Hestetika july 2012, Raul Gabriel's interview by Piero Addis

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Testo di PIERO ADDIS The irresisTible force Raul Gabriel, artista, scrittore, regista, ex musicista è nato qualche anno fa in un sobborgo di Buenos Aires. Asciutto e possente, gli occhi come il mare della Tierra del Fuego. Quel mare che lo ha visto protagonista di un tragico naufragio, ancora molto giovane, portandogli via il padre. Arte Raul Gabriel 58

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Articolo Hestetika luglio 2012, intervista a Raul Gabriel di Piero Addis.

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Testo di Piero Addis

The irresisTible force raul Gabriel, artista, scrittore, regista,

ex musicista è nato qualche anno fa in un sobborgo di Buenos Aires. Asciutto e possente, gli occhi come il mare della Tierra

del Fuego. Quel mare che lo ha visto protagonista di un tragico naufragio, ancora molto giovane, portandogli via il padre.

Arte Raul Gabriel

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Nella sua biografia si legge: “Dopo un periodo dedicato alla speri-mentazione in musica, e un lungo viaggio a Santa Fé de Bogotà, nella fine del 1998 le arti visive diventano il fulcro della sua

ricerca e lo portano prima a Milano e quindi a Londra dove in pochi anni realizza mostre in gallerie e spazi pubblici, delineando un percorso che pur avendo come fulcro di riferimento il corpo, o meglio l’identità biolo-gica della realtà e i suoi processi di mutazione, si declina in varie strutture estetiche e forme artistiche”. Raul, quando è nata la tua passione per l’arte visiva e perché?“Questa è una domanda che mi lascia sempre perplesso, perché in fondo la mia ‘conversione’ dalla musica alle arti visive è stata inaspettata e direi anche non voluta. Non credo nella logica della costruzione progettuale per gradini come motore fondamentale della vita, e l’ironia del destino mi ha fatto sperimentare in pieno la cosa. Un giorno, dopo un viaggio a Bogotà, mi son svegliato e ho dipinto un quadro… io che non l’ho mai saputo fare! Poi è stato semplice, ho seguito quella che in inglese definirei ‘the irresistible force’. E mi sono trapiantato in una sistemazione senza bagno qui a Milano, senza neanche la più pallida idea di cosa fosse questo mondo dell’arte, tutto fatto di gente che fin da piccolo ha sempre voluto fare l’artista. Io l’artista non l’ho mai voluto fare… ed eccomi qua. Anch’io sono un accidente come i quadri. La vera arte ha più a che fare con il gioco d’azzardo che con lo studio, esattamente come la fede”.Che cosa ti ha spinto a fare l’artista?“E chi lo sa! Certo, una volta che uno sperimenta l’energia che ho speri-mentato io, ha solo due possibilità: o far finta di non vedere perché hai paura (e ti condanni a una vita da fuggitivo) o ti butti in una cosa che non sai neanche da che parte prendere. Una cosa è certa: mi metto a fare un’opera solo quando ho quella medesima energia, altrimenti aspetto. L’unico metodo che conosco è l’attesa. Non mi importa nulla delle ‘conve-nienze stilistiche’, delle apparenti distanze tra le forme che si presentano, del giudizio degli altri: la vita dell’artista è vita di solitudine, altrimenti rischia di diventare un’accademia di convivenza e convenienza”.Tu sei nato in Argentina, da madre italiana e padre sudamericano. Vivi tra Milano e Londra. Quanto hanno influito e influiscono sulla tua arte queste latitudini? “Decisamente tanto. Io sono una spugna, assorbo le muffe di Londra così come lo smog irrigidito milanese, e questa è la materia prima del mio lavo-ro. Non in senso diretto, del racconto e della cronaca non mi importa nulla, la lascio ai giornalisti, In un senso più ampio: lo smog come le muffe, come il traffico, come le claustrofobie meravigliose del tube londinese hanno in sé una bellezza profonda che io avverto e che mi godo, come una sinfonia di Brahms, e la partita è ridare loro la dignità che meritano attraverso la contaminazione nei miei segni, nelle mie riprese, nelle mie elaborazioni”.In quale città di queste dove tu hai vissuto e vivi un artista ha maggiori possibilità di emergere e di mantenersi del proprio lavoro? “Per quanto mi riguarda, quando mi sono scoperto artista ero già ab-bastanza grande e pronto a pagare il prezzo del non riconoscimento o della strada. Il mio problema non è emergere ma rivelare. Il resto non si può progettare e non è neanche cosi importante. Il rischio è il prezzo dell’identità, un rischio profondo e totale, che non ammette vie di mezzo. E neanche scorciatoie.

Qui sotto“Man” (London), smalto e acrilico su tela, 150 x 100 cm;“Woman” (London), smalto e acrilico su tela, 150 x 100 cm

Pagina accanto dall’alto“X-PTYCH” 2012, bitume, smalto su polistireni, 3 x 120 x 240 cm;“A New Day” 2012, resine, smalto su polistireni, 3 x 120 x 240 cm

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www.raulgabriel.com

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Chi tenta (e sono tanti) di addomesticare questo è poco am-bizioso, ed esercita più un meretricio di mezza tacca che un vero esercizio del pensiero. Se poi dovessi dire quale posto è il migliore, sicuramente Londra la sento profondamente vicina, anche se a Milano, pure patria del design e di una promiscuità continua tra estetica ed estetizzante, ho trovato alleati e amici di una profondità impareggiabile”.Che cosa pensi dell’arte contemporanea in Italia? “Vedo molta confusione. Molta ‘esterofilia’ che è segno di insi-curezza e mentalità da servitori. In tutto questo esiste una de-generazione di cui sono responsabili svariati curatori e complici molti artisti. Le mostre, in particolare le collettive, sono fatte più per celebrare il curatore che gli artisti, e il curatore non è più il rabdomante che cerca e scopre le vibrazioni delle differenze, tende piuttosto a omogeneizzare le mediocrità per uscirne come unico vero artista. Ovviamente non sono tutti cosi, le esperienze forti e i critici che ricominciano a fare i critici ci sono e faranno parlare, come sicuramente Paolo Bolpagni”. Nel tuo lavoro vi è spesso un riferimento alla trascendenza, alla sacralità che assume gli aspetti della quotidianità. Il tuo video Xfiction per esempio è quasi un arrendersi a tale evi-denza. Puoi parlare di questo aspetto? “Fare arte non è un problema di ‘maestranza’, almeno non nel senso accademico, come non è un problema di sottigliezza speculativa o un cruciverba sempre più sofisticato. Fare arte è un problema innanzitutto di ‘riconoscere’. E riconoscere ha a che fare con la resa, la resa al fatto che il meraviglioso accidente non è progettabile, ma solo riconoscibile. E con questo si pone immediatamente il problema della ‘proprietà’. La grande opera d’arte ha sempre qualcosa in più, di crucialmente definitivo, rispetto a ciò che il suo autore ha cercato di instillare. Perché avviene questo? Non saprei, io che non ho mai calcato né una accademia né uno di questi cenacoli artistici e mi sono arreso all’evidenza che la poesia è una amante terribile e meravigliosa che viene e se ne va quando vuole. Qualche volta, a qualcuno, lascia un figlio. È di tutta evidenza quindi che l’arte che si possa definire tale è dono. E il dono richiede un esercizio di umiltà, che diventa un obbligo. L’arte vera è sempre manifestazione del sacro, indipendentemente dalle intenzioni di chi ne è il tramite. Diversamente è giochetto e passatempo per animi spocchiosi che ritengono di saperla lunga e invece coltivano la propria e altrui morte spirituale”.Recentemente sei intervenuto sul recupero di una chiesa. Che esperienza è stata e cosa ti ha insegnato? “Mi ha insegnato innanzitutto che i limiti sono una risorsa e stimolano la creazione in maniera profonda. Nel caso specifico occorreva ripensare l’interno di una chiesa del centro di Perugia. Dopo mesi di riflessione, ne è nato un pensiero di unità. La struttura di una sintattica razionalista dell’architetto (fine anni 50) era un vincolo forte, un motore forte e anche una fonte di ispirazione forte. Essa stessa sorgente di idee. Quindi ho deciso di ‘sottomettermi’ all’esistente per generare il nuovo.

Ne è nata una esperienza e delle opere la cui elaborazione, il cui travaglio e la cui filosofia hanno cominciato a girare e sono diventate il fulcro di una serie di tavole rotonde in tutta Italia e di varie pubblicazione universitarie e nazionali. Se io apprezzo un ‘alfabeto’, un linguaggio architettonico, esso si trasforma da limite a vera e propria palette, solo che al posto dei colori ci sono le forme, al posto dei suoni ci sono i rapporti spaziali. L’evento generativo nasce da lì, e il fatto che parta da delle basi non limita nulla, almeno non più che avere dei colori a disposizione per fare un quadro”.Quale maestro della storia dell’arte ammiri di più e di quale, in qualche maniera, ti senti allievo?“Il fatto è che influenze ne ho avute poche perché quando sono nato come artista, nel 2000, non conoscevo nemmeno Francis Bacon. La mia influenza è stata il mio stomaco, prima ancora che il mio pensiero. Detto questo, ritengo capiscuola coloro che inventano, anzi, rivelano un universo. Torniamo all’identità: solo quelli che ci scommettono con il forte rischio di perdere possono ambire alla poesia. Gli altri sono solo gradi differenti di maestranza, come dicevo prima, bella, complicata, sofisticata, ma comunque mera maestranza non del fare Arte, ma del fare ‘a regola d’arte’, termine che si confà più all’edilizia che alla poesia”.Come pensi debba essere un artista oggi, nell’epoca della globalizzazione in cui spazio e tempo non esistono più? “Se un artista è artista, spazi e tempo e giudizi non esistono, muoiono nel momento stesso in cui nasce l’istinto. La seco-larizzazione è un meccanismo per menti e spiriti di scarsa ambizione”.C’è un episodio della tua vita che è rimasto indelebile e che ha influito nel tuo fare arte? “L’unico vero episodio che è indelebile e che innerva la mia opera è la conversione. Quel momento che è parziale e perenne insieme che si rinnova e che marchia a fuoco, quell’unica traccia di un essere che rimane costante presen-za nell’apparente divenire. A te e a chi legge stabilire di che conversione si tratta”.

Xfiction

È un’opera video della durata di circa 15 minuti realizzata da Raul Gabriel e presentata al Festival dei 2 Mondi di spoleto nel 2009. il titolo può essere interpretato in modo

duplice, un riferimento a “crucifiXion” (il video mostra infatti la proiezione cangiante di un corpo con le braccia

allargate, quasi una radiografia di Cristo in croce) e uno a “racconto X”, segno della indecifrabilità insita nell’opera

poetica, che non può prescindere dalla partecipazione personale per una comprensione “orientata”. l’immagine in movimento

suscita nello spettatori più interrogativi che certezze, oscillando tra i concetti di abbraccio, accoglienza e sfida.

il fulcro di riferimento è il il corpo come rivelazione.

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