I 10 racconti dell'orrore e Mason Creek PDF

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I 10 racconti dell'orrore e Mason Creek di Ivan Forni

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Un'avvincente storia thriller noir che incontra momenti di puro terrore. La storia segue l'indagine del detective Jersey Shown, nella cittadina di Mason Creek, sulla scomparsa di alcuni ragazzi. La trama si intreccia con i racconti, dando vita a un vivo universo di eventi e personaggi da esplorare e collegare.

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I 10 racconti dell'orrore

e

Mason Creek

di

Ivan Forni

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Al manicomio di Chesterfield

Domani verrà la mia morte poiché così è stato deciso dal

Dottor Crugher, tuttavia è d'uopo che vi racconti ciò che è accaduto per giungere ad una così drammatica decisione. Essendo scrittore non voglio affatto procurare tedio nel mio affezionato lettore, per cui non descriverò i fatti che mi portarono ad essere rinchiuso con la forza nel rinomato manicomio di Chesterfield a Stonehill. Partirò dunque col mio macabro racconto dall'istante in cui compresi che nell'uomo folle v'era la la chiave per l'Oltre Parallelo.

Dianzi fui torturato per alcuni versi oscuri che scrissi sui muri della mia prigione di pietra e, quando fui di nuovo in piena forma fisica, ripresi a scrivere nonostante l'umidità cancellasse continuamente le mie composizioni poetiche. Si aggiungeva poi il Dottor Heinz che provvedeva instancabile e con superati metodi di tortura, come se credesse di potermi intimorire o indebolire solamente danneggiando il mio corpo.

Durante lo scorrere di una lenta notte ambigua feci la straordinaria scoperta di un piccolo foro sulla parete Ovest e lì conobbi Murph, un altro detenuto con marcata sindrome di schizofrenia. Egli sussurrò alle mie orecchie tese per tutta la notte e così imparai a conoscere la sua meravigliosa malattia, finché anch'egli non mi rivelò, in un improvviso ed inaspettato stato di momentanea lucidità, il suo notturno dovere di calmare l'amico della cella accanto che paventava del buio e, in quell'essere schizofrenico, riconobbi accenti di una inusitata dolcezza.

Domandai come egli riuscisse a parlare con l'altro detenuto e mi rispose di aver tempo addietro praticato un foro nel muro attraverso la calce. In due notti insonni venni a conoscenza di un intricato sistema di comunicazione vocale fra le centinaia di celle. Così nacque in me un'idea

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geniale e malata al tempo stesso.Non mi sembrava assennato portare alla luce quei misteri di cui sono

tutt'ora a conoscenza, ma l'idea che mi si impiantò nella mente non poteva certamente essere abortita. Così una notte decisi di comporre la mia ultima e più importante opera, con l'accezione che questa volta essa venisse divulgata a voce di carcerato in carcerato, da pazzo a pazzo finché, dopo essere stata filtrata da tutte quelle menti distrutte, essa non sarebbe giunta all'ultimo detenuto che di propria mano l'avrebbe scritta. Non m'importava affatto che venisse esattamente come io l'avevo partorita poiché sarebbe stata un'impresa impossibile pretendere che ogni singola parola venisse, di volta in volta, scambiata correttamente. D'altronde il sadico divertimento stava stato proprio in questo.

Non m'immaginavo assolutamente che così facendo andavo a creare il potenziale strumento di distruzione della barriera che teneva divisi i due mondi altrimenti connessi, ma distinti. Le mie parole per tutta la notte eccitarono le menti più malate e perverse e quella catena di deformi creature si rafforzava ad ogni paragrafo ed, ai più acuti e pensatori, si rivelò il vestigio del loro destino poiché ogni parola ch'io aggiungevo essi la coglievano come parte di un gigantesco puzzle. Alla fine del racconto essi non aborrivano più quelle mura e verso l'alba non percepivano più né di essere savi né di essere folli, poiché qualcosa in loro era mutato e pure la mia anima si trasformò invertendosi con quella stessa mia anima residente nell'Oltre Parallelo e l'atmosfera si caricò di tensione poiché numerosi furono i gridi di terrore che si levarono all'improvviso e il buio divenne un profonda tenebra scarlatta e lo stridio dei denti e delle unghie spezzate vibrava tra le laide pareti, sicché anche la morte ostentava a passare in quell'infernale cieco frastuono di anime perdute.

All'albeggiare pallido i brandelli di quello che era il corpo del Dottor Heinz vennero trovati e raccolti nel suo studio e in seguito analizzati rivelando i segni di morsi causati da un tipo di dentatura umana. Tuttavia ciò che creò maggior stupore fu il ritrovamento del manicomio completamente vuoto e deserto, nemmeno l'ombra di un singolo detenuto; eppure le celle nelle quali erano costretti a vivere furono trovate ancora chiuse a chiave e sigillate.

Solo me trovarono avvolto in un mistico stato di vuoto che solo successivamente, quando riacquistai la ragione, mi fu raccontato. Di quel che

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accadde non rammento assolutamente nulla se non ciò che ho appena descritto.

Successore del Dottor Heinz fu il Dottor Crugher che fece ricadere su di me la colpa in seguito a una lunga e infruttuosa investigazione. Affermava ch'ero io ad aver aizzato la rivolta e a tali conclusioni giunse con la scoperta del manoscritto sul pavimento dell'ultima cella e del complesso sistema di comunicazione tra celle che avevamo utilizzato per scriverlo a distanza.

Provai un senso vuoto di terrore quando il Dottor Crugher nominò, in mia presenza, il manoscritto in questione e, come ultimo anelo, prima della morte, avevo domandato se fosse stato possibile reggere tra le mani il frutto della follia e, seppur con qualche iniziale sdegno, venni in possesso della mia ultima straziante e straordinaria opera.

Tentai invano di leggere le parole trascritte a matita sui fogli cenciosi, tuttavia, nonostante i miei sforzi letterari, dovetti arrendermi conseguendo che ciò che avevo davanti agli occhi non aveva alcuna corrispondenza con le note lingue degli uomini.

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Breve nota 1993

"Questa notte, gettando lo sguardo oltre il soffuso

salotto illuminato dalla sola luce della cappa in cucina, ho incontrato, nell'angolo buio aldilà del divano, gli occhi fissi di uno spettro bianco. Questa volta stavano ad una altezza diversa, forse più in basso. E forse un Lord a Carachura mi attende".

Nota scritta a mano ritrovata nell'abitazione del detective H. Wilson su un tovagliolo di carta. Risale alla notte prima della sua tragica sparizione avvenuta, secondo gli inquirenti, il 3 Gennaio 1993 tra 1.00 e le 5.00 del mattino.

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Il necromante Parte 1

Ciò che qui si narra sono gli eventi che portarono alla follia

decine di persone nella vecchia cittadina di Sundown, poiché in essa sembrava esservi sepolto da tempo il male.

Certe volte, all'allungarsi delle ombre incerte dei carpini, dei noccioli e dei frassini, oltre le scricchiolanti staccionate di campagna nei pressi del cimitero, si avvertiva un surreale latrato notturno e la presenza inquieta di un tacito occhio osservatore posto tra i rami spogli o le frasche e da tempo, in quei d'intorni, nessuno metteva più piede.

Accadeva a Timothy, il becchino e guardiano del cimitero, di trovare all'alba le carcasse morte di gatti randagi affisse a croce sulle grate del cancello, tuttavia, nonostante le ripetute denunce, egli abbandonò il rovello e le ricerche dei malfattori vennero dichiarate sospese.

Nessuno sapeva che l'ultima casa a sinistra fosse abitata, tuttavia alcuni impressionabili cittadini giuravano di aver visto alcune luci muoversi al suo interno e che il latrato o straziante grido notturno provenisse da quelle pareti.

Sul finire dell'estate Timothy rimosse personalmente alcune delle tombe per creare nuovo posto disponibile, giacché il cimitero non era molto spazioso e il comune non possedeva abbastanza denaro per ampliarlo. Non credette a sui occhi quando s'accorse che dentro ai feretri non vi era più alcuna traccia dei cadaveri.

Ammetto d'essere particolarmente scettico a certe leggende, ciononostante apprezzai il gesto da parte del mio capo ispettore di affidare a me un caso di così bassa importanza, giacché da poco ero uscito da una terribile vicenda di cronaca nera della quale preferisco non rievocare i terribili spettri.

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Ebbene iniziai ad indagare sul furto dei cadaveri passando così molto tempo nei pressi di quel grottesco e nequitoso cimitero in rovina ed ebbi modo di rivolgere alcune domande al becchino. Egli si mostrò assai scontroso e contraddittorio. Mi diede l'impressione che il posto per il quale lavorava ormai da moltissimi anni lo avesse mentalmente indebolito e reso demente e a tratti pure completamente folle.

Giunsi infine all'amara conclusione che per scoprire il vero volto del resurrezionista che si celava dietro alla scomparsa di salme, avrei dovuto passare una notte in quel cimitero. Così presi la decisione di appostarmi dietro il colonnato di pietra del portico, con lo sguardo vigile verso il cancello e il giardino centrale. Con me avevo un litro di caffè ormai freddo che mi aiutava a restare sveglio e concentrato, tuttavia tentavo con ogni mia forza di farne il meno uso possibile per non creare rumori sospetti, altrimenti il mio ladro di cadaveri, in tal caso, sarebbe fuggito ancor prima di entrare.

Poco oltre la mezza notte, attraverso una fila di cespugli aderenti al muro ovest della struttura, comparve incappucciato un uomo che sapeva bene come muoversi tra le lapidi e pure come sfruttare a suo vantaggio le ombre prodotte dalla luna piena nel nero cielo stellato e freddo. Seguii le sue mosse e notai in lui un'estrema precisione e talento in ciò che faceva finché l'individuo non scoperchiò il feretro intatto infilando la salma in un sacco di canapa che si era portato appresso. Qualcosa mi bloccò dall'intervenire e, giacché dovevo mostrarmi prudente, non volli fare mosse frettolose e ardite continuando così ad osservare il meticoloso riassestamento della terra ai piedi della lapide e dei fiori nel vaso accanto. Per farsi un po' di luce il misterioso uomo si aiutava utilizzando una piccola lanterna cieca che portava con sé sotto il pastrano. Terminato quel macabro lavoro egli, attraverso i cespugli e l'edera, scomparve definitivamente dalla mia visuale portando sulle spalle il sacco di canapa.

Attraversai incerto il giardino avvicinandomi ai cespugli e notai che fra loro v'era un passaggio scavato nella parete rocciosa, capii dunque come all'individuo gli riuscisse così facilmente entrare e uscire dal campo santo senza essere notato.

Lo seguii furtivo per tetre campagne e nella gelida notte mentre intorno si risvegliavano i latrati di tutte quelle bestie rinnegate dal creatore e costrette a camminare per metà demoni e per metà animali sul suolo terrestre. Giunsi infine a all'ultima casa alla fine del sentiero: essa torreggiava sul mio

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volto come un'antica dea del sangue che mi richiamava invitandomi ad entrare con parole suadenti, intanto la pianura a me attorno s'era ristretta e l'umidità aveva reso l'aria irrespirabile. Mentre le imposte scricchiolavano, le assi dei pavimenti vibravano di vita propria dai tarli e dai vermi che vi dimoravano e così, colto da un puro e istintivo scatto di terrore, entrai al suo interno con la sensazione di avere un ignoto nemico alle spalle pronto ad aprire insanguinanti fauci di fuoco. Una volta entrato fui subito nauseato e aggredito dal terribile puzzo di miasmi malsani dei gas di putrefazione che si univano all'aria già pesante dell'estate e all'odore frustrante del chiuso e della muffa sui mobili e sulle pareti.

Tentai di rimanere lucido e di non farmi prendere dal panico, concentrandomi con attenzione sulla prima immagine che mi capitò sotto gli occhi. Si trattava di una fotografia incorniciata alla parete, in essa era impressa un'imponente struttura sotto la quale stava un uomo in compagnia di due graziose infermiere e, sul margine destro verso il basso, una scritta:

Al nuovo primario, il Dottor Crugher. Manicomio di Chesterfield. 1992

Dunque, dopo essermi relativamente calmato, procedetti ascoltando il rumore dei miei passi, ma sopratutto i terribili suoni di strumenti metallici provenienti dallo scantinato.

L'evento terribile sopraggiunse quando individuai tra le luci soffuse e scarlatte del sotterraneo dozzine di corpi ammucchiati e un paio di occhi gialli sospesi nel vuoto buio intenti a fissarmi da un angolo oscuro. Prima di andarmene correndo da quell'infernale magione notai un bizzarro libro che da solo, retto da una forza invisibile, stava aperto a mezz'aria e, ora che scrivo e rammento, era proprio l'almanacco ad emanare quella terribile luce rossastra.

Tornai alla mia stanza a Sundown accertandomi di aver ben chiuso porte e finestre e intanto il cuore mi batteva in gola mentre il mio corpo giaceva paralizzato e inerte sul pavimento. Quella notte cercai di calmarmi sforzandomi di rammentare l'accaduto e di trascriverlo prima che un blocco d'amnesia mi invadesse il cervello negandomi d'aver mai visto quelle orribili sequenze. Non presi affatto congedo dalla veglia e restai insonne a pensare sul bordo del letto.

All'alba il mio corpo cedette al sonno e quando nel meriggio mi

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risvegliai fui allarmato immediatamente da un indecifrabile e bizzarro silenzio che prese a torturami il cervello rendendo d'uopo scendere in città per accertami della situazione. In strada non v'era alcun calpestio, ne passeggio e i negozi giacevano chiusi sotto i portici, nemmeno il verso allegro di un bambino nei pressi del parco. Sembravano essere tutti scomparsi e dissolti, neppure il rumore del vento per effetto dell'afa soffocante.

Sul limaccioso terreno notai un elevato numero di impronte di scarpe dirette nella medesima direzione, decisi dunque di seguirle ed esse mi condussero al fiume a nord est del paese.

Oltre i roveti, tra le erbacce alte sul lento letto del fiume, giaceva immobile una distesa di cadaveri col volto rivolto verso il fondale. Uomini, donne e bambini che inghiottivano fango e alghe, trascinati dalla calma corrente. Tutti gli abitanti del paese stavano lì, a macerare alla canicola del meriggio sulle acque ardenti, di fronte ai miei occhi increduli.

Dopo essere svenuto mi destai in un luogo buio e freddo coi granelli di terra tra i denti e, sul palato, il ferroso sapore del sangue amaro. Mi resi conto solo in seguito di essere stato catturato e rinchiuso nello scantinato di quel terribile essere, incatenato tra incubo e realtà.

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Il necromante Parte 2

Da qualche mese il manicomio di Chesterfield aveva ripreso

a rigettare le sue perdute urla strazianti giacché undici nuovi detenuti, con forme gravi di psicosi, erano entrati tra quelle mura sotto la direzione del Dottor Crugher. Egli, a differenza del precedente primario, il Dottor Heinz, preferiva adottare metodi moderni di cura mentale tra cui la somministrazione giornaliera di potenti farmaci tranquillanti.

Quando arrivai al manicomio di Chesterfield all'inizio di Maggio, in veste di nuovo prete per la parrocchia dell'ospedale, giunsero a me interessanti voci su alcuni studi personali del Dottor Crugher a riguardo di farmaci naturali non ancora sperimentati e testati che egli stesso stava producendo. Quel suo interesse mi incuriosiva e, nonostante egli mi tenesse all'oscuro su simili questioni, cercai più volte di scoprire i suoi scopi e metodi terapeutici, tuttavia con risultati assai vani. Ciononostante mi terrorizzava l'idea che il Dottor Crugher potesse sperimentare le sue nuove cure direttamente sui paziente trattando loro come cavie, dunque, per un periodo piuttosto longevo, l'osservai, talvolta pedinandolo, in modo da assicurarmi che egli non mettesse in atto nulla, dando forma alle mie giustificate paure.

Un giorno, dopo la messa nel carcere, seguii di Dottor Crugher fino all'ultima cella ancora per il momento scevra d'ospiti, Mi annoiai ad osservarlo per quasi un'ora in cerca di qualche cosa che sembrava aver perduto. Egli rovistava dappertutto e si stizziva ogni qualvolta non trovava, dietro le numerose scartoffie, l'oggetto che andava cercando.

Mi informai a proposito di quella cella da una delle ex guardie di sorveglianza, un certo J. M. che mi rivelò un terribile accaduto, testimonianza della frenetica attività del demonio sulla terra. Dalle parole che la guardia utilizzò, ma sopratutto dal tono di voce strozzato e dall'espressione d'orrore

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sul volto, avvertii, in quel bizzarro racconto, un senso di assoluta verità. Egli sembrava aver visto il demonio camminare con piedi umani tra le mura del manicomio e in ciò che attentamente sussurrava percepivo il male farsi carne. Egli mi assicurò di non stare vaneggiando e che, dopo anni passati tra i malati mentali, egli aveva imparato ormai a farci una certa abitudine, confermandomi così che il male di cui parlava andava certamente oltre l'insania.

Mi narrò di un manoscritto andato perduto dopo la morte del suo autore e in seguito alla scomparsa improvvisa e ingiustificabile d'ogni detenuto, tuttavia egli mi confidò di aver preso di sua iniziativa la scelta di essere trasferito poiché mi testimoniava, con vivido ardore, di aver udito, nelle ore notturne, i lamenti dei detenuti scoparsi e le loro voci sussurrare da cella a cella e i graffi sulle pareti imbottite e i gemiti strozzati nell'aria pesantemente umida dei corridoi soffusi. Un notte mi raccontò di aver udito dei graffi così reali che stridevano sulla porta metallica di una cella che, quando andò a controllare, ne scoprì i segni freschi e alcune gocce di rosso umano scendere ticchettando sul pavimento.

Pregai il Signore perché la sua voce potente potesse donarmi conforto nelle lunghe giornate che ero costretto a trascorre al manicomio di Chesterfield finché non venni a conoscenza di una tremenda verità.

Il Dottor Crugher aveva da tempo assunto atteggiamenti bizzarri e insoliti giacché alla mattina lo si vedeva stanco e rigonfio e gli occhi lividi o arrossati e di notte, sulla torre del suo studio, si potevano sentire vacui lamenti come se egli fosse in compagnia di qualcuno e, certe persone che abitavano poco distanti, giuravano di vedere, durante la notte, una sinistro bagliore scarlatto attraverso gli scuri serrati di quelle finestre.

Credendo dunque che l'incertezza fosse peggiore della verità tornai qualche tempo dopo ad indagare finché una sera, prostrato dalla tensione nervosa, mi accertai che il Dottor Crugher fosse uscito dalla porta principale diretto al paese. Entrai così finalmente nella torre che occupava e che egli, così gelosamente, teneva serrata. Lì davanti allo scempio giacque inerme il mio allucinato sguardo di terrore. Sul tavolo operatorio era disteso una cadavere di donna con la testa mozzata ed ella, nonostante fosse assai pallida e scevra di vita, muoveva a tempo di musica, le dita di entrambe le mani come stesse suonando uno strumento a tasti. In preda alla disperaggine, senza alcun dimoro, crollai sul pavimento incrostato col volto greve e gonfio di lacrime e,

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in quella frenesia, prese forma nella mia mente l'immagine di Cristo che abbandonava, con occhi rassegnati e per metà avvolti da un tenebroso sudario, questa terra infestata dal male. Solo quando alzai lo sguardo mi accorsi del libro sospeso a mezz'aria e del bagliore scarlatto che esso emanava dalle sue pagine. Il libro illuminava il disordine totale della sala dove alambicchi, mortai e storte si intrecciavano con le note scritte a mano e con gli strumenti di chirurgia sui tavoli della stanza. Sembrava esserci un forte legame tra il libro e quelle dita che da sole si muovevano nell'aria intrisa di morte e sangue. Quel legame era reso evidente da un sottile filo dorato che si insinuava attraverso il bagliore dal libro verso il corpo come se quest'ultimo avesse ritrovato la sua anima e la stesse richiamando a sé. Lessi frettolosamente e in preda a una crisi di forte panico alcune delle note poste sul tavolo e la tesi, che s'era formata nella mia mente, acquistò forza e importanza finché alla miei orecchie non giunse il fastidioso calpestio di passi nell'atrio vuoto al piano sottostante. Abbandonai quel luogo infestato il più silenziosamente possibile e raggiunsi la mia stanza cedendo il passo al sonno poiché la mia mente aveva un assoluto bisogno d'emergere da quel caos di voci e anime di cui si era improvvisamente riempito il manicomio.

Un'idea che mi attacca ogni notte è il pensiero di aver conosciuto un uomo che, catturato dall'infinito desiderio di conoscenza, indossava nel quotidiano la maschera del meticoloso e sano intellettuale per celare i suoi crimini e la mia domanda si rivolgeva a me stesso poiché a volte, in genere nelle ore notturne, ancora mi domando se anch'io non stia indossando le miei vesti di prete per celare la tremenda condanna di oscurità di cui ogni uomo è pervaso e afflitto.

Non seppi esattamente cosa accadde in seguito alla mia denuncia e all'arrivo delle forze dell'ordine, ciò che tutt'ora mi terrorizza, nonostante il mio recente ritorno in Italia, è la voce che il Dottor Crugher sia scampato all'arresto e che tutt'ora erri solitario, forse in mia ricerca, ancora in possesso di quell'insano e mefistofelico manoscritto, forse chiave e porta d'altri mondi completamente a noi sconosciuti.

L'unica cosa che scoprii tramite gli inquirenti fu solo che il corpo femminile, travato nello studio scevro di capo, apparteneva ad una nota pianista del Louisiana, qualche anno prima morta in seguito a un terribile incidente.

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Il paese della morte

Il lettore rimarrà incredulo alle parole che compongono il mio

racconto, e spero d'essere in grado di descrivere ciò che accadde nella cittadina di Albiesville in maniera così vicina alla realtà, da essere finalmente creduto.

Le miei origini risalgono al medioevo e alla mie spalle si apre un fitta rete di parenti e generazioni, che non sono orgoglioso di elencare o presentare al mio caro lettore. Dunque ognuno di essi è nato e vissuto a Albiesville nell'antica magione dei Lloyd e, come ogni cittadino di Albiesville, è anche morto nei pressi del paese. Si mormora che anche quelle persone che per lavoro o per famiglia avevano deciso di trasferirsi e stabilirsi altrove, al momento della vecchiaia tornavano al paese natale per accogliere il loro destino.

Da moltissimo tempo non non mi recavo a trovare i miei parenti e la scorsa estate, giacché mi trovavo nei paraggi della campagne, ebbi l'idea di fermarmi per due soli giorni alla villa.

Non appena giunsi fui accolto benevolmente da ciascun membro e il mio inaspettato arrivo creò un così grande scompiglio che venne organizzata al momento un'importante cena, ritrovo di tutta la numerosa famiglia Lloyd. E seduti tutti al grande tavolo di mogano del soggiorno, illuminati dai lampadari appesi e dalla brace del camino, venni nuovamente assorbito da tutti quegli eventi e pettegolezzi di paese dei quali, trasferendomi in città, avevo perduto completo interesse. Rimasi comunque ad ascoltare e, a dir il vero, non fui più di tanto al centro dell'attenzione se non quando zia Meryl non prese a setacciare la mia vita privata con imbarazzanti domande alle quali tutti scoppiarono in grosse risate.

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Notai che alcuni membri non si erano presentati alla cena e venni informato che essi erano morti poiché giunti alla vecchiaia. Venni poi aggredito da profondo rammarico quando scoprii che tra i deceduti v'era anche in nonno Anthony con il quale avevo trascorso in gioventù splendide giornate. Era però ancora in vita la moglie, ovvero mia nonna Agatha, che durante il banchetto interloquì di rado, forse a causa della recente scomparsa del marito. Ella stava seduta a stuzzicare qualche piatto interessante e di tanto in tanto sorseggiava dal bicchiere di vino che a fatica reggeva in mano. In quelle condizioni ella mi faceva enorme compassione.

Terminato il banchetto la scena si spostò in salotto ove venne aperta, in mio onore, un'importate bottiglia di brandy. Durante la bevuta mi sentii autorizzato ad andare da nonna Agatha per mostrare le miei più sincere condoglianze, tuttavia ella, alle mie confortanti parole, scoppio in modo inaspettato in un'agghiacciante e folle risata che mi raggelò le vene. Nessuno però sembrò accorgersene ed io seguii quell'apatica situazione unendomi all'atteggiamento indifferente della massa sebbene, dentro di me, dimorò per tutta la serata un lume di inspiegabile terrore e disagio.

A tarda notte venni accompagnato alla mia camera da letto al secondo piano e presi congedo ringraziando dell'ottimo banchetto e della splendida compagnia.

Nella stanza venni avvolto da un tetro abissale silenzio che venne attenuato dalla meravigliosa vista che la finestra poteva offrirmi poiché, attraverso di essa, potevo osservare dall'alto la nera campagna e tutte le strade e le case di Albiesville giacché la magione dei Lloyd si poneva rialzata su di un colle torreggiante e maestosa su tutto il paese.

Quella notte fui aggredito però da bizzarri incubi e svegliandomi più volte di soprassalto non potei affatto non notare alcune piccole luci oltre la finestra spalancata. Quando mi affacciai intimorito scoprii che esse si muovevano nel buio l'una dietro all'altra per la via principale del paese verso l'oscura campagna.

Errai allora per la magione scoprendola misteriosamente vuota, tutti i miei parenti sembravano essere scomparsi nel nulla. Agguantai allora il pastrano ed uscii silenziosamente dalla villa cercando di giungere più in fretta possibile il paese, giacché quel particolare evento notturno aveva creato in me un intenso desiderio di soddisfare quella mia curiosità.

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Giusi attraverso un stretta e angusta via laterale presso il corteo e, coperto dalle tenebre, osservai la fila di gente incappucciata che reggeva tra le mani un piccolo cero e che, a passi lenti, camminava con sguardo basso sussurrando lievemente una incomprensibile filastrocca o preghiera. I miei occhi erano assai increduli e il mio corpo attonito se ne stava nascosto attaccato da improvvisi brividi che nascevano dall'eccitazione, dal terrore e dal freddo che era inaspettatamente calato su tutto il paese.

Segui il corteo lentamente e senza farmi notare, fintanto che non si giunse nel cuore della campagna presso una piccola facciata di una cappella abbandonata posta in rientranza di un versante di collina. In verità si trattava di un'immensa cavità, simile ad una grotta, dentro la quale vi stavano pressoché tutti i cittadini del paese. Entrai per ultimo e di soppiatto, rimanendo nascosto dalle colonne di pietra che reggevano l'intera maestosa struttura. Partecipai così ad una lunghissima messa recitata in una lingua a me sconosciuta, ma quei versi richiamavano a me un qualche cosa di familiare e noto che tuttavia non riuscivo a rammentare. Sebbene non conoscessi il significato di quelle parole esse esercitavano su di me un vertiginoso senso di malessere mentale accentuato da un'inspiegabile terrore che mi andava crescendo nel petto.

Ciò che vidi in seguito fu atroce e terrificante giacché notai, con imbarazzante sorpresa e angoscia, mia nonna Agatha distesa su di un altare al centro della grotta. Un uomo definibile come il sacerdote che a morsi le staccava inghiottendo interi pezzi di carne dal collo. In seguito quell'orgia di gente, che partecipava indifferente all'abuso straziante, si unì al banchetto di carne umana con fauci coperte di sangue e lembi di tessuti e organi tra le laide mani inzuppate, finché di mia nonna Agatha non restò che qualche spolpato osso e i rivoli di sangue scuro illuminato dalle torce appesa alle pareti.

Terrorizzato tentai la fuga attraverso l'ombra dei colonnati e sebbene il panico mi avesse assalito cercai di mantenere la calma finché non fui completamente giunto all'esterno della grotta, oltre una fila di olmi poco distante. Lì per poco non svenni al richiamo di quelle orribili immagini, sicché raggiunsi di fretta la magione, col pensiero d'essere inseguito dalle ombre notturne che s'inerpicavano in ogni momento attorno al mio essere tremante paura.

Mi infilai nella mia stanza aspettando con pazienza il ritorno della mia

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famiglia da quella messa nera. Fino al giungere dell'alba restai con gli occhi spalancati e le orecchie ben tese. Nel mentre notai affisso alla parete una quadro raffigurante l'albero genealogico dei Lloyd di Albiesville. Dovendo rimanere concentrato su qualche cosa che mi distraesse da certe orribili visioni cominciai a studiare i nomi e le date dei membri. Notai così che ognuno di essi era morto all'età di settantanove anni, nessuno prima e nessuno. A quel bizzarro dettaglio ricordai che anche mia nonna Agatha, quella stessa sera, avrebbe compiuto settantanove anni.

Ciò che avvenne in seguito alle mie successive ricerche in merito alla mia famiglia evito assolutamente di raccontarlo, poiché desterebbe in voi lettori incubi ben peggiori di qualunque altro terrificante sogno che avete ora il coraggio di rammentare.

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Jennifer

Giorni fa si parlava al pub di Jimmy Boyle di quello che

accadde tantissimi anni prima, quando ancora frequentavamo le scuole elementari Saint Mary in Rover Street nel 1993. A quell'epoca abitavo in campagna con i miei genitori ed ero avvezzo ad andare a scuola su di una bicicletta sgangherata attraverso la via di campagna che portava al paese di Mason Creek. Ricordo ancora tutta quella strada ghiaiata che dovevo percorrere da solo ogni mattina e il cane dei signori Hoover che alle volte, quando mi sentiva arrivare, mi inseguiva ringhiando e abbaiando furiosamente fino alla fine della strada. La scuola era un vecchio edifico molto imponente intorno al quale si stringeva un grosso muro alto circa un metro sul quale spuntavano, dal cemento verso l'alto, le arrugginite lance nere del cancello e del recinto.

A quell'età si è avvezzi a inventare storie e v'è sempre qualche bambino più fantasioso di altri che s'impegna a raccontarne una dell'orrore. Giacché sotto i due piani della pesante struttura si stendeva sottile una linea di grate verticali che facevano intravedere il buio ed l'inutilizzato sotterraneo della scuola, non passò molto tempo prima che qualcuno utilizzasse una simile ambientazione per terrorizzare i propri compagni di classe.

Quel qualcuno fu un certo Harry Milton, più grande di me di un anno che se andava, durante l'ora di ricreazione, a raccontare, a chiunque incontrasse nell'ampio giardino, di ciò che aveva visto in quel sotterraneo un mattina. Harry Milton aveva una ristretta cerchia di amici per via del suo carattere solitario ed introverso. Egli se ne stava gran parte del tempo a scrutare quei sotterranei abbandonati e qualcuno giurava di averlo visto parlare da solo. Finì più di una volta dal preside quell'anno e vennero

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ripetutamente richiamati dagli insegnati i suoi genitori che non potevano far altro che ripetere che Harry era un bambino molto creativo. Giuravano ogni volta di non essere loro ad incitare Harry ai racconti dell'orrore e di non aver mai fatto guardare nessun film non adatto alla sua giovane età. Nessuna sapeva dove Harry recuperava quelle drammatiche e sconvolgenti storie, nessuno immaginava che potevano trattarsi di realtà.

In quegli anni inoltre non era educato parlare di certi argomenti poiché furono gli anni neri macchiati dall'avvento di tutte quelle sparizioni di ragazzi e ragazze. Il tema dunque era ancora censurato per non urtare i poveri genitori che avevano perduto i loro ragazzi e di tutte quei vuoti feretri disposti l'uno dietro all'altro al cimitero di Rockmoore.

Ebbene Harry Milton, all'età di soli nove anni, affermava di aver visto qualcosa muoversi nel sotterraneo e di averlo seguito fino all'ala ovest della scuola dove credeva di aver udito un agghiacciate sibilo simile a un pianto bambino. Ricordo che dopo avermelo raccontato aiutai Harry nelle sue ricerche per un breve periodo finché non provai un'improvvisa sensazione di alienazione dai miei compagni e amici che, nonostante condividessero l'interesse sul quel mistero, non approvavano il fatto che mi fossi avvicinato a Harry Milton.

Dunque lasciai perdere la leggenda che nel frattempo era nata sulle labbra di tutti ovvero che il fantasma di una ragazza, a cui era stato dato il nome Jennifer, dimorasse in quelle cantine vagando sola ancora in cerca di fuga dal terribile incendio del 1889. Finché un giorno di novembre non accadde che, nel mezzo della ricreazione, non scoppiò un violento temporale che ci costrinse tutti a rientrare in aula. Mentre correvo verso la porta di ingresso ricordai di aver lasciato in mio cappotto di lana nel giardino affianco all'altalena, dunque corsi nella direzione opposta ai miei compagni, seppur la maestra continuasse a gridare a tutti di fare in fretta a rientrare all'asciutto e al caldo per evitare un tremendo raffreddore. Giunto all'altalena agguantai il giubbotto e in quell'attimo il mio sguardo cadde su una delle grate dalle quali si poteva intravedere lo scantinato della scuola. Nello stesso attimo in cui un violentissimo fulmine comparì nel cielo, diramandosi bluastro tra le nubi, riconobbi la forma di due occhi feroci ed illuminati da una strana e bizzarra luce scarlatta.

Rimasi muto e zitto con tutti per un po' di tempo finché non mi passò

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il terrore. Non dissi nulla nemmeno ad Harry Milton che poveretto, a pensarci bene ora, a tanti anni di distanza, mi fa una certa pena al ricordo che ancora tutti hanno di lui.

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L'anfitrione

Sono certo che ciò che vi racconterò in queste pagine non

verrà compreso fino in fondo dal lettore moderno e scettico, tuttavia tenterò d'essere più abile possibile nel descrivere con zelo e razionalità ciò che accadde qualche tempo fa a un mio carissimo amico.

Da tempo si narravano storie a proposito di un lento regolare respiro che si gonfiava ed espandeva tra i rami umidi di rugiada e giù per i fossati, attraverso le aguzze contrade di campagna. I contadini si levavano prima dell'alba con affannoso brivido nel cuore giacché, come l'ombra nera d'un artiglio, il nequitoso respiro lacerava lentamente la notte insinuandosi in ogni mente a quell'ora eccitata dal sogno. La povera gente di paese raccontava del nefasto suono descrivendolo come il respiro del demonio e che la vetusta e abbandonata villa nella solitaria campagna fosse la sua ufficiale dimora. Altri invece recitavano al volgo una bizzarra leggenda sul misterioso accordo avvenuto tra la comunità di contadini abitanti della zona e un'errante spirito pallido che sul finire del XII Secolo avrebbe donato all'uomo l'immunità alla morte che recava la palude e i suoi insetti. Da allora, secondo la leggenda, essi coltivano la terra di generazione in generazione sopravvivendo alla mortale malaria.

Ebbene il mio caro amico mi rese partecipe un giorno di queste leggende, essendo lui stesso un coraggioso appassionato. Mi raccontò dunque del suo ovvio interesse per quella casa nella solitaria campagna, oltre il paese. Conquistò da subito la mia attenzione poiché, dalla finestra della mia camera da letto, al penultimo piano di un grande palazzo, si stendevano le nebbiose campagne sulle quali torreggiava inquieta e trionfante la vetusta magione e spesso prendevo congedo dalla veglia con una sensazione simile a un brivido mentre l'ombra scura, dipinta all'orizzonte, riprendeva forma nei miei incubi.

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Un giorno d'estate afosa, quando l'aria era ricca d'umidità e sotto gli alberi fitti gli insetti ronzavano agitati, il mio amico ed io prendemmo la decisione di raggiungere a piedi la casa e il tragitto iniziale fu alquanto piacevole poiché, almeno per mio conto, era una leggiadra gioia poter godere della natura e dei suoi cangianti colori e suoni.

Durante tutto il percorso il mio caro amico mi raccontò nel dettaglio i risultati delle ricerche che aveva compiuto a proposito della magione che stavano andando a far visita. Ebbene egli disse entusiasta che non vi erano testimonianze scritte sulla data di costruzione della villa e nemmeno dei suoi antichi proprietari, poiché di essa non v'era alcuna traccia, tuttavia era noto il suo ultimo proprietario che risaliva però ad un popolare poeta e scrittore del 1400 che aveva acquistato la villa ed utilizzata come residenza estiva per qualche tempo finché non fu trovato privo di vita nelle cantine sotterranee della magione. Della causa della morte del poeta, disse il mio caro amico, non v'erano notizie certe e che ciò di cui si era a conoscenza era stato perduto nel tempo, oscurato dal passaggio dei secoli.

Notammo a un certo punto, oramai giunti alla metà del versante di una collina, che ogni nostro passo diventava sempre più incerto e che la natura non ci avvolgeva più con tenero rispetto, ma iniziava ad esserci ostile. Molto probabilmente si trattava di una nostra percezione inconscia sapendo d'essere quasi giunti al luogo del terrore, tuttavia del lento respiro non v'era traccia, soltanto l'alzarsi improvviso e a tratti di qualche folata di vento sulla cima degli alberi che, a dir la verità, ci recava un certo rigenerante sollievo dall'afosa giornata.

Giunti al negletto giardino dell'antica dimora fummo aggrediti da uno spasmo di sotterranea iniquità che si rivelò non tanto nei gesti, ma nelle parole che iniziammo a scambiarci. Eravamo nervosi e un tantino isterici l'uno con l'altro. Eravamo indecisi sul da farsi poiché io suggerivo che entrambi entrassimo nella casa abbandonata, mentre il mio amico insisteva ch'io dovessi rimanere all'esterno ad attenderlo finché non fosse tornato. Gli domandai il motivo e lui rispose che quella era considerata una proprietà privata e che se qualcheduno ci avesse seguito o notati avrebbe chiamato le autorità dunque, se io fossi rimasto a sorvegliare l'esterno, lui sarebbe stato assai più tranquillo nel compiere le sue ricerche all'interno certo della mia affidabile guardia.

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Così dunque fu deciso e il mio amico entrò nell'edificio buio ed umido i cui alti scuri ai piani superiori scricchiolavano e battevano contro le mura increspate e gli echi dei passi di certi animali sui pavimenti impolverati componevano oscure melodie che, la platea di alberi intorno alla villa, apprezzava rispondendo con sibili e fruscii di rami e con la pioggia di prime foglie mature.

Rimasi così in solitudine minacciato dall'imponente villa e da tutti quei molesti rumori che si amplificavano prendendo vita nella mia mente. In certi istanti avevo l'intensa percezione d'essere osservato e che un occhio mi scrutava tra i roveti e allora mi voltavo in sua ricerca finché non lo avvertivo nuovamente alle mie spalle e il giro di giostra proseguiva.

Finché non lo sentii. Esatto, udii il famoso respiro lento e regolare accompagnato da un ovattato battito cardiaco che scendeva dalle mura fino al mio irrigidito ventre e, in quell'istante, fui terrorizzato dalla sorte del mio amico che stava dentro quell'infernale casa il cui anfitrione era il demonio ed io all'esterno attendevo con ansia la sua ricomparsa sicché potessi fuggire da quell'incubo.

Egli finalmente uscì dalla penombra angusta dell'ingresso raggiungendomi presso il giardino. Tentai incuriosito di domandargli che cosa egli avesse visto o se le sue ricerche fossero andate a buon fine, ma il mio amico non rispondeva a nessuna domanda e indossava occhi vuoti e raminghi di bizzarri pensieri. Allorché non aggiunsi nulla, adattandomi a quel singolare silenzio. Accelerai il passo poiché era mia intenzione tornarmene in paese e lasciare cadere nell'oblio quell'avventuroso pomeriggio.

Nonostante fossimo ormai giunti alle porte del paese, oltre la solitaria campagna, avvertivo alle mie spalle ancora intenso il brivido dell'ignoto scrutatore il cui occhio continuava, non so come, a osservarmi oltre le file di alberi.

Giunti a casa il mio amico ed io ci salutammo con freddezza ed io gli diedi congedo convinto che un sonno ristoratore lo avrebbe ravvivato e rigenerato. Me ne andai sicuro di trovare il giorno seguente il sorriso sulle labbra del mio giovane amico.

Non seppi mai ciò che accadde quella stessa notte finché non ritrovai per caso il suo diario. Per tutta la giornata successiva e quella dopo ancora, tutto il paese prese a cuore l'improvvisa scomparsa del mio amico e ciascun

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cittadino aiutò gli agenti a setacciare l'area in cerca del ragazzo. Il secondo giorno giunsero da fuori pure i sommozzatori che compirono accurate ricerche presso i canali e il macero oltre la fattoria di G.

Le ricerche furono vane e i genitori e parenti del mio amico erano assai disperati e pensavano continuamente al peggio. D'altro canto in me cresceva l'orrida sensazione che quell'escursione alla villa, oltre la campagna solitaria, avesse a che fare con la sua misteriosa scomparsa. Quel pensiero crebbe in me fino alla volta del quarto giorno quando finalmente ne ebbi la conferma dalle parole sul diario che voglio riportare in parte qui:

Quando giungi alla Sua soglia Egli ti domanda se vuoi entrare e se l'avventata curiosità umana ti fa acconsentire dovrai renderti consapevole d'essere stato tu ad entrare nelle Sue stanze. D'altronde il libero arbitrio è qualcosa che ci affligge dall'alba dei tempi. Dunque sei ben accolto eppure non Lo vedi e a stento Lo odi finché l'Anfitrione non ti accompagna dolcemente nella Sua stanza più segreta e ti rivela il Suo oggetto più prezioso come fa un vero padrone di casa con gli ospiti. Dunque di quell'oggetto egli ha somma paura e lo si percepisce solo dal tono con cui ti parla poiché non v'è alcun modo di vedere la Sua espressione e, in certi momenti, ti domandi se Egli realmente esiste ed ha consistenza. Il vuoto. E quando ti trovi di fronte allo specchio odi appieno la Sua voce come se Egli fosse finalmente in tua presenza. Accendi un piccola luce ed Egli ti mostra il suo mondo..

In altre pagine vi sono parole incomprensibili e su alcune dubito della loro origine linguistica.

Sono veramente preoccupato per la sorte del mio amico e ciò che egli scrisse in altri paragrafi evito di trascriverlo o tradurlo per ragioni delle quali non voglio ora discutere. Senza dir nulla ai famigliari andrò a investigare per conto del mio amico e ciò mi costringerà a far di nuovo visita al tetro anfitrione di cui si accenna nel diario del quale ancora non ho rivolto parola con nessuno.

Nel frattempo avverto in ogni istante di solitudine, seppur lontana, la soffocante presenza dell'occhio malvagio di quel che credo sia il nero guardiano della casa.

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Marionetta

A chi troverà questo folle racconto lascio in eredità i fatti

accaduti in sole due notti rinchiusi dentro questa orribile casa. Per qualche ignota ragione mi accadde d'essere divenuto in possesso di un prezioso invito inviatomi da un misterioso ospite che si firmava D. Ebbene costui, del quale ripeto non ero affatto a conoscenza, mi invitò personalmente a partecipare a un abbondante banchetto presso la sua magione, con la promessa che in seguito si sarebbe svolto un attento giuoco di ricerca di un ricco tesoro e che il fortunato che lo avrebbe trovato per primo sarebbe divenuto ricco. Sul momento non diedi attenzione a quelle parole, ma esse per tutto il giorno si impossessarono di me a tal punto da sentirmi costretto ad accettare.

Dunque al giorno e all'ora stabilita dalla lettera raggiunsi la maestosa villa che si levava alla fine d'un lungo viale alberato ed essa era ben curata e sfarzosa e il prato ben falciato ospitava rare specie di piante e fiori. In lontananza il ritmico suono dell'acqua di alcune fontane e i grilli e le rane oltre la fila di siepi grandiose rendevano l'atmosfera piuttosto tranquilla. Mi trovai al cospetto di altri cinque personaggi che come me avevano ricevuto la bizzarra proposta. Attendemmo per un tempo infinito che qualcuno ci venisse ad accogliere giacché la porta principale della villa era chiusa e dalle finestre non passava un filo di luce.

Tentammo invano di forzare la porta o di cercare ulteriori entrate secondarie finché, al ritorno dalla nostra perlustrazione, non ci venne fatta trovare la porta principale completamente spalancata ed agibile.

Con timore entrammo a piccoli passi forzati domandando ad alta voce l'ospitalità di qualcuno, ma nemmeno il respiro o l'ombra di un maggiordomo

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o del misterioso anfitrione di cui tutti volevano fare la conoscenza.Davanti ai nostri occhi si aprì l'immagine di una magnifica villa con

mobili antichi ed ampie arcate sorrette da terrificanti statue di marmo raffiguranti creature di una mitologia a me ignota. Tutte le pareti erano rivestite di una pacchiana carta da parati vermiglia, tuttavia ciò che catturò l'attenzione di noi tutti fu però un interessante particolare: un anonimo dipinto ad olio su tela posto davanti a noi subito oltre la soglia d'ingresso. Esso rappresentava, con grande cura, la facciata esterna della magione ai piedi della quale sei persone stavano in posa per il pittore. Mi avvicinai con attenzione al dipinto e m'accorsi, con sommo stupore, che le sei persone raffigurate eravamo noi stessi e, quando riuscii a catturare l'attenzione dei miei compagni, essi ne furono così turbati che Lady M. perse improvvisamente i sensi alla vista di quell'agghiacciante dettaglio. Il signor T. aiuto Lady M. a riacquistare le forze mentre io provvedevo a leggere a tutti la targhetta d'argento sotto la pesante cornice del quadro.

Benvenuti. Ora siete miei ospiti e per rispetto verso il vostro benevolo anfitrione non v'è permesso abbandonare la festa finché non vi sarà da Lui concesso.Servitevi del gustoso banchetto nell'ala Ovest e siate lieti dell'opportunità a voi offerta.Celato oltre queste mura v'è un'importante tesoro che vi renderà ricchi, tuttavia ogni azione ha un prezzo e non crediate sia semplice sfuggire al vostro destino poiché di esso non avrete alcun controllo...

Seguimmo il consiglio della targhetta e ci sedemmo comodi a banchettare assieme rivelando a noi stessi interessi e passioni e qualche dettaglio a proposito della vita privata di ciascuno. Ci accorgemmo solo in seguito che la porta della casa s'era silenziosamente e definitivamente serrata. Tentammo invano di aprirla e di trovare altre uscite ed ora che rammento, sorrido alla crudele ironia del destino, giacché pochi istanti prima nel parco della villa cercavamo tutti impazienti un passaggio per entrare e, poco dopo, sottratta la nostra libertà di scelta, eccoci disperati a cercare un modo per evadere da un ambiente divenuto a tutti noi improvvisamente ostile.

Non potendo dunque uscire iniziammo la nostra ricerca individuale

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del famigerato tesoro e il primo a sparire fu proprio il signor T. Egli s'era avventurato presso la sala della biblioteca e il signor Q., nei pressi di quell'atrio, giurò di aver udito un secco mortale urlo strozzato e poi un acuto silenzio. Noi tutti ci recammo alla biblioteca per accertarci dei fatti, ma non trovammo nulla se non qualche libro caduto dallo scaffale. Si trattavano di libri molto curiosi, scevri d'autore e in certi tratti scritti in una lingua arcaica, incomprensibile. Essi sembravano narrare le avventure di una remota e sconosciuta mitologia e il nome di una creatura divina mi rimase alla mente, ma non ne voglio scrivere il nome completo, così lo chiamerò solamente Lord. Sono sempre più convinto che esso sia il vero fautore di questa nostra tragedia. Lady M. era una signora composta e assai superstiziosa e fu ella a intimorire per prima i nostri animi con sacrileghe leggende e dettagli inventati. Sosteneva infatti di aver visto l'ombra nera sul cornicione delle scale che conducevano ai piani superiori e il rumore fastidioso delle dita intente a tamburellare gaie sulla ringhiera di legno. Ella divenne così insopportabilmente instabile che non ci lasciò altra scelta che soffocarla con un sacco non appena si fu coricata in attesa del sonno, in uno dei letti delle stanze degli ospiti. Fu una decisione buia e sofferta, ma ella non poteva continuare a creare tenebre nei nostri cuori.

Continuai le miei ricerche e più tardi mi accorsi di aver in petto la terribile sensazione d'essere in qualche modo posseduto da una demoniaca forza che dall'alto muoveva con maestria i miei pensieri e le mie azioni. Fu un pensiero breve e singolare ma di cui parlai al signor Q. il quale mi confermò che più volte anche lui aveva avuto la medesima impressione.

Non avevo idea di quanto tempo oramai fosse trascorso quando fummo catturati da un sinistro rumore proveniente dallo scantinato. Quando raggiungemmo il sotterraneo, oltre le umide pareti incrostate e giù per gli essudanti gradini di pietra, ci fu rivelato, dalla luce tremolante di una torcia, il corpo pallido senza vita della signora S. La causa della sua morte non fu chiara sebbene il signor Q. azzardò l'ipotesi che ella fosse distrattamente caduta dalle scale, giacché indossava sulla canuta pelle lividi di notevole grandezza.

Da quell'istante il tesoro iniziò ad occupare un posto sempre meno importante nelle nostre menti giacché eravamo rimasti solamente in tre. Capimmo in seguito che in giuoco vi erano le nostre vite.

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Notai, errando solitario per la casa, alcune stanze che prima avrei giurato non esistessero, ma quell'avventura s'era tramutata così velocemente in incubo che iniziai a dubitare di ogni senso.

Mi accadde di incontrare uno spettro scivolare incerto sulle pareti ombrose del secondo piano e, incuriosito, mi trovai a seguirlo lentamente, tentando di rimanere nascosto un po' dall'oscurità e un po' dal mobilio posto sul mio furtivo cammino.

Egli, in forma di scitale, lentamente mi condusse ad una stretta stanza che, pur essendo consapevole di trovarsi al piano superiore della magione, partoriva in me l'impressione sempre più viva che fosse in verità posta a decine di metri sotto il suolo. La temperatura diminuì fortemente e l'aria improvvisamente divenne densa e viziata.

Qui lo spettro si fermò dileguandosi sulla soglia di una piccola nicchia presso il muro ed io avvertii una amara solitudine. Mi avvicinai cauto a quel portale che per fattezze somigliava molto a un piccolo tempio. Cercai invano di richiamare lo spettro alla mia presenza. Su di uno scranno trovai un grazioso e lavorato coltello con particolari incisioni ed ornamenti sull'impugnatura e sul bisello alcune parole che preferirei non ripetere e trascrivere. Quando impugnai il coltello mi si rivelò il mio destino con chiare e accecanti immagini di un universo parallelo abitato da umanoidi creature signoreggiate da un antico demone che, con dita invisibile, tesseva il filo della loro vita su di una altura infuocata. Esso possedeva tre occhi, uno per ogni tempo e con essi governava.

Mi risvegliai in piedi di fronte al quadro posto all'ingresso e notai, senza particolare stupore, che solo del signor Q. era rimasta dipinta sulla tela l'immagine e, quando lo trovai poco tempo dopo ad accendere il caminetto del salone centrale, domandai a lui del signor C. ed egli mi rispose di non averlo più veduto dall'ultima volta quando, colto dal rovello, s'era deciso senza alcun dimoro di attraversare da solo le cantine convinto che la mappatura della casa, che aveva casualmente trovato in biblioteca, lo avrebbe condotto ad una possibile via di fuga sotterranea.

Sapendo dunque che il signor C. doveva essere ormai morto nel suo spavaldo tentativo, con naturale tranquillità infilai tra le carni del ventre del signor Q. il mio affilato coltello e attesi, con meticolosa calma e pazienza, che egli morisse. Quando il tappeto persiano ai piedi del camino fu

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completamente inzuppato di sangue e il signor Q. esanime, allora presi tarda coscienza di ciò che era accaduto, tuttavia il momento di lucidità mentale che mi era stato concesso fu breve, giusto l'attimo di prendere atto delle mie azioni e poi, di nuovo, mi sentii manovrato dall'alto da invisibili fili. Tuttora mi consumo nel piccolo tempio in attesa della Sua venuta.

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Onirico rosso

A seguito di un terribile terremoto che colpì il mio paese

qualche tempo fa l'appartamento, ove dimoravo da solo ormai da parecchi anni, fu classificato inagibile. Presi dunque alloggio presso un mio carissimo amico, la cui casa non aveva subito alcun danno grave. Egli abitava fuori città, sulla strada che conduceva all'aperta campagna. Fui lieto di conoscerlo e di essergli amico per l'aiuto e la disponibilità che egli mi stava offrendo dopo quel terribile evento naturale. La prima notte la passai insonne sul duro divano del salotto e il giorno seguente, pur scevro di forze, lo aiutai a mettere in ordine la cameretta di sua sorella minore, anni prima scivolata per sbaglio nelle grinfie d'un pozzo e mai più ritrovata. Ovviamente gli mostrai la mia apprensione nel sconsacrare quel luogo, giacché si trattava della stanza della sua piccola sorellina morta, ma il mio amico insistette a tal punto da convincermi che io, seppur un po' imbarazzato, accettai.

La seconda notte la passai tra le calde e pulite lenzuola di un letto comodo col volto appoggiato su di un morbido cuscino, tuttavia faticai comunque a prendere sonno poiché il letto in questione era adiacente a una delle pareti della stanza e su di essa, proprio sulla traiettoria del mio sguardo, v'erano disegnati, col carboncino, due occhi stilizzati dalla mano incerta di un bambino. Essi destarono in me immagini orribili e alla mattina mi levai dal letto col tremore e il volto pallido e madido di sudore, poiché durante la notte sognai di uccidere e sventrare un uomo in...Street e il sogno fu così reale e cruento che il giorno seguente avevo in viso i segni reali del dolore e un gravissimo senso di colpa mi aggrediva continuamente alle spalle.

Seduti sul prato tra profumatissimi coriandoli ed umida lucente matricaria, all'ombra dei viridi fogliami, confessai l'orrendo sogno al mio

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amico ed egli ascoltò quel macabro racconto finché non mi informò che alla radio, quella stessa mattina, avevano annunciato la scomparsa di un uomo in paese. La notizia e la tremenda analogia mi attaccarono ripetutamente il petto, tuttavia non feci trasparire nulla, tentando d'accettare quella casuale coincidenza.

Intanto anche la notte successiva fu perseguitata da quegli orribili occhi sulla parete e, anche se mi voltavo dandogli le spalle, essi mi perforavano la nuca entrandomi puntigliosi nel cervello. Quella notte sognai di raggruppare i pezzi del cadavere in un sacco che inserivo ad incastro nel baule di una macchina che andavo a posteggiare nel garage della fattoria del mio amico.

Quest'ultimo sogno fu così sincero che dovetti all'alba giungere di fretta al garage per assicurami che nel baule della mia auto non vi fosse alcun corpo mutilato. Con sommo piacere mi acquietai non appena fui certo di aver controllato. Il mio giovane amico comprese quel mio malessere ritenendo che esso derivava dal forte stress dovuto in seguito al terremoto. Dunque egli mi tranquillizzò con la sua compagnia per quasi tutto il pomeriggio, tuttavia quegli occhi sul muro mi apparivano spesso e all'improvviso come immagine muta e fissa simile ad un feroce folgore di luce nella mente e, in quel brevissimo istante, l'invisibile terrore mi abbracciava col sapore freddo della morte. Intanto alla radio non parlavano d'altro che della scomparsa di uomo e di alcune tracce di sangue ritrovate nei pressi di un parcheggio.

Oramai temevo la notte e con ferocia grattai con le unghie l'intonaco ove erano impressi gli occhi, ma essi continuavano a riapparire come se il muro avesse assorbito il colore e il male che essi arrecavano. Distanziai allora il letto dal muro, ma in quella posizione, circa al centro della stanza, la parete che mi lasciavo alle spalle rifletteva la propria immagine attraverso lo specchio accanto alla scrivania ed io non potevo impedire agli stilizzati occhi d'osservarmi. Quella notte sognai ancora il cadavere dentro al baule ed io che, a piccoli bocconi, mi cibavo della sua carne oramai in evidente stato di putrefazione. Mentre il sapore della pelle e del sangue coagulato si univa al puzzo di marcescenza invadendo la mia bocca e i miei polmoni mi resi conto che tutto ciò mi eccitava e mi piaceva. Non racconto in che modo mi svegliai e dell'aspetto che aveva il mio volto al ritorno dal mondo degli incubi poiché risulterebbe inesprimibile a parole anche per un abile scrittore. Quel giorno il

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mio amico aveva da sbrigare un importante impegno e dunque dovetti urgentemente chiamarlo al telefono per potermi sentire più tranquillo. Gli rammentai i sogni di cui già a lui avevo parlato nei giorni precedenti, tuttavia egli si mostrò, con mio raccapricciante terrore, ignaro di ciò che gli andavo dicendo sostenendo d'essere fuori casa da parecchi giorni e che da molto tempo non sentiva la mia voce. Credetti ovviamente d'essere burlato e, infastidito da quell'orribile scherzo, dichiarai con ira che se egli non avesse smesso di prendersi giuoco di me in quel modo, avrei considerato la nostra amicizia conclusa. Quando notai dal suo tono la profonda serietà di chi non mente, allora qualche cosa scattò rapida nella mia testa e subito andai al garage. Quel che vi trovai penso che nemmeno il demonio avrebbe avuto coraggio di attuare. Un abisso di follia mi invase e attonito di fronte a quello spettacolo attesi la chiusura del sipario con la mortale sensazione che una lama poco affilata di un bisturi tentasse di lacerare lentamente la corteccia del cervello mentre un rigurgito spontaneo, alla vista di tutto quel tessuto umano, mi fece per poco svenire.

Successivamente acquisii lucidità e allora assemblai i tasselli del puzzle ricostruendo ciò che era successo: l'universo di cui facevo parte s'era capovolto, sicché il sogno era la realtà e la realtà il sogno.

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Il rumore

Il tenero lettore che si troverà a leggere queste mie disperate

parole sarà sorpreso di scoprire come l'essere umano cammini costantemente sul filo della ragione e, passo dopo passo, egli attraversa la sua quotidianità e, sebbene sia ormai avvezzo e addestrato nel farlo, egli può in pochi istanti avvertire il vuoto e perdere improvvisamente l'equilibrio precipitando, dopo una vita retta e virtuosa, nel tragico baratro della follia. Ecco dunque che vi racconto come è andata questa triste storia.

Abitavo oramai da solo da qualche anno dopo la tragica scomparsa di mio padre e il ritiro di mia madre anziana in una casa di riposo. Risiedevo in un appartamento modesto al secondo piano di un altrettanto umile condominio e in quel luogo, sebbene io all'epoca presi a fare due lavori, non avevo avuto grosso modo di conoscere il mio vicinato più attiguo, se non un'amabile portinaia che ogni mattina aveva il buon cuore di salutarmi illuminandomi le ore successive della giornata. Costei, alle volte, mi allungava di fretta il quotidiano del giorno senza farmi pagare nulla. Questo perché il marito possedeva una nota edicola, presso la stazione dei treni in paese.

La mattina prestavo servizio in una stamberga poco lontana dal condominio in cui abitavo, tant'è che sovente preferivo arrivarci camminando giungendo per il viale alberato. Alla sera invece lavoravo come cameriere in un ristretto ristorante in periferia, quest'ultimo mestiere era assai ostico per via del diretto contatto con i clienti e sopratutto di loro certe pretese e richieste che in serata s'accumulavano divenendo la mia principale fonte di nervosismo e stress.

Nel pomeriggio invece cercavo di prendere sonno e ricaricarmi di nuove energie, tuttavia capii ben presto che questa non era affatto una

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questione semplice e banale, poiché una nuova famiglia si era da poco sistemata nell'appartamento esattamente sopra il mio ed essi, ovviamente ignari del mio bisogno di ristoro e con buone intenzioni, lasciavano giocare i due bambini nel piccolo parco sottostante, mentre loro terminavano di riordinare le stanze in seguito al trasloco.

Vi fu un pomeriggio d'inverno che prese a nevicare e tutti i bambini del vicinato cominciarono a divertirsi con la neve giocando perlopiù nel parco attiguo alla mia camera da letto e sotto il porticato dell'edificio. Nonostante avessi detto loro di allontanarsi un po' perché desideravo riposarmi essi non mi ascoltarono continuando le incessanti grida gioiose. Dunque mi voltavo continuamente sul letto che già di suo scricchiolava e alle volte m'impediva il sonno, provavo a cercar rifugio da quelle voci sotto spessi strati di coperte o avvolgendomi col viso nel cuscino premendo sulle orecchie, ma nulla da fare poiché esse s'insinuavano con la forza di un chiodo, attraverso le tempie, fino al cervello. Le grida dei bambini non era tuttavia ciò che più mi recava disturbo poiché vi era un rumore bizzarro che si faceva strada tra le pareti fino alla mia stanza ed esso era pure indefinibile seppur la mia mente si sforzasse di intuire da quale apparecchio provenisse. Assomigliava allo stridio di una tapparella arrugginita, tuttavia non poteva essere quella la fonte del mio rumore infernale, poiché esso poteva durare diversi minuti senza sosta e non vi erano tapparelle nel condominio da issare così a lungo. Quello stesso pomeriggio, tentando di mantenere la calma, suonai al campanello del mio nuovo vicinato e parlai con il signore e la signora F. del mio problema ed essi, cordiali e gentili, mi invitarono a sedere sul loro nuovo divano a bere una tazza di tè inglese. Ascoltarono con interesse ciò che avevo da dire e, dispiaciuti, mi raccomandarono che avrebbero portato i bambini al parco del paese. Per quanto riguarda il rumore giurarono entrambi di non aver udito nulla quel pomeriggio e che, se lo avessero sentito, avrebbero certamente provveduto.

Il giorno seguente, come promesso, i bambini furono lasciati al parco del paese e, nella zona attigua al condominio, regnò una splendida pace, tuttavia il mio sonno, da poco iniziato, fu bruscamente interrotto da quel fastidiosissimo rumore metallico e graffiante mentre l'immagine questa volta che mi apparve alla mente era quella di un rampino contro l'intonaco di una parete. Provai comunque di non pensarci e tentare di dormire, ma in me

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ribolliva il fuoco ardente della rabbia e più mi imponevo di non volgergli il pensiero, più il rumore aumentava di intensità. Quel pomeriggio non dormii affatto e la serata al ristorante fu difficile da sopportare, con il peso della stanchezza e le livide occhiaie.

Suonai nuovamente al vicinato poiché ero certo che il rumore provenisse dalla loro abitazione, ma essi negarono ancora l'esistenza di quell'orribile suono giurando di non aver udito nulla. In me crebbe presto il dubbio che essi provavano piacere nel burlarsi di me e della mia condizione, dunque sopportai in silenzio, senza più lamentarmi, per altre due settimane attendendo con ansia che quel lancinante rumore terminasse e che il divertimento dei due coniugi, nel vedermi soffrire, giungesse al termine giacché non destavo più alcuna polemica. Tuttavia il rumore non cessò continuò ad echeggiare per le mura del mio appartamento giungendo come una flotta di aghi nel mio cervello sanguinate di rabbia.

Una sera di Febbraio decisi di non andare al lavoro con la scusante che, durante il giorno, ero stato colpito da una improvvisa febbre e il mio titolare, un certo signor H., mi augurò ogni bene nell'attesa che mi riprendessi al più presto.

Dunque a crepuscolo inoltrato, avvolto dalle ombre dei corridoi, salii le scale al piano di sopra e, con un pretesto, entrai in casa dei miei simpatici vicini che si dimostrarono, come sempre, cordiali e felici della mia inaspettata visita. Parlai con loro per circa una mezz'oretta tentando di decifrare qualche espressione sotto la maschera che in qualche modo li incriminasse e li tradisse. Io sapevo che erano loro che causavano quel rumore, ne ero certo e, nonostante il rovello, rimasi impassibile, quieto e lucido quando parlai con loro. Intanto i bambini andarono a letto e il signore e la signora F. si accomodarono sulla parte opposta del divano.

Ogni minuto che passavo in loro presenza diveniva sempre più insopportabile quell'orribile farsa fintanto che, dal pastrano che ancora avevo addosso, non sollevai un lungo e appena affilato coltello che il cuoco del ristorante per cui lavoravo mi aveva gentilmente concesso di prendere in prestito. Non rammento esattamente la prima espressione di stupore che i miei vicini ebbero alla vista di quell'inaspettato oggetto poiché, non appena lo mostrai loro, esso venne indirizzato dalla mia mano attraverso la loro gola. Il taglio profondo che recai loro gettò nell'aria moltissimo sangue e impedì loro

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di strillare e richiamare l'attenzione di qualcuno. Contemplai la scena per qualche minuto seduto esattamente davanti a loro ad osservare il progressivo impallidire dei volti finché essi non svennero per via dell'alta quantità di sangue perduto.

Dopodiché mi alzai e uccisi con decisione anche i due figli che nel frattempo non s'erano accorti di nulla nel sonno leggiadro e tranquillo che a me era stato negato. I loro corpi mutilati inzupparono le lenzuola con aloni scuri.

Quella notte dormii serenamente e scevro di rimorso fino al giorno seguente quando fui destato dalle indagini degli agenti di polizia. Ovviamente negai l'accaduto e, con una certa soddisfazione in viso, tentai la sorte invitandoli ad entrare e controllare l'appartamento anche senza mandato di perquisizione. Fu un gesto azzardato e folle che mi eccitò finché, con aria beffarda non li salutai augurando loro una buona giornata. Senz'altro quel mio atteggiamento fece nascere un certo sospetto nei miei confronti, ma non me ne curai poiché finalmente potevo tornare al mio sonno ristoratore.

Fu un colpo al cuore quando all'inverosimile udii nuovamente, prima nei miei incubi e poi nella realtà, i graffi prodotti da quel rumore scivolare sulle pareti fino al mio cervello. Non era possibile! Nessuno abitava più al piano di sopra!

Indispettito dal quell'orribile scherzo mi levai dal letto e vagai per tutta la casa seguendo ogni singola inclinazione di quell'incessante molestia finché non giunsi al ripostiglio ove, con occhi attoniti, presi atto del mio malessere psichico alla vista della vecchia lavatrice di mia madre che, quand'era in funzione il cestello interno, produceva un terribile rumore.

Infine chiamai io stesso la polizia e, facendomi subito arrestare, confessai l'accaduto e le miei terribili azioni.

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Mason Creek: A noir horror story

Prima Stagione

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Episodio uno

Le gocce di pioggia rigano il vetro sporco e appannato mentre

il treno sfreccia nel buio dei binari verso Mason Creek, ultima fermata. Osservo il mio volto quarantenne riflesso sul finestrino e noto alle mie spalle i corpi formasi di due ragazze adolescenti qualche sedile più indietro. Penso a Mason Creek, una piccola città di pianura ad est circondata perlopiù da un fitta linea di pioppi salici e querce che sorgono soprattutto sulle sponde del torrente che si affianca alla periferia separandola dall'aperta campagna. Un luogo isolato e teatro di numerosi incidenti, dieci anni fa ero stato chiamato a seguire i passi di un giovane ed inesperto detective su un caso di omicidio passionale. Detective, già, al pensiero la mia mano raggiunge l'acciaio freddo del cane della Smith & Wesson nella fondina e il bordo in pelle del distintivo dell'FBI appeso alla cintura.

Il treno rallenta e penso a quello stronzo di Ed Green, tenente capo della unità omicidi dell'FBI e all'incarico che dodici ore fa mi ha affidato a proposito della scomparsa di quella ragazzina, Sofia Monroe.

Sofia Monroe, diciassette anni, capelli corti e occhi neri alta all'incirca un metro e settanta, dalla foto recente che ora mi accorgo di tenere tra le mani gelide noto nel suo volto l'espressione ribelle di un'adolescente avventurosa e in cerca di nuove esperienze. Sofia Monroe, scomparsa quattro giorni fa, secondo gli inquirenti tra le sette del pomeriggio e mezzanotte. L'amica, Irina Callaway, ultima persona ad aver visto la vittima, è sicura di aver accompagnato Sofia fino alla porta d'ingresso del condominio all'incirca intorno alle sette di sera. Non va bene, penso già a Sofia come a ad una vittima, è un pensiero incontrollabile perché nella mia testa dopo quattro giorni dalla denuncia di scomparsa senza un avviso di sequestro o di riscatto non può che essere già in decomposizione nascosta da qualche parte. Eppure

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l'amica giura di averla vista entrare in casa, sicuramente questa ragazzina scomparsa nasconde qualcosa, qualcosa che nemmeno Irina, la sua migliora amica, sa. I morti a volte parlano più dei vivi. Ancora penso che sia morta, un pensiero incontrollabile.

Il treno si arresta e quando scendo alla stazione accendo subito una sigaretta e attendo che il treno riparta nella direzione contraria finché la solitudine non si unisce al silenzio e il fumo grigio di sigaretta non si lega in un tutt'uno con la foschia della bassa pianura.

Raggiungo la centrale di polizia di Mason Creek a bordo di un'auto della polizia, un certo Billy Wide mi attendeva al parcheggio della stazione. Una sensazione strana mi invade. Quell'uomo, Billy Wide, credo di averlo già visto. Non ci penso e salgo in macchina.

Billy cerca di intrattenere una conversazione parlando di stronzate, ma io gli faccio subito capire che sono interessato solo a raggiungere la centrale per parlare e raccogliere indizi sulla scomparsa di Sofia Monroe e risolvere il più presto possibile questo caso.

Billy non mi risponde e non parla più fino alla centrale, ma dal suo sguardo colgo mute parole di rabbia e di collera al discorso della ragazza scomparsa.

Raggiunto l'ufficio dello sceriffo Kooper e gli stringo la mano presentandomi. «Sono il detective Jersey Shown della omicidi e sono qui per aiutarvi nel caso della scomparsa di Sofia Monroe».

Kooper Land, un uomo autorevole e forse anche po' stronzo coi suoi modi tutti seri e precisi, ma che porta ancora il viso anglico di quinta elementare e la camicia tutta abbottonata e stirata come se dovesse andare da un momento all'altro alla messa della domenica. In conclusione: colui il quale mi appiopperà un novellino come partner esigendo da me risultati immediati; in altre parole: un vero bastardo che si presenta presto in ufficio pulito e profumato con un sorriso da cento e lode stampato sulla faccia perché ogni sera la moglie in calore lo porta sulla luna.

«Ottimo! Ovviamente la ringrazio di essere arrivato fin qua giù ad aiutarci con le indagini».

«Come se avessi scelta». Bisbiglio tra me e me sotto la tagliente luce della lampada a neon sopra le nostre teste e intanto osservo il muro di sinistra rivestito di foto che nemmeno la bacheca in sughero si vede più tant'è piena di

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articoli di giornale e fogli appesi.«Come?». Domanda Kooper. Io vado dritto alla questione. «Allora,

sceriffo Kooper, io mi occupo in genere di casi più gravi di questo. Specifico meglio: non che la scomparsa di una ragazza non sia grave, tuttavia se lo confronto con i due casi a cui ho lavorato negli ultimi anni è veramente poco sostanzioso».

«Lo sappiamo che è grazie a lei che ora il serial killer Joe Nabrasko è dietro le sbarre e quell'altro, come lo chiamava la stampa?».

«Non importa». Rispondo. «Non sono qui per essere elogiato, ma per aiutarvi..». Ma Kooper mi interrompe. «Tuttavia non giudicherei questo caso poco sostanzioso perché vede? Vede tutte quelle foto e ritagli di giornale? Sono in totale sette tra ragazzi e ragazze scomparsi negli ultimi due anni e mezzo e Sofia Monroe è l'ultima di questi».

Il primo istinto è quello di tagliargli a metà lo zigomo di sinistra con un pugno: non sopporto quando qualcuno mi interrompe così all'improvviso mentre sto parlando; ma poi mi rendo conto che quel coglione ha ragione. Osservo la bacheca tappezzata e mi rendo conto di aver sottovalutato questo affare e il «il porca puttana!» mi esce di getto e spontaneo dalla bocca.

Intanto Billy Wide entra in ufficio senza bussare e Kooper lo accoglie con un sorriso. «Billy! Finalmente eccoti qua!». Poi si rivolge a me. «Detective Shown, Billy Wide ti aiuterà con le indagini, credo che vi siate già presentati». Ma Billy allunga comunque la mano destra ed io, per stare ai convenevoli, gliela stringo e lo saluto da buon partner.

Poi passo all'azione. «Voglio vedere i video di tutti gli interrogatori che sono stati fatti e i fascicoli con la descrizione dettagliata di eventuali prove che avete raccolto con le relative foto e schizzi del disegnatore. Voglio l'elenco dei nomi dei membri delle famiglie delle persone scomparse e insieme cercheremo probabili collegamenti poiché è evidente che si tratta di un maniaco seriale con precedenti di stupro o prostituzione, il target di vittime suggerisce questo». Faccio una breve pausa e mi accendo una sigaretta e il fumo invade l'area e viene trapassato in diagonale dalla luce bianca proiettata sulle persiane dai lampioni in strada e riprendo. «Voglio poi parlare con i signori Monroe per ricostruire il carattere e le abitudini della figlia. Quando l'amica Irina Callaway l'ha accompagnata a casa da dove venivano?».

Billy risponde con la velocità di un felino come se avesse previsto la

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domanda. «Le due ragazze erano andate a correre sull'argine del fiume al confine della città per poi dirigersi tra le fila di alberi che compongono il bosco da lì fino a Dodge City a dieci chilometri da Mason Creek».

«Si sono addentrate da sole in un bosco in riva al fiume? Perché due ragazze dovrebbero fare questo?». Domando mentre mi avvicino alla bacheca.

«Irina dice che avevano trovato un strada sicura che si stringeva tra gli alberi e che incuriosite l'hanno percorsa».

Mi rivolgo subito a Kooper che intanto aveva recuperato l'impermeabile dall'attaccapanni vicino alla porta. «Domani mattina sul presto voglio i sommozzatori per il tratto di fiume corrispondente al bosco e una squadra che faccia ricerche a terra».

«Abbiamo già effettuato quelle ricerche senza trovare uno straccio di prova». Interrompe Billy Wide da dietro la nebbia di fumo della mia sigaretta ormai arrivata al filtro.

Trafiggo il velo di fumo con lo sguardo e lo guardo finché i miei occhi non gli forano il cervello. «Non me ne frega un cazzo, voglio che vengano fatte di nuovo».

Uno stridio improvviso di freni e gomme sull'asfalto bagnato irrompe dall'esterno fino ai nostri timpani e il boato di lamiera e vetri in frantumi spezza il silenzio della notte. Usciamo tutti dall'edificio per accertarci dell'accaduto e vediamo la drammatica scena di una donna che esce a fatica da un auto accartocciata contro l'angolo del muro ovest della centrale. La donna è ferita e perde sangue dalla tempia sinistra e dal naso e zoppicando si avvicina urlando in evidente stato di choc. «Mi figlia è la fuori da qualche parte! Lo capite? E' la fuori che aspetta..e voi state lì..mia figlia..mia figlia ha bisogno di aiuto ed è là fuori». Piange, urla e ripete le parole in un gorgo di singhiozzi.

Mi avvicino cauto e, senza troppa fatica, la prendo per le mani agitate e con piccoli gesti e qualche parola tento di tranquillizzarla senza cadere nel banale e arrivo a togliermi la giacca per porgliela sulle spalle quando dai jeans inzuppati di pioggia solleva, verso la mia faccia, un revolver e senza pensarci arma il cane.

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Episodio due

E' la madre di Sofia, glielo leggo negli occhi prima di

disarmarla e gettarla atterra con un labbro spaccato. Il gesto è così fulmineo che non mi rendo conto di quanto male gli possa aver causato finché non vedo il fiotto di sangue scorrere via sull'asfalto bagnato. La sollevo e la accompagno all'asciutto fino in uno degli uffici deserti della centrale, intanto qualcuno sistema la macchina contro la parete. Con me viene lo sceriffo Kooper e Wide che mi seguono come due cagnolini fino all'ufficio poi dico a Billy di chiamare un medico e lui esce di scena. Intanto la donna continua a tremare ed è completamente inzuppata d'acqua e infreddolita così mando Kooper a prendere del tè caldo alla macchinetta del caffè nell'atrio d'attesa. «E dato che sei di casa son certo che troverai anche un panno o un coperta da mettere sulle spalle alla signora». Lui obbedisce e mi lascia solo con la donna, finalmente.«Mi ascolti bene signora Monroe, il mio lavoro è quello di trovare sua figlia e lo stronzo che l'ha rapita. Mi capisce?». Lei annuisce con la testa e i capelli neri scivolavano come fili giù verso il seno bagnato. «Bene! Non si preoccupi per ciò che è accaduto prima, non le accadrà nulla di grave, è del tutto plausibile la sua reazione. Detto ciò per esserle d'aiuto deve raccontarmi un po' di sua figlia Sofia».

Finalmente parla. «E' una ragazza normalissima e tranquilla. Mi manda sempre un messaggio quando ritarda un po', è brava».

«Quella sera di quattro giorni fa lei e suo marito dove eravate intorno alle sette di sera?».

Senza pensarci mi risponde e capisco che è la verità. «A casa. La stavamo aspettando per la cena, doveva farsi il bagno e poi venire a cena con noi».

«A che ora doveva tornare?» domando senza perdere tempo.

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«Alle sei doveva essere già a casa per farsi il bagno e venire con noi a cena».

«Ha mandato un messaggio per informarvi che sarebbe arrivata in ritardo?». Anche questa volta la signora Monroe non esita a rispondere. «No, non ha detto nulla. Infatti dopo un'ora ho cominciato a preoccuparmi, ma Scott, mio marito, mi ha tenuto buona per un'altra ora. Poco dopo le otto di sera ho iniziato a chiamarla più volte al cellulare che mi dava sempre spento o non raggiungibile, così ho telefonato a mia sorella Katia per sapere se Sofia si era trattenuta da lei, ma anche Katia non sapeva nulla di mia figlia. Sparita cazzo..». La signora Monroe si mette una mano sul viso. Le sue mani tremano.

«Come era uscita di casa? a piedi?». «No, ha preso la sua bicicletta». «E ora a casa vostra c'è la bicicletta di Sofia?». Le parole vengono

bloccate da un fortissimo groppo alla gola che riesco a percepire, così fa di no con la testa e prende a piangere quando Kooper entra con un bicchiere di plastica fumante nella mano destra e alcune coperte scure di lana appoggiate al braccio sinistro. La sua ombra taglia in due la stanza e si allunga fino a noi di là dalla parete, mentre il rumore del metallo copre il suono vibrante del motore del camion dei vigili del fuoco e l'auto accartocciata si stacca dal muro intatto della centrale.

Nel frastuono la signora Monroe si accosta al mio orecchio e bisbiglia e, mentre io osservo entrare Billy Wide accompagnato da medico legale Martin Prince, focalizzo ciò che mi dice e la mia attenzione finisce su Irina Callaway: prima indagata in quanto ultima persona ad aver visto Sofia, nonché amica o conoscente di altre vittime.

Nessuno sporge denuncia e la signora Monroe torna a casa nel pomeriggio dopo aver bevuto qualche litro di caffè alla stazione ed essersi calmata assieme agli altri poliziotti e al marito che nel frattempo era giunto appena saputo dell'accaduto. A me intanto viene mostrata la mia stanza all'albergo Jerome's Room in centro. Non male. A pelle mi trovo da subito in simpatia con il tizio alla reception, un certo Adam Fillingstone. Non male per niente, questo vede e conosce tutto in città e mi sarà d'aiuto con qualche dollaro. La stanza è tenuta bene e spoglia come ogni camera d'albergo appena ci metti piede, non sarò certo io a riempirla. Mi va bene così, meno distrazioni

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possibili quando seguo un caso tant'è che dico subito ad Adam di portare con sé la televisione mentre se ne torna giù alla reception. Kooper è con me e lo sento parlare di stronzate, ma non lo ascolto, la mia mente è già sul caso pronta a sintonizzarsi sui discorsi degli altri solo se pertinenti al caso. E' mattina quando finalmente quello stronzo di Kooper esce d'albergo. Faccio subito una lunga doccia e, accendendomi una mezza dozzina di sigarette, appendo all'armadio una bacheca in sughero che mi porta Adam personalmente.

Prima di pranzo raggiungo la centrale e trovo Billy. «Ora andiamo a fare qualche domanda a Irina Callaway. Sai dove abita spero».

Billy mi saluta consegnandomi due sporte di fascicoli e videocassette di interrogatori che lascio sulla scrivania in ufficio certo di passare la prima notte in bianco a Mason Creek.

«Grazie del regalo, Billy». Gli dico mentre mi accendo l'ultima sigaretta del pacchetto. «Avete mandato i sommozzatori e gli uomini nel bosco lungo il fiume».

«Kooper ha organizzato una piccola squadra incorporando anche qualche vigile del fuoco, ora sono sul posto vuoi che andiamo a seguire cosa l'indagine».

«Ci andremo dopo al bosco, ora andiamo da Irina e dai signori Callaway». Entriamo in macchina e lascio guidare a lui perché non conosco la strada. Durante il breve tragitto ognuno se ne sta coi suoi pensieri in silenzio. Billy con gli occhi puntati sulla strada ed io con lo sguardo vuoto penso mentre fisso il paesaggio lugubre oltre il finestrino. La casa dei signori Callaway è poco oltre la periferia, vicino alla campagna. Parcheggiata la macchina d'istinto cerco nelle tasche della giacca le sigarette, poi ricordo di averle finite e ingoio la voglia di urlare al mondo. «Vaffanculo!».

Ad aprirci è proprio Irina, una ragazza adolescente un po' sovrappeso che ci guarda con gli occhi gonfi e arrossati.

«Sono il detective Jersey Shown FBI e lui è il vice sceriffo Billy Wide». Dopo la presentazione vado dritto al punto. «Come già sai la tua amica Sofia Monroe è scomparsa quasi cinque giorni fa, volevamo farti qualche domanda a riguardo». Billy Wide mi lancia un'occhiata furtiva e mi insulta col pensiero per il poco tatto, ma ne sbatto il cazzo e continuo a guardare la nostra prima indagata. Recentemente ha pianto molto segno che

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quella tragedia deve averla colpita a livello personale, le unghie delle mani sono tutte mangiate e sul pollice della mano destra c'è un coagulo di sangue dovuto a una piccola ferita provocata dal continuo mordersi. Evidente segno di stress e tensione emotiva. Poi quando parla il cerchio della mia iniziale impressione si chiude. «Venite dentro, vi prego». Sembra sconvolta e molto confusa e la sua disponibilità a farci entrare appare sincera.

Nel frattempo entrò nell'ovattato salone anche il padre e la luce del lampadario spezzava in due la stanza proiettando le nostre ombre sul muro. «Signor Callaway, scusi il disturbo». Disse Billy porgendo la mano. «Siamo i detective Shown e Wide. Stiamo cercando Sofia Monroe. E' disponibile a rispondere a qualche domanda insieme a sua figlia e a sua moglie?».

L'uomo si avvicina e stringe la mano a Wide. «Mia moglie è al lavoro, torna dopo le quattro. Io sono disponibile alle vostre domande, ma credo che ne abbiate già fatte abbastanza, non credete? Mia figlia ha già detto tutto e io non ho da dire nient'altro».

Aspetto che finisca la frase e rispondo. «Sono d'accordo con lei, signor Callaway, tuttavia io sono appena arrivato da fuori e ho bisogno di vedere le vostre risposte».

«Per quello». Mi interrompe Wide. «Abbiamo già le videoregistrazioni degli interrogatori in centrale». La presenza della ragazza davanti a noi mi impedì di caricare un gancio contro la parete dello stomaco di Billy, quanto odio quando qualcuno mi contraddice e mi interrompe. Rimango zitto e mi limito a distruggergli il pensiero con lo sguardo. «Le domande che sono state fatte all'interrogatorio non sono le miei domande» rispondo rivolgendomi al padre.

«Mi segua un secondo, detective, le voglio parlare un attimo». Ci spostiamo in cucina, intanto Billy rimanere a fare compagnia alla ragazza.

Il padre mi guarda negli occhi e mi dice. «Mia figlia Irina è traumatizzata da quello che è successo, non vede che sta cadendo in depressione? Per favore non peggiori la situazione, gli interrogatori gli avete già fatti, lasciatela in pace».

Io rispondo allo sguardo e con tono freddo aggiungo. «La fuori, da qualche parte, c'è una ragazza dell'età di sua figlia, capisce?» Il signor Mark Callaway abbassa gli occhi e io proseguo. «Se va bene la troviamo vittima di violenza sessuale e fisica, se va male bella e pronta per essere messa in una

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cassa e seppellita. Mi lasci fare il mio lavoro».Mentre Billy Wide rimane alle mie spalle, Irina ed io ci sediamo l'uno

di fronte all'altro sulla scrivania nella sua camera da letto. Tutt'intorno sui muri ci sono milioni di fotografie, alcune molto belle. «Le hai fatte tu queste foto?». Provo a metterla a suo agio e a fidarsi di me.

Lei annuisce e accenna a un sì strozzato allora continuo. «Che macchina usi? Mia figlia che ha circa la tua età è appassionata di fotografia e per compleanno le ho regalato un'ottima Canon».

Sembra improvvisamente agitarsi: le mani iniziano a sfregarsi l'una sull'altra per tamponare l'eccessivo sudore, la piccola vene del collo si gonfia a ritmi più veloci e, anche se continua a far finta di nulla, noto gli occhi cambiare direzione da destra a sinistra come se volesse evitare il contatto diretto coi miei.

Così poco dopo risponde. «Queste foto le ho scattate con una macchina fotografica presa in prestito, mi dispiace non ce l'ho qua per fargliela vedere se no lo farei».

«Che peccato! Volevo vederla». Rispondo. «Allora, torniamo a noi: come mai due belle ragazze come voi invece di fare shopping in centro sono andate da sole in mezzo a un bosco quel giorno?».

«Avevo chiamato Sofia per camminare in campagna, lo facevamo spesso perché volevamo tenerci in forma. Robetta, comunque. Niente di serio. Ci siamo trovate ai piedi dell'argine che costeggia il fiume e nel correre abbiamo trovato un piccola strada che non avevamo mai notato».

La interrompo un attimo. «Come siete arrivate fino in campagna? Io non sono di qua, ma sembra un bel po' di strada». Lei ci pensa su per un po di tempo, troppo. «In bicicletta».

Passa un silenzio interminabile che la mette subito a disagio poi continuo. «Avanti, dimmi cosa avete fatto dopo essere arrivate alla stradina».

«L'abbiamo seguita». Risponde. «Fino dentro al bosco poi abbiamo scattato qualche foto». Improvvisamente si blocca colta da un pensiero, dopo poco riprende. «Le foto le abbiamo fatte con la sua macchina fotografica poi, dopo un giro veloce lì intorno, siamo scappate via e l'ho riaccompagnata a casa».

«Hai visto Sofia che entrava nel condominio?». Irina mi guarda e molto sinceramente annuisce.

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«Un'altra cosa: perché dici che siete “scappate”? Tipo correndo?». Irina allora fa un lungo sospiro e risponde. «Era molto tardi allora così ci siamo affrettate a tornare a casa».

Io mi avvicino al suo volto e la guardo negli occhi. «Ascolta Irina, io faccio il detective da molto tempo e una ragazzina non può raccontarmi bugia senza che io non me ne accorga, capisci? In più qui c'è in gioco la vita della tua amica Sofia, perché non mi vuoi raccontare tutto?».

Gli occhi le diventano lucidi, trattiene il singhiozzo mentre prova a parlare. «La sotto abbiamo trovato un capanno. Ci siamo spaventate e siamo tornate su». La ragazza piange.

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Episodio tre

«Non so per quale motivo, ma sulla macchina

fotografica la ragazza stava mentendo». Dico a Wide mentre chiudo lo sportello e salgo in macchina. Lui entra, accende e parte verso nord.

«Perché dici che mente?». Io cerco di nuovo le sigarette e non le trovo perché le ho finite. «Lo so e basta. Il fatto è: perché mentire su una stronzata simile? Alla fine stavo solo cercando di usare un suo passatempo per creare un legame di fiducia». Rimaniamo in silenzio per qualche minuto mentre ci dirigiamo a velocità sostenuta verso il bosco in questione.

«I giovani e le ragazze in genere si spaventano per poco, ma dal suo sguardo sembrava veramente terrorizzata, non riusciva nemmeno a fornirmi dei dettagli più precisi». Wide rallenta al semaforo rosso tra Harrison St. e la Harlow, mi guarda. «Shown, quel bosco..non so bene come dirtelo, ma è strano».

Sorrido. «Non rompermi i coglioni con stronzate metropolitane e leggende voodoo, qui si tratta di un maniaco seriale che rapisce ragazzi tra i quindici e diciannove anni. Questo dobbiamo cercare».

Billy Wide continua a fissarmi con sguardo rassegnato. «Nella periferia americana esistono realtà incomprensibili per la gente di città, in questo paese anni fa sono accadute cose in quel bosco». Il semaforo è verde e la macchina di Billy riparte svoltando sulla Harlow. «Anni fa sono state arrestate e condannate all'ergastolo due persone. Erano state trovate una mattina sul fiume ghiacciato che attraversa il bosco. Erano in preda a un delirio collettivo».

«Condannate per cosa?» domando.«Per satanismo, erano scomparsi due ragazzi i cui corpi non sono mai

stati recuperati, ma le cui tracce di sangue sugli indumenti degli aggressori e

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quelle trovate nel tratto di fiume ghiacciato corrispondevano. Ora sono nel carcere di massima sicurezza a Dodge City».

«Ma le sparizioni sono continuate da allora, forse non avete preso gli uomini giusti».

«Sono aumentate. Gli uomini erano quelli perché hanno confessato tutto». E' nuvoloso e prende a soffiare un forte vento quando scendiamo dalla macchina sul confine sterrato prima del bosco. «Dimmi Shown, perché credi che Sofia Monroe sia nel bosco?».

«Non ho mai detto questo. Sta di fatto che è l'ultimo posto dove è stata».

«Irina Callaway è sicura di averla vista entrare in casa dopo averla accompagnata».

Io allora osservo una distesa di erbacce e fango e la fitta boscaglia che si innalza verticalmente all'orizzonte. «I genitori erano in casa e non l'hanno sentita arrivare, la stavano aspettando, erano attenti e con le orecchie tese».

«Il sequestratore può averla rapita sotto casa». Obbietta Wide. «Impossibile». Rispondo. «Irina dice di aver visto Sofia entrare nella porta d'ingresso del condominio».

Altre macchine sono ferme sulla sterpaglie impantanate nel fango e Wide ed io procediamo lentamente dentro il bosco dove ad attenderci c'è l'agente Andrew Jackson che ci accompagna all'interno. «Ha piovuto molto la scorsa notte e qui è un macello. Se c'era una prova il fiume che si è ingrossato l'ha spazzata via. Abbiamo setacciato assieme agli uomini del corpo dei vigili del fuoco tutta l'area da qui per cinque miglia sia verso ovest che verso est. Dalle comunicazioni via radio sul territorio per ora nessuno a trovato nulla di rilevante».

«Avete per caso trovato qualcosa simile ad un capanno?».«No, niente di simile detective».«Grazie agente Jackson. State facendo un ottimo lavoro». Ringrazia

cortesemente Wide, io rimango zitto e mi mordo la lingua al pensiero che in più di quattro ore di ricerca tutti quegli uomini non abbiamo trovato un cazzo. Che branco di incompetenti. In questo mestiere è così: a volte devi fare tutto da solo.

Più ci addentriamo più incontriamo gente con giubbotti ad alta visibilità e l'abbaiare dei cani diventa quasi fastidioso in quell'eco. I rami

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secchi si spezzano al mio passaggio e in certi punti lo strato di fango rende impossibile attraversare. Sarà difficile trovare delle prove in queste merda, penso. Poi raggiungiamo il fiume dove incontriamo alcuni sommozzatori. «Wide, dove arriva il fiume?».

«Il fiume scorre verso la diga di Dodge City, a est». Alla parola diga il mio pensiero si apre come una pesca rivelando il nocciolo. «Grandioso! Una diga!». Osservo la potenza del fiume e delle sue rapide. «Chiama lo sceriffo di Dodge City e chiedigli di controllare al più presto la diga». Così Wide recupera un cellulare e chiama mentre si allontana tra le umide sterpaglie.

Terminata la chiamata Wide mi informa che lo sceriffo di Dodge City ci farà sapere qualcosa entro sera, così riprendiamo le nostre ricerche sul territorio mentre sul suolo si allungano, al calare del sole, i disegni delle taglienti ombre nere degli alberi e una fastidiosa foschia scivola sul letto del fiume fino a noi.

«E' qui vicino il luogo dove sono stati trovati quegli uomini accusati di satanismo e dell'uccisione di quei due ragazzi?». Domando a Wide mentre mi accendo la sigaretta che ho chiesto ad un agente un attimo prima.

«Non ricordo il luogo preciso». Risponde evasivo.«Wide, è scortese da parte tua raccontare delle stronzate al tuo nuovo

collega». Lui si ferma e mi guarda e dice. «Tu credi di sapere molte cose, ma ti sbagli».

«Su una cosa ho ragione: che in questi buchi di città abbandonati da Dio siete tutti dei fifoni figli di puttana con le vostre superstizioni del cazzo».

«C'è un gruppo di contadini a nord oltre queste file di alberi che hanno dovuto trasferirsi perché terrorizzati da questo bosco, qualche cosa di strano c'è. Non è superstizione».

«Mi viene in mente la storia di un vecchio caso di un pazzo ad Albiesville che raccontava di fatti terrificanti che accadevano in quella cittadina. Io andai ad investigare e nessuno degli abitanti parlava e chi lo faceva mentiva. Tutto perché avevano paura di chissà cosa». Do l'ultimo tiro alla sigaretta. «Portami in quel posto».

Vibra intorno a noi una atmosfera sinistra data dal giungere lento del crepuscolo quando finalmente Wide mi conduce alla scena del crimine del gruppo di satanisti. Ovviamente quella strana sensazione derivava dal fatto che eravamo rimasti solamente Wide ed io in quella piccola radura. Nessun

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agente o vigile del fuoco. «Secondo me neanche sono venuti fino qua a controllare».

Il commento mi esce spontaneo e sento Wide in tensione alle mie spalle finché il suono improvviso di un cellulare terrorizza entrambi e la mia mano slaccia fulminea la cinghia della fondina.

Wide risponde e ancora al telefono mi dice. «E' Harry Tyalor, lo sceriffo di Dodge City. Mi ha informato che i suoi agenti hanno trovato una bicicletta incastrata tra i rami nel bacino della diga. Te lo passo?».

«No». Rispondo. «Ma chiedigli di che colore è e come è fatta».«Dice che è rossa e ha l'appoggio per un cestino davanti, forse si è

sganciato».Wide riattacca e mi faccio passare da lui il cellulare. Chiamo a casa

dei signori Monroe. «Buonasera, parlo con il signore Monroe?».«Esatto».«Bene! Sono il detective Jersey Shown, volevo solo un'informazione.

La bicicletta di vostra figlia di quale colore è?».Un palla da demolizione mi colpisce allo stomaco dall'eccitazione

quando il signor Monroe risponde. «Rossa, perché?».

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Episodio quattro

Dico allo sceriffo di Dodge City di spedirmi la bicicletta

all'indirizzo della centrale entro domani mattina. «Se i signori Monroe affermeranno di riconoscere la bicicletta della figlia, allora Irina Callaway dovrà darci un bel po' di spiegazioni». Così dico al mio collega, il detective Billy Wide mentre gli riconsegno in mano il cellulare. Vorrei perlustrare ulteriormente la zona, ma ormai è molto buio e le torce non ci permettono di proseguire con le ricerche. Lo sceriffo Kooper ci ha già informati che non ci darà altri uomini domani per continuare le ricerche. «Abbiamo cercato in quel dannato bosco subito dopo la scomparsa di Sofia, ho accettato di controllare di nuovo quando sei arrivato tu Shown, non posso permettermi di tenere sul campo così tanti uomini. In quel bosco non c'è niente».

«Sei un pezzo di merda». Rispondo adirato e gli faccio rovesciare a terra il caffè che reggeva in mano, poi mi calmo. «Alla diga di Dodge City è stata trovata la bicicletta che corrisponde a quella della vittima, segno che è successo qualcosa in quel bosco, vicino al fiume». Esco dalla stanza e lascio Billy a parlare con quel figlio di puttana di Kooper, intanto mi fumo una sigaretta e mi lascio tagliare la faccia dall'ombra lasciata dalle veneziane in sala d'attesa. Il fumo riempie la stanza e viene affondato dalle lamelle di luce.

Kooper è il primo ad uscire dall'ufficio seguito da Wide, quel coglione si avvicina a me.«Non posso mandarti altri uomini, se c'era veramente qualcosa sarebbe già stato trovato. Continuate voi le ricerche». Si alza il collo dell'impermeabile ed esce dalla centrale. Io intanto tiro un pugno sul muro di cartongesso della sala d'attesa, l'effetto: un buco gigantesco, ma fanculo. Ora mi rivolgo a Wide. «Dobbiamo trovare quella ragazza, Billy! E' nostro dovere e io non me ne vado a mani vuote sapendo che c'è qualcuno che sa dove si

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trova o che è il responsabile».«Domani mattina arrivano i giornalisti e..».«Me ne frego dei giornalisti! Le fottute conferenze stampa sono

puttanate che si deve risolvere Kooper. Noi andiamo avanti, non possiamo perdere tempo. Domani andremo da quella stronza di testimone e la faremo parlare».

Billy si agita. «Calmati subito testa calda! E non permetterti di parlare così di Irina!».

Mi calmo un istante, ma fisso negli occhi il mio collega con sospetto. Bizzarra quella sua reazione protettiva nei confronti del testimone. Lui percepisce i miei pensieri e i mie plausibili dubbi così senza che io aggiunga altro Wide parla abbassando la testa. «E' molto amica di mio figlio, Eric. Quindi la conosco abbastanza bene, e posso assicurarti che lei è solo spaventata e scossa. Irina non c'entra nulla con questa storia, era solo nel posto sbagliato al momento sbagliato».

Mi scappa un piccola risata. «Certo che se è molto amica con tuo figlio come lo era con Sofia, allora tuo figlio è spacciato». I piccoli tagli sulla faccia contro il quadro della sala d'attesa sono tutti meritati e solo dopo che Wide mi ha spinto contro il muro facendo cadere il quadro a terra, mi rendo conto di essere stato troppo avventato con la mia ironia del cazzo. Gli chiedo scusa, ma sorrido all'idea che oltre al quadro quello stronzo di Kooper dovrà rimpiazzare anche il muro di cartongesso.

Saliamo in macchina e intanto comincia di nuovo a piovere. «Abbiamo i nervi un po' tesi, ti va un hot-dog da Leo, lì sono molto buoni». Io annuisco e mi accendo una sigaretta.

«Quindi hai un figlio, questo spiega tante cose». Inizio così il discorso seduti al tavolo mentre i proiettili di pioggia si schiantano contro il vetro del locale.

«Cosa vorresti dire?» chiede Wide.«L'ho notato il primo giorno, alla stazione, quello sguardo un po'

troppo preoccupato e serio». Attendo qualche secondo intanto arrivano gli hot-dog che avevamo ordinato. «Tuo figlio ha l'età circa di Sofia e degli altri ragazzi che sono scomparsi, hai paura per lui, giustamente».

Allora Wide seriamente mi risponde. «Ho paura per lui e sto male con lui quando piange la scomparsa di alcuni dei ragazzi e ragazze che

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conosceva».Un violento attimo di silenzio prima della mia risposta. «Lo sai che tu

figlio potrebbe diventare una probabile vittima, ma anche un eventuale sospettato se rientra tra le amicizie di Irina Callaway?».

«Irina è innocente!». Risponde Wide.«Accetto il fatto che non abbiamo prove contro di lei e che per ora

non esiste nessun movente, ma perché nasconderci cosa hanno fatto in quel bosco?».

Billy ci pensa un po' su e risponde. «Magari hanno fatto qualche stronzata da adolescenti come fumarsi una canna e Irina non vuole che i suoi genitori lo sappiano e prende così sottogamba la gravità della situazione. Può capitare sai se unisci il tutto con lo stato emotivo di choc».

«Non mi convince e domani mattina, se mentirà, lo scoprirò subito». Bevo un enorme sorsata di Canada Dry e aggiungo. «Irina ha detto di aver scattato delle foto quel giorno, potrebbero aiutarci. Dove sono?».

«Ha detto che la macchina fotografica non era sua e che gliela avevano prestata» mi ricorda Billy prima di ingoiare l'ultimo pezzo di hot-dog fumante.

Billy mi accompagna all'albergo Jerome's Room. Aspetto che le luci rosse della sua macchina spariscano dietro la fitta pioggia alla curva di Cone Street. Mentre penso al caso e alla chiacchierata che domani dovrò abilmente condurre con Irina Callaway le mie gambe mi portano alla centrale dove, zuppo d'acqua dalla testa ai piedi, entro nella sala computer. Accendo lo schermo collegato al videoregistratore e ci infilo il nastro dell'interrogatorio.

Ecco che cominciano le notti in bianco del detective Shown, penso. Che lavoro di merda. Poi inizio a guardare tutti gli interrogatori a partire dal primo caso di sparizione pregando di trovare qualche, anche minimo, collegamento tra di essi. Ovviamente si tratta dello stesso sequestratore. Mai nessuna della vittime è stata trovata per testimoniare. Gli interrogatori che guardo sono parenti disperati e amici afflitti dalla scomparsa dei loro cari. Niente di utile, una marea di tempo perso in lacrime. Accendo un milione di sigarette anche se in questo ufficio non si può fumare. Me ne frego, è notte e non c'è nessuno tranne la guardia all'ingresso.

Alla mattina mi sveglia con un calcio alla sedia Billy Wide che inzuppato d'acqua mi urla addosso. «Non ti trovavamo! Dobbiamo andare

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subito a casa dei Callaway!».Io riprendo velocemente lucidità anche se dodici litri di caffè mi

farebbero comodo e rispondo. «Lo so che dobbiamo andarci, stai calmo. Non c'è comunque tutta questa fretta». Mi metto una mano tra i capelli e cerco il pacchetto di sigarette sulla scrivania. «E poi che cazzo! Deve sempre piovere». Borbotto alla vista del pacchetto di sigarette vuoto.

Wide si avvicina. «Dobbiamo andare subito, presto, gli altri agenti sono già sul posto».

Una morsa allora mi strizza il cervello fino a farlo scoppiare quando improvvisamente mi si infila tra le tempie un unica ipotesi di tutto quel chiasso. «Cosa è successo?».

«Questa mattina la signora Callaway ha trovato sua figlia impiccata alla finestra della camera, sembra suicidio».

«Cazzo!». Mi metto l'impermeabile addosso e come se ci ci fosse un terremoto o un incendio esco di corsa dall'edificio e Billy sta al passo fino alla macchina di servizio.

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Episodio cinque

Arriviamo al giardino affollato di gente della proprietà della

famiglia Callaway. Alcuni giornalisti sono addirittura sulla strada con videocamere e microfoni a dire stronzate e a inventarsi una storia. L'ambulanza sta caricando qualcuno nel retro e gli agenti di polizia delimitano di nastro giallo la zona. «Spero che gli uomini di Kooper non abbiamo toccato nulla».

Wide parcheggia alla cazzo sopra il marciapiede e spegne il motore. «Mi sono assicurato personalmente che prima del nostro arrivo nessuno toccasse il corpo».

Quando scendiamo vengo aggredito da un uomo che mi spinge contro lo sportello della macchina urlando frasi sconnesse a proposito di suo figlio scomparso. Due agenti di polizia me lo levano dai coglioni sapendo bene che a quel poveretto avrei potuto incrinare due costole se avesse continuato altre due secondi e mezzo. La stampa si sposta ovviamente subito su di noi e io li mando a fanculo mentre Wide è più diplomatico. «Lo so che tra voi ci sono padri e madri distrutti dal dolore per la scomparsa dei loro bambini, ma stiamo facendo tutto il possibile per scoprire chi è che compie questi terribili...rapimenti».

Sono più avanti quando dice rapimenti seguito da quella piccola pausa e la parola rapimenti mi fa balenare subito qualcosa nel cervello. Quando Wide manda via la stampa e mi raggiunge finalmente entriamo in casa. «Billy, stavo pensando a una cosa. Per quale motivo non avete chiesto all'FBI un agente speciale della squadra Persone Scomparse, ma avete mandato me della squadra Omicidi? Qui non c'è nemmeno un cadavere..».

Wide mi guarda senza rispondere e viene salvato dal gong quando appare davanti a noi il coroner Martin Prince. «Ora del decesso intorno alle

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quattro di questa mattina. E' morta per asfissia e non per la rottura del dente epistrofeo».

«Cazzo!». Mi esce spontaneo a immaginare la scena.«Che cosa vuol dire?». Domanda Wide.«Vuol dire che per circa un minuto ha sofferto prima di perdere

coscienza e poi morire, perché il sangue non defluiva più dal circolo encefalico a causa dell'ostruzione della giugulare e della carotide provocata dal tessuto intorno al collo».

«Chi era quella persona caricata in ambulanza?» domanda Wide.Prince risponde. «La signora Callaway ha perso i sensi ed è svenuta

battendo la testa contro la scrivania in camera della figlia. Il marito ha chiamato subito i soccorsi».

«Dov'è ora?».«E' nel bagno assieme ad alcuni agenti e la psicologa».Wide rimane perplesso. «Abbiamo una psicologa d'ufficio?»«No, coglione! E' la mia ex moglie. Ho visto la situazione un po'

troppo tragica qualche ora fa e ho avuto il permesso da Kooper di chiamare la mia ex moglie per calmare il marito».

Mi metto i guanti in lattice che mi passa Prince e raggiungo assieme a Wide la camera da letto di Irina Callaway,

Era tutto esattamente al suo posto, come la prima volta che ci avevo messo piede. Il solito disordine adolescenziale e un milione di foto appese alla parete. Alcune erano state scattate da Irina ed altre erano poster di cantanti e gruppi musicali. La ragazza ascoltava i Nirvana, ci sono molte loro rappresentazioni su muro sopra la scrivania illuminata dalla lampada ancora accesa. Lo sguardo raggiunge la finestra in fondo alla stanza dalla quale entrano, attraverso la tapparella, sottilissime lame di luce e il corpo appeso ciondola i ombra sopra i bagliori dell'alba lucenti alle sue spalle.

«La il bastone a cui sta affissa la tenda sembra aver retto il peso». Dice Wide rimanendo a distanza dal corpo. Io mi avvicino. «Ha il pigiamo fradicio, cos'è?».

Prince risponde subito alla mia domanda. «Spesso avviene il rilassamento degli sfinteri quando la persona perde conoscenza dopo l'agonia e la contrazione».

Il corpo freddo giace davanti ai miei occhi pallido. Irina Callaway,

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diciassette anni, suicidata probabilmente per i sensi di colpa dovuti dal suo coinvolgimento nella scomparsa di Sofia Monroe e forse di altri quattordici ragazzi e ragazze. Mi volto verso Billy Wide che nel frattempo prende appunti sul suo maledetto taccuino rosso. «Nessuno si uccide senza lasciare un messaggio, e nessuno coinvolto in una cosa così grave non si confessa prima di appendersi a una trave».

«Parla piano, Shown! Di là nel bagno c'è il padre». Wide allora mi si avvicina attento a non calpestare gli oggetti in disordine sparsi per la stanza. «Sono d'accordo con te, Shown. Sicuramente deve aver lasciato un messaggio o qualcosa che spieghi il motivo di un gesto così estremo». Lascio Wide nella stanza ed esco nel salotto ad informare i due ragazzi della scientifica Harry e Spencer di cercare eventuali biglietti o messaggi, insomma qualsiasi cosa che possa ricondurre al suicidio di Irina. «Okay, detective Shown. Faremo del nostro meglio». Risponde Spencer.

«Così vi voglio ragazzi, avanti col lavoro allora». Torno alla camera da letto e dico a Wide di parlare col padre mentre io resto nella stanza. Faccio uscire anche gli agenti e il coroner finché non rimango solo in un silenzio mortale e asfissiante. Faccio mente locale. Irina è andata a dormire, è ancora in pigiama. Durante la notte deve essersi svegliata e alzata dal letto, il letto è ancora tutto in disordine e le coperte sono piegate in avanti seguendo il gesto della braccio di quando una persona si scopre per alzarsi. A questo punto se io dovessi aver deciso di uccidermi avrei prima scritto qualcosa per sfogare le mie emozioni. Deve essersi diretta alla scrivania. Mi giro e la raggiungo. E' un piccola scrivania con il posto centrale per la sedia e quattro cassetti posti l'uno sopra l'altro sulla sinistra. Sopra il banco una lampada ancora accesa, dei fazzoletti di carta, la stampante e un cestino usato come porta penne. Una penna non è nel cestino, ma è sul ripiano sulla sinistra verso la stampante. Apro i cassetti, sono quasi vuoti. Rovisto velocemente, ma non ci trovo nulla di interessante eccetto un pacchetto di sigarette, forse la ragazza fumava di nascosto di tanto in tanto. La penna sulla sinistra e non sulla destra della scrivania. Se dovessi scrivere qualcosa abbastanza frettolosamente lascerai la penna alla mia destra o al massimo la lancerei nella parte di scrivania sopra al foglio su cui ho scritto. Non a sinistra. Allora mi volto di scatto verso il cadavere e gli prendo le mani ghiacciate. Nella parte inferiore della mano destra, che solitamente appoggia sul foglio quando si scrive, non v'è nulla a

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differenza invece dello stesso punto della mano sinistra annerito dall'inchiostro di una penna. Irina è dunque mancina e deve aver per forza scritto qualcosa prima di togliersi la vita. Cosa ha scritto? E dove è finito quale che ha scritto? L'ha forse nascosto da qualche parte?

Poco prima che Wide entrasse nuovamente in camera noto alcune gocce d'acqua sulla superficie interna del vetro della finestra. Solo un po' di condensa.

«Accompagniamo il signor Callaway all'ospedale dalla moglie, vieni con noi?».

«No, Billy. Vado in centrale a vedere se quella maledetta bicicletta è arrivata da Dodge City. Ci vediamo più tardi». Wide esce e dopo qualche minuto esco anch'io scroccando il passaggio a un agente che stava fuori dalla porta d'ingresso. Intanto Martin Prince chiude il corpo in un sacco nero e insieme ai suoi collaboratori lo portano in laboratorio per l'autopsia.

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Episodio sei

Quando giungo in centrale Kooper mi saluta con un sorriso

dicendomi di sfuggita che la bicicletta è arrivata e che due ragazzi della scientifica la stanno analizzando. Io non lo guardo nemmeno e tiro dritto e di fretta raggiungo il bagno chiudendomi la porta alle spalle. Getto la testa nel cesso e l'istinto del vomito sale verso l'alto, ma non esce niente. Aspetto qualche secondo e intanto mi inginocchio a terra con i pugni chiusi e stretti sulla tavoletta penso alla ragazza impiccata, ai suoi occhi vitrei rivolti verso il soffitto bianco della sua camera da letto.

Un sudore freddo si unisce a qualche lacrima sulla mia faccia mentre cerco di diradare la nebbia fitta che ho nel cervello. Lucido. Devo rimanere lucido, perché è questo il lavoro di un detective. Questo è il mio lavoro. Vaffanculo. Mi alzo e mi sciacquo il viso con l'acqua gelida del lavandino. Ragiono e penso a quello che mi aveva detto Irina, ogni dettaglio potrebbe rivelarsi utile. Mi torna alla mente la macchina fotografica. Irina mi aveva confessato di aver scattato delle foto quel giorno nel bosco e che la macchina fotografica che ha usato non era sua. Da chi l'ha presa in prestito? Cazzo dovevo farmelo dire da lei finché era in vita. Sei stato proprio un coglione, dico a me stesso. Wide. Il figlio di Billy Wide era un grande amico di Irina, forse lui sa chi può averle prestato la macchina fotografica.

«Tutto okay?». Mi chiede Kooper quando esco dal bagno. Io accenno a un sì forzato e lo seguo verso il laboratorio di analisi: un piccolissimo buco d'ufficio con qualche apparecchiatura vecchia di vent'anni.

«I genitori di Sofia Monroe sono già venuti a riconoscere la bicicletta?».

«Sì». Risponde Kooper. «Hanno dichiarato che si tratta della bicicletta che usava Sofia, manca solo il cesto davanti, ma quello può essersi staccato

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mentre veniva trascinata dalla corrente del fiume».Mi rivolgo allora a uno dei due ragazzi col camice. «Ovviamente

niente impronte».«Esatto, niente impronte. Però è interessante questo». Il ragazzo alza

verso il mio sguardo il catenaccio ancora chiuso attorno ai raggi della ruota posteriore. «Sia che il fiume gonfiandosi l'abbia presa e portata con sé, sia che qualcuno gliela abbia gettata in acqua, il fatto che non cambia è che Sofia Monroe non ha mai lasciato quel bosco in bicicletta».

Allora aggiungo rivolto verso Kooper. «In entrambi i casi la testimonianza di Irina è falsa. Irina Callaway non l'ha mai riportata a casa e non ha mai visto Sofia entrare per quella porta. Dunque Sofia Monroe può essere stata rapita nel bosco oppure è ancora nel bosco nascosta da qualche parte».

Kooper mi interrompe. «Shown, sai benissimo anche te che non può essere nel bosco, abbiamo controllato ogni centimetro quadrato».

Rifletto un attimo e rispondo. «Bosco o non bosco, non riseco a capire perché Irina ha mentito».

«Credi sia stata lei ha far sparire Sofia o ancora peggio a ucciderla?» mi domanda Kooper.

Prima di risponde cerco di serrare la mia mente dietro un gelido muro di razionalità e logica. «Kooper, credo che Irina sia gravemente coinvolta in questa faccenda, tuttavia se fosse stata veramente lei a fare tutto questo non credi che avrebbe cercato di costruirsi un alibi migliore invece di ripararsi dietro ingenue bugie?».

«Non essendoci alcun movente c'è la probabilità che ciò che noi supponiamo che Irina abbia fatto a Sofia sia frutto di una malattia mentale e che il suo recente suicidio sia stato per lei la via di fuga dai sensi di colpa dovuti dalla lucidità dopo il raptus omicida dell'infermità mentale che ha avuto».

«Ho capito, vuoi chiudere il caso». Rispondo.«Non vedo altre soluzioni se il corpo non si trova». Il telefono di

Kooper inizia a squillare dalla tasca interna del suo cappotto. «Scusate, mi stanno chiamando. Comunque vedrai che è andata così». E si allontana uscendo dalla stanza.

«E cosa diremo ai genitori di quei poveri ragazzi e ragazze» sussurro

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tra me e me.Sento il bisogno di una doccia bollente, così raggiungo Jerome's

Room e senza nemmeno salutare il proprietario Adam Fillingstone raggiungo la mia stanza.

Finalmente una doccia calda e il vapore appanna il box in vetro e per distrarmi inizio a disegnare come un bambino sulla superficie appannata scollegando il cervello da ogni rumore e concentrandomi solamente sull'acqua corrente.

Verso mezzo giorno incontro Billy Wide seduto al posto di guida della macchina di servizio allora entro e il rumore della portiera che si chiude alle mie spalle coincide perfettamente con un forte tuono proveniente da Nord. «Questa notte pioverà di nuovo». Così mi saluta Wide.

Io vado dritto al sodo. «Ascoltami Wide, volevo parlare con tuo figlio, come si chiama?».Wide mi guarda confuso e risponde. «Si chiama Eric. Perché vuoi parlare con lui?».

«Tuo figlio conosceva molto bene Irina Callaway, mi hai detto che erano molto amici». Wide allora mi interrompe mozzandomi le parole dalla bocca. «E questo cosa c'entra! Solo perché Kooper vuole chiudere il caso credi che tu abbia il diritto di indagare su..». Questa volta le parole gliele mozzo io dalla bocca, lo faccio letteralmente con un pugno ben assestato nei reni. «Lo sai quanto odio quando uno mi interrompe, cazzo». Gli metto una mano sulla spalla e tento di raddrizzarlo perché nel frattempo si era piegato a metà sul volante. «Ascolta Wide, quello che intendevo dire, se mi lasciavi finire è questo: Irina ha detto di aver scattato delle foto specificando di aver preso la macchina fotografica in prestito. Magari se troviamo quelle foto riusciamo ad avere qualche indizio in più».

«E cosa c'entra mio figlio?». Le parole gli escano spaccate in due.«Tuo figlio Eric può sapere chi nella loro compagnia di amici può

averle prestato la macchina fotografica».«Okay, ti porto a casa mia allora, così intanto ti presento mia moglie».

Accende la macchina e partiamo fino ad arrivare a una casa piccola su due piani con una bella veranda sulla porta d'ingresso. Solo quando spegne la macchina Wide mi guarda seriamente negli occhi e mi dice. «Allora, chiariamo subito una cosa: mio figlio è molto giù di morale in questo periodo,

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ha perso due sue care amiche quindi non iniziare con i tuoi giochetti, okay? Lascialo in pace per favore, anzi facciamo che ci parlo io».

Dire che Eric, il figlio di Wide, non assomiglia a suo padre sarebbe la stronzata più grande del secolo. Solamente più giovane e con venti chili in meno, ma del resto due gocce d'acqua. Mi scappa un leggero sorriso poi lascio parlare Wide. «Dov'è tua madre?».

Eric allora risponde scendendo l'ultima parte di scale fino al pianerottolo. «E' andata al super market, torna più tardi». Mentre parla distoglie lo sguardo dal padre portandolo su di me con l'interrogativo in volto per quell'estraneo appena entrato in casa sua. Non chiede chi sono così mi presento. «Ciao Eric, è un piacere conoscerti. Io Jersey Shown, un collega di tuo padre. Suoni la chitarra, mi fa piacere».

Il ragazzo subito cambia espressione e sorride compiaciuto, segno che ho agganciato la sua fiducia. «Piacere Shown, come fai a saperlo, te l'ha detto mio padre che suono la chitarra?».

«No, a dire il vero non parliamo mai della nostra vita privata. L'ho capito dalle unghie più lunghe che tiene nella mano destra rispetto alla mano sinistra. Fai bene, sono molto importanti le unghie per un chitarrista».

Wide mi guarda perplesso ma contento di aver strappato un sorriso a suo figlio e di aver reso il clima più leggero. Ovviamente me ne frego dei patti stipulati nella macchina e prendo io la parola. «Eric, volevo solamente domandarti una cosa molto semplice. Nella tua compagnia conosci qualcuno che possa avere una macchina fotografica che possa aver prestato a Irina?».

Al nome di Irina il volto di Eric torna ad essere sfregiato dal dolore e dal ricordo, però dopo aver riflettuto un attimo risponde. «Conosco una ragazza, si chiama Silvia, lei ha una macchina fotografica, ma non capisco il motivo per cui Irina abbia dovuto chiederla in prestito a Silvia quando lei ne aveva una molto più buona e professionale».

«Grazie Eric, sei stato di grande aiuto. Continua a suonare»Usciamo dalla casa di Wide e rientriamo in macchina.«Che facciamo?»«Per sicurezza ora andiamo a casa di Silvia a chiedere se ricorda di

aver prestato la sua macchina fotografica a Irina, anche se sappiamo già entrambi la risposta».

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Episodio sette

«Dovete chiedere a lei, io non so niente». Risponde il

padre di Silvia ancora sulla soglia della porta. Per fortuna accade che la ragazza la troviamo al bar di un certo Hoogan sulla Bluerain Street. E' con altre due ragazze che bevono, sedute al tavolino, un caffè con panna. La riconosco perché una della amiche la chiama per nome e il viso sembrava essere lo stesso della foto appesa alla parete del soggiorno di casa sua. Prima che il padre ci aprisse la porta, avevo scrutato all'interno, attraverso i vetri notando il particolare.

«Scusate l'interruzione, ragazze». Mi avvicino al tavolo da solo, ho detto a Wide che dovevo andare un attimo in bagno. «Tu sei Silvia, vero?». Lei annuisce e le amiche la guardano in attesa.

«Era amica di Irina Callaway, non è vero?». Silvia allora corruga la fronte e risponde. «Si, ma a lei cosa interessa, scusa? E' forse uno di quei giornalisti?».

«No, Silvia». Chiamandola così per nome la metto subito a suo agio prima di estrarre il distintivo dalla cintura. «Sono il detective Shown, sto indagando sulla scomparsa di Sofia Monroe».

«Cosa voleva sapere?» mi domanda e io nei suoi occhi vedo velato sintomo di lacrime.

«Irina ha detto di aver fatto delle foto con una macchina fotografica che gli aveva prestato un'amica. Quella macchina fotografica è stata usata il giorno in cui Sofia Monroe è scomparsa. Capisci bene quanto posso diventare importante per le indagini che sto compiendo. Sono venuto a sapere che anche tu hai una macchina fotografica, per caso gliela avevi prestata tu?». Mi lascia finire la frase, anche se noto, nel suo sguardo, una vivace volontà di rispondere alla mia domanda. «Sì, io ho una macchina fotografica, ma Irina

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aveva già la sua e molto più professionale della mia».«Si, me la ricordo la sua macchina fotografica». Dice la ragazza di

fronte a Silvia. «Era una Canon e qualcosa, me la ricordo perché ho partecipato alla spesa per quel regalo di compleanno».

«Grazie ancora, ragazze».Me ne sto per tornare verso il tavolo quando Silvia dice qualcosa.

«Detective». Io allora mi volto verso di lei nuovamente. «Sì, dimmi».«Sono già quattro gli amici che ho perso, troverete mai Sofia, o sarà

come tutti gli altri?».Che domanda. Una domanda a cui non so nemmeno io, a questo

punto, darmi risposta. Ma esitare troppo, davanti a una ragazzina che ti pone una simile questione e che si aspetta da te e dal tuo lavoro un risultato che perlomeno vendichi la scomparsa dei suoi cari amici, non va assolutamente bene. Dunque rispondo con una frase fatta che ormai ha il sapore amaro del metallo. «Ti prometto che faremo il possibile, anzi stiamo cercando tutt'ora di mettercela tutta per risolvere questa situazione. E' il mio lavoro e lo porterò a termine». Non ricordo a quante persone oramai ho detto la stessa identica frase vendendo promesse ma i mantenute. «Grazie, detective».

Torno al banco dove Wide mi aspettava. «L'hai fatta tutta?». Mi domanda sarcastico, poi aggiunge. «Quella era Silvia, non è vero?». Annuisco pensieroso, dunque Wide continua. «E non ha prestato la macchina a Irina, esatto?». Annuisco di nuovo e aggiungo. «Dobbiamo chiedere ai ragazzi della scientifica se hanno trovato qualche biglietto o lettera di addio o, ancora meglio, una macchina fotografica. Ci pensi tu a chiamarli?».

«Va bene». Risponde. «Lo sai cosa mi colpisce di tutto questo?».Non rispondo.«Mi stupisce il fatto che Irina Callaway abbia risposto al nostro

interrogatorio così ingenuamente. Voglio dire: se sai di aver commesso o partecipato a un simile reato cerchi perlomeno di crearti un alibi oppure di non incastrarti con le tue stesse parole. Quando siamo andati a casa sua, lei stessa ha aggiunto, sottolineandolo, che la macchina fotografica non era la sua e che gliela avevano prestata, noi non le avevamo chiesto nulla. Sapeva che bastava un giro di chiamate per scoprire la verità, come del resto la stronzata della bicicletta e che ha visto Sofia entrare in casa».

«E' quello che penso anch'io».

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Saliamo in macchina e prima di accendere il motore Wide dice qualcosa. «Shown, sicuro che va tutto bene?».

«Perché me lo chiedi?».«Non ti vedo molto in forma oggi e Kooper mi ha detto che sei stato

male quando sei tornato in centrale oggi».«Forse è colpa di tutta questa umidità, devo solo abituarmici». Cerco

di rimanere evasivo, non ho voglia di parlare.«Dai, non dire stronzate!». Mi risponde accendendo la macchina. «Io

non ti conosco, ma...».Allora lo guardo seriamente negli occhi e lo interrompo. «Esatto, non mi conosci».

Wide si informa dagli agenti della scientifica se ci sono stati progressi e la risposta, che non avevano trovato nulla di strano ne in camera da letto ne in altre stanze della casa, mi piomba addosso e sulla sulla testa come un'enorme sciabola affilata.

Convinco Wide a tornare a casa Callaway.«Non ti fidi proprio di nessuno, vero?». Dice Wide mentre entriamo in

casa, passando per il giardino ormai deserto. Le impronte delle scarpe di un milione di persone invadono il terreno oltre ai segni lasciati dai pneumatici sul fango fresco accanto alle pozzanghere. Pioverà sicuramente anche questa notte, me lo sento. Che tempo del cazzo.

Anche la casa è deserta, nessuno ci ha messo più piede da quasi due ore. Finalmente il silenzio e la tranquillità che serve. Vado dritto in camera da letto della ragazza e rimango circa un quarto d'ora a cercare in ogni angolo. Wide alle mie spalle segue i miei movimenti.

«Quei coglioni hanno infangato con le loro scarpe del cazzo tutto il pavimento! Ma come fate a lavorare in questo modo?». Mi incazzo rivolto a Wide.

«I ragazzi della scientifica avevano la scarpe coperte col nylon quando siamo andati via, non possono essere stati loro».

«Allora sicuramente qualche altro sfigato della vostra centrale o magari Kooper stesso, quel babbeo».

Le impronte delle scarpe, ad osservale bene, sembravano essere almeno di due persone che avevano fatto avanti e indietro per la stanza dalla finestra alla scrivania dal lato opposto.

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Raggiungo la finestra e vedo che il vetro dell'anta socchiusa è leggermente appannato. Dalla finestra un po' aperta entra un leggero vento freddo invernale, ricordo quindi la doccia bollente che avevo appena fatto. Un idea folle mi entra nel cervello urlando al ricordo di quando, per distarmi un po', avevo preso a disegnare sul vetro appannato del box doccia. Raggiungo la finestra e inizio ad alitare sul vetro in modo che si appanni al contatto con l'aria calda. Sento lo sguardo imbarazzato di Wide alle mie spalle, ma me ne sbatto il cazzo.

Controllo tutto il vetro e quell'idea inizia ad apparirmi stupida quando mi accordo che non c'è nulla sulla superficie liscia e trasparente. Finché non raggiungo l'angolo a destra, verso il basso della seconda anta. Lì mi raggiunge, alle ginocchia, una mazza da baseball in legno che mi frantuma le rotule. Per poco non cado alla vista di alcune lettere, scritte col dito, sul vetro appannato dall'interno:

mitciv ym ro ylimaf ruoy ro uoy

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Episodio otto

La luce tagliente della lampada sopra di noi illumina il

riflesso del messaggio sul vetro appannato e Wide, come me, assume un'espressione sorpresa e stordita. «Cosa significa?». Domanda.

Rifletto un istante e rispondo. «Al contrario significa: tu o la tua famiglia o le mie vittime».

«Credi che l'abbia scritto Irina Callaway?».«Penso l'abbia scritto lei, però non capisco il motivo per cui l'avrebbe

scritto al contrario, come se qualcuno all'esterno avesse dovuto leggerlo».«Perché avrebbe dovuto scriverlo lei un simile messaggio, secondo

te?». Ragiono, ma non rispondo, così Wide continua. «Dal significato della scritta sembra opera di un ricattatore, non credi?».

«Se fosse stata un'altra persona, la scritta sarebbe stata scritta all'esterno in modo che Irina l'avesse potuta leggere. E poi non credo che un ricattatore avrebbe perso tempo con questi giochetti speculari».

Apro la finestra che già era socchiusa e guardo all'esterno. Davanti a miei occhi si apre un piccolo e trascurato cortile. «Certo che chiunque da qui poteva entrare o spiare Irina, siamo al piano terra e la finestra dà su un cortile facile per chiunque da raggiungere. Per di più non ci sono nemmeno le inferiate. Un giochetto da ragazzi». Osservo poi verso il basso il terreno fangoso e noto alcune impronte di scarpe, forse quelle degli agenti della scientifica quando hanno controllato il perimetro, ma c'è dell'altro: quattro piccolissime strisce di fango sul bordo in legno della finestra. «Qualcuno, Wide, è entrato in questa stanza passando dalla finestra».

Wide mi segue fino all'esterno, nel giardino sul retro. «Dopo Shown, quando andiamo in centrale, controlliamo i rapporti della scientifica per vedere chi è entrato o uscito dalla casa durante le indagini. Soprattutto se gli

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investigatori avevano già descritto i segni di fango sulla finestra e sul pavimento, io questa mattina non gli avevo notati».

Allora sulla poltiglia di foglie e fango del giardino sul retro vedo in rilievo le impronte di alcune scarpe, forse le stesse del pavimento della camera da letto. «Chiama subito Kooper e digli di fare arrivare il più presto possibile il fotografo o quelli della scientifica. Non voglio perdere queste impronte per un fottuto acquazzone, potrebbero essere di qualcuno che è entrato successivamente le indagini». Wide obbedisce mentre io mi chino in avanti piegandomi sulle ginocchia. Se le impronte sono veramente fresche e non già annotate nel rapporto, mi chiedo per quale motivo qualcuno deve aver preso la decisione di intrufolarsi in camera di Irina.

«Ah, digli anche di recuperar un elenco dettagliato di ogni oggetto presente nella camera al momento delle indagini». Aggiungo rivolto verso Wide ormai vicino a una linea di alberi. Intanto le mie mani rovistano tra il fango e le foglie finché non toccano inavvertitamente qualcosa di più solido tra la poltiglia. Wide allora mette il palmo della mano sul microfono del telefono e, da lontano, mi risponde a voce alta. «Ha detto che non è stato fatto un elenco degli oggetti perché è stato classificato ovviamente come suicidio e non omicidio». Wide mette giù e ripone il telefono nella tasca mentre torna verso di me, intanto io mi rialzo mettendo in tasca il piccolo oggetto raccolto dal fango.

«Perché secondo te qualcuno è entrato dalla finestra?». Mi domanda Wide.

«Può averlo fatto qualcuno, molto probabilmente un complice di Irina, che, per non finire con la testa sommersa dalla merda, ha deciso bene di liberarsi di qualche prova».

«Se c'erano veramente delle prove, la scientifica le avrebbe trovate. Che senso ha venire dopo l'ispezione?».

Guardo Billy Wide con occhi che trasmettono tutto il mio disprezzo e disgusto per il modo con il quale lavorano le forze dell'ordine a Mason Creek e così sottintendo la mia risposta.

Poco dopo arriva il fotografo e un una donna che rileva le impronte col gesso, l'operazione richiede parecchio tempo per motivi di umidità. «Il negativo dell'impronta sarà utilizzabile non prima di domani, d'accordo?». Dice la donna mentre risistema il suoi attrezzi. «Sono riuscita a rilevarne

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solamente una, le altre non sono abbastanza visibili, spero vi basti».«Ottimo lavoro». Risponde Wide. Quando la donna sale in macchina e

accende il motore io aggiungo. «Volevi anche darle la mancia? Che significa ottimo lavoro? E' il suo lavoro!».

«Come sei polemico!». Risponde. «Te quando porti a termine un caso nessuno ti dice mai che hai fatto un ottimo lavoro?».

«Me lo dicono in molti, ma non ci trovo niente di ottimo nel mio lavoro».

«Non mi sembra che non ti piaccia il lavoro che fai». Io non rispondo. Così in silenzio raggiungiamo la macchina. Wide si mette le mani tra i capelli e si massaggia le tempie, io estraggo dalla tasca interna dell'impermeabile una sigaretta e mi rendo conto che è tanto tempo che non ne fumo una. Accenderei volentieri tutto il pacchetto. Non trovo da nessuna parte quel maledetto accendino, così aziono l'accendisigari dell'auto accanto al cruscotto. Wide allora sfrutta l'occasione d'attesa. «Non voglio romperti le palle, ma è solo per parlare un po'».

«Allora non romperle!». Rispondo seccato. Cazzo, ho voglia di una sigaretta e quel maledetto accendisigari ci sta mettendo troppo tempo.

«Ho capito che sei rimasto un po' scosso quando hai visto Irina e ho pensato che per una persona, che fa ormai questo lavoro da così tanto tempo, avesse già imparato a sopportare ogni genere di cosa». Non rispondo e fisso con disprezzo e rabbia quel maledetto accendisigari. Allora Wide continua il suo interrogatorio. «Confesso Shown, che quando ho visto Irina appesa per il collo questa mattina, ho avuto paura. Aveva l'età di mio figlio, capisci! Non lo sopporterei».

Io allora lo guardo negli occhi e dico. «Non fare i giochetti con me, perché non mi fai la vera domanda di questo inutile discorso?».

Wide accenna un sorriso a sé stesso, come se avesse vinto alla scommessa su quanto tempo ci avrei messo a capire le sue intenzioni. «Avevi un figlio anche tu?».

La domanda piomba dall'alto dritta sulla mia testa, ma ero pronto a questo. «No». Rispondo infine secco.

«Fa niente, faccio i cazzi miei». Wide inserisce la retro quando il bottoncino dell'accendi sigari segnala che è pronto per essere utilizzato.

«Avevo una donna che voleva un figlio da me». Wide allora si volta

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verso di me dandomi pieno ascolto.«Raccontami come è andata, Shown».«Appena terminati gli studi a Quantico al corso di Scienze

Comportamentali mi hanno trasferito a New York all'ufficio investigativo dove lavorava mio padre».

«Un bravo padre, immagino». Si lascia sfuggire Wide.«No, un bravo detective». Rispondo. Poi continuo. «Nel frattempo,

mentre fornivo profili psicologici al reparto investigativo della Omicidi, ho conosciuto e frequentato una ragazza. Poco dopo sono andato a vivere assieme a lei». Interrompo il discorso e finalmente mi accendo la mia sigaretta, allora Wide mi domanda. «E' stata tua la scelta di entrare all'FBI Accademy?».

«Credevo di sì, ma in verità negli anni ho scoperto di averlo fatto per fare contento mio padre».

«Nonostante ciò sei molto bravo».«Credimi Billy, in quei due anni a New York ho visto cose che tutt'ora

fatico ad accettare che facciano parte della natura umana. Quando ho capito le intenzioni di Sarah di creare una famiglia con me, l'ho abbandonata».

«Per quale motivo?».«Billy, te non hai idea del male che vive annidato tra quelle vie, un

malo oscuro, una forza di tenebra paurosa che prima o poi avvolge pure la tua immacolata anima di poliziotto. Lei non accettava la mia idea di non volere un figlio, perché non viveva ciò che io tutti i giorni ero costretto a vedere. Billy, un figlio in un mondo così è un gravissimo sbaglio».

«Insomma, sei fuggito senza nemmeno tentare».«Billy, con un figlio non è che hai delle possibilità, non puoi ragionare

per tentativi, devi essere sicuro di garantirgli un mondo il meno malvagio possibile. Quel mondo non esiste».

«Non sono d'accordo. Il mondo può essere anche un brutto posto, ma vale combattere per esso. E questo è il grande onore di fare questo mestiere».

«Non c'è nessun onore perché la lotta tra luce e oscurità è eterna, il nostro contributo non migliora un bel niente, ma ti da solo la soddisfazione, di tanto intanto, di vedere qualcuno dietro le sbarre. Soddisfazione che termina al pensiero che per ogni persona che riesci a mettere in gabbia, almeno dieci ne prendono il posto. E' una lotta a perdere».

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«Se credi di convincermi che fai questo lavoro solo perché ne sei rimasto incastrato per lo sbaglio di aver seguito le orme di tuo padre, allora ti sbagli. Nulla accade mai per caso».

Finisco la sigaretta con un ultimo intenso tiro e il fumo invade la macchina. «Nulla accade mai per caso, ma il punto è che accade. E ciò che accade è tremendamente sbagliato».

Allora Billy Wide ci rinuncia ed esce dal parcheggio partendo il retro. Io mette le mani in tasca e ricordo di aver raccolto senza pensiero quel piccolo oggetto da terra. Con le dita, dentro la tasca della giacca, lo ispeziono e lo pulisco dalla terra umida. Ha una forma sottile e a goccia. Lo estraggo e scopro finalmente cos'è.

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Episodio nove

Il plettro che tengo tra le mani è spesso forse più di un

millimetro e, mentre Wide accosta la macchina al parcheggio dell'ospedale, mi accorgo di due cose: primo che il plettro per chitarra è praticamente nuovo; secondo che, per qualche motivo inconscio, non ho mostrato quel piccolo oggetto al mio collega Billy Wide. Addirittura l'ho raccolto da terra senza guanti per le impronte digitali, mettendolo in tasca ignorando il fatto che poteva essere una prova. Ma ormai quel che ho fatto ho fatto, e non posso certo ammettere questa mia scorrettezza, dunque, per il momento, decido di lasciar perdere questa storia del plettro e concentrarmi sui dettagli del caso.

Un'infermiera ci accompagna fino alla stanza della signora Callaway, mamma di Irina. Affianco al letto troviamo il marito che sussurra col Dottore di fronte a lui. Quando entriamo smettono di parlare fra loro e l'attenzione è tutta su di noi.

«Salve, sono il Dottor Thompson». Allunga la mano e gliela stringo con forza poi passo al dunque. «Come sta la signora?»,

Il Dottor Thompson prende la sua cartelletta coi fogli appuntati, come se non ricordasse nemmeno più il nome della paziente. Ecco questo genere di cose mi fa veramente incazzare. Ma sto zitto e lascio perdere.

«E' arrivata in ambulanza priva di sensi e in stato di shock, dunque abbiamo somministrato una dose di adrenalina per via intramuscolare che le ha fatto riprendere i sensi. Ora sta riposando, è passata allo stadio moderato e il cuore continua ad avere un battito irregolare, ma sta bene. Domani mattina può essere dimessa».

«Grazie Dottore». Intanto Wide si avvicina a Mark Callaway e io fulmino Thompson con lo sguardo così, senza che io gli dica niente, esce dalla porta accompagnato dall'infermiera.

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«Molto probabilmente qualcuno è entrato in casa sua poco dopo che tutti gli agenti se n'erano andati. E' entrato dalla finestra della camera d a letto di Irina. Lei sa il motivo? Oppure ha qualche sospetto?».

Il volto e gli occhi del signor Callaway lasciano subito intendere d'essere scossi e stupiti dalla notizia, così risponde. «No, non saprei. Perché mai qualcuno dovrebbe entrare in camera di mia figlia dopo quello che è successo?». Le gambe gli tremano e Wide trova una sedia e consiglia a Mark di sedersi. Intanto prendo la parola io. «Ora, se non le dispiace, vorremmo che lei venisse con noi fino alla sua abitazione e che cercasse di ricordare se in camera di sua figlia manca qualche oggetto».

Il signor Callaway allora si siede e si porta le mani al volto. «Non so se ce la la faccio a entrare di nuovo in quella camera».

«Le impronte che abbiamo trovato rimangono nella stanza, dunque chi è entrato deve aver cercato qualcosa o forse preso qualcosa dalla camera di sua figlia».

«Non può essere stato un giornalista?». Chiede Mark Callaway.«Se è stato un giornalista, allora è stato un grandissimo coglione. Se

ha fatto delle fotografie non può comunque pubblicarle se no si scoprirebbe il suo reato d'essere entrato in una proprietà privata per giunta durante una indagine federale. No, deve essere qualcuno che c'entra con questa storia, qualcuno che non voleva che noi scoprissimo certe prove che magari sua figlia aveva nascosto».

Allora il signor Callaway si irrigidisce e assume un'espressione contorta. «Cosa c'entra il suicidio di mia figlia con le prove e con le indagini?».

Wide ed io ci guardiamo per lungo tempo negli occhi poi decido di rispondere. «Sua figlia, signor Callaway, in qualche modo c'entra con la scomparsa di Sofia Monroe. Abbiamo le prove che ciò che ha detto in sua difesa all'interrogatorio è falso, come il fatto di aver accompagnato a casa la sua amica e di averla vista entrare». Così Wide prende la parola per darmi una mano a convincere il padre, ormai in delirio di collera. «Non stiamo dicendo che Irina è colpevole di qualcosa, ma che forse è stata ricattata da qualcuno per portare Sofia nel bosco oppure per testimoniare il falso. Lei deve aiutarci a capire in che grado sua figlia era coinvolta. Ci aiuti».

Mark Callaway allora si asciuga le lacrime e stringe i pugni gonfio di

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rabbia. Dopo qualche profondo respiro si calma e da un bacio sulla fronte alla moglie stesa sul letto.

Raggiungiamo nuovamente la casa e il signor Callaway si affianca a noi con respiro grosso e pesante, aprendo e chiudendo gli occhi, come per eliminare dalla sua mente le immagini dell'orrore. Nella fredda cameretta di Irina Mark comincia a ispezionare ogni particolare e Wide ed io aspettiamo il verdetto sulla soglia della porta. Nell'attesa osservo le nostre taglienti ombre allungate sul legno che riveste il pavimento. Wide riceve a un certo punto una chiamata e si allontana per qualche minuto. Quando torna mi sussurra all'orecchio.«Era Kooper, ci vuole in centrale al più presto. Ci vuole parlare». Annuisco e continua con speranza che il padre di Irina si volti verso di noi con l'illuminazione di aver trovato qualche indizio. Ma niente. Assolutamente niente.

«Hai trovato qualcosa, Mark?».«L'unica cosa che manca è la sua macchina fotografica. Era qualche

settimana che non la vedevo più al suo posto sulla scrivania, magari l'aveva prestata a qualcuno o nascosta da qualche parte. Non lo so».

Io sospiro e sussurro tra me e me. «Sapevo che quella macchina fotografica sarebbe stata la nostra rovina». Poi cerco di pensare anche se alcuni improvvisi tuoni irrompono nella stanza preannunciando un grosso temporale. Da quel che sappiamo Irina non l'ha prestata a nessuno la sua macchina fotografica e per quale motivo l'avrebbe nascosta? Forse aveva paura di romperla a tenerla sulla scrivania? O aveva paura che gliela rubassero?

«Hai detto che la teneva sempre sulla scrivania?». Chiedo.E Mark risponde. «Sì, esatto. La teneva sempre qui sopra». Indica in

ripiano di scrivania accanto ad alcuni libri.«Ma da qualche settimana non ha più visto la macchina fotografica in

quel punto?».«Io entravo poche volte nella sua camera, ci entrava spesso mia

moglie per fare le pulizie, infatti me l'ha fatto notare lei la settimana scorsa questa cosa. Ma giusto così, perché si parlava di niente di importante a tavola».

«L'esperienza di detective mi ha insegnato che le cose irrilevanti sono le più importanti in una indagine, sono i particolari che ti permettono di

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risolvere il caso»Wide allora interviene. «Non hai notato niente di diverso o

qualcos'altro di mancante nella stanza?».Mark si guarda intorno con i visibili ricordi in volto di tutto quello che

aveva lui stesso vissuto con sua figlia. Potevo leggergli chiaramente nell'espressione la malinconia delle scenette quotidiane che si consumavano tra loro e nel loro rapporto padre-figlia. E infine risponde. «No, non vedo altro, ma se mi viene in mente altro richiamo lei detective Shown».

Lo salutiamo e in macchina, sotto un fitto torrente di pioggia in picchiata da cielo nero, raggiungiamo la centrale dove Kooper ci aspetta nel suo ufficio.

Ci fa accomodare davanti alla sua scrivania e lui provvede a chiudere la porta. «Ragazzi, siete stati molto bravi fino adesso, ma non abbiamo risultati. Nemmeno un corpo o lo straccio di una prova che riconduce a un sospettato. Quei genitori hanno bisogno della faccia di un presunto colpevole, capite?».

Intanto è partito col piede sbagliato chiamandoci ragazzi, come se fossimo dei novellini. Come se io fossi un novellino. Gli avrei volentieri sputato in faccia per questo. «A te non te ne frega un cazzo dei genitori, Kooper. Diciamo che è la stampa che ti fa pressione per aver una faccia da giudicare!».

Wide, da sotto il tavolo, mi tira un piccolo calcio per ricordarmi di stare tranquillo poi parla. «Arriva al punto Kooper, perché ci hai chiamato?».

«Ho deciso di archiviare il caso finché non mi arriverà sulla scrivania un'altra denuncia di scomparsa o rapimento. Shown, ho già chiamato Ed Green, il tenente capo del tuo dipartimento. Ha accettato la mia scelta di mettere da parte questo caso per mancanza di prove. Domani puoi tornare a casa».

La potenza di una bomba nucleare mi esplode nel petto a tal punto che mi getto su Kooper prendendolo per la cravatta dall'altra parte della scrivania. «Brutta testa di cazzo! Qui sono scomparse delle persone! Io non uso il mio tempo per niente, ogni singolo indizio o piccolo particolare che fin'ora abbiamo raccolto ci può portare sulla strada giusta».

Wide mi afferra il braccio e cerca di calmarmi mentre la luce di un

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lampo attraversa le persiane illuminando i miei occhi rossi di rabbia fissi e stretti su quelli di Kooper che se ne stava intanto immobile terrorizzato. Lascio allora la presa sulla cravatta e sul collo della camicia gettando Kooper all'indietro col culo sul pavimento. Mi giro e me ne vado sbattendo la porta alle mie spalle e sorridendo al pensiero che, se anche quella parete fosse stata realizzata in cartongesso, Kooper avrebbe dovuto chiamare nuovamente i muratori per riparare il danno.

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Episodio dieci

Raggiungo la hall del Jerom's Room e trovo quasi ad

aspettarmi Adam Filligstone dietro il banco del bar che asciuga gli ultimi bicchieri. Faccio per andare verso le scale, poi mi fermo e mi siedo su uno degli sgabelli intorno al banco.

«Buona sera detective Shown, tutto bene?».«Ciao Adam, niente va bene in questo cazzo di mondo».«Capisco, spero non sia il tempo ad averla resa così arrabbiato col

mondo». Si volta un attimo per mettere al suo posto un calice.«Il tempo non c'entra proprio niente, il mondo è così perché esistono

delle teste di cazzo».«Vuole qualcosa da bere?». Mi chiede voltandosi.Penso e intanto osservo lo scaffale dei distillati. «Hai del bourbon?».

Cazzo, non dovrei nemmeno pensare di bermi un bourbon, ho smesso da tempo di bere. Ricordo quel periodo a New York di gavetta nel dipartimento. Passavo spesso tutta la notte a bere assieme a mio padre da Ginger sulla Trentasettesima Strada.

«Va bene del Jack?». Mi domanda Adam.«Ottimo, ma solo un bicchierino».Senza pensarci e d'istinto lo tracanno in un sorso. La gola brucia e il

cervello si allarga. «Ci voleva, cazzo. Grazi Adam. Fammene un altro, per piacere».

«Come procedono le indagini, detective?». Mi chiede Adam mentre versa nello stesso bicchiere altro Jack Daniel's.

Mi accendo una sigaretta ed Adam mi allunga un portacenere, poi rispondo. «Male, non riesco ad arrivare nemmeno a un sospettato. E il caso verrà presto chiuso».

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«Che peccato!». Voleva forse aggiungere qualcosa di più.«Adam, te sei qui da molto tempo e conosci molta gente, hai qualche

idea?».Adam mi guarda stupito della domanda e preso alla sprovvista mi

risponde. «Oh, detective, lo sa bene anche lei, la gente nelle piccole città mormora e i barman ascoltano, ma non parlano». Sorride. Allora io tracanno il secondo bicchierino. «Cosa mormora la gente?».

«Perlopiù stupidate e leggende. Alcuni credono che ci sia una maledizione su questa paese, una maledizione che viene dal bosco. Dopo quella storia dei satanisti».

«Ah, già». Sospiro e mi faccio riempire il terzo bicchiere. «I satanisti. Cosa dice la gente?».

«Le voci in paese dicono che quei satanisti hanno risvegliato un demone dall'inferno, un demone che rapisce i bambini e i ragazzi. Lo chiamano Slender».

Spengo il filtro della sigaretta nel portacenere. «Che stronzate. Non sembra un nome molto da demone». Sorrido e questa volta sorseggio il Jack Daniel's bagnandomi solo le labbra. Quel gusto che mi evapora sulla lingua mi rilassa e mi stende i nervi.

«E' apparso in sogno ad alcune persone che lo ricordano come un essere allungato e magro, senza volto».

«Beati loro che hanno il tempo di inventarsi e raccontare certe cose». Mando giù l'ultimo goccio. «Tu sai cosa è successo realmente?».

«Qui, al Jerom's Room, ho ospitato moltissimi giornalisti quando scoppiò lo scandalo dei satanisti di Mason Creek. Ho raccolto da loro alcune informazioni perché ciò che era accaduto mi interessava all'epoca. Ognuna di esse era discordante, ogni giornalista rigirava la storia a modo suo finché non mi sono rotto le palle. Ora i due colpevoli stanno nel carcere a Dodge City. Se vuoi sapere di più prova a parlare con loro. Ovviamente quei due si dichiararono innocenti, ma le prove su ciò che avevano fatto era schiaccianti».

Tracanno fino in fondo il bicchiere di Jack e chiedo incuriosito. «Cosa avevano fatto di preciso?».

«Entrambi avevano un figlio. Ognuno di loro ha portato il proprio figlio in quel bosco e l'ha ammazzato in nome di chissà quale demone o religione».

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«Ma i corpi dei bambini non sono mai stati ritrovati però».«Esatto». Adam si volta per rimettere la bottiglia sullo scaffale, ma lo

fermo in tempo. «Ti compro la bottiglia, tanto ne manca un goccio. La porto su in camera se non ti dispiace».

«Nessun problema».Raggiungo la mia stanza. Sento la testa di almeno dieci taglie più

grossa, così dopo una doccia mi siedo sulla sedia accanto alla piccola scrivania. La luce della sola lampada non è abbastanza per illuminare la stanza. Rimango nel semibuio a bere Jack Daniel's finché non finisco il pacchetto di sigarette. Domani dovrò comprarle di nuovo.

Quando mi sdraio finalmente sul letto inizio a far roteare tra le dita quel plettro per chitarra trovato nel giardino sul retro della casa della famiglia Callaway, accanto alla finestra. Il lampi illuminano la stanza attraverso il vetro chiuso e nella mia mente si accende qualcosa, un'idea, un'intuizione straordinaria. Capisco finalmente perché il mio inconscio mi ha suggerito istintivamente di raccogliere quel plettro senza dire nulla a Wide. Ma è solo una nota nel mio cervello, e forse ho bevuto troppo. Domani mattina, prima di prendere il treno, cercherò in città il negozio di strumenti musicali e mi farò dare qualche informazione. Mi addormento pensando a quei satanisti e a cosa può essere accaduto anni fa in quel bosco. E' possibile che ci sia una relazione? No, sono tutte stronzate. Però è vero che da allora scompaiono ragazzi e ragazze. Il sovrannaturale non c'entra un cazzo. Dietro a questa storia c'è un pazzo squilibrato, forse un membro di quella setta di satanisti o forse solo un fanatico.

Non so precisamente che ore sono, ma il suono metallico del telefono sopra il comodino mi frigge il cervello e la seconda cosa che noto è che la pioggia non batte più sul vetro della finestra.

«Pronto?». La mio voce è rauca a causa di tutte quelle sigarette.«Detective, sono Mark».Scatto subito in avanti e mi siedo sul bordo del letto. «Ciao Mark,

dimmi tutto».«Stamattina sul presto è tornata mia moglie a casa». Dalla voce

sembra essere un po' agitato.«Sono contento per te, Mark». Rispondo assonnato.«Era ancora sconvolta, ma quando l'ho portata in camera le ho chiesto

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se riusciva annotare qualche cosa di diverso o mancante, si è subito accorta del pupazzo».

«Quale pupazzo?». Mark cattura decisamente la mia attenzione.«Un pupazzo a cui Irina teneva molto, era sulla mensola dei libri ed

ora non c'è più. Abbiamo controllato da altre parti, ma non c'è».«Perché mai qualcuno rischierebbe di entrare in una proprietà privata

per rubare un pupazzo?». Bisbiglio tra me e me.«Come?».«Ah, niente signor Callaway. E' stato di molto aiuto, sicuramente si

tratta di un dettaglio che può fare certamente comodo». Come cazzo gli dico che il caso è stato chiuso e che non avrà risvolti? Cazzo!

Sto per mettere già la cornetta e salutarlo, quando Mark riprende a parlare. «Non è tutto, detective».

«Cos'altro c'è?». Domando.«Nello zaino di scuola, tra i quaderni di Irina abbiamo trovato alcuni

disegni molto strani. Mia moglie è terrorizzata e devo ammettere che anche io lo sono».

«Mi preparo e vengo subito da lei, allora. Mi riesci intanto a spiegare cosa raffigurano?».

C'è qualche secondo di silenzio prima della risposta di Mark dall'altro capo. «Un bosco. Dei rami. Un uomo alto e magro. Un uomo senza volto».

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Episodio undici

E' gelido il manto rosa dell'alba a Mason Creek, come la

pelle di una ragazza trovata morta all'ombra di un bosco o sul guado di un fiume. L'immagine ricorrente del corpo di Sofia Monroe mi passa per la testa perforandomi le tempie da parte a parte, poi svanisce.

Da Cone Street raggiungo a piedi il bar di Hoogan sulla Bluerain, nel frattempo io miei pensieri bruciano nell'affollatissima stanza delle domande. Al bar provo a chiamare Billy Wide dal telefono, ma non risponde nessuno. Ritento e, dopo un caffè, chiamo Ed Green, tenente capo della unità omicidi dell'FBI.

«Ed, ascolta! Non puoi accettare che quello stronzo di Kooper mi rispedisca a casa a mani vuote. Lo sai come sono fatto».

Ed, sommerso dai rumori d'ufficio, risponde. «Jersey, lo so benissimo come sei fatto, quindi so anche che hai fatto sicuramente fino adesso dl tuo meglio, ma Kooper ha ragione, non ci sono prove, né un testimone, né un indagato o un sospettato. Il caso viene chiuso, punto e basta. Quando torni?».

A malapena lo sento attraverso il telefono, ma abbasso la testa ancora appesantita dal Jack Daniel's e rispondo. «Oggi, prima di pranzo prendo il treno e arrivo. Come mai tutta questa fretta, hai già un altro caso impossibile da risolvere?».

«Non so se affidarlo a te o a Josh. Lo sceriffo e i suoi hanno trovato un'intera famiglia, compresi i figli, accoltellata in un condominio nel quartiere di Stonescliffe. Hanno interrogato il vicinato».

Scosso la testa e sorrido. «Lo sapevo che c'era il trucco. C'è sempre il trucco. Ed, io devo trovare Sofia Monroe, dammi qualche altro giorno per raccogliere prove ed arrivare a un risultato».

«Non posso. Domani mattina ti voglio in ufficio».

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Lo mando a fanculo, anche se è il mio capo e caccio già la cornetta. Tutto questo tempo a Mason Creek sprecato per non arrivare a nulla. Vaffanculo!

Provo a richiamare Wide a casa e lascio un messaggio in segreteria dicendogli che lo stavo cercando e che mi avrebbe trovato a casa dei signori Callaway.

A piedi fino alla casa di Irina è dura, soprattutto con l'aria gelida mattutina residuo di un burrascoso temporale notturno. Ma voglio vedere quei disegni.

La signora Callaway è pallida e avvolta intorno a un panno di lana quando entro in casa. Le stanze sono buie e soffuse mentre il signor Mark Callaway mi accompagna verso il tavolo, avvolto da una gigantesca nube di fumo di sigaretta. Non ho ancora comprato le sigarette, accidenti!

«Ecco, questi li abbiamo trovati dentro i quaderni per gli appunti». Mi informa Mark.

Prendo tra le mani i fogli un po' accartocciati. Alcuni sono solo schizzi fatti con la penna e rappresentano alcuni alberi, forse un bosco. In ogni disegno c'è comunque un cerchio ricalcato più volte. All'interno del cerchio c'è solo il bianco del foglio, nient'altro. Il cerchio, a mezz'aria era in qualche schizzo collegato da linee nere più grosse che gli davano nella totalità la forma stilizzata di uomo. Osservo con cura ogni particolare poi mi rivolgo a Mark senza molti giri di parole o suspense. «Sono venuto a sapere che qui a Mason Creek c'è una leggenda a proposito di questo “demone” ci credete anche voi?». La moglie di Mark seduta sul bordo del divano si fa subito il segno della croce e Mark risponde. «Non credo sia una coincidenza. Perché Irina avrebbe disegnato questo? Credo che in qualche modo c'entri con la crisi di mia figlia e la scomparsa degli altri ragazzi, non c'è altra spiegazione».

«C'è sempre una spiegazione logica a tutto, signor Callaway».Improvvisamente la signora Callaway, presa da un gesto di follia e

delirio si alza dal divano e mi corre incontro con voce sempre più forte. «Dicono che appare nei sogni! Mi a figlia aveva provato a parlarmene! Aveva provato. Appare nei sogni e ti obbliga, ti costringe».

«Calmati, tesoro, per favore non fare...». Mark prova a tranquillizzarla finché non arriva a prendermi per il collo della giacca. Gli occhi lividi di una madre che ha perso la figlia mi fissano pieni di rabbia e odio. «Deve trovare

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chi ha ucciso mia figlia!».E' evidentemente fuori di senno dopo l'accaduto e la capisco, ma gli

afferro comunque i polsi stringendoli con forza finché dal dolore non decide di staccarsi da me. Il marito la trascina di nuovo sul divano, mentre lei continua a urlare vendetta verso quel demone che le ha portato via sua figlia. Ridicolo e raccapricciante al momento stesso. Suona il telefono di casa, vicino al televisore e Mark risponde. Poi si rivolge a me. «E' Wide».

Mi avvicino alla cornetta mentre il signor Callaway torna verso il divano, accanto a sua moglie.

«Finalmente Wide, ti ho cercato a casa, dov'eri?».La voce dall'altro capo non è una delle migliori, sembra stanca e

afflitta da qualche cosa di grave. «Shown, questa notte Eric non era tornato a casa, non è da lui fare una cosa del genere. Poi è tornato all'alba, tutto sporco di fango».

Rimango in silenzio finché non mi arriva, dalla voce accartocciata di Wide, il verdetto finale, nonché un palla di dieci tonnellate sulla mia testa. «Eric è tornato sporco di fango e terra, era sconvolto e non capivamo il perché Aveva lo sguardo perso nel vuoto come se non ricordasse nulla. Lo abbiamo portato all'ospedale per vedere se aveva avuto qualche trauma o se era ferito, mia moglie ed io avevamo subito pensato che era caduto da qualche parte e che ferendosi era svenuto. Poi la notizia». Si interrompe.

«Dimmi Billy».La voce strozzata di Billy s'annega nel pronunciare la frase

successiva. «Ero all'ospedale quando Kooper mi ha chiamato dalla centrale. I due grandi amici di mio figlio sono non sono tornati a casa questa notte e non si sa nulla di loro da ieri pomeriggio».

«Ti raggiungo subito all'ospedale, dammi dieci minuti. Prendo il tram che ora è in servizio».

Metto giù la cornetta. Infilo i disegni di Irina in una busta ed esco di fretta dalla casa dei signori Callaway scusandomi brevemente per quell'improvviso contrattempo.

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Episodio dodici

«Sta bene, non ha ferite. E' solo sotto choc. Ora lo

riportiamo a casa». Wide mi informa delle condizioni di suo figlio Eric non appena varco la soglia della stanza d'ospedale. La moglie di Wide è seduta sulla sedia, accanto ad Eric. Il giovane è sveglio e ha gli occhi persi nel vuoto verso il soffitto.

«Ora tesoro andiamo a casa, così potrai dormire un po' e riposarti». Dice la signora Wide accarezzando la guancia sinistra del figlio.

Eric spalanca le palpebre come sorpreso da un ricordo traumatico e scuote la testa. «Non voglio dormire».

Allora mi avvicino di più a Wide. «Billy, devi comprendere che forse tuo figlio è coinvolto nella scomparsa degli altri due ragazzi, come lo era Irina Callaway. Dovrà essere sottoposto a un interrogatorio».

«Mio figlio non ha fatto niente di quello che pensi!». Wide si agita subito, seppur consapevole della verità. «Mio figlio non c'entra un cazzo con quella storia! Oddio!».

«Mettiamo, e lo spero, che non c'entri niente, ma è comunque una delle ultime persone che ha visto quei ragazzi. Ed anche se scopriamo che quel pomeriggio non li ha visti, è comunque una delle persone che effettivamente era più vicino a loro essendo ottimi amici. Devi accettare questa situazione».

La signora Wide si volta verso di me minacciosa. «Detective Shown, non si permetta nemmeno di pensare che mio figlio c'entri con quelle sparizioni. Ci dev'essere una spiegazione, forse si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato».

«Signora Wide, io faccio il mio lavoro ed ogni persona è un potenziale colpevole. Non farò più lo sbaglio di..». Mi fermo perché mi rendo

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conto di stare per dire qualcosa che non avrei potuto rivelare sul mio passato. Quella cosa che ho fatto! Ero proprio diventato cieco alla realtà! Scuoto la testa per eliminare il ricordo e mi rivolgo a Wide. «Come si chiamano gli altri due ragazzi scomparsi?».

«Martin Hoover e Jason Davies. Entrambi di diciassette anni».«Wide, devi promettermi che li troverai. Sei un bravo investigatore,

sono sicuro che ce la farai».In quell'istante Kooper bussa alla porta. Il cappotto completamente

fradicio. Guardo fuori dalla finestra della stanza. Ha ripreso a piovere di nuovo.

«Detective Shown, Wide. Mi seguite un attimo nel corridoio, vi devo parlare».

Le seguiamo poco oltre la stanza e, mentre un nuovo lampo illumina il volto stanco e preoccupato di Billy Wide, le nostre ombre si proiettano taglienti sul pavimento lucido del corridoio e la luce neon del reparto ci abbraccia fredda come la morte.

«Ho saputo cosa è accaduto e ho due foto in più sulla bacheca dei ragazzi scomparsi, per non parlare di quattro genitori in più incazzati con le forze dell'ordine di Mason Creek e un telefono in ufficio rovente dalle chiamate dei giornalisti. Wide, tuo figlio può essere coinvolto nella storia, oppure potrebbe essere una delle vittime che è riuscita a scappare da quel pazzo maniaco. In entrambi in casi risulta coinvolto. Ovviamente a questo punto il caso rimane aperto, tuttavia Wide tu non potrai più investigare su di esso, in quanto emotivamente coinvolto nella situazione». Fa una brevissima pausa e intanto io cerco le sigarette che non ho ancora comprato, poi riprende rivolgendosi a me. «Shown, ho già chiamato Ed Green che mi ha autorizzato, date le circostanze, ha tenerti qui a Mason Creek per indagare sul caso dei ragazzi scomparsi».

Wide obbietta. «Non voglio uscire dal gioco e intendo aiutare Shown fino alla fine, dal momento che ho seguito le indagini assieme a lui fino a questo momento. Potrei essergli d'aiuto».

«Non discutere Billy». Lo ammonisce Kooper. «Tu ora sei entrato troppo nel gioco. Non puoi più aiutare il detective Shown con le indagini. Questo è quanto. E il tenente Green è d'accordo con me sulla questione».

Wide allora cerca nel mio sguardo un appoggio. Un appoggio morale

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che non posso dargli. Kooper questa volta ha ragione e non posso ribattere. Penso al plettro per chitarra che ho ancora in tasca e penso alle miei supposizioni a riguardo. Quel plettro è una prova importante e, se è come penso io, confermerebbe la mia ipotesi su chi potrebbe essere entrato nella camera di Irina Callaway. Devo andare al negozio di strumenti musicali sulla Jackson Avenue.

«Kooper ha ragione, Billy. Finché non ci saranno ulteriori sviluppi che confermeranno che tuo figlio è innocente, non puoi lavorare al caso». Mentre dico questo aspetto che Kooper sia distratto per fare l'occhiolino a Wide. Segno d'intesa. Non deve ribattere, cosicché la discussione non prosegua ulteriormente.

«Bene Wide, vedo che hai compreso lucidamente la situazione. Si intenda che non vorrei assolutamente buttarti fuori, ma non ho altra scelta in questo momento».

Un'infermiera si avvicina a Kooper. «Signore, la desiderano al telefono. Mi segua verso la hall del piano». Kooper si allontana un attimo ed io non spreco tempo per rivolgere qualche parola a Wide. «Billy, ascolta bene. Abbiamo iniziato questo inferno insieme e tu mi sei indispensabile in città. Conosci gente e possibili collegamenti. Ufficialmente sei fuori dalle indagini, ma puoi comunque indagare per mio conto se ti chiederò di scoprire qualcosa per me».

«Io voglio trovare quello stronzo, Shown! Voglio trovarlo e cacciarlo dentro. Conoscevo Martin e Jason. Venivano ogni sabato pomeriggio a casa nostra. Dobbiamo trovarli, Shown. Altrimenti non riuscirò più a guardare negli occhi i loro genitori quando li incontrerò».

«Tiene duro, Billy. Questo è lo spirito giusto. E tuo figlio è ancora con te, ringrazia il cielo per questo».

Kooper torna di gran fretta verso di noi e a metà corridoio comincia già a parlare. «Sharon mi ha appena detto che il calco del gesso che avevate richiesto è pronto». Arrivato a noi si volta verso di me. «Shown, puoi passare in laboratorio per analizzarlo».

«Quando esco da qua, passo alla centrale. Intanto suggerirei di immettere un coprifuoco per le ore notturne, con particolare attenzione nei confronti di ragazzi e ragazze tra i quindici e i diciotto anni».

«Non voglio creare ulteriore panico tra i cittadini. Il coprifuoco li

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renderebbe solamente più nervosi».«Il panico, signor Kooper, è esattamente quello che ogni cittadino

deve provare a questo punto della storia. Sedici, Kooper. Sedici. Siamo arrivati a sedici persone scomparse in poco più di due anni. La gente deve stare attenta o andarsene da Mason Creek».

«D'accordo, farò in questo modo. Ora vado a dare la notizia».Kooper se ne va e Wide ed io rimaniamo soli nel corridoio soffuso e

sterile.Estraggo dalla tasca il plettro per chitarra e lo pongo a mezz'aria tra

me e Wide. «Billy, lo riconosci questo, per caso?». Getto la carta gettandola con orgoglio sul tavolo in attesa di qualsiasi reazione.

Wide lo esamina un po' alla luce del neon sopra le nostre teste poi esclama. «Eric ne ha uno simile che ha comprato qualche giorno fa. L'hai preso dal vecchio Bob sulla Jackson?».

«No, l'ho trovato nel fango nel cortile, sotto la finestra della stanza di Irina Callaway, accanto all'impronta della scarpa».

Wide non risponde, ma leggo nei suoi occhi lo sgomento di un'illuminazione di idee non molto piacevoli. Un tiro mancino, lo ammetto. Ma devo andare avanti con le indagini e ogni dettaglio è fondamentale. «Appena Eric sarà pronto per parlarmi, dovrò fare con lui un piccola chiacchierata».

Wide sta per dirmi qualcosa quando lo anticipo. «Billy, io voglio che tuo figlio non c'entri niente con tutto ciò. Lo voglio veramente, credimi».

Fine prima stagione

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Mason Creek: A noir horror story

Seconda stagione

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Riepilogo

Il detective dell'FBI Jersey Shown viene incaricato da Ed

Green, tenente capo dell'unità omicidi, di recarsi a Mason Creek, piccola cittadina della periferia americana, per aiutare l'agente Billy Wide e lo sceriffo Kooper Land a investigare sulla scomparsa di quattordici ragazzi e ragazze di età comprese tra i diciassette e vent'anni. L'ultima ad essere sparita è una ragazza, Sofia Monroe. L'amica, Irina Callaway, conferma di averla accompagnata a casa dopo essere stata con lei tutto il pomeriggio nella zona del bosco che circonda il fiume. Quando Shown, con l'aiuto di Wide, scopre che la ragazza stava mentendo, questa si toglie la vita impiccandosi con tenda della sua camera da letto. Shown scopre una frase scritta al contrario sulla parte di vetro appannato dall'interno: tu, la tua famiglia o le mie vittime. Inoltre, poco dopo che la scientifica è uscita dall'abitazione di Irina Callaway, sembra essere entrato qualcuno nella stanza. Shown trova un impronta fresca nel fango nel giardino sotto la finestra, alcune impronte nella stanza. Nel fango, accanto alla finestra, trova pure un plettro per chitarra. Intanto Mason Creek si agita tra stampa e genitori delle persone scomparse che lamentano gli insuccessi del corpo di polizia. Al Jerome's Room, dove alloggia il detective Shown, il proprietario, un certo Adam Fillingstone, racconta a Shown di una leggenda nata a Mason Creek dopo l'arresto di due satanisti trovati sulla scena del crimine sempre nei pressi del bosco, una leggenda legata a un certo demone che i due satanisti, ora rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Dodge City, avrebbero risvegliato. In città lo chiamano lo Slender per via delle sue fattezze. Adam racconta che alcuni cittadini giurano di averlo visto apparire in sogno e che il demone era senza volto. Alla mattina Shown raggiunge la casa Callaway dove viene informato che

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dalla stanza di Irina manca un orsacchiotto di peluche. I genitori mostrano al detective alcuni scarabocchi e disegni trovati nello zaino di scuola della figlia. I disegni rappresentano un uomo alto e senza volto. Non avendo trovato né un corpo né una prova che portasse a un possibile indagato, lo sceriffo Kooper decide, in accordo con l'FBI, di chiudere momentaneamente il caso. Ma quando Shown sta per abbandonare Mason Creek scompaiono altri due ragazzi: Martin Hoover e Jason Davies entrambi amici di Eric Wide, figlio di Billy Wide, trovato sotto choc e sporco di fango e terra alla mattina della scomparsa dei due ragazzi. Wide potrebbe essere emotivamente coinvolto dal momento che il figlio Eric potrebbe c'entrare con la storia. E Jersey Shown è obbligato a restare a Mason Creek per continuare a seguire il filo dell'intricato caso che lo avvolge.

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Episodio uno

Quando arrivo in centrale trovo in lacrime, seduti su quelle

scomode poltroncine nella sala prima degli interrogatori, due coppie di genitori. Sui loro volti c'è tenebra e dolore mentre stanno l'uno accanto all'altro abbracciati. Sono i genitori dei due ragazzi scomparsi. Mentre mi avvicino una delle due madri disperate davanti a me parla col marito a voce strozzata dal groppo forte alla gola e dal pianto. «Harry, dovevamo andarcene. Dovevamo andarcene finché eravamo in tempo. Te l'avevo detto, dovevamo andarcene da questa città!».

Incrocio lo sguardo di Kooper che arriva dalla parte opposta del corridoio, evito lo sguardo dei genitori ed entro nella stanza per gli interrogatori sapendo che ci avrebbe pensato Kooper a calmarli e a renderli più disponibili alle indagini prima di farli entrare.

I primi ad entrare sono i signori Hoover e io metto subito in chiaro un paio di cosette. «Signor Hoover, signora Hoover, conosco l'opinione pubblica della città di Mason Creek e riconosco che le indagini fino ad ora hanno conseguito pochi risultati, tuttavia vi garantisco che io personalmente sto impiegando tutto il mio tempo e le mie energie per trovare i vostri figli e mettere dietro le sbarre a vita quel figlio di puttana che gli ha rapiti. Detto questo pretendo da voi la massima collaborazione e zero lamentele e perdite di tempo. Sono stato chiaro?».

I signori Hoover mi guardano interdetti per qualche istante dandomi l'evidente l'impressione che le mie parole abbiamo smorzato in loro quella rabbia assassina che avevano in corpo due secondi e mezzo prima, quando sono entrati dalla porta.

Il signor Hoover avvicina il viso alla moglie che ancora mi fissa. «Il detective ha ragione, non serve a nulla incazzarsi. Dobbiamo trovare nostro

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figlio». «Questo è lo spirito giusto, ora procediamo». La signora Hoover si asciuga le lacrime e ripone il fazzoletto ormai

intriso e fradicio nella borsetta. «Ricordate a che ora vostro figlio, Martin Hoover, è uscito di casa?».

Apro il mio taccuino sulla scrivania metallica.«E' uscito di casa dopo pranzo, forse erano già le due del

pomeriggio». Risponde il signor Hoover.La signora Hoover precisa la risposta del marito. «Sì, intorno all'una e

mezza è uscito di casa». «Sapevate dove andava?». Il signor Hoover si appoggia alla scrivania protendendosi verso di me.

«No, credo che l'abbia chiamato uno di suoi amici ad uscire. Io ero in camera da letto e ho sentito squillare il telefono di casa e Martin parlare con qualcuno».

«Ma non vi ha detto dove andava o chi doveva incontrare?».Il signor Hoover risponde. «No, è uscito e basta»Questa volta la signora Hoover aggiunge qualcosa. «E' strano che non

abbia detto nulla».«Che cosa è strano?» Domando.La signora Hoover risponde. «Vede detective, Martin è sempre stato,

fin da bambino, una persona molto rispettosa ed educata. Non lo dico perché è mio figlio, glielo posso garantire. Le birbonate le ha fatte anche lui, ma non è bravo a nascondersi o a dire bugie. Ora che ci penso, ieri, dopo pranzo, è uscito senza dire niente. Io non ci ho dato peso, però in genere ci dice sempre dove va o con chi è. Sarà solo una coincidenza».

«Signora Hoover, una cosa importante mi ha insegnato questo mestiere, ovvero che non esistono coincidenze». Mi accendo una sigaretta e poi mi rivolgo di nuovo alla signora Hoover. «Dunque Martin è un ragazzo che tutto sommato che vi racconta sempre tutto?».

«Sì, esatto». Risponde la signora Hoover. «E' sempre stato molto sincero. Quando tenta di non esserlo noi lo vediamo subito».

«Dopo non avete più avuto sue notizie?». «No, niente. Lo aspettavamo a casa per le sei così da prepararsi per la

cena, ma non è arrivato così abbiamo chiamato subito a casa dei Davies e dei

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Wide per sapere se Martin era da loro e quando verso le nove abbiamo saputo che anche i loro figli non erano rientrati abbiamo chiamato subito la polizia».

«Grazie mille, siete stati molto bravi. Quando uscite dalla porta dite pure ai signori Davies che possono entrare. Grazie della collaborazione». Spengo la sigaretta nella tazza di caffè vuota che stava sulla scrivania da qualche giorno e aspetto che i signori Davies entrino.

La signora Davies, Clara Davies è la prima ad entrare, seguita poi dal marito. La prima impressione: l'agitazione di un interrogatorio è invisibile al confronto con la grave paura che noto vibrare sopra le occhiaie gonfie negli occhi stanchi avvizziti. Si siedono.

«Allora, signori Davies, voglio trovare vostro figlio e ho bisogno del vostro..».

La signora Davies mi interrompe seppur sussurrando, odio quando qualcuno lo fa. «Nessuno può trovare nostro figlio».

«Le assicuro, signora Davies, che, anche se le indagini possono sembrare lente e senza risultati, abbiamo il piede tutto sull'acceleratore e non intendiamo mollare». Provo a rassicurarla.

Allora lei mi guarda oltre il ciuffo di capelli spettinati che le scivola sul volto crespo. Mi fissa negli occhi con lo sguardo di una pazza, forse accenna a un sorriso di chi non ha più speranza e si lascia cadere nelle braccia del destino. «La creatura risvegliata nei boschi ormai l'ha presa, voi state dando la caccia a un fantasma. Non troverete mai il colpevole perché lui non esiste».

Il signor Harry Davies non calma certo la situazione, ma anzi aggiunge benzina al fuoco. E il suo tono è cupo e serio. «Clara ha ragione, quell'essere di cui tutti parlano è sorto dal bosco. Quei satanisti andrebbero arsi al rogo per quello che hanno fatto».

«Un momento. Immagino che l'assenza di prove, di testimoni, e di un sospettato in una comunità come la vostra, di fronte a tragedie simili, possa far nascere le più assurde superstizioni, ma non posso credere che voi ora parliate sul serio. Siete evidentemente in uno stato di choc per quello che è accaduto, vi comprendo».

Un profondo silenzio cala nella stanza mentre i rami secchi di un cespuglio grattano graffiando il vetro della finestra della stanza. «Detective, lei non ha idea di ciò che è stato risvegliato. Quel mostro ci ucciderà tutti se

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non andiamo via da qui». Continua la signora Davies. «Perché non siamo andati via prima che accadesse Harry? Perché non siamo scappati da Mason Creek finché avevo ancora il mio Jason?».

«Ha detto “avevo” non avevamo. Signor Davies, lei è il vero padre di Jason?».

Harry risponde prima chinando la testa. «No, il padre di Jason è morto quasi tre anni fa». La signora Davies precisa. «Robert ed io abbiamo divorziato, poi mi sono risposata con Harry».

«Qual'era allora il suo cognome da coniuge?».«Gordon».«D'accordo. Voglio solamente farvi un paio di domanda». I signori

Davies finalmente decidono di tacere ritirandosi in un attento silenzio . «Quando avete visto l'ultima volta vostro figlio Jason?».

Clara risponde. «Harry era al lavoro e mi aveva chiamato che non sarebbe tornato per pranzo, così Jason ed io abbiamo mangiato qualcosa davanti alla TV. Poi Jason ha chiamato col telefono di casa il suo amico Martin. Quando è tornato in salotto, perché noi abbiamo il telefono di casa in un angolo del corridoio nel reparto notte, mi ha detto che sarebbe uscito con Martin ed Eric quel pomeriggio».

Quella rivelazione mi piomba addosso come acqua gelata e annoto tutto sul quaderno. «A che ora è uscito, se lo ricorda?». Domando.

«Sì, poco dopo l'una del pomeriggio. Me lo ricordo perché stata per cominciare quel programma di cucina che guardo ogni martedì e avevamo appena pranzato».

«Bene. Jason per caso le ha detto dove andava?». «No, è uscito abbastanza di fretta. Non gliel'ho chiesto».«Un'ultima cosa: ha notato qualcosa di strano in suo figlio Jason quel

giorno? Un gesto particolare o un frase?». «Da quando suo padre Robert è morto, Jason ha iniziato ad avere dei

comportamenti un po' strani. Anche se ha qualche amichetto come Eric o Martin, rimane un ragazzo a cui piace stare in disparte. Ha volte passa interi pomeriggi fuori casa, da solo».

«Grazie signori Davies, potete andare».Alla porta, ancora voltata vero l'uscita, Clara Davies si ferma e

mormora qualcosa. «Lo Slender, detective Shown, dall'oscurità di Carachura,

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si sfamerà di altre giovani anime».All'esterno, oltre il vetro della finestra su cui battono i secchi rami del

cespuglio, si apre lenta e regolare la successione di cupi versi monosillabici di un gufo.

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Episodio due

Mentre chiudo alle mie spalle la porta della stanza degli

interrogatori mi sento improvvisamente stanco e senza forze e con un terribile senso di nausea. Tutto quelle stronzate su quel mostro immaginario mi turbano, ma al tempo stesso mi iniziano a incuriosire. Chissà che dietro alla leggenda non vi sia la spiegazione di una realtà. Raggiungo al secondo piano la stanza dove è conservato il calco del gesso. Guardo l'orario. E' tardi, ma spero di trovare ancora qualcuno che mi possa dare delle informazioni.

Nel corridoio incontro Kooper con un mazzo di chiavi in mano. Appena mi vede mi parla costringendomi a fermarmi. «Ho chiuso gli uffici là in fondo, ma ti ho lasciato ancora aperto la stanza dei computer. Vado a casa, è stata una giornata difficile». Fa per andarsene, per fortuna, quando invece si volta di nuovo verso di me. «Hai scoperto qualcosa dagli interrogatori?».

«I due ragazzi scomparsi, Martin e Jason, sono usciti di casa per incontrarsi intorno alle due del pomeriggio. E sono pronto a scommettere che c'era insieme a loro anche Eric. Non so ancora dove si sono incontrati o dove erano diretti».

«Bene, buona notte».Questa volta sono io che continuo la conversazione. «Ah, Kooper, tu

sei a conoscenza della leggenda folkloristica di quel demone, vero? Lo Slender, lo chiamano gli abitanti di Mason Creek».

Noto in lui una reazione che non mi sarei mai aspettato. Sugli occhi illuminati dalle lampade a neon sopra la nostra testa gli passa un'ombra di terrore quando nomino il nome del demone di cui parla la leggenda. « Sì, la conosco. Nasce dalla storia di quei due satanisti trovati deliranti nel bosco. La gente qui tende a inventare questo genere di cose quando non trova alcuna spiegazione a quello che sta accadendo». Dice il tutto non molto convinto.

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Non che sembri di sapere qualcosa di più, ma l'impressione è quella di essersi trattenuto dal mostrarmi una paura che pure lui prova. Forse crede anche lui a tutte queste stronzate, ma non vuole certo ammetterlo da sceriffo quale è, per di più, certamente, non con me presente.

«Cos'è Carachura?». Domando.«Credo faccia sempre parte di questa leggenda. Ma non so

esattamente cosa sia».Beh, per lo meno non si tradisce. Ovvio che lo sa, lo sa benissimo, ma

per farmi vedere che a lui certe questioni non gli interessano finge di non sapere nulla, rimanendo sul vago. «Buona notte, detective Shown».

Lo seguo con lo sguardo fino alle scale, poi scuoto la testa e torno a me stesso entrando nella stanza. Sharon ovviamente non c'è, ma è stata gentile a lasciarmi il fascicolo e il calco sul banco al centro della sala. Quando lo apro e leggo scopro che è di una comunissima scarpa da tennis, la suola e il tacco non hanno lasciato dei rilievi profondi nel fango, segno della loro consumazione. Non sono scarpe nuove e il proprietario non deve essere molto pesante. Numero di taglia: quarantaquattro. Certamente non si tratta di una donna. Questo numero di taglia va a mio vantaggio, non ci sono molte persone a cui vanno bene scarpe di questa misura. Chiudo il fascicolo e lo metto tra la camicia e l'impermeabile. Nel farlo noto che nella tasca interna ho ancora i disegni di Irina Callaway.

L'intera centrale di polizia di Mason Creek riposa nel silenzio. Nessuno passeggia per i corridoio, nessun rumore di stampante o fotocopiatrice, nessun telefono che squilla e il tempo sembra essersi fermato. Me ne sto per andare al Jerom's Room quando torno indietro fino alla stanza dei computer. Voglio capire di più a proposito di quei satanisti arrestati nel 1992. Mi accendo una sigaretta e lascio che il fumo mi riempia i polmoni, mentre nella stanza si crea un nebbia sottile. Jeremy Daughtry, quarantaquattro anni e Richard Campbell, trentanove. Furono arrestati il tredici dicembre 1992 nei pressi del bosco, vicino al fiume, a Mason Creek. Gli inquirenti gli accusarono entrambi di riti satanici. Riti che hanno portato alla scomparsa dei loro due figli. Nonostante le ore di interrogatorio unite ad una lunghissima ricerca sul perimetro effettuata dallo sceriffo e dalla task-force dell'FBI, i corpi dei due bambini, Hart Daughtry e Hellen Campbell, entrambi di undici anni, non sono mai stati ritrovati. I due padri vennero

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scoperti in un evidente stato di delirio e choc. La prova che li incriminò fu il sangue trovato sui loro indumenti. Il DNA corrispondeva a quello dei due bambini. Jeremy Daughtry, laureato in fisica e specializzato in astrofisica è tornato a Mason Creek per sposarsi con Laura Garner. Richard Campbell si laurea in matematica, non si specializza. Viaggia molto per gli Stati Uniti prima di conoscere Jeremy ad una conferenza all'università di Princeton. Si trasferisce a Mason Creek assieme all'amico e nel 1979 sposa Kelly James. Come possono due persone così brillanti impazzire improvvisamente? Cazzo, guardo fuori dalla finestra e la luce del sole, seppur fioca e scialba, attraversa la stanza come una lama sottile fino ad illuminare il pacchetto di sigarette vuoto accanto alla tastiera del computer.

Non passo nemmeno al Jerome's Room e tiro dritto sulla Bluerain Street, il bar di Hoogan ha appena aperto. La luce dell'alba sfiora i tetti di Mason Creek mentre entro nel locale ancora vuoto.

Compro un altro pacchetto di sigarette e un nuovo accendino. Mi siedo al banco e ordino del caffè, mentre lascio vagare la mia mente tra i dettagli del caso.

«A che ora posso trovare aperto il negozio di strumenti musicali sulla Jackson?». Chiedo alla barista. E' una bella ragazza, gli occhi verdi mi ricordano quelli di Sarah.

Lei allora guarda il grande orologio appeso alla parete e risponde. «Fra mezz'ora lo trovi già aperto il vecchio Bob».

«E' lontano da qui?» domando.La ragazza mi versa altro caffè e risponde. «E' abbastanza lontano, io

non me la farei mai a piedi». Prendo il pacchetto di sigaretta dal tavolo e lo apro sbuffando.

C'è silenzio fra noi mentre mi bevo il caffè pensando a un modo per raggiungere il negozio di musica. Non voglio chiamare Wide, dopo entrerebbe con me in negozio e non posso immaginare la sua reazione se venisse a sapere così, a bruciapelo, che il plettro trovato nel cortile di Irina, sotto la finestra, è di suo figlio. Poi penso al distintivo allacciato alla cintura. Potrei farlo vedere alla ragazza e chiederle di prestarmi la macchina. Mentre penso lei si avvicina di nuovo al lato che occupo sul bancone. «Sei quel detective dell'FBI, vero?».

Annuisco e mi accendo una sigaretta. «Non posso darle un passaggio in città perché sto lavorando, ma ho il

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mio scooter sul retro se può aiutare».«Perché vuoi aiutare?». «Perché sta indagando su un caso...su un caso importante e se le serve

una mano ogni cittadino di questa città dovrebbe dargliela».«E' un bel pensiero». Rispondo. «Magari tutti la pensassero come te.

E' nobile da parte tua un gesto simile, ma questo mestiere mi ha condotto a un'unica conclusione: non c'è nobiltà nell'animo umano. Inoltre ho notati che hai fatto una pausa alla descrizione del caso su cui sto lavorando».

Lei si irrigidisce. «E questo cosa vuol dire? Sono una sospettata?».Mi scappa un breve sorriso e rispondo. «Sei sospettata di non avermi

detto tutta la verità». La guardo negli occhi e il ricordo di Sarah si rianima nella mia mente, finché la ragazza non cede e spontaneamente confessa. «Mia sorella minore fu una delle prima a sparire, non può immaginare cosa abbiamo passato». Gli occhi le diventano improvvisamente lucidi. «E' passato così tanto tempo da allora...nemmeno una traccia. Per questo voglio aiutarla, se posso».

La afferrò per la mani che intanto avevano iniziato a tremare, continuo a fissarla negli occhi, ma non dico nulla finché non è lei a rompere il silenzio. «Ma ora, che ho visto dal vivo le sue capacità, non posso far altro che tornare a sperare di nuovo, per quei nuovi ragazzi scomparsi. E' riuscito a leggere le mie emozioni e a notare quell'incrinatura nel discorso, è molto bravo. Vedrà che la città le sarà riconoscente un giorno».

«Pensare che non è nemmeno il lavoro che volevo fare». Borbotto quasi tra me e me.

«Come?».«Niente, è solo che c'è molta oscurità intorno a noi, molto male in

questo posto. Sono accadute e stanno accadendo cose veramente terribili. Vedo solo il buio».

«Nel cielo buio in cui lei è costretto a navigare, forse non si accorge di essere lei stesso una piccola luce».

La porta alle mie spalle si apre, ed entra un cliente.

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Episodio tre

Bob è veramente vecchio come lo descrivono gli abitanti di

Mason Creek. E' un signore esile e piuttosto basso di statura. Entro nel negozio e lo trovo ricurvo verso gli scaffali più bassi di un mobile. La porta dietro di me cigola quando la chiudo e il vecchio Bob si volta in mia direzione . Il naso adunco sorregge due lenti con montatura sottile e argentata. «Oh, il primo cliente». Borbotta tra sé e sé, poi alza il tono. «Prego, prego, entri pure».

Mi avvicino al bancone in fondo al negozio buio, stretto e pieno di cianfrusaglie impolverate.

«Cosa desidera?». Mi domanda pulendosi gli occhiali. «Buongiorno, sono il detective Shown. Volevo solo chiederle una

cosa, posso?». Mi sembra un tipo simpatico e non vedo il motivo di essere burbero o scortese.

«Mi chieda, allora, avanti». Estraggo dall'impermeabile il plettro per chitarra e glielo appoggio sul

banco. «Lo so che può essere una richiesta un po' difficile, ma tenterò comunque. Si ricorda per caso a chi può averlo venduto questo plettro per chitarra? E' molto nuovo, sembra usato appena. E' stato acquistato da poco».

Il vecchio Bob prende tra le dita il plettro e lo studia annuendo. «Sì, credo di sapere a chi l'ho venduto. Ma mi faccia comunque controllare nel registro».

«Tiene un registro?». «Certamente. Lo so, qui in negozio c'è molto disordine da quando è

morta mia moglie e fatico a tenere tutto al proprio posto. Ma per quanto riguarda le vendite sono molto preciso. Qui in paese meno o male conosco tutti e cerco di annotare ogni cosa che vendo. Un attimo solo, ecco qui. L'ho

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venduto insieme a delle nuove corde per chitarra acustica a Eric Wide, il figlio del poliziotto».

Riprendo il plettro e lo ripongo nella tasca interna dell'impermeabile, mentre un dolore fitto mi spacca in cervello in due. Cosa ci faceva quel plettro lì fuori nel giardino? Possibile che Eric sia entrato in casa di Irina? E se fosse così, perché?

«La ringrazio, è strato di grande aiuto. Buona giornata». Faccio per uscire, ma alla porta mi blocco un istante. Mi volto di nuovo verso il vecchio Bob. «Lei conosce la leggenda dello Slender?».

Bob si fa il segno della croce sul petto mentre le fitte rughe sulla sua faccia si contorcono in un'espressione di paura. «Non si azzardi più a nominare quell'essere nel mio negozio. Se ne vada, detective».

Esco e cerco d'istinto le sigarette nella giacca poi ricordo di averle finite. Cazzo! Raggiungo il telefono pubblico a dici metri dal negozio del vecchio Bob. Chiamo la centrale per sapere di Billy Wide. Un certo Gragory mi dice che Billy è a casa. Mi faccio dare il numero del telefono di Billy Wide e lo chiamo.

«Ciao Billy, sono Shown». «Dimmi Shown».«Sei a casa, tuo figlio come sta?»«L'ho portato ora a casa dall'ospedale, sono qui con lui. Sembra stia

meglio».«Mi fa piacere. Credi che possa venire a casa tua per un momento?

Ho bisogno urgente di parlare con Eric».«Sì, vieni pure. Con me non parla o dice di non ricordare. Forse con te

e i tuoi trucchetti psicologici del cazzo parlerà. Voglio sapere cosa è successo a mio figlio quella notte, Shown».

«D'accordo. Mi trovi al bar da Hoogan, se riesci a darmi uno strappo in macchina è meglio».

Restituisco le chiavi dello scooter alla ragazza del bar ringraziandola del favore. Mentre aspetto Wide prendo un caffè al banco e compro un pacchetto di sigarette in un negozio sulla strada alle spalle del bar. A saperlo prima ci sarei andato.

Finalmente arriva Billy Wide. E' visivamente stanco e pallido. Due scure occhiaie gli scavano gli occhi. Mi chiede subito degli interrogatori

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mentre saliamo in macchina. Durante il tragitto verso casa sua gli spiego la situazione.

«Martin, Jason e tuo figlio Eric sono uscito subito dopo pranzo nel pomeriggio. Si sono dati appuntamento. Questo è certo». Attendo un po' e rifletto se dire a Wide subito del plettro per chitarra. Decido di aspettare di essere di fronte ad Eric per vedere la sua reazione e scoprire se sta mentendo.

«Io non ci capisco più niente, Shown. Spero solo che mio figlio non si sia messo nei guai che..».

«..e che non faccia la fine di Irina. No, Billy. Questo non succederà».Raggiungiamo la stanza al primo piano di Eric, lo troviamo sdraiato

sul letto con lo sguardo perso nel vuoto verso il soffitto. Accanto a lui sua mamma, la signora Wide.

«Scusa tesoro, puoi uscire un attimo. Anzi prepara a Shown un po' di caffè».

La stanza si riempie di silenzio quando la porta della camera da letto si chiude alle spalle della moglie di Wide. Mi avvicino ad Eric, accanto al letto. I suoi occhi sono lucidi e probabilmente a pianto molto di recente. Anche lui sembra non aver dormito da almeno due notti.

«Eric, come stai?». Gli chiedo.Lui si volta verso di me. «Detective, lei mi deve aiutare. Ho paura!».

Si agita e io gli stringo la mano. «No, Eric. Sei tu che devi aiutare me a capire cosa è accaduto. Perché sei uscito con Martin ed Eric prima della loro scomparsa. Dove siete stati?».

Prima di parlare guarda il padre alle mie spalle e poi getto lo sguardo a sinistra. «Ci troviamo spesso al pomeriggio. Stiamo in centro, chiacchieriamo, niente di più».

«Non ti ho chiesto quello che fate di solito, ma quello che avete fatto due giorni fa. So che che vi siete incontrati dopo pranzo. Dove siete andati?».. «Siamo andati da in giro. Ci siamo fermati da Hoogan a prendere una crepes. Poi non ricordo, glielo giuro».

Devo giocare la carta. «Questo è tuo, Eric?» La punta di plastica rigida luccica a mezz'aria illuminata dalla forte lampada sulla scrivania. Gli occhi di Eric si ingrandisco. Ha capito che io so qualcosa di più di quello che mostro.

«Sì, è il mio plettro nuovo per chitarra».

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Sorrido. Sorrido perché non mi chiede dove l'ho trovato. Lui sa dove l'ho trovato.

«Perché quel pomeriggio siete entrati di nascosto a casa di Irina Callaway?» La domanda cade sulla stanza sfondando e distruggendo ogni cosa mentre Billy Wide si avvicina al letto stupito e sorpreso dalla rivelazione. «Non è possibile! Shown si sicuro di quello che dici?».

«Che numero di scarpe porti Eric?».«Il quarantadue, perché?» «E Jason e Martin?».«Jason non lo so. Martin il quarantaquattro. Lo so perché gli abbiamo

regalato un paio di scarpe firmate per il suo compleanno il mese scorso». Wide accanto a me capisce finalmente dove voglio arrivare.«Abbiamo trovato l'impronta della scarpa di Martin e il tuo plettro nel

giardino sul retro dell'appartamento dei signori Callaway. La finestra aperta della camera da letto di Irina e alcune impronte sul pavimento che prima non c'erano. Perché siete entrati in camera sua quel pomeriggio?».

Eric strizza gli occhi come colpito da un violentissimo lampo di ricordi. Si mette a sedere sul materasso e si stringe tra le coperte. «Okay, detective le racconterò tutto».

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Episodio quattro

Un folgore improvviso irrompe nella stanza e le inferiate,

attorno alla finestra, si stampano sui nostri volti con le loro ombre aguzze per un brevissimo istante.

«Avanti Eric, racconta tutto quello che ricordi». Lo sprona il padre.Eric deglutisce e aggrotta la fronte, si sforza di ragionare, di essere

lucido e di ricordare esattamente cosa è accaduto. L'impressione è quella che il ricordo in lui si presenti bizzarramente annebbiato, celato oltre una fitta cortina di fumo. Il ragazzo stringe gli occhi come se stesse cercando di guardare aldilà di quel muro fumogeno, per vedere e raccontare la verità.

«Subito dopo pranzo ho ricevuto una chiamata da Jason. Ha detto che ci sarebbe stato anche Martin e che ci dovevamo incontrare al Mason Park. Ci siamo seduti su quelle panchine vicino al chiosco iniziando a parlare del funerale di Irina Callaway di domani. Abbiamo parlato molto di quello che sta accadendo a Mason Creek. Sofia era una nostra amica, ci manca molto. Poi Jason è scoppiato d'ira dicendo di sentirsi inutile e ha iniziato a insistere sul fatto che, da amici, dovevamo in qualche modo contribuire e fare la nostra parte».

Mentre Eric racconta estraggo il taccuino dalla tasca e inizio ad appuntare qualche dettaglio. «Detective Shown, lei è d'accordo con me che una persona non si può togliere la vita senza un motivo e soprattutto senza lasciare un biglietto o una frase o qualsiasi cosa che spiega un gesto così estremo?».

Annuisco e lo lascio proseguire. «Da una telefonata che ha fatto papà ho capito che non avevate trovato ancora niente tra le cose di Irina che giustificasse quello che ha fatto. Martin non poteva accettare che Irina se ne fosse andata così, senza motivo, quindi ha

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proposto di entrare in camera sua e controllare personalmente». Eric fa una breve pausa, come se stesse cercando le parole giuste per rendere quella confessione il meno dannosa possibile.

«Ovviamente Martin ed io eravamo contrari a fare una cosa simile, sapevamo che non potevamo entrare in casa di una persona di nascosto. Ho proposto di chiedere ai genitori di Irina se potevamo dare un'occhiata anche noi dal momento che conoscevamo bene Irina. Ma la mia idea è stata subito bocciata, non potevamo andare lì e chiedere una cosa del genere a due genitori ai quali era appena accaduta una cosa del genere».

«Quindi siete entrati dal finestra sul retro, entrando direttamente nella sua camera».

«Esatto». Eric abbassa lo sguardo. «Abbiamo aspettato che non ci fosse più nessuno e siamo entrati. Ma detective, non pensavamo di trovare..».

«Avete trovato qualcosa di utile alle indagini?». Chiede Wide. «Avevamo paura. Avevamo commesso un reato, eravamo entrati di

nascosto in una casa privata. Ma allo stesso stesso tempo avevamo in mano delle...delle prove». Eric si porta dapprima le mani sul viso sfregandole verso gli occhi serrati fino a giungere i capelli e la nuca. «Eravamo nel panico, non sapevamo che fare. Per consegnare alla polizia le prove dovevamo ammettere l'infrazione. Così alla fine Martin ha proposto di gettare le prove nel bosco. Prima o poi le avreste trovate con le vostre continue ricerche in quella zona e noi eravamo fuori dalla storia».

«Ma siete impazziti!» Wide alle mie spalle si avvicina al letto dove sta seduto Eric. «Avevate in mano delle prove su un caso come questo e vi siete fatti delle paranoie su un reato come la violazione di domicilio?». Wide prende allora Eric per il collo della maglietta e lo strattona. «Che cazzo vi è passato per la testa?».

Afferrò Wide per il polso stringendoglielo con forza. Lui si stacca dal figlio. «Wide, esci per favore».

Billy mi guarda stupito e, mandando giù una tonnellata di nervoso, si allontana ed esce dalla stanza sbattendo la porta.

Stacco lo sguardo da Wide mentre chiude la porta e mi avvicino ad Eric. Lo guardo fisso negli occhi lucenti. «Eric, che cosa avete trovato in quella stanza?».

Lui abbassa di nuovo lo sguardo stringendo gli occhi e corrugando la

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fronte. Un forte groppo alla gola lo assale, lo percepisco nella sua deglutizione e ancor di più quando riprende a parlare. «Io facevo la guardia all'ingresso, controllando che non entrasse nessuno in casa. Martin e Jason sono rimasti nella camera da letto di Irina. Io non ho saputo cosa avevano trovato e preso finché Jason non ha aperto il suo zainetto. Detective, abbiamo trovato la macchina fotografica di Irina, quella che cercavate. Stava nascosto dietro un cassetto della scrivania».

Mi rendo conto di aver improvvisamente ingrandito gli occhi in un'espressione di entusiasmo ed euforia. Di colpo uno dei pezzi più grandi del puzzle mi cade sulle mani con un sonoro boato.

«Eric aveva notato da subito, già nella camera di Irina, che mancava il rullino dentro la macchina fotografica. Io avevo sentito dei rumori, forse stava per entrare qualcuno in casa. Così siamo scappati di nuovo fuori dalla finestra. Prima di uscire Martin ha afferrato da uno scaffale un pupazzo. Ovviamente non avevamo capito il motivo di quel gesto finché non ci ha spiegato che, sfogliando velocemente il diario aveva trovato una foto di Irina con quel pupazzo e gli era sembrato strano infilare proprio quella foto in un diario segreto tenuto nascosto in cassetto. Così, preso dal momento di tensione gli è venuto in mente di agguantare il pupazzo e uscire».

Eric fa una breve pausa mentre si risistema sotto le coperte imbottite. Forse ha freddo, guardo la finestra. E' chiusa, ma fuori è buio e ha cominciato a piovere.

«Abbiamo iniziato a leggere il diario. Detective Shown, non puoi immaginare l'angoscia e la paura che quelle parole ci recavano nel leggerle. Nelle ultime due pagine Irina si pentiva di qualcosa che aveva fatto, qualcosa di orribile che era stata costretta a fare. Il diario finiva con sole due o tre righe, scritte malissimo, che portavano la data di quella notte in cui si è...si è tolta la vita».

«Cosa c'era scritto in quelle righe?».«Era scritto tutto in maniera così...strana, non so spiegarlo, sembrava

completamente fuori di sé. Era terrorizzata da quell'essere senza volto che la perseguitava, credo che si riferisse alla leggenda che c'è in città dello Slender».

«Per caso c'era scritto di cosa si stava pentendo?». Eric mi guarda terrorizzato come se

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avvertisse l'importanza delle parole che sta per pronunciare. «In parte. Dopo aver letto il diario abbiamo iniziato a discutere tra noi sul da farsi. Non sapevamo che fare ora che avevamo alcune prove raccolte commettendo il reato di infrazione. Durante la discussione Martin, che aveva ancora in mano il pupazzo, si è accorto di qualcosa al suo interno. Così l'abbiamo squarciato aprendolo dai punti dai quali era stato ricucito. Dentro, detective Shown, abbiamo trovato i negativi del rullino. Quando...». Si interrompe al folgore di un lampo accecante. «Quando li abbiamo guardati controluce il seme del terrore e del male è entrato in noi. Ero io a tenere i negativi tra le dita, non riuscivo staccare lo sguardo dalla terribile verità che si era aperta sotto i nostri occhi. Le mani avevano smesso di tremare, non ne avevano la forza e il dolore di cento lame nel petto mi ha richiamato alla bocca il sapore amaro nel sangue».

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Episodio cinque

Capisco immediatamente che il ragazzo non mi sta mentendo

quando mi soffermo sui i suoi occhi terrorizzati. «Dimmi Eric, cosa si vede in quei rullini e ora dove sono?».

Eric allora continua col suo racconto e intanto le violente gocce d'acqua piovana si schiantano contro il vetro della finestra. «Sul negativo abbiamo visto parecchie foto, da quanto Irina e Sofia sono scese nel bosco fino al fiume. Ma gli ultimi autoscatti, credo gli ultimi quattro sono incredibili. Irina e Sofia sono in posa davanti a un capanno o qualcosa costruito con dei tronchi in legno, poi si vede chiaramente che Irina afferra un oggetto, forse un martello da quella casetta nel bosco. Nell'ultima foto scattata dalla macchina fotografica si vede Sofia a mezz'aria mentre crolla a terra, uccisa da un violentissimo colpo alla testa».

Il silenzio spacca in due la stanza. Il tempo che la mia mente metabolizzasse quelle informazioni, poi riprendo a parlare. «Eric, sei sicuro di quello che hai visto in quel rullino?».

Ma Eric è in lacrime e fatica a rispondere. Sta male. Soffre per quello scoperta. E nasconde le mani tremanti sotto le coperte.

«Dove si trovano queste prove, il diario e il rullino?». «Ora finirò di raccontare fino a dove credo di ricordare: Indecisi sul

da farsi con quelle prove raccolte violando la legge, decidiamo infine di lasciarle nel bosco cosicché qualche poliziotto le trovasse per caso e risolvesse la faccenda senza che nessuno dei nostri nomi uscisse alla luce del sole. Così andiamo nel bosco, ripercorriamo tutta la strada. A un certo punto ci fermiamo a bere dell'acqua che aveva portato Jason in uno zainetto».

Eric improvvisamente si ferma e getta lo sguardo nel vuoto. Cerca qualcosa da focalizzare, un ricordo perduto. Lo cerca nell'aria della camera da

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letto, mentre la pioggia si abbatte ancora più violenta contro la casa.«E poi?»«E poi, Detective Shown, non ricordo nulla. Credo di essere svenuto,

ho sentito per un po' il sapore della terra sulle labbra, forse per questo credo di essere svenuto, ma non ne sono certo. Sentivo delle voci, forse Martin e Jason che mi cercavano o provavano di rianimarmi, non lo so. Mi sono accorto improvvisamente di stare camminando da solo verso casa. Avevo freddo, ero congelato. Mi sentivo sporco, ma non mi sono guardato i vestiti o le mani perché continuavo a camminare verso casa. E' stata una bruttissima sensazione quella di trovarsi senza motivo a girare all'alba su una strada e non avere quasi alcun controllo sul proprio corpo».

«Cosa intendi?».«Voglio dire che fino a quel punto ho un blackout totale, buio. Poi mi

sono reso conto di stare camminando verso casa, sulla mia via, ma non potevo fare nient'altro che camminare, ogni imposizione del mio cervello non veniva percepita dal mio corpo. Ero come in una fase di sonnambulismo cosciente, ma comunque impotente».

Quel buio di cui parla mi fa pensare per un po'. Forse è tutta una scusa per non dirmi veramente cosa è successo, forse lui sa dove sono Jason e Martin. Poi lo guardo negli occhi mentre lui è distratto a fissare il vuoto della stanza. Non riesco più a pensare che mi stia mentendo.

«Quindi l'ultima volta che ti ricordi di Jason e Martin è nel bosco, ho capito bene?». Eric annuisce.

«E il rullino e il diario chi le aveva?».«Li aveva Jason nello zainetto, assieme alle bottigliette d'acqua».Rimaniamo un po' in silenzio poi Eric si volta verso di me e mi

guarda. «Tutto bene, detective?».«S'. stavo solo pensando. Eric, nel bosco avete incontrato qualcuno o

avete visto qualcosa di diverso o strano?».«No, non ricordo molto».«Grazie Eric, sei stato di grandissimo aiuto. Spero che tu possa

ricordare qualcosa di più».Esco dalla camera da letto e raggiungo Wide al piano di sotto, in

cucina. Se ne sta seduto a bere una Miller. Metto la mano in tasca e afferro il pacchetto di sigarette quasi vuoto.

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«Si può fumare qui?»Wide dal fondo della cucina, accanto al tavolo, mi risponde.«Finché

non c'è mia moglie, sì». Quando mi avvicino di più scopro un volto serio e preoccupato.

«Dove è andata?». Domando.«Chi?».«Tua moglie».«Non lo so, è uscita. Ha lasciato il caffè per te, prendi». Accendo la

sigaretta e verso il caffè in una grossa tazza bianca. Il fumo di sigaretta si unisce al vapore del caffè.

Arrivo al dunque, che è quello che vuole sentire Wide. «Tuo figlio conferma di aver visto i negativi di quelle foto e di aver letto il diario di Irina Callaway. Le sue accuse nei confronti di Irina sono molto gravi, Billy».

«Del tipo?».«Eric giura che in quelle foto si vede chiaramente Irina che uccide

Sofia con un arma contundente, forse un martello o un pezzo di legno».Billy si porta le mani alla bocca spalancata e aggrotta la fronte, lascio

che metabolizza poi ricomincio. «Non riesco a capire il movente. Perché Irina deve aver fatto una cosa del genere?».

«Non lo so, Shown. Mi sembra di girare a vuoto in un vortice d'orrore. Credi che Irina sia la causa anche di tutte le altre sparizioni?».

«Se è vero quello che tu figlio dice di aver visto, penso che Irina Callaway fosse in qualche modo connessa con tutte le sparizioni. Tuttavia non credo sia la principale artefice di tutto questo, se no non si spiegherebbe il suo senso di colpa, la scritta lasciata sul vetro, il fatto che Martin e Jason siano comunque scomparsi dopo la morte di Irina e che lei non avesse alcun movente per uccidere Sofia. Certamente faceva parte di un gioco molto più grande, ma non è lei che comanda tutto questo. Ne sono certo».

«Cosa farai adesso?».«Oggi vado al bosco. Voglio sapere cosa è successo e trovare delle

tracce o magari lo zainetto con dentro le prove sempre che non l'abbia trovato e preso il vero stronzo che sta macchinando tutto questo».

«Vengo con te nel bosco, posso esserti..».«No, Billy. Tu devi rimanere con Eric e tua moglie, è un momento

difficile. Stai accanto a loro».

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«Allora chiamo Kooper e gli chiedo di venire giù con te con una squadra».

«Assolutamente no. Vado da solo. La cosa è fresca e non voglio gente tra le palle, sopratutto non voglio tra i piedi Kooper e i suoi uomini».

«E se ti trovassi in difficoltà? Magari ti trovi di fronte quel bastardo».Spengo la sigaretta nella tazza del caffè e fisso il mio collega

assumendo un tono molto severo e duro. «Billy, ti giuro che se accadesse, quell'uomo non sopporterebbe tutto il male che gli causerei».

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Episodio sei

Il bosco mi oltrepassa e mi avvolge in una morsa gelida. La

pioggia continua a scendere in picchiata dal cielo ricoperto di nuvole nere. Non posso aspettare che smetta questa maledetta pioggia, non c'è tempo per aspettare. Parcheggio al limite del bosco fin dove la macchina può ancora avanzare nel fango. Nell'auto, che Wide mi ha prestato, trovo un paio di stivali in gomma e un impermeabile giallo col cappuccio. Indosso entrambi e dopo pochi passi mi trovo col fango oltre le caviglie. La pioggia è forte e fitta, non accenna a smettere. Raggiungo l'interno del bosco e sento, tra tutti quei rumori di rami e sterpaglie sotto la pioggia cadente, il fiume che si ingrossa e che si scaglia contro gli argini. Proseguo nel buio con la torcia come unica alleata.

Seguo a memoria la strada già fatta qualche giorno prima con Wide e, circa a metà del bosco che segue il fiume, riconosco la zona dove, sempre con Wide, c'eravamo fermati. Dal racconto di Wide quella doveva essere più o meno l'area dove avevano trovato i due satanisti. Il fiume all'epoca era ghiacciato, sulla lastra spessa di ghiaccio avevano trovato in stato di delirio Jeremy Daughtry e Richard Campbell.

Mi guardo intorno in cerca di quel capanno o insieme di assi che Eric aveva descritto a proposito delle foto scattate da Irina. Nulla. Solo fitte file di tronchi d'albero e il muro di pioggia.

Proseguo verso nord tendomi sulla sinistra il fiume. Intorno a me mille rumori diversi che strisciano e sussultano sobbalzando da ramo a ramo, mentre la forte corrente tenta invano di coprirli tutti con la sua potenza. Il ricordo e la descrizione di quella creatura, quel demone di cui tutti parlano aggiunge un certo brivido nei miei pensieri, ma sono razionale e scettico. In certi istanti la mia mente inventa qualcosa in lontananza, nascosto tra i tronchi

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d'albero, mi sforzo di respingere simili stupidaggini. Vorrei fumarmi una sigaretta, ma quella pioggia torrenziale me lo

impedisce. Finché non giungo finalmente davanti a un mucchio di rovi secchi incastonato tra due alberi. Mi incuriosisce e, dopo aver aperto e districato i rametti, scopro una fila di tronchi circolari posti in pila orizzontalmente. Provo a fare il giro mentre il verso di una civette gracchia nella notte oscura. Trovo un piccolissimo capanno abbandonato. Infilo la testa in quel metro quadrato facendomi luce con la torcia. Niente, solo sterpaglia e fango.

Mi assale un brivido al pensiero che Sofia, secondo il racconto di Eric, è morta proprio in quel preciso posto dove ora erano appoggiati i miei piedi. Dov'è il corpo allora?

Guardo le cortecce umide dei tronchi d'albero, non trovo niente finché la luce della torcia non fa risplendere un filo rosso in un punto più secco, rimasto coperto da alcuni rami più in alto. Sembra sangue e dalla traiettoria su cui si è stampato nel legno e dall'altezza sembra proprio dovuto a un fortissimo colpo alla testa di una ragazzina alta all'incirca un metro e settanta. Non ho tamponi con me, ma trovo un fazzoletto di stoffa nell'impermeabile. Cerco perlomeno di recuperare una prova, pur sapendo che, recuperata in quel modo così poco professionale, potrebbe non essere utile al mio ritorno in città.

Scatto violentemente all'indietro quando mi sento toccare alla spalla destra. Non è nulla, solo un rametto che è caduto dall'alto. Guardo verso l'alto mentre la pioggia si intensifica e diventa insopportabile. Verso l'alto, oltre le chiome spoglie, vedo solo il nero del cielo, finché quel cielo tormentato non si squarcia all'improvviso sotto i miei occhi generando una luce vermiglia accecante, sembra la fiamma di un fuoco scuro che si spegne pochissimi attimi dopo. Intanto la foresta intorno a me si ribella alla mia presenza, aggredendomi da ogni lato, complice la pioggia.

Voglio fuggire, allontanarmi il più possibile da quel posto. Mentre scappo in direzione opposta al fiume, la mia mano slaccia la fondina afferrando l'impugnatura fredda della Smith & Wesson, armando il cane.

Non conosco esattamente la mia posizione, quando finalmente riesco ad uscire da quella fitta rete di rami ed alberi immersa nel fango. Quando rialzo lo sguardo mi sorprende la vista di una fievole luce lontana. E' la casa di un contadino e quando la raggiungo busso energicamente alla porta, sperando di trovare riparo.

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Mi accoglie un signore anziano, sulla settantina. Quando apre la porta e mi vede fradicio appoggia il fucile a lato, accanto allo zerbino, e mi fa entrare assicurandosi di aver chiuso bene il catenaccio. «Lei chi diavolo è? Che cosa ci fa in giro con questo tempaccio e per giunta di notte?».

Mi fa accomodare accanto al camino acceso, dove finalmente posso scaldarmi e levarmi di dosso quell'impermeabile. «Sono il detective Jersey Shown». Cerco il distintivo sulla cintura, ma non lo trovo. Forse l'ho perso nella corsa o mentre estraevo la pistola.

«Ah, è il nuovo poliziotto che sta indagando sui ragazzi scomparsi. Ho capito chi è e l'ho vista in città un paio di volte. Bene, io sono Sam Hartigan».

«Ho saputo che in questa zona, a causa di una certa superstizione, molti contadini si sono allontanati dalla campagna e dal bosco, lei che ci fa ancora qui?».

Il vecchio Sam si siede di fronte a me accanto al camino. «Da quando quei due scienziati hanno condotto quelle ricerche nel bosco, le cose sono cambiate. Non è superstizione, detective. Mi creda, forse è ora che inizi a credere pure lei ai fantasmi. In sogno appare un uomo magro e senza volto, è accaduto qualche volta anche a me. Ti fa vedere delle cose, ma poi, a meno che Lui non voglia, te le fa scordare».

Sorrido alle parole del vecchio, anche se nel suo tono c'è qualcosa di cupo e di tremendamente sincero che mi fa accapponare al pelle. Sam si allunga verso l'alto e dalla mensola del camino prende una piccola bottiglia di Jameson. La apre, ne beve un goccio e me la offre. Accetto volentieri e ne butto giù due grossi sorsi.

«Non è la prima volta che beve whiskey, non è vero?». Sogghigna.Evito di commentare quella sua diabolica risata. «Si è mai ricordato

qualcosa che questo demone le ha detto in sogno?».Sam ci pensa un attimo e scuote la testa. «Se non ricordo male, prima ha detto scienziati, non satanisti. Tutti

parlano di quei due uomini associandoli a satana e ai riti di magia nera, lei invece li ha chiamati scienziati. Perché?».

Sam beve un altro goccio di Jameson e diventa improvvisamente più serio. «E' un ottimo detective, complimenti. Sa ascoltare molto bene. Dunque, li ho chiamati in quel modo perché li ho conosciuti, venivano spesso anche in

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casa mia. Mi facevano tenere in cantina alcuni loro strani oggetti, penso cose che preferivano non fare vedere alle loro famiglie».

«Posso vederli?».«Quando li arrestarono scoprirono, durante le indagini, che avevano

un collegamento con me. Così un giorno, si sono presentati con un mandato e hanno arruffato tutto».

Ascolto il camino che scoppietta e mi incanto a guardarlo mentre Sam continua a bere dalla bottiglia.

«Cos'è Carachura?». Alla domanda il vecchio Sam per poco non si strozza con il whiskey. «Amico, credo che tu stia facendo troppe domande, se cerchi simili

risposte devi andare a trovare Jeremy al manicomio di massima sicurezza a Stonehill».

«Non era nel carcere di Dodge City?».«Da quel che so poco tempo fa l'hanno trasferito».«Dove?».«Al manicomio di Chesterfield a Stonehill».

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Episodio sette

E' notte fonda e sono sdraiato sul divano quando la mia

mente viene assalita dal ricordo di quella luce scarlatta che proveniva dal nero abisso del cielo. Si apriva dalle profondità più oscure del cosmo sopra di me oltre i fitti rami del bosco. Mi alzo di scatto con quell'immagine. Il camino, quasi di fronte a dove sono sdraiato, è spento, ma il calore di alcune braci sotto la cenere mi arriva al volto. Un silenzio indescrivibile mi paralizza per un istante, poi appoggio nuovamente il collo rigido madido di sudore sul cuscino del divano rimanendo fino all'alba con gli occhi spalancati e offuscati da mille pensieri.

Avverto in profondità alcuni rumori che associo ai topi o a qualche animale di campagna. Per la prima volta nella mia vita inizio a dar forza a qualcosa di surreale, la mia mente si ribella alla razionalità e la sento silenziosamente addentrarsi in strade perdute, buie e nefaste. Ragiono. E la paura, di cui sto soffrendo questa notte, non posso attribuirla a qualcosa di reale e conoscibile, è una paura molto più feroce e sotterranea, innominabile e non conoscibile.

Alla mattina presto Sam mi vede già in piedi e con l'impermeabile abbottonato. «Sam, ti ho aspettato per poterti ringraziare dell'accoglienza, ma ora devo proprio andare».

Sam rimane però lontano, a metà via tra l'ombra del corridoio e la luce della lampada accesa. Risponde con un tono stanco e rauco, non sembra neppure la stessa voce della sera precedente. «Son contento che possa partire così presto, detective. Ho molte cose da sbrigare oggi, e speravo di non aver alcun ospite a farmi compagnia. Magari sembro scortese, ma è la verità».

«Nessun problema, Sam. Molte volte sono senza scrupoli anch'io nell'esporre una mia opinione, forse è per questo che non ho molti amici».

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Prima di voltarmi verso la porta noto uno strano riflesso nel buio del corridoio, è un riflesso incandescente che sfavilla a mezz'aria, circa all'altezza degli occhi del vecchio ancora coperto dall'ombra della casa. Probabilmente è il riflesso della lampada su i suoi occhi. Esco dalla casa e mi trovo di fronte a una campagna abbattuta dalla tempesta: lunghissimi tratti di fango e acqua rispecchiano i rami secchi degli alberi spogli e, nonostante il vento tagliente, le foglie non volteggiano per i campi aridi, ma rimangono stampate sul cireneo terreno.

Lasciare quella casa alle mie spalle mi rigenera ad ogni passo, non ne conosco il motivo. Raggiungo a piedi un locale che si trova sulla prima strada oltre la campagna, l'insegna dice “Hart - tavola fredda”. Quando entro acquisto un pacchetto di sigarette e, dopo aver bevuto due tazze grandi di caffè, alzo la cornetta del telefono sulla parete accanto al bagno. Chiamo Kooper in centrale.

Risponde al segretaria dell'ufficio che qualche istante dopo mi passa Kooper sull'altra linea. «Dove cazzo sei finito, Shown?». Questo è il buongiorno di Kooper.

«Ti ho chiamato per dirti che oggi vado a Stonehill a far visita a Jeremy Daughtry, devo fargli personalmente alcune domande su quello che è accaduto nel 1992»..

«Non ti servirà a niente, Shown. Quello è un matto ti riempirà le orecchie di stronzate».

«Non più di quanto lo fa la gente di Mason Creek».C'è un brevissimo silenzio poi Kooper cambia discorso. «Oggi arriva

una squadra di agenti da Dodge City, lo sceriffo Tyalor ci ha spedito i suoi ragazzi per aiutarci a trovare quei due poveretti che sono scomparsi. Ricominciamo dal bosco».

«Ho parlato con Eric, non so se Wide ti ha detto qualcosa». «E' stato molto vago specificando che suo figlio è ancora sotto choc e

fuori di sé». Credo che Wide, da bravo padre quale dimostra di essere, stia cercando di difendere suo figlio e di perdere tempo nascondendosi dietro ai vaneggiamenti di suo figlio definendoli non credibili. Rifletto se dire o meno ciò che mi ha raccontato Eric a Kooper. «Kooper, Eric afferma che Irina ha ucciso Sofia nel bosco. L'ha letto nel suo diario».

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«Sono accuse molto forti, dobbiamo avere delle prove Shown, lo sai benissimo!».

«Le avrai». Metto giù la cornetta del telefono e l'istinto di dare un forte pugno contro la parete del locale mi invade il corpo gonfiandomi le vene di rabbia.

Il taxi mi porta fino all'imponente struttura ospedaliera. Il manicomio di Chesterfield si erge maestoso e grigio sulla città a qualche miglio da Stonehill.

Quando, accompagnato da un'infermiera, raggiungo l'ufficio del primario del manicomio, rimango sorpreso alla vista di una graziosa donna seduta dietro la pesante scrivania riempita di scartoffie.

«Lei chi è?». Mi domanda abbastanza asciutta.L'infermiera alle mie spalle esce dall'ufficio chiudendo delicatamente

la porta. «Sono il detective Shown, della squadra omicidi. Sto lavorando al

caso dei ragazzi scomparsi a Mason Creek e desidererei parlare con...».«...con Jeremy Daughtry». Mi interrompe e finisce per me la frase,

una cosa che in genere non sopporto, ma quella donna lo fa in maniera così raffinata e audace che non mi assale alcun nervoso. Così lei continua. «Ogni tanto si presenta un detective o un giornalista che chiede di Jeremy, lei è l'ultimo di questi a quanto a pare». Fa una brevissima pausa durante la quale alzo lo sguardo per studiarmi. «Tuttavia tutti escono da qui insoddisfatti, capiscono che quell'uomo è matto e che ciò che dice non può che confermare il suo grave stato di salute mentale e il motivo del suo ricovero in questa struttura. E' solo tempo perso detective».

«Sarà, Dottoressa Ellison, ma questo è quello che devo fare. Mi accompagna alla cella?».

Da vera donna di potere non mi concede certo la soddisfazione di domandarmi come abbia fatto a scoprire il suo cognome, dal momento che sul vetro della porta c'è ancora stampato il nome vecchio primario: Dr. Crugher.

Così si alza dalla scrivania afferrando un mazzo di chiavi. «D'accordo, andiamo».

Mentre i nostri passi risuonano negli altri e nei corridoi dormienti, cerco di scoprire qualche dettaglio in più sul posto. «So che il vecchio primario è ricercato dalla polizia, cosa ha fatto?».

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Sempre con tono freddo la Dottoressa Ellison risponde. «Faceva esperimenti sui pazienti, fortunatamente un prete della parrocchia dell'ospedale è riuscito a denunciare il Dottor Crugher con valide prove».

«Esperimenti di che tipo?».«Erano pratiche occulte, non esperimenti scientifici. Agli inizi degli

anni '90 il primario precedente a Crugher, il dottor Heinz, è stato trovato morto nel suo ufficio e inspiegabilmente tutti i suoi pazienti sono scomparsi, nessuno di loro è stato più ritrovato. Solo un uomo quella notte era ancora nella sua cella. Era uno scrittore con una grave forma di schizofrenia».

«Che fine ha fatto lo scrittore?».«Quando il il Dr Crugher prese il posto di Heinz, lo scrittore fu

torturato. Erano convinti che sapesse qualcosa sulla scomparsa di tutti quei detenuti, o che addirittura fosse sua la causa. Non so per quale motivo iniziarono a credere a questo».

Le linee opache delle lampade ci tagliavano velocemente la faccia ad ogni echeggiante passo in quel corridoio, mentre le urla dei pazienti si avvicinavano sempre di più a noi.

«Tra i detenuti si parla di un libro che scrisse questo paziente, ma qui si cade nel fanatico o nella leggenda. Io sono una donna di scienza e tutto ciò che oltrepassa un certo limite, non lo considero con grande importanza».

In un altro momento della mia vita le avrei certamente dato ragione, ma ora alcuni assillanti dubbi li sento annidarsi e respirare nell'oscurità degli angoli bui dei corridoi della mia mente, in attesa di rivelarsi.

La cella è alla fine del corridoio, un po' isolata dalle altre. La Dottoressa chiama due guardie che aprono la porta di ferro ammanettando il misterioso uomo avvolto dalle fredde tenebre al suo interno.

«Io starò qui fuori, assieme alle guardie. Le darò non più di dieci minuti. Se lo ricordi bene. Il detenuto è ammanettato e sedato, posso farla entrare senza la guardia, ma a qualsiasi dubbio bussi sulla porta e noi entriamo».

Annuisco ed entro nella tana del lupo.

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Episodio otto

Si chiude la porta alle mie spalle con un boato metallico. La

luce fredda della lampadina illumina in parte la stanza in cui mi trovo. Sul fondo la parete è ricoperta di formule matematiche e bizzarri disegni. Mentre l'uomo che cerco rimane seduto alla mia sinistra, con la schiena appoggiata al muro. Non è una brutta cella, e nel disordine c'è qualcosa di schematico ed ordinato.

«Se sta notando il disordine intorno a lei, detective, dovrà comprendere che per entropia ogni cosa è destinata al caos». La voce e molto sottile e sibila nell'aria attraversando lo spazio semibuio fino alle mie orecchie.

L'uomo barbuto e calvo non muove un muscolo e mantiene lo sguardo verso il pavimento. Se ne sta seduto a terra a gambe incrociate e le braccia l'una sull'altra. Dall'alto lo guardo e cerco di cogliere una prima impressione, è freddo e non mi trasmette nulla. Almeno finché non alza il volto e finalmente non vedo lo specchio della sua anima, due occhi dalla pupille grigio-azzurre che penetrano il vuoto.

«Lei è Jeremy Daughtry?».L'uomo non risponde subito, cercando di dare a sé stesso una certa

importanza nel farsi attendere. «Non crede, detective, che la risposta a questa domanda sia alquanto ovvia e banale, dal momento che la dottoressa Ellison l'ha accompagnata da me, in quanto lei cercava questo preciso nome?».

«Io sono il detective...».Un sibilo profondo di disapprovazione taglia la cella in due. «Non

voglio sapere il suo nome, il tutto è insieme di particelle di materia con precise proprietà distinte, ma non l'una più importante dell'altra. Lei è un uomo, nulla di più. La mia mente non vuole conoscere il suo nome perché la

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distinguerebbe dagli altri uomini conferendogli più importanza».«Arriverò allora subito al punto». Mi chino reggendomi sulle

ginocchia e mi avvicino al livello del suo volto mentre lui rimane in silenzio. «A Mason Creek stanno continuando a scomparire ragazzi e ragazze nella zona del bosco. Tutto questo sembra avere inizio subito dopo la vicenda del rito satanico che lei e il suo collega, il signor Richard Campbell, avete praticato nella stessa zona. Sono nate assurde leggende da allora, alle quali non voglio dare ascolto. Voglio sapere la verità, signor Daughtry».

Daughtry sospira a lungo prima di cominciare a parlare. «La verità...». Il tono è una landa desolata, una strada perduta in un pianeta deserto. «E' tanto semplice quanto complesso discutere sulla verità, ed io sono considerato un matto. Quale verità può mai rivelarle uno psicopatico internato a Chesterfield? Io posso solo raccontarle una storia, sarà lei a decidere se è vera oppure no».

Ci guardiamo negli occhi per molto, molto tempo. Un contatto visivo così prolungato da procurarmi un serio fastidio, nessuno aveva mai retto così a lungo il mio sguardo e, per la prima volta, sono io a dover essere costretto ad abbassare il volto.

«In quegli anni Campbell ed io, nonostante la famiglia, lavoravamo duramente pure la notte. Con noi c'era un altro scienziato, il Dottor Robert Gordon. Lui era astrofisico come me ed era un ottimo scienziato, fin troppo forse e questo lo capimmo solamente più tardi».

Quel nome non era inserito sugli archivi né sui giornali. Robert Gordon, non so il motivo, ma mi risulta familiare. Ho la percezione di averlo già sentito o incontrato. Forse è solo un'impressione. Lascio stare per il momento e aspetto che Daughtry continui a parlare della sua versione dei fatti. «Li è mai stato in montagna, detective?».

Annuisco e ripenso a una delle serate più belle della mia vita passate in compagnia di Sarah a Denver, nel Colorado. Ripenso a quella bellissima donna che mi attendeva al bancone del bar in reception, stretta nel suo abito nero e avvolta dalle luci soffuse. Penso a quel tempo e a quando le cose importanti sembravano altre. «Cosa c'entra la montagna?». Domando d'istinto.

«Per capire cosa le andrò a riferire deve prima comprendere un nuovo modo di vedere l'universo. Quando guardi verso il basso dall'alto di una montagna vedi ogni villaggio sotto di te, a valle. Li vedi tutti e separati l'uno

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dall'altro, ma da quella posizione si crea una immagine completa e coerente, non sei d'accordo?».

«Signor Daughtry, mi piacciono queste metafore, ma deve capire che mi è stato concesso pochissimo tempo e ho bisogno di sapere cosa è accaduto in quel bosco».

Jeremy Daughtry diventa subito più serio e aggrotta la fronte. «Il tempo, detective...il tempo è una grandissima illusione. Forse la più grande dell'uomo. Esso è percepito in molti modi...».

«Mi parli di suo figlio, perché l'ha ucciso?». Cerco di arrivare al dunque toccandolo nel profondo.

«Sono stato costretto a fare una cosa della quale non ero neppure cosciente. Quel volto bianco...». Poi si perde nei ricordi. Cazzo! Ho perso solo più tempo e capisco che devo lasciarlo parlare. «Mi stava dicendo della montagna...».

«Il nostro cervello si è evoluto concependo solo tre dimensioni, e fu difficile pure per me arrivare ad accettare la teoria che esso è costituito in realtà da membrane tridimensionali che galleggiano in uno spazio multidimensionale. Ogni membrana è un universo o mondo parallelo che vibra e si muove nel mare cosmico».

«Ma questo cosa c'entra con quello che tu e Campbell avete fatto ai vostri figli?».

«A volte queste membrane si trovano molto vicine le une dalle altre e nelle loro continue vibrazioni possono entrare in contatto. Si creano così delle dimensioni extra che collegano tra loro gli universi altrimenti distinti».

La voce della Dottoressa Ellison fuori dalla cella vibra improvvisamente in tutta la stanza. «Cinque minuti, detective».

«Scoprimmo che, in un particolare punto del bosco, si era creata da tempo una dimensione extra che collegava la nostra membrana a un altra. Il problema è che gli atomi non possono attraversare le membrane e vedere altrove. Stavamo studiando come riuscire ad entrare in contatto con l'altro universo e la scoperta di tutto questo ci eccitò a tal punto da renderci pazzi e schiavi. Ha mai visto una luce con toni di rosso provenire dal cielo?».

Annuisco e Daughrty sorride.«Era l'undici Gennaio quando dall'altro universo ci arrivò un

messaggio e lì conoscemmo Lui».

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«Lui chi è?».Lo sguardo di Daughtry comincia a vacillare, come colto da

terrificanti ricordi. «Il Lord, detective. Il Lord trovò un modo per contattarci nonostante le leggi fisiche lo impedissero».

A quelle rivelazioni mi rendono frastornato e confuso. Non riesco a credere che uno scienziato mi stia parlando in quel modo. Tuttavia c'è qualcosa nella sua voce che rende il tutto dannatamente vero. Pur sapendo che ho davanti solamente un pazzo, nella mia mente si scalda l'idea che in quelle parole ci sia del vero.

«Il Lord ci parlò per notti intere. Ci raccontò di Carachura e del suo paese. Della morte del suo popolo e di una imminente guerra nel suo mondo. Ci chiese di offrire a Lui i nostri figli, non ne comprendemmo il vero motivo o scopo, non sembrava atteggiarsi da divinità, eppure ci stava domandando di compiere un sacrifico di sangue».

Un silenzio mortale copre la cella di un velo simile a un sudario mentre la luce, della lampada sopra di noi, vacilla e lampeggia.

«Così avete ucciso i vostri figli?».«No! Eravamo tutti e tre inorriditi all'idea e terrorizzati da una simile

mostruosità. Quello era un demone di un abisso, un male feroce. Lo capimmo troppo tardi. Nonostante ciò Robert fu più debole di noi e cadde nella tentazione di quel demonio. Poiché il Lord lasciò cadere una maschera completamente bianca, di un tessuto particolarissimo. Quella maschera, detective, una volta indossata, conferisce un grandissimo potere. Può farti entrare nei sogni più celati d'ogni persona e, in qualche modo, sussurrarle all'orecchio dell'incoscienza un pensiero. Il Lord chiese a Robert di usare la maschera per entrare nei nostri sogni e ordinarci di portare al bosco i nostri figli e...». Si ferma per il forte nodo alla gola, poi riprende a fatica. «Non eravamo coscienti di ciò che stavamo per fare. Io mi sono risvegliato ritrovandomi con la luce delle torce dei poliziotti puntate contro la faccia e poi il resto. Solo dopo scoprii ciò che era accaduto, ma solo perché Robert, su comando del Lord, ci fece ricordare e provare rimorso. Qualche giorno dopo Campbell si tagliò le vene con un ferro che sporgeva dalla struttura in ferro del suo letto in cella».

«Dov'è finito Robert adesso?»«Non lo so, io non l'ho mai più visto».

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«Perché Robert ho deciso di indossare quella maschera?».«Suppongo per salvare suo figlio».«Robert aveva un figlio? Come si chiamava?». Prima che la Dottoressa Ellison aprisse ferocemente la porta, per

trascinarmi fuori da quella cella, il nome volò a mezz'aria, tra le polveri sottili tagliate dalla luce violenta del corridoio. «Jason, suo figlio si chiamava Jason».

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Episodio nove

La Dottoressa Ellison mi accompagna fino alla porta. «Non

ha detto nulla di diverso, è sempre la solita filastrocca che recita. Una volta era sicuramente un grande scienziato, ma tutto quello studio l'ha reso certamente folle».

In realtà non mi accorgo nemmeno che sta parlando con me. La mia mente naviga ora in altre acque, quelle acque scure e torbide della follia. Il mio cervello ha registrato tutta la conversazione avvenuta con Daughtry, ogni singola parola è entrata in memoria. Ed ora sento nella mia anima lo scontro titanico tra ordine e caos, tra ragione e follia.

Il Lord. Quel nome evoca a pensarci un sinistro senso di impotenza di fronte alla grandezza. Il Lord. Qualcosa scuote le mie interiora mentre un'infermiera giunge dall'angolo del corridoio fermandosi davanti a noi. E' una donna di colore e in evidente sovrappeso. Quella breve corsa dalla reception fino a noi l'aveva stancata. «Dottoressa Ellison, c'è una chiamata urgente per il detective».

«Passamela nel mio ufficio. Grazie Kate». Poi la Dottoressa Ellison passa lo sguardo su di me. «Torniamo all'ufficio, detective. Sembra che qualcuno abbia urgente bisogno di lei». Le sfugge un breve sorriso prima di voltarsi ed incamminarsi di nuovo verso l'interno della struttura.

Il telefono è sopra la scrivania. La cornetta è rivolta verso il basso appoggiata sopra alcune cartelle gialle.

«Detective Shown, chi parla?».«Sono Kooper! Shown devi assolutamente tornare a Mason Creek,

Wide ha bisogno di te. Hanno appena caricato in ambulanza suo figlio Eric, lo stanno portando d'urgenza all'ospedale».

«Cazzo! Cos'è successo?».

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«Non so precisamente cosa sia successo, ma credo che abbia tentato il suicidio».

Riaggancio e quando alzo lo sguardo noto involontariamente una fotografia appesa a un quadretto sul muro. E' l'immagine di un uomo, ma nella mia mente, tra i milioni di pensieri, si accende una vibrante scintilla. Quell'uomo l'ho già visto, ne sono certo. Nella foto stava seduto in quello stesso ufficio, ma quegli occhi fissavano l'obiettivo con una freddezza tale da risultare demoniaci.

«Chi è quello nella fotografia?». «Quello, detective, era il vecchio primario: il Dottor Crugher». Non sapevo dove l'avessi visto, ma ero certo di averlo incontrato. «Grazie, Dottoressa Ellison. Ora devo proprio andare». «La accompagno alla porta».«No. So uscire benissimo da solo».Non appena fuori dalla struttura accendo una sigaretta. Non ricordo

nemmeno di averla finita, che in mano, tra le dita, ne ho una seconda già accesa. Entro poi nel taxi che mi stava aspettando nel parcheggio. Direzione: ospedale di Mason Creek e di fretta.

Temevo proprio questo, cazzo. Sapevo che Eric avrebbe tentato il suicidio come Irina. Sembra essere un cerchio di eventi inevitabile. Forse Eric si è ricordato, come è successo ad Irina, di qualche particolare. Il senso di colpa ha fatto il resto. Mentre penso a questo la mia mente ricorda quello che mi ha detto Sam Hartigan: “In sogno appare un uomo magro e senza volto, è accaduto qualche volta anche a me. Ti fa vedere delle cose, ma poi, a meno che Lui non voglia, te le fa scordare”. Ho l'impressione che questo demone o entità metafisica agisca nei sogni e sia in grado di rievocare, tramite essi, alcuni ricordi. Rammento pure il blackout di Eric. Affermava di non ricordare nulla da quando si era fermato a bere l'acqua che Jason aveva nello zainetto, fino al risveglio sulla strada verso casa. Irina affermava di aver accompagnato Sofia a casa e di averla vista entrare. Mentiva. Era però una menzogna ingenua e facilmente verificabile. Non ne capivo il motivo. Ora forse lo comprendo. Ma devo parlare con Eric un'ultima volta. Se risponderà come credo alle mie domande, allora ne avrò la conferma.

Jason. Quel nome, pronunciato alla fine del colloquio con Daughtry, mi rimane impresso fino all'ospedale di Mason Creek. Mi fa

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pensare parecchio, distraendomi dalla giungla selvaggia del traffico. Quel nome mi riconduce al ragazzo scomparso, amico di Eric. Jason Davies. Una mazza ferrata mi spacca il cranio in due parti quando improvvisamente, alla gialla luce lampeggiante di un cartello pubblicitario guasto, ricordo dove ho già sentito il nome di Robert Gordon. Alla vista del distintivo quella giovane infermiera si intimorisce, ma poi finalmente si convince ad accompagnarmi nella stanza di Eric.

Trovo Wide e sua moglie lì, accanto a letto. Eric sembra stia dormendo. Getto l'occhio sul monitor. Le sue funzioni vitali sono stabili. La moglie di Wide ha la testa appoggiata sul materasso all'altezza delle gambe del figlio, mentre Wide è in piedi davanti alla sponda finale del letto che mescola la bacchetta di plastica dentro al bicchiere del caffè.

«Come sta ora Eirc?». Cerco di bisbigliare e di fare il meno rumore possibile. Quel buio e quell'aria calda e viziata mi assopisce i nervi dopo tante ore senza sonno.

Anche Wide bisbiglia. Ha una voce roca. «Oh, Shown sono così felice di vederti. Ha perso molto sangue, ma sono arrivato in tempo. Li hanno ricucito i tagli ai polsi qualche ora fa».

«Cos'è successo, Billy?». «Usciamo a fumarci una sigaretta».«Te non fumi». «Vuol dire che dovrai offrirmene una tu».Usciamo dalla stanza e raggiungiamo un'area più tranquilla dove si

può fumare, accanto ad una lunga vetrata. Da lì, al secondo piano, si vede Mason Creek che dorme. Non ci sono stelle in cielo perché le nuvole, cariche di tempesta, avvolgono ogni cosa.

«Già dalla mattina aveva assunto un atteggiamento molto strano. Dagli occhi gonfi che aveva sembra che avesse pianto per tutta la notte. Era fisicamente distrutto ed io ho pensato fosse colpa di tutto questo casino che sta succedendo e che quelle sue condizioni derivassero dalla notizia della scomparsa di Jason e Martin. Nel pomeriggio l'ho trovato steso sul pavimento della sua camera da letto. Il legno e i vestiti erano zuppi di sangue. Cazzo Shown, da genitore non puoi nemmeno pensare a tuo figlio ridotto in quello stato».

«Ti ha parlato? Hai capito perché l'ha fatto?».

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«No, non era del tutto cosciente. Vaneggiava. Ma nelle sue parole ridotte incomprensibili ho capito cosa aveva sognato quella notte e di chi stava parlando».

«Di quel demone senza volto, esatto?». Wide getta la sigaretta nel portacenere e rimane in silenzio. «Wide mi dispiace per quello che è successo a tuo figlio, ma è chiaro

che quella presenza ha bisbigliato qualcosa al suo orecchio durante il sonno che gli ha fatto prendere la stessa decisione a cui era arrivata Irina per i sensi di colpa».

«Non mi dirai ora che credi allo Slender?».Non rispondo. Così Wide cambia argomento. «Tu dove sei stato?

Dove hai passato la notte?».«Sono andato nel bosco e ho trovato una traccia di sangue in quel

punto che mi avevi indicato, quello dove gli scienziati hanno aperto il portale. Ho preso un tampone, domani mattina lo faccio subito analizzare, credo si di Sofia Monroe».

«Aspetta un momento! Quali scienziati? Quale portale?».«La mattina seguente sono andato al Manicomio di Chesterfield a

Stonehill. Ho incontrato Jeremy Daughtry. Mi ha raccontato un po' quello che è successo e, dalla sua versione della storia, non sembrano affatto satanisti. E' tutto così chiaro e confuso allo stesso tempo...».

«Ti ha parlato di un portale?».«Nel '92 tentarono di capire i meccanismi di un universo parallelo

venuto a contatto con il nostro attraverso delle “dimensioni extra” le ha chiamate».

«Sono teorie interessanti, ma sicuramente fantasie di un folle satanista. Dove hai passato la notte?».

«Iniziò a piovere forte, un grosso temporale. Ho trovato riparo in un casolare abitato, subito oltre il bosco».

Wide mi guarda subito strano. Aggrotta la fronte e mi interrompe. «Impossibile!».

«Cosa?».«Sei sicuro che era abitato e che era nelle campagne intorno al

bosco?».«Più che sicuro, Billy. Qual'è il problema?».

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«Quelle zone sono disabitate dalla metà del 1993, dopo i fatti dei satanisti. La gente in quelle zone è venuta tutta a vivere in città o si è stabilita a Dodge City. Ti ricordi i nomi dei proprietari?».

«Era solo un signore anziano di nome Sam. Sam Hartigan. Ti dice qualcosa?».

Lo sguardo di Wide è sempre più perplesso e sconcertato e non ne capisco il motivo.

«Lì ci abitava il nonno di Jason, dalla parte di madre».«Come sarebbe a dire “ci abitava”?».«Shown, Sam Hartigan è morto tanti anni fa. Ti assicuro che in quella

zona non ci abita più nessuno».Mentre mi dice questo il mio cervello elabora una strana associazione,

un'illuminazione improvvisa, forse stimolata dall'arrivo di un fulmine che spacca in due il cielo prima completamente buio e nero. Mi torna alla mente il volto della fotografia nell'ufficio della Dottoressa Ellison. Ora i pezzi più grandi del puzzle mi stanno cadendo dritti sulle braccia, ma ancora non riesco a collegarli.Billy mi guarda attentamente, mentre sono avvolto dai miei corrosivi pensieri. «Cosa ti sta frullando per la testa, Shown?».

«Ho scoperto alcune cose che non sapevo, Billy. Ed anche se ora non ha ancora alcun senso, sento che lo avrà presto».

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Episodio dieci

«Credi che mio figlio, come Irina Callaway, sia

colpevole?». Wide è disperato. Ovviamente non può credere che stia accadendo tutto a lui e così in fretta. Ma io vedo lo stesso meccanismo. In Eric, come in Irina, qualcosa o qualcuno deve aver risvegliato nel loro inconscio un ricordo cancellato, portando a galla un fortissimo senso di colpa che giustifica quegli atti estremi. «Non lo so, Wide. Devo parlare da solo con tua figlio prima».

«Ti vedo strano, Shown. Hai qualcosa che mi nascondi».«Forse solo meri pensieri o inutili supposizioni». Mi accendo un'altra

sigaretta. Ne offro una anche a Wide, ma scuote la testa e continua a fissarmi. «Avanti, racconta».Il fumo esce dal naso e dalla bocca invadendo l'aria, mentre la cassa

toracica si sgonfia emettendo un sibilo. «Ti ricorda qualcuno il nome Robert Gordon?».

Ci pensa un attimo, poi risponde. «Sì. Era sotto indagine all'epoca dei satanisti. Nel '93 il detective Wilson aveva trovato qualcosa su di lui. Poi è svanito tutto nel nulla. Non so che fine abbia fatto quel detective. Ora Gordon è morto».

«Si chi è il figlio di Robert Gordon?».«No, non saprei».«Jason Davies. L'amico di tuo figlio Eric. Il suo vero cognome,

acquisito dal padre biologico, sarebbe Gordon».«Non lo sapevo. Ma questo cosa c'entra?».«Secondo la versione di Daughtry fu Robert Gordon ha obbligarli a

uccidere i loro figli. Robert lo fece per evitare di sacrificare il suo».«Oh Cristo! Non crederai alle parole di quel pazzo, spero! Come li

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avrebbe obbligati a fare una cosa simile?».«Gordon voleva salvare suo figlio Jason, così ha deciso di usare un

oggetto in grado di interagire con l'inconscio altrui».«Quale oggetto? Cosa intendi per “interagire con l'inconscio”? Io non

sono così informato come te in psicologia».«Una maschera in grado di entrare ed uscire dai sogni».Il minuto di silenzio che segue è imbarazzante e stupido. E' uno di

quei minuti nei quali la persona che hai davanti si ingrandisce schiacciandoti fino a renderti una fettina di formaggio.

«Io ti reputo una persona intelligente e molto dotata, Shown. Ma quello che mi stai dicendo non ha alcun senso. Comunque sia, Gordon è morto e non potrebbe fare nulla di simile».

«Questo è vero, ma se quella maschera esiste veramente, potrebbe essere in mano a qualcun altro».

«Ammettiamo anche che questo “qualcun altro” avesse la maschera, perché utilizzarla per far sparire delle persone?».

Rivelare a Billy Wide anche la storia del Lord mi sembra troppo per una sola nottata, mi avrebbe preso realmente per matto. Anche se lui stesso è molto superstizioso, non avrebbe mai creduto a una storia simile. Così mi limito spegnere la sigaretta nel portacenere e a dire. «Devo parlare con tuo figlio».

Decidiamo di rimanere in ospedale e di attendere la mattina accovacciati sulle sedie in sala d'attesa del pronto soccorso. Non dormo. Rimango con gli occhi semi aperti, mentre vengo circondato da orribili visioni. Quella luce scarlatta si ripropone ciclicamente nella mia mente, catapultandomi nuovamente in quel bosco. Gli occhi di Sam Hartigan alla debole luce della lampada mi forano il cervello, e la terribile verità che quello non è affatto Sam Hartigan mi terrorizza assieme al sospetto della sua vera identità. Quell'agghiacciante sospetto non mi fa dormire. Credo di sapere con chi ho parlato quella notte tempestosa. Percepisco solo ora il terribile pericolo che ho corso.

Ma anche Wide non dorme. E' disteso sulle sedie dietro di me, non lo vedo. Ma all'improvviso sento la sua voce. «Anche te soffri d'insonnia in questo periodo?».

«Wide, credo di sapere chi abita in quella casa abbandonata nella

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quale ho trascorso la notte».«Non certo il vecchio Sam.». Risponde Wide. «Dobbiamo entrare dentro quella casa Wide, è importante. Credo che

lì si nasconda un criminale già ricercato. E' molto pericoloso e penso sia collegato a tutto questo».

«Chi?».«Conosci il caso del primario di Chesterfield?».Improvvisamente sento Wide alzarsi dalle sedie dietro di me.

«Crugher! Ne sei sicuro?». «E' difficile esserne certi. Ma nel manicomio ho visto una sua fotografia abbastanza recente. Quel volto era identico a quello di quell'uomo che si è presentato a me col nome di Sam Hartigan».

«Devi subito avvertire Kooper e l'FBI di questo tuo sospetto». «Prima dobbiamo avere delle prove».«E come?».«Entrando in quella casa».«Ma ci serve un mandato per entrare in quella casa, a meno che la

signora Davies non decida di farci dare un'occhiata. Credi che sappia che qualcuno vive in quella vecchia casa?».

«Domani andremo dalla signora Davies».Aspetto che Wide prenda sonno. Mi accerto che stia dormendo e

raggiungo furtivo la camera di Eric. Il polso è debole, ma i valori sono quasi nella norma.

Quando sono accanto al suo letto il suo sguardo incontra il mio. Strizza le palpebre come per cacciare un brutto ricordo, o una brutta realtà.

«Eric, perché ti sei fatto questo?».Il ragazzo bisbiglia nel buio della stanza. «Detective, sento la voce

dell'uomo senza volto e a volte lo vedo nei miei sogni. Lui mi ha fatto vedere ciò che ho fatto». Singhiozza, ma non si agita. Ormai sembra essersi arreso all'innegabile evidenza. Poi continua. «Shown, mi ha detto lui di ucciderli con quel bastone nel bosco. Lui me l'ha detto ed io l'ho fatto. Ho picchiato Martin ed Eric finché non sono morti entrambi. Li vedo stesi lì a terra, come se fosse accaduto ora. Perché ho fatto una cosa del genere? Sono malato? Perché vedo quell'uomo?».

Con affetto prendo la mano del ragazzo tra le mie. «Ricordi qualcos'altro?».

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«Sì, nel bosco abbiamo letto tutto il diario di Irina. Solo ora ricordo. Quel demone ha risvegliato in me le terribili immagini di ciò che ho fatto, ma assieme ad esse anche ricordi importanti. Irina doveva incontrare una persona».

«Chi?».«Non c'era scritto il nome. Solo il luogo e che quella persona

l'avrebbe aiutata a smettere di sognare l'uomo senza volto».«Qual'è il posto, Eric?».«Ti prego, detective Shown, non dica ciò che ho fatto alla mia povera

mamma! La prego! Non dica nulla al mio papà!».«Qual'è il posto, Eric?».«Mi faccia questa promessa, la prego!».«Qual'è il posto, Eric?».

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Episodio undici

E' l'alba e sto consegnando al laboratorio della centrale il

campione di sangue trovato sulla corteccia di quell'albero nel bosco, quando Kooper grida il mio nome dall'altro capo del corridoio, con la testa fuori dalla porta del suo ufficio. «Emergenza! Torna subito all'ospedale! Eric non è più nella sua stanza!».

La mia mente si muove prima del mio corpo. E penso alla chiacchierata avuta quella notte all'ospedale. Non avrei dovuto lasciare la struttura.

Attraverso il corridoio verso l'uscita, mentre sento qualcuno correre alle mie spalle. E' Kooper. «Vengo anch'io con te Jersey! Voglio sapere che cazzo sta succedendo! Prendiamo la mia auto».

Mi accorgo di guardarlo un po' perplesso e rispondo aprendo la porta. «Il problema, Kooper è che forse non capiremo mai fino in fondo ciò che sta accadendo qui a Mason Creek».

Accendo una sigaretta non appena saliamo sulla sua Cadillac Eldorado dell'81. «Cosa credi di fare con quella sigaretta sulla mia macchina?».

Lo voglio mandare a farsi fottere, ma la mia espressione rimane seria mentre la mente è concentrata su tutto quel pentolone di parole e fatti che sono accaduti e sui quali non riesco ancora del tutto a trovare una logica spiegazione.

Torno a infilare la sigaretta nel pacchetto quasi vuoto. A metà strada, dopo il tragitto di silenzio, Kooper prende a parlare. «Cosa intendevi dire prima, a proposito di questa storia?».

Distacco lo sguardo da Mason Creek vista attraverso il finestrino appannato. Le piccole case a bordo strada impennano la loro ombra tagliente

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sul manto grigio dell'asfalto. «Ci sono cose, nel piano di universo in cui viviamo, che non potremmo mai comprendere fino in fondo».

«Detto da te suona strano».«Io non credo, io penso e mi adeguo alla realtà. Credo che ci sia una

spiegazione, seppur bizzarra e quasi inaccettabile per l'intelletto, a quello che voi chiamate Slender o demone che appare nei sogni».

La conversazione termina lì. Non diciamo nulla fino all'ospedale. Gli urli che sentiamo provenire dall'interno sono quelli della moglie di Wide. Gli infermieri stanno cercando di calmarla. Kooper si ferma al primo piano a discutere col primario, mentre io trovo Wide in piedi davanti al letto vuoto di suo figlio Eric.

«E' scomparso un'altra volta e per un'altra volta io non mi sono dimostrato un padre attento». Mi aveva certamente sentito entrare e in qualche modo aveva capito che ero io. Rimango in silenzio, mentre lui, ancora voltato di schiena, continua a parlare a voce bassa. «Son rimasto accanto a lui tutta la mattina. Poi sono uscito e ho telefonato a mia moglie. Era andata a prendere a casa alcun cose per Eric. Quando sono tornato non c'era più».

«Questa volta Wide, sembrerebbe che tuo figlio sia intenzionalmente uscito da qua. Aspettava solo che tu ti allontanassi un attimo dalla stanza».

Finalmente si gira verso di me. «Ma dov'è ora?».«Credo di sapere dove ha deciso di andare».Billy Wide sgrana improvvisamente gli occhi. «Come fai a saperlo?».«Intuizione». Rispondo, dopo qualche secondo aggiungo. «Dobbiamo

andare in quella casa, Wide, con o senza mandato».«Perché?».«Irina Callaway doveva incontrare una persona in grado di aiutarla a

scacciare quel demone dei sogni che sembra la costringesse a fare cose molto cattive. Eric ha letto il diario di Irina e credo abbia abbracciato questa minima possibilità di salvezza. Ormai devi ammettere a te stesso che è stato tuo figlio Eric a far sparire nel bosco i due ragazzi. Sostengo però che sia tutto, in qualche modo, una trappola. Non c'è salvezza, ma soltanto un mostro che ti attende alla fine dell'incubo».

Wide abbassa la testa in segno di rassegnazione. Singhiozza illuminato solamente dai monitor affissi accanto al letto. «Mi fido di te, Shown. Andiamo».

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Si carica nell'aria e nel cielo un'atmosfera elettrica che annuncia un imminente temporale, mentre la macchina di Wide sfreccia verso l'aperta campagna. Parcheggiamo molto distanti dall'abitazione, passando a piedi in mezzo al fango e alle sterpaglie.

Cerco di tenere lucida e attiva la mia razionalità, ma mi accorgo di provare un certo terrore alla vista di quell'edificio, mentre d'istinto la mano sgancia la fondina appoggiandosi al freddo metallo della Smith & Wesson.

«Nessuna luce all'interno. Le finestre hanno le inferiate e la porta sembrerebbe chiusa. Proviamo a bussare con una scusa?». Suggerisce Wide.

Ci avviciniamo alla porta e busso utilizzando il battacchio. Niente. Riprovo. Nemmeno un rumore dall'altra parte. Intanto sopra di noi il cielo è nero e pronto a sparaci addosso la sua scarica di proiettili d'acqua.

Sul retro troviamo una finestra senza inferiate. Riusciamo subito a entrare. Sfodero la pistola e armo il cane, mentre Billy alle mie spalle mi segue silenziosamente. Raggiungiamo presto il salotto nel quale ho dormito. Le braci nel camino si stanno assopendo avvolte dalle cenere grigia.

Il mio corpo segue un percorso tutto suo e quasi d'istinto mi porta all'ingresso dello scantinato a metà del corridoio. «Diamo un occhiata qua dentro».

Scendiamo. E' buio pesto, non si vede nulla qua sotto e l'odore della morte mi invade le narici. Sento Wide alle mie spalle che cerca qualcosa, rumori di tessuti e di una cerniera. Poi il fuoco. Wide accende un fiammifero, pronto ad accenderne un secondo al termine del primo.

Non credo ai miei occhi quando davanti a noi si apre uno scenario quasi indescrivibile. Al centro un piccolo altare di pietra, ci sono degli strumenti in metallo accanto. Il sangue è quasi dappertutto, dall'altare fino al pavimento. Nessun cadavere. Le pareti intorno sono piene di scaffali colmi di libri. Mi avvicino a un tavolo, subito dietro l'altare. Wide accende il secondo fiammifero e nell'istante brevissimo di buio sento l'alito freddo della morte sulla pelle. Raccolgo alcuni appunti dal tavolo. Separazione dell'anima dal corpo. La maschera. Il Lord e le sue creature. Carachura o L'oltre Parallelo. Questi sono alcuni dei titoli che riesco a decifrare. Poi, come se qualcuno mi avesse spaccato entrambe le rotule utilizzando una mazza da baseball, sento le gambe improvvisamente cedere alla vista di una zainetto azzurro sotto il tavolo. Lo apro immediatamente. Dentro trovo tutto quello di cui avevo

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bisogno. La macchina fotografica di Irina Callaway e i negativi che testimoniano l'uccisione di Sofia Monroe. In una tasca più interna trovo il diario di Irina e due bottigliette d'acqua quasi vuote. Una di queste ha l'etichetta intatta, l'altra ne è priva.

«Qui non c'è nessuno, Shown». Mentre Wide inizia ad agitarsi, scopro sul tavolo un appunto che riporta la data di oggi. La calligrafia è quasi illeggibile, riseco a decifrarne solo un tratto. Ma quel tratto mi basta per scoprire dove si trova Crugher. «Dobbiamo andare al bosco! E di corsa! Potrebbe essere già tardi».

Il bosco non è lontano e riusciamo a raggiungerlo molto in fretta con una folle corsa contro il tempo. Nel primo tratto i rami degli alberi ci graffiano il volto e i rovi taglienti contro le caviglie ci costringono a rallentare. Ci dirigiamo verso Nord, nel punto in cui anni prima avevano arrestato Campbell e Daughtry. La mia preoccupazione era quella di essere costretto a rallentare il passo per fare il meno rumore possibile, ma fortunatamente il rombo assordante dei tuoni e dei folgori della tempesta in arrivo coprono la nostra corsa tra i rami secchi e le foglie cadute.

Quel libro maledetto, di cui si parlava al manicomio di Chesterfield, sta a mezz'aria davanti a nostri occhi accecati da una potente luce scarlatta, mentre il cielo si apre in un vortice di nubi sanguigne sopra la testa di Crugher. L'uomo è fermo e di spalle. Davanti a lui due corpi. Wide riconosce suo figlio Eric, steso a terra accanto al letto del fiume. L'altro ragazzo sembra essere Jason. D'istinto Wide scatta in avanti correndo carico di rabbia e odio verso Crugher. Un lampo accecante invade il bosco, un bagliore bianco che mi frantuma il cervello in mille pezzi. Ho l'impressione che il tempo si sia fermato, non sento più scorrere il fiume. Dopo un brevissimo istante l'illusione. Il bianco sfolgorante svanisce e gli oggetti tornano a prendere forma.

Wide è a terra assieme a Crugher. Quando esco da dietro all'albero per correre in soccorso di Wide noto subito un fondamentale dettaglio. Ora sull'argilloso suolo del bosco c'è solo un corpo, quello di Eric. L'altro ragazzo sembra essere scomparso nel nulla.

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Episodio dodici

Sento un grido strozzato di Crugher. «No! No!». Nel

dimenarsi allontana Wide spingendolo contro un ceppo. Forse lo stesso ceppo d'albero su cui Irina e Sofia avevano posizionato la macchina fotografica. Crugher si alza a fatica scomparendo oltre i rami neri del bosco, mentre Billy arranca verso il figlio Eric, ancora disteso a terra. Le gocce di pioggia si uniscono al sangue che cola sul volto dalla tempia di Wide, mentre io, senza pensarci, inseguo nelle tenebre quel pazzo. Vedo pochissimo in tutto quel buio, ma i rumori dei suoi passi frettolosi sono ben udibili anche a quella distanza. I rami e i rovi continuano a lacerarmi la pelle. Li sento, ma non provo dolore. Ora la mia mente e il mio corpo sono alleati contro un nemico più grande.Nessun rumore. A un certo punto tutti quei passi nel buio cessano. Rallento e con entrambe le mani tengo ben salda la pistola verso la vuota oscurità.

Una voce cupa e roca si muove improvvisamente nell'aria fredda. «Lui ci sta osservando detective, il Lord è qui con noi adesso».

Mi muovo a scatti e in modo circolare su me stesso nell'oscurità, cercando di individuare la provenienza di quel terribile suono.

«Esatto detective, ha capito bene. Continui a girare su sé stesso e capirà il senso di questa esistenza. Siamo intrappolati in un cerchio, mentre Carachura si prepara di nuovo alla battaglia».

La mia vista nel frattempo migliora, si abitua al buio. Distinguo i tronchi d'albero e la sagoma dei rami secchi. Non vedo Crugher.

«Abbiamo già compiuto tutto questo, se lo ricorda? Eravamo a Carachura, sul cammino del prete sadico. Il Lord ci osservava dalla sacra altura».

Rimango in silenzio. Quelle metalliche parole mi disturbano e mi

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terrorizzano. Mi penetrano nel cervello come un chiodo. Rimango però concentrato sforzando gli occhi e la vista.

Mentre la voce sembra avvolgermi da ogni lato, sento alle mie spalle un leggerissimo fruscio, quasi impercettibile. Così mi volto di scatto, ma troppo tardi. Con un calcio ben assestato mi spacca probabilmente un dito della mano sinistra. Perdo l'arma, la sento roteare e cadere al suolo. Con la mano destra carico un pugno. Colpisco il vuoto e sento quel demone afferrarmi il braccio. D'istinto gli frantumo la faccia gettando, con tutta la forza possibile, il gomito all'indietro. Finalmente l'ho beccato. Rotola un attimo a terra. Il tempo per me di chinarmi e cercare la pistola. La sento fredda al tatto. Quando mi volto i suoi occhi lo ingannano. Sono ben visibili, gialli e lucenti nel buio. Sparo e il boato del colpo esplode nel silenzio del bosco. Il lampo di luce illumina brevemente il corpo di Crugher che cade a terra.

Mi avvicino per accertarmi delle sue condizioni, non ho la minima idea di dove sia finito il proiettile. Intanto la mano sinistra accusa un dolore mostruoso, ma sopporto. Sono a dieci centimetri dalla sua faccia quando nel buio la sua voce si fa sentire. «Credi di aver sconfitto il vero mostro alla fine dell'incubo, detective?». La voce è ridotta a un sibilo sforzato.

«Se non tu, figlio di puttana, chi? Il Lord, forse?».«Il Lord è il motore immobile di tutta questa faccenda». Tossisce.

«Ma è limitato da leggi fisiche. Egli comanda il demone che tutta questa stupida città ha soprannominato Slender. Lui è il tuo nemico».

«E tu sai chi è».«So chi era e so chi è ora». Ogni forza lo sta abbandonando, devo

averlo colpito in punto vitale. «A chi devo dare la caccia?»«Cacciatore, con la tua interruzione del rito non saprei dirti dove la

tua prede sia finita».«Fammi un nome, cazzo!».Crugher non risponde e il silenzio del bosco intorno a noi inghiotte i

suoi ultimi affannosi respiri. «Un nome!»L'ultimo sospiro prima della morte è preceduto da un nome lasciato

cadere e scivolare nell'aria. «Jason».Lascio lì il cadavere e guardandomi intorno cerco di orientarmi.

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Niente da fare. Non ho idea della mia posizione. Cerco le sigarette nella tasca e mi rendo conto di aver perduto pure quelle. Fortunatamente ritrovo l'accendino con il quale riesco a farmi strada tra i fitti rami del bosco. Seguo il suono del fiume sapendo che, per tornare verso il luogo del sacrificio, devo tenermi alla sua sinistra.

In questo modo raggiungo Wide. La scena mi frantuma l'anima in mille pezzi. Billy tiene stretto suo figlio incosciente tra le mani cercando di tenerlo al caldo. Mi avvicino di corsa. Tasto il polso del ragazzo. E' ancora vivo, ma ha un respiro irregolare. «Forse è entrato in coma! Dobbiamo portarlo subito all'ospedale, Billy!».

Wide è in lacrime e sembra non reagire alla situazione, così gli faccio capire l'urgenza e l'importanza del fattore tempo. «Facciamo in questo modo: io cerco di raggiungere il più velocemente possibile la casa di Crugher, lì c'è un telefono. Chiamo l'ambulanza! Tu stai qui col ragazzo!».

Non li lascio nemmeno il tempo di rispondere che il mio copro già corre tra i rami fitti del bosco, verso l'aperta campagna.

Raggiungo il retro della villa ed entro dalla finestra senza inferiate. Quando sono dentro trovo il telefono e chiamo l'ospedale di Mason Creek. La seconda chiamata la faccio alla centrale di polizia. Spiego brevemente l'accaduto e faccio mandare da Kooper una squadra al bosco e un'altra alla villa. Non ho più forze quando riaggancio la cornetta e faccio scivolare la schiena lungo la parete muro fino a sedermi a terra. Penso a Wide da solo col figlio privo di coscienza nel bosco. Penso a Crugher e a tutte quelle parole. Ci avrei riflettuto in un altro momento, ora sono senza energie. Lascio che il buio entri dentro di me, chiudo per un po' gli occhi finché la squadra mandata da Kooper non mi trova.

Mi risveglio in ospedale su di un letto scomodissimo e il bip del battito cardiaco sul monitor.

La vista sfuocata riconosce Wide a lato del letto. Ha due cerotti bianchi sulla fronte. Mi guarda d'istinto la mano sinistra: ingessata fino al gomito.

«Come sta Eric?». Chiedo immediatamente. Dall'espressione capisco la risposta, ma lascio che si Wide a dirmelo.

«E' in coma e i medici dicono di non sapere quando si risveglierà. Mi resta solo da pregare, Shown».

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«Non perdere le speranze, Billy. Pensa sempre che tuo figlio è l'unico ad essere tornato indietro. Molte famiglie qui a Mason Creek ancora aspettano di riabbracciare il loro figlio perduto, che non tornerà mai tra le loro braccia».

Credo di averli fatto ritrovare un briciolo di positività con quelle parole, così lui mi risponde. «Grazie Jersey, senza di te non avrei nemmeno più rivisto Eric. Ora torno da lui».

Wide si volta allora di spalle e raggiunge la porta. Prima di vederlo scomparire nel corridoio lo chiamo. «Wide!». Lui si volta e mi da attenzione.

«Non ho mai capito perché Kooper ha chiamato un detective della Squadra Omicidi, dal momento che si trattava solamente di persone scomparse».

Mi accorgo che stiamo rallentando solo quando il fischio ferroso dei freni mi penetra pungente nei timpani. Così mi sveglio e ricordo di essere in treno. Le gocce di pioggia rigano il vetro sporco e appannato sul quale mi ero assopito. Osservo il mio volto quarantenne riflesso sul finestrino e penso a quelle formose occhiaie che sporgono nere sotto gli occhi.

Il treno si sta fermando alla stazione di Mason Creek, una piccola città di pianura ad est, circondata perlopiù da un fitta linea di pioppi, salici e querce che sorgono sulle sponde del torrente. Il fiume si affianca alla periferia separandola dall'aperta campagna. Un luogo isolato e teatro di numerosi incidenti, dieci anni fa ero stato chiamato a seguire i passi di un giovane ed inesperto detective su un caso di omicidio passionale. Detective, già, al pensiero la mia mano raggiunge l'acciaio freddo del cane della Smith & Wesson nella fondina e il bordo in pelle del distintivo dell'FBI appeso alla cintura.

Il treno si ferma e penso a quello stronzo di Ed Green, tenente capo della unità omicidi dell'FBI e all'incarico che dodici ore fa mi ha affidato a proposito della ragazza trovata morta proprio in quel bosco vicino al fiume.

Sofia Monroe, diciassette anni, capelli corti e occhi neri, alta all'incirca un metro e settanta, dalla foto recente, che ora mi accorgo di tenere tra le mani gelide, noto nel suo volto l'espressione ribelle di un'adolescente avventurosa e in cerca di nuove esperienze. Sofia Monroe, scomparsa quattro giorni fa, secondo gli inquirenti tra le sette del pomeriggio e mezzanotte. Trovata morta la mattina scorsa. Il corpo era seminudo e crocifisso ad un tronco d'albero. E' già caso nazionale.

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Quando scendo alla stazione accendo subito una sigaretta e attendo che il treno riparta nella direzione contraria finché la solitudine non si unisce al silenzio e il fumo grigio di sigaretta non si lega in un tutt'uno con la foschia della bassa pianura.

Raggiungo la centrale di polizia di Mason Creek a bordo di un'auto della polizia, un certo Billy Wide mi attendeva al parcheggio della stazione.

Una sensazione strana mi invade. Quell'uomo, Billy Wide, credo di averlo già visto. Non ci penso e salgo in macchina.

Fine seconda stagione

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Il necromante Parte 3

Avvertivo già da molto tempo l'impulso crescere dentro di

me. Non ho mai avuto il coraggio di scrivere ciò che è accaduto in questi lunghi anni.Ricordo ancora molto bene quando, all'età di nove anni, seguii mio padre fino alla vecchia casa del nonno. Sapevo che in lui c'era qualcosa che mi sfuggiva, una parte della sua personalità o vita privata che non comprendevo a fondo. Ciò che vidi rimase sigillato dietro le sbarre della stanza sprangata degli incubi irrisolti. Ho pregato spesso di non rivivere quel ricordo, nemmeno nei sogni più oscuri.Da quel giorno il rapporto con mio padre cambiò e lui divenne per me solamente lo scienziato Robert Gordon. Lui, d'altro canto, aveva intuito questo mio distacco e forse ne aveva anche compreso il motivo. Nonostante ciò non fece nulla per farmi cambiare idea e rimase nell'ombra per altro tempo.Nel 1992 accadde a Mason Creek un evento spaventoso che divenne da subito un caso nazionale. I due scienziati, coi quali mio padre lavorava, furono arrestati con l'accusa di omicidio e pratiche occulte. Sul giornale apparve meglio la vicenda qualche giorno più tardi. Mio padre fu interrogato da un certo detective Wilson, ricordo che in casa c'erano spesso poliziotti e giornalisti. Fu per questo che mia madre decise di lasciarlo, quasi un anno dopo, chiedendo il divorzio. Non sopportava più quella situazione. Situazione che è andata ovviamente a sommarsi a un rapporto già instabile e in crisi da anni. Più tardi e, in maniera oscura, venni a conoscenza dei tradimenti di mia madre con un certo Harry Davies.Ciò che sconvolse l'intera cittadina di Mason Creek fu la scomparsa di alcuni ragazzi e l'idea che un serial killer abitasse in paese ci terrorizzò tutti quanti.

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Ricordo ancora quando Eric ed io ne parlavamo all'intervallo a scuola. Più tardi il sindaco, assieme alle forze dell'ordine, decise di imporre il coprifuoco, nell'attesa che le indagini portassero a un sospettato.L'anno dopo il divorzio mio padre soffrì di polmonite. Ci furono dei giorni nei quali venne costretto a rimanere a letto e fu proprio uno di quei giorni che, colto dai sensi di colpa e da una debolezza emotiva, decisi di andarlo a trovare in ospedale. Era ridotto veramente male, quasi non lo riconoscevo e i medici erano convinti che non si trattava solamente di polmonite. Una notte silenziosa mi ritrovai con la testa assopita sul letto, al risveglio mio padre mi parlò. Il tono era serio, cupo, quasi immondo. Per qualche istante mi domandai se veramente si trattasse di mio padre. Mi raccontò una storia, una storia nera. Una storia che lo riguardava. Una storia così tremendamente carica d'orrore da risultare difficile per il cervello umano da accettare e comprendere. La sua sincerità l'ha intuii dai suoi occhi in lacrime e dalla motivazione che in seguito diede alle sue azioni.«Il Lord mi fece un'offerta alla quale non potevo rifiutare, poiché l'amore per un figlio mi impediva di farlo. Ti ho slavato, Jason. Mi sono sacrificato per te preparando la mia anima a questo grande peccato».Tutto quel discorso aveva risvegliato in me l'animo oscuro. Sentivo improvvisamente i graffi di quel demone, fin'ora dormiente, grattare la superficie nella quale era rinchiuso.«Con quella maschera il Lord mi ha condannato, e solo ora capisco di non averti salvato ma, al contrario, di averti maledetto con quel mio ingenuo gesto, dettato dalla paura della morte. Tuttavia la cosa deve continuare e non v'è alcun modo per fermarla. Prendi dunque la maschera e continua ciò che ho iniziato».«Perché io, papà? Perché devo continuare a...».«Il male sceglie il male quando si tratta di aggiungere seguaci».D'istinto ricordo di aver afferrato quella maschera di tessuto bianca e di aver risposto. «No, papà. Il male non sceglie il male per aggiungere seguaci, ma più scaltramente cerca e trova solamente l'animo più debole».Qualche giorno dopo morì di embolia polmonare.Per qualche giorno tentai di non pensare a questa storia della maschera bianca, ma il mio lato oscuro si era svegliato e la tentazione di provarla era fortissima. Non resistetti a lungo, quell'oggetto aveva una particolare influenza sulla mia

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psiche, o forse era il Lord?Scoprii solo in seguito che essa mi poteva condurre nei sogni solo delle persone con le quali avevo un certo contatto. I sogni, un mondo tanto oscuro quanto fantastico. In quei luoghi ho vissuto più che nella realtà interagendo con l'inconscio d'ogni persona. Ma il Lord voleva anime per il suo esercito ed io avevo il compito di consegnargliele.La maschera permetteva di comandare, attraverso il sogno, alcune azioni della veglia. Nessuno sarebbe mai arrivato a me. Il più intelligente detective avrebbe al massimo incolpato quelle povere anime che decidevo di usare per i miei omicidi. Il Lord era contento del mio operato, più che quello di mio padre. Per un po' apprezzai con gioia quel momento, poi il senso di colpa mi distrusse spezzandomi i nervi uno a d uno. Un residuo del lato buono si impose a quella malvagità. Cercai dunque una soluzione.Fu così che trovai le tracce del necromante. Non voglio spiegare come ne venni a conoscenza, fu una ricerca molto oscura. Temo al solo pensiero di quel che i miei occhi hanno letto e visto a proposito degli Altri Mondi e credo che l'essere umano non sia affatto pronto o generato per sopportare tutto questo.Trovai il Dottor Crugher a Sundown. La notizia della tragedia avvenuta in quel paese mi fece accapponare la pelle e capii che la persona che stavo cercando doveva essere nei dintorni. Quando giunsi in quella casa oltre il cimitero, il puzzo terribile dei cadaveri ingombrava l'aria. All'interno non v'era nessuno e, dopo una notevole fatica, riuscii ad aprire la porta dello cantina. La luce era scarlatta oltre il buio nero dell'oscurità più assoluta e malvagia. Udivo i sussurri reali dei demoni più immondi, e il lor battere di artigli ed ali sulle pareti insanguinate. Ma non avevo paura e credo che la percezione di questo fece in modo che Crugher, silente alle mie spalle, non trovasse la forza di uccidermi.Prima di voltarmi verso il necromante, notai, crocifisso alla parete, il corpo putrefatto di un uomo in catene. Era ovvio che, per qualche motivo, Crugher l'avesse imprigionato là sotto da vivo e poi lasciato a morire.Proposi a Crugher un accordo che accettò in virtù dei suoi studi. Avrei dato a lui tutti gli appunti sulle scoperte scientifiche di mio padre se in cambio lui mi avesse aiutato a liberarmi dalla maledizione della maschera del Lord.Nei suoi studi, Crugher, aveva trovato il modo di ricollegare le anime ai loro

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corpi defunti. Egli utilizzava scoperte scientifiche abbinate all'occulto, in particolare all'utilizzo di un misterioso libro di origini ignote.Scoprimmo un'importante regola sulla maschera. Se in sogno il sognatore avrebbe avuto il coraggio di sfilare la maschera dal viso del portatore, allora il portatore sarebbe morto, liberandosi però dalla maledizione. Tuttavia il sognatore, per uscire dal suo stesso incubo, sarebbe stato obbligato ad indossare la maschera. Era come un portale da realtà a sogno e viceversa. Indossare la maschera per uscire dal proprio incubo avrebbe comportato l'onere di occuparsi di quel malvagio lavoretto. Al contrario, se il sognatore decidesse di non maledirsi indossando la maschera, rimarrebbe all'interno del proprio sogno finché non decidesse di cambiare idea. Mentre nel sogno il sognatore combatte contro sé stesso e l'indecisione, nella realtà il suo corpo apparirebbe in stato di coma.Feci vedere in sogno, alla mia inconsapevole seguace Irina Callaway, ciò che aveva fatto alla sua amica Sofia Monroe. Ella, tormentata dal senso di colpa, cercò di liberarsi da quei terribili sogni. Cosicché io, una notte, le rivelai nel mondo onirico, dell'esistenza di un tizio che avrebbe potuto aiutarla. Irina però fu troppo debole, non mi ascoltò e due notti dopo si suicidò.Riprovai allora con il mio vecchio amico Eric Wide. Con la scusa di scoprire degli indizi sul caso lo convinsi, assieme a Martin, ad entrare in camera di Irina. Ovviamente sapevo dove ella teneva nascosto il diario e la macchina fotografica. Sapevo anche che, una volta recuperati quegli oggetti in seguito ad una violazione di domicilio, avrei altrettanto semplicemente convinto quei due a seguirmi nel bosco per liberarcene. Quel pomeriggio misi nello zainetto le prove e due bottigliette d'acqua. In quella senza etichetta avevo aggiunto dello Zolpidem. Nel bosco fermai i miei amici offrendo loro dell'acqua. Poco dopo perdemmo Eric tra gli alberi. Io suggerii a Martin di dividerci per cercarlo. Sapevo bene che Eric era caduto nel sonno profondo a causa del farmaco.Mi allontanai assicurandomi che Martin non vedesse. Infilai la maschera ed entrai nel sogno di Eric. Sotto le sembianza del demone, che tutti a Mason Creek avevano cominciato a chiamare Slender, ordinai ad Eric di uccidere Jason e Martin. Poco dopo essere di nuovo uscito dal sogno sentii gridare il mio nome oltre una fila di tronchi. Martin aveva trovato Eric a terra, caduto su alcuni rami. Eric, terrorizzato, ci raccontò ciò che aveva visto. Il demone gli

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era apparso ed io partecipai alla scenetta da grande attore. Aggrediti dal terrore decidemmo di uscire da quel bosco maledetto. Se non che Eric, con un grosso ramo d'albero, non ci colpì entrambi. Non posso sapere ciò che accadde in seguito, ma Crugher, col quale mi era dapprima accordato, mi trovò nel bosco e, in qualche modo, resuscitato. Per la gente ero definitivamente uscito di scena.Entrai di nuovo nel sogno di Eric, rivelandogli ciò che aveva compiuto, sperando che i suoi sensi di colpa non lo avrebbero portato alla morte come nel caso di Irina. Eric si tagliò le vene, ma fortunatamente riuscì a sopravvivere. Egli aveva letto il diario di Irina ed io gli feci ricordare che lei doveva incontrare un uomo capace di aiutarla. Ebbene rivelai ad Eric il posto nel quale quell'uomo si trovava. La casa abbandonata del mio vecchio nonno, nella quale solo da pochissimo tempo nascondevo il Dottor Crugher. Prima di portarlo in quella casa di campagna abbandonata, avevo trovato una sistemazione a dir poco consona ai suoi esperimenti: il sotterraneo della scuola elementare Saint Mary in Rover Street. Quando scoprii che erano nate delle storie a proposito di quello scantinato, il guardiano, col qual era arrivato ad un accordo, mi impose di cambiare sistemazione per gli illegali esperimenti del Dottor Crugher.Ora, nel buio più assoluto, resto nascosto a scrivere queste terribili memorie, mentre osservo Crugher che rivela al mio vecchio amico il modo per uccidere quel demone dei sogni. Attendo che Eric si sdrai sul divano e che prenda congedo dalla veglia. Le mie mani tremano quando prendo tra le dita quell'usurata maschera di tessuto. Spero che tutto vada per il verso giusto e che Crugher possa resuscitarmi una seconda volta sull'altare del bosco.

Se Eric riuscirà a levarmi la maschera scoprirà effettivamente chi sono. Immagino gli occhi e l'espressione di un amico ad una simile e terrificante rivelazione. Sarà difficile pure per me guardalo negli occhi. Ma so che dovrò farlo ed egli saprà chi sono.Prego che nulla interferisca col nostro piano. Intendo dare quegli appunti a Crugher e mai più rivederlo. E' l'uomo divenuto demone, è il demone che cammina con piedi umani nel nostro mondo. Alle volte ho terrore di lui.

-Fine-