Grazie a Maurizio ed Elena - Narrativa, libri per ragazzi ... · entrambi a un’imbarazzante età...

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Grazie a Maurizio ed Elena

Testo: Silvana De MariPubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag. Milano

Illustrazione di copertina: Nicoletta CeccoliProgetto grafico copertina: Rocio Isabel GonzalezProgetto grafico interno: Romina Ferrari

www.giunti.it

© 2016 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia

Prima edizione: ottobre 2016

Stampato presso Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche – Bergamo

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Silvana De Mari

La strega muta

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A tutti i folletti che nella martoriata storia del mondo hanno alzato le loro voci dolenti per le loro vite spezzate.

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Pecore e lupi

A rdo era il comandante della Brigata del Sud, soldato onesto e valoroso, finito a difesa di una frontiera tranquilla e polverosa. Nell’ar­

mata del Regno delle Sette Cime aveva arruolato il figlio, un bimbetto di soli cinque anni, il soldato più giovane mai visto e mai sentito. Il piccolo si chiamava Gartred, ma era un nome troppo lungo per un soldino di cacio, così fu riassunto in Gari.

Ardo non aveva trovato niente di meglio da fare, dopo la morte della moglie, che tirarsi dietro il bambino fino al Castello dell’Acqua Perduta, la vecchia costruzione che ospitava i soldati di guardia alla frontiera meridionale: torri smozzicate e muri diroccati, sotto un sole accecante che infuocava gli elmi e spossava gli animi.

Gari era il figlio unico di un matrimonio tranquillo e tardivo, un’unione creata dalla saggezza della sensale che aveva messo insieme un uomo e una donna giunti entrambi a un’imbarazzante età matura senza che nessun altro li avesse mai voluti.

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Un anno prima della nascita di Gari, la sensale si era presentata al Castello dell’Acqua Perduta, aveva chiesto del comandante e aveva dichiarato che non se ne sareb­be andata fino a che non lo avesse incontrato. Era una delle ultime rappresentanti del popolo dei nani: la sua età si perdeva in un intrico di rughe in mezzo alle quali i suoi occhi chiarissimi brillavano di azzurro e di verde. Si diceva che appartenessero alla sua gente conoscenze arcane e inquietanti, e fu anche per quello che nessuno osò cacciarla e che lei alla fine arrivò fino ad Ardo.

«Ho una zitellina che non è male» propose quando finalmente ce l’ebbe davanti. «Una pastorella, una crea­tura perbene».

La sensale era una minuscola figura avvolta in veli gri­gi, con ai polsi dei braccialetti fatti di campanellini e le movenze e la leggerezza di un passero, ma una voce pene­trante e ostinata che risuonò decisa nella stanzetta spoglia.

«Io non ho intenzione di prendere moglie» rispose asciutto lui, mentre si chiedeva come accidenti era riu­scita quella donnetta a convincere le guardie alla porta a farla passare.

«È una fesseria» gli spiegò con cortesia la sensale. «Tutti gli uomini devono avere una moglie. Nessuno deve stare solo. Essere in due è meglio così se uno cade l’altro lo aiuta a rialzarsi».

«Il mio compito è qui. La mia casa anche» replicò sec­co, nascondendo nella severità che quelle parole avevano risvegliato il desiderio, mai veramente sopito, di una vita meno ossuta.

«Voi ve ne state qui a fare l’eroe e lei ne se resta a casa sua a guardare le pecore, che mica le può lasciare sole, povere bestiole. Ogni tanto vi incontrate. A ogni luna voi

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vi levate la corazza, se no le pecore si spaventano e non fanno più latte, e andate a trovare la vostra sposa. Sarà un matrimonio fatto di giorni sparsi, sono quelli che vanno meglio, la lontananza per uno sposalizio è la situazione ideale: è più difficile avere alterchi, l’altro sembra sem­pre migliore quando è distante».

«Io sono stato ferito» disse alla fine il comandante im­barazzato. Aveva perso il braccio sinistro nella Guerra dei Due Inverni quindici anni prima. E poi zoppicava. Era per quello che non aveva mai osato offrirsi a una donna. E poi, anno dopo anno, l’idea era diventata sempre più difficile.

«Ferito non è la parola. Ferito è quando si perde san­gue ma poi l’uomo c’è ancora tutto. Voi vi siete perso dei pezzi per strada. È più che ferito» corresse la soave megera. «Però avete una buona paga. E poi che un uomo si sia perso i pezzi in battaglia non gli toglie molto. Co­munque sono venuta a dirvi che ho una zitellina, non una fanciulla in fiore. Se non ve la prendete voi, non se la prende nessuno. Non è giovane ma un figlio o due ve li potrebbe ancora dare. La volete?»

Il comandante era stato certo fino al mattino che sa­rebbe vissuto solo e sarebbe morto senza figli. Restò a lungo a fissare quella strana creatura che gli si era mate­rializzata davanti in un turbinio di veli grigi e campanelli a parlargli di una donna e di una casa. Fino a poche ore prima tutto quello era fuori dai suoi pensieri, ma a ogni istante che passava gli sembrava più irrinunciabile. Si rese vagamente conto che il rumore dei campanellini aveva qualcosa di affascinante, forse quasi di ipnotico, e che erano un elemento importante nell’arte logica della vecchissima piccola signora.

«In fondo perché no?» insisté ancora la sensale.

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«Già, perché no?» mormorò lui. La minuscola signora sorrise.«Sono quattro monete d’argento» comunicò giuliva.«Quattro monete d’argento? Quaranta soldi? È una

follia. È fuori discussione. Ci impiego un anno per gua­dagnarli. Perché diavolo dovrei dare a voi quattro mo­nete d’argento? Basta che vada al villaggio e mi cerchi una zitellina con tre pecore e posso risparmiare anche i cinque soldi, che onestamente vi avrei anche dato per pagarvi il disturbo di arrivare fin qui».

Ci fu un vero tripudio di risatine e scampanellii in risposta. Al comandante non sembrava di avere detto niente di così esilarante.

«Si paga l’idea. Se io non avessi avuto questa idea, avreste continuato a vivere una vita piena di nulla, perché dove un uomo non incontra una donna è il nulla. Prima o poi voi morirete, e quando si muore quello che fa la differenza è chi piangerà la nostra morte. Quando ve ne andrete, grazie a me lo farete lasciando una progenie. Questo darà senso alla vostra morte, quindi darà valore alla vostra vita. Quel giorno, vi assicuro, sarete felice di queste quattro monete d’argento. Quando paghiamo caro qualcosa che non ha prezzo, abbiamo comunque fatto un affare. Dovete avere una sposa e una discenden­za. Quando l’Oscuro Signore attaccherà di nuovo non dobbiamo farci trovare soli».

«Che l’Oscuro esista è una superstizione di vecchie signore» obiettò il comandante.

«Io sono una vecchia signora, molto vecchia, più di tutti gli alberi che avete mai incontrato sulla vostra strada. La mia memoria è più antica della loro. Non vi fate illusioni. L’Oscuro esiste. Attaccherà. Ha cercato di

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prenderci con la forza e ha fallito. Ora userà altro. Ve ne accorgerete. Quando il fratello tradirà il fratello, quando lo sguardo dell’amico diventerà obliquo, allora saprete che il lupo è dentro l’ovile. Quando l’Oscuro attaccherà, sarete felice di queste quattro monete d’argento».

«Sarò felice anche se saranno solo due, e anche così sarà stato dannatamente caro» riuscì finalmente a dire il comandante.

La vecchia signora non mollò, le monete furono quat­tro e finalmente l’affare si concluse.

•Il matrimonio fu celebrato in un’assoluta semplicità.

Nella piccola casa, la più modesta di uno sperduto villag­gio di pastori punteggiato di ovili, un quieto imbarazzo restò sempre tra i due coniugi, inevitabilmente diluito dalle assenze del comandante per l’inutile pattugliamen­to di una frontiera polverosa e assonnata.

Fu solo dopo la morte della sua sposa che l’uomo si rese conto dell’infinita voragine che quella presenza ti­mida aveva lasciato. Gli mancò lo schivo sorriso con cui lei metteva in tavola un delizioso stufato di chiocciole e panna acida di cui deteneva la ricetta, l’impacciata dol­cezza della loro intimità, il suono delle buffe fiabe con cui lei addormentava il loro bambino.

Un giorno era tornato alla piccola casa con la bisaccia piena di piccoli doni, fave, noci, un telo di lino azzurro da trasformare in una nuova veste, e aveva trovato ad accoglierlo i veli neri del lutto, il singhiozzare disperato di suo figlio, le annoiate condoglianze del capo villaggio e dei pochi vicini.

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È nel deserto che si comprende il valore dell’acqua e, in quel deserto che era diventato improvvisamente la sua vita, lui decise di non ripetere l’errore di vivere lontano da chi amava senza averlo sempre sotto gli occhi.

La febbre gli aveva portato via la sposa mentre era di­stratto e distante. Non avrebbe mai più allontanato Gari dal suo sguardo: lo avrebbe tenuto sempre con sé.

Sprangò la casa, vendette le poche pecore e il piccolo ovile e spiegò agli attoniti sottoposti e ai lontani superiori che il bambino avrebbe fatto parte della guarnigione: si trattava di una scelta obbligata, non essendoci vicine, so­relle o cognate a cui affidarlo. Assicurò che in quel mare di nulla che era il loro dimenticato e oscuro ufficio, Gari non avrebbe infastidito nessuno, né corso alcun rischio, non avrebbe spostato di un pollice la vita dei militari.

Su questo si sbagliò. La presenza del bimbo fu un im­provviso alito di brezza primaverile, una scintilla di viva­cità che riportò il fuoco. Evitò l’abbrutimento che la noia e l’inutilità seminano nell’animo degli uomini quando il loro naturale istinto a costruire e a fare si impolvera.

Gari giunse alla guarnigione accompagnato dal padre, con alle spalle la morte della madre e una vita corta e quieta nella casa più modesta di un modesto villaggio di una modesta contrada, dove l’unica compagnia e l’unica ricchezza erano modesti ovili di pecore.

Non avendone mai visti altri, i soldati gli sembrarono un gioiello di ordine, le loro arrugginite armi il paradig­ma della potenza, le povere corazze fatte di piastre di cuoio bollito tenute insieme con tendini di pecora un esempio di bellezza geometrica e di incastro. Le sbracate uniformi erano comunque più belle, più grandiose, più somiglianti le une alle altre degli stracci dei paesani, le

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spuntate alabarde più epiche dei forconi, i due smunti cavalli infinitamente più grandi e maestosi delle pecore, e persino dell’unico asino che c’era al villaggio, che era stato la bestia più grossa che Gari avesse mai visto. Per quanto ammaccato, era pur sempre un castello il posto dove quello splendore si manifestava.

«Siete di una splendida magnificenza» osò sussurrare quando per la prima volta li vide, dopo averli osservati a lungo, con la bocca semi aperta, gli occhi sbarrati per la meraviglia, con un’ammirazione totale.

Quell’unica frase fece il miracolo che generazioni di comandanti non avevano nemmeno osato sognare, che uno stillicidio ininterrotto di rimbrotti e punizioni non avevano nemmeno iniziato.

Lo sguardo incantato del bambino aiutò l’annoia­ta guarnigione a riscoprire il decoro. Tutti gli inutili guardiani di una frontiera in pace si sentirono improv­visamente investiti del compito del buon esempio, che infranse il tedio. Perché l’ammirazione non fosse imme­ritata, cominciarono a essere più attivi. Inevitabilmente scoprirono come il fare fosse in fondo più divertente del non fare e la ricerca della perfezione più appassionante della resa alla sciatteria, essendo l’animo umano portato a perdersi nell’inutilità e a ritrovarsi nella capacità di modificare il mondo.

Il vecchio castello fu riscattato dalla ruggine, sovrana assoluta e invincibile, che aveva lentamente e inesorabil­mente invaso le alabarde, le spade, i cardini delle porte, e le loro anime di guerrieri. In effetti, anche se lo avevano scordato, tutti loro avevano avuto un’anima di guerriero, una scintilla di eroismo che aveva brillato il giorno in cui avevano deciso di prendere le armi, insieme ad altre

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considerazioni, certo, la necessità del soldo, la sicurezza del rancio. La ruggine quindi cominciò a indietreggiare e perse una guerra che ormai considerava vinta per sem­pre: fu cacciata dalle alabarde, dai cardini, dalle spade, e dai cuori.

Mostrarsi al ragazzo come lui li aveva visti in quel pri­mo istante divenne la nuova natura. Gli acciai furono lucidati, gli ottoni pure, il pavimento spazzato con una incredibile regolarità e commovente accuratezza. Il ne­cessario addestramento del bambino impegnò tutti gli uomini che così tennero lucida, come gli ottoni e gli acciai, anche la loro capacità di sorreggere la spada.

Le lezioni di tiro con l’arco rimpolparono il rancio, con bisce, sorci e conigli selvatici. L’addestramento con l’ascia riempì il cortile di ordinate cataste di legna taglia­ta con puntigliosa regolarità. Dopo il duello e il corpo, a corpo si passò alle regole del perlustrare e quindi allo studio della strategia: quali erano i punti dove nasconde­re gli uomini per un agguato in caso di attacco, in quali punti il terreno era troppo molle per sopportare carri e cavalli, quali passi potevano essere chiusi causando una frana.

Il compito della brigata era proteggere da sud l’acces­so alla Porta del Cielo, il passo da cui si accedeva alla valle tonda come una scodella che costituiva il piccolo Regno delle Sette Cime. Le montagne si stagliavano a nord, nei giorni limpidi si riusciva anche a vedere il loro magnifico color verde, che sovrastava il giallo polveroso della loro piana. Dopo di loro, ancora appartenente al regno, c’era un deserto punteggiato da torri di roccia scavate dal ven­to, interrotto solo da una striscia verdissima, la Valle degli Zampilli, dove l’acqua scorreva in abbondanza, talmente

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buona che la superstizione del popolino affermava aves­se capacità benefiche contro le potenze del male, e che guarisse anche piccoli malanni, come i calli, il mal di denti e i sogni cattivi.

«Superstizione del popolino un accidente. Se non era­vamo scemi, ce ne procuravamo un po’ di quella roba e ce la tenevamo qui al castello, che non si sa mai» bofon­chiava Baio, il vicecomandante, l’uomo più anziano della brigata, parlando piano per evitare il sarcasmo.

E dopo la strategia, Gari apprese la cavalleria. Gli uomini, tutti, spiegarono che si combatteva con lealtà, si combatteva per salvare il regno, per salvare le donne e i bambini, che erano l’onore del mondo, l’onore del guerriero. Gari veniva da un villaggio di pastori, quindi parlarono di pecore perché capisse: il Regno delle Sette Cime era l’ovile, loro i cani da pastore e i lupi si sperava non venissero mai, nel caso loro li avrebbero fermati, come già il passato li avevano fermati, come sempre li avrebbero fermati. Avevano fermato i lupi quando erano arrivati da tutte le parti, al tempo di re Ari, e quando il re era morto lasciandoli soli, avevano combattuto la guerra detta dei Due Inverni.

«Eravamo al comando del re Mago, il padre di re Ari, e di nuovo abbiamo vinto. Io non ero qui. Ero al nord, con Baio, dove sulle montagne abbiamo fermato le orde dei barbari. Erano enormi. Con la spada non li fermavi, ci voleva un’ascia. Il mio comandante si chiamava Dar­tred, era un grande comandante, per questo ti ho chia­mato Gartred. La tua mamma lo ha accorciato in Gari. Mi hanno mandato qui dopo che ho perso un braccio e mi sono azzoppato. Per tenere un’ascia ci vogliono due mani. Qui la guerra era più mite, di braccia ne poteva

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bastare una. Baio mi ha accompagnato perché dovevo appoggiarmi a qualcuno, da solo non ce l’avrei fatta» spiegò Ardo al bambino che lo guardava felice e pieno di adorazione per quelle confidenze magnifiche.

•La piccola guarnigione rimase forte e compatta, atten­

ta e sveglia. Gari divenne un soldato, piccolo ma perfetto. L’unico suo difetto era la mancanza di difetti. Non aveva avuto coetanei commilitoni, non aveva dovuto subire in­giustizie: non aveva sviluppato nessun tipo di ironia, non aveva la protezione del sarcasmo. La sua mente era piena di un’idea di perfezione assoluta: nessun ordine poteva essere sbagliato, nessun dubbio poteva essere concesso. Restavano solo, come unica strada alla felicità dell’uomo, la serenità dell’obbedienza e la letizia del compiere il proprio dovere.

Il mondo era bello, la vita era facile. Bastava eseguire gli ordini e farlo al meglio.

L’attesa di un nemico divenne quasi spasmodica. In un certo senso era una delusione per Gari che nessuna prova al suo eroismo si presentasse. I racconti di suo pa­dre e di Baio sugli episodi della guerra che quasi due lustri prima aveva insanguinato il mondo, si arricchivano ogni volta che venivano narrati particolari nuovi, che si incastravano con tutte le altre storie, quelle che gli uomi­ni più giovani avevano sentito dai padri e dai nonni. In tutto quel raccontare, aggiungere, smussare e infiocchet­tare, ingigantire, inventare, la Brigata del Sud agli ordini del vecchio re Mago che inchiodava gli eserciti invasori alla Porta del Cielo, il passo da cui si accedeva al piccolo

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regno, divenne un’epopea fantastica, una sorta di poema epico inarrivabile, una nuvola di eroismo fatta di oro e valore. Gari sognava solo il momento in cui avrebbe potu­to combattere. Prese l’abitudine ogni giorno, ben prima dell’alba, alle primissime luci dell’aurora, di arrampicarsi sul pennone dello stendardo che si alzava sulla torre per scrutare, il cuore gonfio di speranza, l’eventuale presen­za di un qualsiasi pericolo, ma l’orizzonte rimase ottusa­mente vuoto, privo di ogni tipo di nemico. Suo padre e gli altri uomini non condivisero mai la sua delusione, e gli spiegarono che, se il regno era un ovile e loro ne era­no i cani da pastore, le pecore stavano meglio se nessun lupo era nei paraggi. Convinsero la sua mente, ma il suo cuore di bambino, che in realtà non aveva mai visto un morto ammazzato in vita sua, restava a fantasticare delle armate che lui avrebbe fermato.

Tutto il tempo libero Gari lo impegnò nel tiro con l’ar­co: era l’unica attività guerresca dove poteva esercitarsi da solo, oltre ad essere l’unica che rimpolpasse la zuppa. Anno dopo anno divenne un arciere sempre più bravo, in grado di calcolare il vento e sottrarlo, e sempre più forte, in grado di non perdere precisione nella distanza. Tutta la guarnigione cominciò a essere fiera di lui.

Poi, tutta la serenità si infranse un’infernale notte durante la quale meteore rossastre solcarono il cielo, riempiendo il cuore di chi aveva osato guardarle di tale orrore e dolore, che la morte sembrava una liberazio­ne. Come sempre Gari si svegliò all’aurora per scrutare l’orizzonte nella speranza di un qualche pericolo immi­nente, ma non riuscì a raggiungere il tetto. Suo padre lo fermò nel cortile e lo strinse a sé, coprendogli gli occhi con le mani perché non guardasse, ma lui ugualmente

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riuscì per qualche istante a scorgere uno di quegli strani astri nella loro luce ripugnante, che per sempre rimase impresso nella sua memoria. Capì che un incantesimo tragico e mostruoso stava avvolgendo il piccolo regno: erano sotto attacco e non potevano fare nulla. Baio disse di nuovo che sarebbe stata una bella cosa avere un fia­sco di Acqua Sacra, e la sua voce si perse in un silenzio attonito. Gari sentì il cuore che si vuotava di ogni gioia, della speranza stessa di poterne avere, come quando era morta la mamma.

I giorni successivi tutti sperarono che una qualche pa­rola arrivasse a rassicurare e spiegare, a dare un senso, ma il cuore del regno, la capitale, restò a lungo chiuso e muto. Poi, finalmente, si presentò un messo con una pergamena fermata da un sigillo color oro, quello delle comunicazioni reali.

C’erano una notizia cattiva, il re Mago era morto, e una notizia buona: ora il sovrano regnante era la princi­pessa Haxen, la figlia del re Ari, che tutti sapevano bellis­sima, piena di onore e coraggio, splendida di dolcezza e cavalleria. Gari sentì il suo cuore riempirsi di amore per lei, che divenne nella sua mente il simbolo di tutto quello che al mondo aveva un valore, l’amore di sua madre, il profumo del vento sulle colline, il belare degli agnellini, lo splendore dell’aurora: tutto si riassunse nel suo amore per lei che era il suo comandante e il suo sovrano. Per lei avrebbe potuto dare la vita ogni istante, senza il minimo rimpianto, anzi con la felicità che la sua esistenza non avrebbe potuto avere conclusione migliore.

La vita riprese. Ogni tanto sull’orizzonte immobile ap­pariva un messo reale con una pergamena, sempre con il sigillo, ma sempre giallastro color ocra, un colore smorto

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e stinto. Uno chiedeva di diradare la carne nel rancio per risparmiare qualcosa. Un altro ordinava di portare i cavalli a brucare, così da non dover più acquistare il fieno. L’impressione fu che il regno si stesse impoveren­do, si stesse muovendo con lentezza e decisione verso una miseria stagnante e grigiastra, o forse erano loro, la Brigata del Sud, a non essere considerati abbastanza importanti da spenderci qualcosa. Poi a lungo non arri­vò più nulla, l’orizzonte restò vuoto e alla fine, il giorno del settimo compleanno di Gari, finalmente, comparve un messo con una pergamena col sigillo rosso, come il sangue degli eroi: ordini militari.

Il momento della guerra era arrivato.

•Gari fissò a lungo quel sigillo, senza poter distogliere

lo sguardo, fino a quando suo padre non lo ruppe per poter srotolare la pergamena. Forse avrebbe potuto com­battere per la principessa Haxen, difenderla da ogni ne­mico, morire per lei. Giurò sulla memoria di sua madre che lo avrebbe fatto.

Di fronte alla brigata radunata nel piccolo cortile lin­do come il cielo d’estate, il comandante lesse il lunghis­simo dispaccio, dopo averne rotto il sigillo scarlatto, con una voce sempre più disperata e allibita.

Nemmeno nei sogni più assurdi, quelli che si fan­no prima dell’alba, dove nulla ha un senso e tutto è angoscia, ogni realtà è ribaltata e ogni legge di natura negata, come in uno specchio rovesciato dove il bianco diventa nero e il nero bianco, c’era mai stato niente di così folle.

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La notte delle meteore un demone aveva violato la principessa Haxen. E lei, che era stata la speranza del re­gno, l’erede dell’onore e del coraggio, ne era impazzita. La sua mente si era dispersa nel male e aveva rifiutato la necessità ovvia di sopprimere la figlia demoniaca. Quindi ora gli ordini erano fermare la principessa, trovare la bambina e ucciderla.

Quando la voce del comandante si azzittì, restarono le mosche a riempire il lunghissimo silenzio sulla terra scal­data dal sole. Gari aveva la bocca arida, gli occhi asciutti perché un soldato non piange, ma l’anima era lacerata e vuota come il giorno che era morta sua madre. I lupi dovevano venire da fuori e lui avrebbe versato il suo san­gue per fermarli. E invece no. I lupi erano dentro l’ovile, travestiti da agnelli.

Qualsiasi cosa succedesse, dovevano salvare i bambini. Qualsiasi cosa succedesse dovevano salvare la principessa. Questo era stato l’oro di eroismo e fede e lealtà che da sempre era su di loro. L’orizzonte aveva smesso di essere immobile, un messo era comparso, con un sigillo color del sangue e tutto si era infranto.

Per la seconda volta Gari vide crollare il suo mondo. La morte di sua madre era stata la prima, ma la cavalleria era riuscita a riempire il vuoto terribile della sua man­canza. Quel giorno era morta la cavalleria, la sua unica ragione di vita.

Sentì suo padre dare gli ordini, dove mettere le senti­nelle, come fare i pattugliamenti. Non per eserciti nemi­ci, non per fermare l’invasione, ma contro la principessa del suo popolo e la sua bambina.

«Non sembra un compito difficile» disse alla fine il comandante.

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Difficile forse no. Orribile. Per evitare che si sbagliassero, magari non per colpa

loro, solo perché non erano abbastanza, la Brigata del Sud sarebbe stata unita a quella dell’Est, ben più nume­rosa, inglobata in questa, agli ordini del suo comandante, tale Kinnik.

Il padre di Gari si fermò dopo aver letto queste righe, perché sia lui che i suoi uomini avessero il tempo di ca­pirne il significato: il comando della difesa del sud non apparteneva più a lui, sarebbe stato uno dei tanti ufficiali.

Lentamente, sillabando quasi, lesse gli ultimi avver­timenti.

La piccola era bellissima, dimostrava più anni di quelli che aveva, il complice della principessa si chiamava Dar­tred ed era già stato catturato. Su quel nome, Dartred, la sua voce inciampò proprio, si fermò, ricominciò di nuovo e finalmente riuscì a pronunciarlo in maniera completa.

Baio era dietro a Gari, in fondo al cortile, il più vec­chio e il più giovane uno di fianco all’altro.

«Che idiozia!» mormorò. «Io e tuo padre con questo Dartred ci abbiamo fatto la guerra al nord, te l’abbiamo raccontato mille volte. Se non era per lui eravamo tutti morti e se eravamo morti noi vuol dire che anche il regno era finito nello schifo».

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Una cella grossa come una bara

M entre aspettava di essere impiccato, den­tro una cella poco più grossa di una bara, Dartred, il guerriero figlio di un fabbro,

ebbe per la prima volta il tempo per pensare alla sua vita. Aveva avuto una vita piena: piena di tutto, di amore, dolore, dolcezza, di pena. Era nato figlio di un fabbro, era stato addestrato all’arte della metallurgia da Rastrid il nano, che ne era il re, e a quella della guerra da re Ari in persona, forse per questo da sempre amava sua figlia, Haxen. Quando la principessa era fuggita via dalla sua reggia, sola, sottraendosi alla vista di tutti, lui se ne era accorto e l’aveva seguita.

Quando finalmente Dartred l’aveva scorta in fuga sul suo cavallo, con il cappuccio del mantello color indaco che le celava il viso e i capelli colore del miele di ca­stagno, lei nascondeva qualcosa con sé, qualcuno anzi, una bambina, una bambina bellissima e muta, con un marchio sul polso: la figlia dell’Oscuro Signore, da lei concepita quella notte stessa, perché l’Oscuro Signore

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non era una quieta superstizione di vecchie signore, di nonne sdentate e di anziane zie nubili, ma una realtà tre­menda che aveva deciso di dannare il mondo attraverso il ventre della principessa dell’ultimo lembo di terra che stava resistendo.

Dartred lo aveva scoperto, aveva deciso di combattere per lei, con lei, al suo fianco e ai suoi ordini e finalmen­te la sua vita che era allo sbando aveva trovato il senso, essere il suo scudiero, proteggerla a costo della vita ogni istante, l’unico significato, senza il quale sarebbe rimasto solo a trascinare giorni vuoti uno in fila all’altro, fino al giorno successivo, affinché arrivasse l’ultimo. Per lei avrebbe dato la vita e, a mano a mano che una qualche quotidianità tra di loro si era formata, quel legame di suo scudiero era diventato totale.

Quando si ritrovò in una delle celle della città di Kaam in paziente attesa di essere impiccato, ci restò male. Es­sere impiccati, levare il disturbo della propria presenza nel mondo soprattutto in un momento come quello, in cui era ferocemente innamorato di una donna che ave­va disperatamente bisogno di lui, era un’ipotesi difficile da sopportare. La cella era una bara verticale, i pestaggi terrificanti persino per lui che non era un pivello in quel campo. Terrificanti proprio nel senso che generavano terrore: ogni volta che sentiva dei passi nel corridoio, l’addome si contraeva per l’orrore e la nausea, e sempre più difficile e stinto era il sorriso beffardo con cui lui ac­coglieva i carnefici. La sua vita gli serviva come non mai, e stavano per togliergliela.

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Se lo ammazzavano non poteva più proteggere Haxen, che era figlia del suo re, e che anche se fosse stata figlia di un mendicante avrebbe ugualmente riempito ogni istan­te di lucidità della sua mente, non poteva starle vicino nel momento in cui lei aveva bisogno di lui, non poteva più sognare il sogno folle di essere il suo uomo.

La sentenza era stata emessa il giorno stesso del suo arresto, l’esecuzione rimandata di una luna per motivi coreografici e di ordine pubblico. Occorreva dare tempo alla popolazione di radunarsi e non perdersi lo spetta­colo, e occorreva essere certi, assolutamente certi, che Haxen e l’infernale bambina che aveva messo al mondo fossero messe in condizioni di non nuocere, nel luogo dove ogni possibile pericolosità si arresta, vale a dire sei piedi al di sotto delle radici dell’erba. Fino a quella cer­tezza, meglio averlo vivo a fare da esca o da ostaggio o anche da scambio: fino a quando le due erano in vita lui aveva un qualche valore da vivo. Vivo, non integro. Anche da ammaccato, valeva lo stesso, quindi sulle am­maccature non risparmiarono.

Perché non si godesse troppo il rinvio, Dartred era stato messo in quella cella che era una bara. Le pareti erano gelide e grondavano acqua, la porta non l’apri­vano quasi mai se non per i pestaggi, e qui c’era una certa logica, dato che lo nutrivano pochissimo e molto di rado, le sue deiezioni erano ridotte al minimo e que­sto era un vantaggio per il minuscolo pavimento. Poteva stare in piedi e accucciato, ma da accucciato lo spazio era veramente poco, le ginocchia gli premevano contro il torace e i piedi dovevano essere curvati all’interno, e poi c’erano le deiezioni, quindi Dartred finché poteva cercava di stare in piedi. Dopo la prima luna, Dartred

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era stato talmente tanto picchiato che il suo leggendario coraggio era scivolato via, lui non riusciva più nemme­no a ricordarsi di essere stato un grande guerriero, il Temerario, quello che da solo aveva rovesciato le sorti della Guerra dei Due Inverni quindici anni prima, non ricordava più di non aver mai perso uno scontro, non ricordava di non aver avuto paura di niente: ogni passo nella direzione della sua cella lo terrorizzava, quindi nel buio totale che lo circondava attendava quietamente che il tempo passasse, mentre la sua mente si perdeva sempre di più in meandri insensati.

Aveva completamente perso il senso del tempo quan­do improvvisamente arrivarono le lucciole.

Quando la prima bestiola si materializzò nel sotterra­neo il suo piccolo chiarore ferì i suoi occhi non più abi­tuati alla luce, nel buio assoluto una sola lucciola brilla di una luce sfolgorante.

Poi le lucciole divennero un esercito e la sua mente pensò di essere scivolata definitivamente nell’irrealtà. Passavano dalla minuscola apertura della porta in fer­ro e dovevano essere arrivate percorrendo i sotterranei, un luogo folle per delle lucciole, quindi guidati da una volontà feroce. Le lucciole si disposero sulle pareti della sua cella formando la frase:

RESISTI ARRIVIAMO H e H

I suoi occhi restarono a lungo su quelle due H. Se le lucciole esistevano davvero, non erano un prodotto della sua mente in disfacimento per la sete e il dolore, allora voleva dire che la bimba aveva dei poteri e che li stava

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usando al servizio della madre. Il dolore scomparve, la paura anche. Era di nuovo lui, Dartred il Temerario. La speranza dimenticata risorse dal fondo della sua anima e divenne potenza. La sua principessa era ancora viva, e l’oscura bambina che lei aveva generato aveva deciso di usare la sua magia per battersi al suo fianco.

Dartred restò a guardare a lungo la scritta, che improv­visamente si dissolse, come se la mente che le controllava avesse perso ogni potere. Un tafano enorme apparve da­vanti a lui. Con il nero immobile del suo corpo spiccava sulla luminosità vibrante e sparpagliata delle lucciole.

Dartred pensò che anche la sua presenza in un sotter­raneo era bizzarra, come quella delle lucciole. Non fece in tempo a chiedersi se la bestia esistesse nella realtà o nella sua follia. Il tafano lo colpì sulla fronte, iniettan­dogli un tale quantitativo di dolore e veleno che la sua testa si spostò violentemente all’indietro e andò a urtare il muro dietro di lui. Dartred restò per parecchi istanti tramortito e ne fu quasi contento, perché quel colpo sulla nuca aveva tolto lucidità al dolore che provava sulla fronte, che era insopportabile, indescrivibile, e che lo riempì di una nausea violenta che non aveva mai provato. Tutto perse di importanza: il suo affetto per Haxen, il desiderio di restare in vita. La sua mente era solo nausea.

Rimase immobile, accoccolato nelle proprie deiezio­ni, con il terrore che la bestia potesse colpirlo di nuovo che gli attanagliava le viscere. Aveva guidato un’armata, aveva abbattuto la più terribile delle tigri, aveva protetto la sua principessa, tollerato una reclusione tremenda: non gli importava più nulla di nulla.

Pochi istanti dopo, la porta si spalancò e comparvero Hania e Haxen circondate da una nuvola di lucciole.

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«Sono venuta a liberarvi, signore» disse la principessa ridendo. Gli occhi le brillavano, era bella più che mai. Al suo fianco c’era la bambina, con i capelli sciolti sul­le spalle, anche lei splendente di una nuova bellezza. «Siamo venute a liberarvi» corresse Haxen. «Io e la mia bambina insieme».

Lui era libero. Lei era viva. La bambina era diventata buona o qualcosa del genere.

Riuscì a bofonchiare che era contento, e anche per quello dovette fare uno sforzo. Tutto era dolore e nau­sea, e dentro di sé covava la certezza assoluta che tutto sarebbe stato sempre dolore e nausea, gli sembrava im­possibile che il dolore e la nausea potessero diminuire. Tutto il resto, Haxen, Hania, essere vivo, essere libero, era uno sfondo sfocato e indistinto.

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Principessa di un regno perso

H axen, principessa del Regno delle Sette Cime, aveva portato avanti la gravidanza di una bambina fatta di tenebra, concepita nel

suo ventre da un demone perché sia lei che il mondo fossero dannati, e aveva vinto una guerra che sembrava disperata. Aveva affrontato quello stesso Oscuro Signore in un folle duello pochi giorni prima, e aveva sfiorato la morte, e alla fine aveva vinto, aveva vinto perché la sua bambina aveva combattuto con lei. Lei aveva vinto. E Dartred con lei.

Haxen rimpianse la voce di suo padre, che l’avrebbe riempita con la sua fierezza, se fosse ancora appartenuto al mondo dei vivi. Sua madre ne faceva ancora parte e an­che lei ne sarebbe stata lieta, quando lo avesse saputo, da lì a poche settimane, il tempo di riattraversare il regno.

Certamente lieta. Ovviamente lieta. Senza alcun dub­bio lieta. Un po’ perplessa forse per quella figlia che tornava a casa abbronzata come un contadino, con dei muscoli che avrebbero fatto invidia a un carrettiere,

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tirandosi dietro lo scudiero, già figlio del fabbro, che prima o poi, e più prima che poi, si sarebbe trovato nel ruolo di principe consorte.

Lieta senz’altro sua madre, e perplessa, anche, ma forse la peggiore non sarebbe stata lei, ma la balia. E la cuoca. Alle dame di compagnia preferiva non pensare nemmeno, ma lei aveva deciso di concedersi al guerrie­ro più valoroso che avesse incontrato sulla sua strada e questi era il figlio del fabbro. Quindi alla reggia che se ne facessero una ragione.

E comunque le principesse aumentavano di valore quando erano candidamente prive di ogni conoscenza della vita. Dopo che erano state costrette da un demone a concepire una bambina muta con un marchio di odio sul polso, impalmarle diventava meno appetibile, quindi alla reggia si sarebbero adattati.

Haxen era una principessa, un cavaliere, certo, ma era anche una donna che, mentre era braccata e in pe­ricolo, era stata soccorsa da un uomo che aveva messo ai suoi piedi la sua vita e la sua forza, e questo era più importante della casta, della differenza delle famiglie e degli antenati. Tra l’altro, tutte le case regnanti erano nate generazioni prima da un qualsiasi guerriero parti­colarmente energico che aveva vinto qualcosa.

Sapeva che sua madre era stata talmente straziata dal temerla morta, che il saperla viva l’avrebbe riempita di gratitudine per l’uomo che aveva permesso il miracolo al punto da perdonarne le origini, ma, dato che era anche una persona di buon senso, sapeva che a ogni dama e cavaliere della piccola corte si sarebbero drizzati tutti i capelli sulla testa, per quanto straordinario fosse il valore del guerriero.

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Sarebbe stato grazioso, una estrema forma di corte­sia, offrire qualcosa di cui spettegolare, un argomento di discussioni fatte sottovoce e negli angoli. Quelli delle Sette Cime erano una casata che a volte esagerava con il coraggio e la lealtà, rischiavano di risultare antipatici a furia di essere straordinari, di tanto in tanto bisognava fare la gentilezza di presentarsi un po’ sgualciti, con una macchia di erba sulla veste chiara, una macchia di fango sui calzari nuovi, soprattutto se il fango e l’erba erano legati all’essere vivi e all’essere lieti. O all’essere giusti. Subire la violenza di un demone, non uccidere la figlia che ne era nata, e anzi trasformarla in un guerriero della giustizia era come presentarsi pieni di sangue per aver combattuto e protetto il castello, mentre gli altri usava­no il tempo per danzare e mangiare dolcetti. Sposare il figlio del fabbro era come presentarsi con le macchie di fango sui calzari, l’erba sulla veste, innocui peccati che davano qualcosa da dire a chi non aveva avuto in sorte la capacità di pensare.

Haxen sarebbe tornata alla sua reggia, trionfante, vit­toriosa. La regalità, le lenzuola pulite, i grandi camini a riscaldare le notti, le grandi tavole imbandite a riempire le giornate di pioggia e di freddo. I suoi terribili mesi di fuga e miseria erano finiti come finita era l’angoscia. Lei era Haxen delle Sette Cime e aveva vinto l’Oscurità e le Tenebre, e ora stava salvando il suo scudiero, il suo cavaliere, il padre dei suoi futuri figli, in principe con­sorte del regno.

«Vi ho riportato la vostra ascia» disse Haxen euforica a Dartred. «Era nella stanza degli armigeri di guardia. Li abbiamo ridotti all’impotenza con una facilità estre­ma, Hania ha scatenato contro di loro migliaia di topi. È

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stato divertente, sapete? Abbiamo recuperato l’ascia e li abbiamo rinchiusi dentro le loro stesse sale di guardia. Purtroppo non ho idea di dove sia la vostra spada. Venite, ce la fate a camminare?»

Dartred grugnì qualcosa. Era irriconoscibile. Non era solo un ammasso di ossa, pelle scorticata, sudiciume e tanfo: c’era qualcosa di spento, qualcosa di malato.

Si trascinò dietro di lei. La bambina trotterellava da­vanti a loro. Le porte si aprirono una dopo l’altra. Hania posava la sua manina sul chiavistello e con immediata precisione arrivava il clank del meccanismo che si apriva.

Finalmente arrivarono all’ultima: fuori di lì la libertà, il restare vivi.

Hania posò la mano sul chiavistello e non successe niente. Corrugò la fronte e provò di nuovo e poi ancora di nuovo, ma la serratura rimase ottusamente immobile e in silenzio.

«È stanca» spiegò Haxen. «È stravolta, non ne può più». Dartred confermò con un assenso. Aveva ancora in

mano la sua ascia: scostò con un gesto cortese la bam­bina, ma non riuscì a sollevare l’arma. Restò lì qualche istante, poi abbassò il braccio, scuotendo la testa. Haxen prese l’ascia e colpì con tutte le sue forze. La porta si frantumò quasi sotto quel colpo: l’ascia, come la spada di Haxen, era stata fatta con un acciaio speciale nella botte­ga del fabbro di suo padre. Si ritrovarono all’esterno dei cortili delle prigioni, senza più nulla che li separasse dalla piccola strada che da un lato si arrampicava in alto verso il centro della città e dall’altra scivolava verso la grande porta che apriva Kaam all’esterno. Ovunque si potevano vedere armigeri. C’era l’imbarazzo della scelta. In più Dartred puzzava, in maniera insopportabile.

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«Come pensavate di uscire? Avete un piano per andar­cene vero?» chiese Dartred acido. «Questi sono piuttosto irascibili, se ci beccano che stiamo scappando saranno incivili e sgradevoli, ancora più di quanto erano prima. Piuttosto che essere riacciuffato, avrei preferito non spostare mai le terga dal sotterraneo. Oltretutto l’unica consolazione che avevo era di aver salvato voi. Ora siete venuta a cacciarvi in trappola da sola come una gallina. Magari siamo fortunati e ci ammazzano tutti qui, onesta­mente di spada».

Haxen sussultò allibita, per l’aggressività livida del lin­guaggio. C’era qualcosa di spento in Dartred, qualcosa di spezzato, qualcosa di marcio, di stupidamente sprez­zante, qualcosa di corrotto.

«Speravo in Hania, un qualche sortilegio che ci pro­teggesse da tutto, qualcosa del genere, ma la bambina è troppo stanca» si giustificò incerta.

«Avevo sperato in qualcosa di meno stupido» bofon­chiò Dartred. «Avrei preferito non spostarmi dalla cella, ormai mi ero abituato, e creparci da solo, sapendo che almeno voi due eravate salve».

Raggiunsero uno dei giardini della città dove zampil­lava una fontana e lì Dartred si levò un po’ del sudicio che riempiva i suoi stracci e il suo corpo, perché il suo odore non attirasse troppo l’attenzione, non lo indicasse come prigioniero in fuga, poi si ricoprì con il mantello di Haxen, che in origine era stato suo. Infine si avviaro­no verso la grande porta che da un momento all’altro si sarebbe aperta per i traffici del giorno.

Haxen era confusa. L’Oscuro era stato abbattuto, bat­tuto, annientato. Il mondo ormai avrebbe dovuto essere solo facilità e gioia. Sentì la stanchezza arrivarle addosso.

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Si era trascinata per strade e contrade, aveva combattu­to contro nemici terribili, era stata ostaggio del Signore Oscuro, ne aveva sostenuto lo sguardo, aveva sentito sul­la carne il suo fuoco ed era stata salvata dalla bambina che avrebbe dovuto dannarla e che lei aveva condotto al bene. Aveva combattuto e aveva vinto, ma dove era la sua vittoria? Perché si perdeva in quella fuga difficile, con il guerriero ridotto a un astioso ammasso di desolazione, il tanfo di escrementi che annegava tutto?

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Una bambina fatta di ombra

H ania era confusa: c’era qualcosa che non an­dava, ed era qualcosa di dannatamente gros­so, qualcosa che non funzionava, e il non fun­

zionamento stava rischiando di portarli al baratro, con la precisione di una botte che rotola lungo un pendio.

Fortunatamente conosceva il sotterraneo, topi e sca­rafaggi gliene avevano rivelato la pianta e le porte fino all’ultimo particolare, e conosceva la città, gatti e piccioni l’avevano colta con i loro occhi per offrirgliela: il loro intelletto si apriva docile davanti al suo. Hania si muoveva come il capo di uno sterminato esercito di minuscoli mi­cidiali guerrieri e finalmente furono fuori dalla dannata città di Kaam. La mente di Hania, sconvolta dalla fatica fino alla paralisi, riprese lucidità.

C’era un punto a loro favore: nessuno li stava ancora cercando. Gli armigeri che lei e sua madre avevano rin­chiuso erano ancora prigionieri. Il resto della città era in allarme per una donna di stirpe regale con una bimba di circa un anno, che ne dimostrava di più: tutti pensavano

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che potesse dimostrare un anno e mezzo, forse due. Loro erano una qualsiasi famiglia di pezzenti: padre pezzente, madre pezzente e pezzente bimba che ora dimostrava quattro anni, o forse cinque.

Bastava restare calmi, sereni, tranquilli. Una qualsiasi famigliola di deliziosi straccioni: li avrebbero guardati senza vederli. Le vesti di tutti erano immonde. Haxen e Hania puzzavano di sterco di capra, Dartred di sterco umano: questo creava una situazione omogenea, ed era un pregio, erano le dissonanze che attiravano l’attenzio­ne. Inoltre, tutti giravano la faccia per non sentire il loro odore. Il giorno in cui avesse deciso di scrivere un testo di strategia o anche solo di sopravvivenza, Hania si sareb­be ricordata di raccomandare un odore nauseabondo quando si voleva evitare lo sguardo altrui. Gli occhi erano d’abitudine di fianco al naso: se si distoglieva l’uno, si distoglievano inevitabilmente anche gli altri.

Era stato tutto troppo difficile, e Dartred aveva qual­cosa di livido, di spezzato. Certo, essere massacrati di botte in un sotterraneo non migliorava il carattere, ma il guerriero avrebbe dovuto provare uno straccio di con­tentezza, esprimere un barlume di gratitudine.

Scivolarono fuori passando attraverso i carri dei con­tadini che andavano a vendere cavoli e uova nella città e, quando finalmente si udirono i corni di allarme nella città, loro erano già distanti, nascosti in uno dei pochi boschi di quella regione arida. Finalmente si fermarono. Fu un momento meno commosso di quanto ci si sarebbe aspettati. Se fossero riusciti a puzzare un po’ meno for­se Haxen e Dartred si sarebbero abbracciati. Così come stavano le cose, non fu nemmeno da prendere in consi­derazione. Ma non era solo la puzza a dividerli.