I due Marò -...

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I due MaròTutto quello che non vi hanno detto

Matteo Miavaldi

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5. La narrazione tossica

5.6 Spingitori di periti

L’artiglieria pesante della controinchiesta, portata avanti dalla premiata ditta Gaiani-Biloslavo-Micalessin, viene svelata al grande pubblico il 25 marzo 201214, con un articolo firmato dallo stesso Gaiani. Titolo: La perizia sui marò in India: “Non hanno sparato loro. L’accusa si basa su un proiettile inesistente”. Schietto, deciso, tranchant.

Il merito della scoperta, che a questo punto si guadagna l’ap-pellativo di “scientifica”, lo si deve all’ingegner Luigi Di Stefa-no, «perito tecnico che ha lavorato per alcuni tribunali italiani e consulente di società per cause legate a incidenti aerei inclusa Itavia per il “caso Ustica”». Per Gaiani trattasi di rapporto non solo «dettagliato», con tanto di link diretto al lavoro dell’inge-gnere pubblicato online, ma anche «indipendente». D’altronde, la scienza non ha padroni e la mole di prove presentate dal Di Stefano è impressionante.

L’analisi tecnica presenta una serie di elementi raccolti dall’ingegner Di Stefano che, sapientemente passati al setaccio del più ferreo rigore scientifico, organizzati in immagini, grafici, simulazioni 3D, contestualizzati e spiegati ricorrendo a metafore o paragoni per i non addetti ai lavori, rendono cristallina l’inno-cenza di Latorre e Girone. O almeno queste sono le intenzioni.

La prova regina presentata da Gaiani riguarda il calibro del-le armi utilizzate dai marò incrociato con le prove repertate in India. Dopo un passaggio a farsi beffe degli indiani che avevano trovato l’inesistente proiettile da 0,54 pollici – bugia clamoro-sa portata avanti dalla selezione di comodo delle informazioni parziali pubblicate da Sarcina sul Corriere – si schernisce anche l’anatomopatologo Sasikala, capo del dipartimento di medicina forense del Government Medical College di Kottayam, Kerala, poiché nel referto dell’autopsia effettuata sui corpi di Binki e Ja-lestine – i due pescatori uccisi sul St. Anthony – utilizza le unità

14 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-25/lesperto-maro-india-han-no-143435.shtml?uuid=AbTHGvDF&fromSearch

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di misura anglosassoni al posto dei nostri centimetri e millimetri. Cosa in realtà assolutamente normale in India, ex colonia inglese dove tra l’altro si guida a destra, ma che Di Stefano, già convinto di trovarsi al centro di un intrigo internazionale, registra come «misure indicate in modo criptico e furbesco».

Il Sole 24 Ore lascia campo a Di Stefano riguardo la teoria del complotto sul calibro, la prova della malafede con cui gli in-diani vogliono inchiodare i due marò avendo per le mani un foro fatto da un calibro 7,62, che per il perito non sarebbe compati-bile col calibro 5,56 delle armi dei marò. Di Stefano, nella sua analisi tecnica e nell’intervista al quotidiano di Confindustria, sentenzia e discetta del vero e del falso due settimane prima di conoscere le indiscrezioni sui risultati ufficiali dei test balistici, effettuati alla presenza degli esperti italiani del Cis. Che infatti specificheranno di aver sequestrato 6 fucili Beretta SC 70/90 e sei mitragliatrici Minimi, due armi da fuoco che sparano proiet-tili calibro 5,56 mm, gli stessi trovati sul St. Antony.

Ma prima che qualcuno potesse verificare la vera natura del lavoro di Di Stefano, la sua perizia era già franata sull’informazio-ne italiana, ripresa come il Vangelo da Gaiani sul blog di Panora-ma e condivisa da migliaia di utenti sui social network. Dal mese di aprile, chiunque provasse timidamente a confutare la verità rivelata dell’innocenza dei marò avrebbe dovuto fare i conti con La Scienza, sublimata nel lavoro tecnico dell’ingegner Di Stefano che improvvisamente, da emerito sconosciuto diventa l’asso nella manica che la diplomazia italiana si rifiuta di giocare.

Sul solito War Games, il direttore di Analisi Difesa continua la crociata contro l’inefficienza del governo Monti, spiegando che «Il rapporto è accessibile in rete e sarebbe utile che lo leggessero anche alla Farnesina e a Palazzo Chigi. A meno che la linea di condotta del governo per riportare a casa Latorre e Girone non sia quella di rimettersi alla clemenza della corte del Kerala».

Il rapporto, pur essendo una patacca di dimensioni colos-sali – come dimostreremo più avanti – in mancanza di qualcosa che somigli alla controinformazione o del benché minimo fact-checking, è sembrato talmente autorevole da indurre Umberto

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Gori – professore dell’Università di Firenze esperto di relazioni internazionali, terrorismo ed intelligence – a citarlo in una let-tera ospitata il 12 aprile15 nella rubrica del Corriere della Sera “Risponde Sergio Romano”. Nella sua risposta, il celebre edito-rialista esaltava il contributo di Gori, che «delinea un percorso che sarebbe stato logico adottare e cita un rapporto sui tracciati radar che potrà essere utile all’indagine».

Incassato l’endorsement del Corriere, quattro giorni dopo Di Stefano espone la sua analisi tecnica di fronte all’illustre platea della Camera dei Deputati, perorando l’innocenza fattuale dei due marò un mese prima che le autorità indiane rendessero pub-bliche le accuse, mostrando esiti di rilevazioni satellitari, prove balistiche, interrogatori. Il che la dice lunga sulla scientificità del lavoro di Di Stefano, ma tant’é.

In seguito all’esposizione di Di Stefano, i Radicali hanno avanzato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Este-ri Terzi, chiedendo sostanzialmente: “Ma se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla, perché dobbiamo stare a sentire questo Di Stefano?”.

I firmatari, pur avendo sollecitato per ben cinque volte il ministro Terzi, non ricevono mai risposta.

15 http://www.difesa.it/Sala_Stampa/rassegna_stampa_online/Pagine/PdfNavigator.aspx?d=12-04-2012&pdfIndex=8

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5.7 La perizia di Di Stefano: fantasia al potere

L’analisi tecnica dell’ingegner Luigi Di Stefano16 è un lavoro a metà tra l’imbarazzante e il maniacale basato su una serie di dati parziali, non verificabili o, in gran parte, facilmente confu-tabili una volta individuate le fonti.

Proprio le fonti sono il problema principale dell’opera di Di Stefano, che nell’introduzione dell’analisi tecnica mette le mani avanti avvertendo:

[…] ritengo sia utile fare una analisi tecnica degli eventi ba-sata sulla somma dei dati disponibili e provenienti da notizie di stampa, pur nella consapevolezza che alcuni elementi potrebbero essere stati riportati sbagliati o distorti.

Ma l’impianto analitico resta comunque valido, per cui qua-lora si avesse accesso a numeri ed evidenze diversi da quelli qui riportati, provenienti da fonti certe e verificabili, sarà possibile so-stituirli a quelli utilizzati e rifare analisi e verifiche senza cambiare l’impianto metodologico del presente lavoro.

Una indagine tecnica ha un “metodo” consolidato che qui an-dremo a seguire, in rapporto alla natura dei fatti e i luoghi dove si sono svolti.

Di Stefano divide il lavoro in diverse sezioni che dovrebbero smontare pezzo per pezzo tutte le accuse degli indiani, ma com-mette l’errore di fidarsi esclusivamente della stampa italiana e, in particolare, delle ricostruzioni propinate da Micalessin, Gaiani e Biloslavo.

Come i suoi ispiratori, Di Stefano parte dal presupposto, ben poco scientifico, che i marò siano innocenti, tanto che nella prima sezione dove vengono esposti “I Fatti”, l’autore fa semplicemente “copia e incolla” del rapporto mandato da Latorre all’armatore. Ma quelli non sono “I Fatti”, quella era la versione di Latorre, ampia-mente contraddetta dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani.

16 http://www.seeninside.net/piracy/index.htm

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Nella perizia si trovano stralci di interviste tratte dal setti-manale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda dai telegiornali italiani, altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3D.

Insomma, Di Stefano vuole stupire con gli effetti speciali, ma levato lo spettacolo pirotecnico rimane solo ciò che è stato attinto dai pezzi di Gaiani, Micalessin e Biloslavo.

Di Stefano si ritrova così a difendere l’indifendibile. La pista greca, quella dello Sri Lanka, la querelle del calibro, la panzana delle acque internazionali.

Quando le rivelazioni che arrivano dall’India sconfessano platealmente le tesi esposte nell’analisi tecnica, Di Stefano o non ne prende atto o la spara ancora più grossa. Emblematico il caso dell’esame balistico che, nella versione redatta da Di Stefano, scagionava completamente i marò, ma che secondo i periti in-diani prova che Girone e Latorre hanno effettivamente sparato contro il St. Antony.

La svolta dell’esame balistico viene annunciata su tutti i Tg italiani il 14 aprile 2012. Il Tg1 e il Tg2 mandano in onda anche alcuni stralci della perizia indiana.

Si tratta di un documento ufficiale, una prova definitiva che sarà presa in considerazione dalla Corte chiamata a pronunciarsi sulla colpevolezza o meno dei due sottufficiali italiani. Gli in-diani sostengono che i proiettili calibro 5,56 mm ritrovati sul St. Antony e nei corpi dei due pescatori siano stati sparati dalle armi in dotazione al Nucleo di protezione marina sequestrate a bordo dell’Enrica Lexie: 6 fucili SC 70/90 e 2 mitragliatrici Minimi, entrambi calibro 5,56 mm. Hanno fatto degli esami in laboratorio, dei test di tiro, sotto gli occhi dei due specialisti dei Carabinieri mandati dall’Italia, e hanno raggiunto conclusioni che negano quelle di Di Stefano.

Allora il nostro ingegnere che fa? Si collega al sito della Rai, rivede le puntate del telegiornale, fa degli screenshot delle parti in cui vengono trasmessi i documenti della perizia, li analizza e sentenzia: la perizia è contraffatta.

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Nel documento presentato da Tg1 e Tg2 come uno stralcio della “Perizia Balistica” eseguita dalle autorità indiane appiano evidenti segni di falsificazione dei risultati.

Dette falsificazioni consistono nell’aver modificato, in tempi successivi alla prima stesura, quegli elementi che indicano la re-sponsabilità italiana negli omicidi.

Elementi che evidentemente nella prima stesura erano diversi, altrimenti non sarebbe stato necessario modificarli.

Siamo al delirio di onnipotenza di un’analisi scientifica fatta dal fermo immagine del Tg2 che scova indizi e prove ingranden-do i pixel di una fotocopia dal proprio pc di casa, muovendo accuse di falsificazione alle autorità di un altro Stato.

Accuse di questo genere, che in un Paese normale sarebbero state ignorate o coperte dalle risate, in Italia diventano invece uno scoop, ripreso da Lorenzo Bianchi sul Quotidiano Naziona-le e da Micalessin sul Giornale del 19 aprile.

Gli indiani la spacciano per la prova regina, la vendono come la pistola fumante capace d’inchiodare i marò Massimiliano Lator-re e Salvatore Girone. In verità le risultanze della perizia balistica passate ai giornali indiani e documentate il 4 aprile dai servizi del Tg1 e del Tg2 sono un banalissimo falso. Un falso confezionato al-terando i risultati di una perizia capace forse di scagionare i nostri due militari. Una bufala data in pasto a giornali e televisioni per minare le certezze dei nostri diplomatici e convincere l’opinione pubblica indiana e italiana della colpevolezza dei nostri militari. A dimostrarlo è l’ingegner Luigi Di Stefano, un perito giudiziario 60enne famoso per aver cercato di far luce sui misteri dell’aereo dell’Itavia abbattuto nei cieli di Ustica.

«Guardando il documento messo in onda il 4 aprile dal Tg1 e dal Tg2 – spiega a Il Giornale il perito giudiziario – balza imme-diatamente agli occhi che si tratta di un documento chiaramente contraffatto, realizzato con due macchine da scrivere diverse. In quel documento notiamo delle alterazioni evidenti. Ci sono delle cancellazioni, dei testi sottotraccia e dei timbri che non quadrano. Abbiamo davanti una perizia passata da più mani dopo la sua ste-sura originale e alterata per dimostrare conclusioni diverse e più favorevoli alla versione sostenuta dalla parte indiana».

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Il lavoro di Di Stefano è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superio-rità occidentale nei confronti del cosiddetto Terzo mondo.

Lo dimostra la sezione Olympic Flair dell’analisi tecnica, in cui il nostro riprende l’iniziale tesi della colpevolezza greca dimo-strando con tanto di mappa disegnata al computer che le autorità indiane si sarebbero accanite senza motivo sull’Enrica Lexie, ri-fiutandosi di allargare le indagini alla sospetta petroliera greca.

Un rapporto dell’International Maritime Organization (Imo), consultabile da chiunque online previa registrazione gratuita al sito dell’Imo17, indica chiaramente che la petroliera Olympic Flair, battente bandiera greca, è stata vittima di un at-tacco pirata proprio il 15 febbraio 2012, alle 22.20 orario india-no. Secondo  la mappa disegnata da Di Stefano  incrociando i vari dati circa tempo e posizione delle due petroliere, alle 22.20 l’Enrica Lexie, «scortata dai due pattugliatori Shamar e Lakshi-mi Bahi e dall’aereo di sorveglianza marittima Dornier 228» si trovava a sole 3 miglia nautiche dall’Olympic Flair, ancorata al largo del porto di Kochi.

Di Stefano conclude quindi che:

Le autorità indiane avevano il dovere di lanciare l’allarme, al-lertare i mezzi militari navali e aerei, e per mezzo dei rilevamenti radar avviarli verso la Olympic Flair, tanto più che erano già sul punto preciso dove era avvenuto l’agguato e dove la Olympic Flair sosteneva di stare.

Avrebbero dovuto fare esattamente quello che avevano fatto poche ore prima nei confronti della Enrica Lexie. Ma non l’hanno fatto.

Qualunque ne sia il motivo (colpa o dolo) l’impianto accusato-rio costruito nei confronti dei due militari italiani manca dell’inda-gine su almeno uno dei possibili colpevoli: è omissivo.

E quindi l’intero impianto accusatorio sarebbe dichiarato nul-lo in qualsiasi tribunale.

17 https://webaccounts.imo.org/Common/WebLogin.aspx?ReturnUrl=%2FDefault.aspx

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Ma le cose, ancora una volta, non stanno così.Di Stefano, per fissare il punto d’inizio del tragitto dell’Enri-

ca Lexie, prende per buone le coordinate contenute nel rappor-to “trasmesso” dai marò riportate il 21 febbraio 2012 sul Gior-nale, in un articolo di Fausto Biloslavo.

Nel rapporto – 41 righe inviate a Roma e scritte apparen-temente in tempi non sospetti – si legge che, secondo Latorre, l’Enrica Lexie «si trovava a 20 miglia nautiche dalla costa al lar-go di Allepey (India)».

Collocare la petroliera italiana in quella precisa posizione gli permette, tramite grafici ed incroci di dati di posizionamento della St. Antony, di sostenere che gli indiani si sono inventati tut-to, che l’Enrica Lexie e la St. Antony non si sono mai incrociate e quindi, evidentemente, a sparare non sono stati i due marò. È stato qualcun altro.

È da notare però che il 20 febbraio, sul Corriere della Sera, un articolo di Fiorenza Sarzanini, citando il «report trasmesso a Roma» scritto sempre da Latorre, colloca l’Enrica Lexie a «33 miglia dalla costa sudovest dell’India».

Ma quindi la nave era a 20 o a 33 miglia dalla costa? Ed era o non era al largo di Allepey? Come mai Di Stefano prende per buona un’informazione che contraddice il Corriere della Sera del giorno prima? Quanti rapporti ha mandato Latorre a Roma? E soprattutto, la versione di Latorre è La Verità, o La Sua Verità?

Tutte domande che Di Stefano non si pone, l’innocenza dei marò è scontata, bisogna solo trovare le prove.

Il mio primo articolo pubblicato il 3 gennaio 2013 su Giap – il blog della Wu Ming Foundation – inizia a smontare la tesi innocentista portata avanti da Di Stefano. L’ingegnere non la prende bene e pochi giorni dopo si sfoga18 sulla sua pagina personale, denunciando un nuovo complotto per screditare il suo lavoro e la sua persona e, di conseguenza, influenzare gli esiti giudiziari dei due marò, ordito da alcuni «wikipediani» anonimi residenti – tracciando la provenienza dell’Ip della loro

18 http://www.seeninside.net/disinformazia/

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connessione internet – tra Roma, Romagna, Palermo e Bruxel-les, più un misterioso “Natobxl” con codice Ip coperto.

Gli utenti di Wikipedia si limitavano a sottolineare quanto la sezione dedicata al caso Enrica Lexie fosse sbilanciata e non con-tenesse abbastanza riferimenti super partes o stralci di documenti ufficiali. In particolare l’utente belga, il 26 novembre 2012, si ri-ferisce al lavoro di Luigi Di Stefano definendolo «pure fantasy».

Secondo Di Stefano è l’inizio dell’operazione di disinforma-zione contro il suo lavoro e la sua persona, il Big Bang cospira-zionista che avrebbe investito il sottoscritto, i Wu Ming (rei di aver ospitato il mio primo articolo sul loro blog) e il giornalista Luca Pisapia, autore il 5 gennaio dell’articolo che sul Fatto Quo-tidiano avrebbe aperto un nuovo filone della controinchiesta.

Partono le minacce di denuncia:

In sostanza una operazione di disinformazione da manuale, ai miei danni, per rendermi inattendibile e con me le evidenze di innocenza.

Arrivando infine l’operazione su Il Fatto Quotidiano, giornale di valenza nazionale, con l’articolo di Pisapia che viene automati-camente ripreso dai siti internet di informazione e quindi diffama-zione e bugie si spargono in rete. E gli astuti architetti che hanno messo in atto l’operazione hanno raggiunto il loro scopo.

Ovviamente non c’è da meravigliarsi: di queste “operazioni” se ne fanno decine o centinaia l’anno, penso ci siano diversi “ope-ratori dell’informazione” che si ingegnano in queste attività contro questo o contro quello.

Però in questo caso fa piacere vederla spiattellata qui per inte-ro, coi protagonisti e i motivi per cui è stata fatta.

Ora con la santa pazienza vedrò di arrivare ai titolari degli Ip (uno è fisso) e confesso che quello che mi incuriosisce di più è a Bruxelles, e quello della Nato. Saprete più avanti.

Ora, nell’ipotesi che il tutto sia stato organizzato per pregiudica-re le possibilità dei due militari italiani qualora dovessero affrontare il processo in India dovrò, doverosamente, presentare un circostan-ziato esposto-denuncia alla Procura della Repubblica che potrà, con molti più mezzi di indagine, valutare se è esistito un unico disegno criminoso (è la formula canonica) in ordine a quanto descritto.

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Quale sarebbe il disegno criminoso? Agire coscientemente in modo coordinato fra più persone per pregiudicare le possibilità di difesa dei due militari italiani sotto accusa in India, svalutando la valenza degli elementi a discarico attraverso la propagazione a mezzo stampa di falsità sulla competenza del sottoscritto che tali elementi ha evidenziato.

Quindi ci rimettiamo serenamente alle valutazioni del Magi-strato.

Senza rilevare che i primi articoli critici sul caso dei due marò erano stati pubblicati la prima settimana di novembre 2012 su China Files, ben prima della discussione tra “wikipediani” di cui sopra, Di Stefano difende a spada tratta la sua verità, mentre l’inchiesta collettiva, nata dai commenti in calce al post di Giap, si imbatte in un dato centrale che svela la carenza di attendibilità della versione dell’incidente riportata dall’equipaggio dell’Enri-ca Lexie, quella presa per buona da tutta la stampa.

Nell’argomento di difesa consegnato alla Corte del Kerala da Latorre e Girone nel febbraio 2012, citato tra gli altri anche dal Times of India19, si indica che: «Il Capitano ha anche attivato lo Ship Alert Security System (Sass), mandando segnali all’Italian Marine Rescue and Coordination Centre (Mrcc). Il Capitano fece anche rapporto dell’incidente alla mercury chart che met-te in contatto e trasmette informazioni alla comunità [navale], compresi i dipartimenti di Marina del mondo impegnati nella lotta anti-pirateria, compreso il quartier generale della Marina indiana. È stato stilato anche un “Rapporto militare”. Un altro rapporto è stato mandato al Maritime Security Center Horn of Africa. Siccome l’attacco era stato respinto, l’imbarcazione ha continuato verso la rotta prestabilita».

Abbiamo controllato nel registro dell’Imo, database pub-blico che contiene i rapporti di attacchi pirati trasmessi dalle imbarcazioni di tutto il mondo alle autorità competenti, ma del

19 http://articles.timesofindia.indiatimes.com/2012-02-25/kochi/31100520_1_vessel-piracy-marines

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rapporto dell’Enrica Lexie non vi è alcuna traccia. Anche Cyrus Mody dell’Icc-Ccs, come abbiamo visto in precedenza, ha con-fermato che alla Camera di commercio internazionale non ri-sulta nessun rapporto dell’Enrica Lexie, mentre hanno ricevuto e pubblicato un analogo rapporto di attacco da parte di pirati redatto dall’Olympic Flair.

Anche le autorità indiane si erano mosse per rintracciare questo fantomatico documento. Il giudice dell’Alta Corte del Kerala P.S. Gopinathan, respingendo gli argomenti della dife-sa dei marò, ha spiegato: «È pertinente notare che non è stata prodotta nessuna prova a testimonianza del fatto che i marò, prima di sparare ai pescatori, abbiano comunicato al Capitano dell’imbarcazione il pericolo di un attacco pirata, o che il Ca-pitano ne abbia fatta menzione nel registro. Inoltre non esiste nessun documento a supporto dell’argomentazione di difesa che sostiene il Capitano abbia attivato lo Ship Alert Security System o che alcun segnale sia stato trasmesso al Marine Rescue and Coordination Centre, alla Mercury chart o a qualsiasi Marina in tutto il mondo».

Ci sono abbastanza elementi per dubitare che il rapporto sia mai stato trasmesso, dettaglio che apre uno scenario inedito del-la dinamica dell’incidente e del cosiddetto “tranello indiano”.

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5.8 Chi di tranello ferisce...

La vulgata italiana ha consegnato all’opinione pubblica un resoconto dell’incidente dove i marò hanno ricoperto il ruolo dei “buoni”, servitori dello Stato vittime di un madornale er-rore di valutazione. Hanno sparato, credevano fossero pirati, si sono sbagliati ma erano in buona fede – Binki e Jelastine, le due vere vittime, non rientrano più nel quadro – e sono cascati in un tranello teso dalla Guardia costiera indiana, che non ha mai smentito le accuse di furbizia arrivate dalla patria dichiarata del-lo stratagemma, culla dell’arte dell’arrangiarsi.

Il ministro degli Esteri Terzi, in una lettera aperta pubbli-cata sull’Eco di Bergamo lo scorso ottobre, scriveva: «L’ingresso della nave Enrica Lexie in acque indiane è stato il risultato di un sotterfugio della polizia locale, che ha richiesto al comandante della nave di dirigersi nel porto di Kochi per contribuire al rico-noscimento di alcuni sospetti pirati».

Come già hanno notato su Wikipedia, la dichiarazione stride non solo con la versione indiana dell’accaduto, ma anche con la ricostruzione corrente del ritorno al porto di Kochi dell’Enrica Lexie.

Secondo larga parte della stampa il ritorno della petroliera al porto di Kochi è stato un “segno di buona fede”, un gesto volon-tario per facilitare le indagini alle autorità indiane. In un’interes-sante intervista rilasciata al canale televisivo indiano Ibn Live, il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura lo dice quasi con le stesse parole.

Ma la dinamica dei fatti ricostruita dalla stampa indiana, ba-sandosi sui dati presentati al processo dall’accusa e sulle dichia-razioni degli ufficiali della Guardia costiera indiana, racconta una storia diversa.

1) Alle 16.30 del 15 febbraio qualcuno spara al peschereccio St. Antony

2) La St. Antony lancia l’allarme alla Guardia costiera india-na, descrivendo grosso modo l’imbarcazione dalla quale prove-nivano gli spari.

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3) La Guardia costiera inizia le indagini, cercando di capire quali navi in quel momento si potevano trovare nei pressi della St. Antony.

4) Intorno alle 19.00 la Guardia costiera restringe il cerchio delle possibili navi coinvolte nella sparatoria a quattro imbar-cazioni: l’Enrica Lexie, la Kamome Victoria, la Giovanni e la Ocean Breeze. Le raggiunge tutte via radio, chiedendo se erano state coinvolte in un presunto attacco pirata.

5) L’unica nave a rispondere affermativamente è l’Enrica Le-xie (che aveva già infranto la procedura standard che prevede di fare immediato rapporto alle autorità nel caso di attacco pirata). Sono le 19.30 e la petroliera italiana, senza aver detto niente a nessuno, aveva proseguito nella propria rotta verso l’Egitto per quasi tre ore, allontanandosi dalla “scena del delitto” di ben 39 miglia marittime, più o meno 70 km.

6) La Guardia costiera indiana intima all’Enrica Lexie di tor-nare indietro e probabilmente, vista la mancata denuncia dello scontro a fuoco da parte della petroliera italiana, ordina ai due pattugliatori Shamar e Lakshmi Bhai e all’aereo di sorveglianza marittima Dornier 228 di inseguire la nave italiana, intercettarla e riportarla in porto. [Parentesi per Di Stefano: ecco perché la Guardia costiera non manda le navi e l’aereo anche all’Olympic Flair: la nave greca non si era lasciata due cadaveri alle spalle, avevano respinto un attacco pirata senza esplodere un colpo di fucile, stavano tutti bene ed avevano diligentemente fatto rap-porto immediato alle autorità marittime.]

7) L’Enrica Lexie comunica all’armatore italiano l’incidente e, contro gli ordini della Marina italiana, inverte la rotta e torna verso il porto di Kochi (e ne aveva tutto il diritto).

Alla luce di questi eventi, giudicati come “fatti” dalla giusti-zia indiana, descrivere il ritorno dell’Enrica Lexie a Kochi come un gesto volontario di buona fede appare una conclusione ab-bastanza fantasiosa.

Possiamo addirittura spingerci a considerare la scelta del Capitano Vitielli come un provvidenziale rinsavimento, un

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ritorno opportuno al senso di responsabilità. Se l’Enrica Lexie avesse dato retta alla Marina italiana, il 16 febbraio i giornali indiani – e internazionali – avrebbero titolato “Petroliera ita-liana spara contro pescatori indiani e fugge verso l’Africa, è caccia aperta”. Eventualità che avrebbe complicato non poco gli equilibrismi della diplomazia italiana davanti alla comunità internazionale.

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5.9 Gegno

L’improvvisa autorevolezza di Di Stefano – un signore che dal nulla, in tre settimane, diventa punto di riferimento degli in-nocentisti della destra italiana, viene citato sul Corriere della Sera da un esperto di relazioni internazionali e finisce in parlamento a spiegare, prova su prova, l’assurdità delle accuse di omicidio ai due sottufficiali – destava qualche sospetto.

Così, nel gennaio 2013, in seguito alla pubblicazione del primo articolo sui due marò sul blog Giap, alla controinchiesta collettiva per far chiarezza sul caso dei due marò, si aggiungeva un’altra sottoinchiesta per scoprire chi fosse in realtà questo in-gegner Luigi Di Stefano.

E la prima cosa che abbiamo scoperto era che ingegnere, in realtà, non lo è mai stato.

Quando, commento dopo commento, la comunità di lettori di Giap ha iniziato a demolire il presunto lavoro scientifico del “tecnico super partes”, Di Stefano si inserisce nella discussione difendendo l’analisi tecnica e presentando il suo curriculum, a suo dire, di tutto rispetto.

Nel curriculum, disponibile online20, si certifica che Luigi Di Stefano è “Doctor of Science in Environmental Engineering (In-gegneria Ambientale) presso Adam Smith University of Ameri-ca”, ovvero ingegnere ambientale presso un’università americana.

È bastata qualche ricerca online per scoprire che la Adam Smith Universiy of America è un diplomificio, uno di quegli escamotage ai quali ricorrono luminari del calibro di Renzo Bos-si in arte Trota per accaparrarsi un titolo universitario, fondati e gestiti da truffatori che si arricchiscono sull’ingenuità del malca-pitato di turno convinto davvero che, dall’altra parte del mondo, ci sia una commissione di laurea e non solo una casella postale.

Di Stefano, in mancanza di una laurea riconosciuta, non ri-sulta iscritto a nessun Albo provinciale di ingegneri. In sostanza,

20 http://www.seeninside.net/ilva/curriculumLDS_280912.pdf

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non è un ingegnere, e sostenere pubblicamente di esserlo in Ita-lia è reato.

Massimo Mazzetta, giornalista che ha partecipato all’inchie-sta dei giapster nei commenti del blog dei Wu Ming, ha spiegato sul suo blog21:

[...] la “Adam Smith University of America” è ben conosciu-ta come “diplomificio” [...] e non è accreditata neppure negli Stati Uniti e quindi il riconoscimento è impossibile, anche spenden-do un sacco di soldi. Quindi Di Stefano [...] mentiva sapendo di mentire, difficile che non sappia cos’ha comprato presso di loro, o meglio presso di lui, quel Donald Grunewald che la dirige da sempre dalla sua casa in Connecticut nonostante la sua sede in teoria si trovi al piano terra dell’ostello per ragazze del Methodist Compound di Monrovia, in Liberia. Negli Stati Uniti, riferibili a questa “Università” ci sono solo la casa di Grunewald e una casella postale, peraltro piazzata a Saipan, sulle isole Marianne. Difficile che Luigi di Stefano ne sia all’oscuro.

Ma non basta.Nelle ricerche salta fuori anche l’affiliazione di Luigi Di Ste-

fano al gruppo fascista extraparlamentare Casapound Italia, del quale ricopre la carica di dirigente nazionale.

Suo figlio, Simone Di Stefano, di Casapound è stato uno dei fondatori e nelle ultime elezioni, per l’associazione neofa-scista, ha corso come candidato alla presidenza della Regione Lazio (26.057 voti, pari allo 0,79 per cento) e candidato premier (47.692 voti alla Camera, pari allo 0,1 per cento; 40.538 voti al Senato, pari allo 0,1 per cento).

Prima di approdare in parlamento il 16 aprile, grazie all’im-pegno dell’onorevole Pdl Settimio Nizzi, l’analisi tecnica di Di Stefano era stata presentata in anteprima il 5 aprile in via Napo-leone III 8, Roma, nella sede nazionale di Casapound.

Di Stefano senior è anche responsabile per le politiche energetiche di Casapound Italia e nel 2011 firma, sempre per

21 http://mazzetta.wordpress.com/2013/01/05/il-perito-di-ustica-con-la-laurea-finta/

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5. La narrazione tossica

Casapound, un progetto per una “Proposta per la realizzazio-ne di Case Popolari nell’ambito del Piano Casa della Regione Lazio”.

Opera che Mazzetta, sempre nel suo blog, ha sintetizzato come «un bizzarro progetto “ecologico” che replica in pianta il disegno del simbolo di Casapound, una buffonata come non se ne vedevano da quando il sindaco leghista marchiò con il sole delle Alpi una scuola, ma almeno questo fa ridere».

Scavando in rete, e nemmeno troppo a fondo, con la scoper-ta delle inchieste del dirigente di Casapound in incognito il nuo-vo caso Di Stefano inizia ad arricchirsi di risvolti tragicomici.

Il poliedrico Di Stefano risulta anche il responsabile per il Lazio del Forum Antiusura Bancaria, organismo presieduto a livello nazionale da Domenico Scilipoti – no, non è un omonimo – baluardo della lotta contro il signoraggio in Italia.

Ma soprattutto è autore della cosiddetta “Operazione Sot-toveste”, purtroppo nascosta – speriamo per pudore – in una sottosezione del sito di Luigi Di Stefano, www.seeninside.net, senza fornire link nella homepage.

Il lavoro, caricato online dal nostro il 2 luglio 2009, è presen-tato come segue:

In queste pagine, ora che il quadro si è fatto più chiaro ri-spetto a quanto pubblicato il 16 giugno 09 (le falsificazioni delle foto di Villa Certosa) si vuole sostenere che tutta la vicenda partita con la partecipazione del premier al compleanno della signorina Noemi alla fine di aprile, sia appunto montata come operazione di disinformazione, e che ci siano elementi tali da supportare oggetti-vamente questa conclusione.

E che, riconosciuta la metodologia e la strategia, sia possibile indicare in anticipo l’ultima fase dell’operazione, quella che secon-do gli organizzatori dovrebbe far cadere questo governo e sostitu-irne almeno la guida.

Insomma, in un paio di giorni e con una connessione inter-net è venuta fuori una preoccupante verità: il tecnico di indub-bia fama che la stampa per un mese ci ha propinato come autore

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I due Marò

della perizia che scagionava i marò, è in realtà un millantatore di titoli universitari affiliato ad un gruppo neofascista col palli-no del complottismo. Possibile che, nelle redazioni dei giornali, non se ne sia accorto nessuno?

Luca Pisapia, altro giornalista che ha svolto un ruolo chiave nella controinchiesta di Giap, raggiunge Luigi Di Stefano al tele-fono e gli chiede di chiarire la genesi della sua perizia.

Il contenuto della telefonata, riportato in un articolo pubbli-cato sul Fatto Quotidiano online22 è rivelatore.

Come spiega lo stesso Di Stefano a ilfattoquotidiano.it, per re-digere la perizia tecnica, non è andato molto oltre a una ricerca sulla rete: «Non ho mai telefonato in India, le fonti indiane mi sono state rivelate da alcuni giornalisti italiani [cita alcuni quo-tidiani ndr] che avevano seguito il caso e avevano le loro fonti». Quindi a Di Stefano hanno riferito alcune informazioni e diversi dettagli tecnici per l’estensione della famosa perizia gli stessi gior-nalisti che poi hanno certificato e validato i loro articoli grazie alla sua perizia. «Anche sì, – risponde l’interessato –se poi i dati non sono esatti hanno sbagliato loro».

Con l’ammissione di Di Stefano abbiamo finalmente il qua-dro completo del corto circuito mediatico, lo scheletro della nar-razione tossica che in Italia ha completamente travisato il caso Enrica Lexie: giornali e giornalisti di destra modellano le infor-mazioni sul caso dei due marò a proprio piacimento, raccon-tando mezze verità e facendo montare la psicosi del complotto internazionale; le loro tesi, passando una prima volta attraverso la Rete, animano l’attivismo online di migliaia di – ignari – uten-ti; la mobilitazione virtuale diventa reale, sfociando in manife-stazioni ed eventi di solidarietà subito cavalcati dalla politica e strumentalizzati per attaccare il governo; i giornalisti conferma-no la loro versione a un presunto tecnico di Casapound; esce la perizia e gli stessi giornalisti intervistano “lo stimato tecnico

22 http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/05/maro-italiani-spunta-perizia-del-fin-to-ingegnere-targato-casapound/461924/

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5. La narrazione tossica

super partes”, mostrando come le prove sciorinate nell’analisi tecnica confermino le loro teorie complottiste.

Risultato: in due mesi i marò passano da presunti assassini a eroi prigionieri in terra straniera, con tutto ciò che mediatica-mente ne è conseguito.

Il governo Monti, evidentemente alle prese con una tratta-tiva decisamente complicata con la controparte indiana – con Delhi a sua volta stretta dalla dualità governo centrale/governo locale fino alla sentenza del 18 gennaio 2013 – in Italia è fatto oggetto di attacchi sistematici, costretto a ribattere con una par-venza di serietà, per non compromettere un’azione diplomatica attiva sicuramente su più livelli, a sparate innocentiste senza arte né parte diventate ormai oggetto di culto tra i fanatici del com-plotto internazionale ai danni dell’onor patrio.

E pensare che, scorrendo l’azione diplomatica guidata dal sottosegretario Staffan De Mistura, le istituzioni le hanno prova-te proprio tutte per riportare i marò in Italia. Pure troppe.

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