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GUERRA D’ETIOPIA, IMPERIALISMO E TERZO MONDO È già stato osservato, a proposito di un recente, lucido saggio dedi- cato alla crisi etiopica, come « tra i problemi che maggiormente attrag- gono gli storici sono senza dubbio la politica estera di Mussolini, le sue responsabilità nel creare in Europa una situazione di tensione e di crisi, i suoi rapporti con il revisionismo hitleriano nei confronti della ’ iniqua ’ pace di Versailles » \ L’annotazione si riferisce al prevalente indirizzo storiografico per cui l’« impresa d’Etiopia » è stata vista e studiata so- prattutto come un aspetto, appunto, della politica estera fascista, e di Mussolini in particolare, e quindi come un precedente diplomatico-mili- tare, certamente rilevante ed anzi decisivo, del secondo conflitto mon- diale. Ma il 1935-36 è stato qualcosa di molto specifico e sintomatico, certo non meno rilevante, anche su un altro terreno, avendo investito e coinvolto alcuni dati e momenti essenziali del ciclo storico del regime fascista, della sua politica interna e sociale, della sua ideologia e della sua evoluzione. E tuttavia, sul problema etiopico di quegli anni la produzione sto- riografica, specialmente italiana, risulta del tutto carente, in contrasto non casuale con le notevoli manifestazioni di interesse per ogni aspetto della vasta e varia tematica fascista1 23 . Ora, il nostro non vuol essere, com’è ovvio, un rilievo critico da un angolo visuale angustamente ita- liano (anche se questo elemento di giudizio va in qualche misura consi- derato), il che equivarrebbe poi a ridurre il limite denunziato a un fatto d’ordine morale, o globalmente « nazionale », piuttosto che culturale e sociale. Del resto, dal 1945 ad oggi parecchie « occasioni » avrebbero potuto spronare ad un effettivo ripensamento, ad un autentico appro- fondimento storiografico. Ma sembra che la categoria dell’« imperiali- smo », anche se soltanto limitata alle guerre di aggressione del periodo fascista, debba essere accuratamente evitata dalla parte maggiore dell’opi- nione postfascista, anche democratica e illuminatas. Ma, così facendo, 1 Cfr. N icola T eanfaglia, Mussolini in cerca di gloria imperiale. Brutto affare l’Etio- pia, in Corriere della sera, 31 ottobre 1968, recensione a Max G allo, L’affaire d'Ethio- pie. Aux origines de la guerre mondiale, Parigi, 1967. - Nulla di analogo, ad esempio, al lavoro di Roberto Battaglia, La prima guerra d'Africa, Torino, 1958. 3 Questa posizione è stata teorizzata da Francesco Rosso in G iuseppe F araci, Etio- pia guerra e pace, Torino, 1965, pp. 10: « Scrivere la storia della guerra etiopica può

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GUERRA D’ETIOPIA, IMPERIALISMO E TERZO MONDO

È già stato osservato, a proposito di un recente, lucido saggio dedi­cato alla crisi etiopica, come « tra i problemi che maggiormente attrag­gono gli storici sono senza dubbio la politica estera di Mussolini, le sue responsabilità nel creare in Europa una situazione di tensione e di crisi, i suoi rapporti con il revisionismo hitleriano nei confronti della ’ iniqua ’ pace di Versailles » \ L’annotazione si riferisce al prevalente indirizzo storiografico per cui l’« impresa d’Etiopia » è stata vista e studiata so­prattutto come un aspetto, appunto, della politica estera fascista, e di Mussolini in particolare, e quindi come un precedente diplomatico-mili­tare, certamente rilevante ed anzi decisivo, del secondo conflitto mon­diale. Ma il 1935-36 è stato qualcosa di molto specifico e sintomatico, certo non meno rilevante, anche su un altro terreno, avendo investito e coinvolto alcuni dati e momenti essenziali del ciclo storico del regime fascista, della sua politica interna e sociale, della sua ideologia e della sua evoluzione.

E tuttavia, sul problema etiopico di quegli anni la produzione sto­riografica, specialmente italiana, risulta del tutto carente, in contrasto non casuale con le notevoli manifestazioni di interesse per ogni aspetto della vasta e varia tematica fascista1 2 3. Ora, il nostro non vuol essere, com’è ovvio, un rilievo critico da un angolo visuale angustamente ita­liano (anche se questo elemento di giudizio va in qualche misura consi­derato), il che equivarrebbe poi a ridurre il limite denunziato a un fatto d’ordine morale, o globalmente « nazionale », piuttosto che culturale e sociale. Del resto, dal 1945 ad oggi parecchie « occasioni » avrebbero potuto spronare ad un effettivo ripensamento, ad un autentico appro­fondimento storiografico. Ma sembra che la categoria dell’« imperiali­smo », anche se soltanto limitata alle guerre di aggressione del periodo fascista, debba essere accuratamente evitata dalla parte maggiore dell’opi­nione postfascista, anche democratica e illuminatas. Ma, così facendo,

1 Cfr. N icola T eanfaglia, Mussolini in cerca di gloria imperiale. Brutto affare l’Etio­pia, in Corriere della sera, 31 ottobre 1968, recensione a Max G allo, L’affaire d'Ethio­pie. Aux origines de la guerre mondiale, Parigi, 1967.- Nulla di analogo, ad esempio, al lavoro di Roberto Battaglia, La prima guerra d'Africa, Torino, 1958.3 Questa posizione è stata teorizzata da Francesco Rosso in G iuseppe Faraci, Etio­pia guerra e pace, Torino, 1965, pp. 10: « Scrivere la storia della guerra etiopica può

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si finisce con l’accreditare una visione distorta e provinciale della vicen­da nazionale e del fascismo, della reale collocazione, economica e politica, dell’Italia fascista nel quadro e nello sviluppo storico contemporaneo. In questa sede non si tratta, com’è ovvio, di responsabilità retrospetti­ve, ma del ritardo e silenzio degli studi su questo terreno e del « ta­glio » di certe pubblicazioni attuali, la cui impostazione, salvo rare ecce­zioni, assume un significato affatto trascurabile. Infatti, nè la politi­ca « coloniale » del fascismo italiano ( un caso unico nel contesto del fascismo europeo), nè il crescente interesse per il tramonto del colonia­lismo e per le questioni tanto dibattute del « Terzo mondo » sono stati capaci di rimuovere tutta una serie di remore, di cui traspare il carattere politico, più o meno mediato \

Insomma, il nodo del 1935-1936 è stato affrontato come « questio­ne » ( vedremo poi in che senso ) più da studiosi non italiani che da italiani, i quali si sono attenuti finora ad una sorta di intreccio alterno, abbastanza tradizionale e scarsamente risolutivo, fra storia coloniale e storia diplomatica5. Fuori di questo ambito, spesso inficiato da impo­stazioni nazionalistiche e chiuso alle possibilità offerte da più aggior­nati interessi e indirizzi metodologici, si deve anzi rilevare il disimpegno pressoché completo della cultura universitaria. Precisamente da tale situazione Max Gallo è stato indotto a sottolineare che fino a qualche anno or sono « l’Italia postfascista sembrava voler lasciare nell’ombra l ’aggressione del 1935 » “. Nel momento in cui queste parole venivano scritte, si poteva anche sperare in un cambiamento. Gli anni 1965-66, lo notò appunto il Gallo, videro apparire alcuni testi che sembravano denotare un nuovo risveglio di interessi; e nel 1967 il « presidente del­la Repubblica italiana, l’antifascista Saragat », aveva invitato Hailé Se- lassié a visitare l’Italia 7.

essere facile, se non addirittura superfluo, sia che la scriva un antifascista, o un neo­fascista; si tratta soltanto di vedere le cose da due angolazioni diverse [...] ».1 Si veda invece, per un opportuno confronto, l’abbastanza informato J.L. M iège, L'impérialisme colonial italien de 1870 à nos jours, Parigi, 1968, che si conclude con lo scadere dell’amministrazione fiduciaria italiana in Somalia (1950-1960). Purtroppo l’edizione, specie nella parte bibliografica, è molto scorretta.3 Cfr. ad esempio Renato Mori, L ’impresa etiopica e le sue ripercussioni interna­zionali, nel volume miscellaneo La politica estera italiana dal 1914 al 1943, a cura di G iuseppe Rossini, Torino, 1963.

Cfr. Max G allo, op. cit., p. 275.7 Cfr. Max G allo, op. cit., p. 275 (e nota 2). Si ricordi, però, la successiva scon­certante vicenda dell’obelisco di Axum, che il governo italiano, trincerandosi dietro inesistenti questioni « tecniche » sollevate a bella posta dalla burocrazia (ma facil­mente riconducibili al desiderio di non urtare gli ambienti neofascisti), non ha ancora restituito alle popolazioni etiopiche nonostante l’accordo fra le due parti intercorso nel 1954. E’ così accaduto che Hailé Selassié — questo è stato l’unico ostacolo diplo­matico addotto per qualche tempo dal governo etiopico —- non ha più intrapreso il progettato viaggio a Roma. Cfr. Ferdinando Vegas, La visita in Italia. Hailé Selassié, editoriale de La Stampa, 8 settembre 1966 e Vanni Maraventano, L ’obelisco della

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Vero è che proprio in questi ultimi tempi la storiografia italiana sta giungendo a scandagliare e discutere la politica estera fascista in una connessione abbastanza stretta con le ragioni di politica interna ed eco­nomica e con le ambizioni e le tesi dei suoi protagonisti, e accenna ad un inquadramento del problema in termini moderni, non puramente tecnico-diplomatici, collocandolo nell’ambito e nel contesto di una più generale indagine sulla vicenda dell’imperialismo italiano, fino ad oggi per lo più generalmente negato o semplicemente ignoratos. Ma è al­trettanto vero che per un troppo lungo periodo hanno pesato e influito negativamente quelle tendenze dapprima di tipo trasformistico, semino­stalgiche, e poi confusamente neocolonialiste, proprie di certi ambienti e enti e centri più di propaganda che di studio e talvolta più di studi specializzati che di cultura storica (l’Istituto Italiano per l’Africa o l’Isti­tuto Orientale di Napoli o il Cesare Alfieri di Firenze), la cui produ­zione editoriale, diretta o indiretta, e le cui iniziative hanno dimostrato e talvolta continuano ancora a dimostrare una singolare persistenza del­l’ideologia coloniale e i postumi più o meno cronicizzati del vecchio « mal d’Africa ».

Dopo la conclusione della guerra — questo è il punto — erano emerse o riemerse e convissero e si intrecciarono insieme posizioni di­verse, al limite coincidenti o convergenti, di cui sarebbe interessante rifa­re la storia, di cui furono portatori quel personale dello Stato che, pur non potendo essere qualificato « fascista » in senso stretto ( il marescial­lo Badoglio, duca di Addis Abeba e successore di Mussolini; Raffaele Guariglia, responsabile e consigliere per qualche tempo della politica coloniale fra il ’28 e il ’34; o Felice Guarneri, che nel ’35 era passato dalla direzione della Confindustria al governo della politica valutaria e commerciale del regime), aveva tuttavia contribuito, ad un altissimo livello tecnico, all’impostazione ed attuazione dell’impresa etiopica e, d’altra parte, quel settore della classe politica prefascista di indirizzo prevalentemente moderato, tornato alla ribalta dopo il colpo di stato del 25 luglio e corrispondente grosso modo alla destra dell’antifascismo.

discordia, in II Resto del carlino, 2 marzo 1968, dove si afferma che « in questa as­surda storia, che il buon senso potrebbe già aver chiuso, c’entra lo zampino del MSI ». 8 Cfr. ora G iorgio Ru m i, Alle origini della politica estera fascista, Bari, 1969. Si veda il cap. Fascismo, nazionalismo e il mito dell’impero, pp. 175-197. E inoltre, bisogna aggiungere, Giorgio Rochat sta avviando una ricerca sulla guerra d’Etiopia che ci augu­riamo possa colmare la lamentata carenza di studi in questo settore nodale. L’esigenza è tanto più avvertita in quanto finora gli studi « coloniali » sono risultati quasi una riserva del Comitato « L’Italia in Africa ». Si vedano in proposito, nel volume di M.A. Vitale, L’opera dell’esercito, tomo I, Ordinamento e reclutamento, Roma, 1960, i giudizi relativi all’impiego delle truppe coloniali, del tutto acritici e niente affatto aggiornati. Su tutt’altro piano, affrontando il nesso fascismo-imperialismo, si svolge invece il rigoroso studio di G iampiero Carocci, La politica estera dell'Italia fascista (1925-1928), Bari, 1969. Cfr. in proposito Enzo Santarelli, I l fascismo in Europa, in Studi storici, aprile-giugno 1969.

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I primi giustificavano o cercavano in qualche modo di giustificare su basi nazionali l’acquisto dell’ultima grande colonia imperiale d’Italia, soprattutto con scritti e memorie, e gli altri (De Gasperi e Sforza e Croce), più concretamente, tendevano ormai a difendere almeno il pos­sesso dell’Eritrea, della Somalia e della Libia, come territori acquisiti dall’Italia liberale, come colonie « pulite », prefasciste, che era una di­stinzione tutto sommato speciosa, dopo la sconfitta, e « anacronistica », al momento dell’indipendenza dell’India

Sotto il peso degli avvenimenti, ad una sorta di « decolonizzazione » forzosa, sincronizzata ma anche sfasata rispetto al processo di « defasci­stizzazione » interna (e al suo più acuto révirement nel 1947-48) si giunse infine per gradi, per una via evolutiva, di riassorbimento, senza passi e sbalzi drammatici ( come accadde invece per la questione di Trieste), anche ad un certo livello «popolare», soltanto in seguito alle più o meno drastiche clausole dei trattati di pace, in ragione dell’oppo­sizione straniera e interna e del venire avanti dello schieramento dei popoli ex coloniali e del più lento ma deciso risveglio dell’Africa, in una particolarissima congiuntura, in cui le questioni sociali, di politica economica e strettamente nazionali ebbero il sopravvento. Soltanto in tem­pi abbastanza recenti, dunque, si è giunti sulle soglie di un approccio critico del problema, ad un tentativo — ancora marginale — di demi­stificazione dell’impresa d’Etiopia; ma non per questo può affermarsi che sia stato conseguito un avviamento pienamente soddisfacente e per­ciò storicamente comprensivo dell’intera questione. I segni di una tale vicenda politica e psicologica sono del resto ancora tanto evidenti da trasparire persino attraverso atteggiamenti di tipo « radicale » ( che tal­volta sfociano in una critica ideologica e di costume) laddove sarebbe preferibile un più equilibrato giudizio ed un più rigoroso metodo storico 10.

La letteratura del periodo fascista sulla guerra d’Etiopia, nonostante *

* Per la esiguità del problema nel 1944-46, cfr. l’ampia e attenta rassegna di Raffaele Colapietra, La lotta politica in Italia dalla liberazione di Roma alla Costituente, Bo­logna, 1969; il nodo politico accennato verrà però avanti negli anni successivi. Sulla te­matica connessa cfr. Carlo G iglio, Colonizzazione e decolonizzazione, Cremona, 1965 (ma il Giglio aveva scritto La colonizzazione demografica dell’Impero, Roma, 1939); G iuseppe Vedovato, Il trattato di pace con l’Italia, Roma, 1947 e Studi africani ed asiatici, Firenze, 1964.10 Cfr. Leone I raci, Per una demistificazione del colonialismo italiano, in Terzo mondo, marzo 1969. Si tratta di un’ampia e polemica recensione del lavoro di R.L. H ess , Italian Colonialism in Somalia, Chicago-Londra, 1966. Lo scritto dell’Iraci — ben documentato sull’opposizione delle correnti democratiche italiane, alla politica colonial-imperialistica delle classi dirigenti nei primi anni del ’900 — è significativo per11 rigetto dell’apologetica colonialista degli anni cinquanta, quando il governo italiano a proposito dell’amministrazione fiduciaria della Somalia trovò ed ebbe il pieno appog­gio degli Stati Uniti.

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il marcato accento trionfalistico, ha presentato, e in parte conserva, un certo rilievo documentario, come testimonianza delle opinioni prevalenti negli ambienti ufficiali del paese conquistatore, specialmente dal punto di vista della storia diplomatica e soprattutto militare dell’impresa. Ciò non vuol dire, ovviamente, che i lavori memorialistici dei generali e •dei ministri fascisti possano esimere da un’ulteriore verifica archivistica sulle fonti italiane, soprattutto per quanto riguarda i contrasti interni al gruppo dirigente e le difficoltà e contraddizioni della sua linea di con­dotta nell’impostazione e nello svolgimento del conflitto 11. D’altra par­te, la letteratura di propaganda relativa soprattutto alle operazioni belli­che fino all’occupazione di Addis Abeba, anche se rivelatrice dello spi­rito avventuristico del neocolonialismo fascista, se non altro per i suoi orpelli retorici ricavati e resuscitati dall’ideologia nazionalista (il com­plesso di Adua e il complesso di Versailles), non ha alcun valore per quanto riguarda i movimenti e gli atteggiamenti più riposti e diversifi­cati dell’opinione pubblica italiana: in questo caso uno studio condotto sulle fonti giornalistiche del tempo (anche se integrato con la consulta­zione più attenta di certi filoni marginali, della stessa stampa antifa­scista all’estero e infine delle cronache dei quotidiani coloniali) risul­terà sempre scarsamente probante. Altra questione, appena toccata a tu tt’oggi in vari lavori, è quella del razzismo, o meglio, della politica di discriminazione coloniale e razziale praticata in Africa Orientale, non solo dal punto di vista ideologico, ma anche dal punto di vista ammi­nistrativo ed economico. Vari cenni a questo argomento si trovano nelle già citate memorie di Lessona, nello studio di De Felice sulla questione ebraica, nel recente volume di Luigi Preti, che accosta la tematica del­l ’antisemitismo a quella della discriminazione in colonia12 13; ma il pro­blema andrebbe rivisto e studiato da capo a fondo, in una cornice più vasta, tenendo conto degli apporti più recenti e pertinenti della critica sociologica sull’argomento, anche e soprattutto alla luce dell’esperienza tentata in Africa Orientale (e dei suoi contraddittori e paradossali svol­gimenti, prima e dopo il 1941) per quel che riguarda gli effettivi rap­porti (non solo «um ani») fra gli italiani e le popolazioni etiopiche15.

11 Cfr. comunque Alessandro Lessona, Verso l’Impero. Memorie per la storia po­litica del conflitto italo-etiopico, Firenze, 1939 e, dello stesso, Memorie. A l governo con Mussolini, Roma, 1963; Emilio D e Bono, La preparazione e le prime operazioni, Roma, 1937; Fidenzio D ell’O ra, Intendenza in Africa Orientale, Roma, 1937; P ietro Badoglio, La guerra d ’Etiopia, Milano, 1936; Rodolfo G raziani, Fronte Sud, Milano, 1939. Si possono aggiungere anche i due lavori di Luigi V illari, Storia diplomatica del conflitto italo-etiopico, Bologna, 1943 e Italian Foreign Policy under Mussolini, New York, 1956.12 Cfr. Renzo D e Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, 1961 e Luigi Preti, Impero fascista, africani ed ebrei, Milano, 1968, che integra con una selezione di documenti ufficiali il precedente saggio dello stesso autore, Miti della razza e dell’impero, Roma, 1965.13 Questo problema della discriminazione etnico-razziale in Africa, è abbastanza

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Infine la quesione economica, in tutti i suoi aspetti, nel suo divario fra realtà e programma, nelle sue premesse oggettive, nei suoi sviluppi concreti e nelle sue involontarie e malcontrollate ripercussioni, potrà risultare rivelatrice delle direttrici di fondo, in parte velleitarie e propa­gandistiche, sia' della classe politica che dei vari gruppi capitalisti della metropoli e delle colonie; ma proprio su questo decisivo terreno le no­stre informazioni attuali sono assai scarse, invecchiate e del tutto acritiche 14.

Ora, volendo rapidamente passare in rassegna le più recenti pubbli­cazioni italiane sull’argomento, si possono distinguere due gruppi abba­stanza delineati: un primo nucleo di monografie con evidenti intenti storico-documentari di taglio complessivo; un secondo nucleo di memo­rie e ricordi che in qualche modo costituiscono, sul piano dell’avventura personale e sentimentale, una sorta di letteratura postcoloniale16. Ma solo le opere del primo gruppo, che hanno visto la luce in occasione del trentesimo anniversario del passaggio del Mareb e della proclamazione dell’Impero, affrontano il tema centrale della guerra1B. Il lavoro del principe Pignatelli della Leonessa non offre nulla di nuovo rispetto a quanto già si sapeva dalla letteratura del periodo fascista: si tratta di un « racconto delle vicende militari » condotto fuori d’ogni tecnica sto­riografica; significativa però la presentazione che ne dà il prefatore, il quale, con aria tra ingenua e « innocentista », si contenta di insinuare come « nel breve giro di sette mesi la grande impresa -— che sembrava destinata a segnare un evento decisivo nella storia d’Italia e un episodio non trascurabile nella storia del mondo — era vittoriosamente com­piuta ». Con accenti analoghi viene poi esaltato il contributo della tec­nica e del « lavoro italiano » in Africa, e il libro è definito un « diario »

« moderno », anche se sorge da un vecchio ceppo e se in Etiopia è stato caratterizzato da un clima di transizione e di transazioni. Un confronto istruttivo potrebbe aver luogo con le realtà e le disposizioni degli opposti poli del sistema sudafricano e del sistema portoghese, proprio per le oscillazioni che presenta fra separazione, discriminazione e integrazione subordinata.3< Cfr. ad esempio L ’Impero coloniale fascista, Novara, 1937, a cura dell’Istituto Coloniale Fascista, con scritti di R. Almagià, L. V isintin , G. Bottai, ecc.; L ’impero coloniale italiano, a cura di G. Roletto, Trieste, 1938, nonché molti altri lavori, anche settoriali, dello stesso periodo.35 Prescindendo dalla saggistica tesa a valorizzare la politica coloniale come uno dei dati più positivi del regime fascista (cfr. per tutti Corrado Zoli, Espansione coloniale italiana 1922-1937, Roma, 1949) fra i molti libri di memorie, nostalgie e celebrazioni (una sorta di sottobosco anche editoriale) segnaliamo un’opera collettiva, ultima in ordine di tempo, Africa come un mattino, a cura di Franco Roversi Monaco, Bolo­gna, 1969, composta da reduci dell’Africa orientale; e Leonida Fazi, I guerriglieri del mal d’Africa, Roma, 1968, sulle bande irregolari di controguerriglia operanti nella Etiopia settentrionale fino al settembre 1941.10 Cfr. Luigi P ignatelli, La guerra dei sette mesi, Milano, 1965 (ma ne era apparsa una prima edizione, Napoli, 1961), con prefazione di Giuseppe Padellaro; Angelo D el Boca, La guerra d'Abissinia, 1933-1941, Milano, 1965; Carlo De Biase, L'impero di « faccetta nera », Milano, 1966.

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in cui « tutti quelli che hanno combattuto in Africa Orientale troveran­no un lembo del proprio cuore ». Carlo De Biase non si allontana da questi spiriti, soltanto sostanzia le sue tesi con maggiore accuratezza e perizia; ma l’intento rimane nettamente apologetico, e nel primo ca­pitolo adombra anzi la teoria di un colonialismo popolare tipicamente italiano: popolare nell’ideologia del regime, popolare per la spinta de­mografica e all’espansione dell’economia metropolitana che l’avrebbe de­terminato, popolare persino per il comportamento se non antirazzista per lo meno non razzista praticato in Africa dalla maggioranza degli italiani, soldati e lavoratori soprattutto, col risultato della formazione di un notevole meticciato. Inoltre — e qui non manca qualche nuovo apporto almeno sul piano informativo — l’autore, mentre riprende la polemica sull’operato di Badoglio1', nelle due fasi della conquista e quindi della difesa dell’Impero, accenna al contributo del generale Luigi De Biase, comandante della piazza di Addis Abeba subito dopo l’occu­pazione italiana e poi capo di stato maggiore per l’Africa Orientale fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Un lavoro doppiamen­te polemico, dunque, che peraltro non sposta affatto i termini del pro­blema storiografico complessivo, proponendosi soltanto di assolvere a un debito morale verso i residenti e i combattenti italiani in Africa.

L’interpretazione di Angelo Del Boca si distingue invece da questa insulsa letteratura per aver adottato tutt’altro angolo visuale. Il tema centrale è ancora la guerra, ma questa volta come fatto politico, riguar­dante entrambi i popoli in lotta. Non per niente l’autore, pur non pro­ponendosi di realizzare un’opera scientifica, era passato attraverso tutta una serie di studi ben documentati su taluni problemi di fondo del fascismo internazionale, del terzo mondo e del moderno razzismo colo­niale 17 18. Con molta freschezza la ricerca-inchiesta del Del Boca segue le due forze antagoniste, muovendo nell’indagine e nel racconto dal loro interno, il « complesso di Adua » per gli italiani, e i drammatici pro­blemi di autodifesa, nonostante le forti spinte centrifughe e l’enorme inferiorità tecnica, per gli etiopici, e in particolare per gli Amhara e per l’imperatore, la cui figura comincia a risaltare proprio nei momenti di una sconfitta apparentemente risolutiva. Così il capitolo intitolato « Un impero sulla carta » non è ispirato da una costruzione a poste­riori, ma nasce dal preciso resoconto dei fatti, quali si svolsero con stretta concatenazione subito dopo l’entrata delle truppe italiane nella capitale nemica, quando l’Etiopia era tutt’altro che vinta e sottomessa, ed introduce anzi all’altro forse troppo rapido capitolo dedicato alla

17 Cfr. Carlo D e Biase, Badoglio, Duca di Caporetto, Milano, 1965.18 Cfr. Angelo Del Boca, L’Africa aspetta il I960, Milano, 1959 e, dello stesso, Apartheid: affanno e dolore, Milano, 1961. Si veda anche Angelo D el Boca - Mario G iovana, I « figli del sole ». Mezzo secolo di fascismo nel mondo, Milano, 1965.

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« guerriglia degli arbegnuoc », preludio a sua volta della « rivincita di Hailé Selassié ». Tutte le fonti disponibili sono state utilizzate e vaglia­te criticamente: fonti italiane e occidentali, memorie e documenti uffi­ciali, e anche fonti orali e scritte di parte etiopica, raccolte ad Addis Abeba. L’ampiezza dei riferimenti e la precisione delle note fanno di questo testo il più attendibile e interessante sull’argomento, anche se il taglio complessivo appare ancora piuttosto tradizionale, concentrato come un « sommario » discorsivo sugli avvenimenti, per esigenze imme­diate di lettura, piuttosto che sull’esplicazione dei problemi storici. Di qui e dalla sua impostazione prevalentemente ideologica, il limite intrin­seco ai risultati conseguiti, che non riescono a rendere fino in fondo la natura e il vero carattere dell’evento, al di là del particolare ambito italo-etiopico 18.

Max Gallo ha invece presentato l’« affare etiopico » nei suoi termini euro-africani, come una questione ancora sottoposta al vaglio della ri­cerca, come un momento problematico, in parte sottovalutato e da ri­scoprire. E ha tentato di farlo, in modo efficace e brillante, ponendo mano ai documenti e dando la parola ai fatti, con una scioltezza che si adegua ad una autentica esplorazione storiografica. Per quanto riguarda la « metropoli », questa è intesa in un senso assai più europeo che italiano, e la conquista mussoliniana gli si configura come risultato del compromesso diplomatico fra Roma e Parigi, ma anche fra Roma, Pari­gi e Londra, come un preludio alla guerra civile fra democratici e filo- fascisti europei nella seconda metà degli anni trenta. Evidentemente la esperienza della decolonizzazione e della crisi politica e spirituale della Francia al tempo di Dien Bien Phu e della guerra d’Algeria gli ha offerto il bandolo della matassa: si veda ad esempio il posto attribuito ai manifesti degli intellettuali francesi pro e contro l’iniziativa italiana gestita da Mussolini. Forse, si sarebbe potuto illustrare meglio, a que­sto punto, la scissione fra fascisti e antifascisti italiani, ricostruendo an­che la diversità delle opinioni drammaticamente emerse nei due campi opposti; così come sarebbe stato interessante rintracciare gli elementi della solidarietà o della contrapposizione dei vari ambienti colonialisti

18 Notevole, comunque, il tentativo di spostare i termini cronologici del problema dal 1935-36 al 1935-41. La questione etiopica — salvo che nelle memorie di Anthony Eden e di Robert G. Vansittart, che riflettono le difficoltà proprie della politica bri­tannica d’anteguerra — ha creato qualche imbarazzo e qualche polemica anche nella storiografia inglese. Cfr. d’esempio A.H.M. J ones and Elizabeth Monroe, A History of Ethiopia, Oxford, 1966, ristampa dell’edizione accresciuta del 1960 (il cui primo testo risale però al 1935): l’aggiornamento (1934-1935. The Dispute with Italy, pp. 175-183) appare, assai arretrato ideologicamente e del tutto carente per la parte contemporanea, come si deduce anche dalla meccanica giustapposizione della « crono­logia della guerra e della liberazione » ( 1935-1944). Leonard Mosley, Hailé Selassié: The Conquering Lion, Londra, 1964, trad, it., Il Negus, Milano, 1968, solleva a que­sto proposito qualche cenno critico e corregge il quadro.

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europei (alcuni di tendenza fascistizzante): germanici (revisionisti e re- vanchisti), francesi e inglesi20. Tanto più che nel 1932-34 fu agitato dalla stampa italiana e britannica lo spauracchio della penetrazione eco- nomico-politica del Giappone in Etiopia 21. Comunque l’« affare » è visto come un elemento chiarificatore del grande prologo alla seconda guerra mondiale, anticipatore di Monaco, più ancora che la guerra di Spagna, per quanto riguarda la politica di appaesement e perfino la sostanziale solidarietà economico-sociale di Parigi e di Londra nei confronti del fascismo italiano e della sua spinta e provocazione imperialistica. Fra l’altro l’autore, sia pure in via ipotetica ( parla di « questioni aperte » e lamenta la persistente carenza di documenti), tende a dimostrare che l’Italia fascista, sfruttando a suo proprio vantaggio la concessione petro­lifera accordata dall’imperatore etiopico alla Standard Oil, seppe inserirsi nel conflitto di interessi e di vedute fra Stati Uniti e Gran Bretagna, nel momento in cui Roosevelt stava sconfessando la tradizionale « di­plomazia del dollaro ». Per contro, la finanza occidentale non venne meno ai suoi obiettivi immediati, e riuscì a impedire l’embargo sul petrolio, che solo avrebbe potuto ostacolare gravemente l’impresa mus- soliniana; e forse lo stesso « affare Rickett », anche se rimane tuttora piuttosto misterioso, sta a dimostrare, sia pure indirettamente, i colle­gamenti sotterranei rapidamente ricomposti fra l’espansione fascista e i più permanenti interessi del capitalismo finanziario occidentale “ . Come •si vede, è questo un terreno ancora molto ipotetico, che varrebbe la pena di dissodare in profondità.

Sintomatico il libro di François Coty, Contre le Communisme. Sauvons nos co­lonies, Parigi, 1931, che offre una traccia anche per gli anni successivi. Per la tesi ■della « missione civilizzatrice » sostenuta poi dall’opinione conservatrice francese cfr. i molto noti scritti di Paul G entizon, La revanche d’Adoua, Parigi, 1936 e La con­quête de l’Ethiopie, Parigi, 1936.21 Cfr. qualche cenno in Antonio Zischka, Abissinia. L ’ultimo problema insoluto dell’Africa, Firenze, 1936 (i punti di partenza e i moventi o pretesti della campagna fascista sono indicati nella cronologia).22 Al caso Rickett lo studioso francese dedica un capitoletto intitolato Una guerra per il petrolio? (cfr. op. cit., pp. 249-252) in parziale e scarsamente convincente pole­mica con Salvemini. Di questi, sullo stesso punto, cfr. Preludio alla seconda guerra mondiale, Milano, 1967, al capitolo La bomba del petrolio pp. 440-446. Ma anche Sal­vemini semplifica troppo la questione ricucendola a un’abile mossa propagandistica e diplomatica tessuta o sfruttata dal governo fascista. Per la cronologia dell’episodio, cfr. Antonio Zischka, op. cit., pp. 192-193. Ma nemmeno Zischka — autore de La guerra segreta per il petrolio, Milano, 1935 — riprenderà poi l’esile filo della faccenda Rickett. Cfr. Anton Zischka, L ’Italia nel mondo, Milano, 1938 e, dello stesso, Africa. Primo compito unitario dell’Europa, Roma, 1953, che pure tratta a lungo e con pre­d iz ion e Il problema dell’Etiopia (pp. 207-225). Alessandro Lessona definisce «rocam­bolesco» l’episodio Rickett (op. cit., pp. 136-137) e si ha ragione di ritenerlo bene informato. La gara per le concessioni, che era per l’Occidente una pericolosa alluci­nante schermaglia attorno a risorse talvolta del tutto ipotetiche, costituiva per gli etio­pici un giuoco empirico, intuitivo e contraddittorio, sia per controbilanciare le une con le altre le varie influenze e pressioni straniere, sia per conseguire un corrispettivo in armamenti.

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Non meno suggestive le conclusioni (peraltro parzialmente coinci­denti con l’indirizzo interpretativo già accennato dal Del Boca) circa i reali caratteri della guerra etiopica, che, a parte la mistificazione del regime sui suoi aspetti militari, che riuscirono a impressionare tutta l’Europa centro-occidentale, viene definita come « una prima guerra co­loniale, annunciante le lotte per l’indipendenza » 23 * 25. Qui la prospettiva tradizionale viene radicalmente rovesciata, sulla base di una precisa sen­sibilità per i nuovi orizzonti della storia contemporanea che in effetti si dischiudono ai movimenti di liberazione afro-asiatici, o cominciano a dischiudersi prima e non dopo il secondo conflitto mondiale, ispirandosi anche all’indipendenza, alla resistenza e alla non capitolazione etiopica, impersonate dal mistico orgoglio regale e nazionale di Hailé Selassié.

« L’affare d’Etiopia — scrive Max Gallo — è anche un confronto fra il solo Stato africano indipendente sfuggito alla colonizzazione e i bianchi »; « l’Etiopia tendeva già a simbolizzare l’Africa »; e infine « l’affare d’Etiopia fa da prefazione alle lotte per l’indipendenza »Da questo punti di vista l’impresa etiopica, « anacronistica » per l’Ita­lia e ritenuta tale (ma a posteriori e per una sorta di transfert politico) anche da Churchill, rappresenta il momento dell’imperialismo maturo, anzi agli estremi sul terreno sia della spartizione, sia della redistribuzio­ne dei possessi coloniali europei in Africa 26. Del resto lo sforzo impe­rialistico italiano è documentato dall’imponenza e dalla tecnica usate nella mobilitazione e nell’impiego delle risorse belliche disponibili23.

23 Cfr. Max G allo, op. cit., p. 271.2' Cfr. Max G allo, op. cit., pp. 271-214. Molto opportunamente l’autore nel capi­tolo La civiltà bianca in questione richiama le prese di posizione di Aimé Césaire e di Leopold Sedar Senghor. J.L. M iège, op. cit., p. 243, richiama inoltre l’emozione e i ricordi di Kwame N ’Krumah: « Il mio nazionalismo esplose, ero pronto ad andare fino all’inferno, se ce ne fosse stato bisogno, per realizzare finalmente il mio obiettivo: la fine del colonialismo ».25 Cfr. W inston Churchill, La seconda guerra mondiale, Milano, 1963, vol. I, pp. 191-192: « I progetti di Mussolini sull’Abissinia non erano consoni all’etica del ventesimo secolo, ma piuttosto alle età oscure in cui gli uomini bianchi si ritenevano in diritto di soggiogare uomini dalla pelle nera, bruna, gialla o rossa per mezzo delle armi più perfezionate e della forza superiore che avevano a loro disposizione [...]. Per di più l’Abisinia faceva parte della Lega delle Nazioni ». Più francamente e reali­sticamente, Arnold Toynbee aveva parlato non di « etica del secolo », ma di « malat­tia morale del mondo », cfr. J.L. M iege, op. cit., p. 242. Di fatto gli afro-negri tras­sero dalla crisi etiopica e dalle sue conclusioni rinnovato alimento alla rivolta contro i vari imperialismi europei. Per questa rilevante svolta del pensiero e del movi­mento politico africano, che si impernia significativamente attorno al 1937, cfr. Romain Rainero, Il risveglio dell’Africa nera, Bari, 1960, pp. 107-108.20 Cfr., per l’eco negli ambienti militari fuori d’Italia, G en. Visconti-Prasca, La guerre decisive, Parigi, 1935, con prefazione del Gen. Niessel; Col. Vauthier, La doc­trine de guerre du général Douhet, Parigi, 1935, con prefazione del maresciallo Pétain; Col. Xylander, La conquista dell’Abissinia. Aspetti militari e insegnamenti della pri­ma guerra coloniale moderna di annientamento, Berlino, 1937, trad, it., Milano, 1937. Per i precedenti dell’impiego su scala abbastanza vasta dell’aviazione italiana nelle operazioni coloniali, cfr. G uido Mattioli, L ’aviazione fascista in Africa Settentrionale,

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Ma proprio su questo terreno dello studio dell’imperialismo colo­niale fascista la ricerca storica stenta a procedere sulla via già in parte indicata per difetto di quella « problematica » in cui « è probabil­mente reperibile il fattore essenziale di uno studio storico » ZT. Tutta­via, un suggestivo spiraglio, da verificare e controllare con studi ulte­riori, è ora dischiuso. La valutazione corrente, acritica, della teoria e della prassi fascista nella questione etiopica astrae infatti generalmente dalle intime, organiche, necessarie connessioni con lo sviluppo della con­temporanea dinamica imperialistica internazionale, e della sua interna e complessa dialettica. La critica postfascista, quando vi è stata, ha assunto un andamento piuttosto superficiale e disordinato, limitan­dosi a cogliere gli aspetti più grossolani e gratuiti delle formulazioni programmatiche offerte in prima persona dalla facciata propagandistica del regime e del governo fascista, rilevando con facile giuoco le contrad­dizioni convalidate dal successivo corso della storia (l’« irrealtà » del colonialismo italiano degli anni trenta; il suo tipico contrasto con le spinte emergenti dei popoli coloniali; la sua successiva sconfitta nel con­fronto con la Gran Bretagna da un lato e la Germania dall’altro; ecc.). Una critica, dunque, di ispirazione vagamente democratica, ovvia e scon­tata nei suoi limiti, ma sostanzialmente incapace di fare i conti con una realtà storica ormai poliedrica, di cui lo sviluppo dei movimenti di libe­razione del mondo negro-africano in lotta contro il rilancio colonialista pilotato da Mussolini costituisce il rovescio della medaglia, forse la spia più indicativa 28.

L’impresa d’Etiopia ha indubbiamente contribuito, per il suo stesso carattere di impegno totale delle energie del regime e di aperta sfida all’egemonia franco-britannica, allo spostamento di tutto l’asse della po­litica fascista. Il suo prezzo, per l’Italia e per l’Europa, fu in definitiva la rottura dell’equilibrio in Occidente, già aleatorio fin dal primo dopo­guerra e reso sempre più precario dalle ripercussioni della crisi econo­mica mondiale. Ma a questo punto di sicuro approdo degli studi, com­provato largamente dalla pubblicazione dei documenti diplomatici e da un’abbondante memorialistica, si pongono ulteriori problemi (lo si è già visto), specie in rapporto con la storia e la caratterizzazione interna ed

Roma, 1937, al capitolo L ’ala fascista in Cirenaica nella lotta contro il brigantaggio, con riferimenti espliciti alla campagna etiopica.27 Cfr. J ean Chesnaux, L ’Asia orientale nell’età dell’imperialismo, Torino, 1969, p. 20. 2S Si legga però V ittorio Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e salvezza dei popoli oppressi, Milano, 1960, pp. 160-167, che si sofferma in particolare sulT« etiopi- smo » e sul movimento afro-negro suscitato da Marcus Garvey, cui parteciparono Geor­ge Padmore e Jomo Kenyatta. Cfr. anche Angelo D el Boca, op. cit., p. 40. Manca uno studio particolare sul movimento nazionale etiopico; cfr. invece E.E. P ritchard, The Sanasi of Cyrenaica, Oxford, 1954.

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esterna del fascismo, italiano e internazionale. La guerra d’Etiopia com­porta, in un’area che andrebbe meglio definita, una rottura del prece­dente equilibrio fra le potenze coloniali occidentali e popolazioni di co­lore, così come comporta una rilevante modificazione dei precedenti equi­libri della società italiana su cui si era retto l’ordinamento fascista.

È vero che la breve durata del dominio e dell’espansione italiana in Africa Orientale — un dominio appena impostato e un’espansione molto costosa — ha spezzato talune possibilità di verifica e di studio, fino a ridurle talvolta a mere ipotesi di lavoro; ma rimane il fatto che questo unico e peculiare sbocco del fascismo europeo in una impresa africana di soggiogamento coloniale e razziale ha rappresentato un tentativo ma­turo, anche se parzialmente riuscito, di una politica di « spazio vitale » — in termini italiani di « posto al sole » — più vicina, non solo per questioni di cronologia, alla conquista e sottomissione nipponica del Manciu-Kuo che non alle precedenti spedizioni e acquisizioni coloniali italiane. Mentre il 1896 costituisce l’ultimo limite sul quale l’imperiali­smo « classico » di fine ottocento è costretto ad arrestarsi nella sua spin­ta verso una completa colonizzazione dell’Africa non mediterranea, il 1936 trasborda già sul piano di una assai più vasta programmazione eco­nomica, politica e strategica. Il calcolo di Mussolini poteva essere esat­to, ma non lo è stato, per l’abbandono che ne è conseguito degli inte­ressi italiani nell’Europa centrale: di qui l’interesse conoscitivo e pro­blematico a indagare tutte le pieghe della sua direttrice africana, delle sue prime suggestioni e radici ideologiche, delle sue origini immedia­te, delle sue manifestazioni e conseguenze, non soltanto diplomatiche. In realtà, il ritorno in Africa dell’Italia nel 1935 fa parte integrante di un movimento politico-intellettuale quanto meno europeo, che tende alla conquista di nuovi mercati, sia per il rastrellamento di materie pri­me, sia per l’impiego e la redistribuzione su piano internazionale della forza lavoro. Si tratta di un movimento che prende le mosse, più imme­diatamente, dalla depressione mondiale, che ha avuto i suoi momenti di dibattito anche in talune sedi della Società delle Nazioni e del Bureau International du Travail, registrando una parziale convergenza di posi­zioni — e uno scontro — fra i settori del capitalismo più avanzato e le zone del capitalismo meno sviluppato (come era appunto quello ita­liano), alla ricerca, quest’ultimo, di una garanzia territoriale alla propria espansione e alla soluzione della propria crisi. Una tendenza abbastanza generalizzata, che si è lasciata alle spalle tutta una letteratura che negli anni trenta ebbe un corso notevole88. È questo uno dei nodi fonda-

20 Cfr. per tutti il contraddittorio e curioso, ma anche significativo O tto Corbach, Mondo aperto, trad, it., Milano, 1932, che attacca l’« imperialismo coloniale » costituito e precostituito, nell’intenzione di far posto a nuove forze, asiatiche (Giappone) ed europee (Germania e Italia), inalveandole verso la colonizzazione. « I paesi d’Europa

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mentali che, nell’auspicabile ripresa e sviluppo degli studi (ma forse bi­sognerebbe usare a questo punto un termine più forte e comprensivo,, trattandosi di una problematica da affrontare quasi ex novo) sulla guer­ra d’Etiopia, si porrà necessariamente al centro di ogni ricerca comples­siva o settoriale — naturalmente in un ambito ideale capace di supe­rare ogni vestigia delle impostazioni tradizionali, di forte intonazione nazionale-italiana ed euro-centrica. Alcune ipotesi di lavoro possono, tan­to per fare un esempio e scendere sul concreto, essere formulate fin d’ora; e riguardano due diverse serie di problemi: a) di storia econo­mica (peso e politica del bracciantato e dell’agricoltura; pressioni mar­ginali ed espansionistiche del capitalismo coloniale in Eritrea e in Somalia; compenetrazione degli interessi politico-economici nella me­tropoli; atteggiamento di particolari gruppi finanziari ed imprenditoriali ecc.); b) di storia politica: essenzialmente l’incidenza e l’influenza del meccanismo di compenetrazione degli interessi politici e degli interessi economici, con particolare riguardo alle prospettive di una più lucrosa esportazione di capitali30. Il nostro discorso critico può dunque provvi­soriamente attestarsi sull’esigenza di una revisione innovativa di un ramo di studi finora troppo ancorato a vecchi, superati moduli inter­pretativi e di ricerca; una revisione di cui è divenuto oggi possibile in­dicare qualche punto essenziale di riferimento, quali il significato perio­dizzante che la guerra d’Etiopia assume all’interno della storia d’Italia durante il fascismo, e più precisamente rispetto alla parabola del regi­me, e una riconsiderazione articolata dell’imperialismo fascista nelle sue varie facce e fasi, nel campo coloniale, demografico, militare, e quindi anche istituzionale e ideologico. Varie ricerche particolari o anche un lavoro complessivo su quella che per l’Italia è stata o è stata consi­derata la «terza guerra d’Africa » (questa è, sostanzialmente, la tesi sbagliata) e che viceversa per l’Africa è stata uno dei momenti cataliz­zatori della prima fase del risveglio anticoloniale, potrebbero verificare l’insieme delle diverse ipotesi interpretative che si è cercato di porre a confronto.

dispongono di molti milioni di lavoratori disoccupati, un enorme numero di navi da trasporto è disarmato, nei paesi d’oltremare abbondano immensi tratti di terra non coltivata: in tutti gli Stati industriali una quantità di macchine è ferma: se si desse- lavoro anche solo ad una piccola parte dell’esercito dei disoccupati, queste macchine basterebbero a coprire i bisogni di molti milioni di coloni e di ampie terre vergini ». 30 Per quanto riguarda uno solo di questi punti, più attinente al quadro d’insieme qui tracciato e finora scarsamente noto e valutato, cfr. L'Africa orientale italiana e il conflitto italo-etiopico, studi e documenti raccolti e ordinati da Tommaso Sillani, Roma, 1936, con prefazione di Emilio De Bono (prima edizione, 1933) con notizie approssimative su investimenti pubblici e privati ed investimenti agricoli e industriali in Eritrea e in Somalia e con informazioni sull’attività bancaria e sul movimento della manna mercantile determinati dalla preparazione dell’impresa oltremare ecc.

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Per meglio chiarire questa problematica, appena abbozzata, conviene però ricordare come nel periodo fra le due guerre mondiali la crisi rivoluzionaria generalizzata apertasi nel 1917-1919 prima e poi la crisi economica insorta nel 1929 non solo avevano rimesso in discussione ovunque l’edificio deH’imperialismo coloniale, quale si era delineato su scala mondiale fra il 1890 e il 1900, ma avevano spinto i governi me­tropolitani e gli stessi organismi sovranazionali e internazionali a una revisione delle istituzioni coloniali nel tentativo di salvare il salvabile. Ma contemporaneamente, sempre intorno agli anni trenta, era venuto emergendo un nuovo gruppo di Stati imperialisti, caratterizzati da un diverso grado di sviluppo capitalistico, che appunto in quell’epoca si posero apertamente l’obiettivo della redistribuzione dei possessi colonia­li (o di tipo coloniale) e delle « materie prime», cercando, con la for­za delle armi, di risolvere dapprima in talune aree marginali, i proble­mi di rifornimento e di sbocco, fortemente condizionati nella metropoli, dalla ristrettezza o arretratezza del proprio mercato interno. In questo quadro, la guerra d’Etiopia non fu affatto una « guerra coloniale di tipo tradizionale », così come non lo furono nello stesso torno di tempo le guerre di espansione condotte o tentate in Asia dal Giappone prima del 1939 *\ Sorprende, in questo quadro, la sottovalutazione del problema, in riferimento alla questione etiopica, per più versi esemplate, anche da parte di storici dei movimenti di liberazione antiimperialistici "2. Tenen­do conto delle cifre ufficiali e parziali registrate a bilancio dal ministero per l’Africa, l’Italia avrebbe investito solo in Etiopia, dal 1936 al 1941, 1.500 miliardi attuali, prescindendo dagli investimenti privati e dalle società di colonizzazione e da altri impieghi indiretti; una spesa che ri­cadde per intero sugli strati subalterni della metropoli, in un periodo in cui, fra il 1937 e il 1938, si registrò una flessione dei salari valutata al 23,7% 3S. Insieme a questo enorme peso, che pure attivizzò e in parte rianimò per breve tempo, su un piano parassitario, l’industria e le atti­vità di esportazione e mercantili (fra il 1930 e il 1935 si verificò il massimo della concentrazione capitalistica prebellica e fra il 1935 e il 1939 prese corpo il primo sviluppo « moderno » dell’economia italiana) 31 32 33

31 Cfr. S.M. Slobodskoi, Storia del fascismo, Roma, 1962 (prima edizione russa, 194 5 ), p. 107. Per l’autore l’impresa etiopica « fu in realtà una guerra concepita dal fascismo come l’inizio di una nuova spartizione del mondo, come è provato dal fatto che essa non si dirigeva soltanto contro l’indipendenza del popolo abissino, ma anche contro la Gran Bretagna e le sue vie marittime di comunicazione con l’Asia, con l’India in particolare ».32 Cfr. Walter Markov, Sistemi coloniali e movimenti di liberazione, Roma, 1961, al capitolo relativo alla Prima fase della crisi generale del capitalismo (1917-1939), pp. 49-62. Piuttosto sfuocato risulta inoltre il capitolo dedicato all’Etiopia e alla guerra italo-etiopica del 1935-36 da Endre Si' k, Histoire de l’Afrique noire, tomo II , Budapest, 1964, pp. 317-331.33 Cfr. J.L. M iège , o p . cit., pp. 277-278.

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dopo il fascismo si è forse creduto di disfarsi altrettanto bruscamente, senza sensibili lacerazioni, della tradizione ideologica e del patrimonio storico ereditati dal « colonialismo ». Alla mancata esperienza di una decolonizza­zione realmente vissuta, contribuirono la scarsa capacità produttiva del­le colonie prefasciste e l’infimo grado di integrazione nell’economia nazionale metropolitana delle aleatorie risorse, ben presto sfumate, dei nuovi territori etiopici. Di qui, probabilmente, la successiva oscillazione fra la tesi della « superfluità » di un ripensamento critico dell’intero affare etiopico e, in circoli più ristretti, alimentati da ex combattenti ed ex residenti, la vaga letteratura celebrativa e nostalgica, più frequente e resistente di quanto comunemente si creda, cui si è fatto cenno.

Non è dunque un caso se l’attuale interesse per la storia emergente del terzo mondo si è lasciato dietro questo « vuoto » culturale. Da un lato ha operato diffusamente una sorta di « falsa coscienza » nazionale, per cui è invalso il costume ideologico di separare troppo nettamente il colonialismo prefascista da quello fascista; dall’altro il confronto con l’Etiopia o la Libia o la Somalia degli ultimi lustri (da cui pure, insie­me all’Egitto e al Sudan e anche al Kenia si era precocemente propaga­to il moto per l’indipendenza politica africana) non è stato, nè poteva essere così stimolante come lo sono state, per la storiografia francese più avanzata, per esempio, le vicende dei paesi di punta della lotta anticoloniale e antimperialista o anche la crisi del Congo. Il rilievo as­sume comunque un suo più preciso significato quando si volga lo sguar­do, almeno per un momento, alle manifestazioni letterarie e politiche, alle tesi culturali ed economiche, alle posizioni reali dell’attuale neoco­lonialismo italiano (un neocolonialismo che soltanto in minima parte si rivolge alle ex colonie prefasciste o fasciste, ma che proprio in Afri­ca ha trovato il suo principale teatro d’azione). Come ha osservato il Miège, è difficile valutare, in mancanza di dati precisi, ciò che soprav­vive nella coscienza collettiva di un’esperienza coloniale pur notevole: « Nella memoria delle nazioni nulla si dimentica del tutto, nè definiti­vamente » 3‘. Ora, per quanto riguarda il terreno e l’ambiente in cui so­no chiamati ad operare gli studi storici, l’unica — e ultima — questione di qualche rilievo tocca i punti di continuità e di rottura fra il pre­sente neocolonialismo italiano (del resto così poco analizzato, così si­lenzioso, attivo e diplomatico) e le vecchie forme e forze della prece­dente tradizione coloniale italiana4S. Mentre l’amministrazione fiduciaria 34 * * * * * *

34 Cfr. J.L. Miège, op. cit., p. 279, sotto il titolo Bilancio e conclusioni.3r’ In qualche caso si può notare una potenziale divergenza e una vischiosa continuità.Cfr. La singolare notazione di Vanni Mara vent ano, art. cit.-. « Come farebbe, adesempio, l’AGIP a mantenere il suo trenta per cento delle vendite di carburante inEtiopia se la storia dell’obelisco, ben orchestrata dall’interno, scatenasse un’ondataanti-italiana? », dove sembra che l’ideologia coloniale italiana abbia soltanto « cambia­to spalla al suo fucile ».

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italiana in Somalia e le propaggini economiche in Eritrea o in Etiopia o in Libia costituirono — fra il ’50 e il ’60 — un derivato particolare e parzialmente interlocutorio del vecchio colonialismo dello Stato italia­no, altre forme e forze della presenza italiana in Africa sono entrate a far parte integrante del quadro neocolonialista, emergendo gradualmen­te attraverso i mutamenti della società e dell’economia dell’Italia post­bellica: innanzitutto il legame sempre sempre più stretto (e « produt­tivo » ) fra il capitalismo metropolitano ( ed europeo ) e gli investimenti ad alto livello tecnologico ( questo è il principale punto di « novità » rispetto al passato, con tutte le conseguenze che ne derivano) operanti prevalentemente nell’Africa settentrionale e nell’Africa nera, nell’industria petrolifera e nelle grandi imprese di engineerings8.

Se nel campo tecnico e politico la rottura di qualità col passato colonialista e fascista è abbastanza evidente (ma andrebbe, certo, ulte­riormente specificata), non altrettanto può dirsi per gli elementi conco­mitanti, di sostegno ideologico e di propaganda, operanti al livello del­le moderne comunicazioni di massa, in una situazione che deve pur tener conto delle mutate condizioni politiche della metropoli e della incessante spinta alla emancipazione, democratica e socialista, del « Terzo mondo ». Ci sarebbe insomma da domandarsi se il vuoto culturale de­nunciato non corrisponda, in ultima analisi al malcelato ruolo neocolo­nialista che l’attuale capitalismo italiano condivide ormai col capitali­smo americano, britannico, sudafricano, tedesco, belga, francese, giap­ponese ecc., e se da un tale condizionamento, tutt’altro che « tradizio­nale », non discendano indirette conseguenze, a prima vista inusitate, nel campo della problematica scientifica, come nel campo dell’opinione pubblica3'. Ma a maggior ragione, concludendo, la storiografia italiana

s” Alcuni elementi di informazione diretta e indiretta possono ricavarsi (citiamo ad esempio) dall’articolo di Francesco Principe, L ’Africa, il Terzo mondo e gli ap­provvigionamenti petroliferi, in Avanti!, 30 luglio 1969, peraltro viziato da una tra­sparente vena di nazionalismo economico. Una tagliente e vigorosa denunzia dell’impe­rialismo economico italiano dell’epoca neocolonialista è invece in H osea Jaffe, La ri­voluzione contro il razzismo: il Sudafrica, Milano, 1969 («benché la maggior parte degli italiani non conosca o non ammetta questo fatto, l’Italia è tuttora un paese im­perialista », cfr. op. cit., p. 38).37 Così nelle pubblicazioni dell’industria, statale o privata, la vecchia ideologia del « lavoro italiano all’estero » è sempre in auge, ed anzi è stata rimessa a nuovo, e si ri­flette puntualmente nei frequenti servizi di « terza pagina » e nei rari editoriali che la stampa di informazione (e la stampa ufficiale specializzata in questioni di politica estera) dedica agli « aiuti » ai paesi sottosviluppati. Quando si parli poi dell’Etiopia — per tornare al nostro punto di partenza — il giuoco appare anche più scoperto, e l’ideologia postocoloniale e postfascista, tipica ormai di un paese « sviluppato » e « neo- capitalista », affiora ad ogni pie’ sospinto, con maggiore evidenza quando affiorano i ricordati elementi di transizione. Si veda, a questo proposito, l’ultimo servizio di Paolo Monelli, I l nuovo e l’antico nell’impero d’Etiopia, e in particolare la nota storico-autobiografica (che risale al 1936) inserita nell’articolo II gran patriarca del terzo mondo, in Corriere della sera, 17 agosto 1969.

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dovrebbe essere infine sollecitata da questa stessa realtà, dagli stimoli del presente (come sono ad esempio le questioni nazionali, regionali, sociali insorte in Etiopia e la radicalizzazione ideologica e politica in atto in Somalia e in Libia) e dai richiami dal passato, nonché dalla carenza dei nostri studi e dal confronto con i più importanti contributi stra­nieri (di cui abbiamo dato un ragguaglio solo per qualche lavoro più recente ) a rompere con quel silenzio e con quelle indulgenze sulla guerra d’Etiopia e il suo carattere imperialistico, insieme moderno e « anacronistico », che non avendo nulla a che fare con la serietà e l’equilibrio della ricerca e del dibattito interpretativo sono stati giusta­mente ed opportunamente segnalati dagli storici più attenti ed aperti.

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