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I GIUSTI TRA LE NAZIONI I Giusti tra le nazioni sono non ebrei che hanno corso grandi rischi per salvare gli ebrei durante l'Olocausto. Il salvataggio ha assunto molte forme e i Giusti provenivano da diverse nazioni, religioni e percorsi di vita. Ciò che avevano in comune era che proteggevano i loro vicini ebrei in un momento in cui l'ostilità e l'indifferenza prevalevano. "Credo che sia stato proprio grazie a Lorenzo che sono vivo oggi, e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente ricordato con la sua presenza ... che esisteva ancora un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno ancora puro e intero ... per cui valeva la pena sopravvivere ". Così Primo Levi descrive il suo salvatore, Lorenzo Perrone (Se questo è un uomo) L'atteggiamento verso gli ebrei durante l'Olocausto andava principalmente dall'indifferenza all'ostilità. Molti sono rimasti a guardare, anche intimoriti, mentre i loro ex vicini erano arrestati e uccisi; alcuni hanno collaborato con i carnefici; molti altri hanno beneficiato dell'esproprio delle case e delle risorse dei loro concittadini ebrei. Nel totale collasso morale dell’Europa nazifascista, c'era però chi trovò uno straordinario coraggio nel custodire dalla barbarie, i valori umani in cui aveva creduto e vissuto prima di allora. Questi erano i Giusti tra le nazioni. Contrariamente alla tendenza generale, questi soccorritori consideravano gli ebrei come altri esseri umani che dovevano “semplicemente” aiutare.

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I GIUSTI TRA LE NAZIONI

I Giusti tra le nazioni sono non ebrei che hanno corso grandi rischi per salvare gli ebrei durante

l'Olocausto. Il salvataggio ha assunto molte forme e i Giusti provenivano da diverse nazioni, religioni e

percorsi di vita. Ciò che avevano in comune era che proteggevano i loro vicini ebrei in un momento in

cui l'ostilità e l'indifferenza prevalevano.

"Credo che sia stato proprio grazie a Lorenzo che sono vivo oggi, e non tanto per il suo

aiuto materiale, quanto per avermi costantemente ricordato con la sua presenza ... che

esisteva ancora un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno ancora puro

e intero ... per cui valeva la pena sopravvivere ". Così Primo Levi descrive il suo salvatore,

Lorenzo Perrone (Se questo è un uomo)

L'atteggiamento verso gli ebrei durante l'Olocausto andava principalmente dall'indifferenza all'ostilità.

Molti sono rimasti a guardare, anche intimoriti, mentre i loro ex vicini erano arrestati e uccisi; alcuni

hanno collaborato con i carnefici; molti altri hanno beneficiato dell'esproprio delle case e delle risorse

dei loro concittadini ebrei.

Nel totale collasso morale dell’Europa nazifascista,

c'era però chi trovò uno straordinario coraggio nel custodire dalla barbarie, i valori umani in cui aveva

creduto e vissuto prima di allora. Questi erano i Giusti tra le nazioni. Contrariamente alla tendenza

generale, questi soccorritori consideravano gli ebrei come altri esseri umani che dovevano

“semplicemente” aiutare.

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La maggior parte dei soccorritori ha soccorso amici o sconosciuti ebrei trovandosi difronte alle retate o

alle manovre precedenti la deportazione. Altri hanno agito

anche prima, quando con le leggi razziali i diritti degli

ebrei erano stati fortemente limitati e le loro proprietà

confiscate.

A differenza di altri, queste persone, non caddero

nel consenso alle misure restrittive e crescenti

contro gli ebrei.

In molti casi furono gli ebrei a rivolgersi a un

amico o a una persona non ebrea per chiedere aiuto. Di fronte agli ebrei che bussavano alla loro porta,

molti si trovarono di fronte alla necessità di prendere una decisione immediata. Di solito si trattava di

un gesto umano istintivo, preso alla sprovvista del momento e solo dopo seguito da una scelta morale.

Spesso era un processo graduale, con i soccorritori sempre più coinvolti nell'aiutare gli ebrei

perseguitati. Accettare di nascondere qualcuno durante un raid o una retata - per fornire un riparo per

un giorno o due fino a quando qualcos'altro potrebbe essere

trovato - si evolveva di frequente in un salvataggio che è

durato mesi e anni.

Il prezzo che i soccorritori avrebbero potuto pagare per la loro

vicinanza, accoglienza o solidarietà differiva da un paese

all'altro. Nell'Europa orientale, i tedeschi hanno giustiziato

non solo le persone che hanno protetto gli ebrei, ma anche

tutta la loro famiglia. Le conseguenze potevano arrivare alla

deportazione e alla fucilazione, oppure alla rappresaglia.

La pesante intimidazione, il “regime della paura”, instaurato in

tutta l’Europa dai nazisti spinse soccorritori e soccorsi sotto il timore costante di essere catturati; c'era

sempre il pericolo di denuncia da parte di vicini o collaboratori. Ciò ha aumentato il rischio e reso più

difficile per la gente comune sfidare le convenzioni e le regole. Coloro che decisero di proteggere gli

ebrei dovettero sacrificare le loro vite normali e scegliere un'esistenza clandestina, dominata dal

timore di denuncia e cattura.

La maggior parte dei soccorritori erano persone

normali. Alcuni hanno agito per convinzioni

politiche, ideologiche o religiose; altri non

erano idealisti, ma semplici esseri umani che si

preoccupavano delle persone che li

circondavano. In molti casi non hanno mai

pianificato di diventare soccorritori ed erano

totalmente impreparati a prendere una

decisione così forte e decisiva. Erano esseri

umani ordinari, ed è proprio la loro umanità che

ci tocca.

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I Giusti sono cristiani di tutte le confessioni e chiese, ma anche musulmani; uomini e donne di tutte le

età; di tutti i ceti sociali; persone istruite e altre analfabete.

Tra il ’43 e il ’45 gli ebrei perseguitati che non vennero deportati o uccisi in Italia furono, secondo

Michele Sarfatti, almeno 35.000. Circa 500 di essi riuscirono a rifugiarsi nell’Italia meridionale; 5500-

6000 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera (ma per lo meno altri 250-300 furono arrestati prima di

raggiungerla o dopo esserne stati respinti); gli altri 29.000 vissero in clandestinità nelle campagne e

nelle città, grazie all’aiuto di tanti italiani che opposero una “resistenza non armata” alla barbarie

tedesca e fascista.

Dal 1963 una speciale commissione israeliana assegna il riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni” alle

persone che rischiando la propria vita salvarono gli ebrei dalle mani dei nazifascisti. “Chi viene

riconosciuto Giusto tra le nazioni, viene insignito di una speciale medaglia con inciso il suo nome, riceve

un certificato d’onore ed il privilegio di vedere il proprio nome aggiunto agli altri presenti nel Giardino

dei giusti presso il museo Yad Vashem di Gerusalemme. Ad ogni Giusto tra le nazioni viene dedicata la

piantumazione di un albero, poiché tale pratica nella tradizione ebraica indica il desiderio di ricordo

eterno per una persona cara. La cerimonia di conferimento dell’onorificenza si svolge solitamente presso

il museo Yad Vashem alla presenza delle massime cariche istituzionali israeliane, ma si può tenere anche

nel paese di residenza del Giusto se questi non è in grado di muoversi. Ai Giusti tra le nazioni, inoltre,

viene conferita la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele”.

Il Tribunale del Bene, che esamina la documentazione relativa agli atti di coraggio e salvataggio a

favore degli ebrei durante il Nazismo, fu voluto da Moshe Bejiski scampato alla deportazione grazie a

Oscar Schindler. Schindler aveva scritto il suo nome nella famosa “lista” degli “operai” a suo dire

necessari per continuare la produzione delle sue fabbriche durante il

periodo bellico.

Sono oltre 20.000 i Giusti nel mondo e 417 gli italiani che hanno ricevuto sinora tale riconoscimento.1I

loro nomi compaiono sul Muro dell’Onore, nel Giardino dei Giusti della fondazione Yad Vashem a

Gerusalemme.

1Per visionare l’elenco : (http://www.storiaxxisecolo.it/deportazione/deportazionegiusti).

Schindler non era un santo ma salvò migliaia di ebrei da morte certa. Ricordando questo, Bejiski volle

che il premio potesse essere assegnato anche a coloro che operarono il Bene a favore degli Ebrei,

sinceramente e gratuitamente, anche se il loro comportamento non era sempre o mai stato

ineccepibile.

Oscar Schindler

Moshe Bejski

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I “giusti tra le nazioni italiani”. Una figura simbolo: Giorgio Perlasca

Giorgio Perlasca, era nato a Maserà (Padova) nel 1910. Il padre era segretario comunale. Entusiasta

degli ideali nazionalisti del fascismo, nel ’35 andò come volontario prima in Africa Orientale poi in

Spagna, con il Generale Franco. Dopo la fine della guerra di Spagna, rientrato in Italia, il suo rapporto

con il fascismo, inteso come regime, entrò in crisi per due motivi essenzialmente; l’alleanza con la

Germania e le leggi razziali, le inique leggi razziali che anche l’Italia ebbe a darsi copiando l’alleato

tedesco. Non riusciva a comprendere, a giustificare uno Stato che discriminava propri cittadini per

motivi religiosi e razziali. Così come non poteva comprendere una alleanza con la Germania contro cui,

solo vent’anni prima, avevamo combattuto una feroce guerra che aveva riportato all’Italia Trento e

Trieste. Coerente, smise di essere fascista, senza mai diventare antifascista. Scoppiata la seconda

guerra mondiale venne mandato, in pratica come incaricato d’affari e con lo status di diplomatico, nei

paesi dell’Est per comprare carne per l’Esercito italiano. A Belgrado vide i primi rastrellamenti e le

prime deportazioni di ebrei e zingari nel 1941 da parte dei tedeschi. L’ 8 di settembre del 1943

l’Armistizio tra l’Italia e gli Alleati lo colse a Budapest, sempre con lo stesso incarico; posto di fronte

alla richiesta di aderire alla R.S.I. rifiutò, con un ulteriore atto di coerenza, in quanto si sentiva

vincolato dal giuramento di fedeltà prestato al Re. Venne internato in un castello riservato ai

diplomatici e per alcuni mesi la vita corse tranquilla, anche se il clima politico andava rapidamente

deteriorandosi, aumentando l’influenza diretta dei tedeschi. Sino a che, a metà ottobre del 1944, dopo

l’annuncio del reggente ammiraglio Horty della firma dell’armistizio con l’Unione Sovietica, i tedeschi

presero il potere arrestando il reggente ed affidando il governo alle croci frecciate, i nazisti ungheresi.

Giorgio Perlasca dovette fuggire e nascondersi e trovò rifugio presso l’Ambasciata spagnola. Al

momento del congedo in Spagna ricevette infatti un documento che recitava: “Caro camerata, in

qualunque parte del mondo ti troverai potrai rivolgerti alle Ambasciate spagnole”. Ed in pochi minuti

divenne cittadino spagnolo, con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca, iniziando a

collaborare con l’Ambasciatore spagnolo, Sanz Briz, che già allora assieme alle altre potenze neutrali

presenti (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano) rilasciava salvacondotti per proteggere i

cittadini ungheresi di religione ebraica. Anche se con notevoli distinzioni; funzionari di alcuni paesi

vendevano a caro prezzo i salvacondotti ed ovviamente non avevano poi la forza morale ne la volontà

di pretenderne il rispetto.

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A fine novembre l’Ambasciatore spagnolo viene richiamato per consultazioni in Patria ed offre a

Giorgio Perlasca la possibilità di seguirlo; ma Perlasca decide di rimanere per mandare avanti l’opera

iniziata e per non abbandonare alla morte certa chi viveva sotto la protezione della bandiera spagnola.

Autocompila con timbri e carta intestata autentica la sua nomina ad Ambasciatore spagnolo, porta le

credenziali al Ministero degli Esteri che le prende per buone. E qui iniziarono i 40/45 giorni in cui, da

solo, con l’aiuto dell’avv. Farkas, il legale dell’Ambasciata spagnola anche lui di religione ebraica, resse

l’Ambasciata spagnola e l’incredibile impostura. L’avvocato Farkas riuscì a sfuggire ai tedeschi ma

venne ucciso dalle truppe dell’Armata Rossa quando nel 1945 entrarono a Budapest. Riuscì a

proteggere, salvare e sfamare giorno dopo giorno oltre 5200 ungheresi di religione ebraica ammassati

in cinque case protette lungo il Danubio, di fronte all’isola Margherita. Li rifornì di cibo; trovò soldi;

organizzò un abbozzo di struttura militare di resistenza; salvò, curò, girando su una Buik con le

insegne della Spagna in una città di gelo, macerie, cecchini. Protesse gli ebrei dalle incursioni dei nylas,

recandosi con Wallemberg alla stazione per cercare di recuperare i protetti, trattando quotidianamente

con il Governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione. Rilasciando salvacondotti che

recitavano: “Parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni

non verranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà qui sotto la protezione del governo

spagnolo”. Giocando sul fatto che la maggior parte degli ebrei ungheresi era di origine sefardita, quindi

di antica origine spagnola ma cacciati centinaia di anni addietro dalla Regina Isabella la Cattolica.

Nelle ore finali della disfatta tedesca a Budapest, affrontò il ministro dell’Interno ungherese che voleva

incendiare il ghetto, minacciandolo e ottenendone infine la resa. E l’incredibile impostura durata oltre

40 giorni riuscì.

Per cento giorni, Giorgio Perlasca si finse tutto quello che non era: ambasciatore, medico, organizzatore

della resistenza, consolatore. E fu sempre creduto. Oltre 5200 ebrei ungheresi riuscirono a salvarsi, a

sopravvivere. Era un bluff ma nel clima di disfatta, confusione e di mancanza assoluta di comunicazioni

funzionò.

Dopo l’entrata in Budapest dell’Armata Rossa, venne fatto prigioniero ma poi fu liberato, e riuscì con un

lungo ed avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia a rientrare in Italia. Mise in un cassetto la sua

storia ed iniziò una vita normalissima. Non riteneva – e lo diceva senza retorica – di aver fatto nulla di

eccezionale e che qualsiasi persona al suo posto si sarebbe dovuta comportare in quella maniera, con

maggior o minor fortuna, ma in quella maniera. La dignità di essere umano, di persona, lo imponeva. E

nemmeno in famiglia raccontò la storia nella sua completezza, se non qualche singolo episodio che non

dava una visione generale della realtà. Non raccontò, non vendette la sua incredibile storia come tanti,

troppi fecero nell’Italia del dopoguerra, per ottenere qualcosa in cambio. Giorgio Perlasca venne

ritrovato, è proprio il caso di dirlo, a fine anni 80.

In Italia la vicenda venne alla luce grazie a Enrico Deaglio, con la trasmissione televisiva Mixer e con il

libro “la banalità del bene”. A Perlasca fu concessa la Medaglia d’Oro al Valor Civile ed il titolo di Grande

Ufficiale della Repubblica. L’Ungheria gli concesse la massima onorificenza nazionale, la Stella al Merito

e la Spagna gli concesse l’onorificenza di Isabella la Cattolica. Gli Stati Uniti lo accolsero come un eroe.

Innumerevoli i riconoscimenti di associazioni, fondazioni private; in moltissime città italiane vi sono

vie e piazze che portano il suo nome.

Alla domanda, ripetuta dai giornalisti che lo intervistavano, sulle motivazioni e sul perché lo aveva

fatto, rispondeva in due modi. “Lei cosa avrebbe fatto al mio posto, vedendo migliaia di persone

sterminate senza un motivo, solo per odio razziale e religioso, ed avendo la possibilità di fare qualcosa

per aiutarli?”. E a un altro giornalista rispose: “L’ho fatto perché sono un uomo”.

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Giorgio Perlasca venne a mancare il 15 agosto del 1992, improvvisamente. E’ sepolto nel suo paese

natale. Ha voluto essere sepolto in terra e con una unica scritta in ebraico sulla pietra tombale: Giusto

tra le Nazioni

Come si ottiene il riconoscimento

Il riconoscimento si ottiene grazie alla domanda di un parente della persona salvata che lo richiede alla

Commissione di inchiesta in Israele. Il dossier da esaminare deve contenere le prove del salvataggio e

l’attestazione della persona salvata o di un ebreo testimone degli eventi.

I giusti livornesi

Sono quattro i livornesi che fino ad ora hanno ottenuto il ricnosicmento di Giusto tra le Nazioni, e sono:

Lydia e Giovanni Gelati, Mario Canessa, Lida Basso Frisini.

Molte altre storie restano al momento ancora da scoprire.

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LIDA BASSO FRISINI

Lida Basso Frisini è nata a Pescia, in provincia di Pistoia, il primo ottobre 1919 ed è morta a Livorno nel

2007. La sua è stata una storia difficile fin dalla prima infanzia: ha sofferto nei primi affetti ripagata poi

dall'amore dei genitori adottivi, ha lavorato da adolescente come operaia e ha poi ripreso gli studi fino

a laurearsi e divenire una apprezzata insegnante di lettere all'Itis.

La Quarta Armata che occupava le regioni meridionali francesi, tra il confine alpino, il fiume Rodano e

la costa mediterranea, da tempo proteggeva la popolazione ebraica e al suo rientro in Italia fu seguita

da molti ebrei.

Il 10 settembre i tedeschi occuparono l'Italia e iniziò la persecuzione degli ebrei nel nostro paese.

In casa di Lida i Gabbai furono accolti per un anno, da settembre 1943 a settembre 1944, mentre altri

otto ebrei trovarono rifugio presso altre famiglie della piana di Lucca, grazie al suo interessamento.

Lida organizzò la raccolta di cibo in favore dei suoi protetti rivolgendosi a famiglie di conoscenti, al

convento dei Padri Carmelitani di Capannori, e a Giuseppina, una ragazza che lavorava in un mulino di

Capannori, da cui presero la farina per sfamare tutti gli ebrei accolti.

Lida organizzò anche la prima parte della fuga in Svizzera di cinque dei rifugiati, con l'aiuto di due

partigiani, Michele Lombardi e Roberto Bartolozzi.

Inoltre, stando alla testimonianza di Carlo Gabrielli Rosi, presidente dell'associazione toscana Volontari

della Libertà di Lucca, Lida Basso Frisini si adoperò anche per l'assistenza a Maurizio Sardas, nascosto

a Borgonuovo di Pescia.

Nel 1978 Yad Vashem conferì a Lida Basso Frisini il riconoscimento di Giusta tra le Nazioni. Nel maggio

del 2007 il Comune di Pescia le attribuì la cittadinanza onoraria. Pochi mesi dopo, nel luglio del 2007,

si è spenta a Livorno.

Donna molto vivace e generosa, durante la seconda guerra

mondiale nascose in casa sua a Lunata, in provincia di Lucca,

una numerosa famiglia ebrea, i Gabbai, salvandoli dalla

persecuzione.

I Gabbai, come molti altri, erano scappati dalla Francia

meridionale in seguito all'armistizio dell'8 settembre 1943.

Dopo la caduta del Fascismo, il 25 luglio 1943, il governo

Badoglio aveva avviato un progressivo disimpegno delle forze

armate italiane dalla Francia fino all'ordine, il 15 agosto del

1943, di completa evacuazione.

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NELLA BICHI e SUOR GIUSEPPINA POMPIGNOLI

Pia Ajò

Miranda Servi Cividalli

La storia di Miranda e di sua madre Pia comincia nel settembre del '43, quando Miranda, 27enne, ex

insegnante all’istituto Pascoli di Firenze fino alle leggi razziali del '38, e poi alla scuola ebraica di via

Farini, insieme a sua madre e a suo fratello Giorgio, mentre il padre è ricoverato in ospedale, è costretta

a lasciare la casa di via Pier Capponi, danneggiata da un bombardamento, per rifugiarsi in campagna, a

San Piero a Sieve.

Appena in tempo: la casa è vuota da neanche due mesi quando, il 6 novembre, arriva il camion dei

rastrellamenti. Di lì a poco, la fattoria vicina a San Piero dove Giorgio lavora viene occupata dai

tedeschi, la sua fuga notturna viene notata e si teme una caccia agli ebrei nascosti nella zona.

Miranda e Pia tornano perciò a Firenze e si nascondono nel convento delle suore francescane di via

de' Serragli, la Casa della Giovane, già piena di famiglie di sfollati, ma dove suor Benedetta Pompignoli,

a rischio della sua stessa incolumità, apre le braccia anche a loro.

Per poco, però.

Il 26 novembre i tedeschi rastrellano (per la seconda volta) un altro convento di francescane in piazza

del Carmine e mettono sotto controllo quello di via de' Serragli.

Madre e figlia rischiano grosso e a offrirsi di ospitarle, questa volta, è l'amica del cuore di Miranda,

Nella Bichi, anche lei insegnante, che sta in San Jacopino. Finché una perquisizione dell'appartamento,

mentre le due donne, per fortuna, sono fuori, non le costringe di nuovo alla fuga.

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Nella Bichi

Miranda e Pia tornano in via dei

Serragli, dove passeranno, questa

volta, lunghi mesi di stenti, per il poco cibo e il terrore costante di essere scoperte, mentre arrivano

notizie di arresti e rastrellamenti, e di amici, parenti, conoscenti, uccisi o portati non si sa dove.

Il 14 luglio del '44, Pia non ce la fa più. Cade in delirio, vaneggia, è vittima di una psicosi da paura. Per

non dare nell'occhio, lei e Miranda, che può solo darle qualche calmante, si chiudono in una stanza,

dove le suore portano cibo e acqua. Poi, tutto precipita.

Il 30 luglio, per ordine dei nazisti, l'Oltrarno deve essere evacuato, l'ultimatum scade a mezzogiorno, e

ancora alle dieci Miranda non ha idea di dove andare. La salverà un'amica, che le farà avere un carretto

con cui portare la mamma all'ospedale di Santa Maria Nuova, dove la lascerà sotto falso nome, per

raggiungere poi la casa di un avvocato fiorentino, dove potrà nascondersi.

E arriva l'11 agosto, la liberazione di Firenze. Quando, il 14, Miranda torna a Santa Maria Nuova, scopre

che la madre, intossicata dai calmanti, è morta il 12, ed è stata seppellita nel Giardino dei Semplici. Di lì

a poco, verrà a sapere che il padre, da anni in ospedale, è morto in maggio, di tifo. Era in così cattive

condizioni che i nazisti, dopo averlo scoperto, avevano rinunciato a prelevarlo. Anche lui, altrimenti,

avrebbe fatto la fine che, come Miranda e il fratello, sopravvissuto e tornato a Firenze, scopriranno, ha

fatto gran parte della loro famiglia. A fine agosto, davanti al Comitato della Comunità ebraica, Miranda

firmerà la sua testimonianza.

Poi metterà una pietra sui suoi ricordi. Si sposerà con Giorgio Cividalli, nascerà la sua bambina, Sara,

preservata a lungo dalle ombre nere del passato. Il ritrovamento della vicenda è fortuito, ma porterà al

riconoscimento delle due donne come Giuste tra le Nazioni, grazie proprio a Sara.

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Le suore della Sacra Famiglia erano presenti a Firenze dal 1912, occupandosi dell’accoglienza di

giovani studenti, collocamento e ritrovo festivo per le donne di servizio, rifugio provvisorio delle

ragazze in difficoltà, con l’associazione “Protezione della giovane” .

La fraternità rimane a Firenze anche durante tutto il periodo bellico. In alcune lettere che proprio nei

mesi del conflitto sono state scritte da suor Benedetta alla Madre Generale della Congregazione, che si

trovava a Cesena, si parla di privazioni, pericoli, rappresaglie, ma non si fa cenno ad accoglienza di

persone ebree, anche perché la corrispondenza poteva cadere in cattive mani e portare alla denuncia e

all’arresto. In una lettera del 23 maggio del 1945 scrive soltanto: “In questa terribile guerra tutte

abbiamo lavorato per il bene di tante persone che non si conoscevano nemmeno”. Dunque, suor

Benedetta e la comunità, senza rendere pubblica la cosa, nel più totale segreto e silenzio, hanno aperto

le porte alle famiglie ebree che, rimanendo in Firenze, cercavano di non farsi catturare e deportare.

Non si è trattato di numeri elevati di persone, ma due o tre famiglie per volta, per non destare sospetti,

con documenti falsi per nascondere le origini ebraiche e “confondendo” queste accoglienze con altri

pensionanti, sfollati a causa dei bombardamenti oppure giovani accolte con il programma “Protezione

della giovane”, o giovani studentesse.

La testimonianza che riguarda suor Benedetta, è

stata riassunta così da Miranda Servi: “Suor

Benedetta, superiora del Convento della Sacra

Famiglia – Protezione della Giovane – via Serragli,

21 – ci ha accolto il 16 novembre 1943 per pochi

giorni, finché scappammo dal Convento, avendo

saputo della retata del vicino Convento del

Carmine; ci ha accolto una seconda volta il 17

marzo ’44 e ci ha ospitato fino al 30 luglio,

nonostante che gravi sospetti gravassero sul

Convento, che proteggeva altre due famiglie di

ebrei italiani e una di ebrei apolidi. Insieme alle

altre suore ha reso meno triste la nostra

reclusione ed ha assistito mia madre durante la

sua grave malattia; si è comportata

coraggiosamente durante una perquisizione ed

un interrogatorio”.

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GIOVANNI GELATI e LYDIA CARDON GELATI

Fu proprio durante questo periodo che

salva la vita a due bambini livornesi ebrei,

Piera e Arnoldo Rossi, figli del suo amico

Cesarino (ricercato), accogliendoli in casa

come figli suoi e nascondendoli ai tedeschi

e ai fascisti.

Gelati con grande spirito di umanità e

coraggio, aiutato dalla moglie Lydia, fece in

modo che nessuno potesse sospettare che

fossero ebrei, riuscendo a salvarli.

Giovanna, la figlia dei Gelati che all'epoca

aveva due anni racconta: "Credevo fossero i

miei fratelli".

Giovanni Gelati nasce a Livorno nel 1910.

Avvocato, è costretto a rinunciare alla

carriera forense per le sue convinzioni

antifasciste. Quando Livorno viene

bombardata, nel maggio 1943, la famiglia

Gelati si trasferisce a Coreglia degli

Antelminelli (Lu), dove gli viene chiesto

di assumere il ruolo di podestà, dato che

quello in carica era stato rapito dai

partigiani. Gelati, repubblicano e

antifascista, accetta, senza però

pronunciare giuramento al Fascismo: per

mesi media tra i partigiani e i tedeschi

allo scopo di salvare il Paese da razzie,

violenze e rappresaglie.

Giovanni Gelati si è spento nel 2000, a novant'anni.

Nel 2012 riceve il riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni”

insieme alla moglie

con Giovanna

Giovanni Gelati

1943