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Hans Urs von Balthasar

Natale e adorazione

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Titolo originale: Weihnacht und Anbetung (���), © Johannes Verlag Einsiedeln | Traduzione dal tedesco: Giacomo Mussini | Immagini: Paul Klee, Feuer bei Vollmond («Fuoco alla luna piena»), �,, (copertina); Vergesslicher Engel («Angelo smemorato»), �,� | Per l’edizione italiana © Comunità San Giovanni – The Community of Saint John, Inc., 7878

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ei tre Magi che fanno visita al Bambino e a sua madre si dice che «si prostrarono e ado-

rarono» [Mt 7,]. Lo stesso si può certo dire dei pastori, e non c’è rappresentazione del presepe che non ci mostri il loro gesto di venerazione: perché essi sanno, dalle parole dell’angelo, che questo bambino è il Salvatore, il Messia, il Signore. E quante antiche immagini ci mostrano anche Maria in silenziosa adorazione davanti al Bambino, ada-giato al suolo. Buello del Natale è un tempo in cui all’adorazione di Dio come l’Antico Testamento l’ha sempre conosciuta, per esempio nei Salmi, sono oEerte occasioni del tutto nuove, e così anche una forma tutta nuova: ci è permesso e ci è chiesto di adorare Dio in questo piccolo bambino che lui ci ha mandato. Buesto suscita un tale stupore da costringerci anche a riflettere in modo nuovo sull’atto dell’adorazione – un atto che nel nostro tempo secolarizzato ci è diventato in larga misura estraneo.

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Se abbiamo ancora un rapporto personale con Dio, gli rivolgiamo perlopiù preghiere per chie-

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dergli qualcosa, e questo è giusto; più di rado lo ringraziamo – dei dieci lebbrosi guariti da Gesù, del resto, solo uno torna a ringraziare –, o faccia-mo un atto di remissione all’eterno consiglio divi-no nella sua incomprensibilità, se per esempio ci tocca una soEerenza, e anche questo è giusto. Ma non è la stessa cosa: rassegnarsi, contentarsi della propria sorte, non è ancora adorare.

he cos’è dunque l’adorazione? Dio è unico e irripetibile, e senza fine misterioso. Così an-

che l’atto col quale lo riconosciamo come Dio, come il nostro Dio, con tutto il nostro essere, è unico e perciò non facile da definire: ciononostan-te, proviamoci. È riconoscere che Dio solo esiste per sé stesso, mentre ogni realtà creata esiste solo in virtù del Suo onnipotente volere e agire, e dun-que non ha le sue radici in sé stessa, ma in Lui, il solo Incondizionato, Assoluto. E perciò riconosce-re che Dio è la verità pura e semplice, quella Verità in cui ogni verità è vera, e di conseguenza ha sem-

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pre ragione, qualunque cosa faccia o lasci accadere; che è somma follia disputare con Dio, quasi lo si possa convincere di un errore o di un torto, e che l’homme révolté distrugge la sua propria natura. Ri-conoscere che Dio è il bene puro e semplice, quella Bontà in cui ogni bontà è buona, e perciò non solo ha sempre ragione, ma è anche, a motivo del suo essere e del suo disporre, sempre degno di essere amato senza condizioni, con l’ossequio e l’abban-dono di tutto il nostro cuore. Riconoscere che Dio è puramente e semplicemente bello, quella Bellez-za in cui ogni bellezza è bella, e che perciò non possiamo che dargli ragione con entusiasmo e ser-virlo nel giubilo, come il Salmista acclama a lui nell’esultanza dello spirito e come Paolo esige dal cristiano: «Cantate inni di lode a Dio, pieni di gra-titudine nei vostri cuori» [cf. Col ,,M; Ef N,�]. In quanto verità assoluta, Dio è secondo la Scrittura «la nostra roccia» che non può vacillare [cf. Dt ,7,O; Sal �,,; ,8,O; O,,7]; in quanto bontà, è il nostro «pastore», l’«ala sotto la quale troviamo ri-fugio» [cf. Sal 77; Sal M8,N; M7,P; �8,O]; in quanto

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bellezza, è il Signore della «gloria» [Herrlichkeit, δόξα; cf. Sal 7P,,; P,7], è la nostra piena beatitudi-ne e l’incanto che ci rapisce. Tutto questo lo tro-viamo già nell’Antico Testamento: già il cuore del pio israelita si abbandona nelle mani di Dio, gli si rimette con gratitudine e confidenza, in una rive-renza profonda come l’abisso, che però non cono-sce paura alcuna.

a come stanno le cose, ora che Dio ci man-da sulla terra il suo Verbo eterno nella fi-

gura di un bambino? Si tratta anzitutto di capire che cosa egli ci voglia dire con questa nuova figura del suo parlare.

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Di certo egli esprime, come fa sempre mediante il suo Verbo, qualche cosa circa sé stesso. In tutto ciò che questo bambino è e sarà – nel ragazzo, nell’uomo fatto, nel maestro e taumaturgo, nell’accusato che tace davanti al giudice, nel flagel-lato schernito e reietto, nel crocifisso che grida ab-bandonato da Dio, nel cadavere sepolto, nel risor-

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to dai morti che vive eternamente: in tutto ciò sta il Verbo che Dio pronuncia, e che pronuncia circa sé stesso. Se Dio è la verità pura e semplice, infatti, ogni parola che egli ci dice, che scaturisce dal cuo-re della verità, sarà necessariamente anche un’asser-zione su di lui. Se Dio è la bontà pura e semplice, allora in tutte quelle parole che sono la vita e la passione, la morte e la risurrezione di Gesù, egli ci dà tutto sé stesso. E se è la bellezza pura e sempli-ce, allora il vero e il bene che egli ci dice e dona è anche sempre in sommo grado meraviglioso.

Se Dio, dunque, è un piccolo bambino, con ciò ci dice: in tutta la mia onnipotenza, che io vera-mente sono e possiedo, io sono al tempo stesso po-vero e umile e pieno di confidenza come questo bambino – anzi, non solo «come»: io sono davvero questo bambino. E quando più tardi Gesù insegne-rà, allora parlerà del dovere di mettersi all’ultimo posto, del servire, del dare la propria vita per i fra-telli: ma non si tratta solo di un insegnamento mo-rale per gli uomini, bensì di qualcosa che lui stesso fa ed è, e dunque di una manifestazione del cuore

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di Dio, il Padre suo. Fate questo, perché così è Dio! E ancora – tremendo! –, se Gesù soEre per i peccatori, e portando il peso del peccato non sente più il Padre, e grida come colui che è piantato in asso, assetato di Dio: di nuovo, così è Dio! «Tanto Dio ha amato il mondo», dice l’evangelo, «da dare ed esporre per esso il suo unico figlio» [Gv ,,M], fino a toccare il punto – un momento fuori dal tempo – dell’abbandono da parte di Dio. E se Gesù distribuisce sé stesso come cibo e bevanda: così è Dio! Infatti, è il Padre che ci porge il Verbo e la carne di Dio – questo Verbo e carne insanguinato, che gli uomini hanno lacerato e dilaniato – per far-ci partecipi della sua vita eterna. E se il cuore di Gesù viene trafitto e, svuotatosi, si fa cavità in cui si può mettere il dito [cf. Gv �,,O; 78,7�], e l’uomo tutto intero – «nelle tue piaghe nascondi-mi» [cf. la preghiera dell’Anima Christi]: così è Dio! Una ferita che giunge fino al fondo del suo cuore, e nella quale troviamo guarigione.

Dire cose del genere non è esaltazione, ma una riflessione cristiana in tutta semplicità sul mistero

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del Natale. Il Verbo di Dio si è fatto carne: carne che succhia al seno materno, che poi dovrà percor-rere il suo cammino tra le diRcoltà della vita, che dovrà soErire atrocemente e morire, e che però in tutte le condizioni in cui si trova è il Verbo di Dio e ci racconta dell’essenza di Dio, della sua verità, bontà e bellezza. Adoriamo la carne, dunque? No: è Dio solo che adoriamo, Dio, l’unica cosa che noi sicuramente non siamo, Dio, il «totalmente Altro», colui che è da sé stesso, l’Onnipotente: cui però è piaciuto mostrarci che egli è abbastanza onnipo-tente da poter essere anche impotente; abbastanza beato da poter anche soErire; abbastanza glorioso da potersi mettere anche al posto più basso della sua creazione. E Dio non fa «come se»: come se fosse umile e bambino e povero. Invece, è proprio questo il suo mistero: la sua ricchezza consiste in un amore eterno che si prodiga senza trattenere nulla; e la sua potenza consiste nella possibilità di donare a sua volta potenza e libertà ad altri esseri, che egli non vuole sopraEare con la sua potenza – o con altra potenza che non sia l’impotenza della

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sua croce. E come potremmo pensare che Dio non conosca nel suo cuore, lui che ha creato i bambini, il sentire del cuore di un bambino?

E qui possiamo chiederci: c’è un dio più miste-rioso e inconcepibile del Dio dei cristiani, proprio perché questi è un Dio non solo lontano, ma vici-no, un Dio che non c’è bisogno di cercare sopra le nuvole e di adorare da una distanza insuperabile, bensì che ha a che fare con noi come un uomo, anzi essendo un uomo – e con tutto ciò non smette di essere veramente Dio, il «totalmente Altro», l’Eterno, Immortale e Onnipotente? Col mistero del Natale questo Dio non ha perso nulla della sua inaEerrabilità, al contrario è diventato assai più inaEerrabile. Solo ora cominciamo a intuire fin dove arrivi in realtà l’onnipotenza divina: fino alla potenza di poter essere anche un bambino impo-tente. E da questo Dio non possiamo stornare lo sguardo, col pretesto che qui «non ci si capisce più niente» (alla fin fine Dio è veramente Dio, oppure solo un uomo?). Anzi, siamo di continuo rimanda-ti, che lo vogliamo o no, alla sua presenza tra di

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noi: una presenza che dal giorno della nascita di Gesù rimane sotto gli occhi di tutti. Per quanto ci giriamo e ci rigiriamo, sempre la figura di Gesù ci si para davanti. Possiamo diventare marxisti, o far-ci buddhisti: non gli sfuggiamo. Dal primo Natale, la storia del mondo è diventata un’altra. D’ora in poi è possibile solo un sì o un no a questo Dio che in Cristo si è fatto concreto. Essere davvero atei è possibile soltanto ora. E la possibilità di un’adora-zione più profonda di quella cristiana – se questa è autentica – è d’ora in poi esclusa.

I Magi, i pastori e Maria: tutti costoro adorano il bambino, come più tardi i discepoli, quando giun-geranno alla fede, adoreranno l’uomo Gesù. Poi-ché riconoscono che egli è il Verbo personale, l’espressione, la «spiegazione» di Dio. Non c’è aspetto di Gesù Cristo che non dica: così è Dio, così è il mio e vostro Padre nel Cielo, così è il no-stro eterno Spirito. Io ve lo mostro perché lo sap-piate, e perché anche voi cerchiate di orientare la vostra vita nello stesso senso: «Siate perfetti, come

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è perfetto il Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi» [Mt N,OP].

el Verbo incarnato possiamo dunque adora-re Dio in un modo nuovo, cristiano, poiché

questo Verbo non si limita a indicare Dio da lonta-no, ma è egli stesso parola divina, dalla bocca e dal cuore di Dio. «Il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio», e questo «Verbo si è fatto carne» e ha «spiegato» quel Dio che nessuno ha mai visto [cf. Gv ,.O.P (ἐξηγήσατο)]. Ma che ne è del resto del mondo? Degli uomini che ci stanno attorno, di tutto il nostro darci da fare? Tutto questo non è in nessun modo Dio, e perciò non è in nessun modo degno di essere adorato. È mondo, è creatura, e non si può aEermare che in ogni creatura come tale stia, nel suo intimo, una scintilla divina increa-ta. Altrimenti dovremmo adorare noi stessi. E però: non c’è una qualche verità, nel luogo comu-ne che nel fondo dell’uomo ci sia qualcosa di divi-no? Da cristiani risponderemo: sì, ogni uomo ha in

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sé qualcosa di divino; non però a motivo della sua natura, in quanto è creato, bensì per la grazia di Dio, in quanto tutti gli uomini sono destinati ed eletti e chiamati ad essere figli del Padre e fratelli di Gesù e portatori dello Spirito Santo di Dio. Molti, probabilmente i più, sanno poco o nulla di questa vocazione, e vivono nel tempo che fugge come se non ci fosse in esso nulla di eterno. E così pure, quando incontrano un altro uomo, non vi vedono nulla di trascendente. Vedono il suo volto, le sue maniere, le sue caratteristiche gradevoli e sgrade-voli, quelle gli piacciono e queste li irritano. Non vedono che egli è in Cristo un figlio del Padre, il quale lo ama perché Cristo si è fatto garante per lui e lo ha reso suo fratello; o, se vogliamo, un figlio che il Padre da parte sua ha amato tanto da dare per lui il suo Figlio Gesù Cristo. Pagando dunque, dice Paolo, un caro prezzo per questo suo amore [cf. UCor M,78; �,7,]. Nell’uomo come loro, gli uomini non vedono d’abitudine nient’altro che un loro simile, un esemplare casuale tra milioni d’altri, battuto allo stesso conio: moneta spicciola. Ce n’è

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qualcuno riuscito meglio: ha maggior potere d’acquisto, o maggior valore per il collezionista, rispetto agli altri, ai più. La sociologia e la psicolo-gia oggi così di moda partono sempre dal presup-posto che «un uomo è un uomo», che in fondo ognuno è sostituibile da ogni altro, perché in fin dei conti tutti sono fatti secondo lo stesso modello, cotti nello stesso stampino, plasmati allo stesso tornio…

Soltanto il cristiano ha la possibilità di scorgere in ogni uomo che gli si fa incontro qualcosa di uni-co: un essere che Dio conosce non sommariamen-te, come fosse un esemplare a caso; e che Dio ama nella sua irripetibile e insostituibile unicità. Buesta possibilità si dà soltanto a partire da Gesù Cristo. Su di lui è risuonata la voce dal Cielo: «Tu sei il mio figlio amato, nel quale è il mio beneplacito» [Mc ,; Lc ,,77]. Tu e nessun altro; tu, che con nessun altro puoi essere equiparato o scambiato. Ma in te tutti questi uomini, a nome dei quali tu impegni la tua vita, mi sono divenuti cari, ciascu-

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no di loro in te ha acquisito qualcosa della tua uni-cità.

Noi tutti siamo, dice ancora l’Apostolo, «confor-mati all’immagine del Figlio suo», che perciò è di-ventato «primogenito tra molti fratelli» [Rm P,7�]. E nel pensiero eterno di Dio non siamo mai stati altro che questi figli e figlie amati, «eletti in Gesù Cristo prima della fondazione del mondo per esse-re santi al suo cospetto» [Ef ,O].

Se questo è vero – e lo è di fatto –, che cosa vede dunque il cristiano nel suo simile? Non un esem-plare di umanità problematico, dozzinale, somma-mente imperfetto; bensì, pur con tutti i suoi difet-ti, un pezzo unico, irripetibile, che Dio ama perso-nalmente di un amore altrettanto unico, per insu-diciata o sepolta che sia l’immagine di Dio in lui. Ma l’amore che ama quest’uomo è degno di essere adorato. Non diciamo – sarebbe risibile – che gli uomini debbano adorarsi a vicenda; intendiamo solo una cosa, seria e gravida di conseguenze: ognuno può e deve diventare per l’altro un’occa-

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sione per adorare l’amore di Dio verso di noi, ver-so ogni singolo così come Dio lo vede.

Così non c’è bisogno di erigere alcun muro di se-parazione tra i momenti che ci riserviamo per la preghiera e (si spera) per l’adorazione di Dio, da una parte, e dall’altra la vita di tutti i giorni, in cui abbiamo da pensare a tutt’altre faccende. Certo, se nella nostra giornata non teniamo un momento li-bero per rivolgere il pensiero espressamente e di-rettamente a Dio, ricordandoci del suo amore eter-no per ciascuno di noi, niente del genere ci verrà mai in mente quando ci incontriamo con gli altri nella confusione del quotidiano. Ma una volta che, meditando il mistero del Natale, siamo penetrati fino a incontrare l’amore di Dio, a questo amore che merita la nostra adorazione, non c’è poi più motivo di uscire da questo atteggiamento di adora-zione durante la nostra giornata: giacché non solo siamo costantemente circondati da questo mistero, ma ogni incontro con un uomo qualsiasi ce lo met-te di nuovo davanti agli occhi.

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C’è un meraviglioso antico inno latino per l’ado-razione del Santissimo Sacramento, che una volta si trovava in tutti i libri di preghiere; la sua prima strofa suona così:

Adoro te devote, latens Deitasquae sub his figuris vere latitastibi se cor meum totum subjicitquia te contemplans totum deficit.

Potremmo rendere queste parole così: «Con rive-rente abbandono ti adoro, divinità nascosta, che davvero sei presente celata sotto queste figure; a te sottometto senza riserve il mio cuore, poiché nel contemplarti ogni altra possibilità manca il segno». Orbene, mi pare che l’espressione «queste figure» si possa leggere come riferita non solo alle specie di pane e vino nelle quali la divinità si cela, bensì an-che a tutte le figure del mondo: anzitutto quelle degli uomini, poi pure le altre, che sono create per l’uomo e sono parte della sua dimora terrena. Chi è capace di vedere il mondo in questo atteggia-

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mento, e grazie a questo sguardo riesce a reggere alla prova del mondo, di un uomo così si dirà che cammina alla presenza di Dio.

Molti sono dell’idea che per arrivare a questo punto sia necessaria una lunga preparazione, un as-siduo esercizio di tecniche di meditazione. Io non lo credo. Basta che ci ricordiamo con semplicità della nostra fede, che riceve nel Natale il suo pe-gno visibile: «Dio ha tanto amato il mondo», e cia-scuno di noi singolarmente, «da dare il suo unico figlio per esso» [Gv ,,M] e per ciascuno di noi. Buesto Figlio tutto dato ci sta davanti agli occhi. Bui nel Natale, qui sulla croce, qui il giorno di Pa-squa; qui, tutti i santi giorni dell’anno della Chie-sa.

on possiamo chiudere la nostra contempla-zione del Natale senza un ultimo pensiero.

Il Figlio non è stato costretto dal Padre a incarnarsi così – a farsi questo bambino che giace davanti a noi: egli è anzi lo stesso e unico Dio con il Padre, perfettamente libero e sovrano tanto quanto lo

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sono il Padre e lo Spirito Santo. Egli, il Figlio, si è oEerto dall’eternità, in divina libertà, di fare da ga-rante per la creazione del Padre; ed è sulla base di questa oEerta che il Dio uno e trino ha potuto ar-dire di creare un mondo tale quale è diventato di fatto, e addirittura di dirlo «molto buono» [Gn ,,]. Il Figlio, sulla croce, farà un sol fascio di tut-to l’indicibile dolore del mondo e se ne caricherà, presentando al Padre la dimostrazione che nel bel mezzo dell’abbandono da parte di Dio si può anco-ra amare e adorare Dio sopra ogni altra cosa. Ma che succede intanto nel cuore del Padre? L’oEerta di sé del Figlio non l’ha forse dall’eternità toccato e trafitto fin nell’intimo? Non deve egli essere rima-sto ab aeterno pieno di stupore che un pensiero del genere abbia potuto sorgere dall’abisso della libertà divina? Certo, tutto questo è detto in parole molto umane – ma come dovremmo esprimerlo altri-menti, se vogliamo restar fedeli all’idea dell’oppo-sizione delle persone o ipostasi divine nell’una e unica divinità? E se ora, nella Notte Santa, l’opera è compiuta, e il Padre vede il Figlio suo che giace

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davanti a lui, piccolo bimbo, e già segnato dall’ora delle tenebre a venire: non è forse, questo stupore del Padre, da designarsi come una forma altissima di adorazione? E come potrebbe il Padre non ado-rare il miracolo dell’amore divino del Figlio, così come il Figlio nella sua vita terrena ha adorato sen-za posa il Padre e la Sua volontà che è una cosa sola col Suo amore? «Il Tuo nome sia glorificato, il Tuo regno si mostri, la Tua volontà sia fatta in terra come è fatta in Cielo» [Mt M,�-8]: questa è senz’altro una preghiera di adorazione. E come po-trebbe lo Spirito Santo, che è l’espressione e il te-stimone dell’amore reciproco di Padre e Figlio, non adorare a sua volta questa eterna adorazione vicendevole?

Nell’insondabile profondità della sua essenza Dio è un miracolo. Lo è per sé stesso nel mistero della sua tripersonalità. Mai Dio si abitua a Dio. Tutto in lui è evento eternamente presente: la ge-nerazione del Figlio dal Padre, e la processione dello Spirito Santo, una fiamma che divampa dal sempre nuovo compenetrarsi dell’amore di Padre e

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Figlio. E tutto questo è agli occhi di Dio stesso de-gno di adorazione.

Non possiamo dunque pensare che adorare Dio significhi sbrigare un fastidioso dovere. Con l’ado-razione non facciamo che entrare nella verità, nella bontà e nella bellezza di Dio stesso; e non faccia-mo che compiere la legge della verità, della bontà e della bellezza della nostra propria esistenza: giac-ché Dio «non è lontano da ciascuno di noi; in lui viviamo, ci muoviamo e siamo, … perché siamo della sua stirpe» [At �,7�-7P].

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