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letteratura / ROMANZI

Giuseppe Fedeli

I FALÒ E LA LUNA

Novelle e altro

Cendon LIBRI

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Letteratura - Romanzi

Anche questo finirà. Anche questo.

Sì, come tutto.

Finirà come tutto.

Giuseppe Fedeli consegue la Laurea in Giurisprudenza e successivamente la Specializzazione in

Diritto Civile presso l'Universitas Studiorum di Camerino. Avvocato e giudice di pace, collabora a

forum e riviste giuridiche, svolgendo in pari tempo l'attività di Cultore del Diritto presso l'Università

Gabriele D'Annunzio di Pescara. Ha al suo attivo pubblicazioni presso prestigiose case editrici.

Alterna alla professione ed allo studio di codici e pandette l'amore per la letteratura e la poesia.

Partecipa a concorsi e premi letterari, che gli valgono significativi riconoscimenti. Sposato, è padre di

tre figli.

“i falò e la luna”è il suo secondo lavoro letterario, nel 2010 ha esordito con il romanzo-diario

“Guarda nell'abisso-lettere ad Alessio, bellissimo bambino senza parole”edito da Pagine.

EDIZIONE LUGLIO2013

© Cendon Libri Editore S.n.c. di Paolo Cendon & C.

via San Lazzaro 8 - 34100 Trieste (TS)

Sito internet: www.cendonlibri.it

E-mail [email protected]

ISBN 9788898069804

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione, di

adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e

le copie fotostatiche), sono riservati in tutti i Paesi.

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INDICE

Incipit

Parte prima

La Prosa

1. ELVEZIA L'IRRIDUCIBILE

2. LA TELA

3. I PALLINI

4. IL PRINCIPE DEL FORO

5. LA CAGNA

6. LA DOPPIA VITA DI SAVIO

7. LA “SOLONA”

8. L'APPUNTAMENTO

9. LE AULE AGERIE

10. IL DEVOTO

11. IL BAMBINO CHE MANGIAVA CIOCCOLATA

12. NELLA BUONA E NELLA CATTIVA SORTE

Parte seconda

La Poesia

1. IL TEMPO

2. GILDA

3. LA FANCIULLA VESTITA DI FIORI

4. LA FELICITÀ

5. ANGELO DECADUTO (A STEFANO)

6. GRENDEL

7. IL VISO SEGNATO (ALLA SPOSA)

8. IL VECCHIO GIRADISCHI

9. VAI, GIRARDENGO!…(IN MEMORIA DI DARIO)

10. IL SAPORE DELLE COSE

11. DIARIO DI UN MEDICO DI CAMPAGNA

12. TUTTO HO PERDUTO

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EXIT (IL CANTO DELLA VITA)

CLAUSOLA

INCIPIT

Sperare di cambiare le cose, di mutare sorte, è una sfida nella quale si è destinati a

perdere, non soltanto la partita, ma anche noi stessi. Forse, prefigurata la

situazione ideale, una volta che essa avesse a realizzarsi, rimpiangeremmo quel

che di più vero e nostro ci è stato sottratto: la vocazione alla vita, a quello che

siamo, a quel che il Cielo, attraverso trame perfette ma imperscrutabili, giorno

dopo giorno ci elargisce.

Giuseppe Fedeli

A Benedetta, Alessio e Stefania

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Parte Prima

LA PROSA

1. Elvezia l’irriducibile

Elvezia si sposò con una specie di Barnabo delle montagne in giovane età -

non appena laureata -, ma il matrimonio di lì a poco tempo andò a rotoli. La

colpa era – forse - imputabile al fatto che ella non era adatta a una stabile

convivenza, o – forse -, come usa dire, i due non erano fatti l’uno per l’altra.

A detta di lei, fu costretta a scappare da un despota che la tiranneggiava,

angariandola al punto che per lei l’unica chance di sopravvivenza era

sottrarsi alle sue grinfie. Da quell’unione scellerata fortunatamente non

nacquero figli.

Tornata a vivere coi genitori al suo paese d’origine, dopo aver varcato la

fatidica soglia dell’esame di stato, le seconde “nozze” le celebrò con la

Giustizia, di cui si autoelesse vestale. Lo zelo e la travolgente voglia di

riscatto dalle ingratitudini della vita a favore dei più deboli e derelitti la

indussero per l’appunto a fare la scelta dell’avvocatura. L’irriducibile aveva

fatto suo il motto che echeggiava muto nelle stanze del “palazzo”: habent

sua sidera lites.

In seguito, a questa innata vocazione affiancò il ruolo di magistrato onorario,

vestendo così due paludamenti, o meglio indossando a seconda delle

funzioni quando la toga del legale, quando la toga del Giudice. I ritmi che

governavano le sue adunanze erano da caterpillar, non c’erano orari.

Lavoratrice indefessa, poteva succedere che un’udienza si protraesse - se si

eccettuano radi interludi e briefing - anche oltre le dieci ore pro die.

Divorata dal fuoco di questo nobile quanto “singolare” investimento, i suoi

giorni, che non conoscevano soste né tregue, si confondevano tra loro nel

duplice ruolo che ella rappresentava.

Gli unici diversivi che si concedeva - per lo più il sabato e la domenica -

erano il teatro e la danza, ai cui eventi partecipava come spettatrice con

entusiasmo.

Donna di una semplicità e un tratto unici – ma risoluta -, di là dal fervore

stakanovista non aveva particolari ambizioni: la sua vita erano codici e

pandette, ermeneutica e algoritmi processuali.

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Incline allo scherzo e complice nel motteggio mai scurrile ma faceto, non se

la prendeva nemmeno se veniva fatta bersaglio di battute salaci, intinte nel

calamo puntuto dell’ironia, lei che d’autoironia ne aveva da vendere: bastava

che non le si toccasse l’argomento lavoro.

Capitò un giorno in cui era impegnata come magistrato che i fascicoli da

dibattere fossero numerosissimi – una trentina all’incirca. Sbrigate così le

prime formalità di rito - un rito sempre sacramentale, a dispetto della

bassezza in cui erano caduti i tribunali e dello squallido trascinarsi in una

grigia vita di routine dei “tribuni”, travet da quattro soldi -, Elvezia – rectius,

la Dott.ssa Elvezia Cossiri - si tuffò nella “cognizione” delle cause, che

sfilavano una di seguito all’altra seguendo un ritmo lento ma regolare, senza

lasciar spazio a tentennamenti o resipiscenze di sorta.

Quel giorno – a parte il quarto d’ora d’ordinanza dedicato alla consumazione

di un pasto più che frugale - non ci furono interruzioni. Si arrivò, così,

davanti a una platea rintronata dalle parole –sovente tautologie - e

annebbiata dal sonno, alle 0,15 del giorno successivo, sic et simpliciter – era

l’espressione gergale frusta di cui infarcivano le arringhe gli avvocati -,

senza che il Magistrato battesse ciglio.

Sennonché i genitori di lei, allarmati – in preda a un delirio mascherato da

finta imperturbabile calma, Elvezia si era dimenticata di avvertirli che

avrebbe ritardato per cena…-, disperati perché la figlia non rispondeva

nemmeno al cellulare - puntualmente tacitato -, dopo una ricerca spasmodica

telefonarono al numero privato dell’ufficio: al che la vessillifera della

Giustizia, senza perdere le staffe ma visibilmente seccata dall’intrusione,

appartatasi il tempo che bastava ad evadere la “commissione”, rispose chiaro

e tondo: “Per favore, lasciatemi lavorare, ché non ho ancora finito. Non so

per quanto ne avrò. Quanto alla cena, quando tornerò a casa, mi arrangerò

alla meglio”.

Immediatamente dopo, davanti a un pubblico sparuto, più tramortito che

trasecolato, con fiera determinazione e un’appena accennata sprezzatura,

sedette di nuovo sullo scranno.

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2. La tela

Aveva da poco sistemato il cavalletto in faggio, i colori sornioni dalla

tavolozza condiscendenti lo spiavano, la tela non aspettava che di venirne

intrisa, irrorata, di essere scavata.

I pigmenti ricavati dalla natura o da processi sintetici erano delle più svariate

sfumature, andavano dalle tonalità di grigio all'arancio all'ocra alla terra di

Siena, al rosso Tiziano, al carminio, al vermiglione, al blu di Prussia,

all’oltremare, al cobalto...

Il pennello e gli strumenti di lavoro erano pronti, non restava che

incominciare l'opera, dare il la all'atto creativo.

*** ***

Il pittore, il cui nom de plume era Odil - per una certa qual somiglianza nei

soggetti ritratti e nell'ispirazione ai gusti ed alla poetica di Odilon Redon -

traeva di solito spunto per le sue creazioni da paesaggi o stati d'animo

tradotti in metafora e simbolo, policromi e versatili, camaleontici e

proteiformi. Questa volta aveva però deciso che a fare da Musa sarebbe stato

il suo io. Narcissica smania d'onnipotenza o semplice vezzo d'artista?

Pose dunque una vecchia specchiera che rifletteva in maniera alquanto opaca

la sua figura a lato della tela, e incominciò a tratteggiare i lineamenti

dell'alter ego.

Via via che il lavoro procedeva, nelle intermittenti pause che si concedeva

per fumare una sigaretta o prendere una boccata d'aria, recuperato alla realtà

il suo stato - quando dipingeva era divorato dal sacro fuoco - si avvide d'un

tratto che la fisionomia dei ritratto non corrispondeva interamente a quella

del soggetto dipinto, ma evidenziava piuttosto quei connotati che la

trasfigurazione immaginifica desiderava fossero a lui propri. Al tempo stesso

la forza dell'atto poietico era tale, da generare dentro di lui una specie

d'incantata sospensione, che di lì a poco si traduceva puntualmente in una

sottile inquietudine non aliena da una fuggevole ma palpabile crisi d'identità.

Era come se l'io allo specchio si sdoppiasse nella sostanza, in una scissione

che apriva una crepa sorda nel suo petto.

*** ***

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Odil continuava indefesso nella sua opera “mimetica”, ma la lenta e

incessante metamorfosi che non tanto nel soggetto ritratto nella tela, quanto

dentro di sé andava facendosi viepiù strada lo costringeva a lunghi interludi

di contemplazione, in cui l’assenza dalla cosiddetta “realtà” era totale, e il

suo sradicamento dal mondo non concedeva spazio a tregue di sorta. Solo

nel graduale recupero dello stato di coscienza, o nelle interminabili veglie

notturne l’artista avvertiva, scandito dai battiti del cuore che gli

rimbombavano nel petto con tonfi sordi, che il corso della sua esistenza stava

come deviando dalla via maestra, quasi fosse stato affatturato da quell’idea

tradotta nella rappresentazione di sé. Con la fronte imperlata di sudore, si

svegliava di colpo nel cuore della notte, e non gli riusciva più di

riaddormentarsi. Era come se il demone della nevrosi, causata da

quell’intima scissione, da quello sgretolamento, si fosse impadronito della

sua anima.

*** ***

I giorni passavano, e Odil, la mente fissa e concentrata unicamente nel

portare a termine l’opera cui da tempo aveva messo mano, sentiva che le

forze lo stavano lentamente ma ineluttabilmente abbandonando. Mentre in

passato si dedicava a più lavori, scivolando da una tela a un’altra a seconda

dell’ispirazione e della stimmung del momento, adesso non esisteva altra

ragione di vita che il suo io abbellito – o ammorbato?... - di fronzoli e

d’insani desideri: aveva osato varcare i limiti, ed ora gli dei lo punivano:

doveva temere il destino, il loro inesorabile decreto.

Non poteva continuare a stare in bilico tra realtà e immaginazione, tra quello

che era e quello che avrebbe potuto – dovuto…? - essere, doveva al più

presto scegliere uno tra i due corni del dilemma, pena la perdita del ben

dell’intelletto, ma soprattutto del suo io, in una grottesca e progressiva

deformazione delle sue facoltà coscienti e sensoriali.

La tela veniva di solita coperta da un velo al termine della giornata, per poi

essere di nuovo messa a nudo l’indomani, al ritorno all’opus.

Tutto accadde in un baleno. Una notte, in preda al delirio più incontenibile, a

Odil capitò quasi per caso di leggere, su un Quaderno di Bella vergato a

mano, un frammento della “Suite furlana” di Pier Paolo Pasolini: “Un

fanciullo si guarda nello specchio,/il suo occhio brilla nero./Non contento

guarda nel rovescio/per vedere se è un corpo quella Forma./ Ma vede solo il

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muro liscio/o la tela di un ragno maligno./Scuro torna a guardare nello

specchio/la sua Forma , un barlume nel vetro./Io fanciullo, guardo nello

specchio,/e il ricordo mi ride leggero/il ricordo della mia vita viva/come

erba in una nera riva./Ma non contento guardo nel rovescio/per vedere se è

qualcosa a dolermi./ Un barlume, è, un barlume,/solo il bianco di un

barlume(…)”.

Si precipitò nella stanza di lavoro, strappò il panno che avvolgeva come un

sudario la tela, ormai prossima al battesimo, squarciandola senza pietà, per

poi immolarla al fuoco purificatore.

Come d’incanto, egli si vide seduto, spettatore muto d’un vuoto proscenio,

ad applaudire la parodia di sé, e ritrovò il senno.

3. I Pallini

Li chiamavano da sempre i Pallini. Erano matti, ma (almeno fino a un certo

punto della loro esistenza) mal non gliene incolse. Avevano il privilegio della

follia, quella numinosa dote di diversione dalle regole codificate dal

consesso “civile” come “normali” (da norma), non sapevano il bene e il

male, l'astuzia né l'inganno, conoscevano il ritmo del tempo e l'alternarsi

delle stagioni, agivano d'istinto. Come le bestie che, davanti a un pericolo

che fiutano anzitempo, scappano.

Dopo una vita vissuta in due - Pierino e Mario - non si sa come - nessuno

osava varcare la soglia della loro casa -, un giorno il prevosto del villaggio,

uomo scorbutico e irsuto ma con un cuore grande così, che nascondeva sotto

la ruvidità degli approcci uno spirito caritativo d'altri tempi, e dietro il

burbero cipiglio la commozione delle lacrime, saltò il fosso della coscienza e

li volle con sé. Sì, li accolse nella sua modesta dimora, li fece venire a vivere

con lui.

I giorni scorrevano nella piatta calma della vita di paese, ma l'anima di Don

Vittorio, traboccante d'amore, non faceva mancare agli “ospiti” nulla, perché

questi si sentissero a loro agio e come gente, se non normale, quanto meno

degna di far parte del consesso degli umani. Ma la follia, se da un lato è

libertà di e da, dall'altro nasconde perigliose trappole, è una bomba a

orologeria che può esplodere da un momento all'altro, è governata da leggi

arcane. E così, man mano che il tempo passava, i Pallini, comunque a modo

loro furbi, presero sempre più ad avanzare pretese nei confronti del loro

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benefattore, angariandolo al punto da sputargli in faccia se qualcosa non

andava - secondo il loro modo di “vedere” la vita - per il verso giusto. Non

mancavano poi di fare sceneggiate innominabili, condite d'epiteti blasfemi

alla volta del povero cristo, non di rado alzandogli anche le mani, così da

essere in più di un'occasione protagonisti di spiacevoli incidenti, dalle

conseguenze incresciose. I matti andavano addirittura sproloquiando,

rovesciando a loro tornaconto la situazione, che era l'anfitrione a vessarli e

tiranneggiarli: quindi, tanto matti poi non erano, se avevano una pur minima

capacità di ragionamento.

Capitò che il prete si ammalò, e i Pallini, vista la mala parata - non potevano

più essere serviti e riveriti a puntino - se ne tornarono nel luogo da cui il

parroco li aveva strappati, perché, se fossero rimasti lì, sarebbero crepati di

stenti, tra mucchi d'immondizia e un fetore indicibile. Ma così vollero, e Don

Vittorio, anche perché ormai allo stremo, non si oppose a quella “dissennata”

decisione, non volle interferire sul loro “libero” arbitrio. Abituati com'erano

al “lusso” di quell'esistenza toccata dagli Angeli, senza più un punto di

riferimento essi furono, sul finire dell'inverno - la dipartita dalla casa

parrocchiale avvenne ad autunno inoltrato - trovati agonizzanti, tra deiezioni

e topi che sgusciavano da ogni dove, in quella che definire una stamberga era

troppo. Furono alcuni vicini ad accorgersene, a causa del prolungato e

inspiegabile “silenzio” dei due, che ormai si protraeva da giorni: sfondato

l'uscio tarlato di casa - in verità bastò una piccola spinta, e questo si divelse -

, i Pallini furono ricoverati d'urgenza al nosocomio, dove, dato lo stato in cui

erano ridotti, spirarono nel volgere di poche ore. E se ne andarono prima di

chi dedicò parte della sua vita a loro, e che, ormai ad un passo dall'abbraccio

con sorella morte, fu trovato a recitare il rosario in suffragio delle anime di

quei poveri disgraziati.

4. Il principe del foro

C’è chi nasce con la camicia, e chi con la toga. Precipuo apparteneva alla

seconda schiera. Egli - il suo nome era tutto un programma - veleggiava

protagonista indiscusso delle aule giudiziarie: vinceva puntualmente ogni

causa che gli veniva affidata. La sua cura e abnegazione non avevano eguali,

né lui temeva rivali nella professione. Sfruttando le sue abilità - non solo

oratorie - e la furbizia - che di certo non faceva in lui difetto, da

doppiogiochista quale era -, riuscì col tempo a crearsi una “piazza” nutrita,

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fatta di clienti di diversa estrazione, anche se tendeva a privilegiare - in

accordo alla sua cupidigia - quelli provvisti di “verde”.

Man mano che si diffondeva la sua fama, intrecciava rapporti sempre più

stretti - la sua area d'elezione era il diritto civile, ma non disdegnava puntate

sui territori del penale - coi pezzi da novanta della politica e dell'alta finanza,

trincerandosi sapientemente dietro lo schermo di un'inappuntabile dialettica

da mercante della Giustizia. Insomma, il suo “talento” (e la capacità di

dissimulazione) era tale, che usciva “senza macchia” anche dal più ardito e

spregiudicato jeux d'hazard, attraverso le chicanes i certamina curiali, i

sofismi parolai e le ermetiche quando non fluviali citazioni dotte.

Sposato, la donna con la quale aveva deciso di dividere la sorte trovava

finalmente pane per i suoi denti, essendo costei della peggior razza delle

saccenti sedicenti depositarie del verbo.

I figli -due maschi - non volevano saperne di codici e codicilli, ma, in una

lenta quanto scarnificante opera di persuasione, furono a tempo debito

sacrificati alla inderogabile “ragion di Stato” che vigeva in quel

focolare.”Consigliori” di diversi istituti di credito e svariate Compagnie di

Assicurazioni, all'Avv. Perficio - non riveliamo per necessità di privacy il

cognome - venne un giorno conferito un incarico, favorito da un suo

scherano di “palazzo”. Era chiamato a difendere uno dei boss più efferati dei

clan di spicco siciliani, ma prima gli occorreva intessere una ragnatela di

rapporti in cui, se non avesse adottato la massima cautela, rischiava di

rimanere irretito: comunque sia, ne andava della sua credibilità, come

professionista più che come uomo, anche se le due figure si confondevano in

un'unica ratio consustanziale al suo essere.

In quel frangente si era rivolto a lui un cugino assai più giovane d'età, da

poco laureato - il quale, prima di allora, non aveva avuto notizie né sentore

di alcunché riguardo a detta “investitura”. Joshua - era questo il suo nome -,

reduce da un'esperienza di vita estrema, era impegolato suo malgrado in una

situazione che non gli lasciava scampo, e si dibatteva in un ginepraio di

dubbi e interrogativi inevasi. Era così andato a bussare alla porta dello

Studio Legale, memore della promessa fattagli dal cugino maggiore tempo

addietro, in vista di una collaborazione professionale. Sulle prime Perficio,

che rimase d'acchito perplesso, si mostrò di massima consenziente - anche se

senza mostrare eccessivi entusiasmi -, ma di lì a pochi giorni ritrattò tutto

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respingendo al mittente il neofita (dall'”ipse dixit!” aspramente marchiato

presso la cerchia dei sodali come miserabile “postulante”).

Ma il destino aspetta al varco tutti, specie chi osi impunemente sfidarlo.

*** ***

Il campo era apparecchiato per la “singolar tenzone” nella famigerata aula

bunker di Palermo. Vestita la toga, impreziosita di cordoneria oro e nero e

provvista di pettorina - il giorno avanti, partito di buon mattino, l'avvocato

aveva soggiornato presso un lussuoso hotel del capoluogo isolano - il

dibattimento si infiammò subito in un serrato confronto/scontro con il

Pubblico Ministero da una parte, e l'accusa privata dall'altra. Fin quando la

pubblica accusa non estrasse l'asso dalla manica: erano state – a dire del

rappresentante statuale - intercettate, secondo le regulae juris, quindi del

tutto legittimamente, parecchie telefonate tra l'Avv. Perficio e il boss

imputato, da cui emergeva l'ipotesi di un coinvolgimento del primo nel reato

di favoreggiamento personale. Inviato così motu proprio l'incarto

processuale alla Procura competente, nel giro di pochi mesi - il tempo

occorrente a svolgere le indagini - il principe del foro si ritrovò, con

incredulità pari allo sconcerto, alla sbarra degli imputati. Dopo mesi passati a

rosolare sulla graticola - nessuno volle assumere la veste di difensore, vuoi

per l'invidia serbata da anni nei confronti del “rivale”, vuoi perché erano

venute alla luce più o meno manifeste combine con diversi pregiudicati,

gentaglia pronta a vendersi l'anima per la ricchezza e il successo, sicché

appariva disdicevole perorare una simile causa -, alla prova dei fatti gli

sovvenne il distico - preso in prestito da un suo amato poeta - che, prima di

riattaccare la cornetta, il cugino, freddato dal veto, gli declamò: “il meglio

che possono darti/gli uomini, è dimenticarti”. Ebbene sì, proprio a Joshua, in

precedenza liquidato subdolamente e con la scusa di difficoltà logistiche -

laddove invece il titolare dello Studio temeva che quanto da lui sin lì

costruito potesse essere divorato dalle fauci di appetiti incontenibili - toccò,

anima nobile nel senso autentico della parola, difenderlo perché a Perficio,

supponente e schifiltoso, non era rimasto nessuno accanto. Neppure i figli,

che nel frattempo avevano a loro volta indossato la toga. Dopo essersi

intrattenuto in un colloquio con il proprio difensore, il “cliente”, fatta

ammenda della vergognosa abiura, si mise a piangere e, disperato, gli tese la

mano.

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5. La cagna

L'avevano soprannominata 'la cagna' per la sua totale e incondizionata

dedizione ai suoi amici bulldog, ai quali aveva sacrificato tutto, anche la

famiglia. Il marito, di diversi anni maggiore d'età, se l'era scelto perché

rivestiva una posizione di tutto riguardo in seno al consesso sociale: era

guarda caso veterinario, mentre lei insegnava alle scuole elementari di una

sperduta frazione in mezzo alle montagne. Da quel matrimonio di

convenienza erano nati tre figli, uno peggiore dell'altro: le punizioni inflitte a

ciascuno di loro dal padre padrone li aveva resi tutti - eccettuato uno, di cui

si vociferava fosse 'figlio d'altri', che si distingueva per il tratto fine e la

nobiltà d'animo - cattivi e perfidi, in ossequio a una inesorabile legge di

natura, che vuole si compensino le frustrazioni e le angherie subite in tenera

età rendendo al prossimo - chiunque esso sia, e nel quale ci si imbatta per

ventura - la pariglia. L'atteggiamento snobistico e sussiegoso e il DNA

l'avevano ereditato dalla madre, parvenu di paese che si credeva la Regina

d’Inghilterra. Costei aveva speso poco del suo tempo - lo stretto

indispensabile - a crescerli e a educarli, anche se aveva insufflato nei loro

alveoli un'aria ammorbata.

Morto il compagno, se si eccettua qualche 'diversione' con camionisti

intercettati sulla lunghezza d'onda dei radioamatori, ella poteva finalmente

coltivare la sua passione - una vera e propria fissa - a tempo indeterminato.

Dava loro da mangiare, li faceva scorrazzare nel prato che circondava la

villa, accarezzava le bestiacce: diversamente non le si poteva definire, se è

vero che un giorno, al guinzaglio del ‘cane’ – nome di penna del figlio

maggiore e più spietato - avevano, facilitati nell'azione dal padrone,

azzannato un ragazzo minorato verso cui quello nutriva - non si sa per quale

mai motivo, ma i disturbi psicotici non seguono le ordinarie leggi dell'etica e

del vivere civile - singolare antipatia (si venne a sapere poi che la mamma si

compiacque di tanta ignominia: al punto che il padre del bambino disabile

andò a bussare umilmente, ma con determinazione, alla porta della 'cagna'

per chiedere spiegazioni in merito all'accaduto, ma per tutta risposta gli fu

sbattuto l'uscio in faccia e, come se non bastasse, egli si guadagnò pure la

nomea di matto del villaggio: fata non parcunt bonis...): in realtà la persona

che il losco figuro odiava profondamente era se stesso, come sempre succede

– Freud docet - a chi scarica la propria furia cieca sul prossimo.

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Ma tutti erano in attesa dell' ‘evento’: ché non se ne poteva più dei soprusi di

quella sequela di idioti, sussiegosi e perversi.

*** ***

Un giorno di maggio, le rose dischiuse nel loro smagliante fulgore, la

padrona - alias cagna - si recò di buonora a dare il cibo alle sue adorate

creature. Il vento che d'un tratto si era levato portava seco una sinistra eco,

come se i latrati di mille cani si fosse condensato nel mulinare vorticoso

degli elementi. Anche il cielo si oscurò, quasi latore di un fatale

presentimento. Tutto accadde in un lampo: uno dei bulldog - di sesso

femminile anch'esso -, addestrato sin da cucciolo alla lotta contro l'uomo,

fiutando qualcosa di strano nell'aria, scambiò la padrona per un'altra, e le si

avventò sul collo, recidendole la giugulare: con tale repentinità che quella

non ebbe nemmeno il tempo di reagire, e di cacciare un urlo. Nessuno fu

spettatore di nulla. Solo a distanza di un quarto d'ora, un vicino che si

trovava a passare nei paraggi si accorse della scena raccapricciante, e chiamò

subito il 118, ma non c'era più niente da fare. Il capo riverso in una pozza di

sangue e gli occhi spalancati in un'allucinata incredulità, occorse la

scientifica per il riconoscimento della vittima di quell'insano istinto di morte.

La platea, accorsa alla spicciolata, non fece alcun commento, e se ne tornò

sui propri passi con malcelata e cruda soddisfazione, sogghignando.

Morale della favola: chi varca il limite, tema il destino (greci docunt).

6. La doppia vita di Savio

Savio viveva alla periferia della capitale, in un appartamento

temporaneamente preso in affitto. Studente di vaglia, si era iscritto alla

facoltà di giurisprudenza, superando brillantemente gli esami. Cinto d'alloro,

aveva ripreso le sudate carte per un ambizioso traguardo: la Magistratura.

Pure questo cursus era stato di tutto rispetto, e nel giro di pochi anni egli

aveva tagliato anche il faticoso quanto ambito nastro. Il prestigio derivante

dalla carica di cui era il corifeo lo faceva sentire una persona importante,

speciale, con in mano le leve e gli strumenti per imprimere una svolta al

mondo, e vincerne le insane pulsioni.

Assegnato all'inizio ad una sede disagiata - la ‘famigerata’ sede di Platì -, i

riconoscimenti e le lodi che gli valsero il suo zelo e la bruciante passione

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fecero sì che, dietro sua richiesta, di lì a poco fu trasferito nel palazzo di

Giustizia di Frosinone.

Tra un interrogatorio e l'altro, un decreto e una sentenza - data la scarsità

dell'organico, era chiamato via via a ricoprire i ruoli quando di magistrato

requirente, quando di magistrato giudicante - la vita di Savio, che scorreva

piuttosto tranquilla nell'avamposto ciociaro, ebbe una svolta. Tra pile di carte

processuali e logomachie curiali, arringhe e astrazioni iperboree si accampò

un giorno sul breve orizzonte del ‘palazzo’ il volto di una donna semplice e

risoluta ad un tempo, dal cui fascino e dalla cui classe restò subito irretito.

Venuta anche lei - il suo nome era Annacarla - dalla corvé di location

minori, aveva alfine fatto sbarco in quel luogo che - si disse poi - era stato

favorito dalla fortuna per un incontro così speciale.

In preda al demone dell'infatuazione, i due incominciarono così a

frequentarsi sempre più assiduamente, nei ritagli di tempo che l'attività lo

consentiva, fin quando non decisero di andare a vivere insieme.

Ad essi, nell'appartamento del quartiere Prati dove stabilirono la comune

dimora, si aggiunse Veronica, men che decenne, figlia di primo letto di

Annacarla - quest'ultima aveva alle spalle un passato burrascoso con un

marito geloso e satrapo da un lato, e libertino dall'altro, che durante la

parentesi matrimoniale non si era fatto mancare nulla, specie le concubine di

ogni razza e genere, fino all'uscita di scena in sordina con una giovane e

procace collega della consorte.

Speriamo - erano questi i pensieri che animavano Annacarla - di aver

coronato il sogno della mia vita, e di non ricacciarmi mai più nell'inferno e

nelle ambiguità cui sono miracolosamente scampata. Così pensava, in un

confidente e quasi compiaciuto immaginare.

*** ***

I giorni passavano ora nella inevitabile routine del lavoro e della casa, ora

movimentati da qualche cenetta a lume di candela e da occasionali gite fuori

porta, quasi sempre durante i fine settimana.

Dopo un anno di convivenza trascorso tra alti e bassi - anche se senza

scossoni che facessero presagire l'uragano che di lì a pochi mesi si sarebbe

abbattuto sulle loro vite - l'esaltazione dei primi mesi era andata via via

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scemando, come quasi sempre accade quando una relazione si consolida, e si

assopisce il demone della passione. Fin quando Annacarla scoprì d'essere

incinta di un bambino.

All'annuncio festoso del nuovo arrivato - sarebbe più corretto dire nascituro -

Savio, invece di manifestare gioia e commozione, si rinchiuse in un silenzio

ostinato.

Dietro l'impenetrabile cortina che questi aveva innalzato tra sé e l'esistenza

degli altri - Annacarla e Veronica - si nascondeva adesso un ambiguo uomo -

come usa dire - tutto d'un pezzo, che a casa signoreggiava le altrui sorti,

impartendo direttive a destra e a manca, mentre fuori se la spassava a suo

piacimento con giovani condiscendenti pollastrelle dall'appetito insaziabile.

Al tutore della legalità fino alla pedanteria si “giustapponeva” l'araldo del

libertinaggio godereccio e gigionesco off limits.

In verità, prima di scoprirsi ancora una volta mamma, Annacarla aveva del

tutto casualmente ‘intercettato’ lettere che il compagno indirizzava a

‘fantomatiche’ esponenti del gentil sesso, ma, forse più per rassicurare se

stessa che non per un'intima persuasione, non vi aveva dato peso, limitandosi

a sorriderne indulgente ed a considerarle nulla più che un esercizio del 'bello

stilo’ che da sempre infiammava la faconda penna di Savio.

C'è da dire che alla ‘metamorfosi’ di quest'ultimo aveva senz'altro

contribuito la sua dipartita dalla Magistratura, ai cui altari aveva sacrificato

una vita di studi, illudendosi, forte del credo marxista e arso dal fuoco sacro

della ‘rivoluzione’, che quell'approdo fosse la leva per sollevare - e cambiare

- il mondo: anche se non si conobbero mai in profondità le ragioni di

quest'abbandono, con successiva virata ai lidi dell'avvocatura, complice nella

difficile decisione un amico di vecchia data. Soltanto dopo Annacarla

sarebbe venuta a scoprire che questa delusione, che lo aveva indotto a saltare

il fossato, rifletteva in fondo l'essere più ‘autentico’ di Savio, quell'insanabile

scissione che lo divideva nell'intimo e gli faceva indossare i panni ora del dr.

Jeckill, ora di mr. Hyde.

*** ***

Dopo l'ennesima lite, Savio non vide altra via d'uscita che di allontanarsi, a

distanza di pochi mesi dalla nascita di Emilian.

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Allentatasi la morsa del ‘mostro’, si evidenziavano i primi sintomi di una

larvata anoressia in Veronica, esito fatale in cui era sfociata la forzata

convenienza col patrigno che a raffica e al modo di un duce impartiva i suoi

odiosi comandi e imponeva il paradossale diktat, un misto di perbenismo

borghese e tirannia.

Dal canto suo Savio, la cui vernice d'integerrimo andava scrostandosi

mostrando la vera pelle, anche su consiglio di Annacarla - ridottasi a

comunicare con lui via mail -, per il bene del figlio comune, incominciò le

sedute dallo psichiatra. Non sarebbe tuttavia uscito mai dal fortilizio del suo

disperato solipsismo, egoico e psicotico.

Trovò una collocazione temporanea in un appartamento facente parte di una

palazzina di un pressoché sconosciuto condominio di cui il padre - la cui

autoritarietà era la causa, secondo lo psichiatra, del dualismo che si dibatteva

nel figlio - era comproprietario per una quota irrisoria. Non perdendo il vizio

di cogliere fior da fiore, la magnifica quanto distruttiva ossessione di volare

qua e là, a seconda degli umori e della luna, Savio s'imbattè un bel giorno in

una frequentatrice delle aule giudiziarie, una ‘suffragetta’ prostrata dopo il

coup de foudre alle di lui ginocchia in adorante sottomissione, ma, -

all'insaputa del medesimo -, adusa - dalla scoperta della sua bellezza ancora

acerba - al mestiere più antico del mondo. L'aspetto acqua e sapone di Elisa

ingannò il tombeur de femme, che se ne invaghì perdutamente. Al punto che

i due andarono a vivere insieme, progettando un futuro prodigo di lusinghe.

Intanto Annacarla, con l'aiuto di uno psicologo a tutela della crescita sana del

bambino, si andava facendo una ragione del fallimento del tormentato

ménage, riponendo prima i sogni nel cassetto, per poi scaraventare scarpina e

vestito da ballo alle ortiche: non valeva la pena - si diceva - starsela a

prendere per un bastardo di quella risma.

Anche Veronica riuscì piano piano, dopo aver soggiornato ed essere stata

presa in cura presso una clinica specializzata per certe tipologie di disturbi, a

venir fuori dall'incubo, dribblando elegantemente e con impareggiabile

nonchalance le patetiche scuse di Savio - nomen omen? - trovato un giorno

implorante e in lacrime davanti alla porta della di lei stanza - come avesse

fatto ad entrare, non avendo più le chiavi, è mistero affidato all'intuito di uno

Sherlock Holmes.

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Impantanato suo malgrado - o per sua colpa? - nella novella situazione,

messo con le spalle al muro dall'obbligo di mantenimento a beneficio della

ex compagna e dalle minacce tutt'altro che larvate di dover fare altrettanto

nei confronti di Elisa (con cui aveva intanto ratificato il legame

‘indissolubile’ davanti a Dio ed agli uomini), Savio passava la maggior parte

del suo tempo a guardare, inebetito, sfilare davanti a sè la folta schiera di chi

- uno dopo l'altro - lasciava, sazio, quel laido lupanare.

7. La “Solona”

La Pallosi si sentiva in diritto - dovere? - di dire la sua – ipsa dixit! - su tutto

e su tutti. Mestierante del dileggio, il suo giudizio - riteneva lei - era

infallibile, indiscutibile, dogma. Dall’alto della sua odiosa albagia, tranciava

sentenze a destra e manca, non sfuggendo al suo occhio inquisitore alcunché

della realtà tangibile e – sic!...- “metafisica” (d’altronde, la passione per la

filosofia, dei cui allori menava vanto, la portava sovente a sragionare, o a

impegolarsi in argomentazioni cavillose, speciose, tautologiche).

I suoi sentimenti erano, come contraltare, di cartapesta, e i legami con il

resto del mondo solo di comodo e ispirati alla più bieca convenienza.

Sì, perché, Paperon de Paperoni declinato al femminile, ella sapeva ben

fiutare l’odore del danaro, non disdegnando così di frequentare il “salotto

buono” della provincia, sussiegosa al pari di lei quanto legnosa, per

ingraziarsi i magnati della finanza, ai cui favori si vendeva melliflua: i

“notabili”, fantocci telecomandati che, pur nel loro snobismo

pseudointellettuale, non sapevano distinguere una “c” palatale da una “c”

cerebrale, schierati immancabilmente a sinistra (la cultura era da sempre

stata appannaggio dei “compagni”), ma inguaribilmente “radical chic”.

Come la “Solona”.

Ma dai e dai, costei finì con l’attirare gli strali velenosi – ma meritati - di chi

aveva eletto a suo bersaglio, perlopiù poveri cristi che la sorte non aveva

omaggiato di fortuna, o gente senza un soldo, “gentuccia” – era la locuzione

che lei amava affibbiare a questa “plebaglia”- che non andava considerata

degna di far parte dell’umano consesso.

La Pallosi apparteneva invece alla cerchia della gente cosiddetta “per bene”,

ai benpensanti che facevano la carità buttando con malcelata aria di

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sufficienza dentro la scodella un euro di troppo, al tempo stesso lesinando il

pur minimo aiuto ai più bisognosi, anche del milieu parentale. Insomma, era

la classica tipa che predicava - e che predicozzi! - bene, e razzolava male.

Ma guai a criticarla: chi avesse osato sarebbe stato colpito da anatemi e dardi

infuocati. Né la medesima-sorvoliamo sul prenome….- faceva nulla per

rendersi non dico simpatica, ma quanto meno sopportabile da chi bon gré

mal gré veniva, magari accidentalmente, a contatto con lei.

Aveva messo su famiglia - un matrimonio “combinato” ispirato, come era

adusa la sua condotta, da un occhio lungo e cupido, e che si reggeva sulla

reciproca diffidenza e malalingua, su una quotidiana corsa a ostacoli tra i

coniugi, ciascuno mirante al podio a costo di dover passare sul cadavere

dell’altro. I due rampolli – ragazzi come tanti altri, avevano tuttavia, secondo

legge di Natura, ereditato il DNA materno e paterno - non risparmiavano

fiele e battute al fulmicotone all’indirizzo di chi reputavano non fosse un

eletto, della loro levatura, sociale e culturale, di sangue e di ceto. Ma non

mancavano – anzi, erano all’ordine del giorno- le liti imbastite come una

furente pira dalla madre proterva, dettate dall’incistata brama di arrivare

prima anche sui figli.

A conti fatti, la Pallosi metteva alla berlina chiunque. Per meglio gustarne il

martirio, faceva cuocere a fuoco lento chi non era – e chi lo era?... - nelle sue

grazie, straziandolo a brano a brano: ella viveva – o meglio, le era consentito

vivere - godendo dell’altrui sofferenza e della disdetta, non avendo il

“prossimo” barriera per proteggersi dalle di lei frecce letali.

Accadde che la detestata fustigatrice di costumi si ammalò. La diagnosi fu

sin dall’inizio infausta, non lasciava spazio a speranze.

Sulle prime, a lei parve di non accorgersene – probabilmente perché colta da

autentico spavento - ma via via che il morbo inesorabile si faceva strada, ne

acquisì lucida coscienza. Alcuni la videro piangere – anche se non era la

prima volta che si struggeva, perché, come si addice ad ogni perbenista,

aveva sempre la lacrima in tasca pronta a cospetto di situazioni tragiche o

melo, da cui prendeva pietisticamente e invariabilmente le distanze: a

ciascuno il suo, non ti aspettare niente dall’altro, era questo il suo

“manifesto”. Ma di questo credo morì perché, a un passo dal fatidico varco,

tutti – persino i figli e il marito, chi inventandosi impegni improrogabili ed

estemporanei, chi dicendosi inadeguato alla situazione, in disparte quelli che

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pregustavano l’imminente fine di una bastarda di quella risma, declamandolo

senza mezzi termini - disertarono il capezzale. Mai detto più giusto e più

vero si attagliò alla grottesca condizione della morente Solona: chi la fa

l’aspetti. Ella chiuse gli occhi – per una oscura legge del contrappasso -

priva di conforto alcuno, se si esclude la vicinanza di una pia donna,

trovatasi lì per caso, che, mossa a compassione, ne accompagnò il viatico

recitando la Coroncina della Divina Misericordiosa.

8. L'appuntamento

Ad Altero avevano consigliato di andare dall'analista per una terapica di tipo

cognitivo-comportamentale che, se anche non lo avesse guarito, avrebbe - si

sperava - attenuato le sue ubbie. Il complesso di Edipo, che lo legava in un

nodo inestricabile all'imperiosa figura materna, non si era – a dire dei Soloni

e delle Pizie che lo circondavano - ancora dissolto, e questo era cagione delle

anomalie del suo comportamento, delle frequenti diversioni dal tracciato

“normale” della vita, delle sue stravaganti curve sinusoidali.

Prese così appuntamento per telefono, dopo essersi consigliato con persone

che stimava autorevoli e sagge su quale approccio psicologico fosse più

confacente al suo caso. Decise, dopo innumerevoli consulti, di affidarsi a tale

Dott.ssa Cristina Storti, di matrice psicanalitica rigorosamente freudiana.

La prima seduta servì per fare la conoscenza reciproca, a parte la narrazione

di dettagli di contorno per inquadrare di massima la situazione da sviscerare.

Successivamente - ogni seduta durava i canonici quarantacinque minuti, non

era dato derogarvi - s'incominciò a mettere a nudo l'anima di Altero, in un

gioco di rifrazioni e dialettiche incrociate -con tanto di transfert e

attaccamento morboso alla psic che avrebbe portato con lenta ma ineluttabile

gradualità a giocare la partita a carte scoperte.

Man mano che il rapporto s'intensificava e il garbuglio delle emozioni e dei

nodi irrisolti veniva a galla, l'analista aveva modo, tuttavia, di scoprire nel

soggetto in cura, nonché un'ironia e una verve insospettabili, una capacità di

disamina non comune a quelli del suo “rango”. Sì che alle “letture” dei

sogni, dei lapsus e delle fenomenologie della vita quotidiana da parte della

Dott.ssa Storti, Altero replicava con prontezza di spirito ed acume critico,

non di rado smontando i castelli di carta costruiti con perizia accademica nei

santuari della Scienza.

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Accadde un giorno che, auspice il bel tempo e un venticello che benevolo

soffiava sfiorando e pungendo dolcemente la pelle, il paziente, all'ennesima

seduta, mostrasse più di sempre una grinta che subito spiazzò la dott.sa

Storti. Ogni notazione e interpretazione era rintuzzata da Altero con

proprietà semantica, cognizione di causa e fiero cipiglio. Egli sfoderò anche

un bagaglio di conoscenze e di cultura che spaziava in molteplici campi

dello scibile, pertinente alla sua situazione, ben oltre le fumisterie verbali che

erano state sin lì spese e ruminate. Non era vero nulla di quanto era stato

sentenziato su di lui, che la presenza della madre l'avrebbe schiacciato,

sicché Edipo, innamorato di Giocasta, bramava di uccidere il padre, a lui

sostituendosi in un triangolo morboso dall'esito letale. Erano fandonie e

sproloqui della psicanalisi, denudata e sbugiardata nella sua ambiziosa

pretesa di riscrivere lo statuto dell'anima e della mente, quelli di cui infarciva

l'eloquio l'analista. Non era vero niente di niente. E la psicologa finì col

crederci, e con l'ammettere di non aver colto nel segno, persuadendosi di

essere andata del tutto fuori tema.

Terminata la seduta, Altero s’accomiatò senza pagare - fu la Storti che non

volle i soldi -, ma questa non fu l'ultima volta che i due s’incontrarono. In un

grottesco gioco di rimandi e specchi rovesciati, fu infatti l’analista a chiedere

al paziente un appuntamento, previo accordo sulla parcella da pagare, in

anticipo, ad Altero.

9. Le Aule Agerie

Il curioso “pseudonimo” affibbiato alle due donne era ispirato ad un antico

Romano (per l'appunto Aulo Agerio, nome fittizio usato nei testi di diritto

romano per illustrare, con esempi concreti, la posizione di un soggetto nelle

diverse questioni giuridiche), in quanto costoro erano solite zappare l'orto di

casa, e comunque nelle più impensate fasi della giornata intente a lavori e

commissioni “agricole”.

Pettegole e furbe come le allegre comari di Windsor, Leonina e Annunziata,

legate tra loro da rapporto di parentela, erano sposate ciascuna a un colono, a

loro volta l'un l'altro legati da vincoli di sangue. Le relazioni procedevano

nel consueto lento scorrere del tempo al paese vecchio, e i menage, tutt'altro

che stimolanti e flamboyant, si lasciavano andare in una sorta di reciproca,

buon grado mal grado accettata, grigia apatia. I figli di ciascuna coppia

avevano pure loro messo su famiglia, al punto giovani che le Aule Agerie

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vennero a trovarsi nei panni delle nonne poco più che quarantenni (nei paesi

usa da sempre ratificare le unioni coniugali in verde età).

Furbe, dicevamo, come furbi sono gli abitanti del “contado”, non si

lasciavano sfuggire occasionali interludi con qualche vicino di bocca buona

e dall'appetito mai sazio, sorta di priapo postdatato coi capelli - quando ne

avesse ancora a coprire la capa - più sale che pepe. Delle scappatelle,

puntualmente, erano - non si sa per quale mai fortuita coincidenza astrale -

all'oscuro i mariti, intenti notte e dì ai lavori di tomaia, ma le “fughe” non

passavano inosservate ai vicini - e sopra tutto alle vicine - inclini a loro volta

ad episodici “commerci” carnali, al godimento di una manciata di minuti, al

touch and go di stampo piccolo-borghese, quando non più “vile”.

“Nunziati', comme stai...?”, “staco ve'”, e intanto non mancava l'occhiolino

foriero di improbabili quanto vissute, sia pure nello spazio di un furtivo dai e

dai, copule in altrettanto improbabili alcove d'accatto.

I giorni passavano, i figli avevano messo giudizio, i nipoti crescevano.

Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e un bel giorno-si fa per dire-

da uno di quegli amplessi di trafugo nacque il frutto del peccato. La gestante,

Leonina, ben oltre i fatidici “anta”, seppe nascondere magistralmente al

marito - valendosi di una dote tutta femminile - l'incidente di percorso, e

quello - ignaro della “cornucopia” ordita ai suoi danni, o forse piace pensarlo

- ci cascò come un babbeo.

Ma natura non facit saltus, e il “caso” volle che la creatura venuta alla luce

assomigliasse come una goccia d'acqua a Ferdinando, il “dritto”.

*** ***

Tutto il paese lo sapeva. Anche Ferdinando, che aveva il fiuto lungo, lo

sospettò, non foss'altro perché un giorno mise per caso a raffronto le foto che

aveva conservato di quando era bambino coi tratti somatici del piccolo

Christian, sbalordendosi della “comunanza” di connotati somatici. Tanto che

quest'ultimo, via via che cresceva, obbedendo ad un oscuro quanto

spiegabile impulso – istinto - di sangue era sempre proclive nei confronti del

padre naturale, che affettuosamente gli veniva da chiamare zio (quantunque

non esistessero vincoli di parentela di sorta, nemmeno alla lontana).

Una sera d'estate Christian, ancora impubere ma abituato ad essere autonomo

negli spostamenti da casa all'aia di qualche vicino, andò proprio dallo “zio”,

e, approfittando di un attimo di distrazione di questo, gli sottrasse le foto che

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Ferdinando aveva posato sul comò ,e che lo ritraevano fanciullo. Trafelato e

trepidante come chi infila le dita nella marmellata e rischia da un momento

all'altro di essere colto in fallo, corse dai genitori, apparecchiati attorno al

desco e in procinto di andare a dormire, e, il mazzetto di foto in mano, se ne

uscì: “guardate, guardate zio Ferdinando come mi somigliava da piccolo!”.

Al che il padre “anagrafico” - che invero in cuor suo aveva da sempre nutrito

il sospetto - sbiancò, e ci mancò poco si dovesse chiamare l'ambulanza per

prestargli soccorso.

10. Il devoto

Tommaso - detto Tomasso - era il primo a recarsi alle funzioni religiose, a

nessuna delle quali si assentava. Il primo ad entrare, seduto al primo banco,

dedito ai riti che precedevano la liturgia, quali accendere le candele,

controllare scrupolosamente che non mancassero l'acqua e il vino che si

sarebbero transustanziati in Corpo e Sangue di Cristo, e che il Santo

Evangelio fosse ben sistemato sull'ambone. Sempre il primo, il sedicente

“intemerato” aveva, però, contrariamente agli insegnamenti del Messia, due

grossi difetti, che poi, in una specie di fanatismo delirante, si legavano l'un

l'altro: un alto concetto di sé, al punto da sentirsi Unto dall'Alto, e la certezza

che la somma delle messe e celebrazioni varie – anche nello stesso giorno -

erano tanti punti da collezionare per l'ascesa in Paradiso. Peccato che non

avesse capito - o faceva finta? - niente dell'essenza della Carità, che, insieme

all'Umiltà ed all’Amore, era il Verbo. Larmoyant quanto superbo nei rari

scambi verbali con la “plebaglia” (che guardava dall'alto verso il basso), nel

suo animo albergava solo la smania di essere il primo a tagliare il traguardo,

secondo la sua visione distorta della “realtà”, che lo avrebbe traghettato nel

Regno dei Cieli, affastellando tante tessere quante erano, per l'appunto, le

sue presenze in chiesa. L'esaltazione in lui si spinse così in là, che reputava

suo appannaggio, castigando mores, criticare non tanto la sostanza, quanto la

forma che connotava l'ambito parrocchiale, tanto da vestire anche i panni

dell'odioso delatore di immaginari inadempimenti - da parte di chi indossava

la pianeta - presso le alte sfere della Curia. Nulla sfuggiva al suo occhio

indagatore da Torquemada. Autoinvestitosi del carisma d'infallibile

fustigatore, esumando sepolti oscurantismi medievali, si appostava nei punti

strategici della navata-quando non invadeva l'abside - per spiare, e poi - se

del caso - riferire.

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Un giorno - come di consueto - si recò, a passo spedito, da casa sua, che

distava un mezzo miglio dalla piazza del borgo, in chiesa ad espletare le

solite mansioni. Abituato com'era a considerare la morte non tanto l'ultimo

atto da recitare in vita, quanto, al pari di ogni buon cristiano- il passaggio

all'eternità, intonava spesso il Cantico delle Creature del Poverello d'Assisi,

addirittura fischiettandolo, e ponendo l'accento su sorella - più rettamente

sora nostra - morte corporale, in rapimento estatico. Giungesse alfine -

pensava tra sé - a liberarci da questo insostenibile giogo, a spezzare le catene

che ci imprigionano in questo corpo destinato a perire.

Colto ad un tratto da un leggero tremore cui non ritenne di dare soverchio

peso, fece per accendere la prima candela ma, come guizzò la flebile luce, si

accasciò al suolo privo di sensi. La funzione religiosa sarebbe incominciata

di lì a un quarto d'ora - lui prediligeva andare sempre in anticipo -, e né in

chiesa né in sagrestia c'erano il prete e nemmeno il chierichetto. C'era solo

una fredda ombra attaccata al suo corpo paralizzato. Sulla bocca semiaperta

si disegnò in un rantolo spezzato una smorfia beffarda: Tommaso cercò

disperatamente aiuto, ma le sue invocazioni non furono raccolte da nessuno,

perché non era ora della Santa Messa. Sorella Morte che egli tanto amava se

l'era venuto a prendere furtiva, accogliendolo tra le sue premurose braccia,

ma lasciandolo sgomento.

Rispose solo il rintocco della campana, cui seguì un Silenzio carico di

interrogativi e di ombre inquietanti.

11. Il bambino che mangiava cioccolata

Mi piace la cioccolata, e non immaginate quanto. La cerco giorno e notte,

mentre voi badate alle vostre cose.

E non soltanto la cioccolata. Amo mangiare, far mio tutto ciò che è opulento,

ghiotto, ricco di ingredienti succulenti. E intanto il mio corpo lievita.

…sto studiando, per cortesia non m’interrompere, continua a guardare la

videocassetta…se vuoi ne metto un’altra, il documentario sulla fauna degli

abissi marini… anch’io non ho tempo di badare a te, sono zeppo di lavoro,

l’agenda trabocca d’impegni, fra poco ho un altro appuntamento,

l’ennesimo appuntamento della giornata…non mi chiedere per favore se è

vero che uno più uno fa due, su, è talmente logico…

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Logico, è facile dirlo a chi ha una logica di questo tipo. E’ stato sempre così,

da quando ero in fasce. Non so se da parte vostra vi sia stato un rifiuto. Sono

stato sempre, è vero, un po’ particolare, ma ricordo la leggerezza e le luci

opalescenti che filtravano dal mondo quando ero una cosa con te, mamma…

Non te ne andare, mia principessa, ho paura che te ne vada un’altra volta, tu

pure alla volta dei tanti impegni che costellano, scandendone i ritmi, la tua

giornata, e mi lasci solo in questo casa che, con me dentro, assomiglia a un

museo dalle occhiaie vuote spaventose….le suppellettili mi guardano

torve…talvolta le mura sembrano volersi chiudere su di me, e

schiacciarmi… Ma, se proprio lo desideri, va’ pure, tanto so arrangiarmi da

solo, so cavarmi d’impaccio come sempre me la sono cavata anche quando i

fantasmi più cattivi e spietati mi braccavano lasciandomi senza respiro. E sai

cosa farò? mi dedicherò al mio hobby preferito, l’arte gastronomica, e,

sfruttando i più moderni ritrovati della tecnologia, farò un dolcetto coi

fiocchi…così colmando, si fa per dire, la mia inguaribile solitudine, il mio

vuoto a perdere. Si, è vero: mangio per non pensare. Ovvero, abbuffandomi,

sazio la mia fame d’amore, colmo quelle voragini spaventose in fondo alle

quali voi non avete mai avuto il coraggio – o forse la viltà - di guardare,

perché così facendo vi sareste persi in meandri innominabili, senza riuscire

più a venirne fuori. Così dovendo per forza rinunciare al vostro insaziabile

egotismo. Ma voi non avete mai capito, o fingete di non capire, che questa è

fame d’amore. Voi continuate a coltivare le vostre ambizioni, cavalcando il

sogno dorato della carriera e dell’essere glamour, e mi avete lasciato da

parte, come un intruso. Adesso sono arrivato a pesare non oso dire quanto.

Che vergogna. Non tanto per me, quanto per voi, notabili laureati.

…lasciami dormire, per favore, la casa di montagna serve per riposare e

rinfrancare le energie consumate…gioca tu se vuoi, io non ne ho voglia…su,

dai retta alla mamma, anch’io sono esausto, a cavallo ci andremo, e la

bicicletta l’ho lasciata in soffitta, la faremo aggiustare prima o poi…devo

inoltre completare un lavoro che mi lancerà nell’Olimpo dei VIP, vacci da

solo a fare la passeggiata, sei o non sei autonomo?…e poi c'è la partita in

TV...

Autonomo: ma da chi, da che cosa? E voi forse lo siete, chiusi nel vostro

insanabile autismo pseudomondano e cool?

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Sognavo la tua mano, papà, che stringesse la mia e mi lanciasse a perdifiato

sui prati verdi dove la linea dell’orizzonte scompare inghiottita

dall’Infinito… il risveglio all’aurora nel nido caldo di respiri… quegli

abbracci che, non so perché, mi avete lesinato, quei baci che non mi avete

dato… e tu, mamma… ti ho incoronato nei miei sogni e nelle fantasie come

la regina delle regine, principessa di un reame incantato, madre e sposa di

questo figlio che ora rappresenta quasi una sconfitta per voi, il fio da pagare

per una colpa che insistete ad esorcizzare, attribuendola a chi di nulla può

essere rimproverato, se non di essere catapultato in questo mondo beffardo e

vile… Sognavo l’amore, e continuo a sognarlo, nelle mie notti e nelle

scorribande che faccio ad occhi aperti, quando vi vedo assopiti e anche

quando mi sgridate, cercando di riportarmi sulla”retta via”… come se

dipendesse da me questa bulimia che mi consuma giorno dopo giorno…poi,

puntuale ogni giovedì, via al corso sull’autostima… ma che pena… uscire

dallo psic e vagare da soli per le strade del corso, alla ricerca di un’anima

con cui scambiare due parole… ma io non ne sono capace, mi vergogno,

credo sempre di non essere all’altezza… perché non parlate mai con

me?...non “percepite” le mie domande mute, i miei lancinanti perché…? Che

cosa ho di diverso?...

Quando vi accorgerete che ormai è troppo tardi…, allora, come scrisse un

grande poeta, se non sbaglio Leopardi, allora sconsolati vi volgerete

indietro…ma sarà tardi.

Non dovrò essere io ad accorgermi, ma voi a dovervi guardare in faccia l’un

l’altro, e stilare il conto del dare e dell’avere. Affari vostri, ma soprattutto

miei.

Intanto, per sopravvivere a questo abisso di solitudine, mangio pane e

cioccolata. E non solo.

P.S.

Credono di tacitare la loro coscienza sommergendomi di messaggini e

tempestandomi di telefonate, così riescono in qualche misura ad essere

“presenti”. Li lascio fare, anche se spesso mi arrabbio, d’altronde non hanno

detto che sono autonomo? E allora a che pro essere importunato ogni

mezz’ora quando loro non ci sono? La verità è che non sanno che ho còlto di

questa vita grama molto più di quanto loro, menti illuminate, s’illudono di

aver capito.

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12. Nella buona e nella cattiva sorte

La solita minestra. Quella riscaldata del pranzo, per non sprecare tempo ai

fornelli. Il rientro stanco e rassegnato a casa alle prime avvisaglie della sera,

quando il mondo decide di rallentare il ritmo farneticante che ne risucchia

l’anima.

“Ciao, com’è andata la giornata?”. Così di solito accogli la sua venuta dopo

un giorno intero che non vi siete visti, ognuno intento alle proprie cose e

occupazioni.

La minestra è sempre lì, sul piatto, che aspetta di essere sorbita, che

qualcuno la trangugi. Non c’è granché altro. Un po’ di verdura, una fettina di

manzo messa a cuocere all’ultimo momento, un frutto di stagione.

“E a te, come sono andate le cose?”. Un gesto muto di assenso, sempre

uguale ogni volta che vi rivedete segue laconico e incolore la domanda.

Dietro le frasi a mezza bocca spesso si nascondono sorde e sordide

recriminazioni che, nella rete dei forzosi infingimenti, ci si rinfaccia

silenziosamente a vicenda, in un gioco votato allo scacco. Fin quando,

raschiato il belletto appiccicoso e stantio messo apposta a coprire le oscene

nudità, da uno sguardo, da una parola sguscia fuori improvvisa la realtà

cruda e desolata, col suo volto spietato e truce.

Ti siedi, mandi giù la minestrina, anche lei, smessi i panni di cuoca

d’accatto, si concede un boccone in compagnia. Ma in compagnia di chi?

Quando non gravano insostenibili i silenzi, parlate, parlate, parlate del più e

del meno, di questo e di quello, ma a chi interessano le vostre parole. Men

che meno a voi. Pure, è un modo come un altro per sentirsi vivi, meglio, non

morti. Anche se l’abulia spirituale da tempo soverchia ogni pensiero e

azione.

Stiamo insieme per vincere la tetra solitudine, e farci l’un l’altra un po’ di

compagnia, che riscaldi le lunghe interminabili ore, passate in attesa di un

improbabile evento che muti rotta alla consueta anonima direzione di

un’esistenza scialba e senza vita.

La nostra storia da tempo è finita, forse non è mai incominciata, d’altronde

spesso ci si accomoda per inerzia, perché non si riesce a trovare alternativa

migliore.

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Storie di ordinaria follia, o “normale” quotidianità. Ma dietro la porta torvi

s’acquattano i fantasmi, che non vivono solo nella fantasia. La simulazione

ha un prezzo, che si paga giorno dopo giorno.

Domani un altro giorno. Uscirete, lei insieme alle amiche, tu verso

un’incerta nebulosa meta, a far chiacchiere inutili e futili per ingannare

l’attesa e ammazzare il tempo. Alla sera vi ritroverete, poi, come sempre, il

piatto di minestra messo lì a riscaldare, la luce fioca di un’altra sera senza

palpiti né promesse, lo zapping alla TV per trincerarsi dietro di sé ed evitare

di cadere nei soliti logori banali luoghi comuni, negli argomenti triti e

ritriti…hai aggiustato la macchina?... il forno ha ripreso a funzionare?… ci

pensi tu a ramazzare il cortile della casa di campagna, e ad innaffiare i

pomodori?... e si aspetta l’ennesimo, sfiancante, grigio domani.

Quell’approdo in verità da sempre corteggiato, ma che, nella studiata

convinzione che in fondo si trattava solo di un irraggiungibile sogno, avete

nella stessa misura da sempre allontanato dal vostro spazio.

Ma tutto sommato, ça va bien. Molto più facile pensarla e vivere così, non

mettersi in gioco, lasciare che i sentimenti ti “attraversino”, e abitino le

storie degli altri.

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Parte seconda

LA POESIA

1. Il Tempo

Durante una conversazione del più e del meno, vien fatto a un certo punto di

constatare “sai, le nuove generazioni non sono più come una volta, quando

noi eravamo ragazzi, e si coltivava l’illusione del vivere...”. Ma, a un certo

punto, come in un flash, s’illumina il backstage della tua esistenza, e ti

accorgi con dolente rammarico che l’interlocutore che hai di fronte è più

giovane di te di cinque sei-generazioni.

Così fai il conto del tempo che, inesorabile, passa, e tutto travolge. E ti

ritrovi a noverare gli anni che, impietosi, sciamano alle tue spalle.

2. Gilda

Donna tenace e volitiva, dal tratto unico e impareggiabile, Gilda veniva fuori

da un matrimonio naufragato suo malgrado per via delle scelleratezze e

leggerezze infantili di quello che fino a pochi mesi prima era stato il suo

compagno di vita. Basta - si disse - e tenne fede alla sua promessa. Con al

fianco quello che era stato il miglior amico dello sciagurato marito, a sua

volta reduce da analoga ventura, Danny - non si seppe mai in verità quale

relazione legasse quest'ultimo a Gilda, essendo i due inseparabili nelle

decisioni e negli spostamenti - mise su un'attività di ristorazione, di cui lei

era lo chef, e lui il valente direttore d'orchestra. Con l’eleganza ed una classe

innata, mai esibita ma che trapelava da ogni gesto e nel modo di proporsi,

cucinava piatti ricercati e squisiti: l'arte culinaria non aveva segreti per lei,

era anche molto fantasiosa nelle diverse combinazioni e negli abbinamenti

delle pietanze (il locale era segnalato come uno dei migliori nelle guide

locali e in ambito nazionale). Al “Corsiero” sorse anche un club d'arte, dove,

tra una portata e un'altra, sempre di firma pregevole, venivano organizzati

eventi per pittori in erba, poeti desiderosi di spargere il proprio verbo, e

artisti più o meno noti, che amavano ammannire vernissage nei locali messi

a disposizione. In poco tempo, oltre che meta di avventori di palato fine, la

location divenne punto di ritrovo di apprendisti dell'arte nelle sue più varie

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rifrazioni, e ombelico degli happening di un ambito che raggruppava una

larga fetta del territorio del piceno.

Ma l'arte e la cucina non potevano cancellare mete rimpiante, carezze negate,

incontri furtivi e prodighi di promesse, scioltisi come neve al sole nel

disincanto di una stagione prossima a sfiorire.

E così, man mano che il tempo inesorabile avanzava, allungavano il passo

anche le ubbie, la nostalgia dei mancati indefinibili traguardi, il tedio anche

per quell'innocente bovarismo che animava il padiglione degli innamorati

dell'arte.

Gilda invecchiava, e con lei si andava spegnendo la voglia di fare, creare,

proporre - anche se, per il vero, lei non aveva mai voluto mettersi al centro

dell'attenzione, schiva com'era di natura: il che non significa non fosse

socievole, ché, anzi, s’intratteneva volentieri in amabile conversazione con

chi ne manifestasse il gusto e il piacere, con lo stile che da sempre la

connotava.

Nei suoi stanchi pensieri era subentrato un viepiù incalzante cupio dissolvi,

l'indocile desiderium di lasciare le stanze di questo mondo, questa vita che

ormai al suo occhio stanco appariva come una teoria interminabile di

marionette che calcavano un palco vociante, ma desolatamente vuoto di

palpiti e ardori. A nulla valse il pennello perito di Danny, che volle ritrarla da

seduta, in atteggiamento assorto, e che, pur volendo infondere linfa nuova

nelle essiccate vene della sua “compagna”, sortì per ironia della sorte

l'effetto inverso, cogliendo nell'espressione i segni di quel decadimento

fisico e morale che da tempo avevano lasciato le loro impronte sui tratti del

volto di lei.

Gilda morì all'età di sessantatré anni di “lenta consunzione”, si lasciò

spegnere come candela. Ma prima di togliere il disturbo, volle che il fedele

sodale immortalasse, non tanto i segreti delle sue prelibatezze culinarie,

quanto gli arcana di quella che un tempo fu un'anima assetata d'amore,

attraverso pennellate leggere come l'aria, su uno sfondo alabastrino,

increspato da una lieve brezza che veniva dai monti.

3. La fanciulla vestita di fiori

Sofia dimorava nella Landa dei Fiori. Alla plaga era stato dato questo nome,

perché la fioritura vi durava tutto l’anno. Sì che allo sfiorire di talune specie

si alternava, in un magico circolare evento, lo sbocciare di altre varietà.

Sovente – specie in primavera - il dischiudersi delle corolle obbediva a una

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legge di sincronicità: poteva così capitare di ammirare le teorie di mandorli

che correvano sino al declivio, e le file geometriche dei meli che, coi loro

petali, punteggiavano di colori delicati, al pari dei ciclamini e delle violette,

occhieggianti tra l’erba, i prati e il cielo.

Anche d’inverno, specie nelle numinose giornate d’ottobre, timide rose si

affacciavano gentili dai davanzali delle villette a schiera o delle case dai tetti

d’ardesia, esibendo pudiche i petali di là della staccionata, o sulle altane, o

ancora tra le sbarre di ringhiere poste a confine tra le dimore.

Nelle giornate assolate di marzo si potevano cogliere anche le delicate

primule, del soffuso colore dell’incarnato d’un infante.

Sofia si sentiva parte di quel mondo, si confondeva col paesaggio, conosceva

tutte le famiglie di vegetali, di cui ciascun esemplare era conservato

amorevolmente e con grande cura in un erbario: ne aveva appreso anche i

nomi latini.

Sulla veranda, con l’aiuto della mamma, la fanciulla aveva sistemato dei

pensili sgargianti di varietà floreali le più diverse, di cui, vezzosa,

s’inghirlandava sovente le chiome. La sua piccola mano, intenta al bisogno a

ristorare i fiori con l’annaffiatoio, pareva avesse il magico potere di infonder

loro linfa nuova, una vita che non si sarebbe mai spenta. Quando all’opera

era intento qualcun altro – per solito la mamma -, i fiori non conoscevano

infatti quella stagione di splendori e riflessi quando dorati, quando ambrati in

grazia del crepuscolo che tenue li avvolgeva di ombre in un’elegiaca, trepida

aspettazione.

Sofia aveva insomma quello che usa dire il “pollice verde”, ma quando si

fermava davanti ai cespi di lavanda o ai mazzi di violacciocche pareva

ristare incantata come sulla soglia di un reame, quasi timorosa, in un silenzio

sacrale, e le creature che lei amava sembravano dal canto loro recepire tali

vibrazioni, porsi in umile ascolto della sua anima.

Accadde un giorno che la bambina, a un passo dal diventare adolescente, si

ammalò. Sulle prime ciò non suscitò allarme, in quanto tutto lasciava

immaginare si trattasse di una semplice febbre virale (il cosiddetto malanno

di stagione), dagli esiti di guarigione non lontani a venire. Ma i giorni

passavano in un’atonia e fissità irreali, e Sofia, visibilmente smunta e

debilitata, colta da una strana e preoccupante astenia, non aveva più la forza

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di alzarsi dal letto. Era come se la vitalità avesse abbandonato il suo corpo

ancora acerbo, ma pronto a sbocciare da un momento all’altro in fiore.

Furono così chiamati a consulto vari esperti in campo medico, sin quando un

luminare venuto dal nord a “schiarire” il “male oscuro” non stilò la diagnosi

definitiva: si trattava – e i segni inequivocabili del morbo erano le varie

ecchimosi comparse via via più numerose sulla pelle della fanciulla - di

leucemia, e in una forma alquanto severa.

La mamma, costernata – il papà era morto quando Sofia era ancora in fasce -

e ancora incredula, si sforzò di non lasciar trapelare nulla agli occhi della

amata figlia. Solo si limitò a dirle che il decorso della malattia sarebbe stato

lungo, e ogni giorno, per farle compagnia, le portava mazzi di fiori delle più

“fantasiose” varietà, abbelliti e resi quasi “selvaggi” da fili d’erba e piccole

foglie, che affidava alla di lei cura. La fanciulla si affaccendava allora perché

le sue creature predilette non deperissero, e anzi acquistassero viepiù vigore

dal nutrimento che dava loro secondo i ritmi della natura che ella conosceva

a menadito, scanditi dai battiti del suo cuore.

*** ***

Passata l’estate con le sue effimere promesse, una grigia mattina d’autunno

la morte sigillò le labbra di Sofia. Dopo una composta cerimonia d’addio, la

terra accolse pietosa, vestito di una tunica bianca trapunta di petali, quel

corpo ancora in boccio, un tempo sfiorato da tèpidi zefiri e percorso da

trepidi ardori. La mamma, gli occhi velati dal pianto, e tutti i presenti a

quella mesta cerimonia deposero ciascuno un fiore sulla piccola bara

d’avorio. Intorno alla lapide, che custodiva la foto di lei sorridente, furono

posti a semicerchio dei sassi di torrente, e a lato fiori di ogni famiglia

avrebbero di lì ai giorni a venire reso più lieve il trapasso: viole,

nontiscordardimé, colchici, azalee, genziane…

Come per miracolo, i fiori non appassivano mai, invulnerabili alle ingiurie

del tempo, intatti alla sferza degli elementi: sentivano ancora la carezza di

Sofia, vicino a lei si sentivano al sicuro.

4. La felicità

Felicità è rubare l’attimo al tempo. Quell’istante che, se non lo cogli, non

tornerà mai più.

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Essa è tutta nell’attesa, perché, nel momento in cui l’oggetto del desiderio è

còlto, si dissolve con quello.

Felicità è una promessa, il passaggio da un prima a un poi, solo questo.

5. Angelo Decaduto (a Stefano)

Non ti conoscevo prima che la sorte imprimesse il suo tremendo definitivo

sigillo sulla tua pelle e sulla tua anima, ma da quei tratti marcati e

sapientemente intagliati, che disegnavano labbra carnose e ciglia folte su

occhi trasparenti come il cielo intuivo una bellezza selvaggia, di stampo

mediterraneo, solare, vitale. Quasi una ferocia, subitaneamente stemperata in

uno sguardo languido.

Carnagione bruna, capelli scarmigliati e incedere corsaro, di statura e

presenza imponenti, troneggiavi dominando il mondo e imponendo il tuo

fascino, cui le tante prede in verità quasi mai riuscivano a resistere.

Col tempo, complice una congiuntura maledetta, cominciasti però a scendere

una china che, una volta battuta, è arduo abbandonare, inebriato dai paradisi

artificiali che, come ti regalano momenti di estasi, ti precipitano però

violentemente nell’ineluttabile rovina.

Angelo decaduto, più i giorni passavano più eri costretto a chiedere alla vita,

a quella vita che sempre ti era stata benevola e dispensatrice di doni.

Cambiava così radicalmente il tuo modo d’essere, tanto che dovevi trovare

rifugio nella vecchia casa, con accanto una mamma impagabile, che ti aveva

promesso fedeltà e dedizione per tutti i giorni a venire. Quella mamma che,

fino all’ultimo, non ti abbandonò mai.

Anche le facoltà intellettive, per via di quel mostro che divora la mente e i

sensi andavano viepiù scemando, al punto da valerti la “nomina” di matto

del villaggio.

Come un automa, cui si dà la carica, prendevi allora ad andare “a comando”

in su e in giù per la piazza del paese, misurando le pietre dell’intero

quadrilatero, farfugliando frasi quasi sempre sconnesse e ridendo

impietosamente di te. O forse degli altri, marionette che si aggirano

stralunate e straniate in quest’orizzonte senza luce e senso.

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Dall’alto di una logica interdetta ai più potevi così vedere il mondo con gli

occhi incantati e puri di un bambino, scrutarne a fondo i penetrali, viaggiare

tra le pieghe dell’anima come un tempo viaggiavi in volo verso mete

lontane…

Nessuno avrebbe conosciuto mai i tuoi pensieri, la sintassi e le regole che li

disciplinavano, né se la tua “follia” fosse in realtà saggezza, sguardo

ippocratico sulle cose e sulla miseria di un mondo che dà in ricca messe,

salvo poi buttarti a mare e berti anche il cervello.

Ma da oggi nessuno avrà più il matto del villaggio, perché è calato il sipario

sulla tua fragile esistenza, divorata da un male che non perdona.

*** ***

Te ne sei andato senza far rumore, lasciando un’eco smorzata delle tue risa e

delle tue irrisioni, come un’ombra che si aggira ancora furtiva tra le mura del

paese.

Al tuo capezzale immagino solo pochi affetti, affacciati sulla soglia sacrale

dell’ultimo doloroso passaggio.

Ma, sull’orlo dell’abisso, la partita con la morte, di questo sono sicuro, l’hai

vinta tu, facendoti beffe fino all’ultimo del suo volto truce, e burlandoti

ancora una volta di quella tragicomica parodia dell’eterno che è la vita. Hai

reso così impotente la livida sogghignante falce ridendole in faccia. E, al

rintocco dell’ora, hai rivolto l’ultimo supplichevole e innamorato sguardo

alla tua mamma, le mani strette nelle sue in un abbraccio che va oltre il

tempo.

6. Grendel

La strada saliva fino alla sterrata. Dal paesaggio vago d'ombre spirava un

senso d'impalpabile inquietudine. Le rocce e i contrafforti di granito

stringevano la casa come in una morsa. Incominciava a sbiadire il cielo,

esitante se lasciare il ruolo da primo attore alla notte. Poi le tenebre vinsero

le ultime titubanze.

La casa echeggiava della nenia del carillon al modo di una filastrocca.

I bambini erano seduti quieti davanti al camino, che sprizzava scintille e

lingueggiava di rosso rubino.

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La nonna, intenta ad armeggiare col fuoco, li accarezzava di quando in

quando.

Il suo viso, segnato da profonde rughe, era come scavato nel granito, e

adorno di due gemme splendenti color del mare, che serbavano la memoria

di un dolente, incompiuto passato, e insieme la terragna speranza della gente

di tempra forte quale ella era. I suoi gesti rituali, la figura minuta ma

solenne, il modo di parlare, tutto in lei spirava gravità e decoro.

Fuori la pioggia batteva con ritmo diseguale sugli scuri socchiusi,

tambureggiando sui vetri opachi. La sua intensità andava via via

intensificandosi al modo di un crescendo d'orchestra, e nel grembo della

notte covavano i fantasmi. Acquattati dietro l'uscio, gli spettri prendevano

furtivamente a danzare sui muri scrostati, per poi svanire con la stessa

rapidità con cui erano comparsi.

La vecchia incominciò allora a narrare: c'era una volta una radura frondosa

popolata di pini e larici, che confinava con un palmizio lussureggiante di

verde e gremito di canti di uccelli delle specie e colori più vari..., quando

all'improvviso un tuono preceduto dalla folgore squarciò il silenzio che

regnava indisturbato davanti alla “rola”.

I bambini rimasero senza fiato, e si accucciarono sotto le gonne della nonna,

tramortiti.

Era tornato il demone della foresta...

*** ***

Da quella notte la vita a Col Fiorito - al luogo era stato dato questo nome per

le smaglianti fioriture di primavera, quando dai teneri germogli spuntavano

timide foglioline e poi iridescenti corolle di fiori, e i prati diventavano un

tappeto morbido trapunto di mille colori, svarianti dal rosa pastello al giallo

acceso - era cambiata. La bambina, Grendel, si era infatti chiusa in un

impenetrabile - ostinato? - silenzio, e su di lei vegliava, quando la nonna

doveva assentarsi per sbrigare le faccende di casa, il fratellino dal nome dei

luoghi che ospitavano i folletti e i lupi, Silvan. Pareva che un vento gelido

avesse spazzato via i luminosi incanti della radure, i confidenti conversari, la

commovente quanto ferrea complicità tra chi viveva nella casa. Dobbiamo

infatti precisare che, all'indomani della tragica scomparsa a causa di un

incidente fatale dei genitori, i bambini erano stati affidati alle cure amorevoli

della nonna, Heidi. Costei non faceva mancare loro nulla, li accudiva da

mane a sera, vigilava costante sui loro passi. La scuola non era vicina, e per

andarci Grendel e Silvan prendevano il postale che ogni ora faceva scalo

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all'incrocio del piccolo borgo, da dove si biforcavano altre stradette per

frazioni sconosciute al pari del loro villaggio.

Dallo schianto di bufera, dicevamo, Grendel sembrava aver perso la facoltà

di comunicare a parole. Mutismo elettivo, così lo definivano sulle prime i

medici da cui era stata portata a consulto, con non poche difficoltà, dalla

nonna. Avevano preso il treno di buon'ora, a Silvan era stato preparato tutto

dalla impagabile Heidi per la merenda e il pranzo.

Il viaggio era stato segnato dal silenzio, una specie di coltre di bambagia

pareva essersi posata come orme di pettirosso su ogni labile tentativo di

entrare in comunicazione. Non mancava certo l'intesa tra nonna e nipote, ma

quella magica empatia pareva stemperarsi sotto la volta plumbea del cielo

oscurato di nembi minacciosi.

*** ***

Il responso era stato lapidario e confermava la prima diagnosi: mutismo

elettivo, una sindrome che poteva colpire un soggetto a causa di un trauma

improvviso, ovvero restare incubato per mesi, anche per anni, fino a quando

una causa scatenante - in cui sboccava il fiume rapinoso del dolore - non lo

faceva erompere sordo e ostinato. Non si conoscevano ancora le terapie

adeguate al caso: l'unica pur flebile certezza era che con determinate persone

- e animali particolarmente sensibili - chi ne era colpito poteva, con discrete

possibilità di successo, aprirsi in armonioso conversare.

La nonna, di ritorno sulla strada di casa, seduta sull'ultimo sedile del postale,

era certa, sapeva in cuor suo che i sogni ricamati sul cuscino e il confidente

immaginare della sua piccola l'avrebbero riportata pian piano a quello che

era prima, alla gioiosa vita sui prati punteggiati di fiori, sotto un cielo acceso

di stelle.

Un giorno di primavera (la notte avanti la bambina era stata visitata in sogno

da visioni celestiali, ma incrinate da una sorta di presentimento, oscuro e

inappellabile) allietato dai gorgheggi degli uccelli e dal ritorno garrulo e

festoso delle rondini che arabescavano l'azzurro Grendel e Silvan, di ritorno

dalla scuola, dopo aver consumato il frugale pasto ed aver fatto i compiti,

andarono a giocare in riva al fiume che, come un serpente sonnacchioso,

snodava le sue morbide anse riverberando i capricciosi umori del cielo. Il

murmure delle acque placide e flessuose era il sottofondo ideale per questa

muta sinfonia. I fratellini avevano da sempre un loro codice segreto, e

intuivano d'istinto l'uno le domande inespresse dell'altro. Anche Silvan, per

non erigere tra sé e l'amata sorellina una barriera di diversità, al vociare gaio

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e festoso d'un tempo aveva preferito il silenzio, un silenzio complice, carico

di mille sottintesi. Il dialogo, segnato da gesti e sguardi, obbediva alle

misteriose leggi di natura, seguiva il frullo del passero, inseguiva la timorosa

lucertola. Pareva che nessun dio avesse mai potuto separarli.

A un certo punto, accadde che Silvan, attratto più che altro da infantile

curiosità, volle spingersi fin dove il fiume, cui facevano da argine poderosi

massi, s'ingorgava in una depressione del terreno piuttosto scoscesa, così da

formare una pozza di notevole profondità. Il clima provvido e l'aria frizzante

d'aprile lo spinsero a tentare i segreti di quello che i due avevano da sempre

chiamato il reame incantato. Si tolse quindi le scarpe e, arrotolati i calzoni

all'altezza delle ginocchia, incominciò ad esplorare i sacri penetrali del

tempio, con occhi sgranati per la meraviglia Quali tesori - orrori? -

nascondeva il cupo fondo? Quali forme di vita lo popolavano? Forse il

demone dei boschi aveva dimora laggiù, dove lo sguardo non poteva

arrivare... Mentre era immerso nelle sue vaghe fantasticherie, il terreno si

fece molle e arrendevole ai suoi piedi, che scivolarono inesorabilmente nel

grembo lattescente, fin quando la figura del fanciullo non scomparve

inghiottita dall'antro liquido.

Come in un anfiteatro surreale, sfiorato dalle brezze vespertine, il piccolo

invaso era ora l'avvolgente grembo nel quale riposavano per sempre le

spoglie del piccolo Silvan il cui sembiante, sempre più lontano, era confuso

al viluppo di foglie e pietrisco che mulinavano irrequieti. Sperimentata

l'inutilità di ogni tentativo di salvarlo da quell'abbraccio fatale, come

obbedendo a una forza cieca Grendel aprì il quaderno nel quale era solita

trascrivere i versi che più l'avevano affascinata. Quelli che suggellavano il

triste addio erano suggeriti dal poeta che più di ogni altro amava, Silvio

Raffo:

“Anche se qualche inganno ti sedusse/di quando in quando, tu non

distogliesti/lo sguardo mai dalle tue stelle fisse:/ a ciò non fosti il solo, altri

patimmo/gli stessi inganni, e tutto il suo martirio-/nella sabbia la pena

seppellimmo/per attutire l'urla del delirio/accecati da un sole

mercenario/abbiamo trascinato questa vita/di giorno in giorno, al vaglio

della pena/a denti stretti. Meglio se desista/il tempo dal suo futile

cimento,/meglio la sosta ai limiti d'Altrove/dove la luce sfumi nel

riverbero/qui la luce è miraggio liquescente,/fata morgana, alone

d'ametista/l'occhio velato è pago di quel niente/un ragnatelo maschera la

vista/così per l'acqua: di secreti umori/s'alimenta una sotterranea linfa/che

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ci conforta dell'eterno ardore-/dagli oscuri meati stilla un pianto/sommesso,

come lacrime di ninfa-/che è la sorgente d'ogni nostro canto”.

Terminata la muta lettura nella solennità di una liturgia, pure il paesaggio

trattenne il fiato, e un silenzio imperturbabile si posò lieve sulle cose: anche

la querula rana tacque.

In quel preciso istante la sorellina, impotente davanti al consumarsi della

tragedia, sussurrò per la prima -ed ultima- volta da quando era entrata nel

Mondo del Silenzio queste parole: “addio, mio amato Silvan. Fra non molto

ci rincontreremo dove gli angeli ti stanno conducendo per mano, dove il

Silenzio è eterna Musica, e le lacrime lasciano il posto al raggiante, divino

sorriso”.

Poi se ne andò, incredula ma con una luce segreta, per i prati fioriti,

brulicanti di occhi.

7. Il viso segnato (alla sposa)

Il viso segnato, le membra stanche, pure sei sempre nuova. Come sempre.

Lo stile e l'eleganza non passano con gli anni, e il fascino dolente dei tuoi

occhi dice l'incanto e la segreta bellezza della tua speranza. Disperata

speranza, un ossimoro che mi piace usare pensando a te, alle tue recondite

domande, ai tuoi lancinanti tortuosi perché.

Interrogativi aspri, che non scalfiscono, e anzi aumentano il tuo charme,

rendendolo più maturo e consapevole.

La tua figura altera e statuaria si spezza al giogo dei giorni, ma non si piega

alla fatica del vivere. C'è un Angelo a vegliare sui tuoi malcerti sicuri passi

notte e dì, un angelo che effonde soave il suo profumo nelle divaganti brume

d'inizio gennaio.

Tu lo dici il lacerante dono di essere, ti maceri nel dubbio, elabori le tappe

della tua esistenza, pure resisti, indomita, invincibile.

Io sarò accanto a te, lungo i tragitti di un insonne viatico, fino a quando il

respiro si farà fievole, e si spegnerà con l'ultimo, stupito sguardo.

8. Il vecchio giradischi

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Lo sfrigolare del vecchio vinile sul giradischi, quella voce che non smette di

graffiare l’anima, artigliando ricordi sepolti sotto la polvere grigia del tempo.

“Tu mi fai giraaar, tu mi fai giraaar….”

Che tempi. Quando ci si perdeva ad ascoltare in religioso silenzio quello che

puntine aduse a solchi consunti rimandavano come un’eco di nostalgie

inguaribili e d’immagini scampate all’usura degli anni.

Il vecchio giradischi, quello che leggeva anche i 78 giri. Sonnecchia burbero

in soffitta, buttato là alla rinfusa insieme a mille altre cianfrusaglie,

dissacrato da una falsa ma ineluttabile necessaria condiscendenza, che

talvolta assume i tratti vagheggiati del sogno, tal altra il sembiante spettrale

delle cose che non ci sono più.

Che tempi.

Nell’epoca della comunicazione interplanetaria multimediale off-limits, del

metissage e cross-over culturale e del villaggio globale, degli sms e dei blog

pieni di vuoto, gloria in excelsis al nuovo idolo, il computer con tutti i suoi

sofisticati algoritmi, le metamorfosi e alchimie digitali!

Allegoria, metafora del reale? Che follia.

La “realtà” è diventata tutta un’interfaccia, pura metafisica astrazione, di là

della quale c’è il nulla.

Stesso destino è toccato alla musica.

La musica è divenuta un “file” compresso (incredibile auditu!), fungibile a

comando, “dato” che obbedisce al sistema 0101…, in gergo Mp3.

Algida impersonale senz’anima, non la “tocchi”, non la “senti” più.

E non mi si venga a dire che il digitale ha officiato il requiem dell’analogico,

sbaragliando il campo alle trasudate configgenti emozioni…

In un anonimo e anodino CD (o DVD, ovvero dentro un file archiviato nella

memoria del computer) c’entra tanta musica, ma sono dati, assemblati con

logica matematica, coazione a ripetere, alla stessa stregua delle notizie e

informazioni non-stop che viaggiano alla velocità di milioni di bytes etc etc.

Alienazione dell’uomo del terzo millennio, restituito imbelle a sé ed al

proprio straniamento.

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Cara intelligenza artificiale, sei stata tu ad uccidere il fascino e la poesia

delle cose.

*** ***

Il disco è rotto, nella soffitta brulicante di fantasmi e fitta di voci è

schiacciato da una congerie di masserizie e suppellettili varie ammannite al

passato, restituite alla loro dolorosa inanità.

Quando…

… andavi al negozio di via del Corso a comprare l’ultimo Lp dei Genesis o il

live dei Deep Purple (o Venus degli Shocking Blue!...), già annunciati

“clamorosamente” da Lelio Luttazzi o ancor prima da Supersonic,

trasmissione antesignana dei moderni (ma piatti) format via etere, e

trasognato ti “fiondavi” a casa, nel tuo cantuccio preferito – e guai a chi

osava profanare il tempio!...- e, liturgo di un sortilegio, dimentico di tutto il

resto propiziavi il rito: in quel silenzio carico di magia - dissigillavi piano

piano la copertina del cellophan che la fasciava stretta come il vestito una

donna dalle curve generose…-, in quello sfiorarla, e infine toccarla, e

annusarla nuda e “vera” c’era un incanto, abitava lo stupore.

Dall’involucro sfilavi allora la custodia che sapeva di nuovo, ne tiravi fuori il

disco, rimirandolo nei suoi solchi ancora intonsi e nei suoi vertiginosi

vorticosi giri, per riporlo infine, dopo accurata pulitura, sul piatto.

Trasumanante oblio, mistero inattingibile….ma palpabile, con un suo

profumo, un colore, un’identità.

Consumato da ascolti e ascolti, accadeva che, col tempo il long playing a

tratti crepitasse: “Quand il me prend dans ses bras/Qu'il me parle tout bas/Je

vois la vie en rose…”; “I see trees of green, red roses too/I see them bloom

for me and you/And I think to myself, what a wonderful world…”.

Ma forse proprio lì stava l’incanto.

9. Vai, Girardengo!…(in memoria di Dario)

“sit tibi terra levis”

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La salita di tornanti incorniciata di vette impervie e frastagliate è dura, ma

ce la farò.

Il sole scivola rasente i boschi sulle pareti d’alabastro di questa landa

silenziosa e piena di fascino, devo dare di gambe perché arduo è il cimento,

temprare i muscoli e pigiare sui pedali per la” tirata” finale...

Il gioco della vita. Tra impegni rispettati alla lettera, scanditi da ritmi e stile

da vero professionista, e il lato leggero delle cose, per fuggire quell’ombra

che ti sta appiccicata addosso, e da cui ognuno di noi vorrebbe staccarsi.

Quel “disimpegno” diventa modo d’essere, fino a sostituire il personaggio

“vero”, quello che la società ama etichettare, per comodità ma spesso per

accidia intellettuale. Anche se, sovente, d’intellettuale trovi ben poco.

Insomma, dottore sì, ma dentro la phisique du rôle dello sportivo. Oltre il

dilettantismo da quattro soldi che oggi va tanto di moda, e spesso si risolve

in quel patetico belletto di cui ci si spalma la faccia per apparire, sia pure un

attimo soltanto, e salire su un proscenio che, alla fine, si scopre

desolatamente vuoto.

Vai Girardengo, vai grande campione!…, mi accompagnano nel ricordo di

Dario le note easy di un motivo giovanile.

Ma anche Girardengo, purtroppo, deve prima o poi gettare la spugna.

Ananke, ammonivano i Greci, è in agguato, nulla può contro il Fato, che

governa il mondo. E il nostro breve transito su questa terra.

La bicicletta, tirata a lucido, vezzeggiata, blandita, un altro amore, un amore

diverso, che non tutti capivano. Connubio fatale, simbiosi mistica di terra e

cielo, ardimentose sfide e metafisici orizzonti. La voglia di riempirsi i

polmoni di quell’aria che, nelle plaghe incontaminate dove avevi messo

radici, ancora spira benefica, dopo il rigoroso impegno di dare salute fin

dove era consentito ai tuoi affezionati pazienti.

Oggi usa dire “staccare la spina”: mai espressione è parsa più beffardamente

appropriata per quello che da tempo ti teneva in serbo la sorte.

La giostra assurda della vita incomincia in un lontano giorno da un

trasalimento di sensi e d’anima, per poi spezzarsi bruscamente al capolinea

decretato ab aeterno.

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Non possiamo che tributare silenzio e rispetto, non ci è dato strappare il velo,

la tela intessuta dalle Parche.

Il mio silenzio, allora, accompagni la tua dolorosa muta dipartita dalle scene

di questo mondo che, visto da quaggiù, “di tanto inganna i figli suoi” nel

ricordo delle serate passate a celiare tra un vecchio disco crepitante dei

Genesis e un innocente bicchierino, una corsa tra il verde dei prati e le

speculazioni filosofiche sulle domande capitali dell’esistenza. Sempre con la

nota pittoresca e picaresca di una battuta irriverente, bersaglio il malcapitato

di turno individuato con salace corale connivenza, spia di un ingegno ferace

e di uno humour di cui sento grondare ancora l’aria.

Perché l’aria porta scritto in sé per sempre il tuo, il nostro nome, è ánemos,

spirito, vento leggero

10. Il sapore delle cose

Ci sono sapori, odori, colori, volti che quando ti hanno toccato le corde del

cuore non li scordi.

La veranda fresca e accogliente cui mette l’ampio viale adombrato di verde e

di richiami, il volo leggero delle rondini che si levano fino all’azzurro per

poi planare e rubare una goccia allo specchio d’acqua incastonato come uno

zaffiro nel cuore palpitante della natura.

C’è gioia e sentire in quest’agape fraterna all’ombra di più consolanti verità.

C’è l’onestà del dire, un più soffuso calore che s’irradia dagli sguardi,

discreti e pudichi. C’è la semplicità vergine e incontaminata delle cose, le

cose buone e genuine della campagna, erbe spezie e frutti di stagione, il pane

fatto in casa fragrante di promesse, una brezza sottile che sussurra echi

lontani, voci che d’incanto si rianimano…

Il cerchio degli affetti è una dolce morsa che ti prende, e ti prende per mano

al punto che non te ne vorresti mai partire, al riparo dal frastuono e dalle

doppiezze che si giocano fuori, subdole e letali.

Nella quiete dell’ora, godere insieme della compagnia e dividere, in amabile

condivisione, i frutti della terra è miracolo, e anche le cose lo sentono, nel

loro discreto origliare e nel torpore in agguato, il demone meridiano che

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viene a rubarne l’anima. Fin quando l’angelo della sera non restituisce quella

pace e trasparenza che si dispiegano placide nelle iridescenze del tramonto.

La terra e chi la abita è custode eterna di valori e verità che ne fanno un

sacrario, interdetto a chi non sa guardare dentro e al di là delle cose, carpirne

l’essenza.

La chiave per entrare in questo tempio di primizie e gourmandises dello

spirito è dono di pochi eletti.

*** ***

Mi hai accolto in questo giardino segreto, facendomene gustare i doni

preziosi, il sangue della terra nutrito da mani esperte e innamorate della loro

opera.

Opera prima, il cui palcoscenico è questo fazzoletto di mondo, gremito di

vita e d’incanti, di saggezza e intuizioni, di purezza e umiltà.

Ricco di cose buone e di talenti, di messaggi che il vento trasporta sulle sue

ali, riverberandone la luce.

Quest’armonia, lo sposalizio tra uomo e natura si suggellano nei gesti sacrali

e nei riti che scandiscono i ritmi della terra, che dicono la sapienza del buon

vivere, religione del focolare. E si traducono nella dedizione, nella dolcezza

e nella meraviglia di essere padre, e in questo essere meraviglioso non solo

con i figli, ma anche con chi ti guarda con gli occhi straripanti di cielo e di

voli, e squaderna una realtà altra, che piano piano scopri affascinante, tenera,

meravigliosa anch’essa. Fino a indovinarvi le coordinate dell’infinito.

Scendono le ombre, e planano sulle foglie, sfiorando le cose.

Resta nell’aria, in un filo d’erba, nei trasalimenti della notte, e nello stupore

delle timide rugiade mattutine l’eco di un canto, che gelosi carezziamo e

stringiamo a noi, teneramente, per non sciuparne la bellezza.

11. Diario di un medico di campagna

Seduto davanti al solito bar, guardi la gente che passa e intanto accendi

l’ennesima sigaretta, a scandire un’esistenza che, vista dall’esterno, si

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sarebbe portati a giudicare monotona e piatta, “inadeguata” all’abito che

indossi. Senza palpiti e voli a tutto cielo.

Ogni mattina, alla stessa ora, ti alzi, fai la toletta, ti vesti in maniera frugale,

e vai al lavoro.

Un ambulatorio d’otorino che ha visto avvicendarsi tanti, forse troppi

destini.

Di talento sin da giovane età, luminare nel tuo campo, hai un intuito

bruciante: ci azzecchi che è una meraviglia, scavando in profondità.

Forte di caratura professionale, potresti solo esibendo questo biglietto

figurare nella hit parade delle persone che contano. Ma a te non potrebbe

importartene di meno.

Finito il turno di lavoro, messe a punto le ultime cose e sbrigate le

incombenze di rito, con andatura dinoccolata e “adeguata” alla stazza ti

dirigi senza indugio verso il solito bar, che fuori puzza di fumo e sforna

chiacchiere oziose e banali, che sanno di aria fritta. Un bicchiere di rosso

generoso bevuto in compagnia, qualche volta si scappa il tempo anche per un

tressette col morto.

Ma pure questa è vita. Specie per uno come te che non ha voluto metter su

famiglia, preferendo al gioco roboante e rutilante della mondanità il riparo

del caldo nido materno. Dentro il quale c’è sempre un posto, che aspetta solo

che qualcuno lo occupi, che vi sia bisogno o no.

Guai a non starci più, nel ritratto di famiglia. C’è sempre un letto e una

camera ordinata e linda, che profuma di voci e radici lontane, che aspetta.

Ti sei voluto adagiare sulle comode, scontate certezze, abiurando le aspre

battaglie della vita, con indosso una mentalità rusticana, dietro a un ruolo

che, comunque, ti scherma e preserva dai meccanismi perversi di questo

mondo.

La sedia del solito bar che offre asilo e protezione al tuo desiderio di

tranquillità e anonimato è, se ben si riflette, un ottimo avamposto per

scandagliare l’umanità, anche se non disponi momentaneamente di

stetoscopio e utensili del mestiere. Una sorta di palco con vista su un

microcosmo, in cui recitano la loro parte vizi privati (e pubbliche virtù), che

s’impersonano in caratterialità le più disparate: dal matto del villaggio a chi

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si crede chissà chi e cammina a un palmo da terra, dalla pia donnetta che si

reca ogni sera puntuale alla messa vespertina all’impenitente energumeno

bestemmiatore che non sa mettere due parole una di fila all’altra, eccettuato

il turpiloquio e la sua variegata sintassi.

Sì, un vero e proprio “palco all’opera”, un caleidoscopio d’umanità e

d’immagini pensoso ed esilarante a un tempo. Meglio seduti qui a guardare,

che starsene imbalsamati nei tanto celebrati salotti patinati delle estati VIP,

all’ombra del Colosseo o lungo le chiassose frementi riviere, a recitare un

copione che ti starebbe stretto, che non senti tuo perché inautentico,

posticcio. Come finti e nauseabondi sono il trucco e le pose studiate ad arte

dai protagonisti, i soliti noti del tubo catodico, di cui francamente non se ne

può più.

Chissà allora se quello che tu, professionista di livello che ha calcato i

palcoscenici dell’accademia, hai scelto non sia poi il modo migliore e più

vero di sentirsi vivi, e, comunque, di scrutare l’uomo nelle sue tante luci ed

ombre.

Imbolsito su quella sedia in canottiera e pantaloncini usu beach dai però

l’idea di abulia, comunichi una sensazione di accidia, emani un che di

sciatto. Sei uno fra tanti.

Tuttavia, ad una riflessione più approfondita si scopre che forse proprio

questa è la maniera più verace e schietta di dare un nome e un volto alle

cose, di là dai tecnicismi, dalle auliche opzioni gergali e, all’opposto, dallo

scadere nel pettegolezzo più trito e stucchevole.

Di là, soprattutto, dalla smania immoderata e patologica di far tanto rumore

per nulla, di far comunque parlare, nel bene o nel male non fa differenza, di

sé, di agire e apparire protagonisti su un proscenio che, sollevato il sipario,

mostra la sua squallida nudità, la sua tragica inanità. Sotto la maschera e il

patetico belletto non c’è nulla, solo realtà virtuali, files (o virus?) di sistema,

inanimate “icone”.

Il rifugio al paterno ostello dopo tanto “bivaccare” davanti al solito bar

completa allora il senso di una vita, facendosi metafora e archetipo di

un’esistenza radicata a valori forti, che sa dire ancora pane al pane e vino al

vino.

Perché di pane e di vino si tratta, nel vero senso della parola.

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12. Tutto ho perduto

Una casa solida nel folto della boscaglia che d'estate esplode di giallo.

Dentro un camino sempre acceso, la fiamma che guizza e proietta ombre

sghembe sui muri. Lì dappresso l'albero adorno di festoni e palline fragili

policrome di cristallo. C'è anche il presepio a dire la favola del Natale.

Dentro si respira il calore e l'amore. I buoni sentimenti dominano su tutto...

“Volevo che un dio m’illuminasse la strada

perché non potevo pensarti senza.

Desidero portarti io –Dio?-

dove il mare tocca il cielo

la sabbia soffoca la cecità

degli uomini

e la pioggia ristora benigna

il cardellino che cerca rifugio

nel bosco frondoso.

Ti porterò ancora dove il vento soffia

e sospinge gagliardo il tempo

dove lo sguardo che T’innamorò

non ha confine al suo Amore.

Ti condurrò per mano io,

perché sei in me, sei il mio dolore

la mia gioia

i miei incancellabili

dolcissimi ricordi.

*** ***

...sei nel sole, nel mare

nel vento.

Sei nella mia anima,

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figmento indocile dell’universo,

scaglia d’oro che illumina il buio”.

Una fiaba triste, struggente nella sua indicibile tenerezza.

Ho voluto traghettare il ricordo di dodici anni or sono in un'isola incantata,

dove la neve cade ancora bianca, e il richiamo nella bruma si smarrisce...

Così poteva essere, e non è stato.

Tutto ho perduto...

Il focolare, laggiù, guizza ancora ombre furtive.

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EXIT

IL CANTO DELLA VITA

Muoiono le cose.

Morirò, moriremo…

Lento, inesorabile è il disfacimento. Corpi scultorei che si crogiolano al sole,

virgulti ansiosi di gemmare, la bellezza sfiorisce col tempo e si perpetua

attraverso i geni.

Sangue da sangue, Luce da Luce.

Il mare rosicchia gli argini e scaraventa furioso i flutti sulle rocce.

C’è una bottiglia nelle notti di bonaccia a dire un segreto affidato alla luna.

Qualcuno – forse - troverà quel messaggio, lo leggerà e a sua volta lo

consegnerà ai venti, facendone perdere ogni traccia.

Qualcosa finisce, qualcosa insieme si affaccia alla vita. In orto et morte,

vitae coniuncuntur...

Diverremo tutti come voi, con quegli occhialoni spessi un dito, i capelli radi

e il tronco piegato dalle tante primavere.

Anche le cose che, mute, si fanno sentinelle discrete del nostro peregrinare,

anch’esse conosceranno altre stagioni e, alla fine, foglie di un altro autunno

periranno, lasciando il posto a realtà che abitano l’Eterno.

…delle risa si spegnerà l’eco furtiva…

Ma l’anima ha già prenotato un palco dove ardono le stelle.

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Clausola

Il respiro della brezza porta messaggi di vita, che traluce da un sorriso mesto,

nel muto interrogare, in quel pudico incontro di sguardi. Ed è Luce,

Bellezza.