HR81_LE RADICI DELL'AMORE

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Le radici dell'amore Susan Wiggs

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Susan Wiggs

Le radici dell'amore

Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Summer Hideaway

Mira Books © 2010 Susan Wiggs

Traduzione di Fabio Pacini

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma.

Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg.

Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

Harmony è un marchio registrato di proprietà

Harlequin Mondadori S.p.A. All Rights Reserved.

© 2011 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Romance

febbraio 2011

Questo volume è stato stampato nel gennaio 2011 presso la Mondadori Printing S.p.A.

stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (Tn)

HARMONY ROMANCE ISSN 1970 - 9943

Periodico mensile n. 81 del 12/2/2011 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi

Registrazione Tribunale di Milano n. 72 del 6/2/2007 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale

Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione

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contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171

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Prologo

Valle di Korengal, Provincia di Kunar, Afghanistan Fece colazione con delle patate che avevano l'aspetto... e anche il sapore... di lacci di scarpe, accompagnate da due uova ricostituite che lo fissavano cupamente dallo scompar-to centrale del vassoio metallico. Nella tazza aveva una so-stanza simile al caffè, macchiata da una polvere bianca. Giunto al termine dei suoi due anni di ferma, Ross Bel-lamy non ne poteva più del rito dei pasti quotidiani. Aveva raggiunto il suo limite. Fortunatamente, questo sarebbe stato il suo ultimo giorno di servizio. Sembrava un giorno come gli altri... noioso, ma al tempo stesso pervaso dalla tensione che derivava dalla costante consapevolezza del pericolo. Il fruscio della radio si mescolava al tintinnio delle posate, tal-mente familiare da passare quasi inosservato. Nel centro comunicazioni, un operatore vegliava sulla radio, in attesa della prossima chiamata di emergenza. C'era sempre una prossima chiamata. Una squadra del soccorso aereo come quella di Ross ne doveva affrontare ogni giorno, persino ogni ora. Quando il walkie-talkie che portava agganciato alla cintu-ra vibrò, emettendo il caratteristico suono bitonale, lui spin-se da parte il vassoio senza esitare un secondo. Era il segna-le che bisognava mollare tutto... una forchetta sospesa a mezz'aria con il suo misterioso boccone di carne; una partita a poker, anche se si stava vincendo; una lettera alla fidanza-

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ta, interrotta a metà di una frase che forse non sarebbe mai stata finita; il sogno di casa nella testa di uno che dormiva; una preghiera, o una barba parzialmente rasata. Le squadre del soccorso aereo andavano orgogliose dei loro tempi di reazione... cinque o sei minuti, dalla chiamata al decollo. Uomini e donne che scattavano come molle e ab-bandonavano tutto quello che stavano facendo per indossare dei ruoli rigidi come le punte rinforzate dei loro stivali. Ross serrò la mascella, domandandosi cosa aveva in ser-bo per lui quel giorno e augurandosi di vederne la fine senza farsi ammazzare. Aveva bisogno di quel congedo e ne aveva bisogno adesso. A casa, in America, il nonno stava male... probabilmente da molto tempo e più gravemente di quanto i suoi familiari gli avessero dato a intendere. Era difficile im-maginarsi il nonno malato. Proprio lui, forte come un toro, con la sua passione per i viaggi e la sua famosa risata di pancia, capace di strappare un sorriso a chiunque la sentisse. Per Ross, era molto più di un nonno. Le circostanze della sua infanzia avevano fatto sì che tra di loro si creasse un le-game che sfidava qualunque definizione. «Sbrighiamoci, Leroy» disse Nemo, il capo della sua uni-tà. Nella maniera contorta tipica dell'esercito, Ross era stato ribattezzato Leroy. Tutto era cominciato quando quelli del suo plotone erano venuti a conoscenza delle sue origini pri-vilegiate. Le scuole esclusive, la laurea conseguita in un'u-niversità della Ivy League, la posizione sociale della sua famiglia erano diventati materiale per le battute dei suoi commilitoni. Nemo aveva cominciato a chiamarlo Piccolo Lord Fauntleroy, che poi era stato accorciato in Leroy e il soprannome era rimasto. «Ci sono» disse Ross, correndo verso l'eliporto. Oggi ai comandi dell'uccello ci sarebbero stati lui e Ranger. «Buona fortuna con l'FNO.» FNO stava per Fottuto Nuovo Operativo e significava che Ross avrebbe avuto a bordo uno alla sua prima missione. Si

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ripromise di essere gentile. Dopotutto, senza i novizi, sareb-bero stati costretti a restare lì in eterno. Invece, stando agli ordini che gli avevano trasmesso, il suo in eterno era in pro-cinto di finire. Fra pochi giorni, sarebbe tornato a essere un civile, a meno che non si fosse fatto accoppare proprio a quel punto. L'FNO si rivelò una ragazza, un medico volante che ri-spondeva al nome di Florence Kennedy, di Newark, nel New Jersey. Aveva l'espressione determinata comune a mol-ti dei novizi, che la portavano come una maschera sottile sopra una voragine di paura. «Che cazzo stai aspettando?» ringhiò Nemo mentre le passava accanto. «Muovi il culo.» Lei rimase paralizzata, il volto livido di risentimento, senza fare il benché minimo tentativo di seguirlo. Ross la fulminò con un'occhiata bruciante. «Be'? Che diavolo aspetti?» «Signore, io... non mi piace la parola che comincia con C, signore.» Ross abbaiò una breve risata. «Stai per volare in zona di guerra e ti preoccupi di questo? I soldati imprecano. Abitua-ti. Nessuno al mondo impreca più di un soldato... e nessuno prega con maggiore fervore. Sembra una contraddizione, ma non è così e presto lo capirai anche tu.» Ross ebbe l'impressione che la donna stesse per mettersi a piangere e cercò di farsi venire in mente qualcosa di rassicu-rante da dirle, senza riuscirci. Quando di preciso si era di-menticato come si faceva a parlare gentilmente alle perso-ne? Forse quando era diventato insensibile come un pezzo di roccia. Il capo della squadra a terra abbaiò una lista di controlli. Tutti salirono a bordo. Per fare prima, giubbotti antiproietti-le ed elmetti venivano indossati a decollo avvenuto. Ross ricevette i dettagli attraverso l'auricolare, mentre consultava le carte della zona. La chiamata era del tipo che

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temevano di più... vittime sia militari sia civili, nemico an-cora in zona. I loro "uccelli" sarebbero stati scortati da due elicotteri da combattimento Apache, perché le croci rosse dipinte sul muso, sotto la pancia e sugli sportelli del cargo non significavano niente per il nemico. L'equipaggio non poteva lasciarsi condizionare da quel fatto; dovevano agire in fretta. Un soldato ferito aveva bisogno di sentirsi dire sol-tanto una cosa: I soccorsi sono in arrivo. Per un uomo che buttava sangue sul campo di battaglia, l'ambulanza volante era l'unica possibilità di salvezza. Nel giro di minuti, si ritrovarono diretti a nord, verso le verdeggianti montagne della provincia di Kunar. Volando al massimo della velocità su un paesaggio segnato da picchi rocciosi, maestose foreste e fiumi scintillanti, Ross si senti-va teso e nervoso, sul chi vive. Il frastuono dei rotori faceva sì che la conversazione fosse ridotta al minimo. Andare in-contro a un pericolo ignoto era cosa di tutti i giorni, ma lui non ci si era mai abituato. L'ultima missione, si disse. È la tua ultima missione. Non guastare tutto. La valle di Korengal era uno dei luoghi più belli che a-vesse mai visto. Anche uno dei più insidiosi, dove era facile incontrare missili terra-aria, cannonate, cavi di acciaio tesi tra i fianchi delle montagne. Quella mattina, lo splendido paesaggio si riempì di fiammate e pennacchi di fumo, cia-scuno dei quali rappresentava un'arma potenzialmente letale puntata su di loro. Il cuore di Ross aveva memorizzato l'intervallo tra il momento in cui scorgeva il lampo e l'impatto... uno, due, tre battiti e se non succedeva niente poteva riprendere a respira-re. Gli Apache aprirono il fuoco sulle zone in cui operava il nemico e il diversivo permise all'elicottero di soccorso di abbassarsi. Ross e Ranger, l'altro pilota, si concentrarono nel tentati-vo di raggiungere il punto da cui era partita la chiamata. A dispetto delle informazioni ricevute, non sapevano bene co-sa aspettarsi. Metà dei voli veniva effettuata per evacuare

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civili afgani e personale della sicurezza. Le strutture medi-che del paese erano molto scadenti, quindi a volte, oltre ai feriti in battaglia, dovevano trasportare pazienti normali, vit-time di incidenti, persino persone attaccate da cani inselvati-chiti. L'unità di Ross era stata testimone di orrori e disgrazie di ogni genere. Questo, però, a giudicare dalla destinazione, non sarebbe stato un semplice trasporto alla base area di Bagram. Quella regione era un santuario dei talebani, poteva essere pattugliata solo a piedi ed era soprannominata la Val-le della Morte. L'elicottero si avvicinò al punto di raccolta e scese. Le cime dei grandi pini oscillavano da una parte all'altra, sfer-zate dal vento prodotto dai rotori, permettendo di scorgere il terreno sottostante. Incastrato tra i fianchi della vallata, c'era un ammasso di capanne con i tetti di frasche e terra. Vide gente dappertutto, civili e militari, alcuni a caccia del nemi-co, altri fermi a vegliare sui feriti in attesa dei soccorsi. Lampi si accesero su entrambi i versanti della valle. Era-no tanti, troppi, segno che il nemico era numeroso. Il rischio era enorme e, come pilota, stava a lui decidere il da farsi. Battere in ritirata adesso e proteggere l'equipaggio, oppure scendere e salvare le vite dei feriti. Come sempre, fu una scelta difficile, ma andava compiuta in fretta e persegui-ta con assoluta determinazione. Non c'era spazio per dibatti-ti. Portò giù l'elicottero, restando sospeso il più vicino pos-sibile al suolo, perché non era possibile atterrare. Il terreno era molto accidentato. Avrebbero dovuto calare una lettiga. Il caposquadra si sporse dallo sportello di sinistra, facen-dosi scivolare il cavo nella mano. La speciale barella rag-giunse il suolo e il primo soldato, quello più gravemente fe-rito, venne piazzato nella cesta. Non appena sentì gridare nelle cuffie: «Il pesce è nella rete!», Ross prese quota e il verricello iniziò il recupero rapido. La cesta aveva quasi raggiunto l'uccello quando Ross scorse un altro pennacchio di fumo... un lanciarazzi. A venti

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metri da terra, non ebbe né lo spazio, né il tempo di abboz-zare una manovra evasiva. Il piccolo missile centrò l'appa-recchio. Ci fu un lampo di luce bianca e cominciò a piovere di tut-to... schegge, attrezzatura, frammenti di vernice. Poi l'elicot-tero venne scosso da una raffica di mitra, che disegnò una serie di fori nella fusoliera. L'uccello si inclinò, cominciò a vibrare e l'equipaggiamento che aveva resistito alla prima botta si rovesciò fuori dagli alloggiamenti, proprio mentre Ross lanciava un SOS alla base. Sentì l'impatto dei proiettili nel sedile corazzato, sulle placche protettive del muso dell'elicottero, sulla cupola di vetro. Qualcosa lo colpì alla schiena, mozzandogli il respiro. Non morire, si disse. Non provarci a morire, cazzo. Rimase vivo perché, se fosse morto, avrebbe ammazzato tutti gli al-tri. E questa era un'ottima ragione per andare avanti. Aveva già portato a terra un elicottero in avaria, ma mai in condizioni simili. Non c'erano specchi d'acqua nei quali tuffarsi. Pregò con tutte le sue forze di arrivare giù senza ammazzare nessuno. Non sapeva se la squadra fosse riuscita a issare la cesta a bordo, ma non si permise di pensare trop-po al soldato ferito che forse in quello stesso momento pen-zolava sotto l'apparecchio. Ranger provò l'ultima radio ancora funzionante. Uno de-gli Apache lanciò una granata fumogena che proiettò in aria una densa nuvola di fumo rosso. Ross individuò uno spiazzo relativamente piatto proprio mentre un'altra raffica centrava l'apparecchio. Dei frammenti metallici gli rimbalzarono sul-l'elmetto. L'elicottero iniziò a vorticare come dentro una gi-gantesca centrifuga, completamente fuori controllo. Ormai non rispondeva più ai comandi. L'ululato dei motori gli riempì la testa. Mentre il terreno gli balzava incontro, il suo cervello re-gistrò alcuni particolari incongrui... un mastello di plastica azzurra rovesciato, una bambola di pezza vestita di rosso, una sgangherata porta da calcio con la rete stracciata. Il vio-

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lentissimo impatto si ripercosse in ogni singolo osso del suo corpo, facendogli sbattere i denti. Il rotore principale saltò via, falciando tutto quello che trovò sul suo cammino. Ross entrò in azione ancor prima che l'apparecchio si fermasse. Allargò un braccio e afferrò Ranger per la spalla, ringra-ziando Dio quando vide che il suo copilota sembrava illeso. Nemo stava lottando con l'imbracatura che serviva a te-nerlo all'interno dell'elicottero durante le operazioni di volo. Le cinghie si erano attorcigliate e una di esse lo teneva an-corato al ponte. Ranger andò ad aiutarlo e insieme portarono fuori il ferito, che fortunatamente era stato issato a bordo prima dello schianto. «Kennedy!» Ross si inginocchiò accanto alla donna, che giaceva immobile su un fianco con gli occhi chiusi. «Hey, Kennedy!» gridò. «Muovi il culo. Muovi il tuo fottutissimo culo! Dobbiamo toglierci di qui!» Non essere morta, pensò. Signore, ti prego, fa' che non sia morta. Dannazione, come odiava questa cosa. Troppe volte aveva rivoltato un soldato ferito solo per scoprire che gli mancava metà della faccia. «Ken...» «Cazzo!» L'FNO respinse la sua mano e balzò in piedi, sibilando una litania di irripetibili parolacce. Quando mise a fuoco il volto di Ross, lui capì che il suo noviziato era finito. «Piantala di blaterare, capo» ringhiò la donna a denti stretti. «Usciamo da questo fottuto elicottero.» I quattro si accovacciarono contro la fusoliera ammaccata e sforacchiata del loro apparecchio abbattuto. I due Apache si erano divisi ed erano entrati in modalità di caccia, sparan-do verso le vampate che si accendevano sui fianchi della vallata. Ben presto, il loro intervento ridusse le ostilità del nemico e, camminando piegati in due, i quattro iniziarono a trasportare il ferito verso la casa più vicina. All'improvviso, attraverso la nebbia rossastra del fumogeno, Ross scorse un insorto, armato di kalaŝnikov, che si dirigeva verso la stessa casa dalla direzione opposta.

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Dando di gomito a Nemo, glielo indicò e, con il linguag-gio dei segni, gli disse: «È mio». Disarmato, Ross sapeva di poter contare solo sul vantag-gio della sorpresa e ne usufruì al meglio. Avvicinandosi si-lenziosamente da dietro, si chinò, afferrò entrambe le cavi-glie dell'uomo, tirò con violenza indietro e lo mandò a sbat-tere di faccia sul terreno. Poi, non appena quello tentò di gi-rarsi, lo colpì tre volte in rapida successione, mirando agli occhi, al collo e all'inguine, come gli avevano insegnato du-rante l'addestramento. Il malcapitato non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa era successo. Nel giro di pochi secon-di, Ross gli legò le mani dietro la schiena con una fascetta di plastica, gli sequestrò il mitra e lo trascinò all'interno della capanna. Dentro, trovarono un gruppo di soldati americani e afga-ni, tutti piuttosto malconci. «Dustoff 91» disse Ross, presen-tandosi con il nome della sua unità. «Sono spiacente, ma temo che dovrete aspettare un'altra corsa.» L'insorto che aveva catturato rinvenne, emettendo un ge-mito. «Porco mondo, dove hai imparato quelle mosse?» chiese uno dei Marine. «Combattimento a mani nude... una specialità del soccor-so aereo» spiegò Nemo, dando un cinque a Ross. Tutti si misero a parlare simultaneamente, in un miscu-glio di inglese e pashtun. «Ci hanno massacrati» disse alla fine un giovane Marine dall'espressione sconvolta. Al pari dei suoi commilitoni, aveva l'aria di uno che non si lavava da settimane ed era chiaramente sotto shock. La vita in pri-ma linea poteva essere feroce. Riferì quello che era successo in tono inespressivo, come se parlasse di cose accadute ad altri. Una parte di lui sembrava assente e, non per la prima volta davanti a casi del genere, Ross si domandò se sarebbe mai tornato a essere una persona integra. «Diamo un'occhiata ai feriti» propose Kennedy, guardan-dosi attorno come se avesse un disperato bisogno di fare

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qualcosa, una cosa qualunque. Il soldato la portò verso una fila di persone stese sul pavimento della capanna... un ra-gazzino afgano che mormorava quella che sembrava una preghiera, un Marine che si contorceva stringendosi la gam-ba dilaniata da un'esplosione, e diversi altri che giacevano immobili, privi di conoscenza. Dopo aver verificato le loro condizioni, Kennedy si girò verso Ross con un muto appello negli occhi. «Mi serve qualcosa su cui scrivere.» Lui prese dal suo kit un pennarello e glielo porse. «Pro-prio qui» disse, indicando il torace nudo del ragazzo. Lei trasalì, si morse le labbra, ma alla fine cominciò a scrivere sulla pelle del giovane afgano, incurante della piog-gia di proiettili che scheggiò i muri di pietra della capanna. Dopo quella che sembrò un'eternità, ma probabilmente fu-rono al massimo una ventina di minuti, arrivò un'altra unità del soccorso aereo, che, dopo aver calato al suolo un medico col verricello, si ritirò in cerca di un posto per atterrare. Al-l'interno della capanna, il dramma proseguiva, con tutti che cercavano di aiutare i medici. Ross scavalcò i corpi di due soldati privi di vita. Non provò nulla. Non si diede il permesso di provare alcunché. Gli incubi sarebbero venuti la prossima notte. «Vedi se ti riesce di fermare questa emorragia» gli disse il nuovo medico, indicandogli la vittima che aveva appena finito di esaminare. «Premi qualcosa sulla ferita.» Ross si strappò una manica della camicia e se ne servì per tamponare lo squarcio nel braccio di un vecchio riverso in grembo a un ragazzo, che gli cantava una nenia all'orecchio. Ross notò che il vecchio sembrava trarre conforto dalla sua presenza e all'improvviso sentì l'assoluto bisogno di ritrova-re la parte di sé che era ancora in grado di provare emozioni. Aveva bisogno di quello che riconosceva nel modo in cui la mano del ragazzo accarezzava la guancia del vecchio. Una famiglia. Un sistema di valori in grado di dare un minimo di senso all'esistenza. Quando tutto crollava, gli affetti familia-ri erano l'unica cosa che contava, l'unica capace di tenere

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una persona ancorata a terra. Tranne che per suo nonno, Ross non aveva molta esperienza in quel settore. Detestava sentirsi così vuoto, così indifferente. Il fuoco degli insorti scemò fino a cessare. Arrivarono al-tri due elicotteri muniti di lettighe e di colpo tutti si misero in movimento, approfittando della quiete momentanea. I fe-riti vennero caricati sulle barelle, trasportati a braccia. Colo-ro che erano in grado di camminare, si ammassarono dentro un elicottero, che dovette fare ricorso a tutta la potenza dei suoi motori per decollare. Ross riuscì a salire sul secondo, per ultimo, aggrappando-si a un maniglione con le gambe penzoloni nel vuoto. I ne-mici tentarono ancora un'azione di disturbo, ma erano lonta-ni e i loro colpi non raggiunsero il bersaglio. Tutto quello che ricordò del volo di ritorno furono il frastuono assordante dei rotori e un devastante senso di spossatezza, ma alla fine, come Dio volle, vide il volto del caposquadra aprirsi in un sorriso e udì le parole che tanto aveva sperato e pregato di sentire: «Siamo a casa». Una volta a terra, il personale paramedico assunse il con-trollo delle operazioni. Ross venne preso in consegna da un infermiere, che gli applicò del betadine e gli bendò un paio di escoriazioni. Quando uscì dalla tenda che fungeva da am-bulatorio, si guardò attorno come se non riuscisse a convin-cersi di essere veramente al sicuro. Aveva fatto un viaggetto all'inferno, ma era tornato indietro tutto d'un pezzo. E non era ancora mezzogiorno. Più tardi quella sera, mentre gli uomini si ammassavano nella tenda per la messa, Ross scorse Florence Kennedy in piedi all'ombra di un albero, con una bottiglia di Coca-Cola in mano e il volto rigato di lacrime. Le andò vicino e, in tono sommesso, disse: «Scusa per il modo in cui ti ho gridato contro stamattina». Lei lo guardò, gli occhi gonfi e arrossati. «Oggi mi hai salvato il culo.»

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«È stato un piacere. È un culetto molto grazioso.» «Attento a come parli, capo. Potrei denunciarti per mole-stie.» Lei abbozzò un sorriso tremolante. «Sono in debito con te.» «Ho fatto solo il mio lavoro.» «Ho sentito che ti rimandano a casa.» «Sì.» Lei pescò dal taschino un biglietto da visita, lo girò e ci scribacchiò sopra un indirizzo e-mail. «Così forse ci terremo in contatto.» «Forse.» Non funzionava in quel modo, ma lei era troppo nuova per saperlo. Ross lanciò un'occhiata alla parte stam-pata del biglietto. «Tyrone Kennedy. Procuratore Distrettua-le dello Stato del New Jersey» lesse, inarcando le sopracci-glia. «Significa che sono nei guai?» «Significa che se mai finissi nei guai nel New Jersey, po-trai dare uno squillo a mio padre. Ha un sacco di conoscen-ze.» «E malgrado questo tu sei qua.» Lui fece un gesto con la mano, indicando lo spiazzo polveroso al centro della base. Forse Florence era nella stessa posizione in cui si era trovato lui all'inizio di quella storia... senza una direzione precisa, alla ricerca di qualcosa che desse uno scopo alla sua esisten-za. Lei scrollò le spalle. «È andata così. In ogni caso, se mai ti capitasse di avere bisogno di qualcosa da me, adesso sai come contattarmi. Buon viaggio a casa.» Si asciugò le guan-ce, svuotò quel che restava della sua Coca e si avviò verso la tenda della messa, chiaramente un'altra persona rispetto a quella che era stata fino a poche ore prima. Lui rimase sorpreso nel vedere il tremito che gli scosse la mano mentre riponeva il suo biglietto da visita nel portafo-glio. A parte un paio di graffi e qualche ammaccatura, non si era fatto niente, eppure gli doleva tutto. Dopo aver impiega-to ventitré mesi a rendersi insensibile a qualunque tipo di dolore, cominciava a sentire di nuovo.

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Contea di Ulster, New York Per essere uno che stava per morire, George Bellamy diede a Claire l'impressione di essere un tipo molto allegro. Da mezz'ora a quella parte, lo stereo della macchina era sinto-nizzato su una stazione radio che trasmetteva uno dei pro-grammi più stupidi che avesse mai sentito, eppure George lo trovava spassosissimo. Aveva una risata molto particolare, decisamente contagiosa, che sembrava partire da un invisi-bile centro per irradiarsi poi tutt'attorno. Iniziava con una morbida vibrazione che si espandeva in un suono di pura gioia. Comunque, la sua felicità non dipendeva solo dalle battute dei conduttori del programma. George aveva appena saputo che suo nipote stava tornando a casa dalla guerra in Afghanistan ed era al settimo cielo dalla gioia. Ormai conta-va le ore in attesa di riabbracciarlo. Anche lei si augurava che ciò avvenisse presto, per il be-ne di entrambi. «Non vedo l'ora che arrivi Ross» disse George. «È il mio nipote prediletto. È stato congedato dall'esercito. A quest'ora dovrebbe essere già in viaggio.» «Sono sicura che verrà subito a trovarla» gli assicurò Claire, facendo finta che lui non le avesse già detto esatta-mente le stesse parole un'ora prima. Il fogliame primaverile scorreva ai lati della macchina in un trionfo di colori... il verde pallido dei germogli in procin-

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to di schiudersi, il giallo vivo dei narcisi, il viola, il rosa e l'azzurro dei fiori selvatici. Chissà se George pensava al fatto che quella sarebbe stata la sua ultima primavera. A volte, la tristezza dei suoi pazien-ti, il senso di ineluttabilità che abbracciava tutto, diventava quasi insopportabile. Fino a quel momento, George non a-veva dato segni di dolore o stress. Sebbene fossero passate solo poche ore da quando si erano incontrati, lei aveva la sensazione che sarebbe stato uno dei suoi pazienti più gra-devoli. Con i suoi eleganti pantaloni stirati e la maglietta da golf, George Bellamy sembrava un gentiluomo benestante che aveva deciso di prendersi qualche settimana di vacanza dalla città. Ora che aveva interrotto la terapia, i suoi capelli rico-minciavano a crescere, folti e candidi come neve. Aveva persino ripreso colore. Nella sua veste di infermiera privata specializzata in cure palliative per malati terminali, Claire aveva a che fare con persone di ogni genere... e le loro famiglie. Non aveva anco-ra incontrato nessun familiare di George. I suoi figli viveva-no lontano. Lui sembrava molto presente e determinato. Finora, non aveva accusato particolari disturbi fisici. In quel momento, stava consultando un taccuino, che aveva riempito con la sua grafia regolare e minuta. Lei lo indicò e disse: «Si è tenuto occupato, vedo». «Ho buttato giù una lista delle cose da fare. Le sembra una buona idea?» chiese lui. «È un'ottima idea, George. Abbiamo tutti una lista delle cose che vorremmo fare, ma per lo più la teniamo qui.» Lei si batté un dito sulla tempia. «In questo periodo non mi fido molto della mia testa» ammise lui con una smorfia, accennando obliquamente alla sua malattia... glioblastoma multiforme, una forma letale di tumore al cervello. «Quindi ho iniziato ad appuntarmi tut-to.» Sfogliò il taccuino. «La lista è lunga» aggiunse, quasi

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scusandosi. «Non so se riuscirò a fare tutto.» «Io la aiuterò» disse lei. «Sono qui per questo.» Spinse lo sguardo in lontananza, verso le colline boscose e le vette rocciose della Contea di Ulster, un paesaggio inusuale per una donna abituata alle campagne urbanizzate del New Jersey e alla confusione di New York. «Avere tanto da fare è un bene. In questo modo, uno non ha tempo di annoiarsi.» Lui ridacchiò. «Allora ci aspetta un'estate alquanto mo-vimentata.» «Sono pronta ad affrontare qualunque estate lei abbia in mente.» Lui sospirò, girando le pagine. «Vorrei aver pensato a queste cose prima di sapere che stavo morendo.» «Stiamo tutti morendo.» «Wow. Sono davvero fortunato ad aver trovato un'infer-miera con una natura così ottimistica e solare.» «Ho la netta sensazione che avere accanto una persona troppo ottimistica e solare le darebbe sui nervi.» Claire ave-va appena conosciuto George, ma aveva il dono di saper leggere nel cuore della gente. Era un talento innato, che a un certo punto era diventato essenziale per la sua sopravviven-za. L'unica volta che aveva letto male un uomo, era stata co-stretta a cambiare ogni aspetto della sua vita. George Bellamy le dava l'impressione di essere un tipo colto e riservato. Era circondato da un alone di solitudine e sembrava... in cerca di qualcosa. Non aveva ancora capito cosa. Sapeva troppo poco di lui. Prima di andare in pensio-ne, era stato un corrispondente internazionale di una certa fama. Aveva stabilito la sua residenza a Parigi, ma aveva viaggiato in lungo e in largo per il globo. Eppure, adesso che era giunto al termine del suo percorso terreno, aveva scelto di recarsi in un luogo assai diverso dalle grandi capi-tali del mondo. Le persone concludevano le loro vite in una varietà di modi differenti... alcune tranquillamente, altre con grandi drammi e la fanfara che suonava, altre ancora con un senso

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di chiusura, e troppe in preda ai rimpianti. I rimpianti erano un veleno ad azione lenta che aveva il potere di distruggere tutto ciò che arrecava gioia alla gente. Lei restava sempre stupita nel constatare come una vita tutto sommato serena potesse venire rovinata da pochi rimpianti. Si augurava che la ricerca di George lo conducesse in un luogo di accetta-zione. Di solito, si tendeva a pensare che i moribondi conosces-sero le risposte alle grandi domande esistenziali, che fossero più saggi, più spirituali, o in qualche modo più profondi dei sani. Claire aveva scoperto che questo era un mito. I pazien-ti terminali si presentavano in tutte le fogge... saggi, scioc-chi, sereni, disperati, razionali, lunatici, spaventati... a ben guardare, erano identici alle persone che godevano di buona salute. L'unica differenza era che avevano una data di sca-denza più ravvicinata. E grandi difficoltà fisiche da affronta-re. Quando piegarono a nord ovest, in direzione della Cats-kills Wilderness, una vasta riserva naturale bagnata da nu-merosi corsi d'acqua, il paesaggio si fece ancora più spetta-colare e bucolico. Dopo un'oretta, si avvicinarono alla loro destinazione finale, segnalata da un cartello che recitava: Benvenuti ad Avalon, Una Piccola Città Con Un Grande Cuore. Claire aumentò impercettibilmente la stretta sul volante. Era la prima volta che andava a vivere in una cittadina di provincia. L'idea di entrare, anche solo per un breve perio-do, in una comunità chiusa, basata su intimi rapporti di vi-cinanza la faceva sentire esposta, vulnerabile. Non che fosse paranoica, o... anzi, sì, lo era. Ma aveva le sue brave ragioni. Non aveva mai conosciuto una vera sicurezza. All'inizio, con sua madre, prima che tutto crollasse, i suoi giorni erano stati segnati dall'imprevedibilità e dall'incertezza. Sua madre era scappata di casa a diciotto anni. Non era stata una cattiva persona, solo una tossicodipendente sfortunata che si era fat-ta sparare durante uno scambio di droga andato male in una

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strada dei sobborghi di Newark, lasciandosi dietro una taci-turna bambina di dieci anni. La vita di Claire era stata trasformata dal sistema degli affidi familiari. Non erano in molti a poter affermare una cosa simile, però, nel suo caso, era la verità. L'assistente so-ciale che l'aveva presa in carico, Sherri Burke, si era adope-rata affinché venisse sistemata nelle migliori famiglie della sua lista. Sperimentando la vita di famiglia per la prima vol-ta, Claire aveva assorbito le grandi lezioni della vita da gen-te che sapeva amare. Aveva imparato cosa significava essere parte di qualcosa di più grande e più profondo della sua per-sona. Per apprezzare le benedizioni della famiglia, non aveva dovuto fare altro che guardarsi attorno. Erano dappertutto... nell'espressione che appariva sul viso di una moglie quando suo marito rientrava in casa dal lavoro. Nel tocco della ma-no di una madre sulla fronte del figlio febbricitante. Nella risata di una sorella dopo una battuta ben riuscita, nell'atteg-giamento protettivo di un fratello maggiore. La famiglia era una rete di sicurezza, in grado di attutire qualunque caduta. Uno scudo invisibile, capace di ammorbidire i colpi del de-stino. In quel periodo, lei cominciò a sognare una vita miglio-re... un compagno da amare, dei figli, un'esistenza serena, piena di tutte le cose che potevano essere di conforto a una persona nei giorni difficili. Questo può essere tuo, era la promessa del sistema, quando funzionava a dovere. Poi, a diciassette anni, tutto era cambiato. Claire era stata testimone di un crimine che l'aveva costretta a nascondersi... un crimine commesso da una persona alla quale aveva con-sapevolmente e lietamente affidato la sua vita. E questo era un ottimo motivo per diventare paranoici. Una cittadina come Avalon poteva essere un posto peri-coloso per uno che viveva sotto falsa identità, ma questo era vero anche per tutti gli altri posti. Be', voleva dire che, nella

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peggiore delle ipotesi, sarebbe sparita di nuovo. Ormai era una maestra nell'arte di sparire. Una delle prime cose che aveva imparato era che i pro-grammi di protezione dei testimoni descritti nei film erano pura invenzione. Un semplice omicidio non era un caso fe-derale, ragion per cui il programma federale di protezione dei testimoni... WITSEC... non faceva al caso suo. Il che era un peccato, perché il programma federale, ben amministrato dal corpo degli U.S. Marshal, aveva delle ottime statistiche di successo. I programmi statali e locali erano un'altra storia. Tanto per cominciare, erano sempre sotto finanziati. I cittadini che pagavano le tasse non approvavano il fatto che i loro soldi venissero impiegati per quel genere di attività. La maggio-ranza degli informatori e dei testimoni erano a loro volta dei criminali, pronti a vendere i loro complici in cambio di uno sconto di pena. I veri innocenti, come Claire, erano una rari-tà. Sovente, l'intera protezione si riduceva a un biglietto d'autobus di sola andata e a qualche settimana a bordo di una casa mobile. Dopodiché, il testimone veniva abbando-nato a se stesso. E, per un testimone nella posizione di Clai-re, che non poteva fidarsi nemmeno della polizia, l'unico al-leato era spesso la fortuna. Guardandosi indietro oggi, aveva la sensazione che le famiglie delle quali aveva fatto parte fossero state un mirag-gio, frammenti dell'esistenza di un'altra persona. Aveva so-gnato di costruirsi una vita migliore, di crearsi una famiglia sua, ma ora tutto questo era fuori dalla sua portata. Certo, in teoria avrebbe potuto innamorarsi, sposarsi, mettere al mon-do dei figli, ma a quale scopo? Solo per esporre anche loro al rischio di venire uccisi nel momento in cui fosse stata scoperta? Di conseguenza, eccola lì, prigioniera di un desti-no che la obbligava a vivere ai margini delle famiglie di gente che non conosceva. A volte, impegnandosi con tutta se stessa, riusciva a essere contenta del poco che aveva. Più spesso, però, si sentiva alla deriva.

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«Ci siamo quasi» disse a George, notando la distanza sul GPS. «Fantastico. Quando ero ragazzo, il viaggio era molto più lungo. A quei tempi, per venire qui bisognava prendere il treno.» George non le aveva spiegato perché avesse deciso di tra-scorrere i suoi ultimi giorni in quel posto, né perché stesse facendo il viaggio da solo. Glielo avrebbe detto quando fos-se stato pronto. Le esperienze di fine vita delle persone comprendevano spesso un viaggio, di solito verso un luogo al quale si senti-vano intimamente legati. Quello in cui era cominciata la lo-ro storia, oppure dove la loro vita aveva avuto una svolta cruciale. Poteva essere una ricerca di conforto e sicurezza, ma a volte era l'esatto opposto: un luogo nel quale avevano faccende in sospeso da concludere. Cosa rappresentasse per George Bellamy quella cittadina sonnacchiosa adagiata sulle sponde del Lago Willow restava da vedere. La strada seguiva il corso tumultuoso di un torrente che a un certo punto superarono attraversando un ponte coperto. «Non ci posso credere» disse Claire quando lo raggiunsero. «Un ponte coperto. Prima d'ora l'avevo visto solo in fotogra-fia.» «Risale ai primi dell'Ottocento» spiegò George, piegan-dosi leggermente in avanti. Lei studiò la struttura, semplice e al tempo stesso armo-niosa, con le fiancate dipinte di rosso e le tegole catramate del tetto. Istintivamente, accelerò, curiosa di vedere la città che significava così tanto per il suo paziente. Aveva delle buone sensazioni. Forse quello si sarebbe rivelato un buon incarico. Forse stava per arrivare in un posto nel quale a-vrebbe potuto sentirsi davvero al sicuro. Aveva appena finito di concepire quel pensiero che un lampo di luci bianche e blu centrò lo specchietto retrovisore del furgone. Una frazione di secondo dopo, nell'aria si levò il suono ammonitore di una sirena.

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Claire si irrigidì, serrò le mani sul volante e diventò bian-ca come un cencio. L'antico terrore rialzò la testa con stupe-facente rapidità e lei si trovò a lottare contro il folle impulso di premere l'acceleratore a tavoletta e fuggire. George le lesse nella mente... o interpretò molto bene il linguaggio del suo corpo. «Nella mia lista non ci sono inse-guimenti in automobile» disse con calma. «Cosa?» Lei avvampò in volto, alzando il piede dall'acce-leratore. «Inseguimenti in automobile» ripeté lui, scandendo le sil-labe. «Non sono compresi nella mia lista. Posso morire feli-ce anche senza aver fatto questa esperienza.» «Sto accostando» disse lei, augurandosi che lui non no-tasse il tremito che le incrinava la voce. «Non vede che sto accostando?» «Le trema la voce» disse lui. «Essere fermata dalla polizia mi rende nervosa» disse lei, ma era l'eufemismo del secolo. Aveva la gola chiusa e il cuore che le batteva all'impazzata nel petto. «Anzi, diciamo pure che mi terrorizza.» «Me ne sono accorto.» Con aria flemmatica, George si tolse di tasca un fermaglio d'oro pieno di banconote ben piegate. «Cosa sta facendo?» chiese lei, dimenticando momenta-neamente la sua ansia. «Potrebbe darsi che il nostro amico sia in cerca di una mancia. È una pratica comune nei paesi del terzo mondo.» «Questo non è un paese del terzo mondo. Siamo nello stato di New York.» L'auto di pattuglia si fermò dietro al furgone con il lam-peggiante in azione, segnalando a tutti gli automobilisti di passaggio che era in corso un controllo su un potenziale criminale. «Metta via i soldi» ordinò lei a George. Lui la accontentò con un'alzata di spalle. «Posso sempre chiamare il mio avvocato.»

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«Direi che è prematuro.» Lei studiò la macchina della po-lizia nel retrovisore. «Perché ci mette così tanto tempo a scendere?» «Sta controllando l'elenco dei veicoli sospetti per vedere se c'è una segnalazione sul nostro.» «E perché dovrebbe esserci una segnalazione?» chiese lei. Il furgone era stato noleggiato a nome di George, e Clai-re era nella lista dei guidatori autorizzati. Tuttavia, qualcosa nell'espressione dell'uomo che le sede-va accanto la mise sul chi vive. Spostò lo sguardo su di lui. «George?» disse in tono interrogativo. «Prima sentiamo cosa vuole l'agente» disse lui. «Poi, nel caso, sarà libera di sgridarmi.» Il poliziotto smontò e cominciò ad avvicinarsi. Anche ve-dendolo nello specchietto laterale, Claire si sentì gelare il sangue nelle vene. L'uniforme inamidata, gli occhiali da sole con le lenti a specchio, la linea squadrata della mascella, gli stivali lucidi le facevano venir voglia di scomparire. «Patente e libretto» disse l'uomo in tono autoritario, senza particolare aggressività, ma con un chiaro imperativo nella voce. Claire gli porse la patente con dita che sembravano fatte di gelatina. Sebbene fosse assolutamente legittima, con tanto di indicazioni per la donazione degli organi sul retro, trat-tenne il fiato mentre il poliziotto la esaminava. Una targhet-ta appuntata alla camicia lo identificava come Rayburn Tol-ley, del Distretto di Polizia di Avalon. George le passò la busta di plastica che conteneva il contratto di noleggio del furgone e lei gli consegnò anche quella. Poi rimase in attesa, mordendosi l'interno della guancia, desiderando di non esse-re mai andata lì. Era stato uno sbaglio. «C'è qualche problema?» chiese dopo una decina di se-condi, maledicendo la tensione che sentì vibrare nella sua voce. Erano trascorsi quasi dieci anni, non era certo la prima volta che veniva a contatto con un tutore dell'ordine, eppure l'antica paura era più forte che mai. A volte, persino la vista

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di un vigile urbano davanti a una scuola aveva il potere di gettarla nel panico. «Me lo dica lei» ribatté l'agente, abbassando intenzio-nalmente lo sguardo sulla sua mano, che era scossa da un leggero tremito. «Sono nervosa» ammise lei, perché aveva scoperto che dire la verità fin dove era possibile rendeva più facile menti-re quando era necessario. «Mi chiami pure stupida, ma ogni volta che vengo fermata dalla polizia mi innervosisco.» «Madame, lei aveva superato il limite di velocità.» «Davvero? Mi scusi. Non me n'ero accorta.» «Dove siete diretti?» chiese lui. «A un posto chiamato Camp Kioga, sul Lago Willow» rispose George dall'altra parte. «E se lei stava andando trop-po veloce, la colpa è mia. Sono impaziente e parlo di conti-nuo, distraendola dalla guida.» L'agente Tolley si piegò in avanti e lo osservò. «E lei è...» «Uno che comincia a sentirsi ingiustamente preso di mira dalla legge» dichiarò George in tono colmo di indignazione. Tolley ignorò il commento e chiese: «Non è che per caso è George Bellamy?». «In persona» confermò George, «ma lei come fa a...» «In questo caso, madame» disse il poliziotto, riportando lo sguardo su Claire e facendo un passo indietro, «devo chiederle di smontare dal veicolo. Tenga le mani bene in vi-sta.» Lei ebbe un tuffo al cuore. Era il momento che aveva sempre temuto dal giorno in cui aveva capito di essere una donna braccata. L'inizio della fine. La sua mente era in sub-buglio. Cosa doveva fare? Sottomettersi, oppure tentare la fuga? «Agente» disse George in tono perentorio, «io esigo di sapere per quale motivo lei si interessa così tanto a noi due.» «George, lui si limita a fare il suo lavoro» disse Claire, sperando di ammorbidire l'agente, mentre muovendosi come un automa apriva lo sportello e smontava dal furgone.

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Tolley rispose alla richiesta di George senza battere ci-glio. «Ci è arrivata una segnalazione relativa a lei e alla si-gnorina...» Consultò la patente, che aveva agganciato alla sua cartellina rigida. «Turner. La segnalazione proveniva da un suo familiare.» Lanciò un'altra occhiata alla cartellina. «Una certa Alice Bellamy.» Claire si girò verso George con espressione interrogativa. «Una delle mie nuore» disse lui con un sospiro, abboz-zando una smorfia. «Signore, la sua famiglia è molto preoccupata per lei» disse l'agente, continuando a fissare Claire. Lei non riusciva a scorgere i suoi occhi dietro le lenti, ma in compenso vede-va benissimo la propria immagine riflessa. Capelli scuri di media lunghezza. Grandi occhi castani. Viso regolare e, si augurava, ordinario. Questo era sempre il suo obbiettivo. Confondersi. Essere una della quale era facile dimenticarsi.. Si sforzò di tenere il mento alto, di fare finta che fosse tutto a posto. «Da queste parti è considerato un crimine?» chiese. «Avere una famiglia che si preoccupa?» «Non si tratta solo di una preoccupazione.» Il poliziotto posò la mano destra sul calcio della pistola e lei vide che aveva già sganciato la cinghietta di sicurezza. «La famiglia del signor Bellamy nutre dei gravi sospetti sul suo conto.» Claire ingoiò un groppo di saliva. I Bellamy sguazzavano nel denaro. Forse la nuora di George aveva fatto eseguire un controllo approfondito su di lei ed era saltata fuori qualche irregolarità, qualche incongruenza nel suo passato. «Che genere di sospetti?» chiese con la bocca asciutta come il deserto del Sahara, ormai a un passo dal panico. «Lo so io» disse George con una risata. «La mia famiglia teme che io sia stato rapito.»

Le radici dell'amore

di Susan Wiggs

Ross Bellamy va a cercare il nonno, George, ad Avalon, sul lago Willow. Qui incontra Claire Turner, della cui sincerità dubita subito. Lei, in effetti, nasconde qualcosa: sta fuggendo da un passato che la perseguita ed evita di mettere radici o di legarsi troppo a qualcuno, perché teme per la propria vita. No-nostante la diffidenza, l'attrazione tra loro è forte e irresistibile. Quando però finalmente la passione esplode, Claire è costretta a fuggire di nuovo. Ross non si dà per vinto e la cerca. In fon-do il vero amore non è così facile da trovare Ritrovarsi a Virgin River

di Robyn Carr

La vita a Virgin River scorre quasi in un'altra dimensione, av-volta nell'abbraccio protettivo dei boschi che la circondano. Il luogo ideale per trovare rifugio e rigenerarsi. Paul Haggerty è sempre stato segretamente innamorato di Va-nessa. Ora che lei è rimasta sola e ha dato alla luce un figlio, ha bisogno del sostegno di un amico. E forse di qualcosa di più. Ma un ostacolo inaspettato si pone sulla strada di Paul, proprio quando decide di dichiarare il suo amore. Per fortuna, a Virgin River ci sono amici veri che aiuteranno sia Paul che Vanessa a ritrovarsi e a ricominciare.