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9 PROLOGO N on si cresce per gradi. Si matura di colpo, a strappi. Si entra nella vita per la strada lunga e difficile, battuta dalla pioggia e dal sole. Noi siamo stati uomini e donne, un tempo. Eravamo uguali, un tempo. Nei giorni lontani abitavamo la Terra, insieme. Si cresce lacerando, alzando le vele, controvento, combattendo per rendersi forti. Con la schiena dritta e gli occhi fermi. Nei giorni lontani, eravamo un popolo solo. Poi tutto è cam- biato. Uomini e dèi. Separati perché diversi. Il Tempo cambia le cose. Il Tempo è il vero padrone. E, da padrone, ci ha resi differenti. Dapprima simili, ci ha poi nutriti in modi diseguali. Uomini e dèi. Mortali. Immortali. Entrambi in cerca di un potere senza fine. Abbiamo cercato di rubare il Tempo, ma quello ci si è ribellato contro. Abbiamo immaginato di vincere contro gli uomini. Li abbiamo osservati da lontano, superiori. Non ci aspettavamo che ci avrebbero sfidati. Invece.

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PROLOGO

Non si cresce per gradi. Si matura di colpo, a strappi. Si entra nella vita per la strada lunga e difficile, battuta dalla

pioggia e dal sole.Noi siamo stati uomini e donne, un tempo. Eravamo uguali, un tempo.Nei giorni lontani abitavamo la Terra, insieme.Si cresce lacerando, alzando le vele, controvento, combattendo

per rendersi forti. Con la schiena dritta e gli occhi fermi.Nei giorni lontani, eravamo un popolo solo. Poi tutto è cam-

biato. Uomini e dèi. Separati perché diversi.Il Tempo cambia le cose. Il Tempo è il vero padrone. E, da padrone, ci ha resi differenti.

Dapprima simili, ci ha poi nutriti in modi diseguali. Uomini e dèi. Mortali. Immortali. Entrambi in cerca di un potere senza fine.Abbiamo cercato di rubare il Tempo, ma quello ci si è ribellato

contro. Abbiamo immaginato di vincere contro gli uomini. Li abbiamo

osservati da lontano, superiori.Non ci aspettavamo che ci avrebbero sfidati. Invece.

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È successo in modo inatteso e violento. Ci ha stupiti. Li abbiamo visti diventare creature diverse, più forti, più astute

e libere.Non l’abbiamo cominciata noi quella guerra.È stato l’uomo, con la sua sete di conquista, la sua necessità di

conoscenza. Entrambe, doti pericolose.Allora abbiamo mandato la distruzione. E la sofferenza. Scatenato nebbia e ghiaccio. Portato via il cibo, avvelenato i fiumi, nascosto il sole.Nel freddo, smorzato la loro vitalità fino a cristallizzare la loro

storia. Abbiamo disfatto le loro opere e l’ingegno, raso al suolo la loro

tecnica, le loro macchine, riportato tutto all’inizio, all’origine di ogni cosa.

Con le Guerre Buie. Così è stato.Così abbiamo vinto contro gli uomini, contro chi ci aveva sot-

tratto il Fuoco.Li abbiamo schiacciati nel fango della sconfitta.Almeno così credevamo.Ma il Tempo non è un cerchio. È un numero imperfetto, una

stella nera nell’Universo. La sua verità resta celata nel sigillo dei Manoscritti. Non è vero che si cresce per gradi.Si cresce di colpo. Si diventa grandi senza saperlo.Non si rinuncia.Non ci si arrende.Gli uomini non si sono arresi.La scintilla è rimasta, tiepida, sotto la cenere.

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È così che fanno gli uomini. Quando sembrano sconfitti, risve-gliano la speranza.

Ed essa è qui, ora.È per questo che siamo tornati. Poiché estinguerla è il nostro compito. Distruggerla, la nostra prossima guerra.

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PARTE PRIMA

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CAPITOLO UNO

Nessuno ci abitava più, all’Impianto. Dicevano che la terra era contaminata, e che i Ferri – le

lunghe travature metalliche che ne segnavano lo scheletro – a toccarli ti trasformavano in una statua di sale che poi si sarebbe sbriciolata al primo tocco. In verità, era anche utile: di sale non se ne trovava a Kaerlud, perciò forse la Famiglia sarebbe stata contenta. Una bocca in meno da sfamare, e un po’ di sale per conservare la carne. Le storie servivano ai bambini per masche-rare la realtà, ma loro tre non ne avevano bisogno: erano grandi, ormai.

Trediciquindiciquindici: il numero magico.«Trediciquindiciquindici!» gridò Hope, e spalancò le brac-

cia ridendo. Si scostò il ciuffo rosso dagli occhi, nella luce grigia. «Trediciquindiciquindici! Vi ho trovati!»

«Non è valido» fece Mizar, sorridendo. Guardò Hope, i suoi capelli rossi, gli occhi verdi, la pelle così bianca, pensò una vol-ta di più che era bellissima. Ma oggi era il giorno. Le avrebbe detto… non sapeva ancora cosa, ma un modo per farle capire quello che sentiva lo avrebbe trovato. Anche se, in realtà, non lo capiva bene neanche lui.

Hope fece un passo indietro, spostando lo sguardo su Violet. «Che c’è? Non vi fidate?»

«Non è valido» ripeté Mizar. Il sudore gli aveva appiccicato i capelli sulla fronte e le labbra. «Sei partita prima. Non devi

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imbrogliare…» Non era così che si era immaginato di dirle cosa provava per lei: un calore confuso, che gli faceva desiderare di stringerla e sentire il suo corpo. Non sapeva spiegarlo. Sapeva soltanto che oggi doveva… Si avvicinò di nuovo a lei, cercando di sorridere e allungando la mano a sfiorarle il viso.

Hope scrollò le spalle. «Falso. È che non ti piace perdere». E di nuovo si tirò indietro appena Mizar aveva fatto cenno di avvicinarsi, ridendo e guardando il viso corrucciato del ragazzo.

In lui è sempre come se ci fossero due persone, pensò la ra-gazzina: un amico sincero e un nemico ombroso, il male dentro il bene, che si fanno la guerra. Scosse la testa, respingendo il pensiero di quel piccolo focolaio segreto che si accendeva ogni volta che lo guardava negli occhi. Oggi era più strano del solito. Che voleva da lei? «Ma ti sei offeso sul serio? È un gioco».

«Gioco… gioco… gioco…» canticchiò Violet, sentendosi di troppo. «Guardate che ho trovato». Si era messa a rovistare nel mucchio di rottami metallici e ne aveva estratto una molla gran-de come un tamburo, tanto arrugginita da aver perso ogni ela-sticità. Era solo un pretesto per cambiare argomento. Qualcosa non andava, perciò meglio parlare d’altro. Strizzò un occhio a Hope, poi guardò Mizar. «Dai, lasciate perdere. Siamo troppo grandi per giocare a nascondino».

«Non è che ci sia molto di meglio da fare». Mizar strinse i pugni, combattendo contro il nero che gli si gonfiava nel pet-to. Era tutto completamente diverso da come se l’era aspettato. Hope gli sfuggiva. Che stupidaggine pensare che sarebbe riu-scito a parlarle.

Hope si tirò su il cappuccio della felpa, per metà stupita e per metà scocciata. «Allora fatti venire un’idea, Miz». Lo chiamava così a volte, non sapeva se l’amico si indispettisse ancora di più o cosa, ma in quel momento non gliene importava granché. Vol-

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tò le spalle e prese a camminare a caso, verso la Zona Proibita, rigirandosi tra le dita le due piccole pietre che aveva in tasca.

«Hope…» Violet non li capiva, quei due: a volte uniti come due cucchiai in un cassetto, e a volte rabbiosi, fuochi accesi che cercavano di divorarsi a vicenda. E a pensarci bene, era anche un po’ stufa di farsi mettere in mezzo da loro.

«La vuoi piantare di darti tante arie?» Mizar era furioso, adesso, e fissava la schiena di Hope con occhi che parevano pozzi neri.

«Che c’è?» Hope si voltò, trovandosi faccia a faccia con Mi-zar: era così diverso che le parve di non riconoscerlo. Nelle ta-sche dei pantaloni troppo grandi, sentì le mani diventare rosse e calde. Come se la rabbia finisse tutta lì dentro, nel palmo delle mani, ogni volta che qualcosa le dava fastidio. Forse, quando avvertiva un pericolo?

«Siete noiosi, voi due, tutto qui. Non volete mai fare niente» concluse.

«Stai andando verso la Zona Proibita. È pericoloso».«E chi lo dice?» «Dorotea, lo dice». Violet lasciò affiorare l’irritazione, ma se

ne pentì subito. Con voce più dolce, continuò: «Mi metti nei guai, lo capisci? Io sono più grande di te. Sono responsabile di quello che combini».

«Quella ci gode a metterti nei guai» borbottò Mizar, con un sibilo rabbioso. «È meglio se ti fai assegnare un’altra sorella».

Hope strinse i denti. Le mani bruciavano nelle tasche. Strin-se i sassolini fin quasi a conficcarseli nel pugno. Voltò le spalle ai due amici. «Trediciquindiciquindici: bah…»

«Appunto» replicò Mizar, raddrizzando le spalle magre. Niente. Non avrebbe detto niente a Hope neanche oggi. Tanto valeva mandare tutto al diavolo. «Tu hai tredici anni. Noi quindi-

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ci. Ci devi obbedire». Agitò il pugno, e per un attimo Hope ebbe l’illusione che quel gesto lasciasse un arcobaleno scuro nell’aria.

«Altrimenti che fai? Mi prendi?» Voltò appena la testa, ab-bozzando un sorriso, che non trovò nessuna risposta in Mizar. Che andasse al diavolo, allora. «Provaci!» E senza aspettare una risposta, scattò in avanti, si infilò nel buco nella recinzione e sparì nella Zona Proibita.

Violet era nata nella Famiglia. Hope ci era arrivata. Nessuna delle due aveva una madre: quella di Violet era morta durante una caccia, e Hope la sua non l’aveva mai conosciuta.

Erano cresciute insieme, perciò erano sorelle, a tutti gli effet-ti. Le parentele, nel Terzo anno dopo la Carestia, non stavano scritte nel sangue. Piuttosto, erano una conquista e un regalo, un legame costruito nel tempo. Così era vero: Violet e Hope erano responsabili una dell’altra, ma Violet era più grande, per-ciò se Hope correva dei rischi inutili era colpa sua. Semplice e cristallino.

Hope rifletté, accucciandosi sotto una travatura metalli-ca arrugginita, in attesa che i suoi amici la seguissero. Chiuse gli occhi, sognò di non essere lì, ad annoiarsi, ma nel mondo com’era… prima. Molto prima di Kaerlud, quando lì c’era una grande città, attraversata da un fiume. Cercò di vedere le case e le torri. Gli uomini e le donne che camminavano per le strade, senza paura e con sempre qualcosa da mangiare. Un mondo sconosciuto e che non sarebbe mai tornato. Forse sua madre… scosse la testa: inutile cullarsi in quei pensieri.

Le Guerre Buie avevano distrutto ogni cosa. Come un uragano, avevano raso al suolo tutto. E così ora c’era solo Kaerlud-terra-arida. Lei era sola, e nessuno l’avrebbe mai aiutata. Neanche Mizar. Si sentì invadere da una sensazione che conosceva bene.

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Tirò fuori una mano di tasca e lanciò i due sassolini, che si fermarono poco più avanti, uno rosso e uno blu, quasi volessero confortarsi a vicenda.

La sua Famiglia era uscita decimata dall’ultima Grande Fame, era un miracolo che esistesse ancora. E i sopravvissuti potevano fare ben poco ormai: rispettare la Natura che, per questa volta almeno, non li aveva uccisi; vivere di quello che riuscivano a cacciare o coltivare; difendersi alla meglio dai predatori. Ma an-che così, c’erano cose che non si potevano fare, come uscire di notte, perdersi nel bosco, allontanarsi da casa, rimanere troppo tempo all’Impianto. Ed entrare nella Zona Proibita.

Hope raccolse le due pietruzze e le infilò in tasca, senza ri-uscire a dominare la rabbia, che naturalmente aveva a che fare con Mizar. Mizar, che da un po’ la guardava in quel modo stra-no, e che, certe volte, sembrava la odiasse.

Oggi poi era stato più strano del solito. Le era stato ap-piccicato finché non avevano iniziato a giocare a nascondersi nell’Impianto. Fino a quella stupida lite. Ma che voleva da lei? Scosse la testa. Quei due non arrivavano. Se l’erano filata: ovvio. E l’avevano lasciata da sola.

Meglio, pensò, così posso ficcarmi nei guai senza coinvolgere gli altri. Se qualcuno doveva farsi male o morire, sarebbe stata lei. Certo, sarebbe stato un guaio: erano pochi, e ogni perdita rendeva la comunità più debole. Le donne figliavano poco, i bambini rischiavano di morire di freddo, malattie o, semplice-mente, di fame. Per questo, quando Dorotea aveva trovato Hope abbandonata in una grotta, viva e vegeta, malamente coperta e con i due sassolini brillanti depositati vicino alle mani chiuse a pugno, non si era posta troppe domande. L’aveva presa in brac-cio e se l’era portata a casa. Aveva serbato la coperta leggera e inzuppata e le pietre che Hope aveva tenuto come talismani.

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Per parte sua, Dorotea si era limitata ad accoglierla e a cre-scerla, assegnandole come sorella Violet, che prendeva quel ruolo fin troppo sul serio. Ed era un bel guaio. Hope non ci metteva niente a violare i divieti. Le veniva naturale, e non aveva nemmeno bisogno di pensarci. Ben più complesso pareva obbe-dire e adeguarsi, soprattutto nei casi in cui non capiva.

Hope si alzò, ritrovandosi circondata dal nulla. Un passo dopo l’altro, si inoltrò fra i megaliti di metallo arrugginito, gli occhi puntati per terra e la mente altrove. Il cappuccio della felpa di due taglie troppo grande le scivolò giù, scoprendole i capelli. Un raggio imprevedibile di sole, timido tra le nuvole, puntò dritto in quella direzione, mentre calava all’orizzonte. I capelli di Hope parvero divampare. Voltò il viso verso il cielo, incredula di quel regalo. Il sole: non si vedeva quasi mai in quel-la stagione. L’Impianto sembrò animarsi di luci e ombre che prima non c’erano. Hope rimase incantata. Forse fu per questo che si distrasse.

Mizar sapeva arrivare in silenzio, camminando lieve come un fantasma. Si fermò a pochi metri a guardarla. Maledizione, pensò.

«Senti, Hope…» cominciò. «Io volevo solo…»La ragazzina si tirò su il cappuccio e si voltò. All’ombra della

felpa, i suoi occhi erano invisibili, e le labbra sottili disegnavano una piega severa. L’incanto era spezzato. «Lo so benissimo cosa vuoi dirmi: che ci stiamo mettendo nei guai. Mi sembri Violet».

Non sai niente. Non saprai mai niente, pensò Mizar. Tutto il calore che sentiva nel petto divenne ghiaccio. Se non mi vuoi, sarò…

Hope sorrise, con un lampo ironico. «Ma com’è che sei sem-pre così perbene, Miz? Non ti annoi?»

Gli occhi di Mizar si fecero più cupi, mentre si avvicinava.

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«Non mi annoio per niente. Sono solo stufo di coprirti quan-do…»

Hope rise, un suono improvviso e aspro. «Davvero? E quand’è che mi avresti coperto le spalle?» Sapeva di ferirlo e sapeva di mentire: c’erano state occasioni nelle quali, in effetti, Mizar si era messo tra lei e una probabile punizione.

«La gratitudine non è il tuo forte». «Ti rendo la vita divertente. Di che ti lamenti?»«Divertente?» La rabbia compressa gli colorò gli occhi di

scuro. «C’è una legge, e va rispettata. Ma tu sei superiore, non è così? Non ti è mai importato niente della Famiglia. Di… noi». Alla fine glielo stava dicendo, che avrebbe solo voluto essere importante per lei. Ma era tutto sbagliato. La frase gli salì catti-va in gola, senza che riuscisse a fermarla: «Tanto tu… tu sei una Trovata! Non sei una di noi, non dovremmo dimenticarlo».

Hope percepì una fitta sottile di dolore. «Oh, vero, vero. Sono diversa» replicò sarcastica. «Per questo non mi faranno niente, sta’ tranquillo».

Il ragazzo ormai era nero: «Ma certo. È vero, dimenticavo. Sei la figlia preferita di Dorotea. A te nessuno ti punisce».

«Ti rode?»Mizar non rispose. Continuò a fissarla, gli occhi trasformati

in pozzi scuri, mentre l’aria si caricava di elettricità. «Non scher-zare col fuoco, Hope».

«Ma va’? È quello che mi riesce meglio…» Lasciò trasparire tutto il suo scherno e il suo disprezzo. Stava esagerando, forse, ma lo sapeva.

Il ragazzo sentì un’ombra divorante formarsi dentro, guada-gnare spazio e sapore. Non ne sarebbe venuto nulla di buono.

Fu allora che accadde.Ci fu un fruscio leggero, stridente, alle spalle di Hope.

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La sensazione di una presenza. Poi quel borbottio profondo, ringhiante.

Dietro le lamiere di metallo, qualcosa si mosse veloce, poi si spostò a destra, con un rumore di lattine che rotolavano.

La sensazione di pericolo stavolta arrivò distinta. Hope si voltò veloce, ma non abbastanza. Ma quello che

vide le fu sufficiente a intuire una sagoma nera, e un bagliore di denti.

Mizar, immobile, si stringeva le tempie, perso in un altro mondo, mentre i contorni della sagoma scura erano sempre più definiti. Zanne potenti, che brillavano.

«Miz, ce ne dobbiamo andare». Poi le parve di sentire ancora il verso della bestia. Il gioco era finito. Senza attendere risposta, afferrò il braccio dell’amico e lo

trascinò via a rotta di collo verso il limitare della Zona Proibita. Dietro di lei, il ragazzo non opponeva resistenza: sembrava

un pupazzetto vuoto, incapace di agire e di mettersi in salvo. Era più grande di lei, ma così ancora maledettamente ‘piccolo’.

Le mani sudate, le guance scavate, a Hope parve perfino di sentirlo sussurrare: «Ora basta. Basta. Vattene».

Avvertì come uno strattone da dietro, si girò. Mizar disegnava con la mano libera strane forme molli nell’aria, come a scacciare mosche che non esistevano. Ma con chi diavolo stava parlando?

Quando arrivarono al limitare esterno dell’Impianto, Violet li stava aspettando, ignara di tutto.

Hope stringeva ancora la mano di Mizar, che ora pareva tor-nato in sé. Il ragazzo sfilò la mano bruscamente dalla stretta. «E lasciami… Scotti!» Si strofinò il palmo, imbarazzato dal fatto di essere lui quello che era stato salvato, e proprio dalla perso-na sbagliata. Provò a darsi un contegno che non poteva avere:

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«Te l’avevo detto che era pericoloso. Adesso hai capito che non dobbiamo tornarci?»

«Ma cos’è successo?» azzardò Violet. Guardò l’uno, poi l’al-tra. Erano sudati e col respiro grosso, si guardavano in cagne-sco, ma non dicevano niente: «Ah, ci rinuncio». Esasperata, si incamminò.

Hope fece un sorriso deliberato di sfida verso Mizar: «Io ci torno quando mi pare», così si diresse verso Violet, e una volta raggiunta le diede la mano. Si sentì bene, di nuovo tranquilla. Quella cosa che aveva visto era sicuramente frutto della sua fan-tasia. Anzi – e si voltò senza farsi vedere da Mizar – si era solo innervosita con l’amico e… Ma ora stavano tornando. Verso casa. E tutto sarebbe andato bene.

I Custodi arrivavano senza farsi annunciare. Si muovevano in gruppi, e nessuno sapeva bene se quel che dicevano era vero oppure no. Raccoglievano storie e le serbavano per raccontarle alle Famiglie, sparpagliate in territori inospitali. E i loro raccon-ti erano bellissimi: Hope restava incantata ad ascoltarli.

I Custodi erano viaggiatori. Alcuni sembravano poeti dall’a-ria sperduta, altri si presentavano come navigatori senza più mare, eredi di una dinastia svanita. Parlavano di esseri lontani, che nessuno comprendeva più.

Eppure era sicura che ci fosse qualcosa di vero. Gli dèi tra-dizionali, le loro regole semplici e lineari, le guerre che si erano combattute in loro nome, erano eventi lontani, ma mai del tutto dimenticati. Sembrava quasi che il mondo fosse diventato trop-po complicato per quelle divinità, che richiedevano una fede semplice e incondizionata, e un odio altrettanto assoluto per chi professava fedi diverse dalla loro.

Si sapeva che un tempo gli dèi avevano creato gli uomini

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e il loro mondo. Li avevano amati. Avevano accompagnato le loro creature, a volte nascondendosi, altre combattendo fianco a fianco contro il nemico comune.

Gli umani, per parte loro, avevano eretto templi e pregato il Fato. Poi però l’uomo aveva cominciato a progettare e costru-ire. Aveva voluto diventare un ‘creatore’. Aveva messo a punto armi sempre più potenti, giocato con la scienza, trafficato con la tecnologia. Col tempo aveva imparato a sostituire il lavoro umano con quello delle macchine. A un certo punto era troppo tardi per fermarsi, e le guerre avevano cancellato ogni cosa.

Si raccontava che, in qualche posto remoto, fossero rimaste tracce di quella civiltà. Peccato che nessuno le avesse mai viste. O almeno, nessuno era tornato indietro a raccontarlo.

Niente di tutto questo esiste, si diceva la ragazzina. Però sono storie così belle. Quando i racconti finivano e il mondo reale riprendeva i contorni consueti, era proprio nelle storie che cercava rifugio. Troppo giovane per badare a se stessa, troppo orgogliosa per chiedere aiuto, troppo arrabbiata per affidarsi, si nascondeva, sperando che nessuno la notasse mentre sognava un mondo diverso da quello in cui aveva sempre vissuto.

La sera, quando la stagione era meno inclemente, si sedeva nel vano della porta davanti alla baracca costruita con i rottami di un’epoca più lontana, che ora ospitava il dormitorio dei bam-bini, stringeva tra le mani un coltellino che aveva fatto da sé: perché non si poteva mai sapere se sarebbe servito… Quindi, ascoltava il respiro degli altri farsi regolare, nelle brande alline-ate lungo le pareti imbottite di stracci e pannelli isolanti. Non badava al freddo e aspettava quei momenti di solitudine. Poi chiudeva gli occhi e cercava di tornare indietro, al ‘prima’.

Prima di essere abbandonata da sua madre. Prima di essere trovata da Dorotea.

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Prima di essere adottata da sconosciuti.Prima di diventare un membro della Famiglia. Un ‘prima’ doloroso ma, insomma, meglio di niente. La frase di Mizar era entrata, eccome. Cercò di ripescare sensazioni che riempissero gli spazi vuoti

nella sua memoria. Gliel’avrebbe fatta vedere a quell’arrogan-te. Le era già capitato altre volte di frugare nel passato. Provò anche stavolta, ma niente. Non riusciva mai a trovare nulla. Se non quella tenue fiamma arancio che brillava in fondo al tunnel. Solo che lei, quel maledetto cunicolo, non riusciva proprio ad attraversarlo.

L’unica cosa che la faceva sentire veramente bene era ascol-tare i Custodi, rubare le loro storie: Kaer, che comandava tutti gli dèi, Bahamut, il dio pesce che portava sulle spalle Kujata, il toro, Ahuizotl, la creatura divoratrice di uomini, e le ninfe bellissime che abitavano i boschi sacri e gli umani resi ciechi per averle viste fare il bagno. La facevano sentire forte, capace di controllare ogni emozione.

Lì aveva scoperto la leggenda del Fuoco rubato agli dèi: una delle storie più antiche che, chissà perché poi, le veniva in men-te ogni volta che sentiva salire la collera dentro di sé, e avvertiva un bruciore al centro delle mani. Come una specie di calore im-provviso. Si vergognava spesso di quella cosa, per questo cerca-va la solitudine. Allora nascondeva le mani nelle tasche, accanto alle sue pietre talismano.

Quando giunsero a casa, nello sparuto gruppo di casupole in cui abitavano i membri della Famiglia, i Custodi erano già lì. Si vedevano gruppi di bambini cenciosi radunati nella piccola piazza centrale di Kaerlud, sotto la torre di guardia che in pas-sato aveva assunto le funzioni di campanile.

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Non era la stagione giusta: l’inverno li avrebbe avvolti tutti molto presto, anche nelle terre del Sud, come una coperta rap-pezzata, e non era un buon momento per mettersi in viaggio. E tuttavia erano lì: tre uomini, di età diverse, e che per qualche motivo avevano modificato il proprio percorso rituale.

I Custodi avevano tragitti più o meno fissi. Cambiare strada e inventarsi un altro percorso significava rischiare di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Nonostante la vita fos-se difficile, la volontà di sopravvivere era forse l’unica pulsione che nessuna guerra poteva distruggere. Risorgeva sempre, da ogni sterminio: una fenice beffarda, che li salvava ogni volta per poi costringerli a una vita di stenti. Cosa li aveva spinti, allora, fin lì?

Il primo era vecchissimo, il secondo molto giovane e tutt’os-sa, con la faccia da merlo intirizzito e la stessa aura magica di un pezzo di legno bruciato. Le iridi rilucevano candide sul viso di pece, enormi e sperdute: «Mi chiamo Kilim, sto imparando». Lo ripeteva in modo ossessivo, a chiunque si avvicinasse.

Vuole fare una cosa, ma non sa se ne sarà capace, pensò Hope. E l’accostamento tra Kilim e Mizar le venne naturale. ‘Una cosa che non è capace di fare’: come Mizar, quando l’aveva praticamente obbligato a seguirla nella Zona Proibita.

Forse aveva avuto ragione lui, visto com’erano andate le cose. Le tornò in mente quella bestia… Si voltò verso Mizar. «Acqua in bocca, allora?» Gli sussurrò concedendogli di nuo-vo la parola. Le costò un poco essere lei la prima a parlargli di nuovo. Ma non voleva certo che si sapesse sua bravata. In quel caso, con ogni probabilità, le avrebbero vietato di andarsene in giro libera per un po’. Un grosso guaio per una come lei, che di problemi a farsi accettare ne aveva già abbastanza.

«D’accordo?» ripeté, poi si voltò: Mizar si era già seduto al

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solito posto, senza risponderle, proprio davanti ai tre, che erano sistemati nel piccolo spiazzo centrale, seduti su grossi cilindri di metallo. Gli adulti stavano preparando il fuoco: le storie sa-rebbero andate avanti per un po’, e poteva far freddo. Nessuno avrebbe avuto voglia di andarsene finché i Custodi non avessero finito.

Hope si accoccolò in disparte, seminascosta da un gruppetto di ragazzi più grandi. Non voleva farsi notare. Si tirò su il cap-puccio della felpa, abbassandolo fin quasi sugli occhi. Nascose i capelli di fiamma sotto la stoffa verde e macchiata e osservò.

Il terzo straniero sembrava un essere di un altro mondo. Troppo grosso per essere un Custode, pareva a disagio in

quel corpo da lottatore ben nutrito. Aveva l’aria di arrivare da un paese più prospero, dove era

possibile mangiare in abbondanza; portava poi quel mantello di mille colori che pareva uscito da un sogno. Non sorrideva, e se anche lo avesse fatto, sarebbe stato difficile capirlo. Una rete di tatuaggi gli copriva il viso, il cranio calvo e il collo. Anche le mani, grandi e mobili, erano coperte di disegni misteriosi, che moltiplicavano l’effetto dei movimenti nell’aria, quasi che parlasse con le mani prima ancora che con la voce. Bassa e roca. Proprio lui cominciò a raccontare.

La storia Hope l’aveva già sentita altre volte. E tuttavia, an-che così giovane, Hope aveva imparato che non era il contenuto a essere importante, ma il modo in cui le storie venivano raccon-tate. E il gigante aveva talento. Non c’era dubbio.

«Questa era una città d’acqua una volta» cominciò. «Una città grande vicino alla foce di un fiume. Gli abitanti erano ma-rinai e commercianti. Alcuni tra loro erano narratori, e amavano raccontare la storia dei loro viaggi nelle locande del porto».

Hope chiuse gli occhi e provò a immaginare lo spazio in-

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torno, moltiplicando il numero di case e la gente e gli oggetti: «Pensate a un luogo come Karmadek, ma molto più grande».

Karmadek, la città del porto. Nessuno di loro l’aveva mai vista.

«Pensate alle navi enormi pronte a salpare, e ai pirati in gra-do di conquistare i vascelli delle potenze nemiche. Pensate a una regina bella e forte. Tanto bella e tanto forte da ribellarsi agli dèi».

Hope si abbandonò al racconto, nel cerchio di visi raccolti in-torno al fuoco c’erano tutti gli abitanti di Kaerlud, tranne i bam-bini troppo piccoli o gli adulti malati. Non si sentiva volare una mosca. Erano tutti in viaggio, trascinati dalle parole del gigante che raccontava di una sfida tra il pirata favorito della regina e il dio del mare, che irritato trasformava la sua nave in un vascello fantasma condannandolo a vagare per sempre per gli oceani.

«Esiste ancora?» chiese un bambinetto assonnato.«Certo» rispose sorridendo il gigante. «L’hanno vista un po’

di tempo fa incrociare davanti al grande mare su a nord».«E la regina innamorata esiste ancora?»«Gli dèi nutrono rancori tenaci e duri a spegnersi. Perciò

Kayoh, il dio del Mare, si alleò con Tyria, il dio del Fuoco. Gli chiese di aiutarlo a vendicarsi del torto subito. E Tyria per tre volte incendiò la città, radendola al suolo. E la regina morì. Tyria stabilì che per un po’ in quella terra nessuno avrebbe avuto ac-cesso al Fuoco che poteva curare, guarire e scaldare».

«E la città era Kaerlud?»«È passato molto tempo da allora. Sono successe altre…

cose».«E il Fuoco?» Lo chiese uno dei bambini più piccoli, acco-

vacciato ai piedi di Dorotea. «Che fine ha fatto il Fuoco?»Nel silenzio, la voce del Custode più vecchio sembrò arrivare

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dal buio che si era raccolto intorno al cerchio dei membri della Famiglia. «Voi lo sapete».

«È una domanda stupida» fece Dorotea, accarezzando la te-sta del bambino assonnato. «Il fuoco è qui». Indicò il falò al centro del cerchio. «È nostro». Poi guardò il vecchio Custode. «Come ti chiami? Non ce l’hai detto».

Il vecchio sorrise. «Mi chiamo Bronte. Secondo le antiche leggende il mio è il nome di uno dei ciclopi, i giganteschi fabbri del dio del Fuoco. La storia umana è un cerchio, tutto torna». Si interruppe, pensoso. «Ma non temete: non vi farò del male e non incendierò nulla. Anche perché Kaerlud ha già il Fuoco».

Per un attimo, il suo sguardo sembrò animarsi, ma forse fu solo il riverbero delle fiamme. «Nessuno può rubarlo. Tranne, forse, un dio».

Dorotea fissò il Custode, perplessa. Da dove arrivava quel gruppo di cantastorie così male assortito? E chi era quel gigante tatuato, che pareva sapere molto più di quanto andava raccon-tando?

La voce di Bronte si spense in un borbottio confuso. Per un attimo le fiamme divamparono più intense, e Hope si accorse di qualcosa che avrebbe dovuto notare subito: il vecchio era cieco.

«Non sono venuto a rubarvi il Fuoco» ripeté più serio. E con un movimento lento e misurato voltò il viso grinzoso verso il punto in cui era seduta Hope. No, non poteva vederla. E poi, perché avrebbe dovuto guardarla?

«Dicci che vuol dire!» esclamò Mizar, come sempre impaziente.Il vecchio seguì la voce del ragazzo. «C’è un tempo giusto

per ogni cosa, ragazzo. Devi imparare ad aspettare».«E ora è tempo di andare» si intromise il gigante dal man-

tello variopinto. «Può diventare pericoloso qui fuori, di notte».«E la fine della storia?» chiese un’altra voce.

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«Tempo al tempo» ripeté Bronte. «Torneremo. O quanto meno torneranno i miei amici più giovani. Kilim…» Fece per alzarsi, e il giovane gli offrì il braccio per aiutarlo.

«E tu?» chiese un’altra voce. «Tu che hai iniziato la storia, invece, non ci hai detto come ti chiami».

Il gigante sorrise, alzandosi: «Chiamatemi Ismaele».

I Custodi dormivano nella baracca dei bambini. Era la più cal-da, e lo spazio nel centro era ampio abbastanza da ospitarli co-modamente tutti e tre. Portarono coperte dalle altre baracche, e organizzarono in modo da farli stare comodi.

Kilim e Bronte si sistemarono in silenzio, e parvero addor-mentarsi subito. I bambini andarono a letto, sognando mondi che non avevano mai conosciuto.

A dispetto di se stesso, anche Mizar si addormentò in fretta, stremato dalle troppe avventure di quel giorno, dalle frasi non dette, dal fatto di essere stato respinto prima di essersi dichia-rato. Violet per un po’ rimase seduta accanto a Hope, nel buio, accanto alla porta chiusa, ai piedi delle brande gemelle che oc-cupavano le ragazze.

«Non devi preoccuparti. Nessuno saprà della tua bravata di oggi».

«Non sono preoccupata, Violet. E tu?»«Adesso no: è passata».«Solo, non capisco da dove sia arrivata quella bestia».«Quale bestia?»«Non l’hai vista?»«No».«Già… eri vicina al recinto. Non potevi. Chissà perché non

ci ha seguiti».«Forse perché non esisteva?» ridacchiò Violet: non capiva

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Hope. Le voleva bene e basta, anche se a volte starle appresso era una monumentale seccatura.

«Io l’ho vista benissimo».«Ehi, non offenderti, adesso».«L’ho vista sul serio… solo che…»«Senti, io sono stanca. Me ne vado a letto».Hope annuì, raccolse il bacio sulla guancia, e in un attimo si

ritrovò da sola, a pensare. E più ci pensava, più quella bestia…«Dovresti dormire».La voce del Custode la colse di sorpresa. Nel buio, la figura imponente incuteva timore. La voce però

era calda e rassicurante. «Devi dormire. Non pensare cose più grandi di te».

«Che vuoi dire?»Ismaele si accovacciò al suo fianco. «Verrà un tempo in cui

non potrai dormire, è meglio che ne approfitti ora. Fa’ scorta di sonno per quando ti servirà».

«So già quello che devo fare».La voce di Ismaele aveva un tono irridente. «Certo. Sei gran-

de. Ma, credimi, arriveranno tempi difficili».«È una profezia?»«Una tutta per te, Hope».Non ricordava di avergli detto il suo nome. Come faceva a

saperlo?«Sono un Custode, non un veggente, ma…» Sollevò una

mano, a prevenire la sua domanda. «Ti chiedo solo di fidarti. Riposa, finché non arriverà il momento».

Hope si sentì bruciare le mani. «Che momento?»«Tempo al tempo, piccola». Ismaele sorrise di nuovo. «Dam-

mi la mano».

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Hope si protese nel buio, e sentì che Ismaele le prendeva la mano e la stringeva tra le sue, più grandi rispetto alle sue. «Tutto è scritto… solo che ora non puoi fare nulla». Si alzò, in-coraggiandola dolcemente a fare altrettanto. «E non farti troppe domande».

Sparì nel buio così com’era arrivato. Incredibile come una creatura così imponente riuscisse a essere tanto silenziosa.

A tentoni, Hope si infilò nella sua branda, nascondendo le pietre sotto il cuscino, come faceva sempre.

Più in là, Mizar balbettava nel sonno, inquieto. O confuso, solo confuso, su quello che voleva dalla vita e su come avrebbe fatto a procurarselo. E innamorato di Hope, in un modo che neanche lui avrebbe, mai, saputo spiegare, ma che gli stava già facendo del male.

I Custodi partirono il giorno dopo, molto presto, senza aggiun-gere nulla a quello che avevano detto. Ismaele si portò appresso il suo mistero, senza offrire a Hope la possibilità di interrogarlo ancora. E lei era talmente agitata che commise il suo primo er-rore.

La ciotola di legno prese fuoco in un attimo, senza che lei ri-uscisse minimamente a controllarsi. E stavolta qualcuno la vide.

«Come hai fatto?» Il bambinetto era un piccolo bastardo tutt’occhi, che non la finiva mai di ficcare il naso. «Ti ho vista. Come hai fatto?»

«Cosa?»«Ha preso fuoco da te. Ti ho vista…»«Non dire stupidaggini. Bugiardo!»Dorotea si voltò dall’altro angolo della cucina. «Hope, vedi

di piantarla. Che ti è preso?»«Ha bruciato la ciotola!» strillò il bambino. Mentre Hope

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cercava di afferrarlo per un braccio, quello schizzò via, infilan-do la porta alla velocità del fulmine.

Dorotea si avvicinò e sollevò la ciotola bruciacchiata che Hope aveva buttato nell’acqua. «Che succede? Come mai è conciata così?»

«E io che ne so? La stavo lavando». Dorotea la guardò incerta, poi scosse la testa. «Hope, sei

grande. Non devi trattare i piccoli in quel modo».«Quello è una serpe» ringhiò lei. «Se lo merita».«Ora basta. Vedi di calmarti». Dorotea tornò alle sue faccen-

de, e Hope uscì dalla cucina. Era furibonda, ma non abbastanza distratta da non notare il bambinetto che, a qualche metro di distanza, raccontava il suo piccolo sporco segreto a un gruppet-to di altri bambini.

«Maledizione» ringhiò Hope. «Maledizione maledizione maledizione…»

E non c’era niente da fare. Il danno era fatto, e non ci sareb-be stato rimedio.

«È vero quello che dicono?» Violet aveva un’aria implorante. E anche un po’ scocciata. «Dai, Hope: devi fidarti di me!»

Dopo Ismaele anche Violet, ora. Ma che avevano tutti, che si ‘doveva fidare’? Cosa volevano da lei? Continuò a girarsi nervo-samente tra le mani un rametto secco. «Che vuoi sapere?»

«È vero che dai fuoco alle cose solo a guardarle?»Hope si bloccò, poi scosse la testa con energia. «E a te pare

possibile?» Violet abbassò lo sguardo. «No». Tacque un momento, poi

riprese: «Ma tu fai un sacco di cose che non capisco. Perciò…»«Perciò pensi che ti stia mentendo». Hope sentì salire peri-

colosamente la rabbia. Lasciò cadere il rametto, poi lo raccolse

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di nuovo. «Va bene, allora. Fa’ come gli altri. Mettiti anche tu a dire che sono una strega».

«Io non l’ho mai detto».«Be’, allora è meglio che cominci. Se è così che la pensi».«Hope, piantala. Sono tua sorella e…»Hope scattò in piedi. «Smettila con questa storia! Noi non

siamo sorelle. Ci hanno detto che lo siamo, ma non è vero. È tutto inventato». Provò a controllarsi, ma ormai era un fiume in piena. «Non lo capisci? Siamo nate da madri che neanche si conoscevano. È una bugia che ci raccontano per tenerci tran-quille. Come tutto il resto. La Famiglia, i Custodi, gli dèi, la Zona Proibita è… tutto una favola. Non è vero niente! Niente!»

Violet la fissava. A dire il vero, non fissava proprio lei. Guar-dava le sue mani.

Tra le dita, insensibili al calore, il rametto di legno secco bru-ciava. Un tizzone incandescente che scoppiettava allegramente.

Quando Hope alzò lo sguardo dal bagliore arancio, Violet era già fuggita via.