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Discorsi e conferenze del Presidente 5 Gherardo Gnoli in occasione della inaugurazione del Largo Giuseppe Tucci Orientalista e esploratore (1894-1984) Roma Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente 2010

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Discorsi e conferenze del Presidente

5

Gherardo Gnoli

in occasione della inaugurazione del

Largo Giuseppe Tucci Orientalista e esploratore (1894-1984)

Roma

Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente

2010

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Discorso tenuto il 25 maggio 2010 presso la sede dell’Istituto

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Direttore scientifico: Gherardo Gnoli; Direttore editoriale: Francesco D’Arelli Art director: Beniamino Melasecchi; Coord. redazionale: Elisabetta Valento

Redazione: Paola Bacchetti, Matteo De Chiara

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Giuseppe Tucci nacque a Macerata, nelle Marche, il 5 giugno

1894 e morì, quasi novantenne, il 5 aprile 1984 nella sua casa di San Polo dei Cavalieri, presso Tivoli, nella provincia di Roma.

Dopo la prima guerra mondiale, combattuta al fronte, col grado di tenente, come ricordava con dichiarato orgoglio, si laureò all’Università di Roma (1919). Per qualche anno lavorò nella Biblioteca della Camera dei Deputati. Incaricato di missione presso le Università indiane, dal 1925 al 1930 risiedette in India, insegnando cinese e italiano nelle Università di Shantiniketan e di Calcutta. Fu allora che conobbe Rabindranath Tagore, da lui sempre ammirato come un maestro e come il grande poeta di un nuovo umanesimo indiano.

Nel 1929 fu nominato Accademico d’Italia e nel novembre 1930 fu chiamato, per chiara fama, alla cattedra di Lingua e letteratura cinese all’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Due anni dopo passò alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma come professore ordinario di Religioni e Filosofia dell’India e dell’Estremo Oriente. Vi insegnò fino al pensionamento (1969), educando diverse generazioni di discepoli. Nel 1970 fu nominato professore emerito.

Promosse nel 1933 la fondazione dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO), di cui fu primo presidente il suo maestro, collega e amico Giovanni Gentile, al cui ricordo restò sempre devotamente legato. Fu prima vicepresidente e poi, dal 1947 al 1978, presidente di questo Istituto, di cui divenne presidente onorario nel 1979.

La figura dello studioso si univa in lui a quella dell’esploratore e di un fervido e appassionato conoscitore della realtà contemporanea dell’Asia. Fondamentali furono nella sua vita i sei anni di soggiorno in India, le otto spedizioni in Tibet (1929-1948) e le sei spedizioni in Nepal (1950-1954). Col 1956 in Pakistan, nella Valle dello Swat, egli aprì la grande stagione delle ricerche archeologiche, che si allargheranno subito all’Afghanistan nel 1957 (a Ghazni) e all’Iran nel 1959 (nella provincia del Sistan e a Persepoli). Personalmente da lui dirette sul campo fino al 1976,

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esse hanno posto le basi dell’archeologia italiana in Asia. Una grande mole di materiali, di studi, di indagini di laboratorio ha contrassegnato quest’ultima lunga fase del suo lavoro, contribuendo notevolmente ad ampliare le nostre conoscenze sulle grandi aree dell’incontro tra Oriente e Occidente, sulle tracce della marcia orientale di Alessandro Magno, sulle zone d’interferenza delle grandi civiltà dell’Asia e sulla diffusione del Buddhismo dall’India verso la Cina, il Tibet e l’Asia centrale.

Questa straordinaria attività traeva ispirazione da una concezione umanistica in straordinario anticipo rispetto a quelle correnti al suo tempo. Egli, infatti, pose un’idea costante a fondamento di tutta la sua opera: quella dell’unità culturale e storica dell’Eurasia, quale unico indistinto continente, cui si accompagnava, in stretto rapporto di complementarità, la considerazione dell’orientalismo, in quanto «scoperta di nuove fonti», come feconda premessa storica e culturale alla costruzione di un umanesimo capace di aprire le porte ad un nuovo mondo da esplorare, al fine di allargare l’orizzonte di spiriti insoddisfatti di una immagine provinciale dell’uomo.

«L’Asia e l’Europa – egli scrisse – rappresentano, fin dall’apparire e dal delinearsi dei primi moti umani, un’unità così compatta che non sembra più il caso di seguitare a discuterne come di due continenti separati, quasi che le vicende dell’uno si siano svolte senza riflesso o conseguenza sull’altro. Anzi v’è fra i due tale connessione e direi solidarietà che non si conosce avvenimento notevole accaduto nell’una parte il quale non abbia avuto risonanze più o meno immediate sull’altra» (G. Tucci, Le grandi vie di comunicazione Europa-Asia, Torino 1958, p. 5).

Estraneo ad ogni fredda e sterile rigidità confessionale, Tucci vide sempre l’uomo al centro delle grandi costruzioni dei sistemi religiosi: l’uomo soggetto di un’esperienza che si realizza in modi diversi ma con ideali e aspirazioni simili. Di qui, dunque, il suo impegno inteso a «demolire qual diaframma tra Oriente e Occidente che secoli di incomprensione hanno costruito», facendo crollare «la presunzione che tutte le maggiori avventure dello spirito si siano concluse nel nostro mondo occidentale e particolarmente mediterraneo»: «sotto ogni cielo l’uomo ha avuto gli stessi sogni, è la medesima creatura dogliosamente sospesa fra il cielo e la terra, paurosamente sola dinanzi al mistero della vita e della morte» (cfr. G. Gnoli, loc. cit.).

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L’intero Subcontinente indiano e il Tibet furono senza dubbio i principali oggetti della sua passione di studioso e di esploratore. La sua bibliografia conta oltre 360 titoli: molte decine di volumi, circa duecento articoli, numerose voci di enciclopedia, recensioni, note, notizie di libri generalmente pubblicate su East and West, la rivista in lingua inglese da lui fondata, che vide la luce nel lontano 1950. Ma l’indologia e la tibetologia non furono gli unici campi delle sue ricerche e suoi studi.

Gli studi cinesi furono da lui coltivati soprattutto in età giovanile (Scritti di Mencio, 1921; Storia della filosofia cinese antica, 1922; Saggezza cinese, 1926), mentre il principale oggetto dei suoi studi fu, per tutta la sua vita, il Buddhismo, nelle sue varie forme e nella sua espansione dall’India verso il Tibet, l’Asia centrale, la Cina e l’Asia orientale. Il Buddhismo fa da lui sentito, e amato, come la più alta forma di umanesimo asiatico.

Dotato di una grande cultura umanistica, si avvaleva di un’erudizione vastissima e di una straordinaria conoscenza delle lingue. Profondo conoscitore del sanscrito e del tibetano, conosceva anche il cinese nonché il pali, il bengali e altre lingue indiane. Non disdegnò, tuttavia, la divulgazione scientifica e il largo pubblico, cui indirizzò molte opere.

Gli furono conferite le massime onorificenze in Afghanistan, Giappone, India, Indonesia, Iran, Nepal, Pakistan, Thailandia. Dottore honoris causa di varie università europee e asiatiche, tra le quali quelle di Delhi, Kathmandu e Teheran, fu pure insignito di numerosi titoli accademici e scientifici in Austria, Francia, Germania, Giappone, India, Inghilterra, Italia. Tra vari premi internazionali ebbe la Medaglia d’Oro della Calcutta Art Society (1965), la Sir Percy Sykes Memorial Medal (1971), il Jawaharlal Nehru Award for International Understanding (1976), il Premio Balzan per la Storia (1979). Il Premio Nehru, per l’amicizia che aveva avuto col Pandit Nehru e per i legami che lo avevano unito alle grandi figure dell’India moderna, quali Tagore, Radhakrishnan e Gandhi, gli fu sempre particolarmente caro, così come lui fu sempre caro all’India, che alla notizia della sua scomparsa lo pianse come uno dei suoi figli prediletti.