costituzione di una joint venture non è specificamente regolamentata (si rinvia alle norme di base per le società); la partecipazione di partner esteri non ha limiti e la società può assumere qualunque forma legale.

Legislazione dei regimi di mercato 1. Si protegge il sistema della libera concorrenza

• il monopolio viene assegnato per legge • sono vietati accordi finalizzati a prefissare i prezzi, ripartire il mercato,

attribuire i fornitori, concludere lo stesso tipo di contratto con condizioni diverse a seconda della controparte

2. Il dumping non è regolamentato.

124

Legislazione fiscale per le società 1. L’utile è tassato in due modi: imposta del 25% per il bilancio statale, imposta del

10% per i bilanci municipali. L'ammontare dell’imposta sugli utili societari viene ridotta del 10% per un anno in caso di aumento del capitale della società, o per ammodernamento e ristrutturazione, e se la società opera in aree che negli ultimi tre anni hanno avuto un livello di disoccupazione 1,5 volte superiore alla media nazionale.

2. I dividendi sono tassati al 15%. 3. Si applica l'IVA ad aliquota 20% a tutti i trasferimenti di beni e servizi effettuati

sul territorio nazionale da contribuenti che esercitano un'attività economica indipendente (non sono contribuenti lo Stato, le autorità centrali e locali, le persone fisiche che lavorano in base a un contratto d’impiego). L'IVA si deve sia per le importazioni definitive che per quelle temporanee (quindi anche per l'immissione in zone franche). Tra i casi di esenzione all'IVA va citata quella connessa alle importazioni: si ha diritto ad un rimborso pari alla percentuale del fatturato derivante da importazione di beni, purché questa sia maggiore o uguale al 30 % dell'intero fatturato; per le persone giuridiche estere il rimborso è legato ad analogo trattamento riservato alle persone giuridiche bulgare presenti nel paese d'origine.

4. Le accise si applicano a servizi e beni prodotti in loco o importati, se compresi in apposito elenco. Dalle accise sono esclusi i prodotti destinati all'export.

5. Esiste una convenzione tra Italia e Bulgaria per evitare le doppie imposizioni di imposte sul reddito e sul patrimonio (si rinvia all'art. 22 comma 3).

Legislazione del lavoro 1. Si può firmare un contratto di lavoro a partire da 16 anni, sia a tempo

indeterminato che determinato. L'eventuale il periodo di prova dura sei mesi. La settimana lavorativa va da 5 a 6 giorni (da 40 a 46 ore), ma di concerto tra azienda e dipendente si possono apporre deroghe.

2. I contratti di lavoro a tempo determinato vanno ratificati solo se trattasi di lavoro temporaneo o stagionale; se riguardano lavoro permanente vanno rinegoziati ogni due anni.

3. I contributi previdenziali, sociali e sanitari a carico del datore di lavoro ammontano complessivamente al 36,7% dello stipendio lordo; questo non può essere inferiore a 79 BGN (circa 41 €). Lo stipendio lordo effettivo supera quello minimo per effetto di contratti civili tra dipendente e azienda, anche se le spese contributive frequentemente si rapportano solo al minimo. Ciò accade soprattutto nelle piccole e medie aziende, che molto spesso sul contratto di lavoro indicano il minimo di legge, che viene successivamente integrato, ad esempio, mediante fattura. In media, lo stipendio lordo effettivo mensile può assumere i valori seguenti: • media generale → 40 (46) ore settimanali = circa 145 € (165) • artigianato68 → 40 (46) ore settimanali = circa 200 € (230)

68 Dato rilevante per la diffusione del conterzismo.

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Legislazione sugli investimenti esteri 1. Vige il principio di assoluta parità di trattamento tra soggetti stranieri e soggetti

bulgari che effettuano investimenti nel paese, purché viga la reciprocità nel paese dei soggetti stranieri.

2. Le restrizioni agli investimenti si limitano al divieto a soggetti stranieri di acquisizione della proprietà di terreni; tale restrizione cade se il soggetto straniero partecipa ad una società assieme a soci bulgari, qualunque sia la quota detenuta.

3. Gli incentivi praticamente non esistono. Sono stati assolutamente ridimensionati in seguito alle proteste del FMI. Attualmente si limitano ad agevolazioni non finanziarie per investimenti superiori a 5 milioni di USD.

La rete distributiva 1. È notevolmente carente, poiché ancora in fieri. Non è nemmeno il caso di parlare

di rete, esistendo singoli punti di distribuzione in determinate aree. 2. I grandi punti di vendita devono ancora essere privatizzati. 3. Il vero punto debole della rete distributiva non pare essere di tipo organizzativo,

ma piuttosto infrastrutturale. La mancanza di un'efficiente rete che parte dall'importatore e arriva al dettagliante, passando dal grossista, pregiudica soprattutto i beni industriali che, com'è noto, necessitano di assistenza tecnica e garanzia.

Modalità dei pagamenti con l'estero 1. Sono consentite le forme di pagamento in uso nel commercio internazionale,

senza nessuna esclusione. 2. Poiché gli operatori bulgari su questo aspetto talvolta "improvvisano", è

opportuno pretendere l’apertura di una lettera di credito irrevocabile. UNGHERIA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20# PIL (reale) vap 5,2 4,3 4,6 4,6 3,8 Investimenti Fissi Lordi (reali) vap 6,2 6,2 5,8 5 4,2 Produzione industriale (reale) vap 10,6 8,5 8,1 7,7 5,1 Disoccupazione qp 4,9 4,4 4 3,8 3,8 Cambio con l'Euro vap 3,4 0,8 -0,5 0 -0,8 PIL (reale) pro-capite vap 5,5 4,6 4,9 4,9 4,1 Prezzi al consumo vap 6,1 4,9 4,6 4,4 4,1 Prezzi all'ingrosso vap 4,8 3,1 2,4 2 1,6 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's

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Caratteri politici e sociali 1. L'andamento demografico è un po' preoccupante. 2. Si riscontra una netta separazione tra i redditi dei ceti più ricchi e quelli dei ceti

più poveri; i differenziali sono evidenti anche per aree regionali. 3. Qualche tensione con la Romania e la Repubblica Slovacca per questioni

connesse alle rispettive minoranze etniche. Tessuto e tradizione industriale 1. Esiste una discreta tradizione industriale. 2. Il miglior vantaggio competitivo consiste in prezzi all'export che sfruttano il

sensibile aumento della produttività del lavoro. Quest'ultima cresce più velocemente dei salari.

3. Il recente recupero dei consumi privati interni, pur modesto, contribuisce ad alimentare la produzione industriale.

Legislazione sull'import-export 1. Non vi sono restrizioni di principio alle importazioni. Solo in rari casi

l'importazione è soggetta all'ottenimento di un'apposita licenza (sicurezza nazionale, impatto ambientale, temporanea importazione).

2. È possibile la temporanea importazione per una serie di beni, tra i quali vale la pena di segnalare i beni strumentali importati dal soggetto estero per effettuare una lavorazione, i beni per fiere e mostre, per presentazione dei prodotti, campioni e modelli

3. Imposte e dazi non si applicano alle importazioni temporanee, purché i beni rimangano di proprietà del soggetto estero.

4. Esistono più di 200 zone franche, il cui numero però dovrà gradualmente ridursi con l'accordo di partnership all'UE; le imprese costituite nelle zone franche non possono avere più del 30% dei subfornitori di nazionalità ungherese, limite aggirabile poiché senza alcun vincolo è possibile trasferire beni per la lavorazione al di fuori della zona franca.

5. I beni provenienti da paesi dell'UE non avranno alcuna restrizione a partire dal gennaio del 2002 (nessun dazio, nessun contingentamento).

6. Il countertrade non è regolamentato. Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. Le norme ungheresi prevedono espressamente sia il contratto di agenzia che

quello di affiliazione commerciale. 2. Il primo è regolamentato in modo del tutto simile alla legge italiana, con due

importanti differenze: non si prevede un'indennità alla cessazione del rapporto di lavoro, l'agente può recedere dal contratto con ampio preavviso mentre il preponente lo può fare in qualsiasi momento.

3. Anche il secondo è regolamentato in modo simile al diritto italiano, ed è in forte diffusione.

4. Si prevede un apposito contratto per aprire un ufficio di rappresentanza, con l'unico vincolo di reciprocità nel paese di appartenenza (per l'Italia lo è). Va notato che l'ufficio non può svolgere un'ampia attività commerciale (né

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ovviamente produrre) ma solo fare pubblicità, promozione, pubbliche relazioni, e può acquistare beni immobili purché con destinazione strumentale.

Legislazione societaria 1. Sono previste tutte le tipologie societarie presenti in Italia. 2. Con riferimento alle srl, si rileva che:

• deve avere un capitale minimo di 3 milioni di HUF (circa 11.920 €), e la parte in denaro deve essere almeno un terzo

• viene omologata quando sono liberati tutti i conferimenti in natura e versati al metà di quelli in denaro (l'altra metà va versta entro un anno dall'omologa)

• può avere più amministratori ma non in forma di Consiglio di Amministrazione; gli amministratori non possono delegare funzioni

• può essere unipersonale, ma con tutto il capitale interamente versato e dotata di revisore contabile

3. Con riferimento alle spa, si rileva che: • deve avere un capitale minimo di 20 milioni di HUF (circa 79.470 €), di cui

almeno il 30% in denaro • il Consiglio di Amministrazione non può avere più di 11 membri, ed il

Collegio Sindacale 15 • deve avere un revisore contabile • può essere unipersonale, ma con tutto il capitale versato

4. Non vi sono vincoli al rimpatrio dei profitti (e sufficiente certificare l'avvenuto pagamento delle tasse).

5. Le joint venture non sono soggette a norme particolari, ma a quelle previste per le società in generale.

Legislazione dei regimi di mercato 1. Sono recepiti i principi della libera concorrenza adottati dall'UE. 2. Sono espressamente disciplinate le situazioni della concorrenza sleale, l'abuso di

posizione dominante, le concentrazioni e qualsiasi accordo che limita la concorrenza

3. Esiste un apposito Ufficio della Concorrenza che può intervenire su qualsiasi contesto che, a giudizio dell'Ufficio, può pregiudicare al concorrenza. In media tale organo commina sanzioni per un terzo dei casi che esamina.

Legislazione fiscale per le società 1. I redditi della società sono tassati al 18%. Se la società ha sede in Ungheria ma

opera esclusivamente all'estero l'aliquota si riduce al 3%. 2. I dividendi distribuiti a soggetti esteri subiscono, in via generale, una ritenuta ala

fonte del 20%; esiste però una convenzione con l'Italia che la limita al 10% (si subisce il 20% e poi si chiede il rimborso del 10%).

3. Un'imponibile pari al fatturato ridotto degli acquisti di materiali e dei costi di produzione viene assoggettato ad un'imposta a base locale (comunale), con aliquota massima del 2%.

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4. Si applica l'IVA al 25%; esiste un'aliquota ridotta al 12% per certi beni e servizi, tra cui i trasporti.

Legislazione del lavoro 1. Sono possibili contratti sia a tempo indeterminato che determinato. L'eventuale

periodo di prova non può eccedere i tre mesi 2. Al dipendente spetta un'indennità aggiuntiva nel caso di licenziamento senza

giusta causa. 3. La retribuzione è determinabile su base oraria, a provvigione, mista. A partire dal

gennaio 2002 il salario minimo sarà pari a 50.000 HUF (circa 199 €); gli stipendi lordi mensili effettivi sono mediamente proporzionali al minimo nel modo che segue: • operaio circa 2,1 volte • addetto contabile circa 2,7 volte • addetto commerciale circa 2,8 volte • architetto circa 2,6 volte • autista circa 2,1 volte • esperto legale circa 5,5 volte • esperto informatico circa 4,7 volte • ingegnere meccanico circa 3,8 volte • revisore dei conti circa 6,1 volte • segretaria circa 2,5 volte

4. Gli oneri a carico del datore del lavoro sono il 35,5% dello stipendio lordo, con un'addizionale fissa di 4.200 HUF (circa 17 €) per contributi sanitari.

Legislazione sugli investimenti esteri 1. Non servono licenze o autorizzazioni per gli investimenti stranieri, salvo quelli

strategici per il paese. 2. Un soggetto straniero che volesse costituire una nuova società, o partecipare ad

una ungherese preesistente, è soggetto alle stesse norme di un residente.La proprietà di una società può essere interamente detenuta da soggetti stranieri, come pure stranieri possono essere tutti gli amministratori.

3. L'unico divieto opera per l'acquisto di terreni agricoli. 4. Gli incentivi, all'opposto, sono evidenti:

• fino al 2002, l’imprenditore straniero che attiva un investimento produttivo da almeno 1 miliardo di HUF (circa 3.974.000 €) può ottenere un'agevolazione fiscale pari al 50% delle imposte dovute

• la riduzione dell'imposta può essere totale (100%) se l'investimento estero avviene in aree prefissate dal governo (sono continuamente aggiornate)

• esistono agevolazioni anche per chi crea nuovi posti di lavoro in aree molto depresse sotto il punto di vista occupazionale

• sono previsti contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati per investimenti in aree depresse sotto il punto di vista infrastrutturale, con struttura industriale in trasformazione, a forte vocazione agricola

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• esiste un fondo per assistere le PMI: finanziamenti a tasso zero se utilizzati per insediamenti produttivi, finanziamenti agevolati, crediti all'export, finanziamenti per ottenere la certificazione di qualità

La rete distributiva 1. Il sistema distributivo è in radicale cambiamento, con operatori privati che

stanno sostituendo quelli pubblici. 2. Grandi catene distributive e centri commerciali si stanno espandendo a danno dei

punti di vendita tradizionali. Modalità dei pagamenti con l'estero 1. Sono utilizzabili gli usuali metodi di pagamento internazionale; quello più usato

è il credito documentario con apertura di lettera di credito. 2. Le norme disciplinano espressamente anche cambiale e assegno, ma sono usati

molto raramente. REPUBBLICA SLOVACCA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20# PIL (reale) vap 5,2 5,6 6 5,4 4,2 Investimenti Fissi Lordi (reali)

vap 4,8 4,1 4,6 3,9 3,5

Produzione industriale (reale) vap 6,2 6,4 6,8 5,8 4,7 Disoccupazione qp 14,8 13,7 12,6 11,5 8,2 Cambio con l'Euro vap 6,8 4,9 1,1 -0,1 -0,8 PIL (reale) pro-capite vap 5 5,4 5,9 5,3 4,2 Prezzi al consumo vap 5,5 4,9 4,7 4 4,3 Prezzi all'ingrosso vap 3,8 2,9 2,8 2,4 1,1 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's Caratteri politici e sociali 1. Come per l'Ungheria, il processo di transizione divide nettamente la popolazione

in merito a reddito e standard di vita. 2. Sono molto diffuse le attività sommerse, il cui peso è stimato essere superiore al

10% del PIL. 3. L'attuale linea governativa è orientata a risolvere le tensioni con le minoranze

ungheresi e rom.

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Tessuto e tradizione industriale 1. Preesiste una buona tradizione industriale nei settori siderurgico e chimico;

questi settori, però, sono quelli che creano maggiori problemi nel processo di transizione, giacché prima erano industrie pubbliche.

2. Sta crescendo la competitività dell'export, grazie ai costi di produzione contenuti. Legislazione sull'import-export 1. L'interscambio con l'UE è soggetto a trattamenti preferenziali che portano alla

riduzione e, in molti casi, all'eliminazione dei dazi. A partire dal gennaio 2002 le importazioni dall'UE saranno completamente liberalizzate (nessun dazio, nessun contingentamento).

2. Sia l'import che l'export è soggetto al regime delle licenze, che però per la grande maggioranza di casi sono automatiche (non lo sono, ad esempio, per prodotti nocivi, per armamenti ed esplosivi).

Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. È previsto il contratto di agenzia, disciplinato in modo analogo a quello italiano. 2. È previsto specificamente anche il contratto di rappresentanza, preferibile al

precedente giacché è disciplinato in modo tale da consentire un maggior controllo dell'agente.

3. L'affiliazione commerciale, invece, non è espressamente regolamentata. 4. Viene disciplinato anche il contratto di brokeraggio, che però è simile a quello di

rappresentanza con la principale differenza di non avere un carattere stabile e continuativo.

Legislazione societaria 1. Le norme riconoscono le forme giuridiche della sas, snc, società cooperativa, srl

e spa. Le società di capitali sono decisamente le più diffuse. 2. Per quanto riguarda la srl, va notato che:

• non può avere più di 50 soci • il capitale sociale non può essere inferiore a 200.000 SVK (circa 4.620 €) • viene omologata se ciascun socio ha versato almeno un terzo di quanto

sottoscritto • può essere unipersonale, ma con tutto il capitale versato • non è obbligatorio il Collegio Sindacale

3. La spa deve avere un capitale minimo di 1 milione di SVK (circa 23.100 €), e può essere unipersonale.

4. Non vi sono vincoli al rimpatrio dei profitti (e sufficiente dimostrare di aver pagato le tasse ed aver certificato il bilancio).

5. Le joint venture sono espressamente disciplinate dalla legge [stipulare un contratto sociale con scrittura privata autenticata, possedere una licenza/concessione all'attività imprenditoriale (rilasciata dall'Ufficio dei Mestieri) nonché l'autorizzazione comunale all'insediamento della società, versare la quota richiesta di capitale sociale, richieder l'omologazione].

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Legislazione dei regimi di mercato 1. La libera concorrenza è sancita per legge, la cui osservanza è garantita da

un'Autorità Antitrust. Sono vietati accordi di cartello, accordi che fissano prezzi e quantità, l'abuso di autorità dominante (che si presuppone quando un soggetto controlla almeno il 40% del mercato).

2. In alcuni casi le fusioni vanno segnalate alle Autorità Antitrust [quote di mercato superiore al 20%, fatturato superiore a 300 milioni di SVK (circa 6.930.000 €)].

Legislazione fiscale per le società 1. I redditi societari sono tassati al 29%. 2. I dividendi sono tassati al 25%; con l'Italia esiste una convenzione per evitare la

doppia imposizione, che limita la tassazione al 15%. 3. Si applica l'IVA al 23%, fatta eccezione per i servizi (quindi anche i trasporti) ed

alcuni beni per i quali l'aliquota scende al 10%. Si applica alle importazioni e non alle esportazioni.

Legislazione del lavoro 1. Non è possibile licenziare senza giusta causa o giusto motivo. 2. L'orario di lavoro prevede non più di 43 ore alla settimana; vi sono limiti anche

agli straordinari: 8 ore settimanali, 150 annue. 3. I contributi a carico del datore del lavoro raggiungono il 38%. Il salario mensile

medio è pari a: • settore commerciale 12.600 SVK (circa 290 €) • industrie manifatturiere 11.600 SVK (circa 270 €) • costruzioni 10.800 SVK (circa 250 €)

Legislazione sugli investimenti esteri 1. C'è parità di trattamento tra residenti e soggetti stranieri. 2. La proprietà di una società può essere interamente detenuta da soggetti stranieri,

come pure stranieri possono essere gli amministratori (questi però necessitano del permesso di soggiorno).

La rete distributiva 1. Il sistema distributivo è in fieri, con un elevato turnover degli operatori. 2. La vendita di beni strumentali, pur esistendo intermediari, viene spesso conclusa

direttamente con l'utilizzatore finale; altrettanto spesso, per i beni di consumo l'importatore fa anche da distributore.

3. Si riscontra una notevole polverizzazione tra le unità di vendita al dettaglio. Si assisterà nel prossimo futuro ad un veloce processo di concentrazione.

Modalità dei pagamenti con l'estero 1. Lo strumento più usato è il bonifico bancario. 2. È consigliabile procedere con cautela (non sono rare le imprese italiane con

crediti insoluti), richiedendo il pagamento anticipato o, se differito, il credito documentario con lettera di credito irrevocabile e confermata. In alternativa si può ricorrere a patti di riservato dominio.

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ROMANIA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20# PIL (reale) vap 5,9 6 5,4 5,1 3,4 Investimenti Fissi Lordi (reali)

vap 6,6 7,9 6,2 6,1 4,2

Produzione industriale (reale) vap 7,7 7,3 6,9 6,6 3,9 Disoccupazione qp 8,3 7,4 6,7 6,4 4,8 Cambio con l'Euro vap 25,1 21,5 12,5 10,6 4,1 PIL (reale) pro-capite vap 6,1 6,2 5,6 5,3 3,6 Prezzi al consumo vap 24,3 20,7 17,6 14,9 8,1 Prezzi all'ingrosso vap 20,7 17,6 14,9 12,7 6,9 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's Caratteri politici e sociali 1. Il Paese è dotato di istituzioni democratiche che appaiono oramai stabili. 2. È però auspicabile una più stringente applicazione dello stato di diritto, poiché in

qualche caso sembrano esservi alcune difficoltà, ad esempio, sui fronti della corruzione e del funzionamento generale dell'apparato giudiziario.

Tessuto e tradizione industriale 1. L'attività industriale romena possiede un certo potenziale di sviluppo, grazie a

noti fattori quali il costo della manodopera e delle materie prime, ma anche al forte grado di apertura commerciale, alla posizione geograficamente strategica (rispetto agli altri paesi dell'Europa dell'Est), alla dimensione del mercato interno.

2. Com'è noto, il tessuto industriale si sta decisamente evolvendo in attività che sfruttano la temporanea importazione per effettuare lavorazioni di beni destinati alla riesportazione. Questa tendenza è più forte proprio nel tessile-abbigliamento, nelle calzature, nell'arredamento, in lavorazioni elettromeccaniche (ma solo alcune).

3. Il futuro sviluppo industriale da un lato si avvantaggerà della quasi completa liberalizzazione dei prezzi, dall'altro lato può essere frenato dalla ancora non completa tutela dei diritti di proprietà e dal livello di coerenza dei policy maker.

Legislazione sull'import-export 1. Le norme richiedono che l'attività di importazione sia espressamente citata nello

statuto della società. 2. L'attività di import/export è soggetta a licenza per beni sui quali esistono

contingentamenti e per le operazioni il cui regolamento avviene con il countertrade, il clearing, il barter; si arriva al divieto solo per alcuni beni (quali ad esempio armi ed esplosivi, prodotti chimici pericolosi, ecc.).

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3. Si applica l'IVA al 19% (nella base imponibile si considerano anche i dazi). 4. Già dal 1995 è in vigore un accordo con l'UE per un trattamento preferenziale:

questo consiste in una progressiva liberalizzazione degli scambi, che ad esempio nel 2002 si concretizzerà nella totale esenzione da dazi per i prodotti tessili.

5. Sulle zone franche (localizzate nelle zone di Braila, Constanta, Curatici Arad, Galati. Giurgiu, Sulina) esiste una precisa normativa; ciò è naturale vista la posizione geograficamente strategica del Paese; le caratteristiche salienti di queste aree sono: • l'operatività all'interno delle zone è subordinata all'ottenimento di apposita

licenza • c'è non solo esenzione dall'IVA e dai dazi ma anche dalle imposte sui

profitti, che possono essere liberamente trasferiti all'estero • sono consentite le attività di stoccaggio, manipolazione, imballo,

assemblaggio, misurazione, controllo, produzione, prove, nonché gli appalti, le gare, la compravendita, il leasing, il noleggio, l’affitto, il brockeraggio, lo shipment delle merci

6. La temporanea importazione è soggetta ad una cauzione equivalente al dazio; in alternativa si applica il carnet ATA nel caso di prodotti che non entrano nel Paese per essere lavorati, quindi generalmente beni per fiere e mostre e campionari.

7. Il countertrade è espressamente regolamentato già a partire dalla fine degli anni '70.

Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. I cittadini romeni possono liberamente operare come agenti di imprese estere. 2. La normativa, però, si concentra sulla regolamentazione delle rappresentanze

commerciali di imprese ed organizzazioni economiche straniere; su queste occorre notare che: • si richiede l'ottenimento di apposita autorizzazione • le rappresentanze possono svolgere solo i compiti previsti dallo statuto della società

rappresentata, e le persone che vi operano sono soggette alle norme romene; se vi sono violazioni di queste prescrizioni l'autorizzazione può essere ritirata

Legislazione societaria 1. Le norme riconoscono le forme giuridiche della snc, sas, srl, spa, sapa; per

quanto riguarda la responsabilità per le obbligazioni sociali valgono principi del tutto simili quelli italiani.

2. Sulla srl vale la pena di osservare che: • il numero dei soci non può superare i 50 • il capitale minimo che viene richiesto favorisce nettamente la piccola

dimensione, essendo pari a 2 milioni di ROL (circa 72 €); i conferimenti in denaro devono essere almeno il 40% del totale

• il Collegio Sindacale è obbligatorio quando vi sono più di 15 soci • può essere unipersonale

3. In relazione alla spa, va osservato che: • anche in questo caso il capitale minimo richiesto favorisce molto la piccola

dimensione: 25 milioni di ROL (circa 904 €); la società nasce quando tutto il

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capitale è stato sottoscritto ed i sottoscrittori hanno versato almeno il 50% delle rispettive quote in contanti

• le obbligazioni possono essere emesse per non oltre tre quarti del capitale versato • devono esserci almeno 5 soci • agli amministratori viene richiesto il deposito di una garanzia pari al valore

di 10 azioni od al doppio della remunerazione mensile; se l'atto costitutivo non prevede altrimenti, almeno metà del Consiglio di Amministrazione, ivi compreso il presidente (o l'amministratore unico) devono essere cittadini rumeni; il Consiglio si deve riunire almeno una volta al mese

• il Collegio Sindacale deve essere in maggioranza composto da cittadini rumeni 4. Vi sono norme articolate per la tutela della contabilità e dei libri sociali. 5. Non vi sono vincoli al rimpatrio dei profitti (e sufficiente dimostrare di aver

pagato le tasse). Legislazione dei regimi di mercato 1. La concorrenza è regolamentata per legge. 2. Il monopolio è abolito. Legislazione fiscale per le società 1. Il reddito delle società è tassato al 25%, con agevolazioni per chi impiega portatori di

handicap (se l'impresa ha 250 dipendenti o più, l'imposta viene ridotta proporzionalmente alla quota di portatori di handicap, che d però devono essere al meno il 3%). Per le filiali di società straniere è prevista un'imposta supplementare del 6,2% sull'utile della filiale. Costituendo società con investimenti produttivi superiori a 500.000 USD vi sono riduzioni dell'imposta sugli utili che vanno dal minimo del 10% per 2 anni (500.000 USD) al 100% per 10 anni (oltre 50 milioni di USD).

2. I dividendi sono tassati al 5%. 3. Esiste una legge, per ora sospesa per consentire il raggiungimento di obiettivi

imposti dal FMI sui suoi prestiti, che consentirebbe trattamenti più favorevoli se previsti da accordi bilaterali tra paesi.

4. C'è l'esenzione dall'IVA per acquisto di beni ammortizzabili e tecnologia sui mercati romeni, sia dai dazi che dall'IVA per importazione di beni necessari a costituire capitale sociale.

5. Con l'Italia è stata firmata una convenzione sul problema della doppia imposizione. Legislazione del lavoro 4. Unità produttive con meno di 21 dipendenti non hanno l'obbligo di applicare i

contratti collettivi di lavoro. Questi esistono solo nei settori laddove esiste un sindacato, e non sono erga omnes.

5. È possibile il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, anche se la normativa prevede quali casi possano essere considerati tali.

6. I contributi e indennità varie a carico del datore di lavoro ammontano al 34% del salario lordo, con riduzione del 7% del contributo dovuto se questo viene versato contestualmente al pagamento del salario, e del 4-6% per nuove assunzioni.

7. Il salario minimo (170 ore di lavoro senza nessuna qualifica) è di circa 34 €. Quelli effettivi mediamente vigenti sono:

135

• industria dirigenti 510 € quadri 330 € impiegati 240 € operai 180 € • servizi dirigenti 400 € quadri 270 € impiegati 200 € operai 140 €

8. Non esistono norme sul TFR. Legislazione sugli investimenti esteri 1. Esiste una legge (destinata a tutti gli investimenti, nazionali ed esteri), per ora

sospesa per consentire il raggiungimento di obiettivi imposti dal FMI sui suoi prestiti, che assegnava contribuzioni finanziaria ed in natura per la costituzione ed ampliamento di società.

2. Oltre alle facilitazioni previste dalle zone franche, ne sono previste altre per investimenti in aree sfavorite, espressamente individuate dalle norme. Si tratta di esenzione da dazi e da IVA per beni strumentali ammortizzabili, restituzione dei dazi pagati su materie prime, pezzi di ricambi e componenti, dall'imposta sugli utili. È prevista anche la concessione di finanziamenti e la prestazione di garanzie per i credit esteri.

La rete distributiva 1. La figura dell'agente/rappresentante è quella più diffusa, ma si assiste ad una

rapida evoluzione del sistema distributivo. Questa tendenza che coinvolge tutti i tipici operatori dei paesi dell'UE, con particolare riferimento alla grande distribuzione (soprattutto ipermercati e hard discount).

2. Esistono numerose trading company, verso le quali però occorre cautela visto il loro elevato turn over.

3. Peri beni strumentali è diffusa la distribuzione diretta. Modalità dei pagamenti con l'estero 1. Manca la normativa idonea alla diffusione della cambiale, e l'assegno e le carte

di credito sono poco utilizzati. 2. Sembra opportuno ricorrere alla lettera di credito irrevocabile e confermata. REPUBBLICA CECA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20# PIL (reale) vap 5,8 5,6 4,3 4,2 3,3 Investimenti Fissi Lordi (reali) vap 7,4 6,8 3,6 2,5 2,5 Produzione industriale (reale) vap 7,2 6,9 6 5,2 4,4 Disoccupazione qp 7,9 7,4 6,3 6,3 6,3 Cambio con l'Euro vap 2 0,4 -4,8 -3 -0,4 PIL (reale) pro-capite vap 5,6 5,5 4,1 4 3,1 Prezzi al consumo vap 6 4,7 3,9 3,2 2,8 Prezzi all'ingrosso vap 4 3,9 3 2,9 1,9 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's

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Caratteri politici e sociali 1. Sono oramai 10-11 anni che il Paese ha iniziato la transizione verso una diversa

impostazione politica ed un sistema di libero mercato; a questo punto il pluralismo di stampo democratico sembra garantito.

2. Sono state ridotte o smantellate la gran parte delle garanzie socio-economiche tipiche di un'economia collettivista; sono però possibili nuove tensioni giacché sembra opportuna un'ulteriore accelerazione nel processo di ammodernamento del tessuto industriale.

Tessuto e tradizione industriale 1. Preesiste una buona tradizione produttiva nella meccanica, cioè uno dei settori

manifatturieri tradizionali, nell'industria "pesante" e nell'industria estrattiva. 2. Questi ultimi due rami produttivi hanno accentuato la loro crisi nella seconda

parte degli anni '90, portando il tasso di disoccupazione a sfiorare il 10% tra il 1999 ed il 2000.

3. Il vero tallone d'Achille del tessuto industriale sembra però essere il settore creditizio, privatizzato solo in parte. È noto che l'efficienza del sistema bancario di un'area è una fondamentale precondizione allo sviluppo di un tessuto di piccole e medie imprese dinamiche.

Legislazione sull'import-export 1. L'insieme delle norme sull'import/export costituisce un sistema sostanzialmente

aperto, in cui le restrizioni ed i dazi si sono via via allentati, anche grazie al trattamento preferenziale riservato, tra gli altri, ai paesi dell'UE; questi attualmente godono dell'esenzione totale.

2. Esistono non meno di 10 zone franche, i cui vantaggi sono sintetizzabili nell'esenzione da qualsiasi dazio e imposta (IVA compresa) sia per beni intermedi che prodotti finiti.

3. Non vi sono restrizioni alle importazioni: è previsto il regime della licenza per prodotti agricolo-alimentari e per alcune materie prime, e quello dell'autorizzazione per beni particolari (armi, farmaci, ecc.)

Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. L'affiliazione commerciale non è espressamente regolamentata. 2. Sono specificamente disciplinati sia il contratto di agenzia che quello di

rappresentanza, in modo analogo a quanto riscontrabile nella normativa italiana. Legislazione societaria 1. Sono previste quasi tutte le forme societarie italiane: società cooperative, snc,

sas, srl, spa. La più diffusa è la srl, seguita dalla spa. 2. In relazione alla srl, si deve notare che:

• non può avere più di 50 soci • deve avere un capitale minimo di 100.000 CZK (circa 3.020 €); solo quando

è versato per almeno il 30% la società può essere omologata • può essere unipersonale, ma allora il capitale deve essere interamente versato

137

3. Per la spa si osserva che: • deve avere un capitale minimo di 1milione di CZK (circa 30.200 €) • può essere unipersonale, purché il socio sia persona giuridica • quando vi sono più di 50 dipendenti, questi eleggono un membro del

Collegio Sindacale 4. Non vi sono vincoli al rimpatrio dei profitti (e sufficiente dimostrare di aver

pagato le tasse). 5. La joint venture societaria non è espressamente regolamentata; lo è quella

contrattuale. Legislazione dei regimi di mercato 1. La concorrenza è tutelata per legge. Si considerazioni violazioni:

• regolamentazione diretta o indiretta dei prezzi • limitazione della produzione o delle vendite • obbligo degli acquirenti di accettare forniture diverse da quelle

specificamente previste dal contratto 2. Le società in posizione dominante (controllo di almeno il 30% del mercato)

devono riferire all'Ufficio per la Competizione Economica. 3. Il dumping è soggetto a dazi. Legislazione fiscale per le società 1. I redditi societari sono tassati al 31%. 2. I dividendi sono tassati al 15%. 3. Esiste una convenzione con il nostro Paese per regolamentare la doppia

imposizione degli utili. 4. Si applica l'IVA al 22%. Esiste un'aliquota ridotta del 5% per alcuni beni e

servizi (tra cui i trasporti). Altri servizi (compresi quelli postali e assicurativi) sono esenti.

Legislazione del lavoro 1. L’orario é fissato in 43 ore settimanali. 2. I contributi e le indennità varie a carico del datore di lavoro ammontano al 35%

del salario lordo. 3. L’età pensionabile è in via di riforma; quando sarà a regime (2006), per la forza

lavoro maschile sarà comunque inferiore a quella italiana (62 anni contro 65). Legislazione sugli investimenti esteri 1. Le società estere sono equiparate a quelle locali. 2. Esiste un pacchetto di agevolazioni di vario tipo [esenzioni fiscali (tax holidays),

contributi per la creazione di nuovi posti di lavoro, contributi per la riqualificazione professionale del personale, accesso a terreni edificabili e/o infrastrutture a prezzi ridotti], ma non per investimenti nei settori manifatturieri tradizionali; sono infatti riservate .per i settori aeronautico, aerospaziale, mezzi di trasporto, information technology, telecomunicazioni, elettronica e farmaceutica. I settori manifatturieri tradizionali potrebbero comunque accedere a questi incentivi qualora almeno il 50% della spesa per macchinari sia rivolta a

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macchinari ad alta tecnologia (compresi in una lista redatta dal Governo). Ulteriore vincolo, non indifferente per una PMI italiana, è che l'investimento sia perlomeno di 10 milioni di USD in tre anni.

La rete distributiva 1. Ancora in fieri, è certamente meno sofisticato di quelli mediamente riscontrabili

nell'UE. 2. L'approccio agli operatori deve essere prudente, visto l'elevato turnover. 3. È soprattutto la grande distribuzione ad essere in grande fermento. Modalità dei pagamenti con l'estero 1. Non sono diffusi gli assegni, mentre si ricorre molto al bonifico. 2. Sembra però opportuno procedere con cautela, richiedendo in anticipo

perlomeno una quota del contratto; non sono rari, infatti, i casi di aziende italiane con crediti "incagliati" recuperabili con difficoltà ed a costi elevati.

3. Al di là di questo, è consigliabile ricorrere al credito documentario nella forma della lettera di credito irrevocabile e confermata. In alternativa si può stabilire il patto di riservato dominio.

CROAZIA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20# PIL (reale) vap 4,5 4,4 4,1 4 4,6 Investimenti Fissi Lordi (reali) vap 8,5 8,2 8,9 11,1 5 Produzione industriale (reale) vap 5,4 6 6,4 6,2 6,1 Disoccupazione qp 20,3 19,1 17,6 16,9 12 Cambio con l'Euro vap 4 3,1 2,1 -1,8 -0,8 PIL (reale) pro-capite vap 3,1 3,7 3,7 3,7 4,4 Prezzi al consumo vap 4,6 4,4 4,2 5,8 3,9 Prezzi all'ingrosso vap 2,5 2,4 2,3 3,2 2,1 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's Caratteri politici e sociali 1. I fatti bellici del decennio scorso hanno modificato la struttura della popolazioni

per classi d'età. 2. Vi sono tre insiemi di persone in gravi difficoltà: rifugiati, pensionati,

disoccupati. 3. Si ritiene che il tasso di disoccupazione ufficiale sottostimi (e di molto) il

fenomeno. 4. Un ulteriore fattore di tensione sembra essere il debito estero, di difficile

restituzione.

139

Tessuto e tradizione industriale 1. La ricostruzione/ristrutturazione post bellica è più lenta del previsto. 2. Vi sono quattro settori molto orientati all'export; due di questi riguardano

produzioni manifatturiere tradizionali (tessile-abbigliamento, pelle-calzature), che però non sembrano possedere la forza per rendere endogeno lo sviluppo.

Legislazione sull'import-export 1. L'ingresso nel WTO ha comportato una forte diminuzione dei dazi. 2. I trattamenti preferenziali sono riservati ad alcuni dei paesi confinanti. 3. Esistono zone franche, che garantiscono l'esenzione quinquennale da imposte [se

si investe nella zona franca almeno 1 milione di Kune (circa 135.000 €)] nonché da dazi.

4. Si stanno eliminando restrizioni e contingentamenti all'import. 5. Il countertrade è specificamente regolamentato. Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. L'affiliazione commerciale è appositamente disciplinata, pur se considerata una

variante, un caso particolare, dell'attività commerciale tradizionale. 2. Sono regolamentati anche i contratti di agenzia e rappresentanza, in modo

analogo al diritto italiano. La principale differenza riguarda l'esclusiva territoriale, che è asimmetrica: vale cioè per l'agente ma non per il mandante.

Legislazione societaria 1. Sono previste le principali forme societarie vigenti nell'ordinamento italiano

(spa, srl, snc, sas) 2. In relazione alla srl, la forma societaria più diffusa, va detto che:

• il capitale minimo richiesto è pari al controvalore in Kune di 5.000 DEM (2.556 €)

• viene registrata se almeno il 50% del capitale è stato versato • può essere unipersonale

3. Per quanto riguarda la spa, va notato che: • il capitale minimo richiesto è pari al controvalore in Kune di 30.000 DEM

(15.339 €) • può essere unipersonale

4. Non vi sono vincoli al rimpatrio dei profitti (e sufficiente aver adempiuto agli obblighi previsti dalle norme croate, coma ad esempio le tasse).

5. Non c'è una specifica normativa per le joint venture. Legislazione dei regimi di mercato 1. La concorrenza è tutelata per legge. 2. Sono considerati comportamenti che limitano la concorrenza, e quindi vietati,

qualsiasi accordo che abbia per oggetto: fissazione dei prezzi, suddivisione del mercato e dei fornitori, limiti alla R&S, limiti alla produzione, contratti subordinati a impegni non attinenti, esclusione dal mercato per le imprese che non aderiscono all'accordo.

140

3. È altresì vietato l'abuso della posizione dominate (30% del mercato per un'impresa, 50% per due imprese associate-collegate, 60% per tre, 75% per quattro, 80% per cinque)

Legislazione fiscale per le società 1. I redditi societari sono tassati al 35%. 2. Se la società viene costituita in determinate aree (stabilite dal Governo) si può

usufruire di un abbattimento della base imponibile del 15% o del 20% (le aree sono di due tipologie).

3. Le agevolazioni fiscali più rilevanti, però, riguardano società di nuova costituzione con investimento non inferiore a un certa soglia: l'imposta può scendere al 7%, al 3% o azzerarsi (si rinvia a "Legislazione sugli investimenti esteri").

4. Si applica l'IVA al 22%. 5. Con l'Italia esiste una convenzione sulla doppia imposizione. 6. Le società (come qualsiasi altro soggetto) subiscono un'imposta del 5% se

acquirenti in un trasferimento di proprietà di beni immobili. 7. Vi sono una serie di imposte minore locali; tra queste, l'imposta sulla denominazione

della società che non può superare il controvalore in Kune di 500 DEM (256 €). Legislazione del lavoro 1. La settimana di lavoro si articola su 42 ore. 2. È possibile il licenziamento per giusta causa, ma la normativa prevede le

situazioni che si configurano come tale. 3. Solo per alcuni settori esistono contratti collettivi. 4. La retribuzione minima è valida solo per il calcolo dei contributi. Per dipendenti

senza qualifica è pari a 1.700 Kune (circa 230 €); per gli altri si proporziona mediante appositi coefficienti.

5. I contributi e indennità varie a carico del datore di lavoro ammontano al 37,56% della retribuzione lorda.

Legislazione sugli investimenti esteri 1. I principali incentivi sono fiscali. L'imposta sui redditi societari per 10 anni

scende al 7% per investimenti di 10 milioni di Kune (circa 1.350.800 €), al 3% per 20 milioni di Kune (circa 2.701.600 €), si azzera per 60 milioni di Kune (circa 8.104.700 €); come condizione aggiuntiva, sui 10 anni deve essere garantita l'occupazione rispettivamente di 30, 50 75 dipendenti. L'importo complessivo dell'agevolazione (differenziale tra imposta al 35% e imposta all'aliquota ridotta) non può eccedere il valore dell'investimento.

2. Per investimenti di almeno 4 milioni di Kune (circa 540.300 €) nella costituzione di nuove società, vi sono agevolazioni doganali (esenzione dai dazi per alcuni beni e servizi).

La rete distributiva 1. Vi sono sensibili differenze rispetto a quanto mediamente riscontrabile nei paesi

UE. Sono infatti poco diffuse sia le figure dell'agente che quella del grossista,

141

giacché si tratta di ruolo normalmente svolti dalle imprese commerciali importatrici.

2. È in diffusione l'attività di grandi gruppi commerciali, soprattutto per magazzini generali e cash & carry.

3. Per i beni strumentali l'intermediazione praticamente non esiste. Modalità dei pagamenti con l'estero 1. Si può ricorrere a molti dei tipici strumenti in uso nei regolamenti internazionali:

assegni, promissory note, bill of exchange, bonifici, lettere di credito, pagamento contro documenti (questo è il più diffuso).

2. Solo banche appositamente autorizzate concedono garanzie; i casi più diffusi sono quelli per dilazioni di pagamento a 2 o 3 mesi.

SLOVENIA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20# PIL (reale) vap 4,6 4,8 4,8 5,1 4,2 Investimenti Fissi Lordi (reali) vap 6,8 5 3,6 3,4 1,7 Produzione industriale (reale) vap 5 5,5 6,1 6,7 4,4 Disoccupazione qp 9,1 8,4 7,7 6,9 5,5 Cambio con l'Euro vap 6,3 4,8 0,7 0,8 -0,6 PIL (reale) pro-capite vap 4,5 4,6 4,7 5 4,3 Prezzi al consumo vap 5,9 5,3 4,6 4,1 2,7 Prezzi all'ingrosso vap 5,2 4,7 4,2 3,8 2,3 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's Caratteri politici e sociali 1. La ricchezza pro-capite è tra le più elevate nei paesi dell'Europa dell'Est. 2. Vi sono però tensioni per i processi di privatizzazione, soprattutto nelle aree

dove prevale l'industria "pesante"; negli anni '90 il tasso di disoccupazione è più che triplicato.

3. Non sono a rischio i processi democratici, ma la situazione politica è frammentata.

Tessuto e tradizione industriale 1. È in corso il processo di privatizzazione dell'industria "pesante". 2. La produzione industriale è in ripresa. Legislazione sull'import-export 1. I dazi sono graduati su 3 scale: arrivano all'8% per le materie prime, al 15% per i

semilavorati ed al 25% per i prodotti finiti; sono esenti, tra gli altri, le

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campionature e le importazioni temporanee. Le merci provenienti dall'UE godono di alcuni abbattimenti tariffari.

2. Il regime delle autorizzazioni e delle licenze è limitato alle importazioni di materie prime di produzione locale ed a beni a vario titolo pericolosi o dannosi. Circa il 2% dei beni è soggetto a contingentamento.

3. Si applica l'IVA a 19%. 4. Vi sono 2 zone franche (Capodistria e Maribor) i cui principali vantaggi sono:

esenzione da dazi, imposta sui profitti limitata al 10%, esenzione da altre imposte (sugli affari, sulle attrezzature, ecc.), agevolazioni fiscali per investimenti interni alla zona fino al 50% dell'investimento.

5. Il countertrade è possibile, ma applicato molto raramente. Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. È diffusa l'affiliazione commerciale, mentre molto rare sono le figure dell'agente

e del rappresentante; relativamente a queste ultime, l'ostacolo è aggirabile conferendo un mandato di rappresentanza ad una società locale.

2. Esistono parecchie società specializzate nell'import/export. 3. A queste è bene rivolgersi nel caso di beni di consumo; per i beni di investimento

è preferibile il mandato di rappresentanza. Legislazione societaria 1. Sono previste le forme societarie riconosciute dal diritto italiano, ma le norme

sono impostate al diritto tedesco. 2. Per quanto riguarda le srl, la forma societaria più diffusa, si rileva che:

• si possono superare i 50 soci solo su autorizzazione • si richiede un capitale minimo di 2.100.000 SIT (circa 9.600 €), che per

almeno un terzo deve essere in contanti • l'omologazione richiede che ciascun socio abbia versato almeno il 25% di

quanto sottoscritto 3. In relazione alla spa, occorre notare che:

• richiede almeno 5 soci • il capitale minimo è di 4.100.000 SIT (circa 18.700 €); per almeno un terzo

deve essere in contanti • l'omologazione richiede che sia versato almeno il 50% del capitale

sottoscritto • oltre certe soglie dimensionali (500 dipendenti, 100 soci, capitale sociale di

300 milioni di SIT ) è obbligatorio u Comitato di Vigilanza 4. Sono possibili società unipersonali. 5. Non vi sono vincoli al rimpatrio dei profitti (se rimpatriati sotto forma di

dividendi sono soggetti ad un acconto del 15%). 6. La joint venture è regolamentata (si prevede anche il contributo dei vari

partner). Legislazione dei regimi di mercato 1. La concorrenza è tutelata per legge (è specificato il concetto di concorrenza

sleale).

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2. Sono vietati cartelli e accordi che limitano la concorrenza, ed in particolare i seguenti: prezzi comuni, "pavimenti" alla produzione, vincoli alla R&S, spartizione del mercato in quote e/o aree.

3. Sono altresì vietati il dumping e l'abuso della posizione dominante (40% del mercato per una società, 60% per due società in accordo o collegamento).

Legislazione fiscale per le società 1. I redditi societari sono tassati al 25. 2. Anche i dividendi sono tassati al 25%, mentre i capital gains lo sono al 30%. 3. L'IVA è al 19%, con un'aliquota ridotta all'8% (non riguarda però né beni né

servizi tipici dei settori manifatturieri tradizionali). Legislazione del lavoro 1. La settimana lavorativa oscilla tra le 36 e le 42 ore. 2. Si applicano contratti collettivi. 3. Esiste il salario minimo ma è variabile da mese a mese. 4. I contributi e indennità varie a carico del datore di lavoro ammontano al 15,9%

della retribuzione lorda; altre indennità fisse per circa 92 € mensili . 5. Le retribuzioni lorde tendono ad aumentare più del tasso d'inflazione, e

mediamente si attestano sui seguenti livelli: • meccanica circa 610 € • costruzioni circa 630 € • commercio circa 700 € • trasporti circa 800 €

6. L'età pensionabile è mediamente inferiore a quella italiana: 58-63 anni per gli uomini, 53-58 anni per le donne.

Legislazione sugli investimenti esteri 1. Gli investitori esteri sono equiparati a quelli locali. 2. Sono possibili quattro forme di investimento da parte di un soggetto straniero:

società a partecipazione straniera totale o parziale (joint venture societaria), joint venture contrattuale, concessioni, build-operate-transfer.

3. Esistono agevolazioni (nelle leggi fiscali) e sovvenzioni (assegnate dai ministeri tramite gara): • agevolazioni fiscali per gli investimenti in beni produttivi e per la creazione

di nuovi posti di lavoro • sovvenzioni per l’assunzione di personale alla prima esperienza lavorativa, per

l’acquisto di beni produttivi, per la ristrutturazione ecologica delle aziende La rete distributiva 1. È diffuso il canale distributivo tipicamente riscontrabile in Italia (importatore–

grossista–dettagliante), che può articolarsi in forme e sequenze diverse a seconda dell'autorizzazione ottenuta dall'impresa importatrice.

2. È regolamentata per legge la diversità tra commercio all'ingrosso e commercio al dettaglio.

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3. Si stanno affermando grandi catene distributive. 4. Da valutare positivamente l'attività dei magazzini generali delle zone

franche. Modalità dei pagamenti con l'estero 1. Le forme di pagamento più diffuse sono la lettera credito a 60 giorni su banca

primaria e il bonifico 2. È consigliabile verificare l'affidabilità dei pagamenti delle controparti locali

presso società di rating commerciale. POLONIA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20# PIL (reale) vap 4,8 5,1 4,9 5 4,3 Investimenti Fissi Lordi (reali) vap 6,7 6,4 6,2 4,2 3,4 Produzione industriale (reale) vap 7 6,8 6,5 7 5,3 Disoccupazione qp 14,6 13,5 13 11,8 8,2 Cambio con l'Euro vap 7,1 8 -0,6 -1,2 -0,5 PIL (reale) pro-capite vap 4,8 5,1 5 5 4,3 Prezzi al consumo vap 5,5 5 4,4 3,2 4,6 Prezzi all'ingrosso vap 4,5 4 3,4 2,2 1,9 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's Caratteri politici e sociali 1. La società sta sperimentando gli effetti di quattro grandi riforme volte a ridare

efficacia ed efficienza all'apparato statale. Si tratta del sistema pensionistico, della scuola, della suddivisione territoriale in regioni, della sanità.

Tessuto e tradizione industriale 1. Preesiste una tradizione nell'industria "pesante". 2. Uno dei principali problemi è il grado di qualificazione della forza lavoro. 3. D'altro canto, vanno ricordati i benefici del (probabilmente) più avanzato

processo di transizione verso l'economia di mercato. Legislazione sull'import-export 1. Tutti i prodotti manifatturieri sono esenti da dazi e dalla tassa di frontiera. Lo

sono anche altri prodotti se di provenienza da paesi dell'UE (abbigliamento, minerali non ferrosi, e molti altri).

2. Al di là di questo, i dazi sono ad valorem con un'aliquota base dell'1,8%. 3. Le merci importate in dumping subiscono un dazio supplementare.

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4. Esistono zone franche in sette località. 5. È previsto il rimborso dei dazi alla riesportazione di beni importati

temporaneamente; il rimborso è direttamente proporzionale ai tempi di riesportazione.

6. Permessi e concessioni di importazioni si limitano a beni pericolosi o dannosi. 7. Il countertrade non è espressamente regolamentato. Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. Sono specificamente regolamentati sia il contratto di agenzia che di

rappresentanza, con disposizioni analoghe a quelle italiane. 2. L'affiliazione commerciale non è espressamente regolamentata. Legislazione societaria 1. Agli stranieri sono consentite solo la spa e la srl. 2. Per quanto riguarda la srl, va detto che:

• la responsabilità è illimitata verso lo Stato ed i dipendenti • il capitale minimo è di 4.000 PLN (circa 1.100 €)

3. Sulle spa si deve ricordare che: • il capitale minimo è di 100.000 PLN (circa 27.900 €) • i conferimenti in natura devono essere versati al 100% mentre quelli in

denaro almeno al 25% 4. Non vi sono vincoli al rimpatrio dei profitti (se rimpatriati sotto forma di

dividendi sono soggetti ad aliquota del 10%). 5. La joint venture non è espressamente regolamentata. Legislazione dei regimi di mercato 1. La concorrenza è tutelata per legge. 2. Società con fatturato superiore ai 25 milioni di € devono ottenere l'autorizzazione

dell'Authority Antitrust. Legislazione fiscale per le società 1. I redditi societari sono tassati al 30%. 2. L'IVA è articolata su tre aliquote: 22%, 7%, 3%. 3. Gli utili reinvestiti sono esenti da tassazione. 4. Esiste una convenzione con l'Italia per evitare la doppia imposizione dei redditi. Legislazione del lavoro 1. La settimana lavorativa dura 42 ore. 2. Non si applicano contratti collettivi. Non vi sono vincoli al licenziamento. 3. Il salario minimo viene fissato mensilmente. Quello medio oscilla attorno ai

2.000 PLN (circa 560 €). 4. I contributi e indennità varie a carico del datore di lavoro sono pari al 18,29%.

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Legislazione sugli investimenti esteri 1. Si può applicare un meccanismo di deduzione dei costi i cui effetti pratici sono

molto simili a quelli della legge Tremonti. 2. L'acquisto di immobili è soggetto ad autorizzazione. 3. Tra gli incentivi vanno menzionati:

• deduzione dal reddito del 25% della spesa per investimento se questo supera i 2.000.000 di €

• deduzione dal reddito della spesa per investimento fino al 50% dell'imponibile se i ricavi di esportazione superano il 50% del totale oppure gli 8 milioni di €, se investono in R&S

La rete distributiva 1. È in evoluzione. Si stanno affermando le grandi catene di vendita al dettaglio

(soprattutto ipermercati e shopping center). 2. Le prevalenti modalità di accesso alla rete distributiva locale sono l'affiliazione

commerciale, l'accordo di licenza, i binomi importatore-grossista e importatore-agente

Modalità dei pagamenti con l'estero 1. La legge impone che le transazioni avvengano per bonifico, dietro presentazioni

di documenti contabili in originale. 2. È in diffusione anche la lettera di credito irrevocabile e garantita, il cui uso è

però indirettamente disincentivato dalle banche sia per il costo dell'operazione che per il vincolo della disponibilità in conto corrente.

ESTONIA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20# PIL (reale) vap 6 5,4 4,9 4,8 3,2 Investimenti Fissi Lordi (reali) vap 6,3 5,5 4 4,7 2,3 Produzione industriale (reale) vap 7 6,7 6,4 6,1 4,9 Disoccupazione qp 11,4 10,6 9,8 9,6 7 Cambio con l'Euro vap 2,2 0,9 -2,3 -1,8 -0,8 PIL (reale) pro-capite vap 6,1 5,5 5 4,9 3,3 Prezzi al consumo vap 5,4 5,5 5,3 5 3,9 Prezzi all'ingrosso vap 2,8 2,8 2,8 2,8 2,8 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's

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Caratteri politici e sociali 1. Il processo di transizione, caratterizzato da drastiche riforme socio-economiche

(massicce privatizzazioni, liberalizzazioni doganale e monetaria, riforma del welfare) ha accentuato i preesistenti squilibri sociali.

2. Il processo di stabilizzazione democratica prosegue senza rilevanti scossoni, grazie anche all'operato di governi pur diversi che hanno perseguito i medesimi obiettivi.

Tessuto e tradizione industriale 1. Preesiste una tradizione nell'industria "pesante". L'attuale evoluzione industriale

del paese, però, volge a favore di quella "leggera". Si segnalano buone performance nei settori manifatturieri tradizionali, in particolare quello del legno e mobilio, del tessile, dei manufatti in metallo.

2. L'evoluzione del tessuto industriale sembra sospinta da altri tre fattori: la buona dinamica dell'export, la prospettiva di ingresso nell'UE, un sistema bancario in evoluzione.

Legislazione sull'import-export 1. L'import a paesi UE è esente da dazi. Permane (per tutti) un'imposta fissa pari a

200 EEK (circa 13 €). 2. Esistono procedure doganali semplificate, utilizzabili però su preventiva

autorizzazione. 3. Si applica l'IVA al 18%. 4. Vi sono almeno 5 cinque zone franche (zona del porto di Muuga), dotate di

buone strutture e servizi, non solo esenti da dazi e imposte ma anche con magazzinaggio gratuito.

5. Le licenze di import/export sono richieste in casi limitati e per beni specifici. 6. Esistono tre zone franche. Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. Non è regolamentato il contratto di agenzia. Nel Paese si osservano le

disposizioni della Camera di Commercio Internazionale. 2. Non è regolamentato nemmeno il contratto di rappresentanza. In questo caso non

vi sono riferimenti internazionali, ma si lascia alle parti il contenuto del contratto. In Estonia il rappresentante è un dipendente e non un lavoratore autonomo.

3. L'affiliazione commerciale è abbastanza diffusa ma, come i due precedenti, è un contratto non espressamente regolamentato.

Legislazione societaria 1. Sono previste tipologie societarie parzialmente differenti da quelle italiane. C'è

una sostanziale concordanza con le società di persone, mentre le diversità emergono per quelle di capitali.

2. Tra queste esiste una tipologia paragonabile alla nostra spa, la società privata a responsabilità limitata. Il capitale minimo di questa società è di 40.000

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EEK (circa 2.560 €) e almeno la metà degli amministratori deve avere residenza nel Paese.

3. Non vi sono vincoli al rimpatrio dei profitti. Legislazione dei regimi di mercato 1. La concorrenza è tutelata per legge. 2. Sono vietati accordi che limitano o distorcono la libera concorrenza. Non sono

perseguiti se il volume d'affari complessivo delle parti non supera il 5% del fatturato del settore.

3. Vengono limitate le posizioni dominanti (40% del mercato), e le fusioni vanno notificate quando i fatturati congiunti arrivano a 100.000 EEK (circa 6.390 €) o il 40% del mercato.

Legislazione fiscale per le società 1. Il reddito societario non è tassato finché non viene distribuito. I dividendi

sono tassati al 26%. Con la stessa aliquota sono tassati i redditi da capitale.

2. L'IVA è al 18%. 3. Con l'Italia esiste un trattato per le doppie imposizioni. I profitti reinvestiti sono

esenti da tasse. Legislazione del lavoro 1. Non esistono contratti collettivi nel senso italiano del termine, ma lo Stato

interviene nei rapporti tra datore di lavoro e lavoratori. Legislazione sugli investimenti esteri 1. Esiste una legge che regolamenta gli investimenti esteri. 2. Questa normativa aumenta l'appetibilità del Paese per gli investitori stranieri

(economia in veloce espansione, mercati facilmente accessibili, comunicazioni ben sviluppate, alti livelli di competenze professionali e di tecnologie, manodopera a costi contenuti, e disponibilità di risorse energetiche e di materie prime, sistema fiscale trasparente).

La rete distributiva 1. I commercianti (grossisti e dettaglianti) stanno abbandonando le trading

companies, e tratta in prima persona. 2. Gli agenti normalmente servono una zona che praticamente coincide con tutto il

Paese. Modalità dei pagamenti con l'estero 1. Raramente si utilizzano gli assegni. 2. I sistemi di regolamento più sicuri sono il credito documentario e il cash against

documents. 3. È consigliabile integrare i contratti con un patto di riservato dominio.

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UCRAINA Scenari macroeconomici

2002 2003 2004 2005 2006-20# PIL (reale) vap 4,2 4,6 5 5,4 5,2 Investimenti Fissi Lordi (reali) vap 3,9 4,3 4,7 5,1 5 Produzione industriale (reale) vap 5 5,5 7 8 7,2 Disoccupazione qp 6,5 6 5,5 5,3 4,2 Cambio con l'Euro vap 17,6 18,5 5,4 4,1 1,1 PIL (reale) pro-capite vap 2,9 4,8 5,2 5,6 5,4 Prezzi al consumo vap 14 11,9 10,1 9,6 7,1 Prezzi all'ingrosso vap 14,8 12 9,1 8,6 6,4 # valori medi sul periodo ; vap = variazione percentuale sull'anno precedente ; qp = quota percentuale

Fonte: Standard & Poor's Caratteri politici e sociali 1. Il sistema-paese è in crisi a causa del suo stretto legame con quello russo,

notoriamente in difficoltà. 2. Il Paese è in attesa di un'accelerazione del processo di transizione verso

un'economia di mercato. 3. Il quadro giuridico è ancora in evoluzione, disincentivando gli investimenti di

lungo periodo. La burocrazia è ancora molto lenta. Tessuto e tradizione industriale 1. Preesiste una tradizione nell'industria "pesante" e, pur se in misura minore, anche

in quella "leggera". 2. L'industria è forte in crisi: negli anni '90 la produzione si è quasi dimezzata. Legislazione sull'import-export 1. La gestione dei dazi all'import sottende intenti protezionistici. Sono molto

articolati: vengono calcolati (in USD) sia ad valorem che per unità di prodotto, sono determinati con 14 diverse modalità, si applicano in misura piena o parziale a seconda della provenienza della merce.

2. Esistono trattamenti preferenziali per i partner commerciali più importanti. 3. Alcuni prodotti subiscono dazi e altre norme speciali (soprattutto antidumping). 4. Per alcuni gruppi merceologici l'import è soggetto anche a contingentamenti,

licenze, se non anche al divieto assoluto. 5. Esistono 10 zone franche e 6 aree a sviluppo prioritario. 6. L'import-export temporaneo è consentito per un anno, eventualmente

prorogabile. 7. Il countertrade è regolamentato, in modo piuttosto preciso e articolato.

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Legislazione per l'intermediazione commerciale 1. È specificamente regolamentato il contratto di rappresentanza, con disposizioni

però che disciplinano soprattutto la posizione del rappresentato. 2. L'affiliazione commerciale non è espressamente regolamentata; è autorizzata

sulla base di apposite convenzioni bilaterali. Legislazione societaria 1. È stata introdotta nel 1991, e prevede alcune tipologie societarie simili a quelle

italiane. Esistono la spa e la srl, una società paragonabile alla snc (la società a responsabilità illimitata) ed una alla sas (la società a responsabilità differenziata).

2. La spa si costituisce un capitale minimo di 92.500 Hryvnie (circa 19.950 €); è obbligatorio un Comitato di Controllo quando vi siano più di 50 soci.

3. La srl si costituisce un capitale minimo di 7.400 Hryvnie (circa 1.600 €) 4. La personalità giuridica è concessa solo alle società con responsabilità limitata e

che si configurano come autonomi soggetti d'imposta. 5. È consentita la partecipazione di soggetti stranieri, purché con una quota minima

del 10%. 6. La joint venture esiste nella sostanza ma non nella forma: la legge ucraina

consente di attivare partnership come quelle sottostanti ad una joint venture senza necessariamente costituire una autonoma entità giuridica.

Legislazione dei regimi di mercato 1. Non è espressamente tutelata la libera concorrenza, ma un effetto analogo è

ottenuto da una legge antimonopolio. 2. Questo regime di mercato consentito solo allo Stato e per alcuni tipi di prodotti (tra questi

è di rilievo l'uso e la manutenzione dei sistemi di telecomunicazione), si presume automaticamente con quote di mercato superiori al 35% (ma è possibile dichiararlo anche per quote inferiori), le sanzioni consistono in multe e smembramenti coatti.

3. In alcuni casi specifici le operazioni di fusione e di liquidazione devono essere autorizzate dal Comitato Antimonopolio.

4. Per la produzione di alcuni prodotti è vietata la privatizzazione , tra cui spiccano i mezzi ferroviari.

Legislazione fiscale per le società 1. Esistono 20 tipi di imposte dirette ed indirette. 2. Tra le principali vanno ricordate l'Imposta sul Valore Aggiunto (20%) e

l'Imposta sui Profitti (30%). 3. Anche i dividendi sono tassati al 30%, con un aggiunta del 15% se vengono

rimpatriati, fatta eccezione dei casi per cui esiste una convenzione bilaterale (le convenzioni bilaterali possono modificare solo il 15%, e non il 30%). Con l'Italia esiste una tale convenzione.

Legislazione del lavoro Si può lavorare a partire dal 15° anno d'età; l'orario di lavoro settimanale è di 24 ore fino a 16 anni, di 36 ore fino a 18, e poi si passa sulle 40 ore settimanali. Il salario minimo è fissato a 118,3 Hryvnie (circa 26 €)

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Legislazione sugli investimenti esteri 1. Importazioni de beni destinati a conferimento di capitale sociale sono esenti dai

dazi e dall'Imposta sul Valore Aggiunto. 2. Gli investitori esteri sono soggetti alle stesse norme di quelli residenti, con una

clausola di salvaguardia di 10 anni qualora la normativa cambi dopo aver avviato l'investimento, soprattutto per quanto riguarda la nazionalizzazione e l'esproprio.

3. Si ha diritto al risarcimenti dei danni, anche morali, nonché del mancato guadagno, nel caso di comportamento illegittimo di funzionari e/o organi pubblici.

4. Tutti i benefici diversi dai suddetti, e che erano previsti da un regime legale privilegiato, sono stati aboliti dal 1 gennaio 1997; condizioni particolari, però, possono essere ottenute nelle zone franche.

5. Fino al 2006, con possibile proroga fino al 2011, vige un accordo con l'Italia per la protezione degli investimenti.

La rete distributiva 1. Esistono sia la rete del commercio al dettaglio che quella del commercio

all'ingrosso, pur se non particolarmente regolamentate. 2. Le imprese produttrici possono anche vendere direttamente al pubblico. 3. Esistono 111 borse merci. 4. Molti prodotti hanno prezzi che variano sensibilmente tra regione e regione. Modalità dei pagamenti con l'estero 1. È consentito aprire conti correnti anche in valuta estera. 2. Le banche autorizzate ad operare in valuta estera regolano i pagamenti oltre

confine in due modi: • con conti aperti direttamente presso banche estere; • con le consuete modalità internazionali, appoggiandosi ad una rete di

corrispondenti.

Questa pubblicazione è edita nella collana: Profili economici della Camera di Commercio di Treviso. Le precedenti pubblicazioni sono:

1- I problemi finanziari delle PMI trevigiane: aspetti critici e strategie

di intervento (1997) 2- Riforma fiscale e ricapitalizzazione delle imprese (1998) 3- Le nuove sfide per i distretti industriali: sistemi cognitivi e reti

transnazionali (1998) 4- La “rivoluzione” Euro: quali implicazioni per il finanziamento

delle P.M.I.? (1998) 5- Un progetto di marketing territoriale per il distretto di

Montebelluna — Offerta del territorio, contesti competitivi e possibili strategie di rilancio — (1998)

6- Perla Stancari — Immigrati: problema o risorsa? - L’immigrazione di extracomunitari nei territori evoluti con particolare riguardo alla provincia di Treviso — (1999)

7- Le opportunità dell’Euro Nouveau Marchè per le imprese ad alto potenziale di crescita (1999)

8- Guida “Crea la tua impresa a Treviso” (2000). 9- Convegno “E– commerce frontiera del nuovo sviluppo” Tavola rotonda “Marketplace comunità e distretti virtuali. E-uforia

o reali opportunità strategiche di sviluppo”(2000). 10- IL PROGRAMMA “JEV” - Agevolazioni alle imprese che

intendono investire in Europa (2001). 11- Le politiche commerciali e di Marketing nel settore

dell’arredamento – Ricerca sui distretti industriali del Livenza e del Quartier del Piave

12- Problematiche di internazionalizzazione dei distretti industriali della provincia di Treviso

Impaginato a cura del Centro stampa della Camera di Commercio di Treviso