I GIUSTI TRA LE NAZIONI · Oscar Schindler. Schindler aveva scritto il suo nome nella famosa...
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I GIUSTI TRA LE NAZIONI
I Giusti tra le nazioni sono non ebrei che hanno corso grandi rischi per salvare gli ebrei durante
l'Olocausto. Il salvataggio ha assunto molte forme e i Giusti provenivano da diverse nazioni, religioni e
percorsi di vita. Ciò che avevano in comune era che proteggevano i loro vicini ebrei in un momento in
cui l'ostilità e l'indifferenza prevalevano.
"Credo che sia stato proprio grazie a Lorenzo che sono vivo oggi, e non tanto per il suo
aiuto materiale, quanto per avermi costantemente ricordato con la sua presenza ... che
esisteva ancora un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno ancora puro
e intero ... per cui valeva la pena sopravvivere ". Così Primo Levi descrive il suo salvatore,
Lorenzo Perrone (Se questo è un uomo)
L'atteggiamento verso gli ebrei durante l'Olocausto andava principalmente dall'indifferenza all'ostilità.
Molti sono rimasti a guardare, anche intimoriti, mentre i loro ex vicini erano arrestati e uccisi; alcuni
hanno collaborato con i carnefici; molti altri hanno beneficiato dell'esproprio delle case e delle risorse
dei loro concittadini ebrei.
Nel totale collasso morale dell’Europa nazifascista,
c'era però chi trovò uno straordinario coraggio nel custodire dalla barbarie, i valori umani in cui aveva
creduto e vissuto prima di allora. Questi erano i Giusti tra le nazioni. Contrariamente alla tendenza
generale, questi soccorritori consideravano gli ebrei come altri esseri umani che dovevano
“semplicemente” aiutare.
La maggior parte dei soccorritori ha soccorso amici o sconosciuti ebrei trovandosi difronte alle retate o
alle manovre precedenti la deportazione. Altri hanno agito
anche prima, quando con le leggi razziali i diritti degli
ebrei erano stati fortemente limitati e le loro proprietà
confiscate.
A differenza di altri, queste persone, non caddero
nel consenso alle misure restrittive e crescenti
contro gli ebrei.
In molti casi furono gli ebrei a rivolgersi a un
amico o a una persona non ebrea per chiedere aiuto. Di fronte agli ebrei che bussavano alla loro porta,
molti si trovarono di fronte alla necessità di prendere una decisione immediata. Di solito si trattava di
un gesto umano istintivo, preso alla sprovvista del momento e solo dopo seguito da una scelta morale.
Spesso era un processo graduale, con i soccorritori sempre più coinvolti nell'aiutare gli ebrei
perseguitati. Accettare di nascondere qualcuno durante un raid o una retata - per fornire un riparo per
un giorno o due fino a quando qualcos'altro potrebbe essere
trovato - si evolveva di frequente in un salvataggio che è
durato mesi e anni.
Il prezzo che i soccorritori avrebbero potuto pagare per la loro
vicinanza, accoglienza o solidarietà differiva da un paese
all'altro. Nell'Europa orientale, i tedeschi hanno giustiziato
non solo le persone che hanno protetto gli ebrei, ma anche
tutta la loro famiglia. Le conseguenze potevano arrivare alla
deportazione e alla fucilazione, oppure alla rappresaglia.
La pesante intimidazione, il “regime della paura”, instaurato in
tutta l’Europa dai nazisti spinse soccorritori e soccorsi sotto il timore costante di essere catturati; c'era
sempre il pericolo di denuncia da parte di vicini o collaboratori. Ciò ha aumentato il rischio e reso più
difficile per la gente comune sfidare le convenzioni e le regole. Coloro che decisero di proteggere gli
ebrei dovettero sacrificare le loro vite normali e scegliere un'esistenza clandestina, dominata dal
timore di denuncia e cattura.
La maggior parte dei soccorritori erano persone
normali. Alcuni hanno agito per convinzioni
politiche, ideologiche o religiose; altri non
erano idealisti, ma semplici esseri umani che si
preoccupavano delle persone che li
circondavano. In molti casi non hanno mai
pianificato di diventare soccorritori ed erano
totalmente impreparati a prendere una
decisione così forte e decisiva. Erano esseri
umani ordinari, ed è proprio la loro umanità che
ci tocca.
I Giusti sono cristiani di tutte le confessioni e chiese, ma anche musulmani; uomini e donne di tutte le
età; di tutti i ceti sociali; persone istruite e altre analfabete.
Tra il ’43 e il ’45 gli ebrei perseguitati che non vennero deportati o uccisi in Italia furono, secondo
Michele Sarfatti, almeno 35.000. Circa 500 di essi riuscirono a rifugiarsi nell’Italia meridionale; 5500-
6000 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera (ma per lo meno altri 250-300 furono arrestati prima di
raggiungerla o dopo esserne stati respinti); gli altri 29.000 vissero in clandestinità nelle campagne e
nelle città, grazie all’aiuto di tanti italiani che opposero una “resistenza non armata” alla barbarie
tedesca e fascista.
Dal 1963 una speciale commissione israeliana assegna il riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni” alle
persone che rischiando la propria vita salvarono gli ebrei dalle mani dei nazifascisti. “Chi viene
riconosciuto Giusto tra le nazioni, viene insignito di una speciale medaglia con inciso il suo nome, riceve
un certificato d’onore ed il privilegio di vedere il proprio nome aggiunto agli altri presenti nel Giardino
dei giusti presso il museo Yad Vashem di Gerusalemme. Ad ogni Giusto tra le nazioni viene dedicata la
piantumazione di un albero, poiché tale pratica nella tradizione ebraica indica il desiderio di ricordo
eterno per una persona cara. La cerimonia di conferimento dell’onorificenza si svolge solitamente presso
il museo Yad Vashem alla presenza delle massime cariche istituzionali israeliane, ma si può tenere anche
nel paese di residenza del Giusto se questi non è in grado di muoversi. Ai Giusti tra le nazioni, inoltre,
viene conferita la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele”.
Il Tribunale del Bene, che esamina la documentazione relativa agli atti di coraggio e salvataggio a
favore degli ebrei durante il Nazismo, fu voluto da Moshe Bejiski scampato alla deportazione grazie a
Oscar Schindler. Schindler aveva scritto il suo nome nella famosa “lista” degli “operai” a suo dire
necessari per continuare la produzione delle sue fabbriche durante il
periodo bellico.
Sono oltre 20.000 i Giusti nel mondo e 417 gli italiani che hanno ricevuto sinora tale riconoscimento.1I
loro nomi compaiono sul Muro dell’Onore, nel Giardino dei Giusti della fondazione Yad Vashem a
Gerusalemme.
1Per visionare l’elenco : (http://www.storiaxxisecolo.it/deportazione/deportazionegiusti).
Schindler non era un santo ma salvò migliaia di ebrei da morte certa. Ricordando questo, Bejiski volle
che il premio potesse essere assegnato anche a coloro che operarono il Bene a favore degli Ebrei,
sinceramente e gratuitamente, anche se il loro comportamento non era sempre o mai stato
ineccepibile.
Oscar Schindler
Moshe Bejski
I “giusti tra le nazioni italiani”. Una figura simbolo: Giorgio Perlasca
Giorgio Perlasca, era nato a Maserà (Padova) nel 1910. Il padre era segretario comunale. Entusiasta
degli ideali nazionalisti del fascismo, nel ’35 andò come volontario prima in Africa Orientale poi in
Spagna, con il Generale Franco. Dopo la fine della guerra di Spagna, rientrato in Italia, il suo rapporto
con il fascismo, inteso come regime, entrò in crisi per due motivi essenzialmente; l’alleanza con la
Germania e le leggi razziali, le inique leggi razziali che anche l’Italia ebbe a darsi copiando l’alleato
tedesco. Non riusciva a comprendere, a giustificare uno Stato che discriminava propri cittadini per
motivi religiosi e razziali. Così come non poteva comprendere una alleanza con la Germania contro cui,
solo vent’anni prima, avevamo combattuto una feroce guerra che aveva riportato all’Italia Trento e
Trieste. Coerente, smise di essere fascista, senza mai diventare antifascista. Scoppiata la seconda
guerra mondiale venne mandato, in pratica come incaricato d’affari e con lo status di diplomatico, nei
paesi dell’Est per comprare carne per l’Esercito italiano. A Belgrado vide i primi rastrellamenti e le
prime deportazioni di ebrei e zingari nel 1941 da parte dei tedeschi. L’ 8 di settembre del 1943
l’Armistizio tra l’Italia e gli Alleati lo colse a Budapest, sempre con lo stesso incarico; posto di fronte
alla richiesta di aderire alla R.S.I. rifiutò, con un ulteriore atto di coerenza, in quanto si sentiva
vincolato dal giuramento di fedeltà prestato al Re. Venne internato in un castello riservato ai
diplomatici e per alcuni mesi la vita corse tranquilla, anche se il clima politico andava rapidamente
deteriorandosi, aumentando l’influenza diretta dei tedeschi. Sino a che, a metà ottobre del 1944, dopo
l’annuncio del reggente ammiraglio Horty della firma dell’armistizio con l’Unione Sovietica, i tedeschi
presero il potere arrestando il reggente ed affidando il governo alle croci frecciate, i nazisti ungheresi.
Giorgio Perlasca dovette fuggire e nascondersi e trovò rifugio presso l’Ambasciata spagnola. Al
momento del congedo in Spagna ricevette infatti un documento che recitava: “Caro camerata, in
qualunque parte del mondo ti troverai potrai rivolgerti alle Ambasciate spagnole”. Ed in pochi minuti
divenne cittadino spagnolo, con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca, iniziando a
collaborare con l’Ambasciatore spagnolo, Sanz Briz, che già allora assieme alle altre potenze neutrali
presenti (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano) rilasciava salvacondotti per proteggere i
cittadini ungheresi di religione ebraica. Anche se con notevoli distinzioni; funzionari di alcuni paesi
vendevano a caro prezzo i salvacondotti ed ovviamente non avevano poi la forza morale ne la volontà
di pretenderne il rispetto.
A fine novembre l’Ambasciatore spagnolo viene richiamato per consultazioni in Patria ed offre a
Giorgio Perlasca la possibilità di seguirlo; ma Perlasca decide di rimanere per mandare avanti l’opera
iniziata e per non abbandonare alla morte certa chi viveva sotto la protezione della bandiera spagnola.
Autocompila con timbri e carta intestata autentica la sua nomina ad Ambasciatore spagnolo, porta le
credenziali al Ministero degli Esteri che le prende per buone. E qui iniziarono i 40/45 giorni in cui, da
solo, con l’aiuto dell’avv. Farkas, il legale dell’Ambasciata spagnola anche lui di religione ebraica, resse
l’Ambasciata spagnola e l’incredibile impostura. L’avvocato Farkas riuscì a sfuggire ai tedeschi ma
venne ucciso dalle truppe dell’Armata Rossa quando nel 1945 entrarono a Budapest. Riuscì a
proteggere, salvare e sfamare giorno dopo giorno oltre 5200 ungheresi di religione ebraica ammassati
in cinque case protette lungo il Danubio, di fronte all’isola Margherita. Li rifornì di cibo; trovò soldi;
organizzò un abbozzo di struttura militare di resistenza; salvò, curò, girando su una Buik con le
insegne della Spagna in una città di gelo, macerie, cecchini. Protesse gli ebrei dalle incursioni dei nylas,
recandosi con Wallemberg alla stazione per cercare di recuperare i protetti, trattando quotidianamente
con il Governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione. Rilasciando salvacondotti che
recitavano: “Parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni
non verranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà qui sotto la protezione del governo
spagnolo”. Giocando sul fatto che la maggior parte degli ebrei ungheresi era di origine sefardita, quindi
di antica origine spagnola ma cacciati centinaia di anni addietro dalla Regina Isabella la Cattolica.
Nelle ore finali della disfatta tedesca a Budapest, affrontò il ministro dell’Interno ungherese che voleva
incendiare il ghetto, minacciandolo e ottenendone infine la resa. E l’incredibile impostura durata oltre
40 giorni riuscì.
Per cento giorni, Giorgio Perlasca si finse tutto quello che non era: ambasciatore, medico, organizzatore
della resistenza, consolatore. E fu sempre creduto. Oltre 5200 ebrei ungheresi riuscirono a salvarsi, a
sopravvivere. Era un bluff ma nel clima di disfatta, confusione e di mancanza assoluta di comunicazioni
funzionò.
Dopo l’entrata in Budapest dell’Armata Rossa, venne fatto prigioniero ma poi fu liberato, e riuscì con un
lungo ed avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia a rientrare in Italia. Mise in un cassetto la sua
storia ed iniziò una vita normalissima. Non riteneva – e lo diceva senza retorica – di aver fatto nulla di
eccezionale e che qualsiasi persona al suo posto si sarebbe dovuta comportare in quella maniera, con
maggior o minor fortuna, ma in quella maniera. La dignità di essere umano, di persona, lo imponeva. E
nemmeno in famiglia raccontò la storia nella sua completezza, se non qualche singolo episodio che non
dava una visione generale della realtà. Non raccontò, non vendette la sua incredibile storia come tanti,
troppi fecero nell’Italia del dopoguerra, per ottenere qualcosa in cambio. Giorgio Perlasca venne
ritrovato, è proprio il caso di dirlo, a fine anni 80.
In Italia la vicenda venne alla luce grazie a Enrico Deaglio, con la trasmissione televisiva Mixer e con il
libro “la banalità del bene”. A Perlasca fu concessa la Medaglia d’Oro al Valor Civile ed il titolo di Grande
Ufficiale della Repubblica. L’Ungheria gli concesse la massima onorificenza nazionale, la Stella al Merito
e la Spagna gli concesse l’onorificenza di Isabella la Cattolica. Gli Stati Uniti lo accolsero come un eroe.
Innumerevoli i riconoscimenti di associazioni, fondazioni private; in moltissime città italiane vi sono
vie e piazze che portano il suo nome.
Alla domanda, ripetuta dai giornalisti che lo intervistavano, sulle motivazioni e sul perché lo aveva
fatto, rispondeva in due modi. “Lei cosa avrebbe fatto al mio posto, vedendo migliaia di persone
sterminate senza un motivo, solo per odio razziale e religioso, ed avendo la possibilità di fare qualcosa
per aiutarli?”. E a un altro giornalista rispose: “L’ho fatto perché sono un uomo”.
Giorgio Perlasca venne a mancare il 15 agosto del 1992, improvvisamente. E’ sepolto nel suo paese
natale. Ha voluto essere sepolto in terra e con una unica scritta in ebraico sulla pietra tombale: Giusto
tra le Nazioni
Come si ottiene il riconoscimento
Il riconoscimento si ottiene grazie alla domanda di un parente della persona salvata che lo richiede alla
Commissione di inchiesta in Israele. Il dossier da esaminare deve contenere le prove del salvataggio e
l’attestazione della persona salvata o di un ebreo testimone degli eventi.
I giusti livornesi
Sono quattro i livornesi che fino ad ora hanno ottenuto il ricnosicmento di Giusto tra le Nazioni, e sono:
Lydia e Giovanni Gelati, Mario Canessa, Lida Basso Frisini.
Molte altre storie restano al momento ancora da scoprire.
LIDA BASSO FRISINI
Lida Basso Frisini è nata a Pescia, in provincia di Pistoia, il primo ottobre 1919 ed è morta a Livorno nel
2007. La sua è stata una storia difficile fin dalla prima infanzia: ha sofferto nei primi affetti ripagata poi
dall'amore dei genitori adottivi, ha lavorato da adolescente come operaia e ha poi ripreso gli studi fino
a laurearsi e divenire una apprezzata insegnante di lettere all'Itis.
La Quarta Armata che occupava le regioni meridionali francesi, tra il confine alpino, il fiume Rodano e
la costa mediterranea, da tempo proteggeva la popolazione ebraica e al suo rientro in Italia fu seguita
da molti ebrei.
Il 10 settembre i tedeschi occuparono l'Italia e iniziò la persecuzione degli ebrei nel nostro paese.
In casa di Lida i Gabbai furono accolti per un anno, da settembre 1943 a settembre 1944, mentre altri
otto ebrei trovarono rifugio presso altre famiglie della piana di Lucca, grazie al suo interessamento.
Lida organizzò la raccolta di cibo in favore dei suoi protetti rivolgendosi a famiglie di conoscenti, al
convento dei Padri Carmelitani di Capannori, e a Giuseppina, una ragazza che lavorava in un mulino di
Capannori, da cui presero la farina per sfamare tutti gli ebrei accolti.
Lida organizzò anche la prima parte della fuga in Svizzera di cinque dei rifugiati, con l'aiuto di due
partigiani, Michele Lombardi e Roberto Bartolozzi.
Inoltre, stando alla testimonianza di Carlo Gabrielli Rosi, presidente dell'associazione toscana Volontari
della Libertà di Lucca, Lida Basso Frisini si adoperò anche per l'assistenza a Maurizio Sardas, nascosto
a Borgonuovo di Pescia.
Nel 1978 Yad Vashem conferì a Lida Basso Frisini il riconoscimento di Giusta tra le Nazioni. Nel maggio
del 2007 il Comune di Pescia le attribuì la cittadinanza onoraria. Pochi mesi dopo, nel luglio del 2007,
si è spenta a Livorno.
Donna molto vivace e generosa, durante la seconda guerra
mondiale nascose in casa sua a Lunata, in provincia di Lucca,
una numerosa famiglia ebrea, i Gabbai, salvandoli dalla
persecuzione.
I Gabbai, come molti altri, erano scappati dalla Francia
meridionale in seguito all'armistizio dell'8 settembre 1943.
Dopo la caduta del Fascismo, il 25 luglio 1943, il governo
Badoglio aveva avviato un progressivo disimpegno delle forze
armate italiane dalla Francia fino all'ordine, il 15 agosto del
1943, di completa evacuazione.
NELLA BICHI e SUOR GIUSEPPINA POMPIGNOLI
Pia Ajò
Miranda Servi Cividalli
La storia di Miranda e di sua madre Pia comincia nel settembre del '43, quando Miranda, 27enne, ex
insegnante all’istituto Pascoli di Firenze fino alle leggi razziali del '38, e poi alla scuola ebraica di via
Farini, insieme a sua madre e a suo fratello Giorgio, mentre il padre è ricoverato in ospedale, è costretta
a lasciare la casa di via Pier Capponi, danneggiata da un bombardamento, per rifugiarsi in campagna, a
San Piero a Sieve.
Appena in tempo: la casa è vuota da neanche due mesi quando, il 6 novembre, arriva il camion dei
rastrellamenti. Di lì a poco, la fattoria vicina a San Piero dove Giorgio lavora viene occupata dai
tedeschi, la sua fuga notturna viene notata e si teme una caccia agli ebrei nascosti nella zona.
Miranda e Pia tornano perciò a Firenze e si nascondono nel convento delle suore francescane di via
de' Serragli, la Casa della Giovane, già piena di famiglie di sfollati, ma dove suor Benedetta Pompignoli,
a rischio della sua stessa incolumità, apre le braccia anche a loro.
Per poco, però.
Il 26 novembre i tedeschi rastrellano (per la seconda volta) un altro convento di francescane in piazza
del Carmine e mettono sotto controllo quello di via de' Serragli.
Madre e figlia rischiano grosso e a offrirsi di ospitarle, questa volta, è l'amica del cuore di Miranda,
Nella Bichi, anche lei insegnante, che sta in San Jacopino. Finché una perquisizione dell'appartamento,
mentre le due donne, per fortuna, sono fuori, non le costringe di nuovo alla fuga.
Nella Bichi
Miranda e Pia tornano in via dei
Serragli, dove passeranno, questa
volta, lunghi mesi di stenti, per il poco cibo e il terrore costante di essere scoperte, mentre arrivano
notizie di arresti e rastrellamenti, e di amici, parenti, conoscenti, uccisi o portati non si sa dove.
Il 14 luglio del '44, Pia non ce la fa più. Cade in delirio, vaneggia, è vittima di una psicosi da paura. Per
non dare nell'occhio, lei e Miranda, che può solo darle qualche calmante, si chiudono in una stanza,
dove le suore portano cibo e acqua. Poi, tutto precipita.
Il 30 luglio, per ordine dei nazisti, l'Oltrarno deve essere evacuato, l'ultimatum scade a mezzogiorno, e
ancora alle dieci Miranda non ha idea di dove andare. La salverà un'amica, che le farà avere un carretto
con cui portare la mamma all'ospedale di Santa Maria Nuova, dove la lascerà sotto falso nome, per
raggiungere poi la casa di un avvocato fiorentino, dove potrà nascondersi.
E arriva l'11 agosto, la liberazione di Firenze. Quando, il 14, Miranda torna a Santa Maria Nuova, scopre
che la madre, intossicata dai calmanti, è morta il 12, ed è stata seppellita nel Giardino dei Semplici. Di lì
a poco, verrà a sapere che il padre, da anni in ospedale, è morto in maggio, di tifo. Era in così cattive
condizioni che i nazisti, dopo averlo scoperto, avevano rinunciato a prelevarlo. Anche lui, altrimenti,
avrebbe fatto la fine che, come Miranda e il fratello, sopravvissuto e tornato a Firenze, scopriranno, ha
fatto gran parte della loro famiglia. A fine agosto, davanti al Comitato della Comunità ebraica, Miranda
firmerà la sua testimonianza.
Poi metterà una pietra sui suoi ricordi. Si sposerà con Giorgio Cividalli, nascerà la sua bambina, Sara,
preservata a lungo dalle ombre nere del passato. Il ritrovamento della vicenda è fortuito, ma porterà al
riconoscimento delle due donne come Giuste tra le Nazioni, grazie proprio a Sara.
Le suore della Sacra Famiglia erano presenti a Firenze dal 1912, occupandosi dell’accoglienza di
giovani studenti, collocamento e ritrovo festivo per le donne di servizio, rifugio provvisorio delle
ragazze in difficoltà, con l’associazione “Protezione della giovane” .
La fraternità rimane a Firenze anche durante tutto il periodo bellico. In alcune lettere che proprio nei
mesi del conflitto sono state scritte da suor Benedetta alla Madre Generale della Congregazione, che si
trovava a Cesena, si parla di privazioni, pericoli, rappresaglie, ma non si fa cenno ad accoglienza di
persone ebree, anche perché la corrispondenza poteva cadere in cattive mani e portare alla denuncia e
all’arresto. In una lettera del 23 maggio del 1945 scrive soltanto: “In questa terribile guerra tutte
abbiamo lavorato per il bene di tante persone che non si conoscevano nemmeno”. Dunque, suor
Benedetta e la comunità, senza rendere pubblica la cosa, nel più totale segreto e silenzio, hanno aperto
le porte alle famiglie ebree che, rimanendo in Firenze, cercavano di non farsi catturare e deportare.
Non si è trattato di numeri elevati di persone, ma due o tre famiglie per volta, per non destare sospetti,
con documenti falsi per nascondere le origini ebraiche e “confondendo” queste accoglienze con altri
pensionanti, sfollati a causa dei bombardamenti oppure giovani accolte con il programma “Protezione
della giovane”, o giovani studentesse.
La testimonianza che riguarda suor Benedetta, è
stata riassunta così da Miranda Servi: “Suor
Benedetta, superiora del Convento della Sacra
Famiglia – Protezione della Giovane – via Serragli,
21 – ci ha accolto il 16 novembre 1943 per pochi
giorni, finché scappammo dal Convento, avendo
saputo della retata del vicino Convento del
Carmine; ci ha accolto una seconda volta il 17
marzo ’44 e ci ha ospitato fino al 30 luglio,
nonostante che gravi sospetti gravassero sul
Convento, che proteggeva altre due famiglie di
ebrei italiani e una di ebrei apolidi. Insieme alle
altre suore ha reso meno triste la nostra
reclusione ed ha assistito mia madre durante la
sua grave malattia; si è comportata
coraggiosamente durante una perquisizione ed
un interrogatorio”.
GIOVANNI GELATI e LYDIA CARDON GELATI
Fu proprio durante questo periodo che
salva la vita a due bambini livornesi ebrei,
Piera e Arnoldo Rossi, figli del suo amico
Cesarino (ricercato), accogliendoli in casa
come figli suoi e nascondendoli ai tedeschi
e ai fascisti.
Gelati con grande spirito di umanità e
coraggio, aiutato dalla moglie Lydia, fece in
modo che nessuno potesse sospettare che
fossero ebrei, riuscendo a salvarli.
Giovanna, la figlia dei Gelati che all'epoca
aveva due anni racconta: "Credevo fossero i
miei fratelli".
Giovanni Gelati nasce a Livorno nel 1910.
Avvocato, è costretto a rinunciare alla
carriera forense per le sue convinzioni
antifasciste. Quando Livorno viene
bombardata, nel maggio 1943, la famiglia
Gelati si trasferisce a Coreglia degli
Antelminelli (Lu), dove gli viene chiesto
di assumere il ruolo di podestà, dato che
quello in carica era stato rapito dai
partigiani. Gelati, repubblicano e
antifascista, accetta, senza però
pronunciare giuramento al Fascismo: per
mesi media tra i partigiani e i tedeschi
allo scopo di salvare il Paese da razzie,
violenze e rappresaglie.
Giovanni Gelati si è spento nel 2000, a novant'anni.
Nel 2012 riceve il riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni”
insieme alla moglie
con Giovanna
Giovanni Gelati
1943