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Pag. 2 “Metropolis”: vi spiego il mio progetto fotografico Pag. 3 Freevoices, un 2020 cominciato alla grande: presto un nuovo album e tanti altri concerti Pag. 4 Il “verde sublime” del Parco Coronini in una mostra dal 3 aprile Pag. 5 Gorizia, Hanau, Šid: ignoranza, inciviltà, disumanità non hanno colore nè confini Mamme lavoratrici ai tempi del Coronavirus Pag. 6-7 Storia delle Aleksandrinke, balie e badanti che migrarono dalle nostre terre in Egitto Pag. 8 Quando i genitori sono la rovina dello sport giovanile Pag. 9 La “sede staccata” di Sala Petrarca e l’esempio della Bevk: ecco come dovrebbe essere la Biblioteca ai tempi di Google Pag. 10-11 Il ricordo sbiadito di Elda Michelstaedter e Silvio Morpurgo in una targa di marmo “dimenticata” nel vecchio ospedale Pag. 12 La storia infinita delle “lunette” ferroviarie Pag. 13 Un carcere europeo nel vecchio ospedale? E’ meglio ripescare, per il riutilizzo, una delle ipotesi accantonate Pag. 14-15 Quell’insostenibile nostalgia di Tina che assale Frank mentre guida senza meta nelle strade deserte della notte Pag. 16 Maria Paola Mioni la prof che ha fatto scopri- re ai migranti la bellezza della poesia Pag. 17 Rifiuti abbandonati e discariche a cielo aperto: i Comuni devono intervenire ma il vuoto legislativo è un grosso ostacolo Pag. 18-19 A volte ritornano: dopo più di 40 anni Gorizia avrà un nuovo circolo Arci, il primo transfrontaliero, e si chiamerà ARCI GONG Pag. 20 Il Mosaico “lascia”: appello ai nostri lettori perché Gorizia News & Views sopravviva SOMMARIO Gorizia News & Views Anno 4 - n. 3 Marzo 2020 “La paura è la cosa di cui ho più paura” (Michel de Montaigne)

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Pag. 2“Metropolis”: vi spiego il mio progetto fotografico

Pag. 3Freevoices, un 2020 cominciato alla grande:presto un nuovo album e tanti altri concerti

Pag. 4Il “verde sublime” del Parco Coronini in una mostra dal 3 aprile

Pag. 5Gorizia, Hanau, Šid: ignoranza, inciviltà, disumanità non hanno colore nè confini

Mamme lavoratrici ai tempi del Coronavirus

Pag. 6-7Storia delle Aleksandrinke, balie e badantiche migrarono dalle nostre terre in Egitto

Pag. 8Quando i genitori sono la rovina dello sportgiovanile

Pag. 9La “sede staccata” di Sala Petrarca e l’esempio della Bevk: ecco come dovrebbe essere la Biblioteca ai tempi di Google

Pag. 10-11Il ricordo sbiadito di Elda Michelstaedter e Silvio Morpurgo in una targa di marmo “dimenticata” nel vecchio ospedale

Pag. 12La storia infinita delle “lunette” ferroviarie

Pag. 13Un carcere europeo nel vecchio ospedale? E’ meglio ripescare, per il riutilizzo, una delle ipotesi accantonate

Pag. 14-15Quell’insostenibile nostalgia di Tina che assale Frank mentre guida senza meta nelle strade deserte della notte

Pag. 16Maria Paola Mioni la prof che ha fatto scopri-re ai migranti la bellezza della poesia

Pag. 17Rifiuti abbandonati e discariche a cielo aperto: i Comuni devono intervenire ma il vuoto legislativo è un grosso ostacolo

Pag. 18-19A volte ritornano: dopo più di 40 anni Gorizia avrà un nuovo circolo Arci, il primo transfrontaliero, e si chiamerà ARCI GONG

Pag. 20Il Mosaico “lascia”: appello ai nostri lettoriperché Gorizia News & Views sopravviva

SOMMARIO

Gorizia News & ViewsAnno 4 - n. 3 Marzo 2020

“La paura è la cosa di cui ho più paura” (Michel de Montaigne)

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cattando fotografie capita di immaginare e di vedere qualcosa oltre a ciò che si sta fotografando. In molti casi la fantasia per-corre dei sentieri che portano a destinazioni

differenti dalla finalità apparentemente più ovvia. Questo è un meccanismo che si può definire come un obiettivo che la nostra mente si propone utilizzan-do come strumento le situazioni della quotidianità che sono a portata di vista oppure gli ambienti che si ha occasione di frequentare per diversi motivi.

Si finisce sostanzialmente per creare del-le metafore visive che trovano asilo nella nostra mente prima e, successivamente, in ciò che costituisce il prodotto finale della nostra generazione di immagini.

Alla fine, la fotografia che abbiamo di

situazione, sappiamo per certo che essa costituisce un’idea individuale e stretta-mente privata del fotografo. Nel mo-mento in cui egli isola alcuni particolari di un totale espone una sua personale versione di ciò che osserva. Così facen-do il fotografo cerca di far rivivere allo spettatore l’esperienza da egli vissuta nel momento dello scatto.

Riguardando a distanza di tempo una serie di scatti eseguiti nel corso di alcuni viaggi in grandi città, ho rivissuto alcune sensazioni che al momento in cui scat-tavo le fotografie si erano probabilmente stratificate nella mia memoria sensoriale. Parlo di vertigini e senso di oppressione e schiacciamento provati nel momento in cui osservavo dal basso gli alti gratta-cieli di Londra e di Parigi.

Mi sono domandato allora se sarei stato in grado di replicare in forma visuale queste sensazioni fastidiose e a tratti stranianti. È nata così l’idea di “Metro-polis”, un progetto fotografico (ora ospi-tato in uno spazio espositivo di Gorizia) finalizzato, attraverso l’utilizzo di imma-gini già presenti nel mio archivio, alla realizzazione di composizioni astratte che in qualche modo potessero indurre nell’osservatore le stesse mie sensazioni.

Il mio è stato un tentativo abbastanza velleitario di voler suscitare vertigine, stordimento e sensazione di instabilità osservando le riproduzioni, rielaborate con artifici informatici, di queste “mo-derne cattedrali” che, nella loro ardita bellezza architettonica, celano il germe dell’asservimento dell’essere umano ad un regime di vita frenetico e stressante nonché dell’assoggettamento alle false e futili necessità imposte dal progresso consumistico.

Una realtà, questa, che rischia di diven-tare via via più opprimente e deprimen-te, sottraendo subdolamente la libera scelta a buona parte degli individui che popolano le grandi metropoli sempre più cosmopolite e convulse.

La mia ispirazione fa riferimento al film Metropolis di Fritz Lang. Una pellicola che, nel lontano 1927, ha profetizzato un futuro nel quale l’uomo viene soggiogato dal progresso che esso stesso ha contri-buito a concepire e sviluppare. Un’evolu-zione che fa della tecnologia strumento e soggetto stesso di gestione del potere in un ambiente urbano nel quale le molti-tudini vengono manipolate e sottomesse.

Da questo ambito emerge anche il concetto di alienazione come elemento di espressione di malessere dell’uomo moderno nel contesto di una civiltà industriale che esercita una sorta di distacco dell’uomo dalle radici naturali che gli sono proprie. Evidenza, questa, sempre più palese nella attuale congiun-tura ambientale e sociale.

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fronte non è più la riproduzione del reale ma è la trasposizione del nostro vissuto interiore, il tentativo di rappresentare in maniera visibile e condivisibile l’oggetto delle nostre emozioni o dell’esperienza vissuta in un determinato momento.

È pura fantasia? Forse. È creatività astratta? Può essere. È semplice interpre-tazione personale? Probabilmente sì.

Certamente la fotografia è un mezzo con il quale tentiamo di esplorare il mondo, di farlo nostro e di renderlo leggibile agli altri, oppure, alla peggio, solo a noi stessi in forma di diario di ricordi o di quader-no di emozioni.

La parola fotografare contiene il signi-ficato di una forma di linguaggio, al pari della scrittura o dell’arte pittorica o scultorea, alla stessa stregua della musica o del teatro. Fotografare vuol dire scri-vere con la luce, ma per scrivere occorre un’intenzione, è necessario lo scopo di voler comunicare qualcosa a qualcuno oppure di voler custodire qualcosa per noi stessi. Ciò comporta il fatto che occorre saper esercitare una propria capacità espressiva.

Pertanto, la fotografia diventa ed è un linguaggio che si avvale della sua proprietà di rappresentare il mondo in maniera sia formale che emozionale, andando a toccare, come le altre forme d’arte, le diverse corde sensoriali e affet-tive di chi la osserva.

Ed ecco che, a fronte di questo codice espressivo, emergono modalità di lettura che non sono solamente estetiche ma anche e forse soprattutto inconsce ed istintive, che eludono la razionalità per andare a toccare direttamente il profon-do strato di esperienza di ciascuno e la sua personale capacità percettiva.

Partendo dal presupposto che la foto-grafia non riproduce la realtà ma è la forma visibile dell’interpretazione che il fotografo applica ad una determinata

“Metropolis”:vi spiegoil mio progettofotograficodi Felice Cirulli

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i avevamo scoperti quasi per caso, e li abbiamo tenuti a battesimo in uno dei primissimi numeri del nostro giornale. A distanza di oltre 2 anni, i Freevoices – gruppo co-

rale giovanile dell’associazione InCanto di Capriva del Friuli, che unisce ragazzi tra i 20 e i 27 anni e vanta una media di oltre 40 concerti all’anno – sono cre-sciuti in maniera esponenziale. Hanno compiuto una trionfale tournèe in Ar-gentina, ad Avellaneda. Si sono esibiti in una serie innumerevole di palcoscenici, fino al più recente “Magic Xmas tour” con sette date da tutto esaurito (due al Kulturni Dom). In maggio uscirà il loro nuovo album che li vedrà impegnati in un “diario di viaggio” musicale con tanti compagni di viaggio famosi.

Come ogni anno ci attendiamo di vederli ospiti a “È storia”. Poi hanno in programma alcune tournée in Austria e in Slovenia e molto altro ancora.

Per il gruppo guidato dalla bravissima maestra Manuela Marussi é appena cominciato un 2020 ricco di impegni e sicuramente di nuove emozioni che sia loro, sia il loro affezionatissimo pubblico sono ansiosi di vivere.

Dalle parole della loro vulcanica ed eclettica insegnante che abbiamo nuo-vamente intervistato a distanza di tanto tempo, si evince che il coro é diventato una solida realtà nella scena musicale re-gionale e non solo, e che i nuovi arrivati si sono integrati e stanno facendo molta strada, grazie all’aiuto dei loro compagni più esperti.

Com’è cresciuto in questi ultimi tempi il coro?Quest’anno abbiamo avuto nuovi arrivi che, oltre a studiare come gli altri i brani che presenteremo nei vari concerti, de-vono assimilare anche il repertorio pree-sistente. Per ora va tutto bene: spero che continuino a divertirsi e resistano all’ur-to delle prove. Si é creato un equilibrio per cui alcuni dei più vecchi seguono i nuovi arrivati sia musicalmente che dal punto di vista coreografico. Sono molto contenta di questo, anche perché avrei dovuto avvalermi di insegnanti esterni o sottoporre i più vecchi al ripasso del repertorio, ma entrambe le soluzioni non erano percorribili. Come sarà strutturato il nuovo al-bum?Ci saranno dieci canzoni che costitui-ranno una sorta di “diario di viaggio”

Che impegno ha dato la preparazione dell’album ai ragazzi?Essendo brani che conoscevano già, ci siamo concentrati di più sulla “ripuli-tura” dei dettagli e ciò ha fatto sì che si dovessero impegnare di più sui partico-lari che le altre volte magari erano stati trascurati.

Cosa bolle in pentola per il futuro dei Freevoices?Dovremmo partecipare come ogni anno a È storia, anche se per ora non ho ricevuto notizie precise. dopodiché sono in programma tournée in Austria e Slovenia e, soprattutto, un concerto al teatro Verdi di Trieste, il 21 settembre a conclusione del convegno dei giuliani nel mondo. Ci sono anche dei progetti di partecipazione a concorsi internazionali, ma sono ancora tutti in via di defini-zione sia dal punto di vista economico sia da quello musicale. Purtroppo era in programma un progetto abbastanza importante con la Cina, ma per i motivi che tutti conoscono per il momento é saltato. Per quanto riguarda la parteci-pazione a premi musicali come il Maria Carta ha preso dei contatti, ma non c’é niente di certo, perché il percorso é molto lento e richiede molte energie. Accanto a tutto questo ovviamente c’é un nuovo repertorio in fase di studio.

Visto che siamo in tema di anticipazio-ni: come sarà il 2020 del Teen Choir, i “babies” del gruppo?Anche loro sono molto cresciuti dallo scorso anno e a fine aprile ci sarà una presentazione ufficiale dove canteranno anche alcuni brani etnici.

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attraverso i cinque continenti. Non c’é ancora una scaletta, ma i messaggi sa-ranno legati ai vari progetti che abbiamo sostenuto in questi anni e ovviamente ci sarà anche spazio per ricordare il nostro viaggio in Argentina al quale dedichere-mo due canzoni.

Che collaborazioni avrete per questo album?Lo studio di registrazione a cui ci siamo rivolti é l’East land Recording studio di Francesco Blasig, un giovane molto bravo e preparato.E per quanto riguarda i testi, abbiamo scelto di farci affiancare da alcuni musi-cisti di fama internazionale che hanno accettato volentieri di lavorare con i ragazzi, perché ancora una volta sono rimasti colpiti da come lavorano e hanno voluto sostenere l’idea dello showchoir.Alcuni brani rispecchiano proprio le caratteristiche dei nostri ospiti e questa é sicuramente una sfumatura in più rispet-to al passato.

Che data é prevista per l’uscita dell’al-bum?Uscirà a maggio. Abbiamo in program-ma un evento ad hoc in cui racconte-remo com’è nato e ovviamente faremo ascoltare le canzoni in esso contenute.

Come hanno reagito i ragazzi quando hai proposto loro questo album?Registrare un album al giorno d’oggi é una cosa desueta, perché si può ascoltare musica più facilmente sulle varie piatta-forme che esistono su internet e si fa fa-tica a pensare che possa conservarsi una traccia di ciò che si ascolta. Devo dire che i ragazzi hanno dimostrato ancora una volta di essere disponibili a fotogra-fare un periodo della loro vita attraverso i vari pezzi che stiamo preparando.

Freevoices, un 2020 cominciato alla grande:presto un nuovo album e tanti altri concerti

di Stefania Panozzo

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ai dettagli apparente-mente superflui che rendono assolutamen-te personale un abito, a quel “tocco” che tra-sforma Villa Coronini nell’emblema delle dimore signorili che

hanno impreziosito Gorizia nei secoli passati .

Se con “L’indispensabile superfluo” si erano infatti indagati gli accessori più segreti delle collezioni, come ombrellini o cappelli, con “Verde sublime. Il Parco Coronini Cronberg e la rappresenta-zione della natura tra Neoclassicismo e Romanticismo” si potranno scoprire le trasformazioni subite dall’incredibi-le polmone verde (quasi cinque ettari di estensione) che si apre su Viale XX Settembre senza trascurare l’importanza che la natura ha sempre rivestito nelle arti.

La prossima mostra proposta dalla Fondazione Coronini Cronberg nel trentennale della scomparsa del conte Guglielmo si pone quindi sulla scia degli interessi dell’ultimo discendente della nobile famiglia (che aveva infatti conse-guito una laurea in agraria), ma intende anche essere un omaggio ai Coronini che, da Alfredo (1846-1920) in poi, si possono in effetti considerare i veri creatori del Parco. La mostra, che verrà inaugurata il prossimo 3 aprile, è in real-tà solo uno dei momenti di valorizzazio-ne della lussureggiante vegetazione che

neoclassico verso la natura. Nel per-corso espositivo del Palazzo sarà invece possibile focalizzare l’attenzione sull’im-portanza che la natura ha avuto anche nell’arte con dipinti compresi fra il Set-tecento e l’Ottocento, provenienti dalle collezioni Coronini e dai Musei Provin-ciali, raffiguranti non solo paesaggi ma pure ritratti in cui particolare risalto è dato ai fiori. Dalla Galleria d’Arte Antica di Trieste arriveranno delle ceramiche sempre con rappresentazioni floreali, sintomo di un interesse per la botanica sviluppato nel corso dell’Ottocento an-che perchè si riteneva materia di studio adatta all’universo femminile, quindi idonea a rientrare pure negli album dei ricordi di cui saranno esposti alcuni esemplari. La mostra, curata da Cristina Bragaglia, potrà essere visitata fino al 10 gennaio 2021 dal mercoledì al sabato dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18, la do-menica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19. Come di consueto, a margine dell’espo-sizione sarà predisposto un calendario di eventi collaterali ambientati e aventi per tema il Parco, sicuramente indiriz-zati anche a celebrare il trentennale della scomparsa del conte Guglielmo.

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circonda il palazzo, la cui storia si lega invece al nome di diverse famiglie: dagli Zengraf, che lo edificarono nell’ ultimo decennio del Cinquecento, agli Stras-soldo che lo abitarono fra il Seicento e il Settecento, per arrivare solo nel 1820 in mano a Michele Coronini Cronberg.

La tromba d’aria abbattutasi sulla città nel giugno del 2017 provocò ingenti danni al giardino, evidenziando non solo problemi di sicurezza ma anche di con-servazione delle piante, una situazione risolta grazie ai contributi della Regione e agli interventi di pulizia della vege-tazione condotti dal Servizio gestione territorio montano bonifica irrigazione. Nelle Scuderie la mostra permetterà di ripercorrere la storia del Parco rico-struendone le varie fasi attraverso foto e progetti non realizzati. L’ideazione del complesso, come dicevamo, sem-bra spettare al conte Alfredo Coronini, il quale, verso il 1880, facendo tesoro delle esperienze acquisite durante i suoi molteplici viaggi, decise di trasformare e ampliare l’originario giardino all’italiana a pianta quadrata posto, come testimo-niano le mappe dell’epoca, a fianco del palazzo. Alfredo progettò un parco di tipo romantico, sviluppato su diversi livelli altimetrici, in cui le varie compo-nenti, maturali e artificiali, concorrono a creare una successione di suggestivi scorci e pittoresche vedute. Da boschet-ti di sempreverdi emergono sculture, scalinate, terrazze, pergolati, fontane e specchi d’acqua sapientemente collocati, per offrire una serie di percorsi ispirati a quelli che Massimiliano d’Asburgo aveva creato nella sua residenza di Miramare.

Il parco venne realizzato nell’ambito di un ambizioso programma di riqualifica-zione urbana teso a creare, per Gorizia, l’immagine di “città giardino” e di mite centro climatico.

Tornando alla mostra, si potranno anche ammirare, nelle Scuderie, un album di disegni di paesaggi e alberi realizzati dall’architetto Pietro Nobile e una raccol-ta di disegni di paesaggi della campagna romana a opera di Francesco Caucig, testimonianza dello sviluppato interesse

Il “verde sublime”del Parco Coroniniin una mostradal 3 apriledi Eliana Mogorovich

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vrebbe potuto essere an-noverata tra le “ragazza-te” nell’ipotesi migliore, oppure, in quella peggio-re, tra gli ordinari “atti vandalici”. Se fosse stato il primo caso oppure una vicenda isolata, ma

purtroppo così non è: l’imbrattamento dei muri esterni del Nazareno, avvenuto nella notte del 16 febbraio scorso, odora, o meglio puzza, di qualcosa di diverso. Perché sono state riprodotte frasi razzi-ste accompagnate da svastiche e perché il luogo scelto per esprimere il concentrato di ignoranza, inciviltà e disumanità è la struttura che in città ospita i migranti. E non è nemmeno la prima volta: il prece-dente risale al 2016, stesso luogo, stesse modalità.

Potrei soffermarmi sull’assenza di teleca-mere di sorveglianza, fatto assai strano visto che un edificio che ospita stranieri, nella testa di più di qualcuno portatori

di ogni male, dovrebbe essere un “sor-vegliato speciale”, ma preferisco condi-videre una riflessione sul perché non si tratta di una “spacconata”, di “bullismo” o di azione “perpetrata da idioti”: perché non può e non deve essere estrapolata dal contesto in cui si è manifestata, un contesto che solo qualche giorno dopo (nella notte tra il 19 e il 20 febbraio) vede protagonista un cittadino tedesco compiere una strage ad Hanau in due diversi shiha-bar. “Alcuni popoli che non si riescono ad espellere dalla Germania vanno sterminati”, questa è solo una delle innumerevoli testi farneticanti dell’omicida. E non è finita qui: è solo di qualche ora fa la notizia di un danneg-giamento del furgone di proprietà di No Name Kitchen a Šid, in Serbia, un’asso-ciazione che serve pasti caldi lungo la rotta balcanica salvando così centinaia di persone. Sono solo due esempi, chissà quanti ancora ce ne sono. Ecco, dunque, perché un’azione vandalica a Gorizia (che non è nemmeno la prima) non può e non deve essere sottovalutata e, soprat-tutto, non può non essere considerata una diretta conseguenza del clima d’odio e di ignoranza che si respira un po’ dappertutto, in Italia e fuori. A definire ulteriormente il perimetro all’interno del quale si manifestano queste azioni scelle-rate c’è l’indagine condotta dall’Eurispes secondo la quale sono aumentati in pochi anni gli italiani che non credono all’Olocausto (dal 2,7% al 15,6%) e anche coloro che ne ridimensionano la portata (dall’11,1% al 16,1%).

Che in tutto ciò vi siano pesanti respon-sabilità politiche, anche a sinistra, è indubbio, rimane difficile da capire come agire per invertire questa tendenza. La scuola, l’istruzione giocano sicuramente un ruolo di primo piano e quindi è forse da lì che è necessario ripartire.

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Gorizia, Hanau, Šid: ignoranza, inciviltà, disumanità non hanno colore nè confini

di Eleonora Sartori

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Il furgone di No Name Kitchen imbrattato con svastiche a Šid, in Serbia

Il muro che cinge il Nazareno in via Brigata Pavia a Gorizia, imbrattato nella notte del 16 febbraio scorso

Mamme lavoratrici ai tempi del Coronavirus

Il titolo più corretto sarebbe “Genitori lavoratori ai tempi del Coronavirus”, ma siamo in Italia e, per quanto siano stati fatti dei passi avanti, la gestione della prole è ancora prevalentemente in capo alle mamme. Mamme che oggi lavorano fuori (e dentro) casa e che fanno ogni giorno salti mortali per organizzare, con precisione chiurugica, gli impegni dei figli, soprattutto se non possono contare sull’aiuto dei nonni che, se ci sono, molto spesso lavorano ancora. L’aiuto che arriva da asili nidi, scuole, doposcuole è fondamentale ma, come sempre, ce ne aggorgiamo quando viene a mancare. Domenica sera, il 23 febbraio, scatta l’ordinaza di chiusura scuole e, assieme ad essa, il panico. Nella check list di gestione della crisi domestica, al primo punto c’è: niente panico, hai la partita Iva, quindi in un modo o nell’altro ce la devi fare per forza. E così è stato, e a dire il vero senza grossi traumi per nessuno. Nei momenti di stress mettersi, o alme-no cercare, nei panni di sta peggio aiuta sempre e il mio pensiero è andato ai tan-ti amici, conoscenti, colleghi che opera-no nei settori più duramente copiti e che, oltretutto, hanno anche dei dipendenti da pagare. Come ci racconta Francesco Rodaro della Music Team, azienda con 17 dipendenti e altrettanti collaboratori freelance che opera nel campo del show business: concerti, teatro, fiere, corpora-te, senza contare tutti gli eventi organiz-zati per il Carnevale...“A partire da domenica sono iniziate ad arrivare mail di disdetta ed annul-lamento di eventi e lavori, ad esempio i Pinguini Tattici Nucleari avrebbero dovuto fare la data zero a Pordenone, avevamo iniziato l’allestimento da una settimana e l’evento è stato annullato, lo stesso per Brunori sas e Venditti di scena al Palasport di Jesolo. Poi ci sono tutti i lavori dell’Ert (Ente Regionale Teatrale) del quale noi gestiamo 13/15 teatri. Sono saltati circa numerosi spettacoli, solo al Teatro di Gorizia due, e potrei continua-re a lungo questa triste lista... Comples-sivamente ci sono saltati 28 spettacoli, oltre ai vari piccoli noleggi per le feste. Si tratta di un dramma per un’azienda che non ha contributi regionali e che cerca di stare sul mercato nel massimo della legalità”. Ora staremo a vedere gli svilup-pi della faccenda, non solo dal punto di vista sanitario, ma anche da quello legale e sperieamo che vengano predisposti tutti gli aiuti e ammortizzatori sociali possibili. (ElSa)

©RIPRODUZIONE RISERVATAAlois Hans Schram, Veduta di Palazzo Coronini Cronberg, tempera su cartone, 1898

August Anton Tischbein, Ritratto di Emma Ritter de Zahony, acquerello su

carta, 1850, Fondazione Palazzo Coronini Cronberg

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anno morbidi tagli a caschetto e abitini al ginocchio con la vita bassa. Sorridono e hanno volti placidi e sognan-ti di ragazze borghesi degli anni ’20. In una

splendida giornata invernale la porta si spalanca sull’ampia stanza al pianoterra e un trapezio di luce illumina il pavimento a rombi bianchi e rossi. Mi sono arram-picata fin sulla cima della collinetta che domina la piana del Vipacco, a Prvačina, che conserva il borgo storico del paese. Mi muovo tra armadi pieni di vestiti, arredi e suppellettili d’epoca. E tante foto alle pareti, dalle quali mi guardano que-ste ragazze eleganti e disinvolte. Alcune hanno i pupi in braccio, vestiti sontuo-samente secondo la moda dell’epoca, spingono passeggini, posano accanto a lussuose automobili. Qualcuna è perfino ritratta in groppa a un cammello.

Sono le “aleksandrinke”, le alessandrine, come le chiamavano in patria, o le“goriciennes”, come le chiamavano lag-giù, all’ombra delle piramidi.

Un fenomeno migratorio importante e singolare, una parentesi tutta femminile con partenza dall’antica regione del Lito-rale austriaco e destinazione Alessandria d’Egitto o, più raramente, il Cairo, un flusso umano contraddittorio e affasci-nante, ricco di luci e di ombre, sul quale si è indagato solo di recente.

La questione ha origine a metà dell’Otto-cento, quando la crescita della borghesiamercantile europea e locale nelle metro-poli egiziane crea una forte richiesta di maestranze. La circostanza ben si com-bina con l’emanazione da parte dellamonarchia asburgica della Staatsgrund-gesetz, la norma che sancisce nel 1867 la libertà di emigrazione. Nascono da qui i grandi movimenti migratori dei cittadini dell’Impero, che finalmente possono muoversi liberamente all’inter-no dei confini della monarchia e verso le destinazioni transoceaniche del “nuovo mondo”. Una di queste mete saranno i porti egiziani sul Mare Nostrum, quan-do l’apertura del Canale di Suez nel 17 novembre 1869 trasforma l’Egitto in unasorta di El Dorado in terra ottomana.

Quelle ragazze che mi guardano dalle fotografie color seppia sono le prime “badanti” della storia, proletarie che lasciano tutto, perfino i loro neonati, perdiventare balie, governanti, cameriere, cuoche e sarte della borghesia interna-

è favoloso. Maria Faganelli di Merna saràper quattro anni la governante in casa di Boutros Ghali, futuro segretario delle Nazioni Unite. Danica Furlan addirittura la dama di compagnia dell’ultima regina d’ Egitto alla corte di Faruk. Le foto del piccolo museo di Prvačina e i grazio-si vestiti di lino e di seta e i cappellini civettuoli, raccolti tra i discendenti delle aleksandrinke, raccontano una storia dibenessere e di riscatto. Ma non dicono tutto.

Non racconta-no che la suoce-ra della custode del museo lasciò la sua creatura dipochi mesi alle cure della famiglia, e che la bimba, per incuria o per il trauma dell’abbando-no, morì dopo

pochi mesi. Non le dissero nulla, perché il dolore le avrebbe fatto perdere il lat-te e il sorriso affettuoso che rivolgeva al piccolo che accudiva. Non raccon-tano lo sgo-mento e poi il sospetto di quelli che erano rimasti a casa, mariti, padri, amici e conoscenti,

di fronte alla vita agiata e disinibita di queste ragazze, che avevano lasciato un ambiente arretrato, patriarcale e bigotto per una società vivace e cosmopolita, rendendole più consapevoli e sicure di sé. Le assenze da casa duravano anche anni, ma poi le aleksandrinke tornavano lassù, a Prvačina, Renče Bilje e Kojsko, e i figli non le riconoscevano, i mariti erano rosi dai sospetti e il paese intero le trattava con malcelato disprezzo. E loro stesse stentavano a rientrare nei ranghi di una società di cui forse non condivi-devano più i valori, dopo aver assaggiato la libertà e l’emancipazione in terra egiziana.

Questioni complesse, delicati equilibri sconvolti da una storia di emigrazione

zionale.

Sono friulane, istriane e dalmate, ma so-prattutto slovene della valle del Vipacco. Diventano ricercate e pagate il triplo del-le altre. Perchè? Sono pulite, intelligenti e materne, si dice. Imparano in fretta il francese, l’inglese e perfino l’arabo. Sono più dolci delle svizzere e delle tedesche, sanno “stare al loro posto”. Le voci gira-no e forse questo basterebbe a spiegare un flusso così consistente e circoscritto di partenze, qualche miglia-io, negli anni che vanno dalla seconda metà dell’Ottocento alla seconda guerra mon-diale.

Partono, dunque, queste ragazze pallide e coraggiose con i piroscafi, sopportano il mal di mare e la prima, feroce nostal-gia. Molte di loro hanno i seni gonfi di latte e hanno lasciato i loro neonati per nutrire quelli di ricche e annoiate fran-cesi. Sbarcano nella con-fusione dei porti egiziani e stringono nelle mani i biglietti con l’indirizzo delle suore scolastiche che da-ranno loro appoggio e asilo fino alla si-stemazione e veglieranno poi sulla loro moralità di giovani emigranti. Vanno “a servizio” nel paese dei minareti, nelle ville ombreggiate dalle palme di una società ricca e cosmopolita. Allattano i figli degli altri, mantengono immacolata la biancheria di lino e di seta, lucidano i pavimenti di mogano. Ma guadagnano anche quaranta fiorini al mese, mentre a Vienna la paga di una domestica non supera i dieci, e a Trieste non si arri-va a otto. Con quei guadagni favolosi possono mantenere tutta la famiglia, lassù a Prvačina, Renče, Bilje e Kojsko, i paesi che hanno dato più aleksandrinke di tutti. Il salto culturale, sociale ed economico

Storia delle Aleksandrinke, balie e badantiche migrarono dalle nostre terre in Egitto

di Anna Cecchini

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tutta femminile e dai risvolti contraddit-tori. Ancora una volta la nostra storiarivela contorni e sfumature che sfuggono ai criteri canonici di classificazionedegli eventi.

Così scrive nel 1907 Andrej Gabršček, editore e politico goriziano, nel suo resoconto di un viaggio in Egitto: “Le nostre donne sono gentili, intelligenti e abili nella conduzione della casa, ma in quelle città ci sono uomini che non hanno famiglia né una casa propria, ai quali donne come la nostra capitano a proposito. Ma con il passar del tempo si è generato un certo male che il nostro popolo ha definito con il termine di ales-sandrismo (…) Alle nostre donne sono accaduti i crimini più diversi. Egiziani, arabi, si sono impossessati delle nostre donne, le hanno apparentemente sposate ma poi vendute nei postriboli di tutto l’Oriente”.

Certamente si tratta di una posizione un po’ radicale, che tuttavia non può cheincrementare in patria un clima di so-spetto e pregiudizio, mentre la verità èche la stragrande maggioranza di queste donne contribuisce in maniera deter-minante all’economia familiare: una garantisce il riscatto della casa ipotecata, un’altra l’istruzione dei fratelli, un’al-tra ancora l’acquisto di un podere. Ci sono esempi di letteratura slovena del novecento che riprendono le suggestio-ni del fenomeno delle aleksandrinke, come Egipčanka (L’egiziana, 1906), che racconta la storia di Malika, ragazza di campagna che emigra nella terra dei faraoni come bambinaia di una ricchis-sima famiglia di mercanti, ma riesce ad affrancarsi dall’impiego e vive come “libera dama” al Cairo, per poi tornare in patria avvolta di sete e merletti, ma piena di rimpianti per la giovinezza perduta. Anche nel racconto Žerjavi (Le gru, 1932) di France Bevk la protagoni-sta lascia marito e figlioletta per andare “a balia” in Egitto. “L’anelito di libertà” è più forte dell’opposizione del marito e dell’amore per sua figlia e “il lusso di una vita sconosciuta le danzava davanti agliocchi, le bruciava il sangue”.

Si tratta in entrambi i casi di rielabora-zioni letterarie che mettono in luce lacondanna morale della aleksandrinke, la cui partenza espone a gravi rischi laloro integrità e l’onore della famiglia. Il biasimo per l’abbandono familiarerende doloroso perfino il ritorno, che le ripaga con il disprezzo della scelta imperdonabile di una “lepa vida” in terra straniera.

Con la seconda guerra mondiale il flusso migratorio femminile verso l’Africa siarresta. Il successivo avvento di Nasser e la nazionalizzazione del Canale di Suez pongono fine all’”età dell’oro” egiziana. I dolorosi avvenimenti post bellici del go-riziano mettono a tacere ogni interesse e dibattito sul tema, lasciando solo alle cronache familiari il ricordo di quelle vicende. Ma, fortunatamente, negli anni settanta l’interesse si è riacceso. Dorika Makuc racconta nel documentario “Žerjavi letijo na jug” (Le gru volano a sud) e nel libro “Aleksandrinke” la storia di quelle donne di cui aveva sentitoparlare nella sua infanzia, intervistando le protagoniste e visitando in Egitto le donne slovene che non sono tornate in patria. La ricerca di Makuc ha ridestato l’interesse per il fenomeno e dato il via a nuovi studi storici. Queste donne pro-venienti da zone marginali e depresse, che hanno avuto il coraggio di uscire da una realtà di schiavitù della terra e della famiglia, che hanno sovvertito le regole sociali e culturali e ne hanno sopportato il biasimo, hanno riguadagnato il centro della scena.

Nel 2005 nasce a Prvačina il Circolo per il mantenimento dell’eredità culturaledelle aleksandrinke, che ha come scopo censire l’eredità culturale del fenomeno, mostrare queste donne nella loro giusta luce e dar loro il posto che meritano nel-la storia di questi luoghi. Innumerevoli le opere letterarie, i saggi e gli spettacoli teatrali che, negli ultimi vent’anni, hanno avuto fatto uscire dalle cucine e dalla memoria familiare una narrazione che è assieme storiografica e antropologica.

Un’interessante interpretazione è stata data da Boštjan Žekš, Ministro per gli

sloveni oltreconfine e nel mondo dal 2008 al 2011, il quale, nel corso della conferenza stampa che ha preceduto la posa di una targa al cimitero del Cairo a ricordo alle aleksandrinke là sepolte, le ha ricordate come “le nostre prime citta-dine del mondo, dignitose e ambiziose”.

Una rotta contraria a quella degli africa-ni che oggi cercano il proprio futuro dasud a nord, una linea perpendicolare a quelle delle decine di migliaia di donnerusse, ukraine, rumene e polacche che arrivano da est. Anche loro lascianofigli, mariti e affetti che restano vivi attraverso chilometriche telefonate. An-che loro tornano a casa di rado, perché i viaggi costano. Anche loro tornano coi figli cresciuti e i mariti imbronciati. Im-parano l’italiano e le abitudini occiden-tali delle famiglie europee alle qualecustodiscono i vecchi, e non più i gra-ziosi neonati vestiti di trine. Qualcuna rimane e magari cambia vita, ma sembra difficile paragonarle a quelle pallideragazze slovene coi capelli a caschetto e le prime gonne corte degli Anni Ruggen-ti sul delta del Nilo.

Quando attraverso i parchi cittadini incontro spesso gruppetti di badanti chetrascorrono sulle panchine ombrose i loro pomeriggi di libertà. Parlano traloro in polacco, russo e rumeno. Sorri-dono, scuotono le frangette, allungano legambe al primo sole primaverile. Mi piacerebbe che un giorno, tra quellepanchine, una fosse dipinta di azzurro, come il mare che bagna Alessandriad’Egitto, e che la Gorizia ricordasse così quelle ragazze che furono le sue figlie. Nel frattempo, se potete, fate un salto a Prvačina, nella valle del Vipacco. Arram-picatevi fino alla chiesa del vecchio bor-go in cima alla collina. Nella minuscola piazza c’è una vecchia abitazione dove hanno trovato casa le memorie delle aleksandrinke. Se riuscirete a intercetta-re le custodi (numero di telefono affisso sulla porta) la porta si spalancherà su due piccole stanze zeppe di ricordi di una storia tutta femminile lontana ma attualissima, perché chi cerca una nuova vita non si può fermare, allora come oggi.

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iblioteca e non solo”. E’ questo il titolo di un pregevole volu-metto che “Gorizia Europa”, il periodico del Partito demo-cratico, ha dato alle

stampe nel quadro delle iniziative per il decennale della rivista diretta da Marzio Lamberti. Questo numero speciale racco-glie gli articoli scritti, appunto nell’arco di 10 anni, da Marco Menato, direttore della Biblioteca Statale Isontina e collabo-ratore “storico” di Gorizia Europa. Vale la pena rileggere, o leggere ex novo diversi pezzi: spiccano quelli sui vari Fondi cu-stoditi nella Bsi, da Carlo Michelstaedter (ben 4 servizi, sull’onda dei più recenti ritrovamenti) a Ugo Casiraghi, da Adam Wandruszka alle Orsoline e all’ex sindaco Pasquale De Simone. Ma sono interessan-ti e attuali anche gli scritti dedicati alla ristrutturata sala Petrarca, nell’omonima via) che, dal 2021, consentirà nuove funzioni alla Biblioteca e, soprattutto, aprirà alla collaborazione con la sezione goriziana “Damir Feigel” della Biblioteca nazionale slovena. Nonostante la spietata concorrenza di Internet e dei social, la Biblioteca emerge come un imprescindibi-le osservatorio per lo sviluppo di informa-zione e cultura. Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo una sintesi del-la prefazione redatta dallo stesso Menato, già autore di alcuni articoli per il nostro giornale.

***

Mi capita sempre più spesso che persone di cultura (per non parlare degli studen-ti) mi domandino che cosa ci faccia una biblioteca di carta al tempo di Google. Me lo domando anch’io e la risposta non può che collegarsi alle stranezze della Burocrazia, che prima di decidere atten-de con prudenza che il tempo passi e che le cose si mettano a posto da sole (…).

Infatti, se oltre a raccogliere i dati statistici, venissero pure analizzati, ci si renderebbe conto che la frequenza delle biblioteche in Italia oggi si aggira solo sul 15% della popolazione attiva: Gorizia non fa eccezione, ogni anno si perdono per strada alcune centinaia di lettori. A fronte di non poche librerie aperte in città e di molti eventi culturali, si registra un costante decremento dell’utenza e un uso molto parziale delle raccolte biblio-grafiche, eccettuate le consultazioni del fondo Michelstaedter. Si dà la colpa alle risorse elettroniche sempre più presenti, alla mancanza di tempo, agli orari noncomodi, alla difficoltà a scegliere un libro tramite i cataloghi, al fatto chei libri sono collocati in magazzini chiusi al pubblico, ecc.: motivazioni vere,

ma non si ha coraggio di toccare il cuore del problema, cioè che le bibliotechehanno continuato a svolgere i loro com-piti senza rendersi troppo conto dellamutazione genetica dei tempi.

(…) Oggi le biblioteche si sono trovate a giocare in un mondo dove ciascuno può da solo, nella sua stanzetta, mettersi in contatto con il resto del mondo, senza attendere permessi, orari, consulti. Se a ciò si aggiungano spazi e finanziamenti inadeguati, è chiaro perché il pubblico le diserti.

Dove invece amministratori locali e bibliotecari hanno progettato nuove biblioteche o convertito strutture un po’ attempate, il passo è cambiato (mi riferisco a Pesaro, Bologna, Pistoia, Lecce, Verona, ecc.): anche se si tratta di esperienze di alcuni anni fa e non sempre le amministrazioni che si sono succedute sono riuscite a mantenere il medesimo livello di attenzione (perché bisogna continuare ad investire).

Per raggiungere un pubblico nuovo, ho spalancato negli anni le porte della Bsi a un ventaglio di attività che, devo riconoscere, hanno poco a che fare con l’istituzione bibliotecaria, scoprendo che non c’è stata osmosi fra i frequentatori abituali e i partecipanti alle presentazio-ni o alle mostre d’arte. Sono tipologie dipubblico differenti l’una dall’altra, che fanno sì aumentare in senso assolutoi numeri, ma che alla fine non produ-cono un innalzamento dell’uso della biblioteca: le attività extra-bibliotecarie potrebbero essere svolte in qualsiasi altro spazio, ma viene generalmente scelto quello bibliotecario perché in molti casi è gratuito e offre un ambiente non asettico, che conserva nonostante tutto un’aura quasi sacrale.

Non è quindi un caso che abbia caldeg-

La “sede staccata” di Sala Petrarca e l’esempio della Bevk:ecco come dovrebbe essere la Biblioteca ai tempi di Google

di Marco Menatogiato l’assegnazione alla Biblioteca della Sala Petrarca, che chiamerei meglio “Teatro Max Fabiani”: la sala, fisicamen-te lontana dalla Bsi, infatti sarà dedicata completamente alle attività extra-biblio-tecarie in orari pure non di ufficio e con una gestione affidata, previo bando, a un ente esterno specializzato nel settore teatrale-musicale. Questo per tenere ben distinto l’ambito bibliotecario da quel-lo di altre attività. Rimangono invece all’interno della biblioteca, nella galleria Mario Di Iorio, le mostre d’arte contem-poranea, che dal 1998 hanno caratteriz-zato la mia gestione: è una mia scelta, che potrebbe essere rivista e corretta dai successori.

Ma allora quale dovrebbe essere una biblioteca dell’oggi? Senza perdersi in troppe disquisizioni, basta fare un paio di chilometri, e trasferirsi da via Mameli a Gorizia a Nova Gorica, nella piazza principale. La biblioteca “F. Bevk” è l’im-magine di quello che oggi dovrebbero essere le biblioteche: spazi molto grandi, senza barriere, luminosi, con i libri in vista, solo una piccolissima parte collo-cati in magazzini chiusi al pubblico (ma disponibili su piattaforme digitali), orari molto ampi, poco personale di vigilanza e molto personale appartenente alla car-riera bibliotecaria, raffinati e soprattuttocompleti cataloghi elettronici (inutile specificare che la Bsi, come altre grandi biblioteche nazionali, non ha l’intero posseduto sul catalogo elettronico).

Almeno i goriziani possono godere di due realtà bibliotecarie radicalmente dif-ferenti e fare i giusti paragoni (tra l’altro il pubblico di lingua italiana alla Bevk è in aumento, tanto che la direzione in-tende organizzare corsi di lingua italiana per i propri dipendenti).

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“Bome da tempo è ampia-mente accertato, lo sport svolge un ruolo fonda-mentale, sotto molteplici aspetti, nella crescita dei giovani. Infatti contribu-isce a rendere più forte e armonico il fisico, ad

accrescere le capacità mentali, a tem-prare il carattere e a sapersi relazionare in maniera rispettosa con le persone. Aspetti questi fondamentali non solo per praticare al meglio lo sport ma, soprattutto, per impostare adeguata-mente la vita futura. In particolare nei giochi di squadra, i ragazzi imparano a convivere e a cooperare con gli altri compagni con i quali, molto spesso, rie-scono a instaurare amicizie durature nel tempo. Lo sport potrebbe rappresentare quindi, se ben interpretato, un’autentica scuola di vita.

A rendere le cose più difficili purtroppo, in particolare nello sport giovanile, è la presenza di un numero sempre più consistente di genitori che, ricorrendo spesso a iniziative discutibili, ritengono, erroneamente, di agevolare la strada ai propri ragazzi prevaricando così le ba-silari regole dello sport. Gli esiti di tali azioni, che sono frutto principalmente di una scarsa cultura sportiva, di una smodata ambizione dei genitori, con-seguente ad aspettative esagerate, sono quasi sempre destabilizzanti e a farne le spese, molto spesso, sono proprio i loro incolpevoli figli.

Tra gli allenatori, il problema geni-tori viene costantemente dibattuto nel tentativo, al momento purtroppo vano, di trovare soluzioni per debellare questa piaga in costante aumento. Posso affermare con assoluta certezza che nell’ambito della pallacanestro, sport che tuttora seguo, la maggior parte delle società che svolgono un’attività giovanile non sono indenni da questo problema. Che i genitori aspirino il me-glio per i propri figli appare legittimo e scontato, ma dovrebbero capire che per

aiutarli veramente sarebbe sufficiente che si limitassero a spronarli in manie-ra equilibrata e a sostenerli nei mo-menti difficili che quasi sempre devono affrontare. Sarebbe opportuno, quindi, che rimanessero vigili, ma distaccati, evitando di interferire nel lavoro degli istruttori, persone tecnicamente prepa-rate. Agendo in questo modo, i ragazzi sarebbero più autonomi e conseguente-mente più responsabili delle loro scelte.

Invece accade tutto il contrario. Dopo un mese che il pargolo ha iniziato una nuova disciplina sportiva, il genitore sa già tutto di tecnica e di regolamento. Con le scarse nozioni acquisite, egli si sente autorizzato a insultare l’allenatore, che ovviamente è un incompetente pa-tentato, se l’impiego del figlio non viene ritenuto soddisfacente, oppure a inveire contro l’arbitro, spesso dell’età di suo figlio, se ha fatto un fischio non ritenu-to adeguato, o addirittura ad azzuffarsi con i genitori della squadra avversaria con epiteti irripetibili, se non arrivando addirittura alle mani.

Il tutto di fronte a ragazzini, la maggior parte giovanissimi, che vedono i loro genitori dare uno spettacolo indeco-roso. Il danno purtroppo non rimane fine a se stesso perché i figli, che amano incondizionatamente i propri genitori, possono ritenere che quel comporta-mento sia perfettamente legittimo, anzi da emulare. In questo modo si creano i presupposti perchè, una volta adulti, continuino ad alimentare la violenza nello sport, che a tutti gli effetti è diven-tata un grave problema sociale.

Penso che alla base di questo malessere, oltre alla limitata cultura sportiva, ci sia una tendenza, nella società odierna, a rendere la vita ai ragazzi la più facile possibile, scevra di fatiche eccessive e soprattutto di delusioni. Lo sport invece, oltre a dare il piacere di farlo, è fatto di impegno costante, di tanta fatica e purtroppo anche di molte delusio-ni. Pertanto ai giovani atleti andrebbe insegnato prima di tutto il concetto di saper accettare la sconfitta con serenità e con sportività, riconoscendo i meriti

Quando i genitorisono la rovinadello sportgiovaniledi Paolo Bosini

C

degli avversari. Anche di recente nel nostro Paese si sono verificati numerosi fatti incresciosi che hanno visto, purtroppo, come pro-tagonisti negativi genitori maleducati e facinorosi. Il più importante, al quale i media nazionali hanno dato ampio risalto, è quello accaduto a Castiglione delle Stiviere (Mantova) dove l’ allenato-re dell’under 13 di basket, il ventiseien-ne Marco Giazzi, ha ritirato la squadra dopo i reiterati insulti rivolti dai genito-ri presenti sulle tribune all’arbitro di soli 14 anni, pur sapendo che la sua deci-sione avrebbe comportato l’automatica sconfitta a tavolino. Uscendo dal campo ha trovato le parole giuste per commen-tare la sua decisione: “Oggi non hanno perso i ragazzi in campo, ma il basket, lo sport”. Per questo encomiabile gesto il 20 dicembre dello scorso anno gli è stato conferito da parte del Capo dello Stato l’onorificenza di Cavaliere dell’Or-dine al Merito della Repubblica Italiana con la seguente motivazione: “Per il suo esempio e l’ ammirevole contributo nell’affermazione dei valori della corret-tezza sportiva e della sana competizione nel mondo dello sport”.

Tutti i genitori che hanno figli che fanno sport dovrebbero leggere attentamente la succitata motivazione e riflettere con attenzione sui suoi contenuti.

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Marco Giazzi, il coach premiato da Matta-rella: ritirò la squadra per protesta contro i

genitori ultra’

Uno scorcio della Bsi di via Mameli, con il cortile interno

Top FiveLibreria Leg

1) “I dieci millenni dimenticati che hanno cambiato la storia” (Jean Paul De Moule)2) “C’era una volta l’amore” (Vittoria Baruffaldi)3) “La legge del sognatore” (Daniel Pen-nac)4) “I giusti” (Jan Brokken)5) “Ogni parola che sapevo” (Andrea Vianello)

Top FiveMusic Shop

1) “Ordinary Man” (Ozzy Osbourne)2) “Sanremo 2020” (Artisti vari)3) “Doc” (Zucchero)4) “Viceversa” (Francesco Gabbani)5) “Believe” (Albert Cummings)e “30° anniversario” (Marco Masini)

Accabadoraal Teatro Verdi

Tra i numerosi spettacoli in programma anche nel mese di marzo al Teatro Verdi di Gorizia, per la stagione allestita da Walter Mramor, segnaliamo, giovedì 19 marzo alle 20.45, “Accabadora”, versione per il palcoscenico del fortunato romanzo di Michela Murgia. Il testo (protagonista è Anna Della Rosa) racconta una storia am-bientata in un paesino immaginario della Sardegna. L’”accabadora”, in dialetto sardo, è una donna che aiuta le persone in fin di vita a morire…

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Il ricordo sbiadito di Elda Michelstaedter e Silvio Morpurgoin una targa di marmo “dimenticata” nel vecchio ospedale

di Vincenzo Compagnone

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una storia che abbia-mo già raccontato sul quotidiano “Il Piccolo”, ma che abbiamo voluto riproporre qui, con l’aggiunta di ulteriori particolari, soprattutto

per la proposta formulata e che, ci au-guriamo, possa essere accolta dai vertici dell’Azienda sanitaria.

Dagli anni 50 all’ex reparto maternità - E’ il racconto di una targa, una pic-cola lastra in marmo “dimenticata” nel vecchio ospedale civile di via Vittorio Veneto, all’ingresso di quello che fu il Dipartimento materno infantile (Pe-diatria e Ostetricia), intitolato – i nomi sono scritti in rosso sulla targa – a Elda e Silvio Morpurgo. E’ strano che sia rimasta lì, in quel contenitore ormai praticamente vuoto che da 12 anni è l’ex nosocomio. Strano perché nel dicembre del 2008, quando avvenne il trasloco nel San Giovanni di Dio (presidente della Regione era Renzo Tondo, assessore alla sanità Vladimir Kosic, direttore generale dell’Azienda sanitaria Manuela Baccarin) il Punto nascita e l’intero Dipartimento trovarono regolarmente posto al primo piano dell’ex Fatebenefratelli. Ancora non si parlava della sua chiusura, anche se era già da tempo in atto un sensibile calo delle nascite, che si materializzò soltanto nel luglio del 2014. Insomma, la targa non è stata lasciata lì di proposito, tanto nella nuova struttura non sarebbe servita. Nella fretta, l’hanno proprio abbandonata. E così quella placca di marmo è lì – pensate – da quasi set-tant’anni. E, tutto sommato, come si può evincere dalla foto, è ancora in buono stato. Per quanto piccola e semplice, la targa racchiude, per la città, un notevole valore simbolico legato alle modalità dell’apposizione, nei primissimi anni 50 quando l’ospedale civile era ancora in corso di ultimazione,e ai nomi dei co-niugi ai quali quello che all’epoca veniva comunemente denominato il “reparto maternità” (all’epoca si nasceva, in città, anche nella clinica Villa San Giusto) fu dedicato.

Chi erano i coniugi Elda e Silvio - Elda è Elda Michelstaedter (1879-1944), la secondogenita dei figli di Alberto, dopo Gino e prima di Paula e di Carlo, il “ge-nio di famiglia”. Venne arrestata il 9 no-vembre del 1943 dai nazisti che avevano occupato Gorizia e requisito, per farne la sede del comando della Sicherheitsdiens, il loro servizio di sicurezza, la bella villa

che tuttora porta il suo nome, all’angolo fra via Bagni (oggi Cadorna) e via Alvarez (oggi Diaz), costruita dall’architetto Girolamo Luzzatto tra il 1912 e il 1913 e attuale sede di Informest. Quan-do poi, nella notte del 23 novembre, vi furono il drammatico rastrella-mento e la deportazione degli ebrei goriziani (fu trascinata via dalla casa di via Pitteri anche la vecchia madre Emma Luzzatto, 89enne) dal carcere di Trieste anche Elda venne fatta salire sul convoglio n.21T diretto ad Auschwitz.Emma morì durante il terribile viaggio, mentre Elda, dopo una breve permanenza ad Auschwitz, fu trasferita nel campo di concentramen-to di Ravensbruck, il più grande lager femminile voluto personalmente da Himmler su un terreno di sua proprietà, dove trovò la morte il 26 dicembre 1944. Il marito,Silvio Morpurgo (1881-1941), viene ricordato invece come un medico-benefattore di grandi qualità professionali e umane, specializzato in cardiologia ma abilissimo diagnosta in tutti i rami della medicina, che dedicò l’intera esistenza alla sua professione, stimato e amatissimo dai cittadini anche perchè curava gratuitamente i poveri e i bisognosi.

Colpito dalle restrizioni imposte dalle leggi razziali del 1938 (in pratica gli era consentito di avere soltanto pazienti ebrei) morì di crepacuore – così si disse - tre anni più tardi. Nel 1940 gli era stata inflitta dal pretore una mul-ta di 5000 lire con l’interdi-zione dalla professione per cento giorni per aver curato dei “pazienti stranieri” (evi-dentemente non ebrei). Il medico aveva fatto ricorso e la seconda sentenza aveva accolto la tesi difensiva dei suoi avvocati. Ma eravamo ormai nell’aprile del 1941, e pochi giorni dopo, a soli 60 anni, il dottor Morpurgo si spense. Ai suoi funerali – narrano le cronache – par-tecipò una folla imponente,

alla quale era familiare la simpatica figura del medico col pizzetto bianco e con gli occhiali che percorreva incessan-temente le vie della città, in bicicletta o in auto, con la sua valigetta professionale per andare a visitare i pazienti.

Il baule da viaggio con i libri di Carlo e del papà - Le figure dei due coniugi sono state tratteggiate in modo esempla-re da Antonella Gallarotti in un saggio incluso nel bellissimo volumetto “La cassa dei libri – La famiglia Michelstae-dter e la Shoah”, a cura di Marco Menato e Simone Volpato, pubblicato di recente da Antiga edizioni.

Il nome di Elda, la figura meno rilevante, fino a un paio d’anni fa, della famiglia

Michelstaedter, è balzato alla ribalta nel 2018 in seguito al rocambolesco ritrova-mento di un baule da viaggio contenente libri di Carlo e del padre Alberto che la sorella maggiore aveva messo in salvo e dato in custodia, sempre nel 1943, a una famiglia amica, i coniugi Augusto e Rosa Bertoldi, un mese prima dell’arrivo dei tedeschi (altri cassoni erano stati consegnati a persone fidate), presagendo quello che purtroppo sarebbe successo. Elda, dopo la morte del marito, avrebbe potuto riparare in Svizzera, Paese neu-trale, come aveva fatto la sorella minore Paula che era andata a vivere dal figlio, Carlo Winteler a Meride, nei pressi di Lugano. Ma aveva preferito restare a Gorizia, perché non voleva lasciar sola l’anziana madre né si fidava a portarla con sé proprio per i disagi che il viaggio nella Confederazione elvetica avrebbe comportato.

Ma torniamo al cassone di libri ritro-vati due anni fa, durante un trasloco a Gradisca, dalla nipote dei Bertoldi, Franca, seguendo la ricostruzione di Antonella Gallarotti. Soprattutto alcuni volumi, imperniati sui temi del suicidio e della follia, presenti come appartenuti a Carlo in un elenco stilato da Elda, (ma scomparsi dal baule, il cui contenuto è andato ad arricchire il Fondo Michel-staedter istituito nella Biblioteca statale Isontina), hanno gettato nuova luce sulla tragica fine del giovane goriziano, offrendo al professor Sergio Campailla, il più autorevole studioso dell’intellettuale e filosofo, lo spunto per una nuova e aggiornata biografia, “Un’eterna giovi-nezza”, uscita lo scorso anno. Biografia nella quale viene adombrata una più ap-profondita chiave di lettura del suicidio, il 17 ottobre del 1910, del 23enne Carlo, nel giorno del compleanno della madre e dopo aver terminato, in condizioni psicofisiche disastrose, la stesura della famosa tesi di laurea imperniata su “La persuasione e la rettorica”.

La donazione di Paula per onora-re i congiunti - Tornando alla “targa dimenticata”, bisogna sottolineare che la sorella minore di Elda, Paula, rientrata a Gorizia dalla Svizzera nel 1950, ereditò tutti i beni della famiglia Morpurgo-Mi-chelstaedter. E, tra le altre cose, offrì all’ospedale una generosa donazione di ben un milione di lire per onorare la memoria del cognato Silvio e della sorella Elda: quest’ultima, nonostante molteplici tentativi e un intervento chi-rurgico, non riuscì mai a coronare il suo desiderio più grande, quello di avere dei figli, proprio lei che, di alcuni anni più “anziana”, aveva avuto un rapporto quasi da seconda mamma con Paula e Carlo, che le aveva dedicato due bei ritratti. Ecco il perché della collocazione della targa proprio lì, davanti al “reparto ma-ternità”. Elda, personaggio “minore” sin qui della famiglia Michelstaedter anche perché vissuta all’ombra del marito (era di temperamento nervoso ed emotivo,

maniaca della pulizia: proverbiali le sfu-riate al giovane Carlo), è stata di recente rivalutata pure alla luce del suo generoso impegno come crocerossina sul fronte austriaco in Polonia durante la Grande guerra (al seguito del marito, ufficiale medico), e successivamente del suo atti-vismo in associazioni benefiche femmi-nili goriziane negli anni Venti. Un innato altruismo che – secondo alcune testi-monianze – manifestò anche durante la prigionia nei lager nazisti, confortando e aiutando diverse compagne di sventura.

La tomba al cimitero di Valdirose - Chi si trova a visitare, in un suggestivo “itinerario transfrontaliero”, il cimitero ebraico di Valdirose, oggi in Slovenia, non potrà fare a meno di notare una tomba che consiste in una lapide bipar-tita, a ricordo cioè di due morti, Silvio ed Elda. Senonchè, com’è logico, solo il medico vi è stato sepolto, con la seguen-

È

te iscrizione: “Dottore in medicina / ai sofferenti prodigò il suo sapere / dei poveri amico e benefattore / passò sulla terra facendo il bene / sorretto dall’a-more dell’adorata compagna / da cui trasse ispirazione e conforto”. La seconda iscrizione ricorda invece, brevemente, Elda Michelstaedter, e va osservato che, insieme a quello di Paola Luzzatto, il suo nome è l’unico tra quelli dei deportati che si trova nel cimitero ebraico. Da ciò si desume che, alla morte del dottor Sil-vio, la vedova si era già fatta preparare il posto accanto a lui, e successivamente la sorella Paula ha fatto apporre l’iscrizione su una tomba vuota.

La nostra proposta - Non essendoci più il Punto nascita, la piccola lapide potreb-be – è un suggerimento che ribadiamo a conclusione di questa singolare e, sotto molti aspetti, avvincente storia – essere staccata dalla parete del vecchio “Civile” e portata comunque al San Giovanni di Dio. La sua collocazione ideale, a nostro avviso, potrebbe essere quella della cosiddetta “Aula sottochiesa” (così chiamata semplicemente perché ubicata nel seminterrato, proprio sotto la piccola chiesetta dell’ospedale), dove si svolgono le riunioni e le iniziative più importanti, nonché le conferenze stampa promosse dall’Azienda sanitaria. L’ampia sala è tuttora priva di un’intitolazione. Qualcu-no avrebbe voluto che fosse dedicata al compianto primario del Pronto soccor-so, Giuseppe “Pinuccio” Giagnorio: poi però, nel 2016, si ritenne di intitolare al simpatico e apprezzato medico spen-tosi prematuramente lo stesso Pronto soccorso, che per tanti anni era stato la sua seconda, se non prima casa. In ogni caso, sarebbe auspicabile la rimozione quanto prima della placca di marmo dal vecchio “Civile”, e una sua degna siste-mazione, prima che venga rovinata dal tempo e dall’abbandono, cosa che fino ad ora fortunatamente non è avvenuta.

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Elda Michelstaedter Morpurgo

La targa all’ingresso della Maternità dell’ex Civile

Il portone d’ingresso porta ancora la dicitura Villa Elda

Villa Elda, all’angolo fra le vie Cadorna e Diaz, dove abitaro-no Silvio Morpurgo ed Elda Michelstaedter,

oggi sede di Informest

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on basta scrivere “europeo” accanto ad un progetto per accreditarlo come degno di attenzione, e non basta lanciare una proposta defi-

nendola “europea” per renderla credibi-le. Se progetti e proposte non nascono da una “visione”, se non fanno riferimento a una chiara prospettiva di sviluppo per una città e per i suoi cittadini, allora non si può far altro che produrre idee fretto-lose, inconsistenti, che rischiano anche di logorare quell’aggettivo “europeo” così prezioso e importante per i goriziani.Questo è ciò che sta accadendo nella nostra città, dove il sindaco Ziberna vorrebbe costruire un “carcere europeo” a cavallo del confine con la Slovenia, nel comprensorio dell’ex Ospedale di via Vittorio Veneto. Napoleone Bonaparte affermava “Se vuoi avere successo nel mondo, prometti tutto e non mantenere nulla”. Sappiamo come è andata a finire per Napoleone e dunque si dovrebbe porre attenzione a non ripetere certi errori. Invece ci tocca ascoltare una pirotecnica sequenza di promesse su cui i goriziani ormai qualche dubbio si pon-gono. Dalla realizzazione di uno sfavil-lante outlet in via Rastello alla costru-zione di una Disneyland nostrana nei padiglioni dell’Expomego; dal rilancio dell’aeroporto di via Duca D’Aosta alla nascita di una Zese capace di rigenerare la disastrata economia cittadina; dall’a-pertura dell’ “Isonzo beach” alla rinascita dell’inutilizzato PalaBigot; per finire con la costruzione di una “torre sul confine” dotata di ristorante panoramico girevo-le: la nostra piccola torre Eiffel. Ultima arrivata: l’ardita promessa di costruire un “carcere europeo” per risollevare le sorti cittadine.

Crediamo che ormai nessun goriziano di buon senso rimanga affascinato da que-ste continue narrazioni, a cui i più non danno alcun peso, semmai sopportano con rassegnata pazienza. Ma la proposta di costruire un “carcere europeo” merita qualche riflessione, e solleva non poche domande.

Si pensa di realizzarlo attingendo a finanziamenti europei? Si tratta di un carcere destinato a detenuti provenienti da tutta l’Europa? Per quale tipologia di reati? Secondo quali regolamenti carcerari andrebbe gestito? Chi cono-sce la complessità delle procedure per attuare progetti europei anche sempli-

ci - come ad esempio quello in fase di realizzazione del Gect Go, che per la costruzione di pochi chilometri di piste ciclabili ha richiesto anni di preparazio-ne - dovrebbe essere cauto nel formulare simili ipotesi. Ma poi ci si potrebbe anche chiedere: non è sufficiente la Casa circondariale di via Barzellini, ancora da migliorare e completare nella previsione della “Cittadella della Giustizia” ? La nostra città ha realmente bisogno di un secondo carcere per assumere un ruolo nel contesto regionale, ed è poi questo il ruolo che le si vuol assegnare? E’ questa la priorità per Gorizia? Si può real-mente credere che un secondo carcere, per il solo fatto di definirsi “europeo”, porterebbe vantaggi economici, sociali, culturali e ai goriziani? Si eviterebbe la fuga dei giovani offrendo loro nuove opportunità di lavoro? Migliorerebbe il benessere e la salute dei cittadini? Favorirebbe la coesione sociale? Farebbe di Gorizia e Nova Gorica due città più integrate nel contesto europeo? Se illettore sente di non poter rispondere po-sitivamente deve sapere che ciò significa che siamo del tutto fuori dai temi e dai contenuti considerati veramente prio-ritari dall’Unione Europea per la nuova programmazione 2021-2027 e il futuro della politica di coesione, per i quali l’Ue intende erogare i nuovi finanziamenti. Cosa c’entri la costruzione di un carcere con quei temi è tutto da scoprire.

La proposta avrebbe ben altro valore se fosse inserita in un disegno di alto profi-lo etico e culturale: un progetto che, oltre a un mero edificio, considerasse la pos-sibilità di creare a Gorizia un luogo di studi internazionali, di approfondimenti, di confronto tra le culture giuridiche dei diversi paesi europei per ricercare e dare vita a una nuova cultura giuridica co-munitaria, sperimentare “pratiche altre”, capaci di coniugare in modo più efficace l’esecuzione della sanzione con la finalità ultima del reinserimento sociale, come previsto nella Costituzione. Purtroppo di tutto questo non vi è minima traccia nel progetto di “carcere europeo” per come ci è stato rappresentato. Ma non preoccupiamoci troppo: semplicemente non si farà.

Interroghiamoci, poi, sulla sede immagi-nata per questo insediamento, cioè l’area dell’ex ospedale civile. Sull’utilizzo di questo sito si sono fatte numerose ipotesi ben più interessanti, sostenibili ed “euro-pee”, ma troppo presto accantonate. Ne ricordiamo almeno tre. La prima: una

Un carcere europeo nel vecchio ospedale? E’ meglioripescare, per il riutilizzo, una delle ipotesi accantonate

di Franco Perazza

“cittadella della salute” in forte integra-zione con l’ospedale di Sempeter, che certamente avrebbe assegnato un diverso destino alla sanitàtransfrontaliera. Ma ormai non è più praticabile e dunque non la approfon-diamo. La seconda: una “Università europea”. Ipotesi ambiziosa, certamente più consona allo sviluppo di Gorizia e di Nova Gorica, candidate a “Capitale europea della cultura”. Un progetto serio e sostenibile per l’insediamento di un Ateneo europeo avrebbe rafforzato que-sta candidatura imprimendo notevole impulso alla vita delle due città. Studenti di diversi paesi europei sarebbero stati attratti da un Ateneo così innovativo e avrebbero riacceso la vita della città. La presenza, poi, di molti docenti avrebbe rappresentato una risorsa per le due città propiziando convegni, conferenze,incontri. Finalmente anche la struttura del Conference avrebbe rivestito un ruolo. Gorizia e Nova Gorica si sareb-bero trasformate in un vero e proprio Campus universitario europeo con ricadute economiche rilevantissime (e la qualità della vita dei cittadini, in parti-colare dei giovani, ne avrebbe tratto gran vantaggio).

La terza ipotesi, elaborata da un gruppo di architetti italiani e sloveni nell’ambito del Gect Go, prevedeva l’abbattimento degli edifici ospedalieri, la realizzazione al loro posto di una collinetta con tanto di piscina scoperta, vialetti, piste per passeggiate e jogging che si sarebbero collegate a quelle esistenti sulle colline adiacenti in territorio sloveno e italiano e al Parco Basaglia: un vero e proprio “parco transfrontaliero diffuso”, a forte impronta ecologica e culturale. Seavesse preso corpo questo progetto si sarebbe creata un’estesa area verde, attrezzata per attività ludiche, ginniche, di incontro e di socializzazione per tutte le fasce di età. Un’area capace di intercet-tare sia il cicloturismo locale che quello proveniente dall’Austria, attualmente in forte espansione.

Anche questa terza ipotesi ha avuto vita breve ed è passata nel dimenticatoio lasciando spazio alla brillante trovata del “carcere europeo”. A questo punto deci-dete voi se non sia più sensato ripescare una delle precedenti progettualità, alla luce di una visione e di una prospettiva che ai nostri attuali amministratori sem-bra purtroppo far difetto.

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N

per un treno proveniente da Trieste che volesse proseguire verso Bled. Questo perché manca la lunetta italiana.

Se un treno proveniente da Udine voles-se proseguire non verso Bled, ma verso Sežana, Divača e poi Lubiana si presen-ta il medesimo problema, perché manca la lunetta in territorio sloveno. Quindi dovrebbe proseguire verso Nova Gorica e poi invertire il senso di marcia. Anche in questo caso con notevole perdita di tempo.

Allora mi sono ricordato di vecchie chiacchierate fatte con gli allora asses-sori comunali Baresi e Pettarin, i quali davano per certa la costruzione delle lunette mancanti in tempi ragionevol-mente brevi. Vedasi un mio articolo pubblicato nel numero 2 del 2010 della rivista Rassegna Tecnica del Friuli Venezia Giulia, dal titolo ”Adria_A; Progetto transfrontaliero per il nodo ferroviario di Gorizia”. Era l’anno in cui nasceva il Gect per iniziativa dei sindaci Romoli, Brulc e Valenčič, sotto un vento di ottimismo tra i Comuni di Gorizia, Nova Gorica e Šempeter-Vrtojba. Oltre 10 anni fa.

Erano i tempi in cui, promotore Riccar-do Illy, si discuteva del Corridoio 5 ad Alta Capacità ferroviaria tra Venezia e Lubiana e si ipotizzava la penetrazione della linea su Trieste e il conseguente sforacchiamento del Carso triestino con lunghe gallerie. Il Progetto ”Adria_A” voleva invece realizzare una ”Metropo-litana leggera” a uso del traffico locale e di media distanza. Il primo passo per questo ambizioso progetto era la co-struzione delle due lunette mancanti in modo da evitare l’inversione di marcia nel passaggio tra le due linee ferroviarie goriziane. Il secondo passo era l’elet-trificazione della linea Nova Gorica - Sežana.

Da allora ogni tanto si parla di queste lunette senza che però la situazione si sblocchi. Se ne era interessata, da senatrice, Laura Fasiolo, intervenen-do caparbiamente presso RFI, la rete ferroviaria italiana, ma non è bastato. Pare che l’intervento sia pianificato per il 2024, facendo lievitare i costi a chissà quanti milioni e solo per la lunetta italiana. Per quella slovena invece sembra che tutto sia fer-mo. Non è dato sapere perché.

Mi è venuto però un sospet-to dopo aver ascoltato il Pre-sidente dell’Au-torità Portuale

La storiainfinitadelle “lunette”ferroviariedi Elio Candussi

C hiacchierando con Alessandro Puha-li il discorso cade inevitabilmente sulle ferrovie, la sua passione, e in parti-colare sulle famose

”lunette” di Gorizia e Nova Gorica, cioè quei raccordi che dovrebbero velocizza-re il traffico ferroviario tra le due linee che attraversano il territorio goriziano, la ”Meridionale” e la ”Transalpina”. Lunette strategiche per il nostro nodo ferroviario, di cui si parla ormai da molti anni ma che dormono ancora in qualche cassetto.

Quale è il problema? Quella che un tempo si chiamava ”Meridionale” è la linea che attualmente collega Udine e Trieste, passando per Monfalcone e Gorizia centrale. Invece la ”Transalpina” parte da Sežana e, passando per Nova Gorica, sale verso Most na Soči e Bled fino in Austria. Le due linee si sfiorano nel Goriziano ma non si toccano, sono però collegate da un breve raccordo ad H che corre a fianco dell’autoporto di S.Andrea / Vrtojba. Questo raccordo si innesta alle due linee con due soli archi di cerchio, quello sloveno in direzione della Stazione di Nova Gorica e quello italiano in direzione della Stazione di Gorizia Centrale. Questo significa che, ad esempio, un treno proveniente da Bled può deviare agevolmente solo in direzione Gorizia ed Udine, ma non verso Trieste. Se volesse proseguire per Trieste dovrebbe entrare a Gorizia Centrale poi invertire la marcia, con conseguente perdita di tempo, specie se il convoglio è lungo. Lo stesso accade

di Trieste Zeno D’Agostino a una confe-renza organizzata dalla Fasiolo nell’apri-le 2019. E’ evidente che Gorizia e Nova Gorica sono alla periferia dei rispettivi Stati, in quanto le linee di comunica-zione ferroviarie più importanti pas-sano altrove, però godono di un nodo ferroviario potenzialmente strategico, non solo per le due città, ma pure per le rispettive regioni. La Slovenia ha inte-resse a rafforzare il porto di Capodistria e a collegarlo con una linea ferroviaria veloce con Divača e quindi Lubiana. Dubito che riescano a realizzarla nel medio periodo dati i costi impegnativi e nel caso solo con il supporto deter-minante dell’Europa. Viceversa non dimostra interesse ai collegamenti verso ovest, verso Nova Gorica, Gorizia e la pianura padana. All’opposto la Regione Friuli Venezia Giulia vuole usare i porti di Trieste, Monfalcone e S.Giorgio di Nogaro sotto un ‘unica regia e collegarli col resto d’Europa attraverso autostrade (che già ci sono) e con tratte ferrovia-rie ancora non ben definite, nel senso che la direzione è chiara verso nord (Udine e Tarvisio) e verso ovest (cioè Venezia e poi Milano), ma come uscire dall’imbuto di Trieste? E gli sbocchi di Trieste verso est? Chiaro che la Slovenia non ha interesse a favorire un collega-mento ferroviario veloce tra Trieste e Lubiana, perché sarebbe in concorrenza con Capodistria. Né sembra purtroppo che Trieste e Capodistria desiderino collaborare e trovare sinergie in questo piccolo mare Adriatico. Ergo il Corrido-io 5 non si farà mai!

Quali alternative? Rispolverare il vec-chio progetto Adria A, cioè una specie di metropolitana veloce tra Gorizia e Sežana, che consenta di arrivare a Lubiana in tempi ragionevoli. Quindi lunette ed elettrificazione della tratta fino Sežana. Soluzione dai costi relati-vamente contenuti. Ma scommetto che, sotto sotto, questa scelta sia boicottata da Trieste che sogna di salire sul Carso da Campo Marzio e poi arrivare a Sežana e quindi Divača. Chi ce la farà per primo? Trieste o Gorizia?

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da settimane che vedo Leon pensieroso. Mangia poco, scherza poco. Credo ci sia di mezzo una di quel-le ragazzine della scuola.Ho preferito lasciarlo in pace, perché so bene

quanto possano essere odiosi quelli che ti stanno sempre addosso, però negli ultimi giorni ha messo da parte persino il libro di astrofisica. E questo mi preoc-cupa.Così, mentre sorseggio la birra e acca-rezzo distrattamente Nick butto lì, “C’è qualcosa che non va?”Leon, impegnato a fare i compiti, neppu-re si volta.“No”, dice soltanto.Non insisto. Però passo al piano B. Pren-do Nick, che ovviamente non approva e di certo non fa nulla per nasconderlo, e glielo metto sulle ginocchia.Il gatto, che nel frattempo ha compreso, si stiracchia e si acciambella.Leon accenna un sorriso e prende ad accarezzarlo. Nick approva. E di certo non fa nulla per nasconderlo.Io torno al divano e alla mia birra.“Nonno Frank?”“Dimmi”.“Come si fa a scegliere una ragazza inve-ce di un’altra?”“…”“…”“Visto che c’eri potevi chiedermi cos’è un salto quantico”.“Quello è il passaggio di un elettrone da un livello di energia a un altro senza passare attraverso uno stato intermedio”.“…”“…” “Ragazze, dicevi?”“Sì”.“Beh, non c’è un modo”.“No?”“No, nel senso che non c’è un modo infallibile”.“E tu?”“Io cosa?”“Come hai scelto la nonna Tina?”“Lo vuoi davvero sapere?”“S씓…”“…”“Vedi, potrei dirti che è stato per il suo bel culo, ma la verità è che lei vedeva cose. E soprattutto le accettava”.“Quali cose?”“Quelle peggiori”.“Perché peggiori?”“Perché sono quelle parti che, al di là di tutte le belle parole con cui ci si riempie la bocca, in realtà quasi nessuno vuole vedere”.“E nonna Tina accettava questo?”“Già. Accettava parti di me di fronte alle

quali tutti gli altri scappavano. Persi-no le persone più intelligenti, dotte ed esteriormente altruiste che abbia mai conosciuto”.“Quali parti?”“Quelle peggiori, te l’ho detto”.“E quali erano queste parti peggiori?”“Forse un giorno te le racconterò. Ades-so non è il caso”.“Perché?”“Perché sono troppo complicate”, taglio corto.Leon non replica. Ma il suo sguardo ferito mi trafigge.Io fingo di dedicarmi ad altro. Però sento che dentro di me qualcosa si è incrinato. Qualcosa che ha l’insopportabile sapore del senso di colpa.Per fortuna mi viene in soccorso Alice. È venuta a prendere Leon per portarlo a casa.Li saluto forzando un sorriso. Poi torno in soggiorno e mi guardo attorno. Mi sento sfinito. Così spengo tutto e vado dritto a letto.Nel buio della stanza, però, i pensieri co-minciano a vagare. Troppi. E soprattutto troppo complicati.Mi dimeno. Provo a distrarmi. Per ore. Inutilmente.Così accendo la luce e guardo l’orologio. Sono già le quattro. Sbuffo, mi alzo e vado in cucina a farmi un caffè.Passando dal soggiorno Nick mi guarda strano. Una volta versate le crocchette nella ciotola, però, evaporo repentina-mente dai suoi pensieri.Mi vesto ed esco. Salgo in macchina e mi metto a vagare senza meta lungo le strade deserte della città. Ho sempre adorato la notte, la città addormentata e silenziosa. Spesso, in momenti come questo, ho assaporato la bellezza di un mondo fatto solo di notte. Tenera, diceva Francis Scott. Agghindata di buio e quie-te aggiungo io. E nient’altro.Imbocco Corso Italia, svolto a destra in viale XXIV Maggio e poi a sinistra, e passo davanti al Municipio. Quanti giorni trascorsi dentro quelle mura a di-scutere di pratiche edilizie e burocrazia.Arrivo in Piazza della Vittoria e mi soffermo un attimo a osservare l’impo-nente e sgraziato edificio dell’Inps. Che fa il paio con quell’ascensore invisibile sul lato opposto che ormai, in quanto a tempi, se la sta giocando con la Sagrada Familia. Fanculo l’ascensore. Dal colle, il Castello mi ammonisce puntando verso il cielo un tricolore sbiadito.Giro a sinistra e imbocco la strada che porta fuori città. Mi è sempre piaciuta questa strada. Il suo modo di lasciarsi alle spalle gli insipidi rettilinei dell’abita-to per inerpicarsi lungo il versante della collina nel suo caotico, eppur sensato,

Quell’insostenibile nostalgia di Tina che assale Frankmentre guida senza meta nelle strade deserte della notte

di Giorgio Mosetti

groviglio di curve mi fa sentire bene. Meno inutile, direi.Guido senza fretta, lasciando scivola-re con dolcezza il volante tra le mani. Oscillo ad ogni curva, in una danza in-dolente. Le fronde degli alberi si stanno facendo folte. La primavera è in arrivo. Si vede, si sente, e non posso farci niente. Mi consolo con l’oscurità, anche se è destinata a soccombere. In lontananza, infatti, i primi bagliori dell’alba stanno già inghiottendo l’estremità della notte.Pazienza, mi dico. In fondo domani ritornerà.In cima alla collina la strada torna a spianare e a farsi diritta. Una lunga, nera cicatrice sul volto ordinato e brullo della campagna. Senza curve, anche il mio umore si appiattisce, e l’assenza di aspe-rità, di argini rassicuranti, mi rende vul-nerabile, esposto all’orribile mondo dei ricordi. Non mi piace ricordare. Troppi morti là dentro, anche solo figurati. Così scalo una marcia e do gas a fondo nella vana illusione di poter sfuggire a qual-cosa che so perfettamente essere troppo veloce per me.Tina.Ci provo, ma non riesco neppure a immaginare la sua inesistenza. Eppure sono trent’anni che non la vedo, trent’an-ni da quando è morta. Ma a quanto pare non basta. Su certe cose il tempo non ha potere.Ripenso a lei e rivedo il suo volto. Il volto di una giovane donna di poco più di trent’anni. Immobile, immutabile, come in un vecchio ritratto impolverato appeso di sghembo alle pareti troppo zeppe della mia memoria, e che negli altri trent’anni, gli ultimi, non ho potuto neppure permettermi di osservare, né di vederlo invecchiare. Chissà come sarebbero stati i tuoi quarant’anni Tina. E poi i cinquanta, e i sessanta. E poi basta. Perché gli altri non ci sono, né mai ci saranno. Per sempre. Per quell’eternità che tanto detestavamo perché ci faceva paura, e che esorcizzavamo disprezzan-dola, e schernendo tutti coloro che vi aspiravano aggrappandosi a una fiaba grottesca piena zeppa di magagne e incongruenze.Chissà come sarebbe stata la tua vita, Tina, la nostra vita, se quel giorno non ti avessi voltato le spalle. Chissà dove saremmo andati, cosa avremmo fatto, cosa avremmo visto e chi avremmo incontrato.E allora ripenso a tutte le volte in cui avrei voluto cercarti, solo per avere la possibilità, o anche solo il coraggio di spiegarti. Ma questo, lo sai meglio di me, non me lo potevo permettere. Tu, più di chiunque altro, sai quanto io sia codar-do. Lo sono sempre stato.

È

E non c’è giorno in cui non mi chieda cos’è che veramente mi abbia fatto pren-dere le distanze da te. E l’unica risposta a cui sia mai giunto è stata il tuo tono. Già, proprio nulla di più del tuo tono. Il tono con cui talvolta mi dicevi le cose, e che mi faceva sentire deriso, giudica-to, sbagliato. Un tono che mi riportava a troppe cose passate, a quel sentirmi preso in giro da tutta la mia famiglia per la mia timidezza, al sentirmi deriso. Al perenne giudizio di mia madre, con quel suo biascicare seccato, di inadeguatezza, di incapacità, di… Non vali un cazzo! Al suo costante rimprovero per le mie manchevolezze, per il mio essere sempre e comunque inadeguato.E il tuo tono, sebbene completamente di-verso dal suo, aveva lo stesso effetto su di me. Un tono in cui io - e probabilmente solo io - scorgevo la palese, dolorosa cri-tica al mio dimenticare cose importanti, cose che tu mi dicevi, oppure persone che avevamo incontrato assieme, che tradotto significava non tenere a te. O almeno così ero io che immaginavo tu la interpretassi.E tu, alle mie rare reazioni scomposte, replicavi giurandomi che la critica non c’era nel modo più assoluto, e che era solo un prendermi in giro, uno scherzar-ci su.E io ti credevo. Non avevo dubbi al riguardo. Ma allora cos’era che così tante volte mi faceva sentire in quel modo? Arrabbiato, criticato, ferito, deriso? An-che quando sapevo che mi stavi sempli-cemente prendendo in giro? Non poteva essere la permalosità, visto che ero sempre stato il primo a scherzare su di me, così come ci ridevo su quando lo facevano i miei amici. E allora non poteva che essere il tono. Già, solo un insignificante tono. Nel quale era come se ci fosse della criptonite, e che, proprio come quello di mia madre tanti anni prima, mi penetrava e mi squarciava, portandomi troppe volte a sentirmi castrato.Eppure, molte volte avevo preferito man-dare giù il rospo. Avevo fatto buon viso a cattivo gioco, convinto che il problema fosse mio e solo mio, e non le tue parole o azioni. Con l’unico risultato di chiu-dermi in un silenzio apparentemente sereno, che però mascherava il profondo disagio e malessere interiore che stavo vivendo. E questo non mi piaceva affatto, ma era l’unica forma di difesa che avevo imparato.Solo in un paio di occasioni, sicuramen-te te lo ricordi, tutto questo era uscito alla luce del sole. Quel giorno al mare, in cui mi criticasti con asprezza per i miei prolungati isolamenti, e poi quella sera in cui, chiedendoti se ti ricordassi di quella certa Francesca, sgranasti gli oc-chi, e poi mi dicesti: “Ma eravamo fuori assieme l’altra sera! Ecco! Lo sapevo!” con un tono canzonatorio che mi aveva mandato in bestia. Tanto da spingermi ad allontanare bruscamente la tua mano che nel frattempo mi si era posata sul mio braccio, e facendomi chiudere in un silenzio tanto monumentale quanto infantile.E a nulla era valso il tuo tentativo di

ammorbidirmi, dicendomi che stavi solo scherzando, e che nelle tue parole non c’era la benché minima traccia di critica. Io, intrappolato nel mio dolore antico, non avevo mosso un muscolo. Non ti avevo neppure guardata. Fino al punto in cui ti alzasti, mi dicesti che eri dispiaciuta che pensassi questo di te, e te ne andasti, senza che io facessi niente per fermarti.

Lo so, sono un vero stronzo. Questo l’ho sempre saputo. Perché chi altri se non uno stronzo rovinerebbe la cosa più bel-la che ha solo per un insignificante cazzo di tono? Ma io questo sono. E tu più di chiunque altro l’hai sempre saputo. Così come sapevi, unica tra i molti, quanto io avessi combattuto dentro e fuori di me ogni singolo giorno con quei dolori inenarrabili, cercando di fare tutto ciò che era in mio potere per essere il più normale possibile e per fare il minor male possibile agli altri, e a te su tutti, anche a costo di anteporre l’altrui benes-sere al mio.Certo, può sembrare un paradosso dire questo, visti i miei molteplici compor-tamenti scorretti, cinici e soprattutto di fuga e isolamento in cui troppo spesso mi rifugiavo, e che potevano far pensare a una forma di egoismo. Ma è proprio qua il punto. Gli altri, la maggior parte degli altri, non si erano mai resi conto di quanta fatica io facessi per metterli a loro agio. Tu invece sì. Ed era per questo che ti amavo.Ma nonostante ciò, nonostante tutti gli sforzi che facessi, non riuscivo proprio ad andare oltre a quel maledetto tono, e a liberarmi dagli effetti debilitanti di una sostanza tossica che neppure c’era, e che continuava a farmi sentirmi deriso, criticato e giudicato. Ignaro com’ero, all’epoca, di essere l’unico idiota che in quel momento stesse giudicando.Il sole ormai è sorto. Proprio davanti a me. Tiro giù l’aletta per riparare gli occhi e mi accendo una sigaretta. Abbasso il finestrino e mi lascio sferzare il volto dall’aria frizzante. Do una bella tirata e trattengo a lungo il fumo nei polmoni prima di sbuffarlo con rabbia contro il parabrezza.Poi allungo una mano, e sbatto la cenere fuori dal finestrino.

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La grande arte al cinema:è la volta di Modigliani

Per il ciclo “La grande arte al cinema”, in occasione del centesimo anniversario della morte, arriva al Kinemax “Maledetto Mo-digliani”. Sarà proiettato il 30 e 31 marzo, e il primo aprile. Prodotto da 3D produzioni e Nexo digital, diretto da Valeria Parisi e scritto con Arianna Marelli su soggetto di Didi Gnocchi, il docufilm racconta la vita e le opere di Amedeo Modigliani (1884-1920), genio ribelle, artista scandaloso e maestro indiscusso dell’arte del Novecento.

Rassegna cinematografica ANIMAMENTE 2020

“Vento e controvento. Le donne tra passato e futuro”Il tema della rassegna cinematografica Animamente organizzata da Sos Rosa quest’anno “Vento e controvento. Le donne tra passato e futuro”. “ Vento e contro-vento” sono due termini inusuali per raccontare gli eventi di tutti questi anni e le conquiste raggiunte tentando di togliere i pregiudizi e gli stereotipi. Sono state iniziative sospinte dal “vento”, dalla sua brezza, quel sottile alito che fa muovere i piedi verso strade nuove, con la consape-volezza che è impossibile rimanere ancora ferme. Il cammino non è stato e non è ancora facile, spesso le difficoltà ci hanno fatto compagnia e ci si imbatte nella fatica del camminare “controvento” che può far desistere o rafforzare la volontà di conti-nuare. La parola “controvento” ha diversi significati, certo il camminare o navigare controvento, ma è anche il termine che viene usato per indicare il cavo per rinfor-zare i ponti contro le azioni del vento. Leg-gendo le varie accezioni di questo termine ci si accorge che il vocabolo “controvento” non indica solo fatica, ma anche forza. Vuol dire andare “controcorrente” per portare avanti il proprio pensiero sospinte dal “vento” che fa guardare verso nuovi orizzonti. Da queste riflessioni è nato il nome della rassegna per comprendere la forza delle donne che, con fatica ha messo in moto tutto, ma soprattutto, l’importanza per le donne di puntellare e consolida-re quello che si è costruito. Il valore di rinforzarne le basi per poter continuare a mettere dei nuovi mattoni senza mai dare nulla per scontato. Con i film proposti si vuole riflettere sulle conquiste dei movi-menti femministi e femminili del secolo scorso, sui cambiamenti di vita che queste hanno portato e ricordare l’importanza e necessità di vigilare sempre e presenziare a difesa dei diritti riconosciuti affinchè infuturo non vengano sottratti. Il cammino delle donne verso una concreta liberazione è stato e sarà come camminare nelvento, talvolta a favore, talvolta contro, cioè con alti e bassi, avanzamenti e battute d’arresto, ma sempre verso un traguar-do che prima di tutto è necessario avere dentro di sè. Un traguardo che implica una presa di coscienza delle contraddizioni che le donne accettano e che possono rifiutare e le renda consapevoli e responsabili di tutte le scelte che fanno.

PROGRAMMA09.03 ore 17.00, Kinemax Gorizia “Libere disobbedienti innamorate” 16.03, ore 17.00 Kinemax Gorizia, “Vergine giurata” 23.03, ore 17.00 Kineamx Gorizia, “Le invisibili”30.03, ore 17.00, Kinemax Gorizia, “Dolcissime”02.04, ore 20.00, Punto Giovani, “Suffragette” 09.04, ore 20.00, Punto Giovani, “Juno”

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orizia è ancora la “Nizza austriaca” delle nostalgie, più mitologiche che altro, dei tempi di Franz Josef?

Basta una breve passeggiata per scoprire ovunque cicche, pacchetti di sigarette, bottiglie di plastica, fazzoletti di carta e di stoffa, memorie di fugaci incontri di sesso “sicuro”. In certi luoghi, in altri tempi sorprendenti mete di passeggiate a pochi metri dal centro cittadino, ci sonodelle vere e proprie discariche, alimen-tate dalla maleducazione dei cittadini e dall’impotenza delle istituzioni.

Impotenza o incuria? L’Ammini-strazione di un Comune ha la re-sponsabilità del decoro urbano. E’ indispensabile un intervento urgente per scongiurare possibili pericoli per l’incolumità dei cittadini e ripristinare la dignitosa fruibilità dell’ambiente.

E’ vero che tra il dire al fare, come sempre, c’è di mezzo il mare, sotto for-ma del legittimo controllo sulla spesa del denaro pubblico e delle condizioni di sicurezza che devono essere garanti-te ai lavoratori impegnati nel lavoro di sistemazione dell’area interessata.

Allora, che si deve fare? Proponiamo un percorso nel quale scegliere in ogni passaggio l’opzione possibile.

Il cittadino si accorge della presenza di rifiuti abbandonati. Fa finta di niente oppure segnala la situazione alla Po-lizia Locale. Nel secondo, auspicabile caso, l’ente locale è tenuto a intervenire immediatamente, verificando anzitutto la proprietà del sito inquinato. Se l’area è pubblica, occorre accertare la natura degli oggetti abbandonati, nei casi abba-stanza rilevanti, attraverso una richiesta all’agenzia per la protezione ambientaleche classifica la pericolosità e determina il da farsi: da un semplice ordine di ser-vizio agli operai comunali fino al ricorso a ditte specializzate nel trattamento di rifiuti potenzialmente tossici. Se il sog-getto da coinvolgere non è direttamente dipendente, occorre passare alle proce-dure di incarico e ai contestuali impegni di spesa. Dalla scoperta dell’illecito alla sua risoluzione può, dunque, passare molto tempo, senza contare il successivo obbligo di notificare le spese ai responsa-bili, ordinariamente irreperibili.

Nel caso in cui l’area sia privata, il proce-

dimento si complica ancor più: bisogna ingiungere al proprietario – non sempre colpevole, anzi spesso inconsapevole - di provvedere a proprie spese alla rimo-zione dei rifiuti e alla sistemazione del terreno. Nel caso in cui sia irreperibile o comunque non rispetti l’ordinanza, scaduti i termini deve provvedere l’Am-ministrazione Comunale, seguendo l’iter già indicato e reclamando poi il rimbor-so al proprietario (con possibile rifiuto e avvio di interminabili cause giudiziarie).

Finora abbiamo parlato dell’abbandono

di rifiuti in quantità limitata. Ma se si affronta il tema di vere e proprie discari-che a cielo aperto, la questione si ingar-buglia, anche per l’incredibile assenza normativa in materia.

Lasciamo da parte l’inquinamento di terra, acqua e aria, che richiederebbe un ulteriore approfondimento, come ad esempio quello che pochi coraggiosi chiedono da anni intorno al cementificio di Anhovo.

Si tratta invece di capannoni industriali abbandonati, colmi di “reliquie” di un tempo passato, per lo più riconosciuti non immediatamente pericolosi dalle autorità sanitarie. Quasi ogni Comune ha una discarica, più o meno grande, con questa tipologia. Nella maggior parte delle situazioni, dietro alla realtà di grande degrado ci sono catene di fallimenti e di passaggi di proprietà che rendono assai complessa la ricerca dei proprietari o dei responsabili. La pro-prietà rimane comunque privata, ma il paesaggio deturpato è pubblico e il reato di danneggiamento implica un inter-vento da parte del Comune, in quanto garante dei diritti di tutti i cittadini.

Ricevuta la segnalazione, di solito da

Rifiuti abbandonati e discariche a cielo aperto: i Comunidevono intervenire ma il vuoto legislativo è un grosso ostacolo

di Andrea Bellavite

un’autorità competente (Polizia Locale, Carabinieri, Forestale, ecc.), l’ente locale ha il compito di emettere un’ordinanza contro la proprietà, contenente l’ingiun-zione di ripristinare il buono stato dell’a-rea entro 60 giorni. In realtà quasi nessu-no ottempera alla richiesta, e il Comune è costretto a intervenire direttamente,dopo aver ricevuto i permessi di inter-vento. Teoricamente sarebbe necessarioindire una gara per assegnare il lavoro, di solito alquanto oneroso (dai 500mila euro in su). Essendo proprietà privata, non è possibile chiedere contributi pub-

blici alla Regione, allo Stato o all’U-nione Europea. Niente paure, direte voi, ci si rivale poi sui proprietari… No, perché ovviamente essi continua-no a essere irreperibili, ricevendo al massimo qualche inutile ingiunzione di pagamento.

Conclusione: ammesso e non conces-so che un Comune si voglia avventu-rare in questo ginepraio, al termine si troverà con le casse vuote e senza la possibilità di riqualificare un terre-no che rimane proprietà di chi lo ha deturpato.

C’è qualche alternativa? Ci sarebbe, se esistesse una normativa tanto ovvia da

lasciare stupefatti della sua assenza. Ci riferiamo alla possibilità di espropriare un terreno che un individuo o una ditta non sono stati in grado di mantenere in condizioni dignitose o comunque di acquisirne la proprietà contestualmente al riconoscimento della situazione di degrado. Se ciò fosse possibile, si apri-rebbero numerose strade contributive e inoltre, ripristinata l’area, il Comune potrebbe riutilizzarla per i propri scopi, fino a un’eventuale rivendita e recupero di almeno una parte delle risorse econo-miche impiegate.

Il messaggio è chiaro ed è rivolto ai Co-muni che si possono permettere o hanno il coraggio di avviare un esproprio “per motivi ambientali”, andando incontro a una serie di cause giudiziarie che potreb-bero “fare giurisprudenza”. Ed è rivolto al Legislatore, affinché si riempia quanto prima questo vulnus, definendo le condizioni del passaggio dalla proprietà privata a quella pubblica. Se ciò si verifi-casse, migliaia di aree degradate, in Italia e anche nel Fvg, potrebbero finalmente essere ripristinate e diventare un benecomune strappato all’interesse di pochi.

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Ga «Quando Dio ti ha creato / ha fatto un miracolo / perché ogni volta che ti guardo negli occhi / io credo» a «Non ignoro sogni e

desideri / ma ho molte asce di ghiaccio dentro di me / ho paura che il tuo calore le scioglierebbe» passando per «Non cancellare nessun giorno dalla mia vita / I giorni belli mi hanno regalato la felici-tà / quelli brutti mi hanno dato l’espe-rienza / e i peggiori mi hanno insegnato / a vivere».

Questi sono versi da “Non essere triste viaggiatore - Poesie dall’esilio” una raccolta di poesie di Maria Paola Mioni, che ha lavorato e insegnato ai migranti negli ultimi 9 anni. La signora Mioni si è laureata all’Università di Trieste e ha insegnato storia e filosofia negli istituti tecnici per quasi quarant’anni. Quan-do è andata in pensione, ha iniziato a insegnare l’italiano come volontaria ai rifugiati a Trieste nell’ambito del pro-gramma di accoglienza difusa dell’ICS (Consorzio Italiano di Solidarietà). Ho avuto il piacere di farle alcune domande su questo bel libro.

Cosa ti ha motivato a insegnare l’ita-liano come volontaria?Un mese dopo essere andata in pen-sione, ho incontrato due badanti che avevano difficoltà a parlare italiano, ho iniziato a insegnare loro e poi gradual-mente il mio entusiasmo è cresciuto. Dato che avevo abbastanza tempo e volevo contribuire alla coesione sociale, sono andata al Consorzio Italiano di Solidarietà per offrire i miei servizi di volontariato e mi hanno accolto a brac-cia aperte. Così è iniziato il mio viaggio.

Quanti immigrati hai visto in questo periodo?

stanno ancora scrivendo poesie? Sei rimasta in contatto con loro?Alcuni lavorano in diverse città d’Ita-lia, altri hanno fatto ricongiungimenti familiari, altri ancora hanno aperto bar, negozi. Li sento ogni tanto. Alcuni stanno ancora scrivendo poesie e persi-no condividendole sui social media. lo studente più attivo è Hedayatullah Sa-berjo, la persona che ha contribuito per la maggior parte del mio libro. Scrive in modo filosofico. Come in una delle sue poesie nel mio libro dice:

Ricordo le notti d’estate a Konduz.Dormivamo all’aperto nei freschi cortiliDavanti alle case, sotto le stelle.C’erano sempre due stelleSole all’inizio del cieloDue stelle vicine come sorelleSedute là dove il cielo resta azzurro più a lungo.Una sera mostro sorpreso alla nonnaQuelle due stelle vicine:perchè non brillano più insieme?Una stella è luminosaL’altra mi sembra stanca La nonna mi prende per mano:ancora non sa, la stella che brilla,che mio fratello è partito...mi stringo alla nonnae insieme guardiamo il cielo stellato.

Il governo precedente con i decreti di sicurezza, ha tolto l’insegnamento della lingua italiana dai costi dell’ac-coglienza, secondo te qual è stato e quale sarà l’impatto?Vedo che questa è una situazione disastrosa, anche l’attuale governo non si sta muovendo. Insegnare la lingua ai rifugiati è uno strumento di base per includerli dal punto di vista socio-e-conomico. Il mio libro intitolato “Non essere triste viaggiatore” è un esempio perfetto. La gente è venuta qui, ha imparato la lingua e ha scritto poesie in lingua italiana, ciò significa che hanno contribuito alla nostra lingua e alla nostra letteratura.

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Inizialmente nel 2009, quando ho ini-ziato a fare volontariato, c’erano africa-ni, curdi e balcanici, poi dal 2013-2104 hanno iniziato ad arrivare i rifugiati afgani e pakistani.

Come ti è venuta l’idea di fargli scrive-re un libro di poesie?Fin dall’inizio, ho insegnato l’italiano con il mio metodo. Portavo diapositive in power point, insegnavo cultura euro-pea, cultura italiana, storia, educazione civica. Parlavo di Costituzione, della liberazione delle donne, del femmini-smo , delle poesie come arte. Alcuni si dimostrarono interessati, cominciarono a scrivere poesie e mi spinsero ad anda-re avanti. Ad esempio, ho presentato i grandi poeti come Saffo, Leopardi, ecc. E le loro poesie. Il grande amore per loro era diventato un simbolo.

In quale lingua scrivevano/scrivono le poesie e come erano motivati a farlo?Sembra un miracolo, ma i miei stu-denti scrivevano poesie in italiano. Le stavano persino pensando in italiano, e questo rimane un punto-chiave nella mia esperienza di vita. Forse inizial-mente sarebbe stato noioso per loro, ma io organizzavo delle gare di poesie all’interno della classe, forse con questa tecnica si accendeva una scintilla nelle loro menti.

Quali sono state le prime poesie che ti hanno affascinato?Le prime due poesie di uno studente, Chaghatai Muhammad Afghan, quelle che mi hanno indotto a proseguire. Come in uno dice:

«Ho chiesto alla montagna: cos’è l’amo-re? Ha tremato./Ho chiesto alle nuvole: cos’è l’amore? Ha piovuto./Ho chiesto al vento: cos’è l’amore? Ha soffiato./Ho chiesto alle farfalle: cos’è l’amore? Han-no sbattuto le ali./Ho chiesto ai fiori: cos’è l’amore? sono sbocciati./Ho chiesto agli uomini: cos’è l’amore? Nei loro occhi è apparsa una lacrima, è pazzia, mi han detto.

Tra i tuoi studen-ti-poeti, c’erano solo giovani o anche adulti?Ho insegnato a tutte le età. Tra gli studenti c’erano Messam Ali di 44 anni e Asghar Ali di 17, chei con i suoi infantili versi dice:

Quando la tristezza bussa alla portaApri con un bel sorriso, e devi direMi dispiace ma oggiLa felicità è arrivata prima!

I tuoi studenti

Maria Paola Mionila prof che ha fattoscoprire ai migrantila bellezza della poesiadi Ismail Swati

DUn’area degradata nella Valletta del Corno

La professoressa Maria Paola Mioni, volontaria all’Ics di Trieste

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volte ritornano, nel caso del Circolo Arci a Gorizia, a più di 40 anni di distanza. In questo mezzo seco-lo sono successe un sacco di cose, a livello mondiale e locale, ma

ciò che oggi come allora è stato de-terminante per la sua fondazione è la voglia di riempire degli spazi, in senso letterale e metaforico: vivere attivamen-te la città, presidiarne i luoghi poco noti o sotto utilizzati, conoscerla in tutte le sue sfaccettature ma anche proporre una nuova idea di socialità e offerte culturali alternative a tutti coloro che non trovano nel luogo in cui vivono gli stimoli per farlo al meglio. In una parola, COMUNITÀ.

Dopo un intenso percorso partecipa-tivo si è costituita, nella notte del 13 febbraio, l’associazione ARCI GONG, acronimo di Gorizia Nova Gorizia, con l’ambizione di diventare il primo circolo Arci transfrontaliero. Ben 49 sono i soci fondatori (riquadro nella pagina successiva), già oltre un centinaio i soci ordinari, a dimostrazione della voglia di collaborare attivamente alla rinascita della città e del suo territorio, culturale e sociale in primo luogo.

Nell’assemblea di fondazione sono stati approvati lo statuto e l’atto costitutivo, ed è stato eletto il direttivo (foto pagina successiva), composto da Silvio Celli, Julia Colloricchio (presidente) Roberto Criscitiello, Giorgia Gambino, Fran-cesca Giglione, Andrea Picco, Sergio Pratali Maffei (segretario), Roberta Riva, Marina Rossini (tesoriere), Eleo-

nora Sartori e Alessio Sokol (vice-pre-sidente). Tra i soci fondatori anche la senatrice Laura Fasiolo e il regista Matteo Oleotto.

La costituzione della nuova associazio-ne rappresenta, secondo i promotori,un punto di partenza, che vuole unire persone, giovani in particolare, conl’esigenza di collaborare a creare qual-cosa di nuovo, per rendere più vivace e attrattiva la realtà nella quale vivono. Il circolo intende proporre una nuova idea di città, che possa espandersi senza conoscere l’ostacolo del confine, ri-spondendo all’esigenza di stare insieme, conoscersi, valorizzare e moltiplicare le risorse che questo territorio unico possiede, ma che non ha ancora trovato forme strutturate di collaborazione. Un circolo che vuole diventare un conteni-tore entro il quale pensare e realizzare una nuova comunità.

Anche per questo il circolo ha deciso

A volte ritornano: dopo più di 40 anni Gorizia avrà un nuovo circolo Arci, il primo transfrontaliero, e si chiamerà ARCI GONG

il Direttivo del Circolo ARCI GONG

di aderire alla rete Arci e al suo documento “più cultura meno paura”, per la creazione di spazi e luoghi dove ci si incontra e si pro-duce collaborazione e con-divisione, immaginazione e libertà, si alimentano confronto e spirito critico, nella convinzione che sia necessario, oggi più che mai, avvicinare il diverso per conoscerlo, piuttosto che respingerlo, rischiando così di farne un possibile “nemico”.

La consapevolzza di tro-varsi al centro dell’Europa,

vicino a un confine da considerare un’opportunità, era ben presente anche mezzo secolo fa quando esso era ancora fisicamente presente, come dimostra-no i proficui e costanti rapporti con la comunità slovena. Il recapito dell’as-

sociazione era la cooperativa libraria “incontro”, knjižna zadruga “srecanje” in via San Giovanni.

IeriIl Circolo Arci Gorizia nasce nell’area della sinistra nella seconda metà degli anni ‘70 per proporre teatro, concer-ti, feste, cinema e attività motorie per adulti e bambini. Inizia la sua attività con una vertenza sullo spazio adibito a palestra al Lenassi perchè, dopo aver fatto rete con il circolo Sfiligoi Arci di Cormons, intende utilizzarlo per il teatro, di cui la realtà cormonese era promotrice.

Dal 1977 al e 1980 il Circolo organizza molta attività: concerti piccoli e gran-

di all’Auditorium, nella sala grande dell’Ugg, al Palazzetto, in Castello e anche a Gradisca d’Isonzo. Era grande il desiderio di far uscire le persone da casa, di farle vivere attivamente la città in un periodo in cui la paura del ter-rorismo era palpabile. Anche allora la città veniva percepita come una “bella addormentata”, con grandi potenzialità poco o mal sfruttate. La prova nella pubblicità sul quotidiano locale per il tesseramento Arci Gorizia riportata nella pagina precedente.

OggiA pensarci bene, oggi come allora, un grosso ostacolo all’organizzazione di manifestazioni musicali o culturali all’aperto sono proprio le misure per la sicurezza e antiterrorismo che, oltre a rendere più complesso l’iter burocrati-co, fanno aumentare significativamente i costi per i promotori.

IeriCome anticipato, l’Arci nasce con la volontà di riappropriarsi di spazi urbani sconosciuti, poco o per nulla utilizzati. La palestra del Lenassi era uno di questi: lì l’Arci Gorizia voleva portare spettacoli teatrali promossi dal Circolo Sfiligoi di Cormòns. La battaglia non portò a una vittoria per l’associazione goriziana, ma ciò non spense minimamente l’entusia-smo che la animava.

OggiE oggi? Qual è la situazione della dispo-nibilità degli spazi in città? Sembra che i problemi di oggi siano quelli di ieri: per un’Associazione che non può permettersi una sede propria e nemmeno prezzi eso-si per il fitto di sale, organizzare qualsiasi tipo di attività diventa praticamente impossibile.

IeriNonostante le oggettive difficoltà l’attivi-smo dell’Arci Gorizia non si arresta. Alla fine degli anni ‘70 la gestione dell’Au-ditorium di via Roma passa all’Ammi-nistrazione comunale ed è proprio lì che vengono ospitati eventi musicali di grande pregio, grazie all’appoggio e alla

collaborazione dell’Arci nazionale, come lo spettacolo di canti e balli provenzali di Veronique Chalot nel marzo del 1978.Ma altri famosissimi spazi vengono usati dal circolo goriziano: il Palazzetto dello Sport (nei confronti di questa struttura il Circolo si dimostra all’inizio contra-rio; successivamente lo stesso Giovanni Bigot lo metterà a disposizione della collettività per eventi), la sala grande dell’Unione Ginnastica Goriziana, il famoso (o tristemente famoso, conside-rato l’epilogo) Bastione Fiorito in Borgo Castello, il Cinema Eden e il Teatro comunale di di Gradisca d’Isonzo.

OggiE’ innegabile che oggi sia molto più complicato e costoso organizzare eventi di questa portata. Siae, balzelli vari, mi-sure per la sicurezza, rendono il lavoro dei promotori molto duro e per questo spesso si trovano costretti a rinuncia-re. Fatta questa premessa, è comunque possibile migliorare e arriccchire l’offerta culturale e musicale in città, obiettivo del neonato Circolo ARCI GONG. Per con-tattarlo per informazioni e tesseramenti potete scrivere all’indirizzo:[email protected].

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A

La riunione di costituzione del Circolo Arci GONG, lo scorso 13 febbraio. Foto: Daniele Tibaldi

Eva BERTI Mauro BREGANTBarbara BUSINELLI Antonella CALABRESE Dorella CANTARUT Cassandra CAPOCHIANI Rossella CARASTRO Silvio CELLI Massimo CHIZZOLINI Julia COLLORICCHIO Raffaele CRISCITIELLO Roberto CRISCITIELLO Giulio DE PAOLIS Aurora DE SANTO Laura DEVECCHI Natasa FALETIC Adriana FASIOLO Laura FASIOLO Orietta FELETTO Giorgia GAMBINOPiero GIANESINI Francesca GIGLIONE Livio GRAPULIN Eltjon GRIZHJA Biagio IMITAZIONE Sara KOMAVLI Simon Elia LENARDI Thomas LENARDI Luana LEOPIZZI Anna Maria LETIZIA Giovanni MANCINI Petra MARLAZZI RossanaMORTARA Sandra MURADORE Matteo OLEOTTO Franco PERAZZA Andrea PICCOSergio PRATALI MAFFEI Simone PUNTIN, Roberta RIVA Marina ROSSINIEleonora SARTORI Davide SOFIA Alessio SOKOL Alessandro TAMI Orazio TREZZA Maria VINTI Antonietta VITOLO Daniela ZALATEU

Un articolo dell’epoca in cui si denuncia il problema degli spazi in città (08.10.1980)

Il direttivo del Circolo ARCIGONG. Prima fila (da sinistra a destra) Giorgia Gambino, Julia Colloricchio, Eleonora Sartori, Marina Rossini, Andrea Picco; seconda fila (da sini-

stra a destra) Silvio Celli, Francesca Giglione (rappresentata dalla sagoma di Nora Gregor), Alessio Sokol, Roberta Riva, Roberto Criscitiello, Sergio Pratali Maffei

I 49 soci fodatoridell’ARCI GONG

Le pubblicità per il tesseramento Arci Gorizia sul quotidiano locale

Ringraziamo sentitamente per la rico-struzione storica e il materiale fotografi-co Maria Lucia Lamberti, Annamaria Zippo, Chiara Peresson e Adriano Foschian

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eniamo subito al sodo. Dopo due anni e mezzo, il Mosaico – Consorzio di cooperative che da sempre ha ricoperto il ruolo di editore del nostro mensile – ci ha comunicato, attraverso il

presidente Mauro Peressini, di essere co-stretto ad abbandonare, con dispiacere, questa funzione. Alla base della decisio-ne, ragioni esclusivamente economiche. Il Mosaico gestisce il Nazareno di Strac-cis, centro che ospita i migranti richie-denti asilo. A causa dei decreti sicurezza firmati dall’ex ministro Salvini, i fondi per l’accoglienza e per quel minimo d’in-tegrazione che veniva effettuata tramite i corsi di italiano, di for-mazione e così via, sono stati drasticamente ridotti. Gorizia News & Views era nato, all’e-poca dell’emer-genza-profughi (quando presen-tammo la rivista al Trgovski Dom erano stipati sotto la galleria Bombi) proprio con l’intento di rappresentare una narrazione del fenomeno più corretta di quella che dilagava in città, alimentata da troppe fake news, notizie fasulle rimanda-te per lo più dai social network. Non erano peri-colosi malviven-ti, portatori, per di più, di chissà quali malattie. Erano persone, persone come noi, che avevano avuto la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata della terra, e che fuggivano da guerre, conflitti, fame, miseria. Venivano a Gorizia perché qui c’era la commissione che esaminava le loro richieste d’asilo, ora trasferita a Trie-ste. Al Nazareno trovavano una degna ospitalità in attesa di presentarsi, dopo lunghissime attese, davanti alla Commis-sione prefettizia.Abbiamo cercato di smontare i luoghi comuni e le maldicenze. Due di loro, Ismail e Saqib, sono entrati a far parte

della redazione, raccontando la loro vita, le loro speranze, i loro sogni. Pian piano, il “progetto-Gorizia News & Views”, è cresciuto, così come il team dei redatto-ri, tutti volontari al pari del direttore. Il mensile ora esce con 20 pagine non limi-tandosi più a trattare la questione migra-toria (anche perché passata in secondo piano) ma spaziando da temi d’attualità a interviste, a storie riguardanti fatti e personaggi locali poco noti o dimentica-ti, oltre a rubriche di vario genere. Rin-graziamo di cuore il Mosaico per averci dato questa possibilità, coprendo le spese di stampa. E ringraziamo soprattutto voi che ci state leggendo e che ci avete manifestato sempre maggiori consensi e

apprezzamenti.E’ stato questo a convincerci che, insieme alla versione on line, Gorizia News & Views debba continuare a essere diffuso in quella edizione cartacea che tanto viene richiesta nei punti di distri-buzione. Non vi domanderemo mai neppure un centesimo per portare nelle vo-stre case il gior-nale e leggerlo con comodità. Ma dobbiamo chiedervi un sostegno, anche minimo, a favore dell’Aps (Associazione di promozio-ne sociale no profit) Tutti in-sieme, di cui noi tutti facciamo

parte e che, dal numero di aprile sarà il nuovo editore, partendo da zero. Potete farlo con un bonifico, come indicato qui nel riquadro, oppure partecipando al crowfunding lanciato sulla nostra pagina Facebook. Ve ne saremo infi-nitamente grati. Perché ci sono storie, come quella di Gorizia News & Views, che non dovrebbero finire mai: per chi ci ha creduto, per chi ci ha messo passio-ne, professionalità, attaccamento. E, in fondo, per chi Gorizia la ama, come noi, anche se la vorrebbe un po’ diversa.

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Il Mosaico “lascia”: appello ai nostri lettoriperché Gorizia News & Views sopravviva

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