gmeshop - Livio Senigalliesi Fotoreporter · ai fatti storici di questi ultimi decenni l’hanno...

90
QUALI DIRITTI UMANI SE IL NOBEL PER LA PACE OBAMA GESTISCE OGNI SETTIMANA UNA “ KILL LIST ”? E INOLTRE : EDUARDO GALEANO NOAM CHOMSKY ANNIE BIRD SALVADOR CAPOTE DAVID BROOKS JEAN-GUY ALLARD ADOLFO PÉREZ ESQUIVEL VINICIUS MANSUR MIGUEL ROSALES SALIM LAMRANI ALBA DE CÉSPEDES GIULIO GIRARDI FRIDA MODAK GENNARO CAROTENUTO ENRICO VIGNA POSTE ITALIANE SPA - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - D.L. 353/2003 [CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46] ART. 1, COMMA 1 - DCB ROMA 1/2.2012 7 DALLA BOSNIA AL KOSOVO: 20 ANNI DOPO SONO ANCORA APERTE LE VENE DELL’EUROPA FREI BETTO: IL PAPA E L’UTILITÀ DEL MARXISMO HONDURAS, LA STRAGE CONTINUA DEI GIORNALISTI STELLA CALLONI: L’ARGENTINA SALVATA DAI KIRCHNER 118 / 119 n. 1/2.2012 118 119 trimestrale

Transcript of gmeshop - Livio Senigalliesi Fotoreporter · ai fatti storici di questi ultimi decenni l’hanno...

Pombo: l’ePoPea del Che in bolivia

“Ho sempre cercato di avvicinare e raccontare uomini e situazioni complesse che, magari per pregiudizio, non erano stati onestamente

spiegati alla gente. Così ho realizzato alcuni scoop giornalistici di risonanza internazionale, e sono riuscito ad entrare, qualche volta,

nel profondo di uomini e vicende. Spesso quindi i miei lavori sono stati, come ha detto il direttore del Festival di Berlino, Dieter Kosslick,

prima documenti che documentari”

La Revolución come non è mai stata raccontata

in vendita su www.gmeshop.it e nelle librerie Feltrinelli

• Cofanetto di 6 dvd •Un giorno con Fidel · Fidel Racconta il Che

Cuba 30 anni dopo · Il Papa e FidelMarcos: aquí estamos

• dvd singolo •Il Che quarant’anni dopo,

nelle parole di Pombo e Urbano, che gli sopravvissero in Bolivia

gmeshop.itIL NEGOZIO ONLINE DELLA GME PRODUZIONI

Visitate il nostro negozio onlinesconto del 15% a chi si abbona a Latinoamerica

I documentari sulla Rivoluzione cubana,la rivista e i libri sull’America latina,

le riflessioni di un giornalista fuori dal coro ,i cd di Augusto Enriquez sull’epoca d’oro del Mambo

Quali diritti umani se il nobel Per la PaCe obama

gestisCe ogni settimana una “Kill list”?

e inoltre:eduardo Galeano

noam Chomskyannie Bird

salvador Capotedavid Brooks

Jean-Guy allardadolfo pérez esquivel

viniCius mansurmiGuel rosalessalim lamrani

alBa de CéspedesGiulio Girardi

frida modakGennaro Carotenuto

enriCo viGna

POST

E ITA

LIANE

SPA

- SP

EDIZI

ONE

IN A

BBON

AMEN

TO P

OSTA

LE -

D.L.

353/

2003

[CON

V. IN

L. 2

7/02

/200

4 N.

46]

ART

. 1, C

OMMA

1 -

DCB

ROMA

€ 15,00

1/2.2012

se 7 Premi nobel Per la PaCe Chiedono a Cameron

un dialogo sulle malvine e vengono ignorati

dalla bosnia al Kosovo: 20 anni doPo sono

anCora aPerte le vene dell’euroPa

frei betto: il PaPa e l’utilità del marxismo

honduras, la strage Continua

dei giornalisti

stella Calloni: l’argentina salvata dai KirChner

118/ 119

n. 1/2.2012118119 trim

estr

ale

LATINOAMERICAE TUTTI I SUD DEL MONDO

trim

estr

ale

1/2.2012

118/119P R O D U Z I O N IG M E

Le foto

Livio Senigalliesii miei Balcani

Enrico VignaDalla Bosnia al Kosovo, vent’anni dopo, sono ancora aperte le vene dell’Europa

L’eDItoRIALe

Gianni MinàL’imbarazzante kill list di Obama, Nobel per la pace

IL monDo In cuI vIvIAmo

Eduardo Galeano“Questa casa è la mia casa, la casa nostra”

Noam ChomskyPer quanto ancora, un summit americano senza Cuba?

Annie BirdCome gli Stati Uniti pensano di recuperare il controllo dell’America Latina

Emilio MarinHonduras, la strage continua dei giornalisti

Gennaro Carotenutoè morta la madre di Fabio Di Celmo, ucciso nel ’97 a l’Avana dal terrorismo Usa

Salvador CapoteCuba e i rapporti Vaticano-Stati Uniti

Orlando Márquez HidalgoSe i presunti dissidenti sconcertano l’Arcivescovo de l’Avana

David Brooks“Il viaggio del pontefice giova solo al governo cubano” dicono i politici anticastristi

Piernicola NobiliI vescovi nordamericani chiedono la revoca dell’embargo a Cuba

Frei BettoIl Papa e l’utilità del marxismo

Alessandra RiccioLa dignità di René, tornato in carcere dopo due settimane da uomo libero

Jean-Guy AllardL’Unesco espelle Reporters sans frontières “metodi incompatibili con i nostri valori”

ANNO XXXI N. 118/119

trimestralegennaio-giugno 2011

LATINOAMERICAE TUTTI I SUD DEL MONDOwww.giannimina-latinoamerica.it

direttoreGianni Minà

[email protected]

Direttore ResponsabileAlessandra Riccio

[email protected]

Supervisione e revisione testiRoberto Zanini

Segreteria di [email protected]

[email protected]

Progetto Grafico Piergiorgio Maoloni

Impaginazione e CopertinaGiulio Fermetti

[email protected]

TraduzioniAlessandra Riccio, Lydia Del Devoto

Direzione e RedazioneVia A. Marsciano 7, 00135 Roma

Tel. e Fax. +39. 06. 350 72 557

AmministrazioneLoredana Macchietti

[email protected]

Società Editriceg.m.e. Produzioni srl

Via A. Marsciano 7, 00135 RomaRegistrazione presso il Tribunale di Roma

n. 18142 del 6-6-1980

In vendita nelle librerie Feltrinelli e in quelle indipendenti a € 15

Chiuso in redazione l’8 giugno 2012

StampaMediagraf S.P.A.

Stabilimento di Monterotondo, Roma

AbbonamentiItalia: annuale € 44Estero: annuale € 80

Gli arretrati a disposizione sono elencati nel sito www.giannimina-latinoamerica.it

Inviare l’importo a:

G.M.E. PRODUZIONI SRL

C/C BANCOPOSTA N. 44034163, ABI 7601, CAB 3200

COD. IBAN N. IT66C0760103200000044034163

g.m.e. Produzioni srl Tutti i diritti di riproduzione e traduzione

degli articoli pubblicati sono riservati.Manoscritti e disegni, anche se non pubblicati,

non si restituiscono.L’editore garantisce la massima riservatezza

dei dati forniti dagli abbonati

Pubbliche RelazioniAndrea Conforti

Tel. e Fax +39. 06. 350 72 557

Questa è una rivista associata

6

8

16

26

30

34

42

47

48

54

56

58

62

66

70

Jean-Guy Allard“Spiacenti, non ve lo diciamo”:

così l’Usaid riconosce il carattere “segreto” delle sue operazioni a Cuba

Alessandra RiccioMa quale sindrome,

Cuba è assediata davvero

Stella CalloniL’Argentina salvata dai Kirchner

Mark WeisbrotNon solo esportazioni, nel boom

argentino c’è anche la scommessa sulla crescita interna

Nicola Neso“Questa fabbrica è la mia fabbrica”:

così gli operai argentini si stanno riprendendo il posto

Adolfo Pérez EsquivelMr. Cameron, vogliamo

parlare delle Malvine?

La pace bussa a Downing Street, ma nessuno viene ad aprire la porta

Alessandra RiccioSe Dilma le canta a Obama e la cilena

Camila snobba la bloguera di Cuba

Vinicius MansurBrasile. Un nome una garanzia:

Dilma arruola Carlos Brizola, il nipote dell’ex leader socialista

Thiago MendesLe due facce dell’uniforme

Emanuele SalvatoEl Salvador: un presidente non

basta, le urne puniscono il Frente

AnALISI

Gennaro CarotenutoLa pastorale spuntata che Benedetto

XVI ha portato in America latina

Luis Miguel Rosalesil Ned contro la Revolución,

così la rete va alla guerra

Salim LamraniProdigiosa Yoani, riempie Twitter

di sé...e non ha internet

DocumentI e teStI

Salim LamraniLa guerra su commissione

di Reporters sans frontiéres contro il Venezuela di Chávez

Antonio MazzeoCome e perché l’Italia addestra gli afghani alla guerra

cuLtuRA e cuLtuRe

Alba De CéspedesQuando l’Italia perse le illusioni

LiberaromaGiulio Girardi, un cristiano con i sogni di giustizia di Che Guevara

Alessandra RiccioEvangelizzazione contro Conquista: Cuba dopo il Papa

Giulio GirardiQuattro teologi e un Presidente a rapporto su Wojtyla

David AngeliRomanzo popolare mediterraneo, Antigone è tesserata alla Fiom

AmIcILIBRI

Luís SepúlvedaTutti i racconti

Stella CalloniOperazione Condor. Un patto criminale

Claudio TognonatoAffari nostri

Enrique UbietaCuba: ¿revolución o reforma?

Alessandro PilottoVado a vivere a Cuba

Eduardo ManetL’amante di Fidel Castro

Michelangelo BartoloLa nostra Africa

Umberta Colella TommasiLa rabbia e il coraggio

Mauricio RosencofLe leggende del nonno di tutte le cose

occIDente

Frida ModakFrancois Hollande, c’era una volta l’Internazionale socialista

Gennaro CarotenutoGauche sopra il 10%, che bella sconfitta

Enrico VignaUna svolta nazionalista per la Serbia in ginocchio

72

74

78

86

90

94

96

98

100

104

106

110

116

122

128

132

138

142

144

146

152

158

159

160

162

164

165

166

170

172

I Bal

cani

di L

ivio

Sen

igal

liesi

Latinoamerica Le foto

1/2 • 2012 I 7

di Enrico Vigna

56 anni, milanese, inizia la carriera di fotogiornalista nei primi anni ‘80 dedi-candosi ai grandi temi della realtà ita-liana, le lotte operaie e studentesche, l’immigrazione, l’emarginazione, i pro-blemi del sud, la lotta alla mafia.

La passione per la fotografia inte-sa come testimonianza e l’attenzione ai fatti storici di questi ultimi decenni l’hanno portato su fronti caldi come il Medio-Oriente ed il Kurdistan durante la guerra del Golfo, nella Berlino della

divisione e della riunificazione, a Mo-sca durante i giorni del golpe che sanci-rono la fine dell’Unione Sovietica, a Sa-rajevo ha vissuto tra la gente l’assedio più lungo della Storia.

Ha seguito tutte la fasi del conflit-to nell’ex-Jugoslavia e documentato le atroci conseguenze di guerre e genocidi in Africa e sud-est asiatico.

è autore di numerosi libri e mostre fotografiche.

Sito web: www.liviosenigalliesi.com

LiViO SENiGALLiESi

Latinoamerica Le foto

el 1991 con le secessioni di Slovenia e Croazia, iniziò la distruzione della Jugoslavia (Repubblica socialista federale di Jugoslavia, Rsfj), che nel 1992 in-vestì anche la Bosnia Erzegovina (Bh), attraverso un “golpe” interno effettuato dal presidente di turno, il musulmano Alija Izetbegovic, che si rifiutò di lascia-re il posto a Radovan Karadzic della componente serba, com’era la regola di rotazione nella Costituzione bosniaca.

Come si scoprirà poi ufficialmente, era un piano di destabilizzazione archi-tettato e diretto dalla cosiddetta “comunità Internazionale” (da leggere come Usa, Ue, Nato), più alcuni paesi arabi islamisti quali la Turchia, l’Arabia Saudi-ta e alcune componenti fondamentaliste come Al Qaeda. Va sottolineato che l’Iraq di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi e la Siria di Assad furono sempre fino in fondo alleati e difensori della Jugoslavia.

Nel febbraio dello stesso anno venne indetto un referendum illegale per la secessione, a cui partecipò il 65% della popolazione (la maggioranza della com-ponente musulmana legata all’Sda e quella erzegovinese croata), che scelse la secessione a grande maggioranza.

Questo atto sancì la fine della Bosnia Erzegovina multietnica e multireli-giosa, e l’accensione di un processo drammatico e tragico quale è stata la guer-ra di Bosnia, che spezzerà la vita di oltre centomila persone e causerà drammi che investiranno intere generazioni.

La comunità serba, quella jugoslavista e oltre ottantamila musulmani ju-goslavisti, decisero anch’essi l’autodeterminazione entro le aree a prevalenza serba, formalizzando la Repubblica Serba di Bosnia (Rs), con capitale Pale, sopra Sarajevo, della quale alcuni quartieri scelgono la Repubblica Serba stessa.

N

DALLA BOSNiA AL KOSOVO VENT’ANNi DOPO,SONO ANCORA APERTELE VENE DELL’EUROPA

I miei Balcani. Sono andato nei Balcani per la prima volta nel 1991. Da allora ci sono tornato tante volte, sempre in prima linea. Prima in Croazia e Bosnia e poi in Kosovo dove il conflitto ha avuto termine con l’occupazione da parte della Nato nel 1999. È stata una guerra alle porte di casa che mi ha visto coinvolto in prima persona perchè ho sentito il dovere morale, insieme all’esigenza professionale, di documentare la tragedia umana e lo sfaldarsi di una nazione nel cuore dell’Europa. Ho vissuto a stretto contatto con le persone delle varie etnie, ho condiviso con loro l’evolversi del conflitto cercando di raccontare le ragioni degli uni e degli altri, ho provato la sofferenza dell’assediato e visto la violenza dell’assediante, i massacri, la pace e la ricostruzione. A vent’anni dalla sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia sono tornato negli stessi luoghi per documentare i cambiamenti o i problemi ancora irrisolti.

Livio Senigalliesi

Portavoce del Forum Belgrado Italia

8 I latinoamerica • 1/2 • 2012

Abdic, oppositore di Izetbegovic (di cui aveva preso più voti tra i musulmani, ma poi costretto a dimettersi) costituiscono la “ Provincia Autonoma della Bosnia occidentale” staccandosi dalla Federazione Croata Musulmana di Sarajevo e combattendo con l’Armata Serbo Bosniaca per tornare a vivere insieme pacifi-camente. Furono oltre 60mila i musulmani sotto Abdic. Il 5 febbraio 1994, un’altra strage di civili con 68 morti, commessa al mercato di Markale, nel centro di Sarajevo, viene immediatamente attribuita ai serbi su tutti i media occidentali. Il 6 giugno 1994 Asushi Akashi, delegato speciale per l’Onu in Bosnia, dichiara alla Dpa (Deutsche Presse Agentur), che un rapporto segreto dell’Onu aveva stabilito da subito la responsabilità della stessa alla parte mu-sulmana, ma che il segretario generale Boutros-Ghali aveva deciso di non rive-larlo, per motivi di non opportunità.

Nel marzo 1994 gli Usa impongono la cessazione della guerra tra croati e musulmani e la costituzione di una vera Federazione Croata Musulmana, anche come esercito. Fino a quel momento si erano confrontati violentemente sul campo. è una mossa vincente, da allora le sorti della guerra vengono rovesciate e la parte serba comincia il suo declino.

Il 19 agosto 1994 il V Corpo Armato bosniaco musulmano, attacca la “Pro-vincia autonoma della Bosna occidentale” e dopo giorni di durissimi combatti-menti la conquista. Per tre giorni dopo la presa di Velika Kladusa, il capoluogo, nessun osservatore internazionale potè entrare; ci furono migliaia di morti, esecuzioni, stupri e mutilazioni denunciati dai fuggiaschi ma nessuno ha mai riportato le loro denunce. In pochi giorni circa 50mila persone, tutti musulma-ni scapparono verso la Krajina serba in Croazia, messi in fuga non dai loro fratelli serbi, ma dai loro correligionari musulmani. Cosi come Ismet Djuheric, colonnello musulmano a capo della Unità “Mesa Selimovic”, al comando di migliaia di musulmani jugoslavisti, che erano parte dell’Esercito serbo-bosnia-co. Quanti conoscono queste cose circa la guerra di Bosnia?

Nel frattempo Sarajevo è una città martoriata dalla guerra tutto intorno e al suo interno, un assedio durissimo che coinvolse tutti, musulmani, serbi (de-cine di migliaia di essi erano assediati in alcuni quartieri, dentro l’assedio, come Grbavica). Un assedio sicuramente terribile e tremendo, ma che, come ha dichia-rato in un’intervista un vice comandante della Brigata bosniaca Emir Topacovic, fratello del leggendario comandante “Caco”, ha anche aspetti molto strani e

inquietanti. Egli, da comandante militare, afferma per esem-pio che in realtà Sarajevo poteva essere liberata molto prima: “Ma tanti personaggi al potere, sia politici che militari, si erano arricchiti come nababbi. C’era una volontà politica di lasciare la città sotto assedio. Ogni volta che sfondavamo le linee nemiche, arrivava un ordine dalla presidenza di rien-trare… Per Izetbegovic e il suo partito (l’Sda), l’assedio è stato un’arma di propaganda internazionale fortissima, che lasciava a poche famiglie - i Gencic, i Sacirbej, gli Izetbegovic

L’ultima occasione per impedire la guerra civile fu nel marzo 1992, quando a Lisbona nella I Conferenza di Pace per la Bosnia venne sottoscritto da tutte e tre le parti, un accor-do, noto come il “Piano Cutileiro” (allora alto rappresentan-te della Ue e ministro degli esteri portoghese), che prevede-va la divisione in cantoni della Bosnia. Nei giorni successivi alla firma, i rappresentanti musulmani secessionisti e croati furono convocati negli Stati Uniti dove vennero convinti a ritirare la firma e rifiutare la soluzione di pace trovata. Lo

stesso Cutileiro denuncerà pubblicamente in una lettera sull’Economist del 9/12/1995, la parte musulmana e croata per aver voluto la guerra. Lo stesso Izetbegovic, in una dichiarazione alla tv di Sarajevo, predisse quanto sarebbe avvenuto: “Ogni nuova vita nasce nel sangue, e anche il nuovo stato islamico in Bosnia dovrà nascere nel sangue”.

Il 6 aprile 1992 (anniversario dell’invasione nazista della Jugoslavia del 1941, periodo in cui lo stesso Izetbegovic era al fianco dell’invasore nazista), la Bosnia ebbe il primo riconoscimento da Usa e Ue come stato indipendente. Subito dopo il 7 e 8 aprile, venne proclamata la Repubblica Serba di Bosnia, su circa il 65% del territorio. Fu l’inizio dello scontro.

Il 10 e 11 aprile la Nato compie i primi raid sui serbi.Il 12 aprile l’Armja musulmana attacca le caserme della Jna (l’Armata Po-

polare Jugoslava). Quindici giorni dopo il governo jugoslavo decide il ritiro delle forze armate federali dalla Bosnia che sarà completato il 6 giugno.

Il 27 aprile 1992 Serbia e Montenegro proclamano la nuova Repubblica federale di Jugoslavia, Rfj.

Il 27 maggio avviene la prima strage a Sarajevo, quella cosiddetta “del pane” a Vasa Miskin, con un colpo di mortaio che uccide dozzine di civili e bambini. Stranamente sul posto vi era una telecamera già predisposta a filmare in diret-ta. Le immagini drammatiche fecero il giro del mondo, indicando nei “macellai” serbi i responsabili. Alcuni anni dopo verrà alla luce un documento interno dell’Onu in cui si ammette che la strage era stata fatta da elementi dei servizi islamisti. Lo stesso è scritto in un rapporto della Task Force antiterrorismo Usa, operante lì.

All’inizio del ’93 cominciano “rivelazioni” circa presunti “campi di stermi-nio” serbi e una campagna sulle decine di migliaia di donne musulmane vio-lentate dai serbi. Negli anni seguenti ex generali, giornalisti, ex ambasciatori ed ex funzionari Onu documenteranno queste campagne come preordinate, pianificate strategicamente e false. Tra tutti Peter Brock su Foreign Policy sma-schera innumerevoli falsità e la Commissione Donne dell’Ue negherà la veridi-cità delle accuse generalizzate, relative alle donne musulmane.

Questo non significa negare la crudeltà e ferocia dei meccanismi distrutti-vi in questa guerra, come di tutte le guerre.

Nel settembre 1993, i musulmani della regione di Bihac, guidati da Fikret

latinoamerica • 1/2 • 2012 I 9

Dalla Bosnia al Kosovo, vent’anni dopo, sono ancora aperte le vene dell’Europa

Le foto

Enrico Vigna

Gli Usa obbligano croati e musulmani a fare pace, e iniziano le “rivelazioni” contro i serbi. Stragi, stupri, lager: tutto è colpa loro

Aprile 1992: si sfalda la Jugoslavia. Nasce la Bosnia musulmana, un arbitrio appoggiato da Usa e Ue, intenzionate a sottrarla alla Serbia

Le foto

latinoamerica • 1/2 • 2012 I 1110 I latinoamerica • 1/2 • 2012

donne, vecchi e bambini.Testimonianze e documenti di generali come Philippe Morillon, come gli

studiosi statunitensi del “Research Group for Srebrenica”, dei soldati olandesi presenti in loco, del giornalista canadese Bill Schiller, hanno stabilito in 1.430 i morti della parte musulmana, tutti combattenti e colpiti da colpi non ravvici-nati (intesi come esecuzioni sommarie). Anche questa una tragedia, dove le vite umane sono annegate in bagni di sangue fratricidi, con un unico risultato per le genti del posto: altro odio reciproco. è stato uno scontro militare, non un massacro.

Nel dicembre 1995 mediante i cosiddetti “accordi di Dayton” si mise fine a tre anni e mezzo di guerra in Bosnia.

La Bosnia di oggi è migliore, per i suoi popoli, della Bosnia di ieri? Questa è una domanda

che bisognerebbe porre a tutti coloro che, anche in buona fede, sono stati og-gettivamente complici della sua distruzione, sostenendo o aderendo alle cam-pagne politiche e mediatiche che hanno permesso un vero e proprio scempio di quei popoli e di quelle terre.

Oggi la Sarajevo indicata nel 1984 dall’Unesco come il laboratorio di mul-tietnicità e multiculturalità più avanzato nel mondo non esiste più. è una città che si sta ricostruendo, ma dove odi e rancori covano sotto le ceneri. La disoc-cupazione è generalizzata. La Bosnia di oggi ha una produttività industriale quasi inesistente, le scuole e le università in condizioni di terzo mondo, una povertà dilagante. I giovani vedono l’emigrazione come unico futuro, lo stato sociale è quasi inesistente e gli anziani percepiscono pensioni di poche decine di euro, quando le ricevono e le strutture sanitarie sono devastate. Naturalmen-te, come in ogni area “liberata” dalle bombe “umanitarie” della Nato, attraver-so Fmi, Bm e Ue le privatizzazioni sono proliferate, cosi studiare o curarsi in strutture private è l’ideale.

In compenso c’è un sottile ma penetrante processo di islamizzazione della società. Sono oltre 110 le moschee costruite dal dopoguerra e altre ancora in costruzione. Le attività criminose e la corruzione sono endemiche, permeano in ogni aspetto la nuova Bosnia e proliferano quotidianamente.

Una separazione in prospettiva della Bosnia in tre diverse entità statuali è tutt’altro che ipotetica.

Il Kosovo e la sua tragediaUn’altra realtà della ex Jugoslavia che è stata “liberata”

dalle bombe della Nato e dove è stata “esportata la democra-zia” è il Kosovo Metohija, da pochi anni illegalmente auto-dichiaratosi “indipendente” e finora riconosciuto da soli 63 paesi. Occorre ricordare a questo punto i bombardamenti della Nato iniziati il 24 marzo 1999 e durati 78 giorni, ope-

- la gestione del potere e degli affari…”.

Come il famoso “tunnel” sotto l’aeroporto, che arriva-va a pochi metri dalle posta-zioni serbe, utilizzato da civi-li e militari per entrare e uscire dalle città, che ha reso decine di miliardi, in quanto veniva affittato ai trafficanti di guerra e alla criminalità per 40mila marchi all’ora….Il tutto sulla pelle di decine di migliaia di cittadini di ogni etnia e sulla “credulità” dell’opinione occidentale. Co-si come le denunce delle re-sponsabilità musulmane cir-ca l’assedio fatte dal coman-dante delle forze Onu Lewis MacKenzie al Guardian, o del generale francese Philippe Morillon, comandante dell’Unprofor (Forze prote-zione Onu in Bosnia), che ha ripetutamente accusato i bo-sniaco-musulmani di aver si-stematicamente fatto fallire tutti i tentativi di porre fine all’assedio di Sarajevo e rag-giungere il cessate il fuoco.

Il 28 agosto 1995, una seconda strage a Markale (37 morti, nuovamente attribuita ai serbi) fa scattare un’indignazione generale internazionale, e permette alla Nato di attaccare e distruggere di fatto la forza militare serbo-bosniaca. Anche qui verrà poi alla luce che anche questa strage fu fatta da unità segrete dell’esercito musulmano, addirittura appoggiate dai servizi segreti occidentali. Numerose fonti, pubbli-cate persino sul Sunday Times, rivelarono la mano di militari musulmani e le menti in Europa occidentale.

A giugno ‘95 le forze serbo-bosniache occupano Srebrenica, dopo che negli anni precedenti le milizie musulmane guidate dal criminale di guerra Naser Oric (assolto poi dal Tpi all’Aja…) avevano raso al suolo 156 villaggi situati in-torno all’enclave protetta dall’Onu uccidendo e massacrando 3.282 uomini,

Enrico Vigna

Dopo oltre tre anni di guerra e bugie, ecco gli accordi di Dayton. Ma le macerie della ex Jugoslavia stanno sanguinando ancora

Dalla Bosnia al Kosovo, vent’anni dopo, sono ancora aperte le vene dell’Europa

12 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 13

e dove i dati sulle nascite di neonati malformi o i decessi per linfomi di Hodgkin sono assolutamente top secret, ma basta parlare con sanitari del luogo per farsi un’idea della situazione reale.Di tutte le promesse e gli obiettivi che furono sbandierati tredici anni fa,

la realtà quotidiana di oggi è illegalità e criminalità dispiegate, violazione dei più elementari diritti umani e civili, una forma di razzismo pianificato median-te sistematiche violenze e discriminazioni etniche nei confronti delle minoran-ze; una vita da prigionieri, una realtà che ormai non fa più notizia in Occiden-te. La Nato ha portato la democrazia, la pace, la libertà, i diritti… così sosten-gono i nostri media.

A chi può ancora importare se oltre 250mila uomini, donne, bambini serbo-

razioni illegittime e illegali, perché non solo violavano la Carta dell’Onu, ma anche gli stessi statuti fondativi dell’Al-leanza Atlantica, oltre all’articolo 11 della Costituzione ita-liana. Questi raid portarono alla conseguente occupazione militare della regione dopo il 10 giugno, a seguito della riti-rata dell’esercito della Repubblica Federale Jugoslava.

Bisogna ricordare anche che quella che fu definita un’operazione “umanitaria” ha prodotto dei risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti e ormai riscontrabili anche

sulle più famose testate giornalistiche internazionali.Nonostante lo scatenamento di una guerra (che in un contesto di civiltà

dovrebbe essere soltanto una “estrema ratio”), nonostante lo stanziamento di quello che è stato il più imponente investimento economico dell’Unione Euro-pea verso l’estero (fino ad oggi 7 miliardi e 600 milioni di euro, senza contare il mantenimento delle decine di migliaia di soldati della Nato avvicendatisi in questi anni, di cui 2.800 italiani), e nonostante il lavoro delle più potenti diplo-mazie e lobbies economiche occidentali, questi sono i risultati:•250milaprofughiditutteleetnie,manellastragrandemaggioranzaserbi

e rom, scacciati dalla loro terra; •piùdi3.000casididesaparecidos(dicui1.300giàdatipermorti)denun-

ciati all’Onu, rapiti e assassinati dal marzo ’99 ad oggi; •quasi100milapersonechevivonoinpochedecinedienclavi,sopravvissute

alle violenze e alla pulizia etnica dei secessionisti albanesi, veri e propri campi di concentramento a cielo aperto dove decine di migliaia di uomini, donne e bambini vivono in condizioni subumane e di mera sopravvivenza fisica, senza diritto al lavoro, alla sanità, all’istruzione, a qualsiasi diritto civile, come il basilare diritto al libero movimento e circolazione, pena il rischio di essere attaccati o assassinati. Di fatto in un regime di apartheid dentro l’Europa;

•centinaiadimigliaiadicasebruciateedistrutte;•148monasteri e luoghi di culto ortodosso, distrutti o danneggiati dalle

forze criminali dell’Uck [i separatisti albanesi dell’Esercito di Liberazione del Kosovo];

•ilKosovoèoggiindicatodallastessaDea (l’agenzia antidroga Usa) come un narcostato nel cuore dell’Europa; questa regione è indicata da tutti gli esperti investigativi occidentali come il crocevia e lo snodo internazionale di tutti i traffici criminali, dalla droga alle armi, dalla prostituzione al traf-fico di organi. Lo stesso ex premier albanese kosovaro Bujar Bukoshi ha dichiarato al giornale tedesco Der Spiegel nell’intervista del 1 agosto 2004: “Il nostro governo si basa, di fatto, su strutture mafiose”. è una regione senza più apparati produttivi, dove la disoccupazione degli stessi albanesi kosovari comprende i due terzi della popolazione; una regione completa-mente avvelenata dall’uranio impoverito dei bombardamenti “umanitari”

il Kosovo, devastato dall’uranio impoverito delle bombe alleate, dove alla maggioranza albanese è permesso angariare i serbi

Le foto

Enrico VignaDalla Bosnia al Kosovo, vent’anni dopo, sono ancora aperte le vene dell’Europa

14 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 15

kosovari o rom del Kosovo non esistano socialmente, civil-mente, culturalmente o siano profughi? A chi importa se per oltre cinque mesi sono stati sulle barricate, da agosto a feb-braio, notte e giorno, dove ci sono stati scontri, morti, feriti, centinaia di arresti…solo per gridare al mondo che esisto-no?

La verità storica sotto gli occhi di tutti è una sola: l’ope-razione Kosovo ha raggiunto gli obiettivi politici, militari e geostrategici della Nato e della cosiddetta comunità inter-

nazionale, ma è stato un totale fallimento per i popoli della regione.Ancora oggi, a distanza di tredici anni sono in corso trattative per la

definizione dello status della regione: serba per Belgrado, indipendente per Pristina, de facto ancora un protettorato internazionale della Nato, infatti su molti giornali internazionali viene definito il Kosovo Nato. La rivendicazio-ne delle forze secessioniste kosovare albanesi dell’indipendenza come ter-reno di confronto non trattabile, è foriero di nuovi scenari di tensioni e squilibri internazionali, e di rischi d’ulteriori destabilizzazioni non solo nel Kosovo e nella Serbia, ma anche in Macedonia, Bosnia, Montenegro, Bulgaria e nella stessa Grecia settentrionale.

Io penso che le priorità per impedire un ennesimo dispiegarsi di violen-ze e venti di nuove guerre sia un tavolo di confronto fondato su: •una impostazione del negoziato tra le parti, strettamente fondato sulle

norme del diritto internazionale, come concepito dalla Carta dell’Onu;

•ilrispettoel’applicazionedellaRisoluzione1244delConsigliodisicu-rezza dell’Onu, e della Dichiarazione di Parigi dell’Ocse [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economici];

•ildirittoalritornoeallariacquisizionedeipropribenieproprietà,dei250mila profughi e rifugiati di tutte le etnie scappati dal 1999 ad oggi. L’impegno da parte delle forze internazionali alla garanzia della vita e della sicurezza, oltre ai loro diritti umani, civili, politici e religiosi, e il ritorno di contingenti limitati dell’esercito e della polizia serbi, come stabilito nella Risoluzione 1244;

• i risultati del negoziatoper lo Status della provincia siano ispirati efondati sul rispetto e gli interessi legittimi e storici di tutte le compo-nenti etniche che da sempre hanno abitato lì, in modo paritario e reci-proco;

•sianoconsideratiinalienabilil’inviolabilitàdellefrontiereel’integritàterritoriale, come rispetto della sovranità nazionale della Serbia, intesa come stato sovrano, in modo da salvaguardare i suoi interessi nazionali come stato facente parte a pieno titolo delle Nazioni Unite;

•siatenutaincontoerispettatalastessaCostituzionedellaSerbia,chesancisce l’inviolabilità e inalienabilità del territorio statale. E sia ricono-

sciuta soltanto alla volontà popolare la ratifica di eventuali modifiche statutarie, accettando che solo un referendum tra i cittadini della Serbia possa eventualmente definire la modifica dei confini statali;

•ilrispettoel’utilizzoneinegoziatidiprincipiunicieuniversali,validiin qualsiasi area geografica, per la risoluzione di conflitti interetnici, in modo che le decisioni siano conformi e interne alle norme del diritto internazionale;

• l’avvio di unprocesso di “riconciliazionenazionale” tra i popoli delKosovo, utilizzando strumenti culturali, sociali e civili;

•l’obiettivofinaledeveessereilripristinodiunasituazionedimultietni-cità, multiculturalità e multireligiosità.A chi può ancora interessare il Kosovo oggi… Certo sarebbe persino

comprensibile, se non ci fosse un piccolo enorme fatto: il nostro paese, i nostri governanti e politici, i nostri aerei con le loro bombe “umanitarie” (1.471 missioni aeree italiane) hanno fattivamente partecipato e contribuito a distruggere, devastare e immiserire quel paese e quel popolo.

Tensioni e squilibri sconvolgono ancora Serbia, Macedonia, Kosovo, Bosnia... Noi abbiamo distrutto, quando rimedieremo?

Le foto

Enrico Vigna

Pristina / Kosovo8/2011Un enorme cantiere aperto nel centro di Pristina per la costruzione di appartamenti e uffici di lusso con capitali stranieri

Dalla Bosnia al Kosovo, vent’anni dopo, sono ancora aperte le vene dell’Europa

1/2 • 2012 I 17

editoriaLeLatinoamerica

a impressione venire a sapere che ogni setti-mana il presidente degli Stati Uniti, il premio Nobel per la pace Barack Obama, visiona con uno

staff un elenco preparato dai suoi tanti servizi di intelligen-ce per scegliere e approvare una kill list, la lista di persone presuntamente nemiche del suo paese, che possono esse-re tranquillamente fatte fuori, non solo senza cattura e processo, ma anche senza che nessun tipo di garanzia giuridica possa, in qualche modo, tutelarle.

Ma fa ancora più impressione constatare che per la nostra informazione, salvo il caso de La Stampa e de il manifesto, questa sia una non-notizia, da ignorare quindi, o da nascondere perché chiaramente, quello che conviene alle politiche degli Stati Uniti, anche quelle più sconside-rate, è evidentemente sempre giusto. Perché, se si ha il coraggio ancora di sostenere che la democrazia è fra noi e che gli Stati Uniti ne sono i portabandiera, bisognerà ricordarsi al più presto, un giorno o l’altro, che gli stessi Stati Uniti, da almeno dieci anni conducono, con la con-nivenza di molte nazioni “civili” come la nostra, in Afgha-nistan, in Iraq e non solo, una presunta guerra al terrori-smo insensata e senza domani, che continua fare miglia-ia di vittime civili ma non lascia intravedere, per la sua sommarietà, nessuna soluzione.

Quando il predecessore di Obama, il conservatore George W. Bush, arrivò, su consiglio del suo ministro della difesa Rumsfeld, ad approvare, nell’ex base navale cubana di Guantánamo, l’uso della tortura [il waterboar-ding], l’annegamento simulato per i presunti terroristi arrestati dopo l’11 settembre 2001, si disse che la paura

F

L’iMBARAzzANTE KiLL LiST Di OBAMA, NOBEL PER LA PACE di Gianni Minà

Mostar / Bosnia 1995Una città segnata dalla guerra e divisa

dall’odio. Distrutto il ponte vecchio, la passerella costruita dall’UNPROFOR

sulla Neretva viene interrotta dal filo spinato

18 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 19

Gianni Minà

per non sporcarsi le mani direttamente, come si scuserà il governo degli Stati Uniti, come giustificherà questi assassinii?

E cosa avremmo detto, noi saccenti rappresentanti del mondo occi-dentale, se un’iniziativa come la kill list l’avesse presa, ad esempio, il presidente iraniano Ahmadinejad? O anche solo il presidente venezue-lano Hugo Chávez, che è uscito vincitore da una dozzina fra elezioni e referendum negli ultimi 13 anni, ma che i giornalisti a libro paga del Ned, o di qualunque altra agenzia di propaganda della Cia, definiscono un dittatore?

è proprio l’impossibilità di sapere quali sono la logica e il metodo che guidano la compilazione della Kill list di Obama, a rendere inquietan-te questa notizia, insieme all’omertà mostrata dai “democratici” mezzi d’informazione occidentali. Pensate che la lista degli esseri umani da uccidere, che il presidente Nobel per la pace redige personalmente ogni settimana, è stata definita dal famoso New York Times semplicemente come “il più strano dei rituali burocratici”.

è il trionfo dell’ipocrisia, come ha sottolineato Marco D’Eramo su il manifesto, “perché Obama firma di suo pugno la condanna a morte di questi sospetti terroristi, sia che siano cittadini americani, sia che siano stranieri. E oltretutto nessuno di loro è stato mai condannato da nessun tribunale”.

Insomma, il presidente degli Stati Uniti si arroga l’insindacabile di-ritto di vita o di morte su qualunque essere umano del pianeta perché, una volta emanata, questa “strana” sentenza è inappellabile e non è criticabile, visto che è segreta.

D’altronde, questo non rispetto della vita umana da parte di chi vorrebbe tutti i giorni insegnare come bisogna vivere ai cittadini del globo, è ormai accettato, qui da noi in Italia, senza battere ciglio. E que-sto è tanto più inquietante se si considera che proprio a Guantánamo, per cinque terroristi o presunti tali accusati di essere i mandanti degli attacchi dell’11 settembre 2001, il 5 maggio, dopo più di undici anni di feroce guerra in Afghanistan, è iniziato il processo davanti non a un tribunale ma a una commissione militare. Una procedura assolutamente illegale per la giurisprudenza di qualunque paese del mondo, tanto è

vero che si è perso in teoria molto tempo proprio perché il presidente Obama, in un sussulto di garantismo poi sconfitto, voleva per questi accusati un giudizio civile, e addirittura progettava di chiudere proprio il famigerato carcere militare nordamericano a Cuba, dove le celle sono praticamente stie per polli.

A guidare l’accusa è stato incaricato dal Pentagono il generale Mark Martins, assurto al ruolo di pubblico mini-stero, che dovrà non solo assicurare una condanna a

editoriaLe

L’imbarazzante kill list di Obama, Nobel per la pace

aveva fatto perdere agli Stati Uniti l’innocenza.E invece era solo l’inizio, tanto che Bush jr arrivò

perfino a cancellare l’habeas corpus, il diritto elementare di ogni essere umano di sapere perché ti stanno privando di ogni libertà. In molti pensammo che si fosse arrivati a una vera e propria fine della democrazia, e che gli Stati Uniti avessero definitivamente perso quell’autorità mora-le, guadagnata nella seconda guerra mondiale con lo sbarco in Normandia, la risalita dell’Italia e la liberazione,

isola per isola, di molti paesi del Pacifico. Purtroppo la Storia non ha evidentemente insegnato nulla, specie se le guerre sono messe in piedi per squallidi interessi economici e commerciali. Neanche sconfitte san-guinose e mortificanti, come quella subita contro i vietcong, sono servi-te a qualcosa, in particolar modo per chi, come molti governanti degli Stati Uniti [Nixon, Reagan o Bush padre], ha fatto spesso un uso disinvol-to del tema dei diritti umani.

Nel 2003, per esempio, sotto la presidenza di Bush figlio, l’imam egiziano Abu Omar è stato sequestrato impunemente a Milano da una squadra di 26 agenti della Cia con la complicità dei servizi segreti italia-ni. Abu Omar fu trasferito prima nella base militare di Aviano in Friuli e infine in Egitto, per essere interrogato sotto tortura, visto che nel suo paese, quello di Mubarak, alleato fedele dell’occidente e recentemente condannato all’ergastolo per le violenze che il suo governo impose a molti cittadini, era più facile farlo. Dopo più di tre anni è stato liberato perché non hanno trovato prove che fosse un “terrorista”.

Alla luce della “licenza di uccidere” che il presidente degli Stati Uni-ti dà al proprio esercito sulla sola base di alcuni dispacci della propria intelligence, è agghiacciante, come ho già ricordato varie volte, leggere la prefazione che Claudio Fava, giornalista, scrittore e parlamentare euro-peo, presidente della commissione Ue che ha indagato sulle extraordina-ry renditions, ha scritto per il libro del collega Giulietto Chiesa “Le carceri segrete della Cia in Europa”. Ne cito un brano: “Questa storia è anche un viaggio nell’orrore e nel ridicolo: nomi storpiati, abbagli, menzogne. Con un più tragico e grottesco dettaglio: delle 20 extraordinary renditions che la Commissione d’inchiesta ha ricostruito, almeno 18 riguardavano casi di persone totalmente innocenti. Catturate, detenute, torturate e infine - un anno dopo, due anni dopo, cinque anni dopo - liberate con un’alza-ta di spalle: ‘C’eravamo sbagliati’. è solo una stolta avventura della Cia? Non credo, quegli abusi, quelle menzogne, quegli eccessi sono anche i nostri.”

E allora mi domando, quando un po’ di persone, solo indiziate e magari poi risultate assolutamente estranee alle accuse, invece di essere solo torturate, saranno state uccise, magari con i droni telecomandati

Cosa avremmo detto se la kill list fosse una prerogativa del presidente dell’iran Ahmadinejad o di quello del Venezuela Chávez?

Purtroppo il Vietnam non ha insegnato nulla: Nixon, Reagan e i Bush hanno fatto spesso un uso disinvolto del tema dei diritti umani

20 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 21

E’ questa realtà a fare impressione e a offendere di più, oltretutto per il metro usato per giudicare ipocritamente i diritti umani.

Assicurare a tutti i cittadini, in quest’epoca di miseria, l’alimenta-zione, la casa con il cesso, l’educazione fino all’università, la sanità, un livello alto di cultura, il diritto allo sport, un’organizzazione di protezio-ne civile indicata come modello dall’Onu alle nazioni più in difficoltà, significa rispettare i diritti umani o offenderli?

Perché alle famiglie che, nelle grandi città nordamericane, dormono sui marciapiedi sotto i cartoni, o agli esseri umani che vivono nelle villas miserias dell’America latina o nelle bidonville africane, cosa vuole ancora raccontare il probo e sciagurato neoliberismo? Forse i deliri del mercato, l’idea liberale di vita che se non sei il più forte e cinico non ti lascia più nemmeno gli spiccioli?

Questo mondo occidentale, omertoso e bugiardo, che condanna alla fame tre quarti dell’umanità, che cosa può insegnare a Cuba?

Forse la libertà di stampa, sostiene Freedom House, che ogni anno su questo argomento stila la classifica dei buoni e dei cattivi, nella quale l’Italia occupa il 77° posto e Cuba è persa nelle retrovie con la Cina, la Russia, l’Iran, la Corea del Nord e il Venezuela. Ma proprio questo ultimo posto al paese di Chávez, dove prima delle sue vittorie elettorali i 5 mi-lioni di disperati dei ranchos non potevano nemmeno iscrivere i propri figli a scuola perché loro stessi non erano iscritti all’anagrafe, fa intuire la malafede di questo organismo presuntamene libero e indipendente che si permette di dare i voti senza avere l’autorità morale per farlo.

Chi avesse voglia di andare a fare una piccola ricerca in rete scopri-rebbe, infatti, che la maggior parte dei finanziamenti annuali di Freedom House vengono dal Dipartimento di Stato Usa e dalla famigerata Usaid, la più aggressiva delle agenzie di propaganda della Cia, che su queste guerre di comunicazione ideologica, fatte scorrettamente con i soldi dei contribuenti nordamericani, basa la sua ragion d’essere. O basterebbe prendere coscienza, per esempio, che fra i sovvenzionatori di Freedom House ci sono anche Google, Facebook, Visa e la Banca mondiale, e nel suo board, come esperta di America latina, c’è un personaggio come Dia-na Villiers Negroponte, la moglie del diplomatico John, il famoso zar

delle operazioni più discutibili degli Stati Uniti, dall’Hon-duras all’Afghanistan.

Un organismo con questi padrini è normale che igno-ri come nel Venezuela il 90% dei mezzi di informazione sia in mano agli avversari del presidente Chávez e la nuo-va legge sui media abbia solo regolato la situazione di canali radiotelevisivi ai quali era scaduta da anni la con-cessione o che avevano violato leggi fiscali o che addirit-tura, durante il tentativo di colpo di stato del 2002, ave-

editoriaLe

morte per Khalid Shaikh Mohammed, ritenuto la mente del gruppo terrorista, ma anche dimostrare a chi ha a cuore la legalità che una military commission è in grado di garantire un processo equo.

In un’altra epoca del mondo si sarebbe parlato di scandalo, mentre ora, dopo che bin Laden è stato fatto fuori con una fucilata in faccia davanti ai suoi figli, senza che al Qaeda sia per questo scomparsa, si può continuare tranquillamente a copiare, nella spietatezza, i metodi

scelti dal terrorismo stesso, sostenendo però che noi siamo diversi da loro, per quanto riguarda le pratiche criminali. Così è imbarazzante che il problema non stia più nella condanna di quei metodi, ma in chi ha il diritto o la giustificazione per usarli e chi no.

Si straparla di diritti umani, un argomento quasi sempre usato am-biguamente, che per primo Ronald Reagan e poi i Bush, padre e figlio, hanno usato come arma di propaganda politica, mentre contemporane-amente sostenevano la “guerra sporca” contro i sandinisti nel Nicaragua o, più recentemente, lasciavano impunita la crudeltà di marines e con-tractor in Iraq e Afghanistan, che ha portato a orrori come il fosforo sui civili di Falluja o le inaudite umiliazioni di prigionieri nel carcere di Abu Ghraib.

L’occidente e le sue ipocrite classificheMa non basta. Il mondo occidentale è così ipocrita che stila classifiche delle nazioni definite “canaglia”, che riflettono solo la necessità di met-tere in cattiva luce paesi che non accettano di allinearsi alle esigenze a agli interessi economici e politici dei governi di Washington. Uno di questi è, da più di cinquant’anni, Cuba, che in definitiva ha commesso un solo imperdonabile peccato: quello di scegliere il socialismo per edi-ficare una società che oggi è povera ma non misera come molti dei pae-si che hanno scelto invece di dipendere dal mercato, di sottostare agli ordini dei boss della finanza speculativa e dell’economia neoliberale.

In una stagione in cui Cuba potrebbe solo rallegrarsi di non aver ce-duto alle imposizioni nordamericane, evitandosi destini crudeli come è toccato e tocca a paesi come Colombia, Messico, Honduras e molti altri del sud del mondo, dove la sopravvivenza è ancora una scommessa, per la fame e per la ferocia del quotidiano, il paese della Revolución è invece inse-rito dagli Stati Uniti nella ridicola e disonesta lista nera dei “paesi cana-glia”, che vorrebbe significare fiancheggiatori del terrorismo. Questo pur essendo Cuba vittima da decenni del terrorismo che viene da Miami, che è stato sempre fiancheggiato dalla Cia e che ha causato, fino a oggi, più di tremila morti. Insomma, l’isola ha vissuto il suo 11 settembre prima degli Stati Uniti, anche se gli attentati sono stati diluiti nel tempo.

Gianni MinàL’imbarazzante kill list di Obama, Nobel per la pace

freedom House, che stila classifiche sulla libertà di stampa, è una creatura del Dipartimento di stato degli Stati Uniti

il problema ormai non sta più nella condanna dei metodi terroristici, ma in chi ha il diritto o la giustificazione di usarli e chi no

22 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 23

Gianni Minà

cambio, ha finanziato Luis Posada Carriles, uno dei più prolifici e spie-tati terroristi dei tempi moderni, che nel 1976 ha organizzato l’espolo-sione in volo di un aereo passeggeri cubano, causando la morte 73 per-sone e che, nel 1997, ha organizzato una serie di attentati contro alberghi de l’Avana. In uno di questi rimase ucciso il cittadino italiano Fabio Di Celmo

Più recentemente, nel 2011, come già era toccato nel 2008 alla blo-guera di Cuba Yoani Sánchez, Moisés Naím è stato insignito dall’editore di El País del premio Ortega y Gasset, nato come premio giornalistico ma che ora, evidentemente, ha acquisito un ruolo più ampio.

Ora questo disinvolto professore, in un articolo pubblicato il 5 apri-le scorso da la Repubblica, ha tentato un’improbabile santificazione dell’ex presidente colombiano Alvaro Uribe. Uno che, tanto per dire, pochi anni fa ebbe la spudoratezza di invitare con tutti gli onori nel parlamento del suo paese i capi del narcotraffico, fra cui Salvatore Mancuso, il leader di origine calabrese delle squadracce paramilitari di Autodefensas Unidas, in affari con la ‘ndrangheta e suo “grande elettore”. Anni dopo Mancuso, con un trama montata dall’intelligence del suo paese, fu venduto da Uribe alla Dea, l’agenzia antidroga degli Stati Uniti che lo richiedeva da tempo, e ora, da una prigione nordamericana sta mettendo in croce, con rivela-zioni clamorose, lo stesso Uribe.

Il buon Moisés, però, fa finta di niente e raccontando il suo Uribe lo definisce “l’artefice della trasformazione del paese”. La domanda sorge spontanea: di quale trasformazione? Quella degli affari con Mancuso o quella della fossa comune con duemila cadaveri di sindacalisti, leader contadini e poveri civili innocenti scoperta l’anno scorso dietro una ca-serma dell’esercito, e di cui Uribe ha evitato finora di dare una spiega-zione? O la trasformazione, invece, si riferisce semplicemente alla cru-dele pratica dei “falsi positivi”, poveri contadini innocenti massacrati dopo averli travestiti da guerriglieri per potere incassare i milioni di dollari messi a disposizione nel quadro del Plan Colombia dal governo di Washington per combattere le Farc?

Senza aver nemmeno accennato una domanda su questi orrori, Naím trova però il coraggio per chiedere qualcosa di scabroso a Uribe, che è

stato il leader colombiano più amato dagli Stati Uniti e dalla Ue: “Presidente, le autorità giudiziarie hanno spedi-to in galera il suo ministro dell’agricoltura, il suo segre-tario generale della presidenza e il suo direttore del ser-vizio di intelligence. Sono sotto processo anche il suo mini-stro dell’interno e il suo addetto stampa”.

è una buona partenza, ma poi Moisés si perde, tergi-versa, come è successo a molti nostri colleghi quando hanno avuto di fronte Berlusconi: “Quello che è successo

editoriaLe

L’imbarazzante kill list di Obama, Nobel per la pace

vano platealmente incitato la gente “ad andare a uccidere il presidente”.

Ed è anche normale che, dopo più di cinquant’anni di assurdo e crudele embargo, Freedom House continui a ignorare che pur con tutti i suoi errori e le sue chiusure, Cuba ha dei cittadini in generale più colti di quelli degli Stati Uniti, e che questo, piaccia o no, significa avere un’informazione non meschina.

Una ragazza messicana che frequenta la Scuola di medicina latinoamericana de l’Avana, che ho intervistato per il mio do-cumentario “Cuba nell’epoca di Obama” con altre due compagne - pro-venienti, a sorpresa, dai ghetti di Miami e Los Angeles - mi ha detto: “Quando qualche amica di qui ci dice che sì, a Cuba si vive, ma manca talvolta ‘algo mas’, quel qualcosa di più, le tentazioni del mercato, del consumismo, sono costretta a spiegare come noi che quell’algo mas in teoria lo avremmo, siamo dovute venire a studiare medicina a l’Avana, perché nei nostri paesi la maggior parte delle famiglie non avrebbe po-tuto pagarci gli studi”.

Sempre in nome dei diritti umani, ovviamente.

L’improponibile Moisés NaímIl mondo occidentale, per tenere in piedi queste assurde contraddizioni, è costretto spesso a trasformare in megafoni o in portavoce di un’ideo-logia che perde i pezzi, personaggi ambigui con un presunto glamour di pensatori come il venezuelano Moisés Naím, il cui alato pensiero, ripre-so da giornali come El País, la Repubblica o l’Espresso, fa il giro del mondo pronto, di fronte alla tragedia delle politiche neoliberali, a sostenere l’insostenibile, fino all’assurdo.

Questo ex ministro del commercio venezuelano, ai tempi in cui i due ladri di stato, il democristiano Rafael Caldera e il socialista Carlos Andrés Peréz si dividevano il potere ogni quattro anni, non si fece scrupolo nell’appoggiare perfino la repressione nel sangue [più di mille morti] del caracazo, la protesta popolare scoppiata nel 1989 per l’applicazione da parte del governo di Carlos Andrés Peréz delle ricette economiche impo-ste del Fondo monetario internazionale.

Riparato negli Stati Uniti, fu ben presto ricompensato con la carica di direttore esecutivo della Banca mondiale e in seguito con quella di direttore del Ned, il National endowment for democracy, uno dei più attivi enti di propaganda della Cia, che riceve una sovvenzione annuale di milioni di dollari dal Congresso degli Stati Uniti. Per spiegare di cosa stiamo parlando, tra il 1990 e il ‘92 il Ned ha donato un quarto di milio-ne di dollari dei contribuenti americani alla Fnca, la Fondazione cubano americana, il gruppo di estremisti anticastristi di Miami. La Fnca, in

Naím, ex direttore del Ned, tenta di “vendere” come democratico persino l’ex presidente colombiano Uribe, e la repubblica gli dà spazio

“Dal Messico per studiare medicina sono dovuta venire a Cuba. Nel mio paese ‘libero’ non avrei mai avuto i soldi per farlo”

24 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 25

editoriaLe

Gianni Minà

3- “Il sistema dell’istruzione, come della sanità, è a brandelli”Perché, ai suoi tempi, nel paese c’erano, per caso, un servizio sanita-

rio e uno scolastico?

4- “L’opposizione a Chávez finora ha dato mostra di democrazia e pacifi-smo”

Non c’è dubbio, basta pensare al 2002, quando organizzò un colpo di stato, appoggiato dal governo spagnolo di Aznar e dagli Stati Uniti di Bush jr. Un golpe fallito per la reazione popolare.

E infine, dopo aver fatto un elenco catastrofico degli eventuali suc-cessori del presidente, alla domanda su cosa potrebbe avvenire se Chávez sopravvivesse fino alle elezioni, Naím conclude profetico: “Potrebbe anche vincere”.

Questi sono gli esperti del pensiero capitalista, quelli pronti a na-scondere qualunque realtà scomoda ma pronti anche a sostenere che il presidente degli Stati uniti possa avere la licenza di uccidere chiunque e dovunque, nel modo che più aggrada alla Cia.

Sempre in nome della democrazia e della difesa dei diritti umani, ovviamente.

può significare soltanto due cose, e cioè: lei ha un criterio molto discutibile nella scelta dei suoi collaboratori o c’è un accanimento giudiziario contro di lei e i suoi uomini?”. è la classica domanda con risposta incorporata, per per-mettere almeno di far dire a Uribe che “non si può gene-ralizzare e bisogna discutere di questi casi separatamen-te”, cosa che, però, tanto lui quanto Naím evitano pron-tamente di fare.

Allora possiamo, come consiglia la Repubblica nel tito-lo, considerare questo articolo di Moisés Naím “Lezioni colombiane per l’Italia”? Dio ci scampi! O, essendo consigli che stanno a cuore al Dipar-timento di Stato Usa, dobbiamo accettarli senza neanche sentire un po’ di disagio?

Perché la vera commessa per l’ex capo del Ned è aiutare Uribe a ri-farsi una faccia presentabile, dopo che il suo successore alla presidenza, l’ex ministro della difesa Juan Manuel Santos [non certo uno stinco di santo], ha scelto una politica più pragmatica e più attenta alle relazioni con il resto del continente e meno servile con l’alleato nordamericano. Così per ora ha dimostrato che si potrebbe amministrare con meno san-gue, violenza e cinismo una Colombia che, pur essendo ricca di petrolio, ha un tasso di povertà del 45% e, nonostante una repressione permanen-te su molte comunità campesine, ha ancora almeno 8mila guerriglieri in armi. Il problema non sono le condizioni del paese, ma la relazione ritrovata con il Venezuela di Chávez, vera bestia nera per le logiche po-litiche degli Stati Uniti in quella zona di mondo

Naím insomma, uomo per tutte le stagioni, è corso in aiuto del suo padrone di sempre, il governo di Washington, arrivando a sostenere una presunta debolezza e doppiezza nei riguardi di Chávez perfino di Lula quando era presidente del Brasile.

In questo incessante lavorio, teso costantemente a rattoppare il fal-limento attuale dell’economia neoliberale soprattutto in Sudamerica, Naím non si risparmia. C’è, per esempio, un’intervista sullo stato di sa-lute di Chávez [che sta lottando contro un tumore pelvico], un’intervista sul futuro del Venezuela, rilasciata a la Stampa di Torino il 2 giugno scor-so. L’uomo non ha timore di apparire esilarante. Enumero alcune perle che vale la pena di commentare:

1-“La salute del presidente in Venezuela è trattata come un segreto di Stato”Perché, in un altro paese sarebbe diverso?

2- “Le istituzioni in Venezuela si stanno sgretolando”Perché, forse quando nel governo c’era lui, esistevano le istituzioni

nel paese?

L’imbarazzante kill list di Obama, Nobel per la pace

Sempre Naím deve ammettere che Chávez “potrebbe anche vincere le elezioni in Venezuela”. insopportabile, per gli Usa della kill list

1/2 • 2012 I 27

il mondo in cui viviamolatinoamerica

rrata corrige: dove è scritto 12 ottobre 1492, deve dire: 28 aprile 1959. In quel giorno è stata fon-data a Cuba la Casa che più ci ha aiutato a scoprire

l’America e le molte Americhe che l’America contiene. Quell’altra data, quella di ottobre, rende omaggio ai suoi pre-sunti scopritori, quelli che la storia ufficiale applaude anche se sono stati più copritori che scopritori: hanno dato avvio al saccheggio coloniale mentendo sulla realtà americana e ne-gandone l’abbagliante diversità e le sue più profonde radici.

Invece la Casa de las Américas, nata dalla Rivoluzione Cubana, da più di mezzo secolo continua ad aiutarci a veder-ci con i nostri stessi occhi, dal basso e da dentro, e non con lo sguardo che dall’alto e da fuori ci ha umiliato da sempre.

Questa casa è la mia casa, la casa nostra. E siccome lo sento così, e così lo so, sono stato e continuerò ad essere sempre suo amico, in armonia con quella definizione dell’amicizia che ci ha lasciato Carlos Fonseca Amador, il fondatore del Fronte Sandinista: “Il vero amico è quello che critica davanti e loda da dietro”.

Ma a volte non è male lodare davanti, quando non è un dovere di cortesia, o un’adulazione ipocrita, o conseguenza della paura della verità.

E allora si può dire, per esempio: grazie, grazie mille alla Casa de las Américas, per tutto quello che ha fatto e fa per la rivoluzione delle nostre energie creatrici, mille volte assassinate e mille volte resuscitate. E grazie, grazie mille, perché queste perentorie voci rinate, che ci parlano dal pas-sato più remoto e del più vicino presente, hanno trovato nella Casa uno spazio d’incontro e una cassa di risonanza che prima non esistevano.

Grazie, dunque, mille grazie per questo alimento di vita-mina “d”, “d” di dignità, che ci serve tanto per credere che il dovere dell’obbedienza, imposto dai potenti del mondo è, può essere la nostra penitenza ma non è, non può essere il nostro destino.

di Eduardo GaleanoScrittore e saggista uruguayano

“QuEsta casa è la mia casa, la casa nostra”

Parole pronunciate da Eduardo Galeano il 16 gennaio scorso a l’Avana, alla proclamazione dei premiCasa de las Américas 2012, fra cui “Specchi. Una storia quasi universale”, la sua opera più recente

Esarajevo–1996Padre e figlia

si incontrano dopo essere stati separati

per quattro anni a causa della guerra

28 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 29

Eduardo Galeano

ricchi, dei potenti che sono quelli che giudicano gli altri e che dettano senten-ze. Proibito anche per il pericoloso esempio di solidarietà, perché Cuba è stata e continua ad essere capace di praticarla, nonostante le sue condizioni di vita molto difficili. Io credo che questi due contagi hanno causato tanti ostacoli, tanti bastoni fra le ruote per i processi di cambiamento che questa Rivoluzione ha bisogno di portare avanti e che da tutto questo vien fuori quel “forbidden country”, “paese proibito”. Se è così, anche io voglio essere proibito, come il paese dove mi trovo.

[...]

[In America Latina] Si è lavorato alla ricerca dell’unità che non è un cammino da mettere in discussione, io direi che è imprescindibile unirsi in un mondo in cui bisogna sapersi difendere e dove ci possiamo difendere solo uniti, ma con la consapevolezza che si tratta di processi molto complessi, perché il mo-tore della vita è la contraddizione. Vogliamo un’unità latinoamericana pur sapendo che l’America Latina è anche uno specchio delle disuguaglianze del mondo, e che molto spesso queste disuguaglianze si proiettano in malo modo fra i paesi latinoamericani. Non si tratta di stabilire che il Sud è buono e il Nord è cattivo; entrambi hanno contraddizioni e se non capiamo o non cerchiamo di capire queste contraddizioni, non le potremo superare per costruire una sintesi diversa. Le contraddizioni esistono, per questo è così difficile mettersi d’accordo su cose ovviamente necessarie come l’iniziativa di Hugo Chávez del Banco del Sur. E costa tanto portarla avanti proprio per queste contraddizioni esistenti fra i paesi più potenti e quelli più deboli all’interno dello stesso spazio latinoamericano.

Ma non bisogna avere paura delle contraddizioni che sono il motore della vita; siamo contraddittori e per questo siamo vivi. Questa unione di diversità è complessa, ma sarà l’unica maniera di riconoscere noi stessi in tutte le nostre infinite possibilità di creazione e di cambiamento, a partire dal riconoscimen-to delle diversità, a partire dalla celebrazione della quantità di mondi che il mondo contiene, che è il meglio che il mondo possiede e il meglio che noi possediamo. Per fortuna siamo diversi; più di un intelligentone in un dibattito pubblico mi ha detto: “Ma che America Latina e America Latina. Che ha a che vedere un argentino con un haitiano?”. E io lo guardavo con commiserazione, con pena. Pover’uomo, non sa che il meglio che ti può capitare è di essere di-verso e che la nostra più grande virtù è quella di contenere tutti i colori, tutti gli odori del mondo in America Latina, nella diversità latinoamericana. Altri-menti saremmo condannati ad accettare quello che il sistema ci obbliga ad obbedire: “Vediamo, scegli: come vuoi morire, di fame o di noia?” Io credo che noi dobbiamo rispondere: “non vogliamo morire, né di fame né di noia.

il mondo in cui viviamo

“Questa casa è la mia casa, la casa nostra”

La mia è una visita molto breve, purtroppo. Mi sarebbe piaciuto restare più a lungo, ma comunque sono riuscito a rivedere vecchi amici con i quali continu-iamo a volerci bene come se il tempo non fosse passato, e ho anche potuto vi-sitare più a fondo L’Avana, e questo è un piacere a parte. Già l’avevo fatto prima, in compagnia di Eusebio Leal, “il Creatore” e stavolta ho potuto confermare che si merita un capitolo nella Genesi in sostituzione di quello della Bibbia, perché Dio ha fatto il mondo in una settimana, ma lui in pochi anni ha fatto l’Avana Vecchia, e non è cosa da poco! Si merita un testo sacro che riconosca il lavoro creatore di questo pazzo meraviglioso che con follia tropicale ha fatto il bellis-simo quartiere dell’Avana che sembrava condannata alla rovina e che lui ha rimesso in piedi e, con questo suo impulso creatore, è riuscito a moltiplicarlo, scoprendo l’energia che io non sospettavo che contenesse. Questa è la cosa più stimolante che ho trovato, oltre, come sempre, alla Casa de las Américas che, come ho detto nelle parole pronunciate per l’inaugurazione, è anche la mia casa.

Cuba sta vivendo un periodo, non un momento, un periodo appassionan-te di cambiamenti. Credo che si tratti di cambiamenti che la realtà è andata incubando, che non sono nati come Minerva dalla testa di una qualche divini-tà, che sono nati dall’energia accumulata da una società che è capace di cam-biare, e questa è la prova che è viva. E’ evidente che si era arrivati attraverso un cammino che ha avuto il suo senso e che è stato imposto dalle circostanze, perché la Rivoluzione Cubana ha fatto quel che ha potuto e non quello che ha voluto; a causa del blocco e di migliaia di altre specie di limiti imposti da fuori allo sviluppo della sua energia creatrice, fino ad arrivare ai nostri giorni, dove io sto cercando eroicamente di comunicare via internet dall’albergo dove al-loggio.

Sento una grande buona volontà di tutti di aiutarmi ma ci siamo scontra-ti sempre con i problemi che derivano da una delle forme del blocco, il blocco delle comunicazioni, di cui non si parla molto ma che sono importanti. Ed ecco che mi sono trovato davanti un cartellino che diceva: “You want to enter from a forbidden country”, “Lei vuole entrare da un paese proibito”. Allora ho pensato:”ma come mi sento orgoglioso di essere quasi un compatriota degli abitanti di questo paese proibito!” perché la questione è chiedersi, proibito da chi?, proibito perché? Forse è proibito perché nonostante tutte le sue contrad-dizioni e difficoltà continua ad essere un esempio di dignità nazionale per gli altri paesi, a volte ignorati, poveri, piccoli, che non hanno diritto al patriottismo perché il patriottismo è un privilegio dei paesi che amano comandare, dei

“L’Avana ha fatto quel che ha potuto, non quel che ha voluto”: l’intervista dopo la proclamazione

cuba sta vivEndo un aPPassionantE PEriodo di cambiamEnti

non voGliamo morirE né di famE né di noia

1/2 • 2012 I 31

il mondo in cui viviamolatinoamerica

nche se appannato dallo scandalo dei servizi se-greti, il vertice delle Americhe tenutosi il mese

scorso a Cartagena, in Colombia, è stato un evento di notevole importanza. Tre i temi principali: Cuba, la guerra al narcotraf-fico e l’isolamento degli Stati uniti.

Un titolo del Jamaica Observer recitava: “Il vertice mostra come l’influenza yankee sia esaurita.” L’articolo riferisce che i grandi temi in agenda sono stati il redditizio e funesto traffico di droga e come i paesi dell’intera regione possano riunirsi escludendo una sola nazione, Cuba.”

Nessun accordo è stato raggiunto al termine delle riunioni a causa dell’opposizione degli Stati uniti a questi temi: politica di depenalizzazione della droga e bando di Cuba. Il continuo ostruzionismo statunitense potrebbe portare benissimo alla sostituzione dell’Organizzazione degli stati americani con la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, di recente creazione, da cui sono esclusi Stati uniti e Canada.

Cuba ha accettato di non partecipare al vertice perché ci sarebbe stato il boicottaggio da parte di Washington. Dagli in-contri è tuttavia emerso chiaramente che l’intransigenza sta-tunitense non sarà tollerata per molto ancora. Gli Stati uniti e il Canada sono stati gli unici a porre il veto alla partecipazione cubana, adducendo come motivazione le violazioni dei princi-pi democratici e dei diritti umani perpetrate da Cuba.

I latinoamericani possono valutare queste accuse dall’alto della loro lunga esperienza poiché hanno una certa familiarità con i trascorsi degli Stati uniti per quanto riguarda i diritti

di noam chomskySociologo, professore emerito di linguistica

al Massachusetts institute of technology di Boston

Asarajevo / bosnia 1994 – un casco blu della missione unPofor controlla le postazioni serbo-bosniache

PEr Quanto ancora,un summit amEricanosEnza cuba

L’isolamento degli Stati Uniti al Vertice delle Americhe dimostra che il continente continua a liberarsi dal controllo delle grandi potenze e che l’intransigenza di Washington non sarà tollerata a lungo. Ma i media hanno parlato quasi solo delle prostitute introdotte dai servizi segreti nell’albergo di Obama ?

32 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 33

Noam Chomsky

effetto sull’uso o sul prezzo delle droghe negli Stati uniti, provocando in compenso stragi in tutto il continente.  Il problema risiede principalmente negli Stati uniti: sia la domanda (di droghe) sia l’offerta (di armi).  I latinoa-mericani sono le prime vittime, poiché subiscono livelli spaventosi di vio-lenza e di corruzione, e la tossicodipendenza si sta diffondendo lungo tutti i percorsi di transito.

Quando si perseguono per anni e anni, con ottusa ostinazione, deter-minate politiche pur sapendo che sono destinate a fallire rispetto agli obiettivi annunciati e si ignorano sistematicamente le alternative che con ogni probabilità sono molto più efficaci, è naturale che sorgano dubbi sui motivi. Per procedere razionalmente si dovrebbero esaminare le conseguen-ze prevedibili, che sono sempre piuttosto chiare.

La guerra al narcotraffico, in Colombia, è stata una fragile copertura per la controinsurrezione. La fumigazione – una sorta di guerra chimica – ha distrutto coltivazioni e una ricca biodiversità e causa il trasferimento di milioni di contadini poveri verso i ghetti urbani, aprendo vasti territori all’attività mineraria, all’agroindustria, agli allevamenti e ad altri benefici per i potenti. Altri beneficiari della guerra al narcotraffico sono le banche che riciclano quantità enormi di denaro. In Messico, secondo ricercatori economici, nell’80% dei settori produttivi dell’economia sono coinvolti i principali cartelli della droga. Anche in altre zone si stanno verificando fatti analoghi.

Negli Stati uniti le vittime principali sono stati i maschi afroamericani e sempre più spesso le donne e gli ispanici; in altri termini, quelli che sono divenuti superflui a causa dei cambiamenti economici promossi negli anni settanta, che hanno trasferito l’economia al settore finanziario e alla pro-duzione all’estero. Grazie soprattutto alla guerra alla droga estremamente selettiva, le minoranze vengono mandate in carcere; questo il fattore prin-cipale nell’aumento radicale delle incarcerazioni dagli anni ottanta che è diventato uno scandalo internazionale.  Il processo ha tutta l’aria di una pulizia etnica negli stati sudditi degli Stati uniti in America latina, che si liberano così degli elementi indesiderati.

L’isolamento degli Stati uniti a Cartagena ci riporta ad altri straordina-ri avvenimenti dello scorso decennio, quando l’America latina ha comincia-

to finalmente a liberarsi dal controllo delle grandi potenze e persino ad affrontare i propri terribili problemi interni.

L’America latina vanta da lungo tempo una tradizione di giurisprudenza liberale e di ribellione contro l’autorità imposta. Il New Deal si è ispirato a quella tradizione. I latino-americani potrebbero essere ancora gli ispiratori del pro-gresso nei diritti umani negli Stati uniti.

per gentile concessione de la Jornada

il mondo in cui viviamo

Per quanto ancora, un summit americano senza Cuba?

umani. Cuba ha subito in particolare gli attacchi terroristici e lo strangolamento economico da parte degli Stati uniti come punizione per la sua indipendenza e per il risultato positivo della sua sfida verso le politiche nordamericane che risalgono alla Dottrina Monroe.

I latinoamericani non hanno bisogno di interpretare le vaste conoscenze degli Stati uniti per capire che Washington sostiene la democrazia esclusivamente se essa si adegua agli obiettivi strategici e democratici e, anche quando è così,

favorisce forme limitate e verticali di cambiamento democratico che non rischino di alterare le strutture tradizionali di potere su cui gli Stati uniti sono da lungo tempo attestati… (in) società piuttosto antidemocratiche, come riferisce lo studioso neo-reaganiano Thomas Carothers.

Al vertice di Cartagena, la guerra al narcotraffico è diventata un tema chiave per iniziativa del neo eletto presidente guatemalteco generale Pérez Molina, che non può certo essere preso per un liberale di buon cuore. A quest’ultimo si sono uniti l’anfitrione del vertice, il presidente colombiano Juan Manuel Santos, e altri.

L’attenzione per il tema della droga non rappresenta affatto una novità. Tre anni fa la Commissione latinoamericana su droghe e democrazia ha pubblicato un rapporto sulla guerra alle droghe, a cura degli ex presidenti Fernando Henrique Cardoso del Brasile, Ernesto Zedillo del Messico e César Gaviria della Colombia, nel quale si chiedeva di depenalizzare la marijuana e di trattare l’uso di droghe come un problema di salute pubblica.

Molte ricerche, tra cui uno studio del 1994 della Rand Corporation, ampiamente citato, hanno dimostrato che la prevenzione e la cura sono di gran lunga più efficaci in termini di costi rispetto alle misure coercitive che ricevono la parte più consistente dei finanziamenti. Ovviamente queste misure non punitive sono anche molto più umane.

L’esperienza conferma queste conclusioni. La sostanza decisamente più letale è il tabacco, che uccide in percentuali elevate anche persone che non ne fanno uso (fumo passivo).  L’uso è diminuito notevolmente nei settori più istruiti non come conseguenza della penalizzazione ma come risultato di cambiamenti nello stile di vita.

Un paese, il Portogallo, nel 2001 ha depenalizzato tutte le droghe; ciò significa che continuano ad essere tecnicamente illegali ma sono conside-rate reati amministrativi, che non rientrano nei reati penali. Uno studio del Cato Institute, condotto da Glenn Greenwald, ha evidenziato che i risultati sono un successo strepitoso.

Da questo successo emergono conclusioni inconfutabili che dovrebbe-ro orientare tutti i dibattiti sulle politiche di contrasto alle droghe in tutto il mondo. In netto contrasto, le procedure coercitive della guerra statuni-tense contro la droga in 40 anni non hanno prodotto virtualmente alcun

l’approccio militare voluto dagli Usa in colombia e messicoè fallito. ora perfino le destre parlanodi depenalizzazione

Pur senza raul castro, il vertice di cartagena ha registrato forti critiche alle politiche nordamericane, specie sulla guerra alla droga

1/2 • 2012 I 35

il mondo in cui viviamolatinoamerica

l loro inizio nel 1994, i vertici delle Americhe hanno svolto il ruolo di forum per la promozione del libero scambio. Nel 2009 l’attenzione si era poi rivolta all’analisi delle possibilità di inserire Cuba in organismi politici regionali e di porre fine all’embargo economico degli Stati Uniti. Il dibatti-to è continuato nel recente sesto summit di Cartagena.

Ma dalle notizie relative al vertice del 14 e 15 aprile 2012 è emersa una novità: l’appello a discutere di “depenalizzazione” delle droghe. A sorpresa, l’appello è stato lanciato proprio dai presidenti che più hanno appoggiato l’intervento militare con il pretesto di attuare politiche di contrasto al nar-cotraffico. A capo di questo gruppo, il presidente guatemalteco Otto Pérez Molina, che risulterebbe essere stato un attivista della Cia, ex generale ac-cusato di crimini contro l’umanità. Pérez Molina ha detto di avere elabora-to la proposta insieme al presidente colombiano Juan Manuel Santos.

Nel frattempo, dietro le quinte del vertice, i presidenti Obama e Santos hanno firmato il Piano d’azione regionale di cooperazione per la sicurezza Colombia-Stati Uniti, un accordo di cooperazione per la sicurezza in tutto l’emisfero e nell’Africa occidentale, il cui obiettivo dichiarato è quello di dare risposte concrete alla sempre maggiore insicurezza che il crimine or-ganizzato genera.

L’appello a dibattere un argomento così importante e delicato da parte degli alleati militari di Washington, mentre gli Stati Uniti stanno impostando con loro un nuovo progetto regionale di ‘sicurezza’, è inquietante. Nel frat-tempo gli Stati Uniti tentano di sfidare un gruppo di popolari leader sudame-

Adi annie bird

Codirettrice di Rights Action

mostar / bosnia 1994; combattimenti lungo il boulevard, il viale al centro della città diventato prima linea

comE Gli stati uniti PEnsano di rEcuPErarE il controllo dEll’amErica latina

Legalizzazione delle droghe, relazioni “asimmetriche” e cooperazione nella sicurezza: al Vertice delle Americhe di Cartagena spuntano argomenti e punti di vista sorprendenti. Ma dietro a tutto ci sono le solite strategie militari di Washington

36 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 37

Annie Bird

dozzina di volte alla ‘relazione asimmetrica’ tra Stati Uniti e America latina. Grazie al ruolo diplomatico svolto dalla Colombia nella ripresa della re-

lazione asimmetrica con il presidente degli Stati Uniti, al summit è stato firmato un accordo politico-militare destinato a rafforzare la presenza mili-tare Usa nella regione. Il 15 aprile il presidente Santos (che è stato ministro della difesa sotto Álvaro Uribe) e il presidente Obama hanno firmato, “al margine” del vertice, un accordo per stabilire il Piano d’azione regionale di cooperazione per la sicurezza Colombia-Stati Uniti.

La Casa Bianca ha descritto l’accordo come un ampliamento delle opera-zioni di sicurezza Stati Uniti-Colombia dall’America centrale a tutto l’emisfe-ro e anche all’Africa. La Casa Bianca ha riferito del ‘successo’, senza dare dettagli precisi in merito, dell’operazione “Martello” lanciata lo scorso anno, in cui hanno cooperato la Joint Interagency Task Force - South (Jiatf-S) degli Stati Uniti e l’Esercito e l’Aeronautica della Colombia in Centroamerica.

La Jiatf-S è un’unità sotto il comando del Southcom statunitense. Si è trasferita da Panama a Miami 19 anni fa, quando gli Stati Uniti abbandona-rono la zona del canale. L’anno scorso la Jiatf-S è tornata a Panama, fornen-do “supporto operativo” in una base militare riaperta che funge da Centro operativo di sicurezza regionale Sica (Cosr-Sica).

È molto probabile che il Cosr sia il centro regionale per il programma di sorveglianza delle frontiere C41 della Jiatf-S, che crea tecnologia per canali radar e altre apparecchiature di vigilanza elettronica legate alla tec-nologia di controllo frontaliero colombiano e messicano.

La Casa Bianca ricorda anche che la Polizia nazionale colombiana sta fornendo supporto e addestramento mediante l’Iniziativa di sicurezza re-gionale centroamericana (acronimo inglese: Carsi) a tutta l’America centra-le, tranne il Nicaragua, l’unico membro centroamericano dell’Alba, dopo il golpe militare del 2009 in Honduras. Nel dicembre 2011 il presidente pana-mense Martinelli ha riferito che gli Stati Uniti e la Colombia si stavano as-sociando per creare una scuola di controllo frontaliero a Panama per forze di polizia e militari della regione.

La Carsi viene implementata attraverso la strategia di sicurezza regio-nale del Sica, che è promossa da un ‘gruppo di amici’ guidato dagli Stati Uniti e dalla Banca interamericana di sviluppo (Idb) a Washington Dc, ma

che tra gli altri comprende anche Colombia, Cile, Brasile e Germania. Si ipotizza che Sica-Esca abbia un bilancio annuo di oltre 1.000 milioni di dollari, forniti dal “gruppo di amici”, prevalentemente sotto forma di 22 crediti dell’Idb.

Dal Centroamerica all’emisfero: la colazione di Biden con i presidenti centroamericani mentre il generale Fraser spiega l’ordine del giorno del SouthCom al Congresso

Il 4, 5 e 6 marzo, in vista del sesto vertice delle Americhe,

il mondo in cui viviamo

Come gli Stati uniti pensano di recuperare il controllo dell’America Latina

ricani che vogliono costruire un’America latina indipenden-te.

La dominazione nordamericana è una questione delica-ta in America latina, dove l’asservimento al volere di Wa-shington procura un consenso politico molto scarso. Anzi, chi mette in discussione gli Stati Uniti diventa molto popo-lare, il che fa sospettare che l’appello dei guerrieri della droga in favore di un dibattito sulla “depenalizzazione” possa essere un tentativo di distrazione per dare popolarità

a un nuovo gruppo di presidenti filoamericani dell’America latina.

L’anfitrione colombiano fa di tutto perché al vertice gli Stati Uniti ri-conquistino la scena

Mentre i leader sudamericani si impegnano per rafforzare un blocco economico e politico latinoamericano indipendente dai vicini di lingua inglese del nord, ai summit si sono verificate tensioni diplomatiche tangi-bili.

Nel 2009, durante l’ultimo vertice di Trinidad e Tobago, i comunicati stampa nordamericani avevano dato ampio risalto all’”arringa” del presi-dente nicaraguense Daniel Ortega contro l’imperialismo degli Stati Uniti e riferivano dell’omaggio fatto dal presidente venezuelano Hugo Chávez a Obama del libro “Le vene aperte dell’America latina “ come se si fosse trat-tato di un affronto.

Mentre a Trinidad e Tobago il trattamento riservato a Obama non è stato eccessivamente ossequioso, in Colombia le cose sono andate diversa-mente. Dicono che alla cena di gala Obama sia stato messo su un piedistal-lo, ben al di sopra degli altri presidenti, che non sono stati serviti fino all’arrivo a tavola di Obama, più di un’ora dopo tutti gli altri.

Miami, capitale non ufficiale degli affari dell’America latina e centro nevralgico della rete politica che promuove gli interessi in America latina di corporation con sede negli Stati Uniti, ha anche avuto modo di dimostrare il suo potere, nell’ambito di un vertice di amministratori delegati di azien-de convocato dal presidente colombiano della Banca interamericana di sviluppo, Luis Alberto Moreno.

Impedito dalla malattia che da tempo lo affligge, il presidente venezue-lano Hugo Chávez non ha potuto partecipare. Al vertice del 2005, Chávez aveva annunciato che la Zona di libero scambio delle Americhe (Ftaa) era morta e sepolta, e intanto il Venezuela lanciava un’alternativa, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America (Alba).

L’unico punto di tensione tra nord e sud di cui è giunta notizia dal sum-mit è stata una tavola rotonda trasformatasi in dibattito, moderata dal co-relatore presidente Santos, tra Obama e la presidente brasiliana Dilma Rousseff, in cui secondo Vanity Fair la Rousseff ha fatto riferimento per una

il presidente di Panama martinelli ha confermato che stati uniti e colombia stanno creando una scuola di controllo frontaliero nel suo paese

l’appello a discutere la depenalizzazione delle droghe è stata l’unica novità del summit ma serviva a dare lustro ai Presidenti filo-Usa

38 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 39

caragua, saldamente in sella grazie a un ampio consenso e ad un patto poli-tico con l’opposizione. Mauricio Funes del partito Fmln, nato dal movimento rivoluzionario, era stato appena eletto presidente di El Salvador. Il presidente del Guatemala, Álvaro Colom, che era stato candidato alla presidenza nel 1999 come candidato di un altro movimento rivoluzionario trasformato in partito politico, l’Urng, aveva fatto entrare nel suo governo alcuni esponen-ti politici legati all’Urng.

In Honduras, Manuel Zelaya aveva fatto aderire la sua nazione all’Alba, consolidando un consenso schiacciante. Panama era governata da Martín Torrijos, figlio del leader militare di sinistra Omar Torrijos (1968-1981). È opinione diffusa che la sua morte nel 1981 in un incidente aereo sia stata opera della Cia. Un anno prima del quinto vertice delle Americhe, Torrijos si era incontrato con Raúl Castro a Cuba per discutere la firma di un accordo energetico. Oscar Arias, l’allora presidente del Costa Rica, pur essendo un solido alleato degli Stati Uniti è stato insignito del Nobel per la Pace e sono in molti a considerarlo un moderato.

Il Centroamerica si sposta verso destra, con una forte spinta dal nord Il presidente dell’Honduras Manuel Zelaya è stato deposto da un golpe

solo tre mesi prima del vertice del 2009. In Honduras è opinione diffusa che il colpo di stato sia stato appoggiato dal governo degli Stati Uniti. Il guatemal-teco Álvaro Colom è stato sostituito da Otto Pérez Molina, un generale in pensione e solido alleato degli Stati Uniti. Mauricio Funes, un estraneo nel partito politico Fmln, ha fatto molte concessioni agli interessi nordamericani, soprattutto in materia di sicurezza, e recentemente ha rimosso tutti gli espo-nenti allineati con il Fmln dalle massime posizioni di sicurezza e li ha sosti-tuiti con ex militari.

A Panama, a Torrijos è succeduto l’esponente di destra Ricardo Martinel-li, che viene da una delle più antiche e potenti famiglie del paese, e in Costa Rica Laura Chinchilla è considerata di destra e molto filoamericana. Daniel Ortega continua a rimanere al suo posto, anche se la sua rielezione nel 2011 è stata oggetto di forti critiche da parte del Dipartimento di Stato, di ex di-plomatici e dei media.

Opportunismo politico: appello di Pérez Molina per la le-galizzazione delle droghe in Guatemala

In carica da tre mesi, Pérez Molina ha cercato di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica promuovendo un dibat-tito sulla legalizzazione delle droghe, indossando i panni del riformista per liberarsi di quelli di ex capo dell’intelligence militare, coinvolto in crimini di guerra come tortura e geno-cidio. Anche prima di assumere il comando, nel dicembre 2010, aveva destato sorpresa la sua proposta di instaurare un

il mondo in cui viviamo

il vicepresidente americano Joe Biden si è recato in Messico e in America centrale. Ha cominciato dal Messico, dove l’Ini-ziativa Mérida del Dipartimento di Stato si è associata alla guerra al narcotraffico del presidente Felipe Calderón nel 2006, che ha prodotto un bilancio di circa 50mila morti.

Martedì 6 marzo Biden ha pranzato a Tegucigalpa con tutti i presidenti del Centroamerica, fondamentalmente per discutere di Carsi, versione centroamericana dell’Iniziativa Mérida. Nello stesso giorno, il comandante del Comando sud

degli Stati uniti, generale Fraser, ha presentato il suo discorso annuale alla Commissione servizi armati della Camera dei rappresentanti, discorso incen-trato soprattutto sull’America centrale.

Nell’ambito della visita di Biden, l’ambasciatore nordamericano in Hon-duras, Lisa Kubiske, ha commentato che il minore impegno degli Stati Uniti in Medio Oriente consente all’esercito nordamericano di potenziare la sua attività nell’America centrale, scenario che sta già cominciando a delinearsi.

Fraser ha spiegato che l’obiettivo degli Stati Uniti nell’emisfero è la sta-bilità, e ha parlato diffusamente delle bande criminali centroamericane che rappresentano una minaccia alla stabilità nella regione. A suo avviso è neces-saria una risposta militare, nonché il sostegno da parte del Dipartimento di Stato per l’addestramento e il finanziamento delle forze di polizia. Ha poi aggiunto che un’altra minaccia alla stabilità deriva da proteste e disordini in alcune nazioni dell’Alba e ha espresso preoccupazione per le iniziative del governo iraniano in Venezuela.

Ha inoltre affermato che “attività criminali si estendono al governo ve-nezuelano”, il che suona piuttosto ironico alla vigilia della visita di Biden in Honduras: qui gli Stati Uniti hanno completamente ignorato il coinvolgimen-to di certi funzionari governativi e di forze di sicurezza nella criminalità or-ganizzata e anche nelle bande.

Il discorso politico alla base della ‘guerra al narcotraffico’ sottolinea il fatto che dal 2006 gli Stati Uniti hanno insediato una massiccia presenza militare dal Messico alla Colombia, in quella che sembra essere un’azione destinata a garantire che i governi indipendenti dell’America del sud non si estendano a nord e adesso, a quanto pare, il programma di sicurezza degli Stati Uniti e della Colombia comprende tutto l’emisfero.

Al quinto vertice delle Americhe, la sinistra controllava l’America cen-trale

Nel 2009 Biden aveva visitato anche l’America centrale per preparare il summit, ma le circostanze erano molto diverse. Governi tendenzialmente di sinistra, molti dei quali associati con vecchi movimenti rivoluzionari, in se-guito ad elezioni avevano preso il controllo dell’America centrale.

Daniel Ortega, leader del movimento sandinista, era presidente del Ni-

tra elezioni e golpe il centroamerica intanto si sposta a destra, anche grazie alle forti spinte venute da Washington

il minore impegno in medioriente consente all’esercito nordamericano di potenziare le attività in america latina

Annie BirdCome gli Stati uniti pensano di recuperare il controllo dell’America Latina

40 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 41

politico se fa intendere di voler contestare gli Stati uniti in America latina, soprattutto nelle politiche di contrasto al narcotraffico. I latinoamericani non dimenticano che gli Stati Uniti sono il principale fornitore di armi ai cartelli della droga nella regione, che il consumo da parte di Stati Uniti e Canada incentiva il narcotraffico, e che la maggior parte delle vittime della guerra contro la droga negli Stati Uniti sono latinoamericani.

Il primo presidente in carica in America latina a chiedere senza mezzi termini la legalizzazione è stato il presidente colombiano Santos nel novem-bre del 2011, anche se nell’agosto 2011 il presidente messicano Felipe Cal-derón aveva dichiarato che se gli Stati Uniti non riescono a limitare il consu-mo, è necessario mettere a punto “soluzioni basate sul mercato” contro l’importazione di droghe, soluzioni che non comportino attraversamenti il-legali di frontiera.

La guerra al narcotraffico deve finire, ma ci sono operazioni pianificate occulte?

Il 23 febbraio 2009, il Wall Street Journal ha lanciato l’attuale dibattito sulla legalizzazione, pubblicando un articolo di fondo dai toni forti degli ex presidenti Fernando Cardoso, Cesar Gaviria e Ernesto Zedillo, rispettivamen-te di Brasile, Colombia e Messico, in cui si afferma che “le politiche proibizio-niste basate sullo sradicamento, il divieto e la criminalizzazione del consumo semplicemente non hanno funzionato” e si chiede una revisione della stra-tegia di contrasto al narcotraffico adottata dagli Stati Uniti, sottolineando che il “preoccupante potere dei cartelli della droga porta alla criminalizzazione della politica e alla politicizzazione del crimine. E la corruzione del sistema giudiziario e di polizia sta minando i fondamenti della democrazia in molti paesi latinoamericani”.

La guerra al narcotraffico che gli Stati Uniti portano avanti in America latina è criminale e deve finire. Ma l’appello al ‘dibattito’ sulle politiche di contrasto viene dagli stessi personaggi politici asserviti agli Stati Uniti che più hanno sostenuto la militarizzazione della regione in nome della guerra contro la droga.

L’obiettivo degli Stati Uniti in America Latina è di riconquistare l’egemo-nia. Ma agli alleati degli Stati Uniti sono mancate personalità politiche capa-

ci di raccogliere un vasto consenso nei loro paesi. L’apertura al dialogo o anche una riforma limitata della politica di con-trasto al narcotraffico, che sembrano sfidare i piani dello zio Sam, potrebbe portare un notevole sostegno popolare, crean-do un blocco apparentemente ‘indipendente’ di esponenti politici di destra che contrastano la linea sudamericana men-tre proseguono le operazioni di sicurezza per imporre inte-ressi economici transnazionali attraverso la repressione e la criminalizzazione.

il mondo in cui viviamo

dialogo sulla possibilità di “depenalizzazione”, ossia la lega-lizzazione delle droghe.

Quello che risulta strano è che Pérez Molina accetti in maniera incondizionata l’intervento militare nella guerra contro la droga. Durante i primi due mesi del suo mandato, in parecchie occasioni i suoi nuovi subalterni hanno crimina-lizzato la protesta sociale, affermando che quelli che bloccano le strade sono appoggiati dalla criminalità organizzata e dai narcotrafficanti.

Il 14 febbraio 2012, il vice ministro per la sicurezza del Guatemala, l’ex colonnello Julio Rivera Clavería, ha tacciato di narcotrafficanti i leader della comunità indigena San Siguan, di Cunén, che si oppongono alla costruzione in quelle terre di una diga di sbarramento idroelettrica da parte della società energetica italiana Enel. Il 14 febbraio alcuni abitanti di San Siguan hanno sorpreso tre poliziotti che stavano lasciando il luogo dopo aver distrutto oltre 20 ettari di colture, ultima di una serie di azioni volte a disturbare e intimi-dire la comunità. I tre sono stati arrestati e portati dinanzi ai tradizionali le-ader indigeni della comunità. Rivera ha inviato una forza di 600 soldati per “liberare” le tre guardie di sicurezza, e ha accusato i leader della comunità di essere dei narcotrafficanti.

Pérez Molina ha anche promosso con entusiasmo l’uso dell’unità guate-malteca di forze speciali, i kaibiles, nelle operazioni di contrasto alla droga e ha messo dei kaibilesa ricoprire le tre più alte cariche dell’esercito. Il 6 aprile 2011, il viceministro guatemalteco della sicurezza, Mario Castañeda, ha rife-rito che vecchi e nuovi kaibiles stavano addestrando membri della banda di trafficanti Los Zetas e che erano coinvolti nel narcotraffico, e ha rivelato che il bottino di una serie di furti di armi in basi militari in Guatemala e Hondu-ras era andato a finire nella mani degli Zetas.

L’asse Messico-Guatemala-Colombia: creare un blocco latinoamericano “indipendente” per favorire gli interessi del nord

Con la sua personalità violenta ma lucida, Pérez Molina sta rapidamente rafforzando la sua leadership regionale con dichiarazioni che sembrano es-sere una sfida alla politica degli Stati Uniti, come ad esempio che le truppe guatemalteche sono in grado di condurre la guerra al narcotraffico e che lui non intende chiedere il sostegno di soldati nordamericani. Parole forti per un uomo che recentemente è andato al SouthCom insieme al suo vice e a tre illustri rappresentanti ministeriali, anche prima di assumere il comando, per gettare le basi della cooperazione. Nel 1994 un giornalista investigativo ha riferito che Pérez Molina è stato un uomo della Cia, molto vicino all’amba-sciata degli Stati Uniti, come dimostra la sua presenza massiccia su documen-ti diplomatici resi pubblici da Wikileaks.

Pérez Molina è un politico navigato e può ottenere un grande consenso

... e con questa scusa l’ex massacratore può criminalizzare anche gli indigeni che lottano contro la diga dell’Enel

in GuatemalaPérez molina fa l’antiproibizionista a parole, ma poi affida alle truppe speciali la guerra alla droga...

Annie BirdCome gli Stati uniti pensano di recuperare il controllo dell’America Latina

1/2 • 2012 I 43

il mondo in cui viviamolatinoamerica

e ultime due vittime delle azioni efferate contro il giornalismo nel paese centroamericano sono state Erick Martinez Avila, di 32 anni, e il coor-dinatore delle notizie dell’HRN, Alfredo Villatoro. Entrambi sono stati seque-strati e successivamente sono riapparsi i loro cadaveri, l’uno il 6 maggio e l’altro il 16, con segni di strangolamento e di violenza fisica.

La figuraccia del presidente Porfirio Lobo non avrebbe potuto essere peggiore: parlando di Villatoro, il giorno prima che comparisse il suo cada-vere aveva dichiarato che il governo aveva una prova che il giornalista era vivo. Quell’uomo di una delle radio più ascoltate nel paese è stato trovato morto e il suo corpo era stato vestito con la divisa di “Las Cobras”, un’orga-nizzazione di polizia dai trascorsi repressivi.

di Emilio marinGiornalista argentino de La Arena, esperto di geopolitica

hOndUrAS

Le forze parapoliziesche e paramilitari hanno assassinato 25 giornalisti dal colpo di Stato oligarchico del 2009, sponsorizzato dal Comando Sur dell’esercito degli Stati Uniti. La Sip, Società interamericana della stampa, vicina ai golpisti, come al solito tace

L

la straGE continua dEi Giornalisti

Quando si dicE “diritti umani”:

Sara

jevo

/ Bo

snia

28

agos

to 1

995

• La

stra

ge d

el m

erca

to. L

’enn

esim

a st

rage

di c

ivili

por

tò a

ll’in

terv

ento

del

la N

ato

e ai

con

segu

enti

acco

rdi d

i Day

ton

che

port

aron

o la

pac

e ne

i bal

cani

latinoamerica • 1/2 • 2012 I 45

il mondo in cui viviamo

44 I latinoamerica • 1/2 • 2012

Emilio Marin

luce con le forze armate. È stato minacciato di morte e ha dovuto lasciare Bogotà e stabilirsi a Tegucigalpa, ma la sua scelta si è rivelata pessima. Il 7 maggio Emanuelsson ha mandato un servizio a Gilberto Rios, segretario generale di Los Necios, dove militava Martínez. Nel documento si legge che “con l’assassinio del compagno e collega sono già 24 i giornalisti uccisi dal 27 gennaio 2010, data in cui l’attuale regime di Porfirio Lobo Sosa è salito al potere.” Pochi giorni dopo, veniva trovato morto Villatoro, rapito il 9 maggio; è questa la ragione per cui il giornalista porta a 25 il numero di giornalisti assassinati durante il mandato di Lobo.

Questi crimini venivano da prima, ma il colpo di Stato del 28 giugno 2009, con la marionetta Roberto Micheletti e i suoi generali addestrati dal Comando Sur nordamericano, li ha intensificati.

I gruppi criminali coperti dal governo e dalle forze armate non uccidono solo i giornalisti. Sono stati 47 i contadini massacrati nella valle dell’Aguán da sicari di latifondisti locali, come Miguel Facussé Barjum, che possiede mezzi di comunicazione e altre aziende. Facussé è accusato di autorizzare voli di narcotrafficanti sulle sue fattorie e di questo sono al corrente anche la Dea e il Dipartimento di stato degli Stati Uniti, che però non fanno nulla per contrastare la cosa. Sono stati uccisi anche leader politici, come Alberto Santos Dominguez Beíitez, 24 anni, membro del Copinh, per i diritti umani, Miguel Angel Barahona, 67 anni, professore universitario che sosteneva la creazione del Centro universitario regionale di El Progreso, e Edilberto Zo-lano Meja, 55 anni, segretario generale del Partito socialista Morazán. Tutto questo, oltre alle uccisioni di Martínez e Villatoro, è avvenuto tra l’1 e il 16 maggio.

Come in Colombia? Prima con Micheletti e poi con Lobo, l’Honduras è diventato un luogo

in cui in generale la vita non ha alcun valore, e meno ancora vale quella di chi ha una professione o una militanza in ambito sindacale, sociale o politi-co. Il risultato è che l’Honduras ha raggiunto il tasso di omicidi più elevato del mondo, almeno dove si conducono statistiche: 86 morti ogni 100mila abitanti. Essere giovani è un invito diretto alla morte: durante questi anni di Lobo sono stati uccisi 2.092 giovani; si contano inoltre 400 femminicidi, 370

prigionieri bruciati nel carcere di Comayagua, 42 lesbiche e gay eliminati, gli agricoltori dell’Aguán di cui abbiamo detto, e via dicendo.

Uno scenario di questo tipo è collegato con i paramilita-ri colombiani che operano in Honduras insieme a consiglie-ri militari israeliani, nonché con la scarsa educazione demo-cratica trasmessa alle forze armate dai nordamericani che nel paese dispongono della base di Soto Cano, Palmerola, più i corsi anti-insurrezione erogati ai militari honduregni alla

i numeri del dopo golpe: 2.092 giovani uccisi, 400 femminicidi, 370 carcerati bruciati a comayagua, 42 fra lesbiche e gay eliminati

Honduras, la strage continua dei giornalisti

Poiché Villatoro era un giornalista con molti anni di professione, alla Sip, la Società interamericana della stampa, non restò altro che diffondere un comunicato. Di norma non si occupa di casi del genere, ma in questa occasione è stata fatta un’eccezione. La Sip ha espresso la sua condanna per l’assassinio. “Siamo indignati per il tragico esito di questo caso, soprattutto per la lentezza dell’azione, il lassismo e lo scarso impegno delle autorità che non sono state in grado di arginare la violenza”, ha detto il peruviano Gustavo Mohme,

presidente della Commissione per la libertà di stampa della Sip. Su Martinez Avila, in compenso, la Sip ha fatto calare il solito silenzio.

Certo, era un uomo giovane, di sinistra, candidato a deputato del diparti-mento di Morazán per il Partito Libre guidato dalla moglie del deposto Mel Zelaya, Xiomara Castro de Zelaya. Erick apparteneva al fronte più combatti-vo di quel partito legale e del Frente Nacional de Resistencia Popular e militava nell’organizzazione politica Los Necios. Oltre a questo curriculum politico della vittima, poco amichevole per la Sip, va registrato che si trattava di un leader della comunità lesbica e gay dell’Honduras. Proprio la sua candidatura a deputato del Libre aveva dato la stura alla beffa discriminatoria del quoti-diano El Heraldo, uno dei pilastri del colpo di Stato militare-civico del giugno 2009 e, naturalmente, affiliato alla SIP.

Un comunicato del 17 maggio dell’agenzia di stampa AP recitava: “tra il 2003 e il 2012, l’organismo statale per i diritti umani registra la morte di 29 giornalisti, di cui 22 avvenute durante la gestione di Lobo, che è al gover-no dal 2010”.

Altre statistiche provengono dal Comitato honduregno per la libertà d’espressione, C-Libre, che senza contare Martínez e Villatoro ha affermato: “Dal novembre 2003 ad oggi, C-libre registra nei propri archivi la morte vio-lenta di almeno 28 giornalisti e operatori della comunicazione: Germán Ri-vas, Carlos Salgado, Rafael Munguía, Osman Rodrigo López, Bernardo Rivera Paz, Gabriel Fino Noriega, Nicolás Asfura. Si aggiungono all’elenco Joseph Hernández, David Meza, Nahún Palacios, Bayardo Mairena, Manuel de Jesús Juárez, George “Georgino” Orellana, Luis Arturo Mondragón, Israel Díaz Zelaya, Henry Orlando Suazo, Héctor Francisco Medina, Luis Mendoza, Luz Marina Paz, Saira Almendares e Fausto Flores Valle”.

 Il colpo di Stato li ha intensificatiUno dei giornalisti che lavora stabilmente in Honduras e che da tempo

segue con puntualità le violazioni dei diritti umani nei confronti del giorna-lismo e i crimini che vengono commessi contro gli operatori della stampa è Dick Emanuelsson. Svedese di nazionalità, è stato corrispondente per diver-si anni in Colombia, dove le notizie da lui diffuse sul comportamento dell’esercito durante la gestione di Álvaro Uribe lo hanno messo in cattiva

se la società interamericana della stampa dopo l’omertà sull’uccisione di villatoro, tace anche su quella di martinez avila

1/2 • 2012 I 47

il mondo in cui viviamolatinoamerica

di Gennaro carotenutoLatinoamericanista, professore di Storia contemporanea all’Università di Macerata

è morta la madrE di fabio di cElmo, ucciso nEl ’97 a l’avana dal tErrorismo usa

èmorta il I giugno la signora Ora Bassi Di Celmo, mamma di Fabio, che proprio quel giorno avrebbe compiuto 47 anni.  Fabio di Celmo non c’è più dal 1997, da quando il ragazzo genovese fu assassinato da una bomba piazzata in un hotel dell’Avana da Ernesto Cruz León per conto del terrorista fiancheggiatore della Cia Luís Posada Carriles. Questo criminale, che sta passando una dorata vec-chiaia negli Stati Uniti e per il quale nessun governo italiano ha mai chiesto l’estradizione, rivendicò esplicitamente la morte di Fabio, dichiarando senza vergogna di dormire sonni tranquilli e che l’italiano era responsabile “di tro-varsi nel posto sbagliato al momento sbagliato”.

Da quel giorno del 1997 Ora Bassi e suo marito Giustino Di Celmo hanno lottato con grande dignità per ottenere giustizia scontrandosi con l’indifferenza totale dell’Italia. Troppo scomodo per i nostri governi e per i nostri media cerca-re giustizia per un ragazzo italiano assassinato in un attentato terroristico. Signi-ficava ammettere l’esistenza del terrorismo dei buoni o che Cuba potesse avere ragione. Troppo scomodo che avessero ragione la signora Ora e suo marito a de-nunciare che le mafie di Miami, che in questi decenni hanno compiuto migliaia di atti terroristici che hanno causato a Cuba più di 3.000 morti, siano un’industria parastatale finanziata generosamente dal governo degli Stati Uniti e che la cosid-detta controrivoluzione sia innanzitutto uno spietato affare economico. E così i coniugi Di Celmo hanno combattuto la loro battaglia per avere giustizia per quel figlio assassinato venendo più volte insultati e sbeffeggiati, come avvenne perfino in un articolo del quotidiano Liberazione firmato da Angela Nocioni.

C’è terrorismo e terrorismo. Ci sono terroristi che è utile tenere in prima pagina e farne aleggiare lo spettro rancido e terroristi che è bene dimenticare. Ci sono parenti di vittime alle quali dar voce e parenti di vittime intorno alle quali costruire una gabbia di silenzio. È stato questo il caso di Ora Bassi, la mamma di Fabio, scomparsa proprio nel giorno in cui suo figlio avrebbe com-piuto gli anni. Non cercate un commento sulla stampa italiana che alla verità e giustizia per Fabio Di Celmo non è affatto interessata.

“Scuola delle Americhe”. l generali golpisti del 2009 hanno sequestrato il presi-

dente costituzionale, Mel Zelaya, e l’hanno portato inizial-mente alla base di Soto Cano, prima di deportarlo illegalmen-te in Costa Rica.

Il teatro di sequestri, torture, persecuzioni contro la li-bera stampa e crimini contro militanti politici legali ha forti analogie con quello che accade in Colombia. Per questo Emauelsson, che conosce bene quello che succede a Bogotà,

prima con Uribe e ora con John M. Santos, ha dichiarato giorni fa: “La “sin-drome dell’Unione patriottica colombiana si presenta ora in Honduras “!

Ha fatto riferimento al caso della guerriglia smobilitata a metà degli anni ottanta, che ha creato un partito legale, l’Unione patriottica, sottoposto a una campagna di annientamento. Circa 5mila militanti dell’Up, tra cui due candidati alla presidenza, parlamentari e consiglieri comunali eletti, sono stati massacrati da militari e poliziotti senza uniforme inviati dallo Stato durante la notte.

Sarà per questo che i detentori del potere, della finanza e della terra in Honduras temono così tanto le elezioni di novembre 2013 in cui sarà candi-data Xiomara Castro de Zelaya? Hanno deciso di fare un bagno di sangue al popolo honduregno, cominciando dai giornalisti, per assicurarsi che alle prossime elezioni il partito Libre non possa competere e che nessuno voglia essere candidato nella sua lista perché sarebbe un uomo morto?

Dall’Argentina non è molto quello che si può fare per alleviare la situa-zione dei colleghi, ma almeno se ne deve parlare, si deve evitare l’occulta-mento e il contrabbando ideologico. Su questo hanno fatto un servizio (La Nación del 20/5) Paul Sirven e il suo reporter Jon Lee Anderson. In due pagine formato lenzuolo c’erano domande e risposte sull’esercizio del giornalismo nella regione e nel mondo, senza che nessuno dei due facesse riferimento ai crimini consumati in Honduras. Ancor peggio, l’ultima domanda di Sirven è stata: “Che cosa pensa di governanti come Cristina Kirchner, Rafael Correa e Hugo Chávez che parlano della stampa praticamente come di un potere diabolico?”. Risposta di Anderson: “Non è bene che i presidenti siano in contrapposizione con la stampa.”

Questi due giornalisti del sistema continuano a credere che il paese più pericoloso per la stampa sarebbe Cuba. Lo credono, anche se Ernesto Carmo-na (Mapocho Press) ha smascherato questa menzogna ricordando che “l’ul-timo giornalista ucciso a Cuba è stato Carlos Bastidas Argüello, ventitreenne corrispondente ecuadoriano di viaggio, assassinato nel 1958 a L’Avana dalla dittatura di Batista”.

“cuba è oggi il luogo più pericoloso per i giornalisti”. ma l’ultimo reporter morto sull’isola l’ha ammazzato nel ‘58 la dittatura di batista

Honduras, la strage continua dei giornalisti

46 I latinoamerica • 1/2 • 2012

1/2 • 2012 I 49

il mondo in cui viviamolatinoamerica

no dei paradossi dell’impero nordamerica-no sta nel fatto che, anche se è sempre esisti-ta la separazione tra Chiesa e Stato, religione e politica sono state comunque indissolubil-

mente unite. Se c’è qualche dubbio al riguardo, basta osservare le acrobazie che fanno gli aspiranti repubbli-cani alla presidenza per guadagnarsi il voto evangelico della Bible Belt (letteralmente “cintura della Bibbia”) o il voto cattolico del nordest senza disturbare i fantasmi della puritana Boston.

Il dominio dei Wasp (White Anglo-Saxon Protestant) ha fatto sì che per 117 anni, dal 1867 al 1984, non siano esistiti rapporti diplomatici tra il governo degli Stati Uniti e la Santa sede. È stata l’elezione a papa di un vescovo polacco e la sua crescente influenza nei paesi dell’Europa orientale a far prendere al presidente Ro-nald Reagan la decisione, nonostante la forte opposizio-ne interna, di nominare un ambasciatore presso il Va-ticano. Alcuni parlarono della nascita di un’alleanza Reagan-Giovanni Paolo II che però non c’è stata. Si è trattato piuttosto di una coincidenza di obiettivi contro il comunismo sovietico, anche se con motivazioni mol-to diverse: geopolitiche nel primo caso, spirituali o se si preferisce georeligiose nel secondo.

Sicuramente non è stato un caso che Reagan abbia piazzato, in posizioni chiave della sua amministrazione, prestigiose personalità cattoliche: William Casey, diret-tore della Cia, Alexander Haig, segretario alla Difesa, Richard Allen, direttore del National Security Council,

di salvador capoteBiochimico cubano, attualmente risiede a Miami e collabora con il

programma di Radio Miami “La Opinión del Día” e con l’agenzia Alainet

cuba

U

E i raPPorti vaticano-stati uniti

Sarajevo / Bosnia 1994 • Un cartello all’angolo di una via del centro segnala il pericolo di cecchini

Paradossi dell’Impero, dove stato e chiesa sono separati ma tutti fanno salti mortali per guadagnarsi il consenso delle comunità religiose

50 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 51

Salvador Capote

mondo si sorpresero quando, l’11 gennaio 2002, approdò la prima ondata di prigionieri alla base navale di Guantánamo, territorio usurpato a Cuba dagli Stati Uniti. Sarebbero poi venuti a galla gli scandali delle torture ad Abu Ghraib, nella stessa base di Guantánamo e nelle carceri segrete dislocate in mezzo mondo. La maggiore spaccatura avvenne con la pubblicazione, nel settembre 2002, del documento Strategia di sicurezza nazionale in cui il governo degli Stati Uniti rivelava l’intenzione di usare la forza militare unilateralmen-te e in modo preventivo contro paesi considerati nemici.

L’amministrazione Bush non nascose il suo disappunto. Da un appoggio praticamente totale in seguito ai tragici eventi dell’11 settembre, l’anno in cui l’Opus Dei inaugurava la sede di New York - un monumentale edificio di 15 piani - il Vaticano era passato all’opposizione più ferma alla strategia dell’impero. “Non capisco la posizione del Vaticano” dichiarava Condoleezza Rice alla rivista italiana Panorama. Il papa fece l’ultimo tentativo di fermare la guerra inviando il cardinale Pio Laghi con un messaggio personale per il presidente. Condoleezza Rice ricevette l’inviato del Santo Padre con freddez-za, e Bush gli assicurò che Dio lo aveva salvato dall’alcolismo e ora lo guidava verso il conflitto. Ormai non c’era nient’altro da fare, tutto era deciso per mandato divino, sia in termini politici che militari.

Ma il rifiuto del governo degli Stati Uniti nei confronti della diplomazia della Chiesa cattolica non durò a lungo. In pochi mesi il disastro della guerra, la diffidenza dei suoi stessi alleati e il crescente sentimento antiamericano in tutto il mondo e soprattutto nei paesi musulmani, fecero riprendere il legame dell’amministrazione Bush con il Vaticano come ancora di salvezza per usci-re dall’isolamento e placare la collera degli imam. Dopo il colloquio del vice presidente Dick Cheney con Giovanni Paolo II, che non ebbe alcun risultato e che fu quasi completamente ignorato dai mezzi d’informazione romani, lo stesso Bush fece visita al papa il 4 giugno 2004. Condoleezza Rice, che accom-pagnava Bush nel suo viaggio a Roma, non andò all’udienza dal Santo Padre. L’assenza della consigliera per la sicurezza nazionale del presidente fu consi-derata da molti come un eccezionale gesto di arroganza.

In un primo momento il papa si era rifiutato di concedere a Bush l’audi-zione richiesta. Le autorità ecclesiastiche comunicarono all’ambasciatore degli Stati Uniti che il Santo Padre non avrebbe potuto ricevere il presidente

durante il suo soggiorno a Roma perché doveva partecipare a un congresso di giovani in Svizzera. L’incontro con il pon-tefice era però talmente importante per la strategia elettora-le di Bush che questi modificò il suo programma di viaggio, cosa piuttosto umiliante per una personalità del suo rango, per poter arrivare prima a Roma e fare pressioni per ottenere di essere ricevuto dal Santo Padre. Bush voleva dimostrare all’elettorato nordamericano che, anche se non poteva con-tare sul sostegno del papa alla guerra, poteva sicuramente

William Clark, capo del suo team di consiglieri, per citarne alcuni.

Questa coincidenza di interessi non è stata sempre un idillio. Per esempio, quando il generale Wojciech Jaruzelski decretò la legge marziale in Polonia (1981-1983), papa Gio-vanni Paolo II si oppose alle sanzioni economiche degli Stati Uniti, sostenendo che ne sarebbero derivate solo sofferenze per il popolo.

La visita a Cuba di papa Giovanni Paolo II nel gennaio 1998 provocò un grande malessere nell’amministrazione Clinton. Nel dicem-bre dello stesso anno, la figura centrale della Chiesa cattolica di Boston, il cardinale nordamericano Bernard Law, fu ospite per quattro giorni del suo omologo Jaime Ortega, stabilendo in questo modo contatti col governo cuba-no. Qualche tempo dopo, all’epoca della presidenza di George W. Bush, quando negli Stati Uniti scoppiò lo scandalo degli abusi sessuali su bambini, il feroce attacco dei mezzi d’informazione si concentrò su Law come espo-nente di spicco della chiesa di Boston. Alcune autorità del Vaticano giudica-rono esagerata la campagna mediatica contro Law, e giunsero alla conclusio-ne che il cardinale stava pagando un prezzo politico per le sue visite a Cuba e la sua opposizione al blocco economico. Queste sue posizioni avevano pro-vocato un odio viscerale contro di lui da parte di gruppi di esiliati cubani negli Stati uniti. Contro Law era schierata anche la lobby sionista per la sua difesa della causa palestinese.

Giovanni Paolo II si oppose con fermezza alla guerra in Iraq. Da un lato percepiva le idee messianiche di Bush come un grande pericolo, così come le sue “conversazioni” con Dio e la sua decisione di andare in guerra ovviamen-te su mandato del cielo, il suo unilateralismo, le sue teorie di guerra preven-tiva e il suo consenso alla tortura. Dall’altro, il papa temeva per la sorte che avrebbero subito le minoranze, in particolare le minoranze cristiane in Medio Oriente, e temeva che il conflitto apparisse al mondo islamico come una nuova crociata e si trasformasse in una guerra di religione.

L’unione dei neocon con le comunità evangeliche, durante l’amministra-zione Bush, fece nascere la teoria che cristianizzare i popoli islamici e espor-tare in quelle regioni del mondo la democrazia rappresentativa, nonché co-stumi e valori nordamericani, non fosse solo un’esigenza morale ma una necessità di sicurezza nazionale.

Ad instaurare un clima da crociata contro gli infedeli contribuì la preoc-cupazione per la crescita demografica dell’Islam. Da 200 milioni nel 1900, nel 2005 i musulmani erano passati a 1.188 milioni. Attualmente ammontano a 1.620 milioni, 500 in più rispetto a quando Bush, travestito da pilota, annun-ciava “missione compiuta” a bordo della portaerei Abraham Lincoln.

Gli attriti maggiori tra il Vaticano e l’amministrazione Bush emersero proprio nel campo delle relazioni internazionali. La Santa Sede e il resto del

il mondo in cui viviamo

Cuba e i rapporti Vaticano-Stati uniti

la visita di papa Wojtyla a cuba, la condanna dell’embargo di law, cardinale di boston, e l’avversione alla guerra in iraq: rapporti difficili

Quella volta che Giovanni Paolo ii costrinse bush jr a modificare il suo viaggio perché non voleva dargli udienza

52 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 53

che non ha mai goduto delle simpatie del Vaticano. Era stata lei, subito prima dell’inizio della guerra in Iraq, a dire molto chiaramente al cardinale Pio Laghi, in-viato di Giovanni Paolo II, che al governo statunitense non interessava il parere del pontefice a proposito dell’immoralità dell’offensiva militare. Il Vaticano non aveva neanche dimenticato la sua irrispettosa assenza dall’udienza papale nel giugno 2004.

Nel 2007, a causa della malattia del leader della Rivoluzione cubana Fidel Castro, la Casa Bianca e il Dipartimento di stato ritennero che fosse giunto il momento di provocare a Cuba azioni volte a restaurare il capitalismo nella nazione caraibica. A questo scopo, si mobilitarono per ottenere l’appoggio della Chiesa cattolica. I con-tatti in Vaticano con il cardinale Tarcisio Bertone, tuttavia, non diedero i risultati sperati. La Santa Sede non condivideva i principi dei funzionari e dei diplomatici nordamericani, perché li considerava troppo semplicistici e privi di fondamenti obiettivi. Nel mese di aprile 2008, in concomitanza con la campagna elettorale presidenziale, Benedetto XVI andò in visita negli Stati Uniti. Era la prima visita ufficiale di un pontefice a Washington da quando si erano instaurate relazioni di-plomatiche stabili nel 1984. La presenza del papa negli Stati Uniti in un anno di elezioni era di grande aiuto per il candidato repubblicano rispetto al democratico Barack Obama, di idee più liberali. Una situazione simile al 2004 con l’aspirante John Kerry, ma questa volta la base cattolica alle urne non rispose alla gerarchia ecclesiastica. Con il nuovo Nobel per la pace alla presidenza, ci si aspettava un ac-cordo migliore con il papa in campo internazionale.

Obama invece sta portando avanti i piani di guerra dell’impero e minaccia di lanciare nuovi conflitti militari contro l’Iran e la Siria. Anche se i rapporti attuali della Chiesa con il governo degli Stati Uniti sono formalmente buoni, di fatto si svolge una guerra culturale occulta. La Santa Sede teme, oggi più che mai, che la famosa teoria dello “scontro di civiltà” dello storico Samuel Huntington divenga realtà. Un recente colpo basso dell’amministrazione Obama è stata l’inclusione del Vaticano, nel marzo del 2012, nell’elenco dei possibili “criminali finanziari” del Dipartimento di Stato. Per la prima volta, nonostante le misure che notoriamente ha adottato per evitarlo, la Santa Sede compare nella lista dei potenziali riciclatori di denaro [il 24 maggio lo Ior - Istituto per le opere di religione, in sostanza la ban-

ca vaticana - ha cacciato il presidente Ettore Gotti Tedeschi perchè, tra le altre cose, avrebbe spinto per modificare le opa-che norme finanziarie del Vaticano, ndr]. Questo fatto avrebbe potuto essere interpretato come una rappresaglia per le eccel-lenti relazioni della Chiesa con lo Stato cubano, insieme all’an-nuncio della visita nell’isola di papa Benedetto XVI. A fine marzo, infatti, Benedetto XVI ha fatto una visita pastorale che ha ottenuto grande consenso, e ha chiesto agli Stati Uniti di porre fine al criminale blocco economico contro Cuba.

per gentile concessione Alai -AmLatina

il mondo in cui viviamo

contare sul suo appoggio in termini di valori umani. Nonostante le evidenti divergenze tra la Santa Sede e il

governo degli Stati Uniti in tema di politica estera, in occa-sione delle elezioni presidenziali del 2004 papa Giovanni Paolo II si schierò a favore del protestante George W. Bush e contro il cattolico John Kerry. Questo è un fatto di estrema importanza per comprendere le posizioni del Vaticano.

Bush non perdeva occasione per enfatizzare i valori del-la famiglia, ribadendo la sua ostilità all’aborto, al matrimonio

tra persone dello stesso sesso, all’eutanasia, alla ricerca sulle cellule stamina-li e ad altri temi che lo avvicinavano molto di più ai principi della Chiesa cattolica rispetto al suo avversario. Kerry, invece, considerava l’orientamento religioso un affare del tutto privato e la gerarchia ecclesiastica lo considerava un esponente del relativismo culturale e del secolarismo combattuto dalla Chiesa. Le idee liberali di Kerry erano in contrasto con l’ortodossia di papa Giovanni Paolo II. Con Kerry, inoltre, la Chiesa non aveva nulla da guadagna-re, perché non c’era alcun segnale che, una volta eletto presidente, potesse cambiare il corso della guerra. La lezione più importante del sostegno della maggioranza cattolica a Bush è che il Vaticano dà la priorità alla lotta contro il secolarismo e il relativismo morale rispetto ad altri ambiti come le relazio-ni internazionali.

Dopo le elezioni del 2004, Bush continuò a corteggiare il Vaticano. Per la prima volta nella storia, con le nomine di John G. Roberts e Samuel Alito i cattolici ottennero la maggioranza (5 su 9) presso la Corte suprema degli Stati Uniti. Al funerale di Giovanni Paolo II nell’aprile 2005, erano presenti il presidente Bush, Bill Clinton e George H. W. Bush. Con Jimmy Carter sareb-bero stati tre gli ex presidenti, ma non c’era posto per quest’ultimo sull’”Air Force One”, secondo la motivazione ufficiale. L’immagine di questi tre perso-naggi e di Condoleezza Rice che li accompagnava, tutti e quattro protestanti, inginocchiati davanti al papa nella Basilica di San Pietro, avrebbe potuto es-sere utilizzata come straordinaria propaganda dell’ecumenismo, o meglio, come esempio di ipocrisia opportunistica.

L’elezione a papa del cardinale Ratzinger ha rappresentato il trionfo del conservatorismo morale sia dei cattolici che dei protestanti. Il nuovo ponte-fice avrebbe seguito in generale la linea politica tracciata dal suo predecesso-re, imprimendole però uno stile più in linea con l’ortodossia.

Nel luglio 2007 Condoleezza Rice, segretario di Stato, si recò a Roma e chiese un incontro urgente con papa Benedetto XVI per discutere di questio-ni del Medio Oriente. Il segretario avrebbe parlato a nome del presidente Bush. La risposta fu che il papa era andato a riposarsi nella sua residenza di Castel-gandolfo, a sud di Roma, e che non poteva riceverla per motivi di protocollo. I giornali italiani sottolinearono che quel comportamento era un chiaro af-fronto all’amministrazione Bush e in particolare verso il segretario di Stato,

includere il vaticano nell’elenco dei possibili “criminali finanziari” è una rappresaglia alle parole di benedetto Xvi contro l’embargo a cuba?

la logica? il vaticano dà priorità alla lotta contro il secolarismo e il relativismo morale rispetto alle relazioni internazionali

Salvador CapoteCuba e i rapporti Vaticano-Stati uniti

1/2 • 2012 I 55

chiesa entro l’ora di chiusura, ma si sono rifiutati. Alla fine la chiesa è stata chiusa e gli occupanti sono rimasti all’interno.

Ricevevano e facevano telefonate frequenti dai loro cellulari. Per tutto il tempo, inoltre, le autorità ecclesiastiche si sono tenute in

costante contatto con le autorità governative, che si sono impegnate a non agire in nessun modo. Anche questo messaggio è stato trasmesso agli oc-cupanti ed è stato offerto loro di accompagnarli a casa con le auto della chiesa. Ogni tentativo di persuaderli è stato inutile. All’alba del 14 marzo si è saputo che situazioni simili si erano verificate in altre chiese del paese, ma che gli altri occupanti avevano già abbandonato le chiese.

Si tratta di una strategia preparata e coordinata da gruppi di diverse regioni del paese. Non si tratta di un caso fortuito ma di qualcosa che è stato studiato accuratamente, a quanto pare allo scopo di creare situazioni critiche in vista della visita di papa Benedetto XVI. Siamo stati informati che altri gruppi e persone dissidenti sono stati convocati ad occupare chie-se in altre diocesi, ma che si sono rifiutati di farlo perché lo considerano “un comportamento irrispettoso verso la chiesa”.

Migliaia di fedeli arrivano ogni giorno nelle chiese cattoliche di tutto il paese. Nella nostra liturgia e nelle nostre celebrazioni non mancano mai le preghiere per i detenuti, per chi ha subito un’ingiustizia, per i defunti o per i bisognosi. Chiunque lo desideri può venire a pregare in chiesa, che è una casa d’orazione aperta a tutti coloro che cercano in Dio la risposta alle loro esigenze spirituali e anche materiali o che vogliono ringraziare per una grazia ricevuta.

Proprio per questo qualunque azione intesa a trasformare un luogo di culto in luogo di dimostrazione politica pubblica, non riconoscendo l’au-torità del sacerdote o il diritto della maggioranza che in chiesa va per cercare la pace spirituale e uno spazio per la preghiera, è sicuramente un’azione illegittima e irresponsabile. La chiesa ascolta e accoglie tutti e intercede per tutti allo stesso modo, ma non può accettare tentativi che snaturino la sua missione o che possano mettere in pericolo la libertà re-

ligiosa di chi entra nelle nostre chiese. Invitiamo coloro che la pensano così a cambiare atteggiamento e, se sono uomi-ni e donne che si considerano cattolici, a comportarsi di conseguenza.

Nessuno ha il diritto di trasformare i luoghi di culto in trincee politiche. Nessuno ha il diritto di disturbare lo spi-rito celebrativo dei fedeli cubani e di molti altri cittadini che con gioia e speranza aspettano la visita del santo padre Be-nedetto XVI a Cuba.

il mondo in cui viviamolatinoamerica

el pomeriggio del 13 marzo, un gruppo di tredici persone, donne e uo-mini adulti che si sono qualificati come dissidenti, è entrato nella Basilica minore di Nuestra Señora de la Caridad dell’Arcivescovado de L’Avana, di-cendo al rettore di questa diocesi, padre Roberto Betancourt, che avevano un messaggio per papa Benedetto XVI, e una serie di domande sociali e che si rifiutavano di uscire dalla basilica.

In seguito si è presentato il cancelliere dell’arcidiocesi de L’Avana, mon-signor Ramón Suárez Polcari, che ha ascoltato le loro richieste, ha assicura-to che il messaggio sarebbe stato trasmesso e ha chiesto loro di uscire dalla

“nessuno ha il diritto di trasformare i luoghi di culto in trincee politiche” Qualche giorno prima della visita di Benedetto XVI a Cuba, un’azione coordinata di alcuni presunti dissidenti, [sostenuti dall’Ufficio di interessi degli Stati uniti a l’Avana], ha portato all’occupazione di alcune chiese in tutta l’isola. Gli oppositori sostenevano di avere un messaggio per il Papa e chiedevano di avere un incontro, seppur breve, con lui. Il cardinale Jaime Ortega, primate della chiesa cattolica cubana, l’ha giudicata un’inutile provocazione. Tanto che, dopo aver invitato più volte gli occupanti a lasciar perdere, ha chiesto al portavoce dell’Arcivescovado di redigere un cominicato di spiegazione e protesta pubblica, che qui di seguito riportiamo.Curiosamente, sui nostri media la notizia dell’occupazione delle chiese, e del successivo sgombero, ha trovato molto spazio. La nota ufficiale di protesta dei vescovi dell’isola, invece, non ha avuto la stessa sorte. Sempre per le regole ben note del giornalismo democratico.

N“un’azione illegittima e irresponsabile”: così la diocesi de l’avana ha liquidato l’occupazione di alcune chiese

sE i PrEsunti dissidEnti sconcErtano l’arcivEscovo dE l’avana

di orlando márquez HidalgoPortavoce dell’Arcivescovado de L’Avana

1/2 • 2012 I 57

il mondo in cui viviamolatinoamerica

uando il governo nordamericano e gli anticastristi di Miami hanno denunciato la

breve detenzione di oppositori da parte delle autorità cubane alla vigilia della visita di Benedetto XVI a Cuba, hanno omesso di precisare che quei dissidenti, così come una buona fetta dell’opposizione politica all’interno dell’isola, sono appoggiati e in molti casi finanziati - in violazione delle leggi cubane - da Washington e dalle organizzazioni anticastriste di Miami, il cui scopo dichiarato è il cambio di regime.

Per questo le esternazioni di Washington e Miami sulla visita del papa a Cuba hanno una connotazione più preoccupante di quanto possa apparire a prima vista.

Miami spera sempre in un conflitto tra la Chiesa cattolica e lo Stato cubano. Ai sostenitori della linea dura a Miami non fa comodo che i rapporti tra la Chiesa e lo Stato siano armoniosi, come ha evidenziato l’ambascia-tore Wayne Smith, esperto di relazioni bilaterali tra Stati uniti e Cuba, in un’intervista rilasciata al quotidiano

di david brooksCommentatore politico e culturale del New York Times e

de La Jornada di Città del Messico

“il viaGGio dEl PontEficE Giova solo al GovErno cubano” dicono Gli anticastristi di miami

I settori ultraconservatori critici verso le intese del Vaticano con il governo “comunista”. Milioni di dollari incanalati verso i dissidenti per promuovere un cambio di regime

Q

sarajevo / biH 1994 – vita quotidiana durante l’assedio. distribuzione di cibo nel quartiere bascarsija.

latinoamerica • 1/2 • 2012 I 5958 I latinoamerica • 1/2 • 2012

David Brooks

opposti al viaggio, sostenendo che la visita del papa avrebbe giovato solo ai disegni del regime di L’Avana, e hanno criticato l’intesa della Chiesa con il regime cubano. Visto che il Vaticano li ha ignorati, fanno di tutto perché la visita serva per denunciare il regime.

Esponenti anticastristi a Miami e politici di Washington hanno appro-fittato di un paio di recenti incidenti, durante i quali le autorità cubane hanno arrestato membri di gruppi dissidenti, per ribadire le loro condanne. Per la verità, in uno dei casi è stata la stessa Chiesa cattolica a chiedere l’espulsione di un gruppo da un luogo di culto, con l’intervento dell’arcive-scovo che spiegava che nessuno ha il diritto di trasformare luoghi sacri in barricate politiche e ostacolare le celebrazioni per la visita del papa.

Ros-Lehtinen ha dichiarato alla Camera dei rappresentanti che si è par-lato poco dell’escalation di violenza contro l’opposizione interna di Cuba, ma che si può rimediare denunciandola e facendo un appello a Benedetto XVI perché sostenga pubblicamente le aspirazioni del popolo cubano, schiaviz-zato e impossibilitato ad esercitare i diritti che Dio gli ha conferito.

A Miami, Ninoska Pérez, direttrice del Consiglio di libertà cubana ed esponente di punta dell’anticastrismo, ha affermato che si sarebbe aspettata più proteste prima e durante la visita del papa a Cuba.

A Washington, un portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca ha dichiarato ai media che l’arresto di rappresentanti del movi-

messicano La Jornada. Smith, che è stato il capo della Sezione di interessi del governo nordamericano a L’Avana durante la presidenza di Jimmy Carter e ora è analista del Centro di politiche internazionali di Washington, ha detto che anche il governo statunitense vorrebbe che la Chiesa scegliesse una linea più dura contro il regime di Cuba, che manifestasse una censura più decisa, ma la Chiesa non lo farà.

I rapporti di cooperazione tra la Chiesa cattolica, guida-ta dal cardinale Jaime Ortega, e il regime cubano non sono

risultati graditi alle forze più conservatrici di Miami, né ad alcuni settori di Washington, a cominciare dall’opposizione ufficiale della Chiesa cubana contro quello che è il nucleo della politica nordamericana: l’embargo statu-nitense contro l’isola.

Il Vaticano ha ribadito che la sua posizione nei confronti del blocco non è un mistero, e questo è un concetto già espresso da papa Giovanni Paolo II durante il suo storico viaggio a Cuba nel 1998, per cui non c’è da stupire se l’attuale pontefice Benedetto XVI lo riafferma, sollecitando anche una mag-giore libertà religiosa, come ha riferito Catholic News Service.

Così, autorevoli esponenti dell’esilio come la deputata Ileana Ros-Lehti-nen - ora presidente della commissione Affari esteri -, il senatore Marco Rubio e altri parlamentari e politici cubano-statunitensi inizialmente si sono

il mondo in cui viviamo

“Il viaggio del pontefice giova solo al governo cubano” dicono i politici anticastristi

la cooperazione tra la chiesa cattolica e il governo di cuba non è gradita alle forze più conservatrici di miami e Washington

a cura di Piernicola nobili

”Gli Stati Uniti devono stabilire piene relazioni diplomatiche con L’Avana e ritirare tutte le restrizioni ai viaggi verso l’isola” Queste sono state le parole del presidente della Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale americana monsignor Richard E. Pates di Des Moi-nes, Iowa. La dichiarazione è contenuta in una lettera indirizzata all’at-tuale Segretario di Stato, Hillary Clinton.

Con questa lettera monsignor Pates ha voluto mettere in evidenza

l’importanza di sostenere il popolo di Cuba per aiutarlo a conquistare maggiori libertà politiche e religiose.

Nella lettera il prelato ha fatto sapere di accogliere un possibile al-leggerimento delle restrizioni che sono state poste in essere, l’anno scor-so, dall’amministrazione di Barack Obama.

La missiva fa riferimento quindi al recente viaggio apostolico del Santo Padre, confermando che un ritiro dell’embargo aiuterà a migliora-re le relazioni diplomatiche e le condizioni di vita della popolazione cu-bana.

Nel territorio cubano, infatti, sono molte le organizzazioni di assi-stenza, tra cui anche quelle cattoliche, che danno servizi essenziali per i cubani più poveri che soffrono l’emarginazione.

“I membri del personale che amministrano generosamente queste strutture e gli alti esponenti della Chiesa cubana responsabili di questi programmi, mi hannno detto in più occasioni che l’efficacia del loro lavo-ro è stata ostacolata dall’incapacità di ottenere prodotti dagli Stati Uniti a causa dell’embargo commerciale”- continua Pates.

i vEscovi nordamEricani cHiEdono la rEvoca dEll’EmbarGo a cuba

60 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 61

la maggior parte dei fondi statunitensi di sostegno alle organizzazioni anti-castriste dentro e fuori l’isola caraibica, e afferma esplicitamente che, arri-vando alla comunità dissidente, il programma dell’agenzia internazionale serve a potenziare gruppi indipendenti della società civile che possono final-mente dare contributi significativi a livello locale e nazionale.

Per gli anni fiscali 2009 e 2010 il Congresso ha stanziato 35 milioni di dollari per programmi riguardanti Cuba (23 milioni gestiti dall’Usaid), se-condo quanto riporta l’ente.

Per i cosiddetti programmi di promozione della democrazia istituiti dalla legge Helms-Burton, il governo nordamericano ha distribuito più di 150 milioni di dollari, riferisce il sito web Cuba Money Project che si occupa del monitoraggio di questa assistenza ufficiale.

Qualunque tipo di sovvenzione dall’estero a gruppi dissidenti all’interno dell’isola, come qualsiasi operazione straniera che interferisca negli affari interni, viola le leggi nazionali di Cuba.

Julia Sweig, direttrice degli studi latino-americani del prestigioso Con-siglio degli Affari esteri, ha recentemente commentato che i cosiddetti pro-grammi di democrazia per Cuba del governo nordamericano sono una pro-vocazione straordinaria in quanto hanno sempre lo stesso obiettivo eredita-to dal precedente governo, quello del repubblicano George W. Bush: il con-cetto di cambiamento di regime, e sotto la presidenza di Obama rimangono sostanzialmente inalterati.

Sweig ha spiegato che i programmi sono tenuti nascosti di proposito al pubblico nordamericano, che non ci sono informazioni pubbliche sui sub-contrattisti privati per questi programmi negli Stati Uniti e in altri paesi e che perfino gruppi o persone che vivono a Cuba a volte non sanno nemme-no di essere inseriti nei programmi statunitensi.

I programmi di democrazia (per Cuba) sono stati politicizzati apposita-mente per provocare, e ci sono riusciti benissimo, come ha sottolineato Julia Sweig.

In occasione della visita del papa a Cuba, tutto sembra confermare che l’obiettivo di Washington e Miami è esattamente questo: provocare.

Per gentile concessione de la Jornada

il mondo in cui viviamo

mento delle Dame in bianco alla vigilia della visita di Benedetto XVI è un’ul-teriore evidenza del disprezzo delle autorità cubane per i diritti universali del popolo cubano. Il Dipartimento di stato ha invece denunciato che l’arre-sto ha costituito un’inammissibile violazione e ha esortato il papa ad affron-tare il tema dei diritti umani nei suoi colloqui con il governo cubano.

Un editoriale del New York Times sottolinea la convinzione che il papa debba fare pressione sul leader cubano perché si ponga fine ai soprusi nei confronti dei dissidenti, e che debba inoltre ricordargli che il mondo ha ben presente il grande desiderio di libertà del popolo cubano.

Ma, come quasi sempre accade, non si dice quasi mai che questi gruppi dissidenti godono dell’appoggio degli Stati Uniti. L’anno scorso, il Diparti-mento di stato ha assegnato il premio Difensori dei diritti umani alle Dame in bianco, e funzionari della Sezione di interessi nordamericana hanno avu-to un incontro con loro. Milioni di dollari sono stati incanalati verso gruppi che operano per una svolta, un cambiamento di regime.

È quasi impossibile sapere quali gruppi nell’isola caraibica ricevano denaro, a causa della scarsa trasparenza nella fornitura di fondi e di altri aiuti da parte degli Stati Uniti ai vari gruppi a Cuba. Tra l’altro, la maggior parte dei fondi viene incanalata da organizzazioni di Miami.

L’Agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati uniti (Usaid) destina

David Brooks“Il viaggio del pontefice giova solo al governo cubano” dicono i politici anticastristi

1/2 • 2012 I 63

il mondo in cui viviamolatinoamerica

apa Benedetto XVI ha ragione: il marxismo non è più un’ideologia realistica. È vero, non ha più ri-

spondenza con la realtà il marxismo così come molti, in seno alla Chiesa cattolica, lo intendono: un’ideologia atea che ha giusti-ficato i crimini di Stalin e le atrocità della Rivoluzione culturale cinese. Accettare però che il marxismo come lo interpreta Ratzin-ger sia lo stesso che intendeva Marx equivar-rebbe a identificare il cattolicesimo con l’Inquisizione.

Oggi si potrebbe anche dire che il catto-licesimo non corrisponde alla realtà. Perché non si può giustificare che siano state man-date al rogo donne ritenute streghe o che siano state torturate persone sospettate di eresia. Fortunatamente però il cattolicesimo

di frei betto Scrittore, autore, fra gli altri, di Diario de Fernando.

En las cárceles de la dictadura militar brasileña. www.freibetto.org

il PaPa E l’utilità dEl marXismo

Il marxismo non è più un’ideologia realistica, dice papa Bendetto XVI. Ma accettare il marxismo come lo intende ratzinger sarebbe come identificare il cattolicesimo con l’Inquisizione

P

sarajevo / bosnia 1994 – vijecnica, l’antica biblioteca, è il simbolo della distruzione di sarajevo e della bosnia. custodiva, prima della guerra, un milione e mezzo di libri, tra i quali centomila esemplari rari e preziosi. il 25 agosto 1992, poco dopo la mezzanotte dalle colline intorno alla città le artiglierie dell’esercito serbo-bosniaco spararono le prime bombe incendiarie su vijecnica. la biblioteca nazionale fu bersagliata dai cannoni per tre intere giornate. dopo tre giorni di rogo, della biblioteca bruciata rimanevano lo scheletro di mattoni e dieci tonnellate di cenere

64 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 65

Frei Betto

povertà nega a milioni di esseri umani.

È ormai provato che il capitalismo non garantisce un futuro dignitoso all’umanità. Benedetto XVI l’ha ammesso quando ha affermato che dobbia-mo cercare nuovi modelli. Il marxismo, analizzando le contraddizioni e le carenze del capitalismo, apre una porta di speranza per una società che i cattolici definiscono, nella celebrazione eucaristica, come quella in cui tutti potranno “condividere le ricchezze della terra e i frutti del lavoro umano”. Era questo che Marx chiamava socialismo.

Reinhard Marx, arcivescovo cattolico di Monaco, nel 2011 ha pubblica-to un libro dal titolo Il Capitale. Un patrimonio a favore dell’umanità. In coperti-na appaiono gli stessi colori e gli stessi caratteri della prima edizione del Capitale di Marx, pubblicato ad Amburgo nel 1867. “Marx non è morto e bisogna prenderlo sul serio”, ha detto il prelato in occasione della presen-tazione dell’opera. “Dobbiamo confrontarci con l’opera di Karl Marx, perché ci aiuta a comprendere le teorie dell’accumulazione del capitale e del mer-cantilismo. Questo non significa farsi incantare dalle aberrazioni e dalle atrocità commesse in suo nome nel XX secolo”.

L’autore del nuovo Il Capitale, nominato cardinale da Benedetto XVI nel novembre 2010, definisce “etico-sociali” i principi che difende nel suo libro, critica il capitalismo neoliberale, definisce la speculazione “selvaggia” e “peccato”, e caldeggia l’idea di ridisegnare l’economia secondo le norme etiche di un nuovo ordine economico e politico.

“Le regole del gioco devono essere etiche. In questo senso, la dottrina sociale della Chiesa è critica nei confronti del capitalismo”, afferma l’arcivescovo.

Il libro inizia con una lettera di Reinhard Marx a Karl Marx, morto nel 1883, che chiama “caro omonimo”. Nella lettera Reinhard chiede a Karl di riconoscere di avere sba-gliato circa l’inesistenza di Dio. Questo fa intuire, tra le ri-ghe, che il religioso ammette che l’autore del Manifesto co-munista è uno di quelli che, dall’altro lato della vita, godono della visione beatifica di Dio.

non può essere identificato con l’Inquisizione né con la pedofilia di alcuni preti e vescovi.

Allo stesso modo, il marxismo non si può confondere con i marxisti che se ne sono serviti per seminare paura e terrore e per soffocare la libertà religiosa. Dobbiamo torna-re a Marx per sapere che cos’è il marxismo, così come dob-biamo tornare al Vangelo e a Gesù per sapere che cos’è il cristianesimo e a Francesco d’Assisi per sapere che cos’è il cattolicesimo.

Nel corso della storia, in nome di bellissime parole sono stati commes-si i crimini più efferati. In nome della democrazia, gli Stati uniti si sono impadroniti di Porto Rico e della base cubana di Guantánamo. In nome del progresso, alcuni paesi dell’Europa occidentale hanno colonizzato i popoli africani lasciando dietro di sé un cumulo di miseria.

In nome della libertà, la regina inglese Vittoria ha scatenato in Cina le devastanti guerre dell’oppio. In nome della pace, la Casa Bianca ha commes-so l’atto terroristico più pericoloso e genocida della storia: il lancio di bom-be atomiche sulle popolazioni di Hiroshima e Nagasaki. In nome della li-bertà, gli Stati Uniti hanno instaurato, in quasi tutta l’America latina, san-guinose dittature per tre decenni (1960-1980).

Il marxismo è un metodo di analisi della realtà. È più che mai utile per comprendere l’attuale crisi del capitalismo. Il capitalismo, quello sì, non corrisponde più alla realtà perché ha prodotto diseguaglianze sociali più marcate tra la popolazione mondiale; si è impadronito delle risorse natura-li di altri popoli; ha sviluppato la sua politica imperialista e monopolista; ha fatto degli arsenali nucleari il centro dell’equilibrio mondiale; e ha dif-fuso l’ideologia neoliberista che riduce l’essere umano a mero consumatore abbagliato dai beni di consumo.

Oggi il capitalismo è predominante nel mondo. E su 7 miliardi di abi-tanti del pianeta, 4 miliardi vivono al disotto della soglia di povertà e 1 miliardo e 200 milioni soffrono di fame cronica. Il capitalismo ha fallito per i due terzi dell’umanità che non hanno la possibilità di condurre una vita dignitosa. Laddove il cristianesimo e il marxismo parlano di solidarietà, il capitalismo ha introdotto il concetto di competizione; dove parlano di co-operazione, ha introdotto la concorrenza; dove parlano di rispetto per la sovranità dei popoli, ha introdotto la globo-colonizzazione.

La religione non è un metodo d’analisi della realtà. Il marxismo non è una religione. Che piaccia o meno al Vaticano, la luce che la fede proietta sulla realtà è sempre mediata da un’ideologia. L’ideologia neoliberista, che identifica la democrazia con il capitalismo, oggi prevale nella coscienza di molti cristiani e impedisce loro di capire che il capitalismo è intrinsecamen-te perverso. La Chiesa cattolica si dimostra spesso connivente con il capita-lismo perché questo le elargisce privilegi e le garantisce una libertà che la

il mondo in cui viviamo

Il Papa e l’utilità del marxismo

”condividere le ricchezze della terra e i frutti del lavoro umano”: è questo che marx chiamava socialismo

il marxismo è un metodo di analisi della realtà, utilissimo per capire la crisi del capitalismo. la religione non lo è

1/2 • 2012 I 67

il mondo in cui viviamolatinoamerica

ur essendo il meno sfortunato dei Cinque anti-terroristi cubani condannati spietatamente negli

Stati Uniti e bollati come spie dalla corrente informativa del pensiero unico, René González ha tutte le caratteri-stiche di una persona preparata, coraggiosa e piena di dignità. Nato a Chicago nel 1956 da una famiglia di emi-granti cubani, è tornato in patria insieme ai suoi dopo la rivoluzione. Suo padre era stato un sostenitore del Movi-mento 26 luglio di Fidel Castro e non ha esitato a imbar-care moglie e figli per l’isola dove i suoi ragazzi hanno studiato, lavorato e partecipato ad ogni appello della patria. René ha combattuto in Angola, è ingegnere e istruttore di volo, militante del Partito Comunista di Cuba.

Nel 1990 gli viene affidata la delicata missione di sorvegliare le attività controrivoluzionarie che vengono autorizzate e preparate in Florida, alla luce del sole e senza che il governo degli Stati Uniti intervenga. Per questo si stabilisce a Miami dove, sette anni dopo, lo raggiunge la moglie, Olga Salanueva, anche lei ingegnere, dalla quale ha avuto una figlia, Irma, ormai grandicella. A Miami nasce la loro seconda figlia, Ivette. Neanche il tempo di vedere la piccola e René viene arrestato per

di alessandra riccio

PP

sarajevo / bosnia 1995 – una rara immagine del tunnel scavato dall’esercito bosniaco sotto la pista dell’aeroporto per consentire l’arrivo delle armi e degli aiuti umanitari e la fuga di profughi e feriti. nella foto bajro Kolar, guardiano del tunnel di butmir.

tornato in carcErE doPo duE sEttimanE da uomo libEro

Uno dei Cinque agenti cubani in carcere negli Usa come spie dopo un processo farsa, ha potuto andare all’Avana per visitare il fratello malato. Poi è tornato a Miami, dove lo attendeva la sua cella

la diGnità di rEné

68 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 69

Alessandra Riccio

ultimi devo questa spiegazione.Come è stato correttamente spiegato, la mia richiesta di venire a Cuba

aveva un carattere umanitario alla luce della lettera e dello spirito della fi-gura giuridica della libertà condizionata. Non si è trattato di un favore e nemmeno di una richiesta politica, ma di una situazione prevista dalla legge, la cui soluzione è stata accompagnata dal più rigoroso rispetto della stessa. Con lo stesso spirito di rispetto della legalità che ci ha guidato fin dal prin-cipio di questo processo, era imprescindibile che il mio soggiorno in patria non si trasformasse in qualcosa che stridesse con la natura di una simile ri-chiesta. Ne andava della nostra parola e si metteva in gioco lo spazio morale che durante questi anni noi Cinque ci siamo conquistati in questa storia.

Da quanto detto deriva la poca esposizione data alla visita, che per qual-cuno è potuta apparire sorprendente. Siamo sicuri che questa spiegazione sarà ben compresa da tutti quelli che ci vogliono bene e che vedevano nel mio momentaneo ritorno la possibilità di qualche manifestazione pubblica di festeggiamenti e di gioia. Le limitazioni imposte dalla natura del mio viag-gio hanno reso impossibile ciò, a parte quanto è successo spontaneamente nei luoghi in cui la mia presenza era inevitabile per ragioni di obbligato rin-graziamento o di passate vicissitudini; aggiungiamoci le restrizioni di tempo date dall’incontro con la mia famiglia e il tempo trascorso con mio fratello ammalato che era il motivo diretto del mio viaggio.

Delle mie brevi camminate per le nostre strade e del contatto spontaneo con il nostro popolo serbo ricordi indelebili, che mi servono di ispirazione e mi danno forza. Da cubani di ogni genere ho ricevuto in questi giorni un affetto semplice e sincero, rispettoso delle condizioni del mio viaggio e del-la discrezione che esigeva, e me lo hanno dimostrato in tutti i modi possibi-li. So che attraverso ognuno di questi compatrioti mi raggiungeva l’affetto dei milioni che avrebbero voluto essere al corrente del nostro soggiorno. A tutti - sia a quelli che mi hanno onorato con il loro contatto che a quelli che non hanno potuto farlo - voglio esprimere il mio profondo ringraziamento sia per le dimostrazioni di generoso rispetto che per le espressioni di solida-rietà e per gli auguri rivolti a mio fratello.

Di ritorno al mondo dell’assurdo, mi preparo a continuare questa lunga battaglia affinché si faccia giustizia. Era indispensabile che la mia condotta a Cuba fosse di estrema moderazione. Era impensabile che non ritornassi. Porto nel cuore le intense emozioni di questi bei quattordici giorni insieme al mio popolo, con cui un giorno festeggeremo il ritorno dei Cinque.

Per il momento, a tutti, a nome della mia famiglia e mio, rivolgo il nostro più profondo ringraziamento.

E a nome dei Cinque, ribadisco che non verremo meno e saremo sempre degni di voi.

Un forte abbraccioRené González Schwerter

spionaggio, tradotto in cella di isolamento e poi condannato a 15 anni. Sua moglie Olga è stata dichiarata persona non grata e “pericolosa per la sicurezza nazionale” e non ha mai avuto il permesso di visitare il marito in carcere. La piccola Ivette ha potuto vedere suo padre solo dopo molti anni di carcerazione. Adesso Renè ha scontato gran parte della pena e per gli ultimi due anni gode della libertà condizionata che deve scontare a Miami, cioè in una città che pullula di peri-colosi e violenti anticastristi. Nei mesi scorsi, a causa di una

grave malattia che ha colpito suo fratello, René ha chiesto - come consente la legge - di poter visitare l’infermo a Cuba. Dopo molti tira e molla il per-messo è stato accordato insieme a moltissime limitazioni e regole da rispet-tare.

E così, una ventina di giorni fa il Granma ha sobriamente informato dell’arrivo di uno dei Cinque, cioè di uno di quegli amatissimi eroi che i cu-bani vorrebbero vedere di ritorno in patria; eppure da quel momento c’è stato silenzio, fino a qualche giorno fa, quando abbiamo appreso che René era tornato a Miami. Ieri, però, René ha scritto una lettera per il suo popolo dove spiega le ragioni di tanta discrezione: sono tutte ragioni etiche che con-tribuiscono a fare di quest’uomo coraggioso un esempio di dignità che con-divide con il popolo e il governo cubani. Ne avevamo già avuto molte prove, l’ultima delle quali la lettera inviata a suo fratello malato terminale in un momento in cui non era certo che potesse accorrere al suo capezzale.

Quella lettera l’ho tradotta qualche settimana fa per il mio “Taccuino” sul sito di Latinoamerica [www.giannimina-latinoamerica.it] e adesso ho tradotto il suo “Messaggio al mio popolo” del 14 aprile scorso:

Cari compatrioti,di ritorno nel mondo dell’assurdo dopo una troppo breve visita alla mia

patria che ha suscitato in qualcuno le più diverse elucubrazioni - molte a un livello di follia alla quale solo i detrattori della nostra società possono arriva-re - è tempo di saldare un debito con il nostro popolo attraverso queste paro-le. Non sono dirette a coloro che speravano di criticarci anticipando che il mio viaggio a Cuba si sarebbe trasformato in un atto politico e che ora ci criticano perchè si è rivelato un esempio di discrezione; e non sono dirette neanche a coloro convinti che non sarei ritornato e che adesso cercano le più diverse ragioni del perché l’ho fatto. Si tratta di un elementare dovere di fronte a un popolo che ha sentito come suo il sollievo che ha significato que-sta parentesi, un popolo di cui molti figli nel migliore spirito di solidarietà e di generosità si aspettavano di poter partecipare alla mia visita. Solo a questi

il mondo in cui viviamo

La dignità di René, tornato in carcere dopo due settimane da uomo libero

condannato a 15 anni, rené González non ha voluto pubblicizzare il suo viaggio: “E torno negli stati uniti perchè ho dato la mia parola”

La lettera di René González al suo popolo

1/2 • 2012 I 71

il mondo in cui viviamolatinoamerica

La creatura di Robert Ménard Nel 2008 il fondatore di Rsf, Robert Ménard, pochi mesi dopo la prima

bocciatura dell’Unesco si era dimesso dalla carica di presidente, che dete-neva apparentemente a vita, per accettare un contratto multimilionario dell’Emirato del Qatar, dove avrebbe dovuto creare un ente a tutela dei di-ritti della stampa. Oggi è rientrato in Francia, dove si è accostato al partito di estrema destra Front National dei Le Pen.

Quando era a capo di Rsf, Ménard aveva dovuto ammettere pubblica-mente che il suo gruppo riceveva generosi finanziamenti dall’Usaid, agen-zia del governo federale americano che per molti è il braccio dei servizi segreti Usa, attraverso il Center for a Free Cuba, una creatura di Freedom House (agenzia “non governativa” quasi del tutto finanziata dagli Stati Uniti) di-retta dall’espatriato cubano Frank Calzón, che nega di essere stato un agen-te della Cia.

Da anni Ménard aveva accesso ai fondi “per l’ingerenza” dell’agenzia nordamericana Usaid che, nell’anno del suo “pensionamento” precipitoso, disponeva di circa 45 milioni di dollari per svolgere il lavoro di propaganda e spionaggio contro Cuba attraverso una rete di sedicenti Ong. Il braccio destro di Calzón, Felipe Sixto, alla fine dell’anno scorso ha confessato di avere rubato mezzo milione di dollari dal bilancio del Center.

L’affiliazione con Usaid e altri sostegni occulti da parte degli Stati Uni-ti spiega la foga con cui Rsf attacca costantemente i paesi latinoamericani progressisti, tra cui quelli dell’Alba, contro i quali scatena regolarmente campagne diffamatorie insieme ad altre organizzazioni giornalistiche note per collaborare con il Dipartimento di Stato.

Lo scorso febbraio, Reporters sans frontiéres è intervenuta nel dibattito che si svolge in Ecuador sui diritti della stampa per sostenere il quotidiano El Universo, condannato per avere ingiuriato il presidente Rafael Correa e mentito pesantemente nei suoi riguardi. Rsf ha definito “un disastro” la decisione della Corte nazionale di giustizia dell’Ecuador che ha ratificato la sentenza per “diffamazione” contro quel quotidiano, portavoce dell’estrema destra e dell’oligarchia del paese.

Allo stesso modo, Reporters sans frontiéres attacca la Bolivia e il Venezue-la, paesi la cui “grande stampa” è ed è sempre stata tradizionalmente mo-nopolizzata dall’oligarchia nazionale.

Più di 60 Ong collaborano legittimamente con l’Unesco in qualità di associate, ma Rsf non avrà più alcun diritto di intervento e si limiterà a mantenere lo stato consultivo.

di Jean-Guy allardEditorialista di Rebelión.org

l’unEsco EsPEllE rEPortErs sans frontièrEs “mEtodi incomPatibili con i nostri valori”

L’Ong francese Reporters sans frontières (RSF), sovvenzionata da agenzie del Dipartimento di stato nordamericano e il cui vincolo con i servizi segre-ti americani è stato dimostrato, è appena stata esclusa dall’elenco delle Organizzazioni non governative associate all’Unesco. È la seconda volta in soli quattro anni che Rsf viene sanzionata dall’Unesco per la sua mancan-za di etica.

Il 12 marzo 2008, la prestigiosa istituzione delle Nazioni unite le aveva ritirato il co-patrocinio della Giornata per la libertà di Internet a causa delle sue “azioni volte a denigrare un certo numero di paesi.”

Il Consiglio esecutivo dell’ente internazionale ha convalidato, l’8 mar-zo 2012, la decisione del Comitato per gli associati non governativi che ha revocato a Reporters sans frontiéres lo status di organizzazione associata.

Il Comitato per gli associati non governativi, organo sussidiario del Consiglio esecutivo dell’Unesco, si era riunito il 28 febbraio per studiare la riclassificazione delle Ong che collaborano con l’Unesco. Nel corso dei dibattiti, vari paesi hanno denunciato i discutibili metodi di lavoro adottati da Reporters sans frontiéres “che non sono compatibili con i valori dell’Unesco nel campo del giornalismo”, decidendo così di escluderla dalla condizione di associata.

1/2 • 2012 I 73

il mondo in cui viviamolatinoamerica

L’agenzia, di cui è nota l’azione di destabilizzazione celata dietro la facciata dello sviluppo, nel 2008 ha implicitamente riconosciuto il carattere segreto, illegale e spionistico delle sue attività a Cuba.

Il 14 maggio scorso, infatti, José “Pepe” Cárdenas, leader cubano-ame-ricano a quel tempo capo di Usaid per la regione latinoamericana, in una riunione convocata a Washington ha spiegato in che modo avrebbe distri-buito i 45 milioni di dollari destinati a favorire la sovversione a Cuba attra-verso quelle che ha chiamato “istituzioni collaudate”.

Così ha precisato che avrebbe promosso l’invio clandestino di materia-le elettronico nell’isola, avvalendosi di intermediari europei e latinoameri-cani per realizzare il “lavoro sporco” che non si può fare legalmente, Avreb-be inoltre favorito l’arrivo di agenti nel paese, utilizzando le cosiddette li-cenze umanitarie per effettuare “valutazioni sul campo”.

Attività “al di sopra della legge”Oltre a queste proposte per le quali sono stati richiesti finanziamenti,

Cárdenas ha sottolineato che l’agenzia avrebbe garantito il segreto assoluto ai suoi collaboratori, che le loro attività non sarebbero mai state rese note, “agendo anche al di sopra della legge Foia” di accesso all’informazione.

Le garanzie così formulate da Cárdenas a nome dell’agenzia avevano prodotto, tra l’altro, l’aggiudicazione di un redditizio contratto alla società Development Alternatives Inc. (Dai) il cui subappaltatore, Alan Gross, era stato successivamente arrestato e condannato a Cuba, proprio per aver introdot-to clandestinamente sull’isola materiale elettronico. Usaid ha già negato a Tracey Eaton le copie delle richieste presentate in questo caso.

In testi precedentemente pubblicati da Usaid si fa riferimento allo sviluppo a Cuba di una “capacità di manovra che deve comprendere la pos-sibilità di istituire uno spazio per uffici, telecomunicazioni, meccanismi per il trasporto, l’identificazione e il reclutamento di personale locale per fare acquisti locali e “altre azioni”.

Parallelamente a queste sporche attività di Usaid, un altro ente federa-le, il Broadcasting Board of Governors (Bbg), ha recentemente ingaggiato la società israeliana RRSat Global Communications, che ha il compito di bombar-dare via satellite i televisori dei cubani con programmi di propaganda nor-

damericana. Un altro contratto, destinato a intasare con messaggi di propaganda migliaia di cellulari cubani, selezio-nati da una fonte non meglio identificata dello stesso Bbg, è stato attribuito a Washington Software, una società “di pro-prietà asiatica”.

In America latina e nei Caraibi, gli Stati Uniti investono un miliardo di dollari l’anno per queste e altre presunte operazioni “umanitarie”, ideate e realizzate da una cosid-detta Agenzia per lo Sviluppo internazionale.

Usaid, la cosiddetta agenzia nordamericana per lo sviluppo internazio-nale, uno dei tanti apparati di intelligence degli Stati uniti, ha appena negato a un noto investigatore l’accesso, in quanto “segreti”, a documenti relativi alle operazioni dell’Agenzia stessa a Cuba.

Usaid si è rifiutata di rivelare dettagli fondamentali sulle attività di Freedom House a Cuba dal gennaio 2000 al dicembre 2007, in seguito alla richiesta di Tracey Eaton, redattore capo del sito web Along the Malecon. I documenti erano stati richiesti in virtù della legge federale di accesso all’in-formazione, il Freedom of Information Act (Foia).

Nel messaggio a Eaton, la controversa agenzia si nasconde dietro un’ec-cezione del Foia che copre non solo “i segreti commerciali e le informazioni commerciali o finanziarie” “privilegiate o confidenziali” ma anche tutti i segreti connessi alle sue operazioni clandestine, ovviamente illegali. “L’esen-zione è abbastanza vaga tanto da poter occultare al pubblico la quasi totali-tà delle informazioni”, ha commentato Eaton sulla sua pagina web.

“Invio clandestino di materiale elettronico sull’isola”Nel 1999 Usaid ha firmato un contratto con Freedom House, con 11 ac-

cordi complementari, in cui si menzionano i programmi delle attività dell’organizzazione a Cuba. Il documento fa riferimento a “partner stranie-ri” e a “partner all’estero”, senza peraltro fornirne l’identità.

di Jean-Guy allardEditorialista di Rebelión.org

L’il capo di Usaid per l’america latina ha spiegato come avrebbe distribuito i fondi per favorire l’eversione a cuba

“sPiacEnti, non vE lo diciamo”così l’usaid riconoscE il carattErE “sEGrEto” dEllE suE oPErazioni a cuba

Ai sensi del Freedom of Information Act, l’Agenzia per lo Sviluppo internazionale degli Stati Uniti risponde a un blogger che vuole chiarimenti. Ma riempie la risposta di omissis, su quanto spende, su chi lo spende, e soprattutto sul perchè lo spende

1/2 • 2012 I 75

il mondo in cui viviamolatinoamerica

i capita molto spesso di sentirmi chiedere se poi la sindrome di cui sof-frono i cubani - di essere perseguitati dal potente vicino nemico - quella sindrome dell’assedio che li ha costretti a non abbassare mai la guardia e a mantenere alta la difesa, non fosse ormai una specie di fissazione o addi-rittura una scusa per non liberalizzare il paese come il mondo occidentale le chiede.

Ho trovato adesso due notizie che danno l’esatta misura di quanto sia realista la posizione di Cuba, le sue denunce e i danni sofferti a causa del blocco statunitense ma non solo, giacché coinvolge anche altri paesi.

La prima notizia riguarda un noto giornalista e scrittore colombiano, Hernando Calvo Ospina, collaboratore di Le Monde Diplomatique e autore di libri/denuncia sull’operato della Cia in America Latina e a Cuba. Studente di giornalismo all’Università di Quito, in Ecuador, nel 1985 è stato arresta-to e torturato. Rilasciato, ha trovato asilo politico in Francia dove ha spo-sato una cittadina francese e dove ha messo al mondo due figli. Il 19 aprile 2009, il volo di Air France che lo doveva portare in Messico fu deviato per ordine della Cia, che non permetteva che sorvolasse il territorio nordame-ricano un passeggero con il curriculum di Ospina, autore di uno scioccante libro sulle operazioni dell’Agenzia dirette contro Cuba, dal titolo Disidentes o mercenarios?

di alessandra riccio

M

ma QualE sindromE, cuba è assEdiata davvEro

non abbassare mai la guardia, mantenere alta la difesa, guardarsi sempre dal potente vicino.Quella dei cubani è una fissazione, una scusa per non liberalizzare o la realtà? Ecco due esempi di embargo applicato nei fatti, contro uno scrittore colombiano e una multinazionale spagnola

la lettera con cui le autorità francesi hanno negato la richiesta di cittadinanza al giornalista e scrittore colombiano Hernandocalvo ospina, residente nel paese da oltre 25 anni

76 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 77

Alessandra Riccio

Repsol che ha concordato con il governo cubano una licenza per esplorare in acque territoriali cubane, con una piattaforma sottomarina in cerca di petrolio.

Adesso gli Stati Uniti si dichiarano preoccupati per il pericolo di un versamento del liquido come è avvenuto già nel 2010 per colpa della com-pagnia Bp in acque nordamericane. Hanno deciso che è necessario orga-nizzare un pool dei paesi che si affacciano sul golfo del Messico per poter intervenire efficacemente nel casi di un altro versamento. Cuba, come si sa, è sotto embargo e non ha rapporti normali con il potente vicino, cio-nonostante il parlamento degli Stati Uniti esige che sia mandata una com-missione a ispezionare la piattaforma Repsol per assicurarsi che tutto sia in regola, anche perché, per aggirare l’embargo, la Repsol ha usato solo il 10% di materiali nordamericani.

La compagnia spagnola ha accettato l’ispezione che, però, non potrà realizzarsi in acque cubane e propone di accedere adesso che la piattafor-ma Scarabeo 9 è ancora in navigazione. Il senatore Usa Robert Menéndez ha dichiarato, senza vergogna, che “quando si tratta di leggi che devono proteggere i cittadini statunitensi dalle contaminazioni straniere in mate-ria di petrolio, non deve esserci alcuna ambiguità riguardo a chi deve es-

sere pienamente responsabile: colui che contamina. [...] Ci aspettiamo che le imprese che vogliono perforare in cerca di greggio in acque cubane ci pensino due volte; sia chiaro che sarebbero totalmente responsabili di qualsiasi danno agli isolotti della Florida, alle spiagge del sud della Florida, o se il versamento arrivasse alla Corrente del Golfo o a qual-siasi altro punto della costa nordamericana”.

I signori son serviti: il blocco strangola Cuba ma inclu-de anche paesi terzi come la Francia e la Spagna.

il mondo in cui viviamo

Ma quale sindrome, Cuba è assediata davvero

La stessa sorte è toccata quest’anno a una docente mes-sicana in volo verso l’Italia per partecipare ad un convegno di studio, che fu fatta addirittura scendere dall’aereo.

Ospina adesso ha chiesto la nazionalità francese, che gli è stata negata con le motivazioni che traduco dal sito Re-belión e che, in originale, aprono questo articolo. Motivazio-ni che la dicono lunga sul grado di democrazia e di libertà che in questo momento prevalgono in Europa e che lascia-no perplessi sull’indipendenza della Francia di Sarkozy.

Ministero degli InterniRezé, 22 settembre 2011Egregio signore, Lei ha presentato domanda per acquisire la naziona-

lità francese. Dopo aver esaminato il suo dossier di naturalizzazione, ho deciso di respingere la sua richiesta, in applicazione dell’articolo 49 del decreto n. 93.1362 del 30 dicembre 1993.

In effetti, dagli elementi del suo dossier risulta che lei intrattiene rap-porti con la rappresentanza diplomatica cubana a Parigi, nonché con le Forze Armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). Per queste due ragioni, dal 2009 lei fa parte di una lista americana di persone alle quali è proibito sorvolare lo spazio aereo degli Stati Uniti.

D’altra parte, lei rivendica le dichiarazioni virulente che ha sostenu-to contro la Francia. Nel 2003 ha scritto in un quotidiano cubano che “la diplomazia francese scherza col fuoco”, criticando seriamente la politica estera della Francia nel suo allineamento rispetto alle misure di ritorsione prese dall’Unione Europea verso il regime castrista.

Osservo che lei riconosce i suoi rapporti con la legazione cubana a Parigi, la sua affinità con l’ideologia castrista, e anche la sua sensibilità rispetto alla lotta sostenuta dalle Farc, alcuni dei cui membri lei ha incon-trato in occasione della sua attività di giornalista, un gruppo qualificato come terrorista dalla posizione comune del Consiglio dell’Unione europea 2001/931/Pesc, attualizzata l’ultima volta il 13 luglio del 2010.

Visti i rapporti che lei mantiene con la legazione diplomatica di un paese straniero e la sua vicinanza ad un gruppo qualificato come terro-rista, la sua lealtà verso il nostro paese e le sue istituzioni non è provata. Conseguentemente, non mi pare opportuno concederle il favore che ha sollecitato.”

Più chiaro di così! Mantenere rapporti con un’ambasciata straniera (ma guarda caso, di Cuba si tratta), intervistare in qualità di giornalista dei gruppi di guerriglia e avere la proibizione di sorvolare gli Stati Uniti, fanno di Ospina una persona infida e pericolosa.

La seconda notizia riguarda la grande impresa petrolifera spagnola

la spagnola repsol ottiene i permessi per trivellare al largo di cuba. ma gli Usa si oppongono, dicono di temere l’inquinamento

torturato in colombia, Hernando calvo ospina era riparato in francia dopo 25 anni, il rifiuto del passaporto: “lei è troppo vicino a cuba”

1/2 • 2012 I 79

il mondo in cui viviamolatinoamerica

a recente decisione della presidente Cristina Fernández Kirchner di riprendere il controllo statale della compagnia petrolifera privatizzata Ypf rappresenta una nuova tappa sulla via del consolidamento di un modello politico inaugurato dal suo defunto marito Néstor Kirchner quando ascese al potere nel maggio 2003, sulle rovine della più grande crisi socio-econo-mica della storia argentina, che colpì il paese nel dicembre 2001 determi-nando un prima e un dopo.

È impossibile capire quello che ha fatto la presidente durante il suo primo mandato (1997-2011) e quello che sta facendo nel secondo se non si analizza il primo governo di Néstor Kirchner, il cui movimento politico è emerso dalle rivendicazioni della grande ribellione del 19 e 20 dicembre 2001. In quell’occasione venne messo in fuga l’allora presidente Fernando de la Rúa, salito al potere a capo di un’alleanza di centro-sinistra, con gran-di aspettative che andarono deluse, e il cui governo riuscì a durare solo due anni, quando tentò di tornare agli elementi più erosivi del neoliberismo degli anni 90.

L’uragano neoliberista di quegli anni del cosiddetto Consenso di Wa-

di stella calloniGiornalista e scrittrice argentina

l’arGEntina salvatadai KircHnEr

Come un paese, al limite del default nel 2001, è riuscito in pochi anni a ridurre la disoccupazione dal 35 % al 7,3%, a togliersi di dosso il Fondo monetario e la Banca mondiale e a varare leggi di assoluta modernità che vanno da una riforma della televisione di sicura avanguardia al recupero di molti diritti sociali

Lsarajevo / bosnia 1995

sanja risvanovic, famosa modella sarajevese, esprime la sua gioia

per gli accordi di dayton che hanno sancito la fine della guerra in bosnia

80 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 81

Stella Calloni

verso il recupero e l’integrazione nazionale e di identità perse nella “notte e nebbia” neoliberista.

Questo fece sì che si rinsaldassero i legami con governi come quello di Luiz Inácio “Lula” da Silva in Brasile (2004), Hugo Chávez in Venezuela (1998) e Evo Morales in Bolivia (2006) verso una vera integrazione latino-america-na, a cui si sarebbe poi unito Rafael Correa in Venezuela e il Frente Amplio in Uruguay, puntelli di un’unità che si era lasciata alle spalle tutto quello che era meramente commerciale per delineare un’integrazione che preve-deva un programma di emancipazione, per consentire alla regione di affran-carsi definitivamente dalla dipendenza dagli Stati Uniti, che ha conseguen-ze nefaste in tutti i settori e che persiste tuttora.

Oltre a recuperare questi elementi Kirchner, che non si è mai dichiara-to di sinistra provenendo dai settori giovanili del miglior peronismo degli anni 60-70, li ha reinterpretati alla sua maniera. Si fa carico delle richieste della società e ne aggiunge altre nuove, e tutto questo si riflette sul suo di-scorso e sulla sua azione quotidiana.

Sulla sua strada si è trovato molti problemi da affrontare, compreso quello gravoso delle tante rivendicazioni sociali, tra cui la disoccupazione che il paese ha cominciato ad accumulare dagli anni 90, e che ha raggiunto cifre impressionanti, in alcune province tra il 30 e il 60 per cento.

Da allora i diritti umani sono stati una politica di Stato, che si è tradot-ta in azioni come il recupero dei vergognosi centri clandestini di detenzio-ne per istituire Spazi di memoria, ma essenzialmente per ottenere l’annul-lamento delle leggi di “Obbedienza dovuta” e “Punto finale” (1986-87), una richiesta a lungo avanzata dai parenti delle vittime, per cui dal 2005 si sono riaperti i processi, unici in America latina e nel mondo, che proseguono ancora oggi.

Néstor e Cristina Kirchner in questo caso hanno agito sulla spinta di una forte convinzione generazionale e si sono anche identificati con l’esi-genza sociale di giustizia e di fine dell’impunità. C’è ancora tanta strada da fare, ma i passi fatti sono enormi e hanno trasformato, a livelli ancora da analizzare, la società argentina che aveva subito un lungo processo di de-culturizzazione sia durante la dittatura sia durante l’instaurazione della “cultura deculturizzata” del neoliberismo degradante degli anni 90.

Vale la pena di confrontare questi elementi con gli stra-ordinari avvenimenti che hanno cambiato la mappa dell’America latina, e con le tendenze del capitalismo glo-balizzato e finanziarizzato, mafioso e superconcentrato, che a poco a poco ha portato a crisi senza precedenti, come quella che stanno vivendo in particolare gli Stati Uniti e l’Europa.

Lì si sta cercando di imporre il modello che ha distrutto questo paese e altri del continente e che, come contraddi-

shington e l’imposizione brutale del progetto del Fondo monetario internazionale produsse un vero e proprio sac-cheggio, con la vendita a prezzi stracciati delle imprese statali strategiche, l’indebolimento dello stato stesso trasfor-mato in ufficio di gestione degli ordini del Fondo monetario, la distruzione dell’apparato produttivo industriale (furono chiuse circa 50mila tra piccole e grandi fabbriche). Vennero così cancellate con un colpo di spugna le conquiste sociali e nel campo del lavoro ottenute in anni di lotte e di resisten-

za alla dittatura e a parlamenti progressisti che altro non erano che un re-siduo degli anni delle amministrazioni di Juan Domingo Perón tra il 1946 e il 1955, quando il generale fu rovesciato da un colpo di stato militare appoggiato dagli Stati Uniti.

Il neoliberismo degli anni 90 aveva rinvigorito la “relazione carnale” tra l’Argentina e gli Stati uniti. Néstor Kirchner si insediò nel 2003 in un contesto di estrema complessità interna e esterna e il suo primo gesto di accogliere le rivendicazioni di quei giorni del 2001, in cui si concentrava tutto ciò che era stato fatto per contrastare le imposizioni neoliberali degli anni 90, fu il primo passo per il cambio di paradigmi che sarebbe venuto dopo.

L’allora presidente annunciò quei cambiamenti per un paese che si trovava “all’inferno” e che doveva adottare provvedimenti in vista del suo recupero primario e della sua istituzionalizzazione.

Queste prime azioni di alto valore simbolico, come quella che costrinse a rimuovere i quadri dei dittatori che avevano sottoposto il paese a una serie di governi de facto dal 1955 e che, come corollario dell’orrore, avevano instaurato la dittatura più brutale della storia locale tra il 1976 e il 1983, con le maggiori violazioni dei diritti umani nonché di quelli sociali ed eco-nomici del paese, crearono grandi speranze nella popolazione.

Kirchner ebbe la responsabilità di risollevare il paese dalle macerie, recuperare la fiducia politica persa nei decenni precedenti e cominciare a rilanciare l’occupazione in un campo arido, dove migliaia di aziende aveva-no chiuso e dove era difficile individuare le soluzioni adatte per affrontare le priorità del momento.

Un passo eccezionale fu il salvataggio dei diritti umani come condizio-ne fondamentale per annullare l’impunità in tutti i settori, senza la quale il crollo del 2001 non sarebbe stato possibile. Poi, quando terminò l’accordo a medio termine con l’Fmi, decretò la sospensione dei pagamenti e ascrisse tra i nemici le imprese complici di quel progetto e certi esponenti della lunga notte neoliberista, che insieme all’apparato militare e a residui della dittatura impedivano la ripresa e il ripristino di regole democratiche.

Secondo la sua impostazione, lo Stato doveva essere il regolatore dell’economia e, tra gli altri provvedimenti di base, ebbe inizio il cammino

il mondo in cui viviamo

L’argentina salvata dai Kirchner

nestor eletto nel 2003 e adesso cristinastanno ricostruendo un paese fatto a pezzi dagli anni di “notte e nebbia” neoliberista

ri-nazionalizzata la compagnia petrolifera Ypf: è l’ultimo atto di un modello politico nato dalla grande ribellione del 2001

82 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 83

avuto fiducia in questo progetto politico che è nato il 25 maggio 2003 e che, con il lavoro, con la gestione, con le convinzioni, è stato capace di trasfor-mare un paese che era stato devastato sul piano politico, culturale, econo-mico e, soprattutto, morale”, ha dichiarato al momento di insediarsi per il secondo mandato, dopo una vittoria schiacciante, con oltre il 54 per cento dei voti e 38 punti di vantaggio sul suo avversario più vicino.

Le importanti misure adottate dalla presidente durante la sua prima gestione hanno modificato lo scenario politico, sociale ed economico.

Una delle più rilevanti è stata l’istituzione del sussidio universale per figlio, un sostegno mensile per coloro che sono disoccupati o che lavorano nell’economia informale e che hanno figli minori di 18 anni. In cambio devono rispettare controlli sanitari obbligatori, schemi di vaccinazione e percorsi di studio nelle strutture scolastiche pubbliche.

Secondo un rapporto del Centro Studi e ricerche sul lavoro, che dipen-de dal Consiglio nazionale delle Ricerche scientifiche e tecniche (Conicet), questo provvedimento, che va a favore di oltre tre milioni e mezzo di bam-bini e adolescenti, “ha fatto sì che i gruppi di popolazione storicamente più vulnerabili abbiano una minore probabilità relativa di indigenza rispetto al resto della società”.

La ri-nazionalizzazione dei fondi dell’Afjp, l’amministrazione fondi pensionamento e pensioni, ha consentito allo Stato di ricevere i contributi che prima erano assorbiti dal sistema privato. Dalla gestione dell’Anses, l’ente nazionale per la sicurezza sociale, derivano risorse per una serie di programmi sociali che hanno cambiato la vita a milioni di persone, soprat-tutto nel settore dell’istruzione, fornendo tre milioni di netbook a basso costo a studenti e insegnanti, soprattutto nelle zone più remote del paese e a scuole secondarie pubbliche.

In un contesto di stabilità economica, l’aumento del consumo interno, l’incentivazione alla produzione locale e l’incremento delle esportazioni hanno rivitalizzato un’economia che è riuscita a reggere alle oscillazioni internazionali e a raggiungere livelli di crescita sostenibile. Questo è stato riconosciuto anche dal presidente dell’Uia, l’Unione industriale argentina, José Ignacio de Mendiguren, il quale ha osservato che bisogna “difendere e preservare” il modello economico promosso dal governo e che ha dato ori-

gine “al più lungo ciclo di crescita economica” della storia del paese.

La continuità e il consolidamento dello schema di inte-grazione e cooperazione, rinsaldando i rapporti tra i paesi membri del Mercosur e dell’Unasur, hanno prodotto fatti di grande importanza, come l’azione congiunta dei paesi per ribaltare colpi di stato in atto, come in Bolivia nel settembre 2008 e in Ecuador nel 2010. Nel caso del bombardamento e dell’”invasione” della Colombia in territorio dell’Ecuador

il mondo in cui viviamo

zione evidente, ha dato origine ad una risposta sociale di massa, base dei nuovi governi nati nella regione.

Kirchner ha detto chiaramente che le misure economi-che che avevano favorito la ripresa macroeconomica, man-tenendo la matrice distributiva regressiva e ingiusta, non avevano nessun futuro e ha cominciato a imporre misure rigorose di integrazione latinoamericana, indipendente dall’imperialismo e dai gruppi economici. Le efficaci misure di distribuzione della ricchezza, cioè aumento dei salari,

pensionamento, pensioni e indennità, creazione di occupazione, riforma impositiva progressiva, hanno rappresentato il recupero di tutto ciò che era stato distrutto.

Cristina Kirchner Fin dal primo momento è risultato chiaro che Cristina Kirchner avreb-

be avuto l’onere di consolidare tutto quel processo e di avanzare nel senso di una maggiore istituzionalizzazione.

Alla fine del suo primo mandato, tenendo presente che il problema principale dell’economia del paese nel 2003-2004 è stato la disoccupazione, arrivata al 35% della popolazione economicamente attiva, la presidente aveva ottenuto la diminuzione al 7,3 % degli individui disoccupati.

Questo di fronte a un’opposizione frammentata ma fortemente concen-trata nel potere egemonico dei mass media, che tra marzo e luglio 2008 hanno partecipato, insieme a quattro confederazioni di imprenditori, al primo tentativo golpista nei confronti della presidente.

Quel che è certo è che il governo è riuscito a mettere in atto politiche intelligenti che hanno permesso di potenziare il modello economico di quel momento.

Un altro successo dell’amministrazione Kirchner, impossibile da imma-ginarsi nel maggio 2003, è stato quello del debito estero. “Per oltre un quarto di secolo, il paese ha sempre avuto il debito ai primi posti della sua agenda economica. Basta ricordare i governi di Raúl Alfonsín, Carlos Menem, Fernando de la Rúa e tutta la serie di presidenti ad interim che si sono suc-ceduti fino al trionfo di Kirchner, per capire quanto per il paese sia impor-tante liberarsi di quel peso attraverso la negoziazione e la riduzione di in-teressi e capitale, ottenuta da Kirchner” dinanzi ai creditori internazionali, come analizza l’autorevole gruppo Fénix.

Da quel momento si è passati “da un rapporto debito / Pil, superiore al 100%, a meno del 50%. In più, se scontiamo la parte di debito nelle mani dello Stato attraverso enti pubblici, la percentuale finisce per essere meno del 25%. Un altro risultato sicuramente notevole”, sottolinea la stessa ana-lisi.

“Voglio ringraziare gli uomini e le donne che ancora una volta hanno

sussidi per i figli, soldi per le casalinghe, fondi pensione tornati pubblici: così l’argentina ha ripreso a vivere e a produrre

il successo più grande è forse la sconfitta dell’incubo di ogni argentino da 50 anni: il debito estero si è ridotto a un quarto

Stella CalloniL’argentina salvata dai Kirchner

84 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 85

porta nuove occupazioni militari e si intensifica l’azione invasiva dei servi-zi di sicurezza di Washington e di alcuni suoi alleati, con la loro rete di Ong che cercano di destabilizzare i governi attraverso colpi di stato leggeri o anche violenti come quello dell’Honduras.

Le amministrazioni di Néstor e Cristina Kirchner sono stati i motori dell’integrazione regionale, facendo fronte a tentativi imperialistici di espansione attraverso il libero scambio e la dipendenza finanziaria.

Il governo subisce pressioni interne ed esterne, tra cui quella del Fmi che qui cerca di riprendere le redini, dopo la rinegoziazione del debito estero andata a buon fine, il recupero della sovranità e dell’indipendenza da organizzazioni finanziarie internazionali e il rifiuto dei programmi di aggiustamento recessivo che si cerca di imporre a tutti i costi, come sta avvenendo in Europa.

Ci sono ancora molti debiti sociali e anche sollecitazioni per tenere a freno le imprese minerarie straniere e altri pericoli simili. La questione della riappropriazione delle isole Malvine, usurpate dalla Gran Bretagna nel

1933, è tra quelle che maggiormente spingono a recuperare l’indipendenza definitiva senza la quale aumentano in ma-niera significativa i pericoli espansionistici. Migliaia di gio-vani si sono accostati alla politica dopo un periodo di indif-ferenza e inattività. Si tratta forse del più grande successo di questa politica di recupero, che pone fine a scetticismo e nichilismo. Si tratta anche di una forma di resistenza, che in questi tempi di novità certe sinistre dovranno prendere seriamente in considerazione.

il mondo in cui viviamo

nel marzo 2008 [in cui venne ucciso il leader delle Farc Raul Reyes, ndr] è stato possibile determinare una posizione con-tinentale comune, come anche in occasione del colpo di stato militare in Honduras nel giugno 2009. Anche se non è stato possibile tornare indietro perché il piccolo paese cen-troamericano è occupato militarmente dagli Stati Uniti, la cosa ha messo in luce l’inefficienza e l’assenza dell’Oea, l’Organizzazione degli Stati americani, giustamente chiama-ta “ministero delle colonie” per la sua subalternità a Wa-

shington. Mercosur e Unasur sono visti come alleanze strategiche che hanno

portato vantaggi concreti agli stati membri.Fernández Kirchner ha adottato altre misure straordinarie come l’espro-

prio di Aerolíneas, la compagnia aerea di bandiera, che era di proprietà di Iberia e poi di capitali che hanno fatto a pezzi la società e poi venduto le sue principali attività nel mondo. È stato un saccheggio virtuale. Sono state ri-nazionalizzate la società dell’acqua, delle poste e altre, e lo schema di cooperative di lavoro è oggi uno dei più avanzati della regione. Nel campo del lavoro ci sono stati profondi cambiamenti con aumenti di salario, l’isti-tuzione di commissioni paritetiche lavoratori-imprenditori, il mantenimen-to della pensione per le casalinghe imposta dal governo di Néstor Kirchner, che non esiste in nessun paese della regione.

L’approvazione della legge sui servizi di comunicazione audiovisiva ha sostituito lo standard precedente, che era stato introdotto durante l’ultima dittatura militare, ed è uno dei fatti più importanti per il recupero della sovranità e della democratizzazione dell’informazione. Tutto questo è stato contrastato da una raffica di operazioni mediatiche e giuridiche da parte dei monopoli dell’informazione, che a volte sanno diventare minacciosi.

Niente di tutto questo è stato riportato dai mezzi di comunicazione mondiali. L’Europa non sa nulla di questi progressi nel paese e nella regione, perché la storia di questo particolare momento dell’America latina si rac-conta, come dice lo scrittore Eduardo Galeano, esattamente al contrario.

Il fatto di aprire un certo numero di università pubbliche in contesti di vulnerabilità economica e sociale, la promozione della scienza e della ricer-ca come motori dello sviluppo sono misure, insieme ad altre, che hanno dato all’Argentina una posizione di tutto rispetto nella regione e nel mondo. Esattamente come altre leggi di grande valenza sociale come quella sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, sulla morte dignitosa e altre di fondamentale importanza che hanno cambiato radicalmente la vita a vasti settori della società.

C’è ancora molto da fare prima di riappropriarsi definitivamente della sovranità economica e politica del paese e della regione, sulla quale incom-be la minaccia di un progetto nordamericano di ricolonizzazione che com-

Fmi e Usa cercano di riprendere il controllo, ma il governo rifiuta i piani di aggiustamento che avevano atterrato l’america latina

il rafforzamento delle alleanze continentali, la nuova legge sui media, le nazionalizzazioni... di tutto ciò la stampa mondiale non parla

Stella CalloniL’argentina salvata dai Kirchner

1/2 • 2012 I 87

il mondo in cui viviamolatinoamerica

econdo uno dei grandi miti sull’economia argentina che si ripropone quotidianamente, la rapida crescita del paese nell’ultimo decennio sarebbe stato un “boom delle esporta-zioni dei generi di prima necessità”. La settimana scorsa, ad esempio, il New York Times scriveva: “Sull’onda di un boom di esportazioni di generi di prima necessità come la soia, l’economia dell’Argentina è cresciuta a un tasso medio del 7,7% dal 2004 al 2010, quasi il doppio della crescita annua media del 4,3% del Cile, paese che viene spesso citato come modello di politiche economiche, durante lo stesso perio-do”.

Michael Shifter, presidente dello Iad (Centro di dialogo interamericano) e probabilmente la fonte sull’America lati-na più citata dalla stampa nordamericana, la settimana scorsa ha scritto con toni sprezzanti in un articolo sull’Ar-gentina che “se le vendite e il prezzo della soia, prodotto che rappresenta la principale fonte di esportazione del pa-ese (soprattutto verso la Cina) si mantengono alti, potrà esserci ancora crescita”.

Non ho mai sentito un economista affermare che la forte crescita economica dell’Argentina negli ultimi nove anni – che ha prodotto livelli record di occupazione e una riduzione di due terzi della povertà – sia stata stimolata da un boom delle esportazioni di soia o di altri generi di prima

S

di mark WeisbrotCodirettore del Center for Economic and Policy Research (CEPR)

di Washington, presidente di Just Foreign Policy e coautore del documentario di Oliver Stone South of the Border

non solo EsPortazioni,nEl boom arGEntinoc’è ancHE la scommEssa sulla crEscita intErna

Tra i miti che vengono raccontati in occidente per spiegare l’inattesa crescita argentina c’è “il boom dell’esportazione dei generi di prima necessità”, come la soia. Un diversivo per sminuire le scelte coraggiose e anticapitaliste del governo, che potrebbero insegnare qualcosa all’Europa attuale

sarajevo, bosnia 2012 - immagine simbolica del passato e del presente. in primo piano una casa distrutta durante la guerra e sullo sfondo il nuovo grattacielo di 40 piani sede della redazione del giornale avaz. l’avaz twist tower è il palazzo più alto dell’area balcanica

88 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 89

Mark Weisbrot

degli argomenti usati dai detrattori dell’Argentina per sottovalutarne la crescita economica, definendola un puro caso. Ma in realtà l’espansione economica è stata prodotta dal consumo e dagli investimenti interni. E questo è avvenuto perché il governo argentino ha modificato le sue princi-pali politiche macroeconomiche: politica fiscale, monetaria e tipo di cambio. È così che l’Argentina è uscita dalla depressione degli anni 1998-2002, dive-nendo una delle economie a più rapida crescita del continente americano.

Vediamo ora quanto abbia inciso a livello mondiale il modo in cui è avvenuta in realtà la ripresa dell’Argentina. Come abbiamo scritto io e mol-ti altri economisti, le politiche imposte attualmente alle economie dell’eu-rozona - soprattutto a quelle più deboli - sono simili a quelle subite dall’Ar-gentina durante la depressione che l’ha portata al default e alla svalutazione. Queste politiche erano procicliche, nel senso che hanno amplificato l’im-patto della recessione e, in aggiunta a un tasso di cambio fisso e sopravva-lutato, hanno indebolito l’economia. Non pagando il debito e svalutando la moneta, l’Argentina è stata così libera di modificare le sue principali politi-che macroeconomiche.

Se le autorità europee (la Commissione europea, la Banca centrale eu-ropea e il Fmi) continuano a bloccare la ripresa economica dell’Eurozona con misure di austerità insensate, ogni singolo paese dovrà prendere in considerazione alternative più razionali per far ripartire l’occupazione. I

greci, gli spagnoli, i portoghesi, gli irlandesi e altri europei si sentono dire ogni giorno che devono mandare giù questa medicina amara e che non c’è alternativa alla prolungata sofferenza e all’alto tasso di disoccupazione che stanno vi-vendo. Ma l’esperienza argentina - nella realtà e non secon-do illazioni fantasiose - indica che non è così. Esistono alter-native assolutamente migliori, e non hanno niente a che vedere con il boom dell’esportazione della soia o di generi di prima necessità.

necessità. Forse perché non è vero.So che qualcuno starà pensando che la cosa non è di

nessun interesse. Eppure consiglio di continuare a leggere, perché ci sono implicazioni che vanno ben oltre le grandi aziende agricole che producono la soia nella provincia ar-gentina di Córdoba.

Che cosa vuol dire avere un “boom dei generi di prima necessità” o una crescita stimolata dall’esportazione di ge-neri di prima necessità? Una spiegazione potrebbe essere la

quantità: la produzione e l’esportazione di questi prodotti cresce in manie-ra talmente veloce da essere uno degli elementi che maggiormente contri-buiscono all’incremento reale della produzione del paese. Quindi, per fare due conti, potremmo considerare la crescita reale del Pil nel periodo 2002-2010, l’ultimo anno di cui possediamo dati completi sulle esportazioni, e chiederci quanto di questa crescita reale, rapportata all’inflazione, sia do-vuta all’esportazione di generi di prima necessità.

Risulta che solo il 12% della crescita reale del Pil dell’Argentina in quel periodo è stato prodotto da qualche esportazione. E solo una frazione di quel 12% è dovuta all’esportazione di generi di prima necessità, tra cui la soia. Quindi la crescita economica dell’Argentina nel periodo 2002-2010 non è stata un’esperienza di crescita stimolata dalle esportazioni, e men che meno da un “boom dei generi di prima necessità”.

L’altra possibile risposta sta nei prezzi: anche il prezzo della soia e dell’esportazione di altri generi di prima necessità è aumentato durante una parte di quel periodo. Questo può stimolare l’economia in vari modi, anche se la quantità fisica delle esportazioni non aumenta con la stessa rapidità dell’economia. Se fosse stato questo a stimolare la crescita dell’Argentina, ci saremmo aspettati che il valore in dollari delle esportazioni aumentasse più velocemente del resto dell’economia. Ma nemmeno questo è successo. Il valore delle esportazioni agricole, compresa naturalmente la soia, come percentuale del Pil argentino non è aumentato durante l’espansione. Quan-do l’economia ha cominciato a crescere nel 2002, rappresentava circa il 5% del Pil, e nel 2010 il 3,7%.

In altre parole, dai dati non emerge assolutamente alcun elemento che avvalori la teoria secondo cui la crescita dell’Argentina negli ultimi nove anni sarebbe stata stimolata da un “boom dei generi di prima necessità”. Perché la cosa ha importanza? Come ha riferito l’economista Paul Krugman, “gli articoli che parlano dell’Argentina sono quasi sempre improntati alla negatività: sono irresponsabili, stanno rinazionalizzando alcune industrie, usano un linguaggio populista, e quindi se la devono passare davvero male”. Il che, secondo l’economista, “non dice nulla di buono sullo stato dell’infor-mazione economica”. È chiaro che è così.

Il mito del “boom di esportazioni di generi di prima necessità” è uno

il mondo in cui viviamo

Non solo esportazioni, nel boom argentino c’è anche la scommessa sulla crescita interna

se commissione europea Bce e Fmi continueranno a emanare solo misure di austerità insensate, ogni paese dovrà crearsi alternative per ripartire

Paul Krugman denuncia: “Gli articoli sull’argentina dicono il falso, semmai segnalano la sconfitta dell’informazione economica occidentale”

1/2 • 2012 I 91

il mondo in cui viviamolatinoamerica

lavoratori di quella che ora si chiama Cooperativa Nueva San Remo sono stati, nel 2002, tra i primi a seguire le orme di quanto, qualche mese prima, avevano fatto i loro colleghi nella fabbrica di ceramica ex Zanon, ora Fa.sin.pat. (Fabrica sin Patrones). Quest’ultima, di proprietà dell’italiano Luigi Zanon, mise radici in Argentina durante gli anni della dittatura mili-tare sfruttando il fatto che proprio tali governi autoritari e sanguinari avrebbero garantito “l’ordine sociale” reprimendo nel sangue eventuali proteste e scioperi dei lavoratori. Nonostante non sia in realtà la prima fabbrica recuperata in assoluto (primato che spetta alla ex Gip-Metal srl, agosto 2000) è sicuramente il più famoso ed eclatante dei casi.

Divenuta una delle più importanti industrie del paese (Zanon era in stretti rapporti d’amicizia con la giunta militare prima e con Menem poi), la Zanon arrestò la produzione a seguito della crisi che mise in ginocchio l’Argentina un decennio fa.

Dichiarato il fallimento, la fabbrica chiuse i battenti, e in seguito i lavoratori (già decimati dalle politiche neoliberiste di Menem e dalla grave crisi del debito) decisero di intraprendere una strada di lotta e resistenza il cui esempio sarebbe in seguito servito ad altre realtà in situazioni simili.

La storia della cooperativa Nueva San Remo (che opera nel tessile a

Ldi nicola nesoLaureato in Letteratura e Filologia Italiana Contemporanea all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, collabora con l’associazione “A Sud”

Buenos Aires) è la storia della Zanon, ed è anche la storia di altre (circa) 200 fabbriche recuperate dai lavoratori che hanno garantito a circa ventimila operai il loro posto di lavoro, oltre ad aver dato loro la possibilità di poter decidere del proprio destino (non solo lavorativo) e di poter recuperare le proprie esperienze, le proprie capacità, il valore della propria manodopera e, più in generale, le loro vite.

Nel giugno del 2011 il governo di Cristina Kirchner ha approvato in Se-nato la modifica della legge 26684 (ley de quiebras) che regola il fallimento e la bancarotta. Questa legge, assieme alla legge 21499 sulle espropriazio-ni, è quella che consente ai lavoratori di ottenere per vie legali la gestione della fabbrica, che altrimenti verrebbe definitivamente abbandonata dopo il fallimento.

Una delle modifiche prevede che venga concessa piena legittimità alle cooperative di lavoratori che si prefiggono di recuperare la fabbrica, sia fisicamente (materiali, macchinari, manutenzione, messa in funzione), sia dal punto di vista della produzione (dall’acquisto delle materie prime, alla lavorazione, alla gestione dei rapporti con fornitori e clienti, alla vendita).

Le cooperative si costituiscono infatti dopo che i lavoratori di una im-presa decidono, dapprima, di occupare fisicamente la fabbrica dismessa. Tramite la loro esperienza recuperano i materiali, le macchine, i locali, restaurandoli e rendendoli funzionali. Ciò può avvenire anche con l’aiuto di altri operai specializzati che altre aziende nella stessa situazione inviano dove c’è necessità, alimentando una rete di mutuo soccorso e scambio di lavoro-esperienza.

Nel frattempo viene avviato il processo per fallimento e la cooperativa richiede da un lato il riconoscimento dell’espropriazione per utilità pub-blica (la ripresa della produzione), dall’altro che venga ad essa concessa la proprietà e la gestione della fabbrica.

In questo senso la modifica alla legge sul fallimento fa sì che, quando venga il momento di formulare l’offerta per acquisire la proprietà della fabbrica, ai lavoratori vengano riconosciuti come crediti attivi tutti i debiti che l’azienda ha accumulato nei loro confronti (stipendi non pagati, ferie, permessi, malattie, premi aziendali, straordinari) con una valenza del 100% (anziché del 50% come in precedenza). Anche prima che avvenga il rico-

noscimento della proprietà e della gestione, la cooperativa può riprendere la produzione senza il bisogno di cambiare il nome o la ragione sociale dell’impresa. Così si riconosce finalmente l’utilità dell’autogestione operaia al fine di non perdere il ciclo produttivo e migliaia di posti di lavoro che, altrimenti, andrebbero bruciati nell’attesa della risoluzio-ne del giudice. Una terza e importante modifica prevede in-fine che tutti i crediti accumulati dai lavoratori continuino a maturare interesse sino al momento del pagamento.

Un anno fa, il governo di Cristina Kirchner modificò la “ley de quiebras”, la legge sulle bancarotte, permettendo ai lavoratori di competere per riprendersi le imprese chiuse ai tempi della grande crisi.da allora in ventimila hanno riavuto il lavoro ed è nato il movimento delle “fabricas recuperadas”

“QuEsta fabbrica è la mia fabbrica”:così Gli oPErai arGEntini si stanno riPrEndEndo il Posto

licenziati nel 2000, falliti nel 2001, poi la lotta vittoriosa per ottenere la gestione dell’azienda tessile nueva san remo

92 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 93

Nicola Neso

in assemblea plenaria e il cda (composto di lavoratori, eletto dall’assem-blea e in qualsiasi momento revocabile) ha funzioni puramente esecutive. La produzione e i turni del lavoro sono autogestiti e autodefiniti.

Che ciò non andasse a genio al governo era facilmente prevedibile. E, soprattutto inizialmente, la lotta (anche su strada: marce, manifestazioni, scontri anche violenti con la polizia) si è resa necessaria e sfibrante.

Ma negli ultimi anni le cose sembrano essere cambiate. Maria Inés mi scrive che ora il governo dà loro una mano. Oltre che con l’approvazione delle già citate modifiche alla legge, il ministero del lavoro presso il quale precedentemente si firmavano i contratti padronali a testa bassa ascolta ora le richieste dei lavoratori e si prodiga per avviare negoziati e intese. Il ministero dello sviluppo sociale, da parte sua, organizza fiere ed eventi che possono dare visibilità al movimento, al fine di farlo conoscere e di ampliare l’esperienza di recupero, oltre a finanziare l’acquisto di macchi-nari («una macchina portata dalla Germania»), a brevettare i marchi delle aziende recuperate e a favorirne i commerci.

Un progetto che da ormai quasi dieci anni funziona ma, come sostiene Maria Inés, incontra alcune difficoltà.

«La produzione non l’abbiamo incrementata di molto rispetto alla gestione precedente, anche se cresce costantemente. Il problema è che manca manodopera specializzata, e ci costa troppo tempo e denaro for-marla da soli. Ma è un problema al quale stiamo tentando di trovare una soluzione». Problema che per certi versi appare paradossale: dopo aver lottato per salvare i posti di lavoro, ora alla Nueva San Remo si ritrovano sotto organico.

Soluzione, d’altro canto, che a quanto pare hanno trovato in fabbriche più grosse quali appunto la Zanon-Fa.sin.pat. Già qualche anno fa (come si evince dagli ottimi documentari Corazon de fabrica e Historias recuperadas) la produzione viaggiava su livelli impensabili con la gestione padronale.

Che il modello funzioni non vi sono dubbi, anche se verosimilmente andranno ancora aggiustate alcune cose. Mano a mano che il tempo passa la rete si allarga, e il mutuo soccorso tra fabbriche del Mnfrt (tra di loro e nei confronti di nuove esperienza simili che si stanno avviando), anche con forme di credito interno senza alcun tipo di interesse o gestione bancaria,

fa sì che ai ventimila posti di lavoro già salvati se ne possa-no aggiungere ancora molti. Il problema chiave, superata la diffidenza delle istituzioni (e consolidato il ciclo virtuoso che fa si che si instaurino rapporti di fiducia tra lavoratori-Stato-fornitori-clienti), sarà quindi dare una continuità al progetto e mantenere comunque un “basso” profilo istitu-zionale affinché, nonostante la crescita costante del movi-mento, questo non tenda a riprodurre gli stessi schemi ge-rarchici e padronali che ha contribuito a smantellare.

Ma queste fondamentali vittorie sono costate anni di lotta ai lavoratori (che oggi si riconoscono sotto l’egida del-la sigla Mnfrt- Movimiento Nacional de Fabricas Recupera-das por los Trabajadores).

L’attuale coop Nueva San Remo ha iniziato il suo per-corso nel 2001, a fronte dei primi licenziamenti e delle prime vane promesse padronali. L’anno successivo, alcuni mesi dopo la chiusura definitiva dell’impresa e il licenzia-mento di numerosi operai, si forma la cooperativa. Ma solo

nel 2004 il fallimento viene riconosciuto dal giudice e viene approvata l’espropriazione a favore dei lavoratori (che per legge deve essere riappro-vata ogni anno).

La ripresa della produzione in questi casi avviene gradualmente. Non essendo i lavoratori proprietari di alcun capitale finanziario che funga da investimento iniziale per l’avviamento del ciclo, il loro lavoro diviene l’in-vestimento principale. Ciò fa sì che da un lato si segni un definitivo di-stacco dalla logica padronale dello strapotere del capitale finanziario, da un altro si recuperi appieno quello che è il valore umano e sociale che spetta al lavoro e quindi al soggetto lavoratore, il quale si libera dalla gogna dell’essere divenuto un semplice oggetto e ingranaggio di una produzione tanto distante dai suoi bisogni e che lo esclude da qualsiasi processo deci-sionale.

Per alcuni mesi si ottengono le materie prime e le forniture a credito, il che evidenzia l’importanza dei rapporti di fiducia e solidarietà tra forni-tori, clienti e lavoratori. All’inizio ovviamente le difficoltà non sono poche; ma una volta appurato che il modello funziona, l’ampliamento e l’incre-mento della rete di aiuto e fiducia crescono esponenzialmente. Per alcuni mesi gli operai (che comunque sarebbero disoccupati) rinunciano al loro salario per investirlo nelle prime fasi della produzione.

«All’inizio non eravamo in grado di investire nulla - mi scrive Maria Inés, della Nueva San Remo - perché non avevamo capitale. Tutto si faceva con il nostro lavoro, e siamo rimasti senza stipendio per mesi. Avevamo a disposizione una mensa, nella quale mangiavamo tutti insieme. Chi poteva portava qualcosa. Le panetterie ci davano il pane dei giorni precedenti, la municipalità ci portava qualcosa da mangiare. Andavamo e venivamo a piedi, non avevamo i soldi per i trasporti».

Alla Nueva San Remo hanno iniziato in trenta lavoratori, sono rimasti in venticinque perché alcuni hanno lasciato. Non ce la facevano.

Ma chi ha resistito ha iniziato a vedere i frutti della sua fatica. Una vol-ta avviata la produzione e ripianati i debiti con fornitori, erario e compa-gnie energetiche, l’utile viene diviso equamente tra tutti i lavoratori, senza alcuna distinzione di sorta. Non vi sono infatti spese dirigenziali perché non vi è dirigenza, o responsabili del personale. Le decisioni vengono prese

il mondo in cui viviamo

“Questa fabbrica è la mia fabbrica”:così gli operai argentini si stanno riprendendo il posto

dopo anni di lotte, adesso le istituzioni danno una mano alle fabbriche “sin patron”. Hanno capito che funzionano

con le nuove norme sui fallimenti viene approvato l’esproprio. forniture a credito e niente salario per mesi, fino al decollo

il mondo in cui viviamolatinoamerica

Dal 1982, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite sta emanando e rinnovando Risoluzioni che invitano i due paesi a iniziare a dialogare. Ugualmente, il Comitato speciale per la decolonizzazione delle nazioni Unite adotta annualmente una risoluzione in cui si sollecitano entrambi i governi a stringere l’attuale processo di dialogo e cooperazione mediante la ripresa dei negoziati, al fine di trovare, nel più breve tempo possibile, una soluzione pacifica alla controversia sulla sovranità.

Questo appello al dialogo e al negoziato è stato realizzato anche - attra-verso risoluzioni e dichiarazioni - da diverse istanze della comunità interna-zionale, da organismi internazionali regionali, da organismi multilaterali e da fori internazionali come l’Organizzazione degli stati americani (Oea), il Mercato Comune del Sud (Mercosur), l’Associazione latinoamericana di integrazione (Aladi), l’Unione sudamericana delle nazioni (Unasur), il Si-stema di integrazione centroamericana (Sica), la Comunità sudamericana delle nazioni, il Gruppo di Rio, l’Alleanza bolivariana per i popoli della Nostra America (Alba), la Comunità degli stati latinoamericani e del Caribe (Celac), le Dichiarazioni dei vertici iberoamericani, i vertici sudamericani, il primo Vertice energetico sudamericano, il II Vertice America del Sud-Africa, i Vertici dei paesi sudamericani e dei paesi arabi, il Gruppo dei 77 e della Cina, fra gli altri.

Vogliamo ricordare che attualmente la regione latinoamericana e il Caribe costituiscono un territorio di pace e di prosperità, mentre nel resto del mondo molte regioni soffrono conflitti bellici che mettono in serio pe-ricolo la pace mondiale.

Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, non dando compi-mento alle risoluzioni delle Nazioni Unite, dimostrando mancanza di vo-lontà di dialogare con un paese (l’Argentina) democratico e a vocazione di pace pienamente dimostrata, e con l’istallazione e il mantenimento di una base militare in questo continente (nelle Isole Malvine), continuamente rinforzata e con la realizzazione di manovre militarti aereo-navali, metto-no in serio pericolo la pace e la convivenza in questa parte del mondo.

Per queste ragioni la sollecitiamo affinché il governo britannico riveda la sua posizione di non dialogare su questo tema, e le ripetiamo la nostra richiesta di rispettare le risoluzioni delle Nazioni Unite per dialogare con la Repubblica Argentina.

Premi Nobel per la pace firmatari:Adolfo Pérez Esquivel (Argentina)Mairead Corrigan Maguire (Irlanda del Nord)Rigoberta Menchu Tum (Guatemala)Desmond Tutu (Sudafrica)Jody Williams (Stati Uniti)Shirin Ebadi (Iran)Leymah Gbowee (Liberia)

?

latinoamerica • 1/2 • 2012 I 9594 I latinoamerica • 1/2 • 2012

Signor David CameronPrimo Ministro del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord

Noi firmatari di questo documento, cittadini/e di differenti paesi del mondo preoccupati per la pace mondiale, vogliamo farle sentire la nostra preoccupazione in relazione alla disputa territoriale che sostengono il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e la Repubblica Argentina per le Isole Malvine, le Georgie del Sud e Sandwich del Sud.

Come sostenuto dalla Presidentessa della Repubblica Argentina, Cri-stina Fernández de Kirchner, il governo argentino sollecita da parte vostra il compimento della Risoluzione 2065 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1965, che dice:

“Preso nota dell’esistenza di una disputa fra i governi dell’Argentina e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord rispetto alla sovranità su dette isole,

Invita i governi dell’Argentina e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord a proseguire senza dilazioni i negoziati raccomandati dal Comitato Speciale [...] al fine di trovare una soluzione pacifica al problema, tenendo debitamente in conto le disposizioni e gli obiettivi della Carta del-le Nazioni Unite e della Risoluzione 1514 (XV) dell’Assemblea generale, così come gli interessi della popolazione delle Isola Malvine”.

Ugualmente, la più alta istanza internazionale tornava ad esprimersi attraverso la Risoluzione 3160 (XXVIII) dell’Assemblea Generale delle Nazio-ni Unite a dicembre del 1973, con un’ampia maggioranza di voti a favore e senza voti contrari, riconoscendo “i continui sforzi realizzati dal governo argentino” e dichiarava la “necessità di accelerare i negoziati previsti nella Risoluzione 2065 (XX) [...] per arrivare a una soluzione pacifica della disputa di sovranità esistente” fra i governi di entrambi i paesi.

Sette premi nobel per la Pace scrivono al primo ministro britannico. da trent’anni le nazioni Unite emettono risoluzioni che invitano Argentina e Gran Bretagna a negoziare, ma Londra tace sempre

Mr Cameron vogliamo parlare delle Malvine

1/2 • 2012 I 97

il mondo in cui viviamolatinoamerica

urante la Campagna dei 7 premi Nobel per la Pace per richiedere il dia-logo sulle Malvine al governo britannico, Adolfo Pérez Esquivel ha pre-sentato il suo libro Resistere nella speranza alla 38° Fiera internazionale del libro di Buenos Aires insieme a Mario Volpe, Presidente del Centro di ex-combattenti delle Isole Malvine (Cecim), a Hugo Cañon, co-presidente della commissione provinciale per la memoria, e con la presenza della madre di Plaza de Mayo Nora Cortiñas, della giornalista Katiuska Blanco e dell’amba-sciatore di Cuba Jorge Lamadrid.

Dopo la recente notizia che nella XIII conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo tenutasi a Doha, in Qatar, i 130 paesi mem-bri del “Gruppo dei 77” più la Cina hanno approvato una dichiarazione che invita a rispettare la decisione delle Nazioni Unite sulle Malvine, Pérez Esquivel sta per recarsi a Londra il 30 aprile per presentare a David Came-ron la lettera firmata da 7 premi Nobel per la pace e da altre personalità internazionali fra le quali figurano Federico Mayor Zaragoza, Eduardo Ga-leano, Ignacio Ramonet, Baltazar Garzón, deputati nazionali, eurodeputati, organismi per i diritti umani eccetera.

Durante la presentazione del libro, Mario Volpe ha confermato la to-tale adesione del Cecim alla lettera indirizzata al primo ministro David

D

Cameron affinché siano rispettate le risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e del Comitato per la decolonizzazione, come pure le dichiarazioni dell’Oea, del Mercosur, di Unasur, della Celac e di tanti altri. Per la smilitarizzazione dell’Atlantico sud e perché non vi siano basi militari della Nato e per il rispetto della regione come zona di cooperazio-ne e di pace.

Volpe ha ricordato che nel 1982, “poche voci si sono alzate a favore della pace quando scoppiò il conflitto”. E come durante la campagna per arrestare il conflitto iniziata da Pérez Esquivel proprio nel 1982, “ha propo-sto che fosse accettata la Risoluzione 512 che avrebbe evitato la guerra”. E, alludendo al titolo del libro di Pérez Esquivel, ha detto che “resistere nella speranza, è speranza in questa America Latina che è riuscita a capire che le Malvine sono parte della regione e che cerca la sua definitiva liberazione in pace e con giustizia”.

Da parte sua, con l’idea che la guerra delle Malvine non può essere dissociata dalla dittatura militare, Hugo Cañon ha ricordato il recente ap-pello presentato dalla Commissione provinciale per la memoria presso la

Corte suprema di giustizia nella causa per torture e abusi a soldati di leva da parte dei loro superiori, proponendo che vengano inquadrati come crimini di lesa umanità.

Ha aggiunto che sia in questa presentazione che in quella che farà in Gran Bretagna “Adolfo dimostra il suo impegno di andare dove bisogna andare, di mettersi con chi bisogna mettersi. Essere pacifista significa scegliere un cammino e mettersi completamente in gioco per i diritti degli altri”.

AggiornamentoPurtroppo il primo ministro inglese David Cameron non ha trovato il

tempo per ricevere Adolfo Pérez Esquivel, che il 30 aprile aveva viaggiato apppositamente a Londra per consegnargli la lettera firmata dai premi No-bel per la Pace e tendente ad avviare, dopo 30 anni, un dialogo fra Gran Bretagna e Argentina sul destino delle Malvine.

Tanto per ricordarlo, Pérez Esquivel, combattente cattolico per i diritti umani, è uno dei pochissimi scampati, 35 anni fa, ai “voli della morte” riservati agli oppositori della giunta militare argentina al tempo dell’Opera-ción Condor. Una terribile strategia politica, appoggiata dal presidente nor-damericano Nixon e dal segretario di stato Kissinger, che produsse decine di migliaia di desaparecidos e che arrivò ad associare i servizi segreti di sette dittature militari latinoamericane nell’intento di mettere in atto per-fino omicidi su commmissione per eliminare ogni possibilità di resistenza democratica nei vari paesi del continente

la PacE bussaa doWninG strEEt, ma nEssuno viEnEad aPrirE la Porta

Il nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel va a Londra per consegnare al premier britannico una lettera firmata da lui e altri sei nobel per la pace sulla questione delle Falkland/Malvinas.Ma david Cameron “non trova il tempo” per ricevere il combattente per i diritti umani argentino

da trent’anni londra ignora le risoluzioni onu per un dialogo sulle isole argentine difese a cannonate dalla thatcher nell’82

1/2 • 2012 I 99

il mondo in cui viviamolatinoamerica

di alessandra riccio

L

sE dilma lE canta a obama E la cilEna camila snobba la bloguera di cuba

o so che per i nostri giornali è più interessare “strillare” una notiziola assolutamente improbabile come quella che inventa una “contesa” fra la blogger Yoani Sánchez e la leader studentesca cilena Camila Vallejo in vi-sita a Cuba, quando in realtà la seconda ha semplicemente ignorato la prima che sbavava per avere un incontro con lei per poter poi spenderne la rendi-ta nei suoi blog tradotti in decine di lingue e diffusi, non si sa come e perché, in mezzo mondo. Ma a me ha incuriosito ed è piaciuto molto leggere della visita ufficiale della presidente del Brasile Dilma Rousseff a Washington. E mi è piaciuta perché non glie le ha mandate a dire né all’ambiguo Obama né alla feroce Clinton e ha criticato sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea per aver provocato la crisi monetaria che sta inondando di denaro liquido il suo paese con un conseguente aumento della moneta nazionale che dan-neggia le esportazioni brasiliane.

Ma la critica più diretta l’audace Dilma l’ha rivolta niente di meno che alla politica estera statunitense e alla sua aggressività verso Cuba, l’Iran e la Siria. Senza peli sulla lingua, ha affermato che, dopo il vertice delle Ame-riche di Cartagena, non si dovrebbe mai più convocare una riunione degli stati americani senza Cuba. Non ho visto fotografie, ma mi sarebbe piaciu-to vedere l’espressione della signora Clinton, proprio quella che commen-

tava la morte in diretta di Osama Bin Laden con una buffa espressione. La Rousseff ha anche dichiarato che non trova legittimo vietare all’Iran un suo programma nucleare a fini pacifici e che è contraria ad un intervento in Siria. Poi se ne è andata in giro per le grandi università nordamericane che costituiscono la celebre Ivy League e si è dedicata a cose serie: coordinare progetti comuni di cooperazione fra ricercatori di entrambi i paesi.

Al vertice di Cartagena, come previsto Obama non ha ceduto sulla que-stione di Cuba, anzi ha affermato che gli Stati Uniti mantengono il loro impegno a favorire la “democrazia” all’Avana; non sembra nemmeno orien-tato a legalizzare l’uso delle droghe nel suo paese (che ne è il maggiore consumatore), come veniva chiesto dal presidente del Guatemala. La bella festa organizzata dal presidente della Colombia, Santos, sembrerebbe si sia risolta con molto fumo e niente arrosto.

Ma tornando alla inesistente “contesa” fra Camila Vallejo e Yoani Sán-chez, voglio tradurre qui il commento del cantautore cubano Silvio Rodrí-guez nel suo blog (naturalmente molto meno letto, tradotto e citato di quello di Yoani), dopo aver incontrato la leader studentesca insieme alla segretaria della gioventù comunista cilena:

Negli ultimi tempi si sono impossessate della stampa delle idee reazionarie per cui alcune cose assurde vengono mostrate come fossero logiche. Per esempio, ogni giorno c’è qualche cretino che si domanda perché a Cuba non si è verificata una “pri-mavera araba”. E certi giornali, presuntamente rispettabili, riproducono questa stu-pidaggine come se fosse una cosa sensata. Le idee avallate da queste espressioni comin-ciano con l’assurdo di estrapolare storie, geografie e culture.

O dobbiamo spiegare perché Cuba non è un paese arabo? Queste assurdità vor-rebbero legittimare i crimini degli Stati Uniti e della Nato contro la Libia e in più concedere il rango di rivoluzioni alle rivolte in Egitto. Ancora oggi muoiono centinaia di libici al giorno nella guerra tribale alimentata da potenze irresponsabili. E nelle prossime elezioni egiziane, il candidato più forte pare che sia il collaboratore più stret-to di Mubarak. Secondo la logica di questo circo mediatico, sarebbe “normale” che dei giovani comunisti cileni, che combattono coraggiosamente nel loro paese contro il ne-oliberismo, venissero a Cuba a incontrare coloro che desiderano instaurare qui il neo-liberismo. Perciò alcuni libelli deliranti esprimono sconcerto rispetto alla coerenza politica di questi ragazzi e ragazze.

Ma qual è questa stampa poco encomiabile? La stampa neoli-berale che difende la pesante ombra della dittatura militare che pesa ancora con leggi concrete e presuntamente inalterabili sullo Stato cileno. Queste alleanze editoriali, queste frustrazioni e rimpro-veri, questo stracciarsi le vesti, rivelano le essenze comuni fra i neo-liberali cileni al potere e i neoliberali cubani che aspirano a conse-gnare la testa di Cuba ai loro padroni: la loro sottomissione senza condizioni all’impero e il loro debito con l’archetipo pinocheti-sta. Puah! Peggio per loro.

dice silvio rodriguez: “ma secondo voi dei giovani comunisti cileni vengono a cuba per incontrare gliiper-liberisti cubani?”

La leader studentesca cilena Camila Vallejo va a Cuba e non incontra la celebrata e iper-premiata Yoani Sánchez: i media internazionali suonano la grancassa. La presidente del Brasile Dilma Roussef va a Washington e ne dice quattro a Obama e a Hillary: gli stessi media tacciono

1/2 • 2012 I 101

il mondo in cui viviamolatinoamerica

a cerimonia di investitura del nuovo ministro del Lavo-ro è stata caratterizzata dai numerosi riferimenti a Brizola, João Goulart e Getúlio Vargas. Nel suo discorso, la presiden-te Dilma Rousseff ha sottolineato i tre obiettivi centrali del suo governo in questo momento: mantenere i tassi di inte-resse omogenei con quelli praticati sui mercati internazio-nali, un cambio che non ricorra artificiosamente a politiche di rivalutazione della moneta brasiliana, e abbassare le tas-se.

Il nuovo ministro del lavoro, Brizola Neto (Pdt-Rj), il 3 maggio ha ricevuto l’incarico dalla presidente Dilma Rousseff, e ha pronunciato un discorso commosso e elogiativo dell’ere-dità del laburismo in Brasile. “Il cognome che porto appar-tiene alla stirpe di brasiliani illustri, a cominciare da Vargas a João Goulart per arrivare alla figura amata e rimpianta di mio nonno Leonel Brizola. È un nome che è indissolubilmen-te legato - e non per la mia umile presenza - a quel percorso definito a suo tempo da Ignácio Lula da Silva e che prosegue oggi con Dilma Rousseff”, ha detto.

Il pedetista ha elogiato i governi federali del Pt per es-sersi affrancati dalle logiche neoliberiste per cui la disoccu-pazione era “un fatto ineluttabile, una componente necessa-ria per un’economia in via di sviluppo”. “Non siamo ancora

di vinicius mansurCarta Maior

BrASILE

L

Carlos daut Brizola neto, 34 anni, è il più giovane ministro del governo rousseff. Il nonno fu il vice di Lula nell’elezione persa contro Cardoso. Una storia iniziata ai tempi di Joao Goulart e Getulio Vargas

un nomE una Garanzia:dilma arruola carlos brizola, il niPotE dEll’EX lEadEr socialista

102 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 103

Vinicius Mansur

tanto deciso quando gli è stata fatta la domanda a proposito dell’appoggio del suo partito. “Posso garantire che Brizola Neto avrà il sostegno della mag-gioranza dei deputati e dei senatori”, ha affermato. Anche Manoel Dias, se-gretario generale del Pdt e Vieira da Cunha, deputato federale del partito, sono stati tra i favoriti per l’assegnazione del ministero.

Il presidente della Cut, Artur Henrique, spera che Brizola metta a punto un’agenda di impegni positivi nel ministero, riportando la lista sindacale nell’ordine del giorno. “Per questo ci sarà bisogno di un grande aiuto da parte delle confederazioni”, dice. Tra i temi ci sono la previdenza, la terzia-rizzazione, la riduzione dell’orario di lavoro, e subito, la Proposta di modifi-ca della Costituzione (Pec) 438, per la lotta al lavoro schiavo, che sarà votata probabilmente la settimana prossima.

Il leader del Movimento dei Lavoratori rurali senza terra (Mst), Alexandre Conceição, ha approvato il discorso di Brizola definendolo “un buon riscatto storico e della sinistra”, ma c’è ancora da elaborare il modello. Il ministero è prevalentemente rivolto alla città, sa poco della campagna, deve control-lare e sanzionare gli abusi nelle grandi tenute, comprese le transnazionali. A questo scopo la Pec sul lavoro schiavo sarà un importante passo in avanti”, ha detto.

Carlos Daut Brizola Neto, 34 anni, è il più giovane ministro del Governo Rousseff. Nato a Porto Alegre l’11 ottobre 1978, si è trasferito a Rio de Janeiro nel 1982, quando suo nonno è stato eletto governatore dello Stato. Nel 2004 è stato eletto consigliere comunale della città di Rio de Janeiro e nel 2006 deputato federale, ed è stato rieletto nel 2010. Nel 2011 è stato segretario del lavoro e dell’eco-nomia dello stato di Rio de Janeiro. Brizola Neto si è distinto anche per la sua militanza virtuale attraverso il blog Tijolaço.

in una fase di progresso economico, ma stiamo vivendo un progresso sociale che ha messo in condizione più di 40 mi-lioni di brasiliani di condurre un ritmo di vita moderno”, ha osservato.

Nel suo discorso, il nuovo ministro ha ricordato il perio-do di Vargas - in cui “si è cominciato ad infrangere il mito per cui il lavoro altro non era se non una merce da negozia-re con una libertà selvaggia” - ha difeso la presenza dello stato per proseguire “sulla strada della valorizzazione del

lavoro, per dare dignità al lavoratore tenendo ben presente che l’essere umano è l’inizio e la fine di ogni attività economica “, e ha punzecchiato la stampa: “Ancora oggi un giornale scrive che la presenza dello stato come elemento necessario per raggiungere questo equilibrio - senza il quale non c’è giustizia, né progresso, né umanità - sarebbe anacronistica”.

I tre obiettivi centrali del governo Dilma Rousseff ha iniziato il suo discorso rilevando che la disoccupazio-

ne in Brasile è ai livelli più bassi della sua storia – il 6,5% a marzo, a differen-za di paesi sviluppati in cui tale indice, in media, è del 10,8%, e arriva al 52%, la media solo nei giovani di alcuni paesi europei. “Questa settimana, l’Oil ha riferito che rispetto al 2007, prima dell’esplosione della crisi, solo in questo periodo, il mondo ha perso 5 milioni di forme di occupazione. (...) Noi abbiamo navigato in controtendenza rispetto a questo panorama cupo. Nel-lo stesso periodo abbiamo creato 9 milioni di posti di lavoro, con regolare contratto “, ha sottolineato.

Ora gli obiettivi, secondo la presidente, sono tre: mantenere i tassi di interesse in linea con quelli applicati sul mercato internazionale, un cambio che non comporti la rivalutazione artificiosa della moneta brasiliana e tasse più basse.

In questo quadro Dilma ha definito significativa la nomina di un uomo che, oltre alla responsabilità di portare il nome Brizola, porta anche tutto il peso della storia del suo prozio João Goulart, il Jango.

“Nominare ministro del lavoro e dell’occupazione Carlos Daut Brizola Neto rafforza, nel mio governo, il riconoscimento dell’importanza storica del laburismo nella formazione del nostro paese”.

La presidente ha sottolineato che il laburismo è stato responsabile di conquiste come la giornata lavorativa di otto ore, il salario minimo, il diritto all’organizzazione sindacale e l’adozione di una legislazione a tutela dei la-voratori.

AppoggioIl deputato Paulinho del sindacato (Pdt-Sp) ha fatto notare che Brizola

Neto è appoggiato da tutte le organizzazioni sindacali ma non è stato altret-

il mondo in cui viviamo

Un nome una garanzia: Dilma arruola Carlos Brizola, il nipote dell’ex leader socialista

da parte di brizola jr la proposta di legge costituzionale contro il “lavoro schiavo”. soddisfatti sindacati e sem terra

tassi di interesse bassi, un cambio che aiuti le esportazionie imposte più leggere: ecco i tre obiettivi centrali del governo

1/2 • 2012 I 105

caso è stato praticamente ignorato dalle tv , impegnate a trasmettere scan-dali. Ancora una volta sono stati i media indipendenti a denunciare senza mezzi termini la situazione di Pinheirinhos, dove la polizia che ha il dovere di difen-dere il cittadino è diventata il suo maggiore carnefice. [In gennaio lo sgombero violento di una favela di 4mila case e 9mila abitanti costruita sui terreni di uno speculatore a San Paolo ha causato morti, feriti e una dura condanna del gover-no federale] Gli episodi di violenza sono stati una costante e il numero impres-sionante di feriti dimostra la grandissima impreparazione della polizia in quella circostanza. Alla fine tutti quegli uomini in divisa che cosa difendevano? La si-tuazione sembrava semplice, a giudicare dai numerosi rapporti del governatore dello Stato, che tranquillo metteva in dubbio le accuse di stupro, l’uso di droghe e le torture da parte dei suoi servi in nome di un sistema capitalista che ingoia e rigurgita qualsiasi diritto naturale in nome del dio denaro. Lo stato ha tutelato il patrimonio per permettere alle corporazioni di fare i loro affari, ottenendo ottimi profitti e spargendo enormi quantità di sangue.

Poliziotti arrestati a Bahia I poliziotti sono scesi in piazza per protestare contro gli stipendi bassi e per rivendicare migliori condizioni di lavoro. Per la forte pressione su di loro (a febbraio si festeggia il carnevale) e con il rischio che i disordini potessero ostacolare i grandi affari collegati al carnevale, il governatore ha assunto un atteggiamento inflessibile nei confronti dei lavoratori in sciopero. Ci sono state minacce, critiche, confusione e violenza, soprattutto quando lo stato ha chiesto l’intervento dei militari per difendere il suo “capitale”, e per far ces-sare lo sciopero, anche se si tratta di un diritto di tutti i lavoratori. Gli agenti

Il

il mondo in cui viviamolatinoamerica

Carnefici degli abitanti di una favela a San Paolo, padri di famiglia arrestati per aver chiesto salari decenti a Bahia, scioperanti prima del carnevale a rio... Sono molte cose, i poliziotti del Brasile

lE duE faccE dEll’uniformE

baiani, a cui non si può certo rimproverare di essere stati a guardare, chiedo-no uno stipendio dignitoso per una professione piena di pericoli e spesso non vista di buon occhio.

Probabile sciopero a Rio de Janeiro La notizia rimbalza da un lato all’altro della città: è probabile che i poliziotti carioca aderiscano a uno sciopero e la situazione diventa drammatica perché siamo nel periodo del carnevale. La gente ha paura per molte ragioni ma so-prattutto per la violenza che in questo periodo aumenta di giorno in giorno (anche se gli altri anni la polizia c’era) e sono in molti ad essere furibondi per questa storia dello sciopero. Gli agenti baiani guadagnano più dei carioca, quin-di secondo logica niente da eccepire per lo sciopero a Rio. Eppure, la logica raziocinante di certi analisti sociali contiene in sé un duplice errore: innanzi-tutto sbagliano a criticare lo sciopero per scopi economici e dimenticano che molti degli individui in divisa sono uomini che hanno famiglia, sono forti e determinati, e questa è una virtù che non può essere comperata; in secondo luogo, sbagliano a pensare che se guadagnassero di più accetterebbero meno mazzette e di conseguenza si ridurrebbe il livello di corruzione che dilaga nella categoria. È un errore bello e buono, perché dimentichiamo che i nostri politici, i cui stipendi sono ben più alti, sono i grandi ladri di questo paese e non c’è bisogno di fare le scuole alte per capire questa semplice verità.

Siamo in presenza di un paradosso, anche se non c’è nulla che possa far stupire nel paese del giudice Nicolau [protagonista di un enorme scandalo finanziario dieci anni fa, ndr] e di tanti altri Laus Laus. In questa terra dove tutto finisce in una carnevalata.

di thiago mendesReporter brasiliano

1/2 • 2012 I 107

il mondo in cui viviamolatinoamerica

omunque la si voglia vedere, quella registrata dall’ex guerriglia del Frente Fa-rabundo Martì per la liberazione nazionale (Fmln) nelle ultime elezioni ammini-strative tenutesi lo scorso 11 marzo, che servivano a rinnovare l’assemblea legi-slativa e i 262 consigli municipali del piccolo paese centroamericano, ha tutta l’aria di non essere un “pareggio tecnico” come più volte dichiarato dai dirigenti del Frente. Anzi.

La destra reazionaria rappresentata da Alleanza Repubblicana Nazionalista (Arena, fondata dal sanguinario Roberto D’Aubuisson, artefice dell’assassinio di monsignor Oscar Romero nel 1980) avanza nell’assemblea legislativa dove torna ad essere il primo partito riuscendo ad eleggere 33 deputati (uno in più rispetto al 2009), mentre il Frente perde 4 deputati rispetto alle ultime amministrative e passa da 35 a 31 seggi. Preoccupante la performance della neo-formazione di destra Gana (Grande alleanza di unità nazionale), nata dalla fuoriuscita proprio da Arena di 14 deputati, in grado, alla prima apparizione elettorale, di conqui-stare ben 11 seggi. Aggiunti a quelli di Arena fanno 43, ossia la maggioranza assoluta dell’assemblea legislativa del parlamento salvadoregno. Un ulteriore problema per il presidente della repubblica in carica, Mauricio Funes - il primo del dopoguerra eletto con l’appoggio del Fmln - che ora dovrà fare i conti con un parlamento ostile, con l’opposizione interna della cupola del Fmln (che di fatto l’ha già scaricato) e con le accuse di essere sceso a patti con le bande di delinquen-ti, le maras, che stanno seminando morti ammazzati (14 al giorno) per le strade di San Salvador, la capitale più violenta del mondo, rimasta saldamente nelle

di Emanuele salvatogiornalista, esperto di politiche latinoamericane

C

EL SALVAdOr un PrEsidEntE non basta,lE urnE Puniscono il Frente

Elezioni parlamentari e aministrative nel paese centroamericano: dopo la vittoria alle presidenziali gli ex guerriglieri parlano di ”pareggio tecnico” ma la verità è che hanno avuto una brutta battuta d’arresto

mani di Arena, così come la maggior parte dei comuni in cui si è votato. Complessivamente, Arena vince in 116 comuni, mentre il Fmln in 85 ai

quali si possono aggiungere quelli vinti in coalizione con il Cd (8) e Pes (2). La nuova destra di Gana conferma l’ottimo esordio elettorale aggiudicandosi 16 municipalità. Ma a preoccupare la sinistra salvadoregna è, come detto, la rinno-vata perdita del municipio principale, quello di San Salvador, dove è stato trion-falmente rieletto Norman Quijano capace di lasciare le briciole al suo principale avversario, Jorge Schafik del Fmln, figlio del comandante Schafik Handal. A co-ronare la pessima performance dell’ex guerriglia arriva anche la perdita di 7 roccaforti storiche del Frente: Soyapango, Apopa, Mejicanos, San Martin, Llopan-go, Ayutuxtepeque e Santo Tomas. Tutti comuni popolosi e disagiati della regione del Gran Salvador. E ancora Arena trionfa in 9 dei 14 capoluoghi dipartimentali, mentre il Fmln si accontenta di 3, perdendone due rispetto ai 5 che deteneva.

Insomma, il Frente sembra prendere sberle su tutti i fronti e a rendersene conto, nonostante le prime dichiarazioni di ottimismo, sono proprio i dirigenti. Roberto Lorenzana, della commissione politica del Fmln ha detto ai militanti di non scoraggiarsi e più che di sconfitta ha parlato di “pareggio tecnico”. Ma usa molti meno giri di parole Salvador Sánchez Ceren, vicepresidente della Repub-blica e storico dirigente del Frente che accusa direttamente il presidente Funes della sconfitta, “incapace - a suo dire - di realizzare, in questi tre anni di governo, i cambiamenti promessi in campagna elettorale”. Si tratta della prima volta che lo storico dirigente del Fmln fa una dura e aperta critica nei confronti del gover-no guidato dall’ex giornalista di Canale 12, con il quale, a dire il vero, il partito ha già avuto parecchie diatribe pubbliche su importanti questioni amministrati-ve come le tariffe telefoniche e gli interessi applicati dalle banche.

Una critica nella quale, di fatto, Ceren, e il partito con lui, scarica Funes che non sarà ricandidato nel 2014: “Il partito –ha detto l’ex comandante guerrigliero– ha deciso che il prossimo candidato alla presidenza della repubblica sarà un figu-ra interna, e ciò in considerazione di questa prima esperienza di governo del paese”. E Funes uomo del partito non lo è e non lo vuole essere. Ma non è escluso che per il 2014 possa candidarsi ugualmente, anche senza il sostegno del Frente, formazione politica con cui c’è sempre stato poco feeling in questi anni di gover-no. Ai duri e puri dell’ex guerriglia, tuttora a capo del partito, non sono mai an-date giù alcune scelte politiche del presidente: dal rifiuto di entrare nell’alleanza

bolivariana (Alba) promossa da Chávez, ai rapporti distesi con l’amministrazione Obama fino alle decisioni prese per con-trastare l’impressionante ondata di violenza delle maras capa-ci di far diventare il paese uno dei più insicuri del pianeta.

Un paese in cui sembra di essere tornati negli anni cupi della guerra civile che tra il 1981 e il 1992, ha lasciato die-tro di sé oltre 75mila morti ammazzati. El Salvador, lo stato più piccolo dell’America Centrale, sta vivendo un periodo di estrema violenza, senza precedenti dalla firma degli accordi

no all’entrata nell’alBa, buoni rapporti con gli usa, l’impotenza di fronte alle maras... il fmln ha, di fatto, già scaricato funes

108 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 109

Emanuele Salvato

richiesta della Chiesa nel ruolo di mediatrice per raggiungere un accordo fra le bande in grado di far cessare l’ondata di morte. Il presidente, dopo giorni di silen-zio, lo scorso 17 marzo ha parlato alla stampa: “Il governo della Repubblica – ha detto Funes – non ha negoziato e non negozierà con nessuna delle bande operan-ti nel paese. Il governo ha soltanto accompagnato lo sforzo della Chiesa Cattolica per raggiungere un accordo fra i leader delle bande e ha facilitato il lavoro della Chiesa autorizzando il trasferimento di alcuni detenuti appartenenti alle maras da carceri di massima sicurezza ad altre di minor rigore”. Secondo Funes, però, questo accordo non basta a risolvere il problema della violenza nel paese ma serve “un piano nazionale che vada a sradicare le condizioni che permettono lo sviluppo delle bande. Bisogna combattere il narcotraffico, le estorsioni, togliere linfa alla criminalità e approntare piani di reinserimento sociale e lavorativo per gli appartenenti alle maras. Solo così il paese si potrà salvare”.

Intanto il governo ha fatto entrare in funzione anche le unità speciali “an-ti-maras” della Polizia (Onc) che hanno il compito di attaccare e smontare le strutture delle bande nel territorio. Ma tutti questi tentativi sembrano avveni-re nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica centroamericana e senza il benché minimo aiuto da parte degli Stati Uniti, che, a dire il vero, hanno avuto e hanno una grande responsabilità nei confronti di El Salvador e non sono certo esenti da colpe se il paese ha raggiunto questi livelli di insicurezza sociale. Du-rante la guerra civile salvadoregna svoltasi fra il 1980 e il 1992, gli Usa hanno inviato milioni di dollari al governo del Salvador, quasi tutti destinati a sostenere i militari e gli squadroni della morte nella battaglia contro la guerriglia.

Negli anni della guerra civile le forze armate salvadoregne si quadruplicaro-no passando da 15mila a 60mila effettivi, contro una compagine guerrigliera che poteva contare su 6mila uomini. Gli stipendi dei militari e degli ufficiali erano pagati direttamente da Washington che in cambio impose al governo salvadore-gno 55 ufficiali statunitensi, reduci del Vietnam, ai quali spettava ogni decisione militare. E oggi? Di fronte a un’ondata di violenza che è un’epidemia, gli Usa si sono voltati dall’altra parte facendo spallucce. Il Salvador può contare su 18mi-la poliziotti, dei quali 10mila operano nelle strade. E’ evidente la sproporzione fra la grandezza del problema e la capacità di risposta dello Stato. Così come è altrettanto evidente la sproporzione fra gli aiuti che gli Usa diedero al piccolo paese centramericano durante la guerra civile e ciò che stanno facendo oggi per

aiutare la polizia salvadoregna ad affrontare le maras: prati-camente nulla.

Come sottolinea John Carlin, inviato di guerra di El País che ha vissuto da vicino la guerra civile salvadoregna: “Wa-shington oggi potrebbe aiutare El Salvador a creare un ne-cessario esercito di pace, come negli anni della guerra creò un potente esercito di distruzione, ma non lo fa. Non gli con-viene”.

di pace del 1992. Erano 4400 gli omicidi nel 2009, più di 12 al giorno (saliti a 14 nel 2011), un tasso di 77,4 morti ammazzati ogni 100mila abitanti per una spesa sanitaria pubblica di 14,4 milioni di dollari all’anno. Cifre spaventose. Soprattutto se si considera che, negli anni del conflitto, il confronto armato fra la guerriglia del Fmln e la destra reazionaria e oligarchica, sostenuta dall’esercito e dagli Usa, ha fatto registrate tra i 19 e i 22 omicidi al giorno.

Cifre che hanno costretto l’Organizzazione Mondiale del-la Sanità (Oms) a definire “un’epidemia” l’ondata di violenza che sta travolgendo il paese, perché quando si superano i dieci omicidi ogni 100mila abitanti è que-sta la definizione che l’organismo internazionale dà dell’escalation di mortalità. Cifre che fanno del Salvador il paese più violento di una regione, il Centroame-rica, considerata dal Plan de las Naciones Unidas para el desarrollo (Pnud) la più violenta del mondo. Cifre che hanno costretto il neo eletto presidente Mauricio Funes del Fmln ad adottare misure straordinarie per far fronte al problema. Le cause che hanno generato questo vortice di criminalità e violenza, a dire il vero non sono nuove e si trascinano da parecchio tempo.

In primo luogo sono le maras, le bande giovanili che lottano giornalmente per il controllo del territorio, ad aver aumentato la loro azione criminale, diven-tando sempre più spietate; senza dimenticare il fenomeno del narcotraffico, in costante aumento in Salvador. I grossi trafficanti utilizzano proprio i membri delle maras come terminali della loro attività, facendoli spacciare cocaina, eroina e crack nei quartieri sotto la loro influenza. Il mix dei due fenomeni delinquen-ziali è esplosivo e ha portato alle cifre di morti ammazzati e crimini commessi riportate all’inizio.

Mara Salvatrucha e Barrio 18 sono le principali bande del paese. I loro membri sono tutti giovanissimi, hanno il corpo completamente ricoperto di tatuaggi, che sono anche un segno distintivo e di appartenenza. Sono armati fino ai denti, i mareros, e disposti a premere il grilletto per uno sguardo di troppo. Dal 6 novem-bre del 2009, infatti, per sei mesi il governo efemenelista ha deciso di far scendere in strada, nelle zone più violente del paese, 2500 soldati che vanno ad affiancare gli agenti della Policia Nacional Civil (Pnc), dimostratisi incapaci di affrontare e risolvere il problema della violenza e delle morti che stanno insanguinando, di nuovo, il paese. Ma la misura, che non è mai andata giù ai dirigenti del Fmln, si è rivelata poco risolutiva tanto che gli omicidi sono proseguiti e aumentati quotidianamente.

A marzo del 2012, il governo di Funes ha deciso di cambiare strategia scen-dendo a patti con le bande, anche se Funes nega tutto ciò. Sta di fatto che da quando alcuni capi delle principali maras salvadoregne sono stati trasferiti, lo scorso 9 marzo, dal carcere di massima sicurezza di Zacatecoluca a strutture di minor rigore, gli omicidi sono magicamente diminuiti passando da 14 a 5 al gior-no. A facilitare questi trasferimenti è stato proprio il governo Funes, su espressa

il mondo in cui viviamo

El Salvador: un presidente non basta,le urne puniscono il Frente

E dagli stati uniti, che contro la guerriglia stanziarono milioni e pagarono un esercito di 60mila uomini, non arriva un solo dollaro

14 omicidi al giorno, scesi a 5 dopo la trattativa (poi negata) con le bande giovanili il clima, dopo una pausa, è tornato cupo come prima

1/2 • 2012 I 111

apa Benedetto XVI è andato per la prima volta nel suo pontificato

nell’America latina di lingua spagnola, con un viaggio che ha toccato Messico e Cuba. Nonostante per i media internazionali e ita-liani tutto l’interesse fosse puntato sulla tappa caraibica del viaggio, quella nordame-ricana è stata di gran lunga più importante.

Ciò per alcuni motivi chiari: innanzitut-to il Messico è un paese del G20 di oltre 100 milioni d’abitanti rispetto ai 12 milioni di Cuba. Inoltre, se quella cubana è sembrata soprattutto una visita pastorale che seguiva di 14 anni quella davvero storica del prede-cessore di Joseph Ratzinger, Karol Wojtyla, quella messicana ha toccato un paese in campagna elettorale, nel turbine della peg-gior epoca di violenza dalla Rivoluzione di 102 anni fa e dove, nonostante la religiosità di massa, il numero dei cattolici è in conti-nua diminuzione a favore delle chiese evan-geliche e pentecostali. Per tutto ciò, per ca-pire davvero il viaggio di Benedetto XVI e gli straordinari problemi che il papa tedesco ha dovuto affrontare, bisogna guardare innan-zitutto al Messico, fin dalla prima messa a Guanajuato.

Joseph Ratzinger è arrivato per la prima volta in America latina dopo quasi sette

di Gennaro CarotenutoLatinoamericanista, professore di Storia contemporanea all’Università di Macerata

P

Anal

isi

Gradacac / Bosnia 1995Villaggio rom

analisilatinoamerica

LA PASTORALE SPUNTATACHE BENEDETTO xVi HA PORTATO iN AMERiCA LATiNA

Il pontefice in Messico e a Cuba. Da un lato un paese ultracattolico e una struttura religiosa su cui la politica si è gettata a pesce, distruggendo la separazione con lo stato laiconel momento in cui la chiesa viene devastata dalle sette evangeliche dilaganti. Dall’altro un’isola in cui la realpolitik vaticana ha trovato spazi impensabili e un dialogo costante

analisi

112 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 113

La pastorale spuntata che Benedetto xvi ha portato in America latina Gennaro Carotenuto

preferenziale per i poveri non era arrivato per un accidente della storia, ma come approdo del proprio incontro con il Secolo. Quella che sta vivendo il cattolicesimo in Messico e in America latina è una crisi che, anche se nelle folle radunate per il papa è stata nuovamente negata, nasce proprio a par-tire dall’apparente trionfo di Giovanni Paolo II. Un trionfo che sta rappre-sentando un’eclisse senza precedenti in quella che avrebbe dovuto essere la chiesa del futuro.

Wojtyla e Ratzinger credettero di poter separare la fede dalla speranza. La speranza di un mondo migliore possibile. Hanno avuto torto e in questi sette anni Benedetto XVI ha preferito ignorare l’America latina piuttosto che affrontarne un dissenso che ha preso le forme non di uno scontro ma di un rapido allontanamento da una chiesa che ha scelto di non offrire ri-sposte per le ingiustizie della società contemporanea. Qual è la pastorale alternativa che Ratzinger propone al continente? È possibile superare la lotta senza quartiere alla teologia della liberazione, la collusione con regimi sanguinari o profondamente ingiusti, da Pinochet a quello neoliberale di Felipe Calderón? Interessa davvero al papa l’erosione del cattolicesimo in favore delle più raffazzonate ed equivoche chiese protestanti? È probabile che sarà il successore di Ratzinger a dover affrontare davvero questo te-ma.

Causa inoltre scandalo la scelta di Benedetto XVI di rifiutare qualunque incontro con le vittime di Marcial Maciel, l’onnipotente fondatore dei Le-gionari di Cristo, organizzazione ancor più a destra dell’Opus Dei, in odore di santità quando era ancora in vita, sponsorizzatissimo dai vertici cattolici messicani e vaticani e rivelatosi un furfante, uno stupratore e un pedofilo seriale durante tutta la sua carriera di arraffatore di una fortuna miliardaria, nella quale ha disseminato il paese di figli illegittimi, mantenendo, lui sa-cerdote cattolico, addirittura più famiglie in parti diverse del paese e stu-prando sistematicamente i suoi stessi figli. Perché Benedetto XVI, che ha incontrato vittime di preti pedofili nei sei ultimi viaggi all’estero (Stati Uniti, Australia, Portogallo, Malta, Regno Unito, Germania) proprio in Mes-sico ha scelto di rifiutare tale incontro? Forse il papa considera di aver già pagato un prezzo sufficiente al più grande scandalo del suo pontificato, oppure sono stati i fattori endogeni a sconsigliare tale riparazione, minima,

mediatica, ma pur sempre qualcosa? O la spiegazione sta nel fatto che il principale sostenitore di Marcial Maciel è ancora oggi il cardinale primate messicano Norberto Rivera? Quel-lo che è sicuro è che con il rifiuto a incontrare le vittime papa Ratzinger ha riaperto una ferita e ha fatto un passo indietro grave rispetto alle aperture degli ultimi anni dopo decenni di silenzio.

Ratzinger, però, è andato in Messico anche ad incassa-re dividendi. Ha scelto di andarci proprio in piena campagna

anni di pontificato. Un’assenza stridente, per molti versi assurda, in quello che tuttora è il continente più cattolico del mondo. Comparare questi sette anni di assenza con i cinque viaggi nel solo Messico fatti da Giovanni Paolo II, a partire da quello realmente storico di Puebla, nel gennaio 1979, dopo appena tre mesi di pontificato, rende palese quanto sia in salita il cammino per un papa che anche il più benevolo dei fedeli considera eurocentrico e poco sensibile al cattolicesimo del sud del mondo e a quello latinoameri-

cano in particolare.Il papa ha viaggiato in un Messico fedele, fedelissimo, ma dove un cat-

tolico su cinque ha lasciato la chiesa negli ultimi trent’anni per abbracciare uno dei culti protestanti che si contendono oramai ogni angolo del conti-nente. La chiesa cattolica ha storicamente pensato di avere come principa-le avversario il liberalismo, la secolarizzazione, il marxismo ateo, e invece chi sta corrodendo le fondamenta del cattolicesimo non è la progressiva laicizzazione delle società moderne ma la competizione di chiese protestan-ti che spesso vedono nella chiesa di Roma un vero e proprio avversario da combattere. Quella messicana non è ancora la valanga del Brasile, un fede-le su tre perduto, o il disastro centroamericano (uno su due in Guatemala e Salvador) ma capire il perché ciò stia succedendo sarebbe per il cattolicesi-mo solo il secondo passo da fare, dopo aver smesso di negare un problema che è stato a lungo mascherato dal grande carisma e dalle moltitudini oran-ti di Karol Wojtyla.

Le chiese protestanti imperversano, con i loro soldi che arrivano dal vicino del nord, offrendo alla sofferenza dei credenti quello che il wojtilismo decise a tavolino di espungere: la speranza. Offrono la speranza non di una soluzione ma almeno di una spiegazione (conservatrice) del perché di tanta sofferenza sulla terra. Per una breve stagione invece, la chiesa cattolica aveva offerto a tali fedeli, per poi voltar loro le spalle, la speranza di una giustizia terrena, giustizia sociale. Questa speranza di riscatto, a Medellin nel 1968, nella più importante conferenza episcopale del XX secolo, era stata tradotta in “opzione preferenziale per i poveri”. Contro quella linea, contro la teologia della liberazione che era solo la punta più avanzata di un movimento più ampio che prendeva le mosse dal Concilio Vaticano II, si abbatté la scure del wojitylismo più duro e del quale Ratzinger fu l’ideologo. Nelle vesti di Torquemada, Ratzinger perseguitò migliaia di religiosi, li ri-mosse, li umiliò, senza preoccuparsi delle conseguenze dell’abbandono dei fedeli di quei pastori.

Fu una guerra sporca che arrivò a oscurare la figura del martire salva-doregno Oscar Romero e che però Wojtyla e Ratzinger non vinsero, non solo perché la chiesa dei poveri è tuttora viva, ma perché la conseguenza è stata il rapido dissanguarsi del cattolicesimo stesso, che a quell’opzione

La persecuzione della teologia della liberazione ha favorito l’abbandono dei fedeli. Per il papa è un problema o no?

Nel fedele Messico un cattolico su cinque si è fatto protestante, ma Ratzinger è arrivato soltanto dopo sette anni di papato

analisi

114 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 115

con il governo degli Stati Uniti, viene spesso aspramente criticata. In qualche caso tale rifiuto viene comparato con quello citato rispetto alle vittime di Maciel, facendo pari e patta tra cose e scelte diversissime. È un’interpreta-zione assurda. Il Vaticano è stato in questi decenni capace di isolare con grande cinismo chi - anche all’interno della Chiesa cattolica - lottava contro dittature e regimi sanguinari considerati funzionali soprattutto alla logica della guerra fredda. Si pensi al citato monsignor Romero o alla totale ade-sione al pinochettismo ostentata da Wojtyla anche umiliando deliberata-mente le associazioni cattoliche per i diritti umani in Cile. Nessuno quindi, tra i pro-cubani a oltranza, può esaltarsi per tale scelta del pontefice che è probabilmente soprattutto realpolitik di una chiesa che pensa innanzitutto a se stessa e ai propri spazi di agibilità.

Va fatta però un’ulteriore e finale considerazione in merito. I gruppi di opposizione al governo rivoluzionario cubano, in particolare per i motivi di cui sopra, godono di una straordinaria e immeritata buona stampa nel peggio del sistema mediatico mainstream, che li esalta come degli eroi e dei combat-tenti per la libertà nel presunto gulag tropicale cubano. La scelta di lungo periodo della conferenza episcopale cubana di lavorare in sinergia con il governo e ottenere - tra le molte cose - la liberazione di alcuni prigionieri politici, testimonia due cose: da un lato, la persistente infima credibilità di presunti leader dell’opposizione creati e manovrati da Miami (infima credi-bilità che li accomuna al sistema mediatico che tratta Cuba come l’impero del male). Dall’altro, che quello che è un tabù per il governo degli Stati Uniti,

l’esistenza di un paese socialista come Cuba, da almeno tre lustri è un fatto accettato dal Vaticano. Poi ognuno può sce-gliere da che parte stare: con la Rivoluzione (che non è né terrorista, né omofoba, né atea), con l’oltranzismo statuniten-se e dei media mainstream, o con il dialogo ricercato e trovato dal cardinale Jaime Ortega. Altra pasta, quest’ultimo, rispetto a quel reazionario dalle pessime frequentazioni di Norberto Rivera che ha accolto il papa in un Messico che oggi, va detto con molta pena, è la vera vena aperta dell’America latina.

elettorale presidenziale e non per caso, nonostante molti osservatori abbiano considerato inopportuno il momento di tale scelta. La riforma dell’art. 24 della Costituzione, che sta a cuore al papa, sconvolgerebbe l’impalcatura laica di uno degli stati con la più lunga tradizione al mondo in tema di separazione tra Stato e Chiesa. Quando Benito Juárez sanci-va con la Riforma la separazione e soprattutto la laicità dell’insegnamento, a Roma regnava ancora il Papa Re.

Oggi tutti e tre i partiti principali si contendono il voto cattolico e la laicità sembra scomparsa dall’agenda politica messicana. Ap-pena 12 anni fa il Pan che metteva fine al settantennio priista, prima con Vicente Fox e poi con Felipe Calderón, poteva capitalizzare di essere l’unico partito cattolico. La candidata panista, Josefina Vázquez Mota, vede compe-tere su quel terreno sia il candidato del Pri (oramai su quel piano un parti-to conservatore come un altro) Enrique Peña Nieto sia quello progressista Andrés Manuel López Obrador, tutti a Guanajuato ad accogliere il papa. Nel paese dei 50mila morti per la narcoguerra e dove la classe dirigente gover-na il narcotraffico stesso dalle più alte cariche, non cìè stato un politico che non abbia sgomitato per essere più fotogenico al momento della benedizio-ne papale, ma non si è riusciti ad ascoltare da Ratzinger parole chiare sul problema più difficile che sta insanguinando il Messico contemporaneo.

Solo dopo avere affrontato o eluso i nodi fin qui riportati, il papa si è recato a Cuba. Una visita pastorale importante, che non ha avuto però i caratteri dell’evento epocale del 1998 quando i due grandi vecchi, Fidel Castro e Karol Wojtyla, fieri avversari di una vita, seppero parlarsi e almeno parzialmente intendersi chiudendo proprio a Cuba una parte della storia della guerra fredda. Iniziava allora l’uscita della Revolución dall’isolamento voluto dagli Stati Uniti e oggi completata con l’isola reinserita a pieno tito-lo nel consesso delle nazioni del continente e con l’embargo che è rimasto un’anacronistica misura che solo gli Stati Uniti difendono. Oggi Giovanni Paolo II non c’è più e Fidel Castro è un autorevole pensionato con qualche acciacco.

Il carattere pastorale della visita a Cuba è stato quindi largamente pre-valente per una chiesa che da tempo non ha alcunché da lamentare né per il proprio culto né per gli altri, in un’isola dove le libertà religiose sono garantite, consolidate e indiscusse. Il cardinale Jaime Ortega è ormai non solo un interlocutore principale del governo ma (insieme ad altri ecclesia-stici) una figura pubblica, con grande accesso ai media controllati dal go-verno e i cattolici hanno voce in capitolo anche nelle riforme economiche che Cuba sta affrontando in pace, a dispetto di quanti da tempo cercano di fomentare rivoluzioni colorate magari violente.

Nei media occidentali l’indisponibilità di papa Benedetto XVI a incon-trare i cosiddetti dissidenti, in genere manovrati, finanziati o in contatto

A Cuba invece il Papa consolida il rapporto col governo, evitando i “dissidenti” che pure godono di così buona stampa in occidente

Tutti politici i dividendi da incassare: Pri, Pan e il progressista Prd mirano al voto cattolico.La laicità è sparita dall’attualità messicana

La pastorale spuntata che Benedetto xvi ha portato in America latina Gennaro Carotenuto

analisilatinoamerica

1/2 • 2012 I 117

elemento chiave della guerra eco-nomica degli Stati uniti contro Cuba è

il divieto per l’isola di accedere a molti dei servi-zi forniti da Internet. Sono anche molte le limi-tazioni per quanto riguarda le comunicazioni telefoniche tra i due paesi e questa è la ragione per cui imprese nordamericane interessate a in-vestire nel settore delle telecomunicazioni si trovano impossibilitate a farlo, nonostante l’am-ministrazione Obama abbia introdotto una certa flessibilità in questo senso.

Cuba si vede anche impossibilitata ad acce-dere alle nuove tecnologie informatiche e delle comunicazioni a causa delle stesse regole del blocco, visto che la maggior parte di queste tec-nologie sono di origine nordamericana.

È di dominio pubblico che diverse società nordamericane di telecomunicazioni, come per esempio At&t, Verizon Communications e Nokia (http://www.elnuevoherald.com/2010/09/01/v- fullstory/793983/telefonicas-presionan-para-ope-rar.html#ixzz0yOtsPdoZ), sono interessate a in-vestire nell’isola e hanno addirittura chiesto all’amministrazione Obama di intervenire per-ché possano operare a Cuba, ma il blocco non consente loro di soddisfare questi interessi.

Tra i tanti argomenti tirati in ballo, l’accesso

di Luis Miguel RosalesDal blog La Pupila Insomne [lapupilainsomne.wordpress.com]

L’

analisilatinoamerica

iL NED CONTRO LA revolución,COSì LA RETE VA ALLA GUERRA

Il divieto di accedere a molti dei servizi forniti da internet è uno degli elementi chiave del conflitto economico scatenato dagli Stati Uniti contro l’Avana. Rifornire la controrivoluzione di denaro e di tecnologie informatiche è uno dei compiti che si è assunto il National endowment for democracy, una delle emanazioni della Cia

analisi

118 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 119

Luis Miguel Rosalesil Ned contro la Revolución,così la rete va alla guerra

Ad aprile dello scorso anno si è svolto clandestinamente, come molto di ciò che si fa contro la Rivoluzione cubana, l’evento “Pensare Cuba” (ht-tps://lapupilainsomne.wordpress.com/2011/04/09/cumbre-en-panama-para-ciberguerra-contra-cuba-hacia-nuevos-fracasos/). L’agenda pubblica era visi-bile, ma quello che è stato “cucinato” durante il convegno e i programmi che ne sono scaturiti non sono mai stati pubblicizzati. Per poter accedere alle conclusioni del convegno si deve addirittura avere una password auto-rizzata dagli organizzatori (http://cambiosencuba.blogspot.com/2011/04/think-cuba-un-evento-encriptado.html).

Il 21 marzo 2012 si è svolta, presso la sede dell’ultra-conservatrice He-ritage Foundation con il patrocinio di Google Ideas, la tavola rotonda “Cuba ha bisogno di una rivoluzione (tecnologica): come Internet può scongelare un’isola congelata nel tempo” in cui si è discusso della strategia da adottare per promuovere la controrivoluzione cubana attraverso un uso più massivo di Internet.

In quel consesso si è riunito il fior fiore dei nemici più irriducibili della Rivoluzione cubana: tra gli altri Daniel Fisk, vice-presidente dell’Internatio-nal Republican Institute, Roger F. Noriega, membro dell’American Enterpri-se Institute, Mauricio Claver-Carone, direttore di Us-Cuba Democracy Pac, e Carlos Saladrigas, co-presidente del Cuba Study Group.

Tra le raccomandazioni emerse in quell’evento, ampliare la connessio-ne a Internet che la Sina fornisce ai controrivoluzionari cubani e “incorag-giare” paesi alleati degli Stati Uniti a fare lo stesso, esplorare le opzioni della tecnologia super wireless per dare l’accesso senza fili a Internet a grup-pi della controrivoluzione interna, e aumentare la fornitura a questi gruppi di sofisticate apparecchiature di telecomunicazioni potenziando anche il sostegno economico. È stata una vera e propria cospirazione dell’ultra-destra nordamericana e cubano-americana.

Durante il suo intervento, il senatore cubano-americano Marco Rubio ha spiegato che l’accesso illimitato a Internet da parte del “popolo cubano” causerebbe la caduta immediata del governo cubano, ha insistito sul fatto che è bene incrementare l’uso dei servizi offerti dalla rete delle reti per promuovere il crollo della Rivoluzione cubana, difendendo però al contem-po il blocco contro Cuba. L’incoerenza di questi signori ha una sola logica:

l’interesse a distruggere la nazione cubana. (http://www.kansascity.com/2012/03/21/3505403/internet-could-lead-to-regime.html yhttp://online.wsj.com/article/SB10001424052702303404704577304201075114644.html

Rubio, astro nascente del Tea Party, non ha spiegato come farebbero i cubani ad accedere illimitatamente a In-ternet se si mantiene il blocco contro Cuba, ma una cosa è molto chiara: questo non avverrà con un servizio regolar-mente fornito, bensì attraverso le forniture clandestine e

di Cuba a queste tecnologie è vietato per una ragione vera-mente idiota e incoerente: la possibilità che Cuba le usi per sviluppare una guerra asimmetrica contro gli Stati Uniti. Eppure, quella che stanno conducendo gli Stati Uniti contro Cuba è una vera e propria guerra in Internet. Con grande cinismo, e ai limiti delle leggi del blocco, il governo degli Stati Uniti tende a utilizzare queste nuove tecnologie per promuovere la sovversione a Cuba, favorendone l’accesso ai gruppi che aspirano al crollo della Rivoluzione cubana.

La fornitura a membri della controrivoluzione interna di sofisticate apparecchiature di telecomunicazione, come per esempio Bgan (network satellitari a banda larga per voce e dati, ndr), telefoni satellitari, cellulari di ultima generazione, attrezzature da ripresa, pc e laptop, programmi di crittografia delle comunicazioni, oltre a risorse finanziarie e alla consulen-za ai “dissidenti” per insegnare loro l’uso di questi macchinari, è stata una costante dei piani dell’amministrazione nordamericana.

L’uso adeguato dei social network attraverso Internet per promuovere i processi della “Primavera araba” ha incentivato i piani destinati a favorire un processo analogo a Cuba attraverso Internet e le telecomunicazioni.

Questi piani sono in incubazione da tempo e ad essi sono destinati abbondanti flussi di denaro provenienti dai contribuenti statunitensi. È ovvio che i programmi non esplicitano le finalità e generalmente si nascon-dono dietro belle frasi ricorrenti come “liberare l’accesso all’informazione” o “liberare l’accesso a Internet”, concetti fasulli e molto cinici se conside-riamo che le misure derivanti dal blocco condizionano la possibilità che Cuba, al pari di ogni altro paese del mondo, abbia accesso illimitato a Inter-net e alle nuove tecnologie per utilizzarle non solo per accedere all’infor-mazione ma anche in ambiti fondamentali per il benessere della popolazio-ne come la salute e l’istruzione.

L’uso del cyberspazio per promuovere la controrivoluzione cubana è al centro del dibattito e dei programmi delle varie agenzie e istituzioni nor-damericane che appoggiano la sovversione a Cuba. Una di queste è la Fon-dazione nazionale per la Democrazia (National Endowment for Democracy, Ned). Nella sua “Strategia 2007” si era già definito che l’istituzione avrebbe ap-poggiato l’accesso a Internet nei “paesi autoritari”, tra i quali è compresa Cuba. Si riconosce anche che in passato il Ned ha fornito ai suoi “beneficia-ri di aiuti” l’accesso alle più recenti tecnologie delle comunicazioni, permet-tendo loro di fare un “uso creativo” di Internet, posta elettronica e messag-gistica. Tutto questo senza dimenticare metodi più vecchi come video e cd.

La strategia intendeva inoltre favorire una maggiore comunicazione e interazione tra i gruppi controrivoluzionari mediante l’uso crescente di Internet e dei telefoni cellulari.

Tavola rotonda della ultra-conservatrice Heritage Foundation: “Con l’accesso al web si potrebbe causare la caduta del regime”

Network satellitari a banda larga, cellulari, pc, laptop, consulenti: dopo i successi delle “primavere arabe”, si vorrebbe replicare a Cuba

analisi

120 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 121

nata ai progetti contro Cuba. Dallo stesso budget federale l’Usaid riceverà 15 milioni di dollari per promuovere la controrivoluzione cubana. Usaid destinerà anche fondi al Ned, per non parlare dei fondi occulti provenienti dalla Cia.

Tra il 2006 e il 2010, secondo le informazioni pubbliche visibili sul suo sito web, il Ned ha investito un totale di 7.946.650 di dollari per promuove-re la controrivoluzione cubana (http://www.ned.org/where-we-work/latin-america-and-caribbean/cuba). Questo investimento ha consentito a un gruppo di persone, a Cuba e negli Stati Uniti, di vivere a spese del contri-buente nordamericano.

Sarà una lotta difficile, quella nel cyberspazio, il gioco si sta facendo duro e bisogna essere preparati ad affrontare questo nuovo disegno sovver-sivo. Non tutto è sul tappeto: siamo di fronte a un nuovo tipo di quella sporca guerra psicologica che, storicamente, è stata creata dai servizi spe-ciali nordamericani, in particolare la Cia, di cui il Ned può essere sicura-mente considerata l’emanazione principale.

Se argomenti di questo genere vengono dibattuti pubblicamente in riunioni accademiche, non è difficile immaginare quanto pesante possa essere tutto quello che non viene rivelato.

L’uso del cyberspazio per abbattere la Rivoluzione cubana è un proget-to forte di cui si discute apertamente e pubblicamente nel mondo accade-mico e politico degli Stati Uniti, ma che opera clandestinamente. Non si tratta solo di utilizzare il cyberspazio per promuovere campagne contro Cuba, per confondere l’opinione pubblica presentando un’immagine nega-

tiva della società cubana, si tratta in realtà di servirsi dei social network per scopi provocatori e per cercare di fomen-tare il caos nell’isola.

Hanno già provato a farlo, senza risultati, in occasione della visita del papa. È evidente che Cuba non è il mondo arabo. Il denaro assegnato è tuttavia tanto e ogni progetto contro Cuba coinvolge una burocrazia, oltre agli operatori e agli intermediari, i quali vivono tutti di questo bilancio. Ne consegue che l’ovvio diventa invisibile.

l’”effetto contagio” che si pensa di poter ottenere a Cuba, in particolare tra i giovani.

Questo linguaggio sibillino non riesce a nascondere che in realtà non si intende offrire al popolo cubano l’accesso illimitato a Internet e ai servizi che offre, per cui sarebbe sufficiente togliere il blocco, ma si vuole fornire l’accesso a chi, all’interno di Cuba, diffonde il messaggio nordamerica-no e punta al crollo della Rivoluzione cubana.

Un altro relatore è stato David E. Lowe, vice-presidente per le Relazioni governative e affari pubblici del Ned, che ha prospettato la necessità di favorire l’uso di Internet per promuovere azioni destabilizzan-ti contro il governo cubano.

Il suo intervento alla tavola rotonda è legato alla presentazione, da parte del Ned, della sua “Strategia 2012” (http://www.ned.org/), documento che stabilisce chiaramente che, per quest’anno e per gli anni successivi, l’istituzione ha tra i suoi principali obiettivi quello di “mantenere e possi-bilmente aumentare il suo sostegno ai democratici in paesi come Cuba...”, cioè mantenere e aumentare il sostegno ai gruppi controrivoluzionari cu-bani. Quindi destinerà importanti risorse per incrementare l’”accesso sicu-ro” a Internet, migliorando le competenze dei gruppi sull’uso delle nuove tecnologie informatiche e delle comunicazioni. Il documento sostiene che il mondo è diventato meno democratico, per cui si dovrebbe adottare l’espe-rienza dei processi della Primavera araba.

In questa strategia, il Ned riconosce che il lavoro che porterà avanti nei prossimi anni lo metterà di fronte a diverse “sfide”. Una di queste è l’appog-gio ai “democratici” in “società altamente repressive” come Cuba, aiutando “i gruppi pro-democrazia” ad avere un accesso sicuro a Internet, ad avere la capacità di difendersi da attacchi di malware e dalla sospensione dei servizi, a creare reti in cui condividere esperienze e tattiche e a metterli in contat-to con specialisti di tecnologie in grado di soddisfare le loro esigenze.

Nel documento il Ned riconosce che una delle quattro aree di scontro del futuro è il cyberspazio, e imparando dalle esperienze del 2011 di Egitto e Tunisia, sarà bene fornire ai gruppi dell’opposizione nei paesi i cui gover-ni non sono graditi agli Stati Uniti, la tecnologia con cui possano comuni-care rapidamente per denunciare “violazioni dei diritti umani” e “repres-sioni governative” nonché di mobilitarsi in eventuali momenti critici.

In linea con questa piattaforma, i destinatari di fondi del Ned si vedran-no incrementare il finanziamento per promuovere azioni dirette a sovver-tire la Rivoluzione cubana.

Per promuovere la sovversione contro Cuba saranno messe a disposi-zione ingenti somme di denaro. Il 13 febbraio 2012, il Dipartimento di stato ha annunciato che il Ned avrebbe ricevuto dal bilancio federale del 2013 un totale di 104 milioni di dollari. Naturalmente una parte sarà desti-

L’uso dei social network per scopi provocatori. La prova, durante la visita del Papa, è fallita. Cuba evidentemente non è il mondo arabo

Ma nessuno vuole aprire internet al popolo cubano: solo fornire l’accesso a chi all’interno di Cuba punta al suo crollo

Luis Miguel Rosalesil Ned contro la Revolución,così la rete va alla guerra

analisilatinoamerica

1/2 • 2012 I 123

oani Sánchez, famosa blogger cubana, è un personaggio mol-to particolare nell’ambiente della dissidenza cubana. Mai nes-sun oppositore ha ottenuto tanta esposizione mediatica né un

riconoscimento internazionale così grande nel giro di poco tempo.Emigrata in Svizzera nel 2002, dopo due anni, nel 2004, ha deciso

di rientrare a Cuba. Nel 2007 entra a far parte dell’opposizione cubana creando il suo blog Generación Y, e diventa un’irriducibile detrattrice del governo dell’Avana.

Mai nessun dissidente a Cuba, e forse al mondo, ha ottenuto tanti riconoscimenti internazionali in così poco tempo, per di più con un particolare di non poco conto: a Yoani Sánchez è stato elargito così tanto denaro da consentirle di vivere tranquillamente a Cuba per il resto della sua vita. La blogger, infatti, è stata retribuita per un totale di 250.000 euro, un importo cioè pari a più di 20 anni di salario minimo in un paese come la Francia, quinta potenza mondiale. A Cuba il salario minimo mensile è di 420 pesos, pari a 18 dollari e a 14 euro, il che si-gnifica che Yoani Sánchez ha ottenuto, per la sua attività di oppositrice, l’equivalente di 1.488 anni di salario minimo cubano.

Yoani Sánchez intrattiene stretti rapporti con la diplomazia norda-mericana a Cuba, come segnala un documento, classificato “segreto” per i dati sensibili in esso contenuti, proveniente dalla Sezione di inte-ressi nordamericani (Sina). Michael Parmly, ex capo della Sina a L’Ava-na, che si riuniva regolarmente con Yoani Sánchez nella sua residenza diplomatica personale, come dimostrano i documenti riservati della Sina, ha esternato la sua preoccupazione in merito alla pubblicazione dei documenti diplomatici americani da parte di Wikileaks: “Mi darebbe molto fastidio se venissero divulgate le numerose conversazioni che ho avuto con Yoani Sánchez. Lei potrebbe pagarne le conseguenze per tutta la vita”. La do-manda che sorge spontanea è la seguente: per quale motivo Yoani Sánchez sarebbe in pericolo se, come sostiene, le sue azioni rientrano nell’ambito della legalità?

di Salim LamraniDocente universitario alla Sorbona di Parigi

Y

Sarajevo / Bosnia 2012 – Una giovane modella posa tra le macerie di alcune case distrutte ai tempi dell’assedio. Nel centro di Sarajevo restano alcuni segni del sanguinoso passato e vengono utilizzati come sfondo per performance teatrali e concerti musicali.

PRODiGiOSA yOANi, RiEMPiE TwiTTER Di Sé...E NON HA iNTERNET

Spulciando i cablo d’ambasciata resi pubblici da Wikileaks si è scoperto che la famosa intervista a Obama non era stata mai fatta. Che Raul Casto non aveva risposto perché non gli erano mai state mandate le domande. E poi altri gustosi dettagli sul lavoro della blogger de l’Avana, conosciuta in tutto il mondo tranne che a Cuba

analisi

124 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 125

Prodigiosa Yoani, riempie Twitter di sé...e non ha internet Salim Lamrani

nelle 24 ore. A meno di passare ore e ore del giorno e della notte a fare solo quello, il che è piuttosto improbabile, è impossibile iscriversi a tutti quegli account in così poco tempo. Sembra quindi che tutto questo sia stato gene-rato mediante un robot informatico.

Si scopre anche che quasi 50 mila contatti della Sánchez sono in realtà account fantasma o inattivi, che creano l’illusione che la blogger cubana goda di grande popolarità nei social network. Dei 214.063 contatti dell’account @yoanisanchez infatti, 27.012 sono privi di immagine e 20.000 hanno tutte le caratteristiche di account fantasma con attività inesistente nella rete (da zero a tre messaggi inviati dalla creazione dell’account).

Tra gli account fantasma che seguono Yoani Sánchez su Twitter, 3.363 non hanno nessun contatto e solo 2.897 seguono la blogger e altri due o tre account. Alcuni account inoltre hanno caratteristiche piuttosto strane: non hanno nessun seguace, seguono solo Yoani Sánchez e hanno inviato più di 2.000 messaggi.

Questa operazione, volta a creare una popolarità fittizia attraverso Twitter, è impossibile da realizzarsi senza un accesso a Internet. È necessa-rio anche un supporto tecnologico e di conseguenza un budget adeguato. Secondo una ricerca effettuata dal quotidiano La Jornada, intitolata “Il cyber-trasporto, la nuova strategia adottata dai politici su Twitter”, su operazioni in cui erano coinvolti candidati alle presidenziali messicane, parecchie imprese statunitensi, asiatiche e latinoamericane offrono questo servizio di popolarità fittizia (“cyber-trasporto”) a prezzi elevati. “Per un esercito di 25.000 seguaci inventati su Twitter - sostiene la testata - si spendono fino a 2.000 dollari e per 500 profili fasulli per 50 persone si possono spendere tra i 12.000 e i 15.000 dollari.”

Yoani Sánchez manda in media 9,3 messaggi al giorno. Nel 2011 la blogger ha pubblicato circa 400 messaggi al mese. Il prezzo di un messaggio a Cuba è di 1 peso convertibile (Cuc), cioè un totale di 400 Cuc al mese. Il salario minimo a Cuba è di 420 pesos, circa 16 Cuc. Ogni mese quindi Yoa-ni Sánchez spende l’equivalente di due anni di salario minimo cubano. In questo modo, da Cuba la blogger spende su Twitter una somma che corri-sponde a 25.000 euro mensili, vale a dire 300.000 euro all’anno. Da dove provengono le risorse necessarie per queste attività?

È inevitabile che sorgano altre domande. Come può Yoani Sánchez seguire più di 80.000 account senza avere un accesso permanente a Internet? Come ha potuto iscriversi a circa 200 diversi account al giorno in media da giugno 2010, con picchi superiori ai 700? Quante persone seguono davve-ro le attività dell’oppositrice cubana in rete? Chi finanzia la creazione degli account fasulli? A quale scopo? Quali interes-si si nascondono dietro alla figura di Yoani Sánchez?

Nel 2009 la stampa occidentale ha fortemente enfatiz-zato l’intervista che il presidente Barack Obama aveva con-cesso a Yoani Sánchez, fatto ritenuto assolutamente eccezio-nale. La Sánchez aveva anche riferito di avere mandato un elenco di domande simile al presidente cubano Raúl Castro, il quale non si era neanche degnato di risponderle. Eppure i documenti segreti della Sina, pubblicati da Wikileaks, smen-tiscono queste dichiarazioni.

Si è scoperto che, in realtà, è stato un funzionario della stessa rappresentanza diplomatica a L’Avana a farsi carico di elaborare le risposte per la dissidente, e non il presidente Obama. Fatto ancor più grave, Wikileaks ha rivelato che la Sánchez, contrariamente alle sue affermazioni, non ha mandato nessun elenco di domande a Raúl Castro. Il responsabile della Sina, Jonathan D. Farrar, ha confermato questi fatti in un dispaccio inviato al Dipartimento di Stato: “Lei non aspettava nessuna risposta, perché ha confessato di non averle mai [le domande] trasmesse al presidente cuba-no”.

L’account Twitter di Yoani SánchezOltre al sito Generación Y, Yoani Sánchez ha anche un account Twitter

dove vanta di avere più di 214mila seguaci (al 12 febbraio 2012). Solo 32 di loro risiedono a Cuba. Dal canto suo, la dissidente cubana segue più di 80 mila persone. Nel suo profilo la Sánchez si presenta così: “Sono una blogger, vivo a L’Avana e racconto la mia realtà in pezzi da 140 caratteri. Twitto via sms e non ho accesso al web”.

La versione di Yoani Sánchez è tuttavia poco credibile. È infatti assolu-tamente impossibile seguire più di 80 mila persone solo via sms o utilizzan-do una connessione settimanale da un albergo. Per ottenere un risultato del genere, è indispensabile avere l’accesso quotidiano alla rete.

La popolarità nel social network Twitter dipende dal numero di seguaci. Più numerosi sono, maggiore è la visibilità dell’account. Esiste anche una forte correlazione tra il numero di persone seguite e la visibilità del proprio account. La tecnica, che consiste nel seguire numerosi account, è di norma utilizzata per fini commerciali, oppure viene usata dai politici durante le campagne elettorali.

Il sito www.followerwonk.com permette di analizzare il profilo dei contat-ti di qualsiasi membro della comunità di Twitter. Lo studio del caso Yoani Sánchez è emblematico per diversi aspetti. Un’analisi dei dati dell’account Twitter della blogger cubana, che è stata realizzata attraverso il sito, rivela un’attività eccezionale dell’account di Yoani Sánchez a partire dal 2010. Co-sì, da giugno 2010, la Sánchez si è registrata in oltre 200 diversi account Twitter ogni giorno, con picchi che sono arrivati addirittura a 700 account

La popolarità sul web si compra, e costa. Come i messaggi: yoani ne ha mandati per l’equivalente di 25mila euro mensili

Un esercito di 214mila seguaci su Twitter, un mare di registrazioni e centinaia di account Fa tutto da sola o c’è qualcuno dietro di lei?

analisilatinoamerica

1/2 • 2012 I 127

Ldi Lucio Bilangione

Analista politico, studioso dell’America Latina

Recentemente il regista colombiano Yesid Campos ha raccontato questa tera-gedia in un documentario intitolato “El Baile Rojo: Memoria de los Silenciados” [disponibile integralmente su YouTube]

Ma il rinnovamento politico che ha scosso l'America latina, portando una ventata di giustizia sociale e partecipazione popolare laddove erano proliferate le dittature militari e liberiste che mantevano incatenato il continente ad una realtà di dipendenza neocoloniale, non è ancora arrivato in Colombia. Qui il terrorismo di Stato e il fascismo oligarchico non hanno mai smesso di operare e la maschera pseudo-democratica con la quale si rivestono le istituzioni del paese è servita ad organizzare uno sterminio molto più vasto e profondo, ancora più freddamente efficiente, di quello prodotto dalle giunte militari. Questo modello di fascismo “democratico” è stato del resto funzionale anche agli interessi di una comunità internazionale complice, che ha potuto continuare a beneficiare delle ricchezze colombiane, chiudendo facilmente gli occhi di fronte al massacro sociale e politico più profondo e continuativo della storia latinoamericana. Usando così le ricchezze del paese, l'oligarchia colombiana compra l'impunità per i crimini disumani che continua a commettere per mantenersi al potere.

Mentre la Colombia sprofondava in questo baratro di saccheggio, violenza e menzogne, si sono tuttavia sviluppati movimenti popolari vasti e potenti. Ancora una volta, dopo 20 anni una nuova speranza è nata dal seno stesso delle lotte socia-li. Sindacati, associazioni contadine, movimento studentesco, organizzazioni in-digene ed afrodiscendenti, organizzazioni popolari e di quartiere, organizzazioni politiche vittime del terrorismo di Stato, hanno fatto un salto di qualità politico e organizzativo, dando vita, con una grande manifestazione che ha riunito 100mila persone a Bogotá lo scorso 23 aprile, al movimento politico “Marcha Patriótica”. Questa nuova forza è riuscita a mobilitare i settori popolari della Colombia profon-da, rurale e urbana, marginalizzata, resa invisibile dai media di regime.

Ma come nel tipico realismo magico colombiano in cui il tempo è circolare e tutto sembra che periodicamente ritorni, con la speranza è tornato anche il reale pericolo di un nuovo sterminio politico. Non si sono fatte attendere le segnalazio-ni provenienti da ambienti dell'esercito, le minacce paramilitari, le provocazioni poliziesche e a pochi giorni dall'inaugurazione ufficiale del movimento il terrori-smo di Stato ha già prodotto 2 omicidi, altri 2 esponenti risultano desaparecidos, e 7 sono gli arrestati. La grande paura che la storia possa ripetersi non è bastata a

fermare la necessità politica incarnata dalla Marcha Patriótica, ma bisogna impedire che questa nuova speranza, che avanza sulle stesse note bolivariane della maggior parte dei popoli del-la regione, venga ancora una volta soffocata nel sangue.

È fondamentale che a livello internazionale venga mante-nuta alta l'attenzione intorno a ciò che accade in Colombia e che militanti e attivisti di questo straordinario movimento po-litico non vengano lasciati nuovamente soli... per la Colombia e per l'America latina!

a Colombia è il paese del continente con la più antica e ininterrotta storia di sterminio politico delle opposizioni al regime, dalla morte di Bolívar in avan-ti. È il modus governandi colombiano.

Nei primi decenni del secolo scorso il movimento popolare si apriva fati-cosamente spazi nella vita politica del paese, creando sindacati e partiti, ma la violenza con cui lo Stato ha risposto a queste istanze democratiche è stata spaventosa. Nel 1948 le idee socialiste irrompevano sulla scena con la forza che poteva portarle a dirigere il paese: Jorge Eliécer Gaitán, il candidato del popolo, era ad un passo dalla vittoria quando venne assassinato in un attentato che causò una rivolta popolare e una feroce repressione governativa, che passò alla storia come “el bogotazo”.

Nei decenni successivi si cercò di spazzare via fisicamente un'intera gene-razione di persone che credevano nella possibilità di cambiare il paese, forzan-dola a creare le guerriglie delle FARC e dell'ELN. Quando le forze popolari riu-scirono a riorganizzarsi politicamente, negli anni ‘80, e la guerriglia firmò un cessate il fuoco con il governo per partecipare alla vita politica, venne costruito il partito dell'Unión Patriótica, che in pochi mesi raccolse sorprendentemente quasi il 30% dei consensi elettorali. La risposta dell’oligarchia fu l'organizza-zione del cosiddetto “Baile Rojo”, il genocidio politico dell'intero partito, con lo sterminio sistematico dei suoi componenti, tra i quali 2 candidati alla presi-denza della repubblica.

Il terrorismo di Stato continuava così ad essere strumento privilegiato del-la classe dominante colombiana e dei suoi mentori nordamericani della Scuola delle Americhe. Sono passati altri 20 anni da quando venne chiusa a ferro e fuoco l'esperienza dell'Unión Patriótica e le FARC-EP hanno deciso di tornare alla guerra partigiana. Nel frattempo sindacalisti, esponenti politici di sinistra, leader contadini e comunitari hanno continuato a cadere ininterrottamente sotto il piombo ufficiale o la motosega paramilitare.

A pochi giorni dalla manifestazione che ha segnato la nascita del nuovo movimento, due dirigenti uccisi, due rapiti, 7 arrestati

Il rinnovamento che ha scosso l’America Latina non è ancora arrivato in Colombia: 100mila persone danno vita al movimento “Marcha Patriótica” e il governo torna ai metodi del terrore di stato

NUOVO PRESiDENTE, VECCHiA REPRESSiONE: MA SANTOS NON ERA DiVERSO DA URiBE?

documenti e testiLatinoamerica

1/2 • 2012 I 129

di Salim Lamrani Docente universitario alla Sorbona di Parigi

(1) , «Trente-quatre médias audiovisuels sacrifiés par ca-price gouvernemental», 2 de agosto de 2009. http://www.rsf.org/Trente-quatre-medias-audiovisuels.html (sitio con-sultado el 3 de agosto de 2009). , “Thirty four broadcast media shut down at government’s behest”, August 2, 2009. http://rsf.org/34-broadcast-media-shut-down-at.ht-ml (site consulted on August 3, 2009).

La guerra Su commiSSionedi reporters sans frontiéres contro iL VenezueLa di cháVez

Nel 2009 il governo del Venezuela fece chiudere 34 fra radio e tv “Pericolo per la democrazia”, tuonò RsF, e la stampa occidentale si accodò. Ma la realtà era un’altra: concessioni scadute o mai rilasciate, licenze di defunti trasferite a terzi, emittenti che incitavano all’eversione...

Docu

men

ti&Te

sti

documenti e testiLatinoamerica

2 agosto 2009, Reporter senza frontiere (Rsf) ha pubblicato un comunicato nel quale denunciava la chiusura di «tren-

taquattro mezzi audiovisivi sacrificati per un capriccio del governo» in Venezuela. L’organiz-zazione francese «protesta con vigore contro la chiusura massiccia di mezzi audiovisivi privati » e chiede: «Forse è ancora vietato trasmettere pubblicamente la benché minima critica al governo bolivariano? Questa chiusura in massa di mezzi dell’opposizione, pericolosa per il fu-turo del dibattito democratico, obbedisce uni-camente alla volontà del governo di mettere a tacere le voci del dissenso e non farà che aggra-vare le divisioni all’interno della società vene-zuelana» (1).

Rsf si riferiva alla decisione presa l’1 agosto dalla Commissione nazionale delle telecomuni-cazioni (Conatel) di ritirare la frequenza a trentaquattro emittenti radiofoniche e televisi-ve. Secondo Rsf, l’unica motivazione possibile era che questi mezzi si erano dimostrati critici

Il

Sarajevo / Bosnia 1995macchine fotografiche distrutte nell’incendio della redazione di oslobodenje

130 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 131

Salim Lamrani

situazione illegale. Rsf ha subito preso posizione difendendo ad oltranza l’opposizione venezuelana, responsabile di un colpo di stato contro Chávez nell’aprile 2002, colpo che l’organizzazione francese aveva subito approva-to. Rsf difendeva in particolare il canale golpista Globovisión, che considera-va il simbolo della libertà d’espressione in Venezuela (5).

Evitava tuttavia di segnalare che oltre alla sua partecipazione attiva al colpo di stato del 2002, Globovisión aveva appoggiato il sabotaggio petrolife-ro di quello stesso anno, aveva lanciato un appello ai contribuenti perché non pagassero le tasse e aveva istigato all’insurrezione e all’assassinio del presidente Chávez (6).

Globovisión ha dato il suo sostegno anche alla giunta golpista in Hondu-ras che ha deposto il presidente democraticamente eletto, José Manuel Ze-laya, unanimemente condannata dalla comunità internazionale. Il proprie-tario del canale, Guillermo Zuloaga Núñez, ha riconosciuto il governo ille-gale di Micheletti, lanciando allo stesso tempo un inquietante appello per un colpo di stato in Venezuela: “Il governo di Micheletti è conforme alla Costituzione, e noi vorremmo, ci piacerebbe che qui in Venezuela si rispet-tasse la Costituzione come avviene in Honduras” (7).

Rsf [che, non dimentichiamolo, è sovvenzionata dal Ned, National en-dowment for democracy, agenzia nordamericana emanazione della Cia] non difende, dunque, la libertà d’espressione in Venezuela. Preferisce schierarsi con i nemici della democrazia.

documenti e testi

La guerra su commissione di reporters sans frontiéres contro il Venezuela di Chávez

nei confronti del governo di Hugo Chávez. In pratica, si sa-rebbe trattato di un atto politico per tacitare la stampa dell’opposizione. La maggior parte dei media occidentali aveva diffuso questa versione (2).

Ora, la realtà era diversa da quella che Rsf e le multina-zionali dell’informazione avevano accuratamente occultato per ingannare l’opinione pubblica e presentare il governo più democratico dell’America latina (Hugo Chávez è passato attraverso quindici procedimenti elettorali da quando è ar-

rivato al potere nel 1998 ed è uscito vincitore in quattordici, con scrutini che per trasparenza sono stati effettuati da esponenti della comunità inter-nazionale) come un regime che attentava pesantemente contro la libertà d’espressione.

Di fatto, la decisione della Conatel sarebbe stata assunta in qualunque paese del mondo in una situazione simile. Diverse radio avevano ignorato deliberatamente un’ingiunzione della Commissione destinata ad accertare lo stato della concessione e ad aggiornarne la situazione. In seguito a veri-fica, la Conatel aveva scoperto parecchie irregolarità, come per esempio l’esistenza di concessionari defunti la cui licenza veniva utilizzata da una terza persona, il mancato rinnovo delle pratiche amministrative obbligato-rie, o semplicemente l’assenza di autorizzazione a trasmettere. Ebbene, la legge venezuelana, simile a quella del resto del mondo, stabilisce che i me-dia che non rinnovano la concessione entro i termini di legge o che trasmet-tono senza autorizzazione perdono la frequenza che tornerà ad appartene-re al pubblico. Così trentaquattro emittenti che trasmettevano illegalmente hanno perso la concessione (3).

In realtà, la decisione della Conatel, lungi dal limitare la libertà d’espressione, aveva messo fine ad una situazione di illegalità e avviato una politica di democratizzazione dello spettro radioelettrico venezuelano per consegnarlo al servizio della collettività. In Venezuela, infatti, l’80% delle radio e delle televisioni appartengono ai privati, e solo il 9% appartiene al pubblico, mentre il resto è del settore associativo e comunitario. La totalità dei mezzi privati venezuelani, inoltre, è concentrata nelle mani di 32 fami-glie (4).

In pratica, Rsf e i media occidentali avevano manipolato completamen-te un provvedimento di routine adottato da Conatel per porre fine a una

una decisione che sarebbe stata normale in qualunque paese del mondo. ma i rsF, sollecitati dal Ned, gridarono al liberticidio

(5) , «Le gouvernement accélère sa croisade contre les médias privés en voulant modifier les lois et les règles», 21 de julio de 2009.  , “Government steps up hounding of private media through new laws and regulations”, July 21, 2009.

(6) Salim Lamrani, «Reporters sans frontières contre la démocratie vénézuélienne», , 2 juillet 2009.(7) , «Globovisión apoya marcha a favor de gobierno golpista en Honduras», 22 de julio de 2009.

(2) , «Productores independientes respaldan suspensión de emisoras radiales ilegales», 4 de agosto de 2009.     3) Fabiola Sánchez, «Radios desafían a Chávez operando por Internet», , 3 de agosto de 2009.  (4) Thierry Deronne, «Au Venezuela, la ba-

taille populaire pour démocratiser le ‘lati-fundio’ des ondes», 2 de agosto de 2009. En español: La batalla popular para democrati-zar el latifundio de las ondas; , «Medida de Conatel no afectará libertad de expresión e información en Venezuela», 4 de agosto de 2009.  

documenti e testiLatinoamerica

1/2 • 2012 I 133

ai così tanti i militari italiani in missione di guerra in Afghanistan. Quat-tromiladuecentodieci e solo a metà anno i primi uomini faranno rientro a casa. Per completare il ritiro del contingente nazionale, secondo il ministro della dife-sa Di Paola, bisognerà attendere invece la fine del 2014. Un conflitto in nome degli interessi geostrategici delle transnazionali dell’energia, per cui è stato ver-sato un alto tributo in vite umane: per il sito della Camera dei deputati sono già 42 i militari caduti in territorio afgano “di cui 28 in seguito ad attentati o conflit-ti armati”. Top secret il numero di feriti e traumatizzati, ma sarebbero centinaia. Dal primo gennaio 2002 al dicembre del 2011, dispiegamenti di reparti, caccia,

elicotteri e tank, blitz e bombardamenti aerei, esercitazioni a fuoco hanno comportato una spesa per i contribuenti italiani di circa 3 miliardi e 800 milioni di euro. E le operazioni tricolori in Afghanistan assorbiranno più della metà delle spese previste per pagare le missioni all’estero nel 2012 (complessivamente 1,4 miliardi di euro).

“A Kabul il nostro contingente opera nell’ambito del Quartier Gene-rale di Isaf, della Nato Training Mission - Afghanistan e di Italfor Kabul con circa 210 uomini mentre ad Herat siamo presenti con circa 4.000 uomini, principalmente appartenenti alla Brigata paracadutisti Folgore”, spiegano i portavoce dello Stato maggiore della difesa. “Per le esigenze connesse con le missioni in Afghanistan e in Iraq, inoltre, ci sono 125 persone tra Al Bateen, Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti), dove sono dislocati alcuni velivo-li che assicurano il sostegno logistico, a Tampa (Stati Uniti d’America) presso il Comando Usa dell’intera operazione e in Bahrein quale persona-le di collegamento con le forze Usa”. Nel teatro di guerra afgano, il contin-gente dispone dei più moderni sistemi d’attacco, batterie missilistiche, bombardieri, elicotteri, aerei da trasporto, velivoli per missioni di sorve-glianza e ricognizione. La componente aerea è stata rafforzata a partire del 2007 conl’arrivo dei caccia Amx, dei velivoli senza pilota Predator e degli elicotteri d’attacco A129 Mangusta. Oltre una trentina sono i velivoli schie-rati a Herat, il terzo contribuito aeronautico alleato in Afghanistan dopo Usa e Gran Bretagna.

“Isaf - spiega il ministero della difesa - ha il compito di condurre ope-razioni militari secondo il mandato ricevuto, in cooperazione e coordina-zione con le forze di sicurezza afghane e in coordinamento con le forze della coalizione, al fine di assistere il governo afgano nel mantenimento della sicurezza, favorire lo sviluppo delle strutture, estendere il controllo su tutto il Paese e assistere gli sforzi umanitari e di ricostruzione”. In vista del progressivo sganciamento dall’Afghanistan, gli alleati stanno operando per “incrementare le capacità, l’autonomia e le competenze” delle ricosti-tuite forze armate locali. L’Italia ha assunto un ruolo centrale nelle attività

di antonio mazzeo Pacifista e giornalista. Autore di I Padrini del Ponte.

Affari di mafia sullo stretto di Messina, Edizioni Alegre

come e perché L’itaLia addeStra gLi aFgani aLLa guerra

documenti e testiLatinoamerica

Mgorazde / Bosnia 1996Soldati del contingente italiano iFor impegnati nell’apertura di un corridoio umanitario per raggiungere l’enclave musulmana di gorazde isolata per tre anni

Quasi quattro miliardi di euro spesi in dieci anni, oltre quattromila soldati italiani schierati, 42 caduti e centinaia di feriti e traumatizzati. Per gli interessi delle transnazionali dell’energia e molti altri affari

134 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 135

Militari dell’Arma e della Guardia di finanza partecipano anche alla missione di polizia “Eupol Afghanistan” dell’Unione Europea, nell’ambito dell’iniziativa di Politica Europea di Sicurezza e Difesa (Pesd). La missione, iniziata il 15 giugno 2007, ha lo scopo di “sviluppare le attività di training, advising e mentoring del personale afgano destinato alla polizia nazionale e alla polizia di frontiera”. Gra-zie a un accordo bilaterale Italia-Afghanistan, carabinieri e fiamme gialle sono pure impegnati a Herat nell’addestramento della polizia di frontiera e doganale, collaborando con il personale Usa del Combined Security Transition Command Afgha-nistan (Cstc-A). Sempre a Herat, il ministero della difesa italiano ha recentemente contribuito con 100.000 euro alla realizzazione di una nuovastazione della polizia afgana.

Un colonnello del 3° Reggimento Bersaglieri è alla guida del Prt - Provincial reconstruction team - che ha il “compito di supporto alla governance e di soste-nere il processo di ricostruzione e sviluppo”, congiuntamente a una componente civile rappresentata da un consigliere del ministero affari esteri. La struttura controlla e gestisce buona parte degli interventi in Afghanistan finanziati con denaro della cooperazione allo sviluppo. Negli ultimi cinque anni, Prt dichiara di aver costruito nel distretto di Herat “scuole, ospedali, carceri, strade e ponti” per il valore complessivo di 30 milioni di euro, 5,6 dei quali nel solo 2011. Entro la fine di gennaio sarà completata la prima tranche dei lavori di ampliamento del terminal del locale aeroporto (250.000 euro). Per lo scalo di Herat, i progettisti del Provincial recontruction team hanno predisposto un masterplan del valore di oltre 137 milioni di euro per realizzare un nuovo terminal, piste aeree e opere viarie di collegamento. Lo scorso 17 dicembre, il programma è stato presentato alle autorità nazionali afghane dall’ex ministro allo sviluppo economico, Paolo Roma-ni, neo-rappresentante dell’esecutivo Monti per lo “sviluppo economico dell’Af-ghanistan e del’Iraq”.

Dal 2001 al 31 dicembre 2010, la cooperazione italiana ha erogato 516 milio-ni di euro per finanziare “iniziative bilaterali e multilaterali” nel “settore infra-strutturale e degli aiuti umanitari” (103 milioni solo per il collegamento stradale Bamyan-Maidan Shar). Ventinove i milioni stanziati lo scorso anno per “progetti nel settore della governance, dello sviluppo rurale e agricolo e delle infrastrutture stradali”. L’Afghanistan è proprio la gallina d’oro di mercanti d’ami e grandi so-cietà di costruzioni. Nel 2012 potrebbero partire i lavori di ristrutturazione della

strada Herat–Chishet Sharif. Prima beneficiaria, spiega Il So-le24Ore, la grande cava di proprietà del magnate statunitense Adam Doost (alla guida dell’American Chamber in Afghani-stan), “che di recente ha chiuso un accordo di partnership con la Margraf di Vicenza per commercializzare in Italia e in Eu-ropa blocchi di marmo inizialmente per 5 milioni di dollari”. La guerra in Afghanistan si combatte per il gas e il petrolio ma anche in nome e per conto dei pescecani dei mercati finanzia-ri planetari.

documenti e testi

di formazione e addestramento dell’esercito (Ana) e della polizia (Anp) afgani, un impegno oneroso dal punto di vista organizzativo e finanziario e che presuppone pure il loro ac-compagnamento materiale in vere e proprie azioni di combat-timento. L’esercito italiano impiega sul campo i cosiddetti Omlt (Operational Mentoring Liason Teams), team composti da 20-30 consiglieri ed addestratori “a livello di Corpo d’Armata, di Brigata e di Kandak (battaglione)”. I cicli addestrativi hanno una durata di almeno sei mesi e spaziano dalle procedure

tecnico-tattiche di fanteria, all’uso di armi leggere e pesanti, ecc. Nel 2008 si è pure tenuto un lungo addestramento sulle tecniche di “ambientamento e movi-mento in montagna”, destinato all’Afghan National Army, articolatosi in lezioni teoriche a Camp Invicta, sede del contingente italiano a Kabul e in attività prati-che in Italia, presso il 6° reggimento Alpini di Brunico (Bolzano).

La formazione di piloti e tecnici dell’Afghan Air Force viene effettuata inve-ce nella base aerea di Shindand da personale dell’Aeronautica militare. Per i training, avviati il 2 novembre 2010, sono a disposizione due gruppi di consiglie-ri-addestratori accanto ai militari afgani destinati alla guida degli elicotteri Mi.17 di fabbricazione russa. Gli italiani hanno pure istituito corsi di specializzazione nel campo delle comunicazioni radio e radar, della gestione delle reti e depositi Pol (petrolio, olio e lubrificanti), della manutenzione e del rifornimento dei veli-voli, del supporto medico, eccetera. I voli addestrativi vengono svolti in coopera-zione con l’Aeronautica militare ungherese che utilizza da diversi anni la stessa tipologia di elicotteri e con l’838th Air Expeditionary Advisory Group (Aeag) del-le forze aeree degli Stati Uniti.

Ad Alenia North America, società controllata da Alenia Aeronautica (gruppo Finmeccanica), è stata affidata la formazione dei piloti e del personale addetto alla manutenzione dei velivoli da trasporto tattico C-27/G.222, la cui consegna all’aeronautica afgana è in fase di completamento da parte di Us Air Force. Il contratto, del valore di oltre 4 milioni di dollari, prevede un anno di lezioni teo-riche, la formazione pratica e l’addestramento in volo nello stabilimento Alenia di Napoli-Capodichino dei piloti afgani e degli advisor statunitensi che sono poi inviati a Kabul per operare con il personale dell’Afghanistan National Army Air Corps (Anaac). Nell’ottobre 2008, Alenia North America era stata protagonista di una strana triangolazione Italia - Stati Uniti – Afghanistan: la società aveva ven-duto a Us Air Force diciotto aerei da trasporto G.222 (già in uso all’aeronautica militare italiana), che dopo essere stati riammodernati erano stati trasferiti alle forze aeree afghane.

Imponente anche l’impegno addestrativo degli italiani a favore delle forze di polizia. Ad Adraskan e Herat due team di carabinieri provenienti dall’orga-nizzazione territoriale dell’Arma e dai paracadutisti del 1° Reggimento “Tusca- nia”contribuiscono alla formazione di alcune unità del Comando Regionale dell’Afghan Uniform Police e dell’Afghan National Civil Order Police.

Antonio Mazzeo

terminal aeroportuali, strade e scuole, fino al commercio del marmo:la ricostruzione afgana è una gallina dalle uova d’oro

Come e perché l’Italia addestra gli afghani alla guerra

Quella strana triangolazione degli aerei italiani g222, venduti agli usa e poi rivenduti all’aviazione militare afgana

1/2 • 2012 I 137

Cultu

ra e

cul

ture

cultura e culturelatinoamerica

Sarajevo / Bosnia 18 marzo 1996L’ultimo giorno dell’assedio per effetto degli accordi di Dayton Sarajevo passa sotto il controllo dell’esercito bosniaco. Tutti i serbi si ritirano verso la Repubblica serba e danno alle fiamme le loro case affinché non cadano nelle mani di un musulmano. Nella foto un abitante del quartiere di Grbavica membro di una famiglia mista cerca di salvare la sua casa dalle fiamme.

1/2 • 2012 I 139

cultura e culturelatinoamerica

uesto libro è la storia di un grande amore e di un delitto. Quan-do lo scrissi io non sapevo come sarebbe andato a finire. Ma in quell’epoca io credevo assolutamente all’eternità dell’amore. Cre-

devo anche in molte altre cose delle quali la realtà attorno mi ha appreso l’inconsistenza. Erano trascorsi solo quattro anni dalla fine della guerra e con altre italiane e italiani anche io avevo creduto che la soluzione di tutti i nostri problemi fosse nella fine del fascismo.

Benché io avessi superato i 35 anni ignoravo tutto circa i meccanismi economici che avevano scatenato le due guerre mondiali. Questo libro fu anche una mia presa di coscienza circa l’entusiasmo che mi aveva inge-nuamente guidata nel combattimento per la libertà e nel convincimento che fosse possibile vivere l’amore come un’avventura senza limiti e senza ambiguità.

Già in quegli anni, tra il 1946 e il 1949, queste mie convinzioni comin-ciavano a vacillare. L’amore che avevo portato ardentemente durante il passaggio della linea del fuoco e durante la superiore solidarietà generata

Q

Nel 1994, in occasione della riedizione del suo romanzo Dalla parte di lei, la Mondadori chiese ad Alba de Céspedes, grande scrittrice, poetessa e partigiana italiana di origini cubane, di scrivere una prefazione al libro la cui prima edizione era uscita nel 1949. Il romanzo, però, fu stampato prima che l’autrice potesse consegnare all’editore il testo, che uscì in seguito come articolo su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 1994. A quindici anni dalla morte di questa presunta “scrittrice di romanzi rosa”, queste pagine sorprendono per la lucidità e per il coraggio delle sue analisi, tese non solo alla liberazione della donna ma al riscatto di un’intera società

di Alba de Céspedes

QuANDo L’ITALIA peRSe Le ILLuSIoNI

dallo spirito della Resistenza, incominciava a raffreddarsi al contatto con la vita tornata a essere banale e compromissoria. Già sopravveniva l’amarez-za anche per quanto concerneva la mia vita pubblica. La rivista Mercurio che io avevo fondata nel 1944 e che dirigevo, terminò le sue pubblicazioni nel 1948. Il finanziatore della rivista che, tenuto conto prima della parti-colare situazione bellica e poi della svolta di Salerno, mi aveva lasciato le briglie lente sul collo, d’un tratto mi proponeva di sterzare verso posizioni di ortodosso atlantismo. Scoprivo come il potere mercantile sia permissivo agli inizi e come si serva di un titolo di giornale allorché un congruo nume-ro di lettori si è abituato a seguirlo. Rifiutai.

Soltanto in alcuni vecchi cuori può ancora vivere la delusione legata al grigiore di quegli anni. Avvedersi che la lotta, la prigione e per tanti la mor-te non erano servite che a fare dell’Italia un protettorato nordamericano. Una coltre di grigiore, di tristezza discese su tutte le cose. Il fascismo con la sua presunzione e teatralità aveva ceduto il passo ad una classe dirigen-te infida e cupida di servilismo. Questi eravamo noi? Questo ci spettava? Ricordo il giorno in cui un Presidente del Consiglio scatenò l’entusiasmo del Senato, sventolando un assegno americano come una bandiera. Io non me ne rendevo conto ancora, ma quella era divenuta la nostra bandiera. I rimproveri che mi rivolgevo, circa gli agi della mia condizione che mi permetteva di sprezzare il clientelismo politico e la pronitudine al sistema, non mi impedivano di domandarmi: “Il travestimento in eroismo delle am-bizioni che avevano animato i combattenti per la libertà, a questo dunque serviva?”.

Io non potevo ancora sapere a qual punto di corruzione la nazione italiana potesse giungere. Ma lo presentivo. Vedevo i protagonisti politici della Resistenza avvilirsi e a poco a poco spegnersi nell’accettazione dei riti della democrazia parlamentare. La tragedia diveniva commedia. Il mio Paese di adozione usciva dalla Storia e il mio Paese d’origine –Cuba- si pre-parava a rientrarvi, ma ciò sarebbe accaduto una decina di anni più tardi.

D’altronde l’insofferenza dei vincoli che trattenevano le donne dall’esprimere la loro volontà di azione, pesava vieppiù su di me. Tale insof-ferenza si era già espressa nel mio primo romanzo Nessuno torna indietro, ma non avevo più 27 anni come all’epoca della pubblicazione di esso.

L’esperienza della guerra e dell’impegno politico ave-vano resi ancor più intollerabili tali vincoli. L’eguaglianza della donna e dell’uomo di fronte al pericolo e alla morte era ormai divenuta palese per me.

Il passaggio delle linee del fronte sul fiume Sangro ave-va rafforzato irrevocabilmente tale convinzione. Sapevo ormai che un uomo può tremare e una donna restare impa-vida durante un bombardamento di artiglieria. In seguito la documentazione storica mi avrebbe reso edotta del supre-

Ricordo un presidente del consiglio sventolare un assegno americano come una bandiera: soltanto questo eravamo noi?

cultura e culture

140 I latinoamerica • 1/2 • 2012latinoamerica • 1/2 • 2012 I 141

Quando l’Italia perse le illusioni Alba De Céspedes

Tuttavia, la mia ascendenza cubana mi esorta a non separare la politica interna di un Paese dalla sua politica estera. E a privilegiare l’indipenden-za di esso e la legittimità del suo governo quali garanzie superiori della sua libertà. E’ quanto io ho potuto desumere oltre che dall’esempio eroico della morte in combattimento di mio nonno Carlos Manuel de Céspedes y del Castillo, padre della Patria cubana e liberatore degli schiavi, altresì dall’insegnamento di mio padre Carlo Manuel de Céspedes y de Quesada, presidente della Repubblica cubana, morto nel 1939. Le sue parole a tal proposito mi sorprendevano nei più giovani anni quando io le ascoltavo ed ero ancora inesperta. Le prove del vivere mi avrebbero chiarito il senso delle parole di mio padre quando egli mi diceva che, a difesa della libertà e degli interessi della Patria, il cittadino poteva anche affrontare la prigione e la morte. Oggi Cuba la mia patria (ho la doppia cittadinanza come ogni donna cubana sposata con uno straniero) è strangolata da un blocco eco-nomico iniquo che dura da trent’anni e la sua nobile, integerrima Guida dileggiata e discreditata dai mercenari della stampa occidentale.

Oggi, io, donna al crepuscolo della mia vita, ritorno sempre nel pen-siero ai miei giovani anni e alle loro fervide speranze. Io non potevo capire come la libertà dei cittadini potesse conciliarsi con la perdita dell’indipen-denza della nazione; né comprendere come una nazione potesse ridursi a una filiale di un supermercato.

Così, con gli anni mi è sembrato di scoprire quanta illusione è nel ter-mine stesso libertà. Ho visto Cuba conquistare la propria indipendenza po-litica nel 1959 al prezzo della più feroce sanzione economica impostale per avere essa osato ambire a tanto. Ho visto l’Italia perdere la propria indipen-denza nel 1945 in nome di una libertà di cui io mi domando il senso oggi e

nel momento in cui una crisi di assestamento dell’economia mondiale mette in questione l’unità della nazione oltre che la prosperità e il lavoro degli italiani. Io mi domando anche qual senso abbia l’amore e se parlarne non sia un’ipocrisia o una prova di debolezza. Posso dire che in una donna anche dalle vicissitudini più deludenti la forza dell’amore emerge sempre come da una fonte inestinguibile.

Dalla parte di lei, pur nella sua tragica fine, voleva op-porsi a che l’amore fosse una illusione.

mo sacrificio compiuto da donne combattenti sia antifasci-ste che fasciste. Mi esasperava dunque, con il ritorno alla normalità, ritrovarmi nella condizione di subalterna che la società mi attribuiva in quanto donna.

Soltanto una donna poteva capire in quel tempo quan-to fosse irritante sentirsi sotto tutela. La libertà della quale io godevo, dovuta al mio buon successo letterario, confer-mava, come un’eccezione conferma la regola, la realtà della condizione femminile. Forse per una giovane donna di oggi

è difficile comprendere tutto ciò. Poiché una seconda economia fondata per più di 30 anni sullo stimolo alla domanda di beni ha aperto alle donne la porta del lavoro retribuito nelle attività private e nelle funzioni pubbli-che. La conquista di alcuni diritti fondamentali permetterà dunque a molte mie lettrici di non comprendere quale sarebbe stata la loro sorte nel 1948. In uno di quei giorni mi trovavo a Milano, alla Mondadori e il mio editore mi chiedeva ragguagli sul mio nuovo romanzo. Io gliene parlavo con la difficoltà che ogni autore prova nel parlare al suo editore del libro che sta scrivendo. A un certo punto gli dissi che si trattava di una storia d’amore vista però dalla parte di lei. Il geniale Arnoldo mi interruppe illuminandosi in viso e gridando: “Dalla parte di lei… dalla parte di lei”. Il titolo fu deciso così.

Già da un anno mi trovavo a Washington, all’Ambasciata d’Italia, ove avevo seguito mio marito. Parte del libro fu scritta in quella sede. Al mo-mento della pubblicazione di Dalla parte di lei, io ero ancora negli Stati Uniti e non potei seguire né il lancio del libro né le reazioni della stampa. Quale differenza con Nessuno torna indietro il cui lancio fu per me un’esperienza molto vicina all’entusiasmo. Rimasi negli Stati Uniti fino al 1952. E la rubri-ca con la quale collaboravo al settimanale Epoca si chiamò “Dalla parte di lei”. Lasciai senza rimpianto l’America maccarthysta di quegli anni d’inizio della guerra fredda per l’Unione Sovietica ove mio marito era stato trasfe-rito.

Nei brevi soggiorni che io passavo in Italia ritrovavo il Paese da me tanto amato, come sotto una cappa di piombo. Non si era ancora prodotto il “miracolo economico” e la lontananza rendeva ancor più struggente per me il riscoprire, ogni volta di più, che il Paese aveva perduto la propria in-dipendenza ed era divenuto politicamente quantità trascurabile. Gli anni Sessanta avrebbero dato molto agli italiani, con il miglioramento della loro condizione economica, l’illusione della libertà. Potrà sembrare severo que-sto mio giudizio poiché negli anni Sessanta e Settanta uomini e donne in Italia hanno lottato affinché venissero loro riconosciuti diritti fondamen-tali. Le vittorie riportate soprattutto dalle donne italiane in quanto alla equiparazione dei loro diritti, e dei compensi al loro lavoro, non possono lasciarmi indifferente. E così la battaglia vinta per il diritto al divorzio.

Il paese tanto amato era sotto una cappa di piombo, arrivava il miracolo economico ma ormai avevamo perso l’indipendenza...

...mentre Cuba conquistava la libertà a prezzo di feroci sanzioni economiche, strangolata da un blocco lungo e iniquo

1/2 • 2012 I 143

le sue idee nella pratica della sua vita, e per questo si schierò decisamente da una parte sola, quella dei poveri, come i suoi confratelli e colleghi Gérard Lutte e José Ramos Regidor: la risposta della Chiesa ufficiale fu la più ottusa repressione e l’espulsione di questi cristiani, colpevoli di voler essere fedeli al Vangelo, prima dall’Ateneo e poi dalla stessa Congregazio-ne salesiana.Il dolore profondo che gli provocò la rottura con la Chiesa istituzio-nale fu tramutato da Giulio Girardi in un’attività indefessa di ricerca teorica, di scrittura e anche di presenza fisica a fian-co dei popoli in lotta: dalla “inchiesta operaia” a Torino con la FIOM degli ultimi anni Settanta alla partecipazione da pro-tagonista all’esperienza del Sandinismo, fino alla sua amicizia con Fidel Castro e Cuba, con Rigoberta Menchù, con Hugo

Chávez, con la rivoluzione zapatista. I suoi libri hanno cambiato la vita a molti militanti cristiani e comunisti: ne ricordiamo solo alcuni: “Marxismo e Cristianesimo” (Assisi, Cittadella, 1968, ma con molte riedizioni); “Cre-denti e non credenti per un mondo nuovo” (Firenze, Vallecchi, 1969); “Cristianesimo, liberazione umana, lotta di classe” (Assisi, Cittadella, 1971); “Cristiani per il socialismo. Perché?” (Assisi, Cittadella, 1975); “Coscienza operaia oggi” (Bari, De Donato, 1980), “Rivoluzione popolare e occupazione del tempio. Il popolo del Nicaragua sulle barricate” (Milano, Edizioni Asso-ciate, 1989); “Dalla dipendenza alla pratica della libertà. Comunità di San Benedetto al Porto di Genova” (Roma, Borla, 1990); “La conquista dell’Ame-rica. Dalla parte dei vinti” (Roma, Borla, 1992), fino agli ultimi lavori dedi-cati alla figura del Che Guevara rivisitata dallo sguardo di un cristiano.

Sempre per puro spirito di servizio Girardi accetto anche di essere capolista di DP alle elezioni comunali di Roma e candidato per le elezioni europee; successivamente, aderì a Rifondazione Comunista a cui era iscrit-to, e a Rifondazione dedicò anche un suo ultimo scritto su “Liberazione” di incoraggiamento e consiglio mentre era già inchiodato a quello che sa-rebbe stato il suo letto di morte.

iulio Girardi è morto, dopo una lunga sofferenza seguita all’ictus da cui fu colpito alcuni anni or sono. Giulio si è spento nella casa di Bruno Bellerate che con la sua famiglia lo ha ospitato e accudito fraternamente per tutti questi anni e fino all’ultimo. Si è spenta così, nel silenzio, una delle intelligenze più generose e importanti del movimento rivoluzionario, un uomo mite e buono che ha dedicato la sua intera vita alla causa degli oppressi e alla lotta per la liberazione dei poveri, in particolare dei popoli che lui amava definire indio-afro-latino-americani. Resterà molto a lungo, crediamo, il suo contributo decisivo, prima al dialogo fra marxismo e cri-stianesimo e poi alla fondazione della teologia della liberazione.

Intellettuale profondo e coltissimo, Girardi, salesiano, insegnò per molti anni filosofia al Pontificio Ateneo Salesiano, e durante il Concilio Vaticano II fu chiamato a collaborare con il “Segretariato per i non creden-ti” del cardinale Koenig come esperto di marxismo e di ateismo (fra l’altro Girardi diresse per una casa editrice cattolica la monumentale “Enciclope-dia dell’Ateismo”).

Ma per Girardi era naturale la scelta di far proseguire coerentemente

G

cultura e culturelatinoamerica

di LiberaromaSito di libera informazione della Federazione della sinistra di Roma • www.liberaroma.it

uN CRISTIANo CoN I SoGNI DI GIuSTIzIA DI Che GuevARA

Addio a Giulio Girardi. Teologo, filosofo, docente universitario che, pur avendo partecipato al Concilio Vaticano II fu espulso dal Pontificio Ateneo Salesiano e infine sospeso a divinis per le sue prese di posizione sul marxismo. L’impegno con i “Cristiani per il socialismo” e il lavoro in Nicaragua e a Cuba

1/2 • 2012 I 145

cultura e culturelatinoamerica

iulio Girardi è uno studioso noto a coloro che si interessano di Terzo Mondo, di America latina, di cristianesimo e di marxismo. Il suo impegno sul Nicaragua si è tradotto nella pubblicazione di alcuni libri fondamentali per chi voglia studiare l’esperienza sandinista in quel paese. Ma da alcuni anni, da quando Cuba e la sua rivoluzione hanno perso “l’arroganza” del paese felice che ha conquistato il paradiso marxista contro tutto e tutti, Girardi ha rivolto la sua attenzione a quell’isola caraibica che ha, fra le sue tante caratteristiche, quella di una laicità e di una spregiudicatezza in materia religiosa che io credo sia all’origine di quella allegria di vita che tanto colpisce gli stranieri.

Girardi si presenta come un cristiano marxista, credente, militante, intellettuale che cerca una sintesi ideale e una collaborazione strategica fra quelle che giudica due grandi tradizioni della storia dell’umanità: quella cristiana e quella marxista. Credo che questa collocazione dell’autore e il patto che stabilisce con il suo lettore dichiarando il punto di vista da cui ragiona e scrive, sia il punto di forza dei suoi scritti - e di questo in partico-lare. Avvalendosi di uno stile didattico molto chiaro, l’autore pone dei

di Alessandra Riccio

GRecensione del libro di Giulio Girardi Cuba dopo la visita del Papa,

apparsa per la prima volta sul Latinoamerica n.66 del 1999

quesiti e cerca di dare delle risposte, e il più importante dei suoi quesiti parte dalla considerazione che alla fine del secolo e del millennio il comu-nismo sembra sconfitto mentre trionfa l’alleanza fra il liberalismo e il cri-stianesimo. Bisognerà dunque arrendersi alla loro vittoria definitiva? La dittatura del mercato non ammette alternative? L’ultima parola spetterà ai mercati o ai popoli? Per rispondere a queste domande epocali che riguarda-no il mondo intero, Girardi rivolge la sua analisi sulla piccola isola del Ca-ribe, l’isola di Fidel, che per lui è un laboratorio di straordinario interesse. A Cuba, sostiene Girardi, esiste un “marxismo cubano”, anche se ufficial-mente il credo comunista non ha mai ammesso varianti. La variante cubana nasce da José Marti e passa per Fidel Castro e per il Che ma si nutre anche di Marx, Engels e Lenin generando così un conflitto fra una tendenza uma-nista e popolare e una economicista e autoritaria. E’ interessante questa lettura interna al dibattito comunista a Cuba perché Girardi sa leggere con attenzione e rispetto i testi, per esempio quelli che riguardano il processo di “Rettificazione”, generalmente liquidato frettolosamente dagli analisti imbarazzati dall’anomalia cubana nel quadro di quello che fu il campo so-cialista. C’è indubbiamente una grande dose di “ottimismo rivoluzionario” in Girardi, ma non è infondato se è vero, come anche io credo, che la scelta di campo del governo cubano è quella che “oppone il punto di vista del popolo e dei popoli impegnati nella lotta di liberazione a quello della bor-ghesia e dell’imperialismo”.

Dopo aver stabilito questa scelta di campo, Girardi si interroga sull’atei-smo della rivoluzione cubana e auspica che la tematica religiosa venga af-frontata in termini autocritici e creativi, anzi, egli pensa che la visita del papa a Cuba abbia scatenato una profonda riflessione sia nei marxisti che nei cristiani cubani; non altrettanto ha fatto il papa, secondo Girardi, il quale pensa addirittura che in Fidel Castro vi sia un eccesso di ottimismo rispetto alle intenzioni del papa la cui idea centrale sarebbe, oggi, la critica al neoliberismo. Particolarmente interessante ho trovato l’individuazione di un contenzioso fra il papa e Fidel indicato da Girardi nelle due diverse letture della Conquista e dell’Evangelizzazione delle terre americane. Già nel messaggio di benvenuto di Fidel, sono risuonate chiarissime le parole di accusa al colonialismo, allo sterminio, allo sfruttamento, ma Girardi ci

spiega in modo convincente che non si tratta di semplice rivendicazionismo. Per Fidel e per la rivoluzione il marxi-smo è l’alternativa alla cultura della Conquista mentre per il papa l’evangelizzazione (con tutta la sequela di stragi, im-posizioni, censure?) è la radice della nazione cubana.

L’ultima parte di questo libro stimolante è dedicata alla questione delle religioni afroamericane per parlarci delle quali Girardi comincia con l’analizzare senza tabù la que-stione razziale a Cuba.

Analisi della piccola isola dei Caraibi e del peculiare marxismo che da Lenin a Martì oppone l’umanesimo all’autoritarismo

evANGeLIzzAzIoNe CoNTRo CoNQuISTA:CuBA Dopo IL pApA

L’alternativa alla cultura della Conquista è il marxismo, oppure, come ha detto Karol Wojtyla, c’è il Vangelo alla radice della nazione cubana? Il contenzioso tra Giovanni Paolo II e Fidel Castro al tempo della storica visita del Papa polacco raccontato da un testimone, cristiano e marxista, credente e militante come Giulio Girardi

1/2 • 2012 I 147

cultura e culturelatinoamerica

giorno dopo la partenza del papa, lunedì 26 gennaio, un gruppo di «te-ologi della Liberazione» fu invitato a cena da Fidel Castro, nei locali del consiglio di Stato, per scambiare impressioni e valutazioni su quanto ave-vamo vissuto. Pongo «teologi della Liberazione» tra virgolette, perché in realtà solo due di noi, Frei Betto e io, eravamo teologi; gli altri due, il bel-ga Francois Houtart e il brasiliano Pedro Ribeiro de Oliveira sono sociolo-gi della religione, per altro piena mente identificati con la teologia della Liberazione. Ma è significativo il fatto che l’interesse di Fidel per incon-trare il mostro gruppo nascesse dal fatto che ci considerava teologi della Liberazione. Frei Betto, vecchio amico personale del comandante, ci pre-sentò come la «banda dei quattro». Ag giunse che eravamo molto curiosi di conoscere le sue valutazioni degli ultimi avvenimenti. Fidel rispose che era lui a voler ascoltare noi. In realtà, egli parlò molto più di noi, ma ci ascoltò anche attentamente. Il colloquio durò quattro ore, dalle dieci di sera alle due del mattino: per cui ci fu spazio per tutti.

Con Fidel erano presenti alcuni alti dirigenti del governo e del Partito: Carlos Lage, coordinatore dei ministeri econo mici del governo; José Ramón Balaguer, membro del Buró Politico, responsabile dell’area ideologica; Caridad Diego, responsabile dell’ufficio Affari Religiosi del Comitato cen-trale del Partito; José Albezù Fraga, direttore del Dipartimento America del Comitato centrale; Feipe Pérez Roque e José Barrueco Miyar, membri del

di Giulio Girardi

Il

consiglio di Stato e collaboratori diretti di Fidel. Il comandante aveva anche invitato suo fratello Raul, secondo segretario del Partito e vicepresidente del Consiglio di Stato; ma egli compiva trentanove anni di matrimonio e ci salutò dicendo che doveva andare a festeggiarli in famiglia. Le autorità invitate non intervennero nel dibattito; ma la loro presenza attestava l’im-portanza che Fidel attribuiva all’incontro.

Trovammo un Fidel estremamente disteso, vivace, brillante che, no-nostante la solennità della sede, creò subito tra noi un clima di fiducia, di schiettezza e di amicizia. Devo precisare che non abbiamo registrato la conversazione né abbiamo preso appunti (sarebbe stato difficile, e magari scorretto, farlo durante la cena). Per cui le cose che dirò si basano sui miei ricordi e su quelli dei miei compagni di avventura. Le citazioni non sono mai letterali, ma credo di poter garantire, sostanzialmente fedeli. Debbo aggiungere che ho incluso nel resoconto dei nostri interventi anche alcu-ni rilievi che avevamo fatto pervenire al comandante per iscritto, prima dell’incontro.

Il successo della visita papale, una vittoria della RivoluzioneFidel ha cominciato facendo un bilancio decisamente positivo della visita papale: è stata, ha detto, una vittoria della Rivoluzione, sia all’interno sia all’esterno. Questa valutazione si fondava sulla coscienza di aver dato un contributo decisivo al successo della visita sia attraverso i suoi interventi personali sia attraverso la mobilitazione del Partito e delle altre organizza-zioni di massa.

Fidel era perfettamente informato dell’impegno con cui la Chiesa cat-tolica aveva preparato la visita, anche attraverso un’azione porta a porta. Sapeva anzi che una sua sorella, cattolica militante, aveva visitato più di settecento famiglie. Egli però era convinto che la maggioranza della popo-lazione fosse stata coinvolta nelle manifestazioni dalle organizzazioni di massa, oltre che dai suoi interventi televisivi.

A noi è sembrato che il papa non fosse stato informato di questo sforzo di persuasione e di organizzazione compiuto dalla Rivoluzione per cui si ri-volgeva spesso ai presenti nelle varie piazze come se fossero stati tutti cat-tolici, mentre la maggioranza non lo era. E’ anche probabile che la Chiesa

locale abbia cercato di attribuirsi, agli occhi del papa, il merito principale di questa mobilitazione popolare. Non è escluso anzi, che l’abbia interpretata come tacita polemica contro la Rivoluzione, attribuendo all’insieme dei presenti quello che era il sentimento di una minoranza.

All’interno, ha osservato Fidel, abbiamo verificato (se fosse stato necessario) la piena governabilità del paese. Abbiamo verificato (se fosse stato necessario) il consenso po-polare di cui gode la Rivoluzione e che è stato recentemen-

La visita del pontefice è stata un successo per la Rivoluzione, confermando la governabilità di Cuba nei momenti delicati

Brano tratto da libro di Gianni Minà Il Papa e Fidel, un inatteso dialogo di fine secolo, Sperling & Kupfer Editori, Milano 1998

QuATTRo TeoLoGI e uN pReSIDeNTeA RAppoRTo Su wojTyLA

Il giorno successivo alla partenza di Giovanni Paolo II dall’Avana, Fidel invitò a cena, insieme ad alcuni membri del consiglio di stato, un selezionato gruppetto di teologi della liberazione. Per capire cos’era successo conla visita del pontefice, cosa sarebbe poturo succedere e cosa poteva succedere ancora. Il racconto di uno di loro

148 I latinoamerica • 1/2 • 2012latinoamerica • 1/2 • 2012 I 149

Giulio Girardi

che si era verificato nell’Europa orientale, una prova evidente del consenso popolare di cui gode la Rivoluzione. In realtà, ha proseguito, le condizioni per un golpe c’erano tutte: la gente nelle piazze e per le strade, in stato di ef-fervescenza; discorsi apertamente polemici nei confronti della Rivoluzione pronunciati nelle principali piazze e trasmessi per televisione al paese e al mondo; la possibilità offerta ai dissidenti di verificare il consenso di cui go-dono nella maggioranza della popolazione, coinvolgendola nella loro pro-testa; totale assenza di militari o di altre forze armate capaci di reprimere un’eventuale sollevazione; più di tremila giornalisti e numerose reti tele-visive di tutto il mondo, in maggioranza nordamericani, che hanno avuto piena libertà di circolare, di riprendere, di interrogare la popolazione, di farsi portavoce del malcontento popolare; giornalisti e televisioni pronti a diffondere nel mondo intero qualunque segnale di ribellione e desiderosi di trasformare il colpo di stato in un colpo giornalistico. Sono stati sorpresi e molti di loro delusi dalla realtà dei fatti: non un solo incidente, non un solo moto di ribellione, non un solo disordine per tutti i cinque giorni.

Fidel non ha citato tra le condizioni del golpe - ma noi sapevamo da altra fonte - la presenza di sedici funzionari del dipartimento di Stato degli Stati Uniti, sbarcati all’Avana una settimana prima del papa e ripartiti una settimana dopo di lui: pronti quindi ad assicurare la “transizione democra-tica”.

La nostra valutazione: due livelli della visita papaleAbbiamo detto a Fidel che nella nostra valutazione della visita avevamo di-stinto nettamente due livelli: da un lato l’avvenimento di questo incontro fra il papa e il popolo cubano, con la sua carica emotiva, dall’altro i conte-nuti intellettuali dei suoi discorsi. Un incontro gioioso, cordiale, affettuoso, che si era tradotto in una grande festa popolare; e un insieme di discorsi fortemente polemici. Ritenevamo che in questi giorni il clima del paese fosse stato segnato specialmente dall’aspetto gioioso e festivo della visita, anche perché probabilmente la maggioranza della popolazione non era in grado di cogliere la portata polemica dei discorsi papali, pronunciati sem-pre con toni pacati e con un linguaggio astratto. La gente, avevamo potuto constatare, era colpita soprattutto da questa figura carismatica, da questa

persona anziana e ammalata, e al tempo stesso vivace e co-municativa, che si era sottoposta a un viaggio così faticoso per incontrare il popolo cubano. Il sentimento largamente prevalente nei riguardi del papa era di viva simpatia. Solo per una minoranza la simpatia per il papa era associata a una contestazione della Rivoluzione. La simpatia era anche favorita dalla convinzione che egli avrebbe condannato l’embargo nordamericano, cosa che fece nel suo ultimo di-scorso in termini inequivocabili. Abbiamo riferito a Fidel la

cultura e culture

Quattro teologi e un Presidente a rapporto su Wojtyla

te confermato dalle elezioni politiche. Abbiamo dimostrato fiducia nelle nostre idee, esponendole a un pubblico con-fronto. Invitando il papa, sapevamo di correre un rischio. Lo abbiamo fatto con fiducia nella maturità del nostro po-polo. Ho assunto personalmente la responsabilità di questa decisione e ho chiesto al popolo di darci fiducia; a questo invito, il popolo ha risposto pienamente, con un comporta-mento caloroso, disciplinato e tollerante. Abbiamo evitato qualunque presenza di militari che potesse controllare o

condizionare il comportamento della gente. Abbiamo vietato il porto d’ar-mi in pubblico per tutta la durata della visita del papa, anche a coloro che ne hanno l’autorizzazione. La gente doveva sentirsi libera, poter reagire con spontaneità ai messaggi dell’illustre ospite.

L’intervento più virulento contro la Rivoluzione, quello dell’arcive-scovo di Santiago monsignor Meurice nel suo saluto al papa, si è rivolto anch’esso, ha osservato Fidel, in una vittoria della Rivoluzione: è stato for-temente valorizzato da Radio Martì di Miami, ma ha suscitato un coro di proteste, indignate ma rispettose, in tutto il paese. Nella stessa Santiago, la protesta popolare è consistita nell’abbandono silenzioso della piazza, da parte della maggioranza dei presenti, alla fine di quell’intervento. Il papa ha probabilmente avvertito la reazione della gente; e forse per questo ha omesso nel leggere l’omelia, una frase particolarmente offensiva presente nel testo scritto: “Antonio Maceo, il grande patriota orientale, diceva: “Chi non ama Dio, non ama la Patria”. Fidel ha apprezzato il gesto cavalleresco di suo fratello Raul che, presente alla cerimonia, all’uscita della messa ave-va invitato monsignor Meurice a salire sul suo autobus per andare all’ae-roporto: lo aveva fatto non solo per cortesia, ma anche per proteggerlo da possibili reazioni della gente.

Ci siamo interrogati a lungo sulla rappresentatività dell’intervento di monsignor Meurice: in che misura si è trattato di una iniziativa personale e in che misura di una divisione di compiti tra i vescovi cubani? Ci è parso che, quanto al contenuto, l’intervento fosse largamente rappresentativo della valutazione che i vescovi cubani campioni della Rivoluzione; ma che l’opportunità di un pronunciamento così crudo, sulla scena internaziona-le, nel momento in cui si cerca di sviluppare il dialogo con il governo, non fosse condivisa da tutti. Interpretavamo in questo senso il tono conciliante del saluto che il giorno seguente, in Plaza de la Revolución, il cardinale Ortega aveva rivolto al papa.

Le condizioni per un golpe c’erano tutteAll’esterno, ha detto Fidel, abbiamo offerto al mondo, in particolare a colo-ro che speravano di assistere a una “caduta del muro” sullo stile di quello

I due livelli della visita papale: il gioioso evento di popolo e il contenuto dei discorsi polemici, ma pronunciati sempre in toni pacati

Il crudo discorso del vescovo di Santiago: Fidel apprezzò che Raul avesse deciso di “scortare” monsignor Meurice nella sua auto

il Vaticano e la Chiesa cattolica locale, si può legittimamente dedurne che questo era ed è, anche per essa, l’obiettivo a medio termine della visita papale e della sua azione pastorale. La recente dichiarazione rende così più chiaro il significato di quella “speranza” cui la Chiesa si riferiva quando annunciava l’arrivo del papa come “messaggero di verità e di speranza”.

Rileggendo, alla luce dell’ultima dichiarazione, le parole con cui Fidel Castro si è congedato da Giovanni Paolo II, si rimane sconvolti: “Era cru-delmente ingiusto”, dichiarava indignato il comandante, “che il suo viag-gio pastorale fosse associato alla meschina speranza di distruggere i nobili obiettivi e l’indipendenza di un piccolo paese bloccato e sottoposto a una vera guerra economica da quasi quarant’anni”. Allora, questa interpreta-zione “crudelmente ingiusta” era obiettiva.

cultura e culture

latinoamerica • 1/2 • 2012 I 151

testimonianza, a nostro giudizio emblematica, di una com-pagna da noi intervistata in Plaza de la Revolución dopo la messa, la quale aveva formulato una valutazione estrema-mente positiva di questa esperienza, concludendo: “Viva il papa! Viva Fidel!”.

Questa distinzione di livelli ci aveva anche permesso di cogliere le differenze e le convergenze rispetto alla visita del papa in Nicaragua. La differenza principale consisteva nel fatto che in Nicaragua quella diversità di livelli non si

era verificata: alla condanna politica e teologica della Rivoluzione aveva corrisposto un tono decisamente aggressivo e un volto costantemente cor-rucciato. Per cui quella visita era stata caratterizzata, all’interno e sul piano internazionale, da uno scontro fra il papa e la Rivoluzione sandinista; e la Chiesa cattolica locale ne aveva fatto un’arma nella sua guerra fredda, a livello nazionale e internazionale, contro la Rivoluzione.

Noi sapevamo che Fidel si era impegnato a fondo nella preparazione della visita papale anche per evitare che essa si svolgesse in modo analogo a quella del Nicaragua. Aveva insistito perché il popolo cubano desse prova di maturità, accogliendo calorosamente il suo ospite e ascoltandolo rispet-tosamente anche quando avrebbe detto cose a esso sgradite. Conclusa la vi-sita, Fidel aveva ragione di essere fiero del risultato ottenuto. Proseguendo nella nostra valutazione, prevedevamo che sul lungo periodo avrebbero ac-quistato un rilievo prevalente i contenuti polemici dei discorsi del papa: la chiesa locale li avrebbe valorizzati, ponendoli alla base della sua catechesi e della sua lotta per l’egemonia. Questa previsione è stata poi decisamen-te confermata dalla dichiarazione rilasciata dal pontefice a Roma nel suo incontro con pellegrini polacchi, ai quali disse sostanzialmente: “La visita a Cuba mi ha ricordato la mia prima vista in Polonia; e spero che produca frutti analoghi”.

Che il crollo del comunismo fosse l’obiettivo a lungo termine della sua visita e di tutto il suo pontificato era evidente fin dall’inizio per quanti conoscono il suo pensiero. Ma con questa dichiarazione egli ne svelava anche gli obiettivi a medio termine, fornendo una nuova chiave di inter-pretazione sia della visita nel suo insieme sia di ognuno dei suoi discorsi. Non si trattava per lui solo di rafforzare la Chiesa locale, ma di contribuire direttamente al crollo del regime: beninteso, senza entrare in politica!

Questa esplicitazione degli obiettivi obbliga anche a ridimensionare l’importanza che molti osservatori e le stesse autorità cubane avevano at-tribuito al tono pacato con cui si erano espressi il papa e quasi tutti i ve-scovi, interpretandolo come espressione di una nuova apertura al dialogo sulle cose. Si tratta in realtà di una nuova tattica di lotta, considerata oggi più efficace.

Data poi la stretta collaborazione che vi è stata in tutti questi mesi tra

150 I latinoamerica • 1/2 • 2012

In Nicaragua il papa si era scontrato con i sandinisti e la chiesa locale ne aveva approfittato. A Cuba no

Giulio GirardiQuattro teologi e un Presidente a rapporto su Wojtyla

1/2 • 2012 I 153

llora: quando ti sveglierai alle quattro di mattina e via in fabbrica a timbrare il cartelli-no, lì potrai parlare”. Fabio Varnerin, metal-

meccanico genuino della Valtramontina, uno splendido angolo del Friuli nordoccidentale, ha pronunciato questa frase almeno una volta ogni cinque minuti, diretta scher-zosamente verso chiunque durante la nostra intermina-bile discesa dalla sede Cgil di Pordenone verso Roma, la notte di giovedì 8 marzo 2012. Insieme ai salami e alle bottiglie di vino, questa frase suonava ovviamente canzo-natoria: quei ragazzi preferiscono, fra numerosi e imman-cabili discorsi sanguigni, cercare di ironizzare il più possibile sulla loro attuale condizione sulla quale, sono consapevoli, c’è ben poco da ridere. «Mio padre faceva l’operaio – continua Fabio con il consueto sarcasmo – e io da piccolo pensavo: per fortuna che le lotte per i dirit-ti le hanno fatte loro negli anni ‘70, per quando inizio a lavorare anch’io è tutta in discesa. Invece eccoci qui. Che ore sono? Le cinque di mattina? Se non scioperavo a quest’ora ero già in piedi da un’ora. Tira leva, fsss – bum, fsss – bum. E allora perché lavoro? Per iscrivermi alla Fiom e fare otto ore di autobus per scendere oggi giù a Roma con voi».

Sebbene la capitale sia satura di cortei e, addirittura io a venticinque anni, possa già dire di averne visti tanti, il 9 marzo scorso ho percepito un senso profondo, avver-tito nelle parole che si scambiavano gli operai in marcia,

di David Angeli

“AGiornalista. Laureato in Storia dal Medioevo all’età contemporanea

all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia

RoMANzo popoLARe MeDITeRRANeo ANTIGoNe è TeSSeRATA ALLA FIoM

cultura e culturelatinoamerica

Il palco della manifestazione dei metalmeccanici come quello di Sofocle venticinque secoli fa: le ragioni del diritto contro quelle della legge in apparenza ferrea e indistruttibile che ci sta portando tutti alla rovina

Sarajevo, Bosnia 1994 – Abitanti della capitale bosniaca costretti a rischiare la vita per procurarsi una tanica d’acqua

154 I latinoamerica • 1/2 • 2012latinoamerica • 1/2 • 2012 I 155

David Angeli

forma che in quella parte del mondo c’è un popolo che combatte contro le multinazionali e la distruzione del proprio territorio in nome dei petroldol-lari e dello”sviluppo”.

La voce energica di Yannis Stefanopulos, segretario del Poem, il sinda-cato metalmeccanico greco, tuona dal palco di piazza San Giovanni quello che sta succedendo ai lavoratori del suo paese e descrive come “ossigeno” per la resistenza della Grecia la mobilitazione dei lavoratori italiani.

Quel palco, in quel momento, me ne ha ricordato uno molto più antico, sul quale Sofocle fa parlare Antigone, che da venticinque secoli rappresen-ta la ragioni della sua gente contro il potere forte. Antigone, figlia del de-funto re edipo, contravviene agli ordini dello zio Creonte seppellendo il fratello Polinice, reo di aver mosso guerra alla città di Tebe e assassinato il fratello Eteocle che la difendeva. La legge di Creonte parla chiaro: chiunque si renda colpevole di crimini contro la patria non dovrà ricevere degna se-poltura, non potendo così raggiungere l’aldilà.

La figura di Creonte è stata spesso utilizzata come allegoria della lex, la dura legge codificata che non può essere in alcun modo contraddetta o al-terata, ma soltanto applicata con il massimo rigore e freddezza. Antigone rappresenta invece lo ius, il diritto che scaturisce dai sentimenti e che si contrappone alla legge ferrea. La ragazza vuole dare degna sepoltura anche a Polinice, il fratello nemico di Tebe.

Il capitalismo, l’idea dei folli che governano il nostro mondo che non ci sia alternativa all’imporre sacrifici durissimi alle nazioni che guidano per salvare lo spettro di un sistema economico morto ormai da decenni, non può essere altro che lo stesso Creonte. Lo stesso Creonte che sfida in modo ostinato gli dei per applicare la sua legge, peccando di hybris, quella traco-tanza che lo porterà a causare la morte di Antigone e di Emone, suo figlio e promesso sposo della ragazza, entrambi suicidi a causa dell’irragionevo-lezza politica del padre. Creonte vedrà morire suicida anche la moglie Eu-ridice ritrovandosi a piangere per la sua incapacità di interpretare la real-tà.

Lo spirito di Antigone rivive ancora una volta nel popolo greco quando sfida questa maledetta e incomprensibile legge ferrea che sembra non si possa cambiare nemmeno quando tutto continua a dimostrare che è sba-

gliata e insensata. Più precisamente, senza che un ristretto numero di creonti se ne renda conto.

Il Creonte capitalista ha infatti condannato a morte Antigone, rea di seguire il suo volkgeist che la porta a disob-bedire alle sue dure e dissennate leggi. Questo Creonte contemporaneo si distingue però da quello classico e tratta il Tiresia che lo mette in guardia come i troiani trattavano Cassandra. Il nuovo Creonte non sembra aver nessuna in-tenzione di ascoltare gli avvertimenti del vecchio indovino

cultura e culture

Romanzo popolare mediterraneo, Antigone è tesserata alla Fiom

nei discorsi, nell’orgoglio che non nascondevano di far par-te di una categoria che sta affrontando a testa alta le folli logiche di un sistema economico morente. Un altro ragazzo mi ha raccontato di essere stato redarguito dal datore di lavoro, il paròn in friulano, perché fa troppi straordinari. Dice che dovrebbe lavorare nove ore invece che dodici man-tenendo lo stesso livello di produzione: lavorare di più per guadagnare meno, in sostanza. E silenzio.

Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom, nei suoi oltre quaranta minuti di discorso è stato uno dei pochi relatori a non tenere un comizio, a non usare le solite parole magiche utilizzate dai poli-tici di turno per imbonirsi la folla. Landini non ha sciorinato nemmeno l’ormai abusata parola “compagne/compagni”, ma è salito sul palco ed ha iniziato a dare risposte concrete, non a ipotizzare soluzioni utopiche. È stato l’unico a parlare di riconversione dell’economia, a dire chiaramente che non si può continuare sfoggiare assurde promesse di crescita quando è palese che non possano essere mantenute, perché questo granello di sabbia nell’universo non è infinito. Quell’ex-operaio classe 1961, contrariamente ad altri che tanto parlano e poco fanno (allora: quando ti sveglierai alle quattro...), la fabbrica l’ha vista e non ha perso tempo a usare “parole ma-giche”, ha parlato da pari a una folla che non era lì in adorazione di un le-ader ma ad ascoltare il discorso di un collega, di un compagno nel senso etimologico del termine, che ha promesso ancora una volta «non vi lasce-remo mai soli». Da far scendere le lacrime.

È bene prendere atto di questo popolo, perché sta qui, esiste, ne faccia-mo parte tutti e ci stiamo stancando di far finta di niente. In Italia, il paese che, diceva il maestro Mario Monicelli, non ha mai fatto una Rivoluzione, non ci aspettavamo certo le guerre dell’acqua o del gas andine, ma abbiamo avuto una risposta potente, dai referendum di maggio 2011 alla resistenza della Fiom, dagli operai di Melfi e Pomigliano allo sciopero del 9 marzo 2012. Passando attraverso le centinaia di presidi e comitati grandi e piccoli che crescono come funghi su tutto il territorio nazionale.

Questo popolo pare non aver intenzione di fermarsi, stavolta non farà un passo indietro nemmeno per la rincorsa. Poco importa se la stampa filo - status quo continua a mistificare la realtà dipingendo come criminali i pa-cifici No Tav valsusini. Poco importa se alla manifestazione della Fiom del 9 marzo hanno dato la stessa rilevanza di un reparto di pompieri che salva un gattino rimasto intrappolato su un albero. Poco importa se, secondo quella stampa, è assolutamente necessario strozzare la Grecia e i greci come i serpenti strozzavano quel Laocoonte che avvertiva i troiani del nemico nascosto dentro il noto cavallo, senza nemmeno provare a informare sulle vie alternative alla massacrante cura della troika. La stessa stampa che parla, fra le tante cose, con orrore dei rapimenti nel delta del Niger, ma non in-

Sembra quasi che un Creonte capitalista sia pronto a quasiasi sacrificio per salvare i resti di un sistema morto da decenni

L’operaio italiano parla di riconversione e del mito della crescita. Quello greco ringrazia:“voi siete ossigeno per le nostre lotte”

156 I latinoamerica • 1/2 • 2012

Romanzo popolare mediterraneo, Antigone è tesserata alla Fiom

e del coro.Il popolo greco è sceso in piazza negli ultimi mesi e la

città di Atene, da cui nasce la nostra cultura occidentale, finisce continuamente in fiamme. Tutto ciò rappresenta la rivincita della piccola Antigone, che fa la voce grossa e non ha intenzione di fermarsi davanti a niente e nessuno. Questa volta però, l’ennesima rappresentazione teatrale della tra-gedia sarà modificata dallo stesso popolo che ha dato i na-tali al genere, dalla stessa Antigone. Adesso nessun re di

Tebe la potrà fermare, nessun dio sarà lì a imporre la sua volontà. Sofocle è pronto a essere modificato e le dinamiche della tragedia a essere stravolte scomodando anche il caro Aristotele, che non se ne avrà a male, perché vorrebbe dire che sarà ancora una volta la sua gente a dare insegnamenti in questo mondo di attori infuriati.

Ho affrontato le otto ore che mi hanno riportato a casa con l’immagine di Antigone in tuta blu davanti agli occhi e la soddisfazione di aver visto qualcosa muoversi veramente. Si percepiva in tutti i brandelli di discorsi sentiti una forte consapevolezza: quelle persone erano lì perché davvero ci credevano e sono disposti a non fermarsi più, per difendere i loro diritti e la loro dignità.

Dovrebbe renderci tutti più ottimisti considerare che, in Bolivia, un sindacato sostenuto dalla comunità, dal popolo, ha davvero spostato su di-versi binari la storia recente del Paese contribuendo al processo di emanci-pazione di un intero continente. Chissà che questo romanzo popolare contemporaneo, che ha visto persone provenienti da tutta Italia (finalmen-te davvero unita, da Termini Imerese alla Val di Susa), non rappresenti l’inizio di una primavera diversa i cui esiti politici sono tutt’altro che scon-tati. I miei compagni di viaggio friulani pare siano già dell’idea che, l’unico degno di essere chiamato veramente “paròn” con il rispetto dovuto, da que-ste parti sia il giuliano Nereo Rocco.

In Bolivia un sindacato sostenuto dal popolo ha davvero spostato su binari diversila storia recente del paese e del continente

amicilibri

158 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 159

cultura e culture libriLatinoamerica

‘Dopo aver buttato via moltissimi racconti che mi sembravano scritti da un secondo Cortázar, meno bravo di lui, mi decisi a raccoglierne alcuni in un libro’ mi disse Sepúlveda una sera a Gijón. ‘E lì imparai che il genere che più mi piaceva, quello in cui mi sentivo più a mio agio, era il genere più difficile: il racconto breve. Quando scrivi un romanzo, a volte può succede-re che i personaggi ti sfuggano per un po’ di mano, e va benissimo, a patto che poi tu riesca a recuperarli e a ricondurli sul sentiero prestabilito. Nel racconto, non può accadere neanche questo, non ne hai il tempo e la pos-sibilità, eppure in quel genere mi sento a mio agio perché la sfida è terribi-le: il racconto è narrazione pura.’ Ed è forse nel racconto che Sepúlveda dà il meglio di sé, grazie al suo gusto per le immagini pennellate con estrema cura, alla sua capacità affabulatoria ed evocativa. Avere sotto mano, in un unico volume, tutte le sue narrazioni brevi consente dunque al lettore di apprezzare ancora meglio queste sue virtù, viaggiando con maggiore como-dità nei suoi microuniversi che si svolgono negli scenari più remoti e diver-si, dalla Patagonia al Nicaragua, da Amburgo al Cile. Percorrendo d’un fiato questi paesaggi, ci si renderà anche conto dell’evoluzione dell’autore cileno, fino ai racconti più recenti, in cui la voce di Luis Sepúlveda diviene incon-fondibile e imperiosa come un marchio di fabbrica.”

(Dall’Introduzione di Bruno Arpaia)

«Siamo di fronte a un libro imprescindibile per la conoscenza della storia, gli antecedenti, le testimonianze, le prove di uno degli eventi più crudeli e perversi del nostro continente: l’internazionale del terrore che con il nome di Piano Condor, Operazione Condor o Operativo Condor ha prodotto una tragedia continentale senza precedenti. Il libro rivela senza ambiguità, basandosi su dati e fonti precisi, le origini di un patto criminale che, negli anni Settanta e Ottanta, unì le dittature del Cono Sud attraverso il filo conduttore della “teoria della sicurezza nazionale” degli Stati Uniti. Con il pretesto della “lotta anticomunista” e in favore della “civilizzazione occidentale e cristiana”, secondo quanto dichiarato dagli stessi criminali, si commise un vero e proprio genocidio. Da parte degli stessi poteri, si pianificò inoltre quell’impunità che finalmente è stata spezzata grazie alla tenacia delle madri – e degli altri familiari delle vittime –, degli avvocati, dei

giornalisti e delle organizzazioni umanitarie che non si sono dati tregua.L’Operazione Condor fu lo specchio tragico di altri patti dello stesso tipo, quali l’Operazione Fenix in Asia. In questo libro, i dati si intrecciano, supportati sia dalle numerose indagini anteriori che dalle nuove tragiche scoperte, come il ritrovamento degli archivi della dittatura di Alfredo Stroessner in Paraguay. Attraverso un linguaggio chiaro e preciso - essenziale in questo tipo di ricerca – viene portata alla luce l’alleanza criminale sviluppatasi attorno alle nostre esistenze. Le vittime erano cinicamente chiamate “bersagli” dai loro assassini. Questo libro – come ha precisato l’autrice – non è che un inizio, la porta socchiusa attraverso la quale è necessario addentrarsi per meglio comprendere quali atroci conseguenze possano derivare da certe temibili alleanze, o meglio, da quei veri e propri patti criminali che tuttora continuano a rappresentare una concreta minaccia per il nostro futuro. Malgrado il prezzo inestimabile pagato dall’umanità, l’impunità permette ancora al Condor di incombere su di noi sfiorandoci subdolamente con i suoi artigli».

(Dall’Introduzione di Adolfo Pérez EsquivelPremio Nobel per la Pace 1980)

Luís Sepúlveda

Stella Calloni

Tutti i racconti

Operazione Condor. Un patto criminale

Guanda Editore, Parma, 2012, pagg. 240, Euro 18,50

Zambon editore, Verona 2010, pagg. 416, euro 15.00

“Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi rimarrà indifferente;

e infine uccideremo gli indecisi” Generale Iberico Saint-Jean A volte la difesa dei diritti umani resta una dichiarazione sulla carta. Accade che i diritti sono in primo piano finché non entrano in conflitto con interessi forti, economici o politici. In questi casi le norme si ripiegano, diventano una mera enunciazione formale che decade di fronte alla legge della realpolitik. Chi si oppone a questa logica è considerato un ingenuo, una persona poco realista, un utopista. Lo studio del caso argentino è em-blematico per la vastità, efferatezza e durata della violazione. La scomparsa di migliaia di corpi gettati vivi in mezzo al mare, i campi di concentramen-to e sterminio diffusi in tutto il territorio, l’uso sistematico e programmato della tortura fanno riferimento a un piano preciso che va oltre l’eliminazio-ne degli avversari. I desaparecidos sono parte di una tecnica che pretendeva annullare il passato e riscrivere la storia.Affari nostri analizza le dinamiche dei rapporti tra Stati, in presenza di vio-lazioni sistematiche dei diritti umani in atto in uno di essi. Capire processi

Claudio Tognonato [a cura di]Affari nostriDiritti umani e rapporti Italia-Argentina 1976-1983Fandango,

Roma, 2012, pagg. 176, Euro 20,00

160 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 161

cultura e culture libriLatinoamerica cultura e culture libriLatinoamerica

logia emancipatrice contro le correnti annessionistiche, riformiste e mitifi-catrici presenti nella storia della nazione cubana. La seconda apre il fuoco sui miraggi seducenti dei simboli e del modo di vita con cui il capitalismo pretende di cooptare le generazioni emergenti. Gli articoli della terza sezio-ne analizzano lo smontaggio e l’annullamento dei valori umanisti da parte degli ideologi del capitalismo e mirano alla cura e alla prevalenza della di-gnità, della solidarietà e dell’altruismo come valori sostanziali nei proces-si di trasformazione rivoluzionaria. Nel sintetizzare il contenuto del libro corro il rischio di ridurre la portata dei ragionamenti di Ubieta. In realtà, le trame su cui si organizzano è molto più complessa e contraddittoria dato il carattere di un dibattito ideologico nel quale pure si presentano, dall’altra sponda ma anche dalla nostra, diversi travestimenti e simulazioni volti a confondere, disarmare, smobilitare o modellare le coscienze. Eppure oso dire che al fondo di ognuno di questi saggi si nota la necessità di smasche-rare le false dicotomie dei conflitti reali con cui ci scontriamo. A coloro che oppongono in maniera metafisica e interessata, tradizione e rinnovamento, masse e individui, libertà e responsabilità, emozione e comprensione, rivo-luzione ed evoluzione, l’autore risponde con argomenti dialettici, e mette in rilievo i conflitti reali che dobbiamo salvare nel cammino verso la costru-zione socialista.A partire da questi ragionamenti, Ubieta conclude: “Quel che segna la dif-ferenza fra le parti è la direzionalità dei loro discorsi e della loro opera. L’anticapitalismo deve condurre verso una società più umana e razionale, anticonsumista, sostenibile, di uomini e donne colti, dignitosi e liberi. E in paesi poveri come Cuba, è una dicotomia che comporta un’altra conseguen-za: il carattere alternativo della strada scelta è l’unica garanzia dell’indipen-denza nazionale e viceversa. Cioè che dopo, o prima, di aver percorso tutti i colori dell’arcobaleno, bisogna sapere che socialismo e indipendenza a Cuba sono inseparabili”.Pur se di un certo interesse, la parte più debole è quella che azzarda la com-prensione del fenomeno che ha a che vedere con la moda, le tendenze e la condotta dei più giovani e con l’interpretazione simbolica dello scenario della capitale nel passaggio di secolo. Proprio lì l’autore abbandona il discor-so saggistico e si lascia portare dalla soggettività del cronista osservatore. E lì che viene a mancare l’applicazione degli strumenti sociologici di rigore.Ma questo non toglie forza e convinzione al corpo delle idee. Il libro avanza a misura in cui va rispondendo a interrogativi e rompendo schemi in una evidente scelta gramsciana. Perché si tratta di conquistare spazi per l’eser-cizio dell’egemonia rivoluzionaria. “E’ una responsabilità –afferma Ubieta- che nasce dal posto che occupa questa nazione nella mappa geopolitica fra i due secoli: l’isola dell’Utopia, come la intravide Tommaso Moro, è stata ed è Cuba, la cui semplice esistenza nella Rivoluzione, ci avverte che un mondo diverso, migliore, è possibile”. (Alessandra Riccio)

Cade a proposito il libro di Enrique Ubieta, Cuba: ¿revolución o reforma?. L’autore, filosofo di formazione, editore e giornalista in servizio, è noto per essersi situato, negli ultimi venti anni, al centro del dibattito ideologico sulla Rivoluzione cubana e sui movimenti sociali che hanno cambiato lo spettro politico della regione.La sua difesa delle posizioni rivoluzionarie si basa sull’eredità del pensiero critico marxista e dell’orientamento etico martiano, e si orienta sulla linea fidelista e guevariana dell’argomentazione, dell’analisi obbiettiva della re-altà e dell’irrinunciabile impegno per la giustizia.Anche se la maggior parte dei testi inclusi nel volume sono stati scritti indi-pendentemente e in molti casi a seguito di determinate congiunture e svol-te del dibattito in questione, si articolano in un corpo organico come anelli di un discorso saggistico includente, che va da quello che in un determinato momento era considerato come un pensiero controcorrente nel mezzo del trionfalismo imperiale dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo del so-cialismo europeo fino alla soglia delle fortezze ideologiche che sorreggono la fattibilità e la necessità del socialismo nel secolo XXI.Il libro è diviso in tre sezioni. Nella prima si parla dello scontro dell’ideo-

Enrique UbietaCuba: ¿revolución o reforma?

Casa Editora Abril, La Habana, 2012

storici, protagonisti, complici, strutture politiche ed economiche che hanno reso possibile il protrarsi di quel silenzio che permise ai militari argentini di perpetrare una sistematica e quotidiana violazione dei diritti umani. Nel nostro caso concreto, l’obiettivo riguarda la ricostruzione della realtà dei rapporti italo-argentini nel periodo della dittatura. Sono passati ormai 36 anni da quel 24 marzo 1976, ma molte domande non hanno trovato ancora risposta.Dei 30mila desaparecidos, si stimano almeno un migliaio di italiani. Come si è rapportato il nostro Paese in quegli anni con i militari golpisti? Come è stato possibile che si perpetrasse una sistematica e quotidiana violazione dei diritti umani nell’indifferenza generale? Quali erano gli interessi che si nascondevano dietro questa inerzia ufficiale?Claudio Tognonato raccoglie le ricerche di storici, giornalisti, sociologi e accademici per ricostruire le convergenze non sempre lecite tra i progetti economici, politici e militari fra Italia e Argentina. Accordi commerciali che hanno visto protagonista la Rizzoli, la Pirelli Platense, un gigante italiano d’oltreoceano come la Technint Dalmine; la strategia internazionale della P2, l’importanza dell’immagine all’estero nella strategia del regime e la copertura della stampa italiana di quegli anni. (Nicola Viceconti)

162 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 163

cultura e culture libriLatinoamerica cultura e culture libriLatinoamerica

alla sua non più verde età, il fine e colto uomo del mondo del cinema e del teatro, arma una storia struggente che viene raccontata al narratore da una bella e ormai anziana signora dell’alta società che rivela per la prima volta il segreto della sua vita: essere stata la donna di Fidel negli scomodi intrichi del-la Sierra Maestra quando lei era ancora minorenne e lui un grande e grosso combattente barbuto, vorace come un orco sia nell’ingordigia verso il cibo e l’alcol che nel balzare addosso a una giovane vergine, ancora minorenne, che –dietro suo ordine- i suoi scherani gli fanno trovare nella rude capanna attrez-zata allo scopo. La vittima è una deliziosa e bionda giovinetta di buona famiglia che si trova nel pieno della guerriglia per una serie di equivoci e trascinata dalla sua amica Dolores –la figlia della serva, cattiva e mora, fumatrice e bevitrice accanita- fanatica combattente per la rivoluzione. Facciamo la conoscenza di questa fanciulla nella sua ricca casa di Camagüey, ed è forse questa la parte più piace-vole del romanzo. La Cuba ancora coloniale in cui le famiglie privilegiate sa-pevano vivere con buon gusto. Eppure, la rivoluzione bussa alle porte, la fami-glia si sgretola, il padre –amante delle più belle automobili, di cui è collezioni-sta- soccombe all’alcol e alla disperazione dopo la separazione voluta dalla moglie che lascia l’isola e anche la figlia. Diventata per caso maestra dei piccoli figli di contadini nella Sierra Maestra, mentre si perde nella contemplazione della selva, seduta su un masso, viene avvicinata dal capo della guerriglia i cui ordini non vengono discussi da nessu-no, nemmeno da lei, che in breve si trova ridotta al ruolo di amante nella ca-panna dove non mancano vini di pregio e cibi sofisticati ma dove passa le ore sola, in attesa dell’amante di cui, frattanto, si innamora perdutamente. Ma per Fidel lei non è stata altro che un capriccio, il riposo del guerriero attratto dalla sua esile figura e dal biondo dei suoi capelli. Fidel la lascia così come l’aveva presa ma, dannazione!, lei è incinta. La soccorre, nelle vesti di mezzana, Celia Sánchez, un personaggio reale, segretaria e compagna di Fidel che, nella ver-sione offerta da Manet, si incarica anche di indurre la giovane a sbarazzarsi di quell’incomoda gravidanza. L’aborto non sarà facile e lascerà delle conseguen-ze, ma ecco che la madre ricompare nella vita della giovane sventurata, la soccorre e se la porta negli Stati Uniti dove comincerà a studiare psicanalisi dopo essersi sottoposta a terapia psichiatrica e dove ha mantenuto il segreto assoluto sul padre di quel bambino abortito. Poiché il denaro non è una problema, ritroviamo la giovane in Austria a stu-diare respirando l’aria che aveva respirato Sigmund Freud e in Svezia, dove il marito di sua madre è un ricchissimo industriale e, per di più ha anche un figlio adorabile che si mette subito ai piedi della fanciulla trasformandosi prima in un compagno e poi in un marito devoto.I casi della vita riportano la bionda protagonista nella natia Cuba, al braccio del marito importante, alla festa dell’ambasciata di Svezia alla quale parteci-perà un Fidel Castro ormai più che cinquantenne ma ancora e sempre sensibi-

Erano anni che non leggevo un bel romazone rosa, di quelli in cui l’eroina ne passa di tutti i colori ma alla fine ottiene la sua vendetta e la giustizia trion-fa. Adesso mi è capitato fra le mani il romanzo del cubano Eduardo Manet, L’amante di Fidel Castro, tradotto dal francese da Peppino Campo. Eduardo Manet vive dal 1970 in Francia e ormai scrive in francese, ma ha partecipato alla vita culturale dei primi dieci anni della rivoluzione come drammaturgo, cineasta e operatore culturale finché ha capito di non riuscire più a sopportare quel che avveniva nel suo paese, le trasformazioni, i pericoli, i rivolgimenti, le grandez-ze e le meschinità ed ha deciso di lasciare Cuba; eppure mi viene il sospetto che Cuba non abbia mai lasciato lui anche se nel 1979 si è addirittura naziona-lizzato francese, tagliando definitivamente i ponti con la sua natia Santiago e con l’isola tutta. E dico che Cuba non lo ha lasciato perché questo romanzone l’ha scritto appena due anni fa, quando aveva ormai ottantuno anni, e i ranco-ri e le antipatie avrebbero potuto essere solo un lontano ricordo. Invece no:

Eduardo ManetL’amante di Fidel Castro

Leone editore, Milano 2011, pp. 410, € 18,50

Questo libro è molto particolare, soprattutto perché è uno dei rari saggi dove l’autore è anche l’editore di sé stesso. Alessandro Pilotto è nato nel 1964 a Torino, dove vive e lavora come consulente informatico. Nel 1995 ha deciso di mollare tutto, si è trasferito a Cuba e c’è rimasto un anno intero insieme a Maribel, sua moglie cubana. E’ uno dei pochi italiani che ha osato chiedere (ed è riuscito ad ottenere!) la Residenza Permanente. Adesso vivono entrambi in Italia, con la loro figlia Alice. Dopo 15 anni, dato che nessuno aveva ancora eguagliato le sue imprese, si è deciso a scrivere questo libro.E, da parte mia, è una risposta, finalmente esauriente, ai moltissimi che scrivono alla nostra redazione e fanno le solite domande: è possibile andare a vivere a Cuba? Si può trovare un lavoro? E la casa? Come si diventa residenti permanenti? Cos’è la libreta? E il Plan Jaba? Avete mai fatto la coda alla bodega? Cosa vuol dire fare la guardia del CDR? Cos’è un apagon? Cosa si prova a viaggiare su un camion in assenza di trasporti pubblici? Vi è mai capitato di forare la gomma di una moto a Cuba? Sapete dove si trova la provincia di Granma? E il municipio di Niquero? Infine, per l’editore puro, una sana pubblicità: comprate il libro su http://www.lulu.com/shop. Ne vale proprio la pena.

Alessandro PilottoVado a vivere a Cuba

pubblicato in proprio, 2011, pag. 232, €14,00

164 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 165

cultura e culture libriLatinoamerica

El abuelo de la tarde è il “nonno di tutte le cose”. In queste quattordici favole Mauricio Rosencof, uruguaiano, in gioventù guerrigliero tupamaro, racconta, con dolcezza e magia, il mondo dei bambini. Concepiti durante i dodici anni in cui fu carcerato e torturato dalla dittatura militare, questi suoi racconti suggeriscono una visione del mondo delicata e forte allo stesso tempo. Un messaggio di speranza e una celebrazione della vita e “delle cose” che, pur nella semplicità del linguaggio fiabesco, ci parlano della vittoria dell’essere umano sugli orrori della dittatura, attraverso la memoria e l’arte del racconto.

Nel 2001 Michelangelo Bartolo, un angiologo romano, parte per una missione in Mozambico con lo scopo di realizzare un programma sanitario per la prevenzione e la cura dell’Aids. Al suo arrivo, viene subito investito da non poche difficoltà: dalla diffidenza iniziale della gente, alla lentezza esasperante della burocrazia, alla dilagan-te corruzione dei politici locali, che si irradia in maniera tentacolare in ogni aspetto della vita quotidiana. Il tutto proiettato su uno scenario di povertà disarmante, fatto di bambini che vivono allo stremo delle forze, senza un sorriso, una carezza, e di adulti costretti a condizioni di lavoro disumane in un territorio martoriato dalla siccità.Perso in questo labirinto di frustrazione e di dolore, il medico rivela fin da subito la sua tenacia e il suo amore per gli altri diffondendo in pochi anni il programma di cura in dieci Paesi dell’Africa subsahariana, tra circa cen-tomila persone. Il risultato va oltre ogni previsione: nascono migliaia di

Mauricio Rosencof

Michelangelo Bartolo

Le leggende del nonno di tutte le cose

La nostra AfricaCronache di viaggio di un medico euro africano

Nova Delphi, Roma 2011, pagg. 115, €14,00

Edizioni IoScrittore, 412 pagine, Feb 2012

La storia personale di Frei Giorgio Callegari attraversa la storia dell’America Latina, con particolare riferimento al Brasile dagli anni delle dittature ad oggi. Divenuto sacerdote egli agisce nella temperie spirituale del Concilio Vaticano II a contatto diretto con i principali protagonisti della Teologia della Liberazione. Per questo la sua è anche la storia della Chiesa e del contributo che l’America Latina, con i suoi vescovi, ha dato al grande sforzo con cui la Chiesa stessa ha affrontato le sfide che la mo-dernità poneva al mondo. Questo libro è in realtà la storia di un mondo globale che abbraccia uomini e donne al di qua e al di là dell’oceano per progettare, solidarizzare, condividere informazioni ed esperienze, in uno straordinario cenacolo di idee e di opere. È un libro del presente. Il passato è vissuto nella prospettiva di ciò che è ora l’America Latina, un continente in cammino verso un sistema socioe-conomico in profonda trasformazione di cui il Brasile è protagonista.

Umberta Colella TommasiLa rabbia e il coraggio Fra Giorgio Callegari. In cammino fra i popoli dell’America Latina

Marcianum Press, Venezia 2012, pagg. 330. Euro 23,00

le al biondo dei capelli e all’eleganza della sofisticata signora nella quale non riconosce la bionda minorenne di cui aveva fatto un sol boccone nella capanna della selva. Lei sì che lo riconosce e lo guarda ormai gelida quando sfacciata-mente il leader máximo la invita ad un incontro più intimo. Tornata in Europa, passati gli anni, la bionda infelice decide finalmente di raccontare il suo segre-to, essere stata l’amante di Fidel Castro, dopo essersi liberata dell’unico ricordo in suo possesso, una catenina che quell’ingannatore le aveva regalato all’epoca del loro idillio. Amen. Fine del romanzo rosa scritto in un linguaggio dolciastro e scontato che neanche Delly. Ne è un esempio la descrizione di quando la protagonista si veste per l’incontro in Ambasciata con il suo antico amante: “Sono davanti al grande specchio dell’armadio della nostra camera. Per fare felice mio marito, ho scelto un abito di Lanvin con le spalle scoperte, in crêpe di seta color malva, morbido e leggero. I capelli, pettinati all’indietro, mi scen-dono a boccoli sulle spalle. Ho indossato un collier di Cartier tutto in diaman-ti a goccia ... “ Un romanzone rosa che segue pedissequamente il canone ma che gioca sempre fra finzione e realtà. I personaggi si muovono in un contesto storico verificabile e portano nomi di personaggi della storia della rivoluzione. Perfino le altre amanti di Fidel hanno nomi che appartengono a persone reali. E così il lettore è indotto a credere che di una storia reale si tratti. Sarà vero? Sarà falso? Arriva comunque fuori tempo massimo, visto che quel barbuto pieno di voracità e in-temperanza è oggi un anziano e saggio osservatore dei mali del mondo. (A.R.)

bambini sani da madri Hiv positive.In questi appunti di viaggio, scritti in maniera semplice e diretta ma alleg-geriti da un tocco di ironia, ci vengono svelati i retroscena, gli aneddoti più curiosi e le scene di toccante umanità che hanno animato l’esperienza di Michelangelo Bartolo, facendola arrivare dritta fino al nostro cuore e alle nostre coscienze. Il libro è disponibile in ebook ed in PDF.

1/2 • 2012 I 167

Occi

dent

e

el secondo turno delle elezioni presidenziali francesi c’era in gioco molto di più delle carriere politiche del socialista François Hollande e del candidato della destra Nicolas Sarkozy. I risultati di queste elezioni influen-zeranno il cammino che si deciderà di intraprendere per uscire dalla crisi economica e finanziaria che ha travolto l’Europa, il che a sua volta influen-zerà il percorso che il vecchio continente deve configurare per superare questa situazione.

Non c’è da aspettarsi ancora un cambiamento profondo, anche se piut-tosto forti sono state le critiche nei confronti dell’azione del cancelliere tedesco Angela Merkel, sostenuta dal collega francese Sarkozy, entrambi rappresentanti della destra europea.

Hollande ha ricoperto diverse cariche nei primi anni di governo del presidente François Mitterrand e nel novembre 1997 è stato eletto primo segretario del partito socialista francese. Arriva poi, nel 1999, alla vice pre-sidenza dell’Internazionale socialista ed è stato deputato del Parlamento europeo e di quello francese. Nelle passate elezioni presidenziali Segolène Royal, che all’epoca era la sua compagna, è stata la candidata socialista alla presidenza, sconfiggendo Dominique Strauss Khan al primo turno, ma per-dendo poi a sua volta nel ballottaggio con Nicolas Sarkozy.

Sarkozy ha ricoperto diverse posizioni nei governi di destra che hanno preceduto il suo, come i ministeri dell’economia e dell’interno. È un perso-naggio controverso all’interno e fuori dal suo paese. Ha spinto la Francia nella guerra contro la Libia, pur avendo in precedenza invitato e accolto con tutti gli onori il governante libico Muhammar Gheddafi. Grazie a quell’in-contro si erano concretizzati buoni affari in campo petrolifero.

Durante la guerra contro la Libia uno dei figli di Gheddafi rivelò che il suo paese aveva fornito a Sarkozy diversi milioni di dollari per finanziargli

di Frida Modak Giornalista, è stata addetto stampa del presidente Allende

N

occidenteLatinoamerica

Sarajevo 2012Monumento alla carne in scatola distribuita dalle Nazioni Unite agli abitanti di Sarajevo durante l’assedio dall’1992 al 1995.L’ironica installazione posta nel centro della capitale bosniaca è stata ideata da Neboojsa Seric

Le presidenziali francesi hanno messo in gioco il modo per uscire dalla crisi in Europa

FraNcoiS HoLLaNde,c’era UNa voLta L’iNterNazioNaLe SociaLiSta

168 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 169

occidente

Francois Hollande, c’era una volta l’Internazionale socialista Frida Modak

dell’estrema destra europea per conquistare consensi. Parallelamente, il cancelliere tedesco cerca la maniera per dare quello

che alcuni analisti hanno definito “un sottile cambiamento di tono” al suo approccio, in considerazione del cambio di governo in Francia che potrebbe del resto riguardare anche il suo paese e lei stessa.

Da Mitterrand a Hollande Il partito socialista francese ha avuto la presidenza della Repubblica

una sola volta, quando fu eletto François Mitterrand nel 1981 e poi rieletto nel 1988, completando i suoi due mandati nel 1995. È stato il quarto presi-dente della Quinta Repubblica e François Hollande, che era il responsabile della campagna di Mitterrand, sarà il secondo e si ritiene che la sua vittoria possa influenzare gli eventi politici di altri paesi europei.

È il caso di rammentare che quando Mitterrand divenne presidente della Francia, il socialismo europeo o la socialdemocrazia viveva un momen-to di boom a livello mondiale. L’Internazionale socialista si espandeva in tutti i continenti e gli Stati Uniti guardavano al fenomeno con sospetto e facevano di tutto per contrastarlo.

Governi dello stesso segno si imponevano in altri paesi europei e anche in America latina e in Africa, nonché in paesi che avevano fatto parte dell’Unione sovietica, ormai crollata. L’Internazionale socialista si trasformò in un organismo a cui gli Stati Uniti, politicamente parlando, dichiararono guerra, anche se alcuni episodi sono stati oggetto di svariate interpretazio-ni. I personaggi chiave nell’espansione dell’organizzazione sono stati il cancelliere tedesco Willy Brandt, il cancelliere austriaco Bruno Kreiski e il primo ministro svedese Olof Palme. I noti “dialoghi” tra loro hanno costi-tuito la base per l’organizzazione internazionale, che non ha alcun legame con quelle vincolate all’Unione sovietica.

I partiti che ne fanno parte cominciarono a vincere le elezioni in tutti i continenti, soprattutto nei paesi che si liberavano da regimi dittatoriali

imposti dall’interventismo degli Stati Uniti. La morte per cancro di Brandt e l’assassinio di Palme,

insieme alle politiche economiche messe in atto da agenzie internazionali, sono stati due elementi che hanno indeboli-to l’organizzazione.

Ma oggi che quel modello è in crisi, si delineano nuove aspettative. Si ipotizza una vittoria dei socialdemocratici tedeschi alle prossime elezioni e il trionfo di Hollande in Francia è visto come punto di partenza.

la campagna elettorale e chiese al presidente francese di restituire il denaro che gli era stato dato a titolo di amici-zia.

Contemporaneamente Sarkozy aveva stabilito un rap-porto molto stretto con il cancelliere tedesco Angela Merkel, insieme alla quale ha guidato le politiche economiche che attualmente sono piuttosto contestate.

L’ambiente europeo Le misure messe in atto per affrontare la crisi europea hanno due pro-

tagonisti principali, il cancelliere tedesco e il presidente francese uscente. E anche se sono state approvate all’unanimità, sono ora oggetto di pesanti critiche. Hollande ha manifestato l’intenzione di rinegoziare il patto sulla disciplina di bilancio, per introdurre altri provvedimenti in grado di rilan-ciare l’economia e l’occupazione, e ha affermato che “ci sarà un diverso orientamento nella costruzione europea”. Ha anche anticipato di voler ri-negoziare il trattato sulla disciplina fiscale: “Rinegozierò il trattato, la Mer-kel lo sa e se sarò eletto - aveva detto prima del voto - il mio primo viaggio lo farò in Germania per portare il messaggio dei francesi che auspicano un’Europa diversa”. E’ stato di parola: il primo viaggio è stato a Berlino. La Merkel, a sua volta, ha detto di voler approntare una “agenda per la cresci-ta” per l’Europa e di essere disposta ad assegnare un ruolo maggiore alla Banca europea di investimenti per quanto riguarda le misure volte a supe-rare la crisi.

Le ragioni della Merkel sono ovvie, la situazione europea è arrivata a un punto in cui si teme una frattura tra i paesi europei del nord e del sud, come ha sottolineato il presidente tedesco socialdemocratico del Parlamen-to europeo Martin Schulz. Schultz non ha fiducia negli organismi econo-mico-finanziari statunitensi e avverte che se ci sarà la rottura “potrebbe crollare l’Unione europea e la zona euro” e si dichiara a favore di soluzioni comuni. È sotto gli occhi di tutti la dimostrazione che le politiche promos-se con più entusiasmo da Merkel e Sarkozy non hanno avuto successo e questa consapevolezza si è manifestata con forza durante la celebrazione del 1° maggio.

L’Italia aveva già segnalato di avere oggi tre volte più baracche e case mobili rispetto a tre anni fa. Nel 2011 le famiglie che vivevano in queste condizioni erano 23.336 e adesso sono passate a 71.101.

In Italia sono aumentati anche i suicidi e le donne i cui mariti si sono tolti la vita hanno costituito un gruppo chiamato “le vedove bianche” e hanno sfilato durante le celebrazioni della giornata del lavoro.

Ma le proteste si sono estese in tutta Europa perché i salari sono bassi e la disoccupazione è in aumento nella stessa misura in cui si applicano le politiche di austerità, e questo fatto viene strumentalizzato dai settori

Mitterrand fu il primo socialista all’eliseo, ma l’internazionale all’epoca prosperava. Hollande sarà il nuovo punto di partenza?

La vittoria socialista nella corsa all’eliseo rimette in discussione il “rigore” della Merkel e in europa si riprende a parlare di crescita

1/2 • 2012 I 171

offermiamoci su di un aspetto particolare del primo turno delle presi-denziali francesi. È andato bene o male il candidato del Front de Gauche Jean-Luc Mélenchon con il suo 11% abbondante dei voti e quattro milioni di francesi che lo hanno votato? Nei titoli dei giornali, che giustamente si soffermano sul ballottaggio, sull’incollatura di vantaggio di François Hol-lande su Nikolas Sarkozy e sull’agghiacciante trionfo dell’ultradestra di Marine Le Pen, Mélenchon viene liquidato spesso come delusione. Ma è proprio così? 

Partiamo dalle definizioni. Definiamo per comodità “sinistra radicale” tutte quelle candidature collocabili alla sinistra del Partito Socialista. In Francia, come spesso nel mondo, non esiste quella beota corsa italiana ad un centro politico nominalistico. Sarkozy è destra, Hollande è sinistra e ciao. Nelle elezioni presidenziali del 2007 la sinistra radicale ottenne circa l’8.5% dei voti. Spiccò il solo Olivier Besancenot che ottenne 1.3 milioni di voti, pari al 4% dell’elettorato. Dietro di lui i vari Buffet, Laguiller, Schivardi e Bové si suddivisero il resto. In particolare la candidata ufficiale del Partito Comunista Marie-George Buffet non arrivò al 2%.

Dopo quel passaggio viene fondato il Fronte delle Sinistre che, sempre per comodità, collochiamo a sinistra del partito socialista e a destra del mondo trotskista, dal quale provenivano Besancenot e Laguiller, riunito nel Nuovo Partito Anticapitalista. Nel 2009 il Front de Gauche si presenta alle elezioni europee. La novità cambia i rapporti di forza dentro la sinistra ra-dicale francese e il Front de Gauche (che ingloba il PCF) supera il 6%, eleggen-do 5 parlamentari, superando il Nuovo Partito Anticapitalista (4.8%, nessun eurodeputato).

Quei risultati erano un po’ drogati dal risultato di Europe Écologie, gli

di Gennaro carotenutoLatinoamericanista, professore di Storia contemporanea all’Università di Macerata

occidenteLatinoamerica

S

ambientalisti capaci di pareggiare il risultato del Partito socialista al 16%. Nelle presidenziali 2012, invece, i verdi non hanno avuto alcun ruolo. Eva Joly, prestigiosa magistrata franco-norvegese, famosa per le inchieste sui crimini ambientali delle multinazionali, è una comparsa che prende appe-na un voto su otto di quelli che il suo movimento aveva raccolto nel 2009. Secondo alcuni studi tra la metà e i due terzi dei voti persi da Joly sono andati a rafforzare François Hollande.

Al debutto la candidatura di Jean-Luc Mélenchon parte dal 5% nei son-daggi. È ben di più del 2% della Buffet ma è perfino meno di quanto il par-tito aveva fatto alle europee. Numericamente il suo compito principale è vincere il solito gironcino di sinistra con il candidato dell’NPA Philippe Poutou, Eva Joly, Nathalie Arthaud. Nessuno prevedeva, anche solo un paio di mesi fa, che potesse avvicinarsi al candidato centrista, François Bayrou.

Non andrà così. La candidatura di Mélenchon prospererà fino a riempi-re la piazza della Bastiglia e a proporre probabilmente un modello europeo di aggregazione a sinistra dei grandi partiti, il PS ma anche il PSOE, l’SPD, il PD. Il Front de Gauche, che piaccia o no, riesce a monopolizzare la vasta quanto litigiosa sinistra francese e ad espanderne i confini. A un certo pun-to i sondaggi lo danno in competizione con Marine Le Pen per il terzo posto. È un miraggio, ma se i sondaggisti hanno sbagliato e per alcuni fin dal pri-mo turno ha prevalso il voto utile anti-Sarkozy, sarebbe non solo errato ma anche in malafede parlare di delusione per Mélenchon.

Erano 31 anni, dal canto del cigno del Partito Comunista Francese, quando Georges Marchais superò il 15% aprendo le porte dell’Eliseo a François Mitterand, che un candidato della sinistra radicale non superava il 10%. Alla sinistra di Mélenchon, Joly, Poutou, Arthaud, sono marginaliz-zati ma sommano un altro 4%. Ciò vuol dire che la sinistra radicale nell’in-sieme in cinque anni quasi raddoppia i propri voti passando dall’8.5 al 15%. Quasi un nuovo inizio per chi critica il modello vigente.

La generosità e la lealtà senza infingimenti con la quale Mélenchon ha immediatamente appoggiato Hollande per il ballottaggio del 6 maggio testi-moniano la possibile saldatura tra una Francia e un’Europa civile e la distan-za con la Francia di Sarkozy che pur di vincere il 6 maggio si è ridotta ad ap-piattirsi sulla spazzatura neo-fascista di Marine Le Pen. Come ha scritto Vitto-

rio Zambardino, il voto a Le Pen è così grave che è come se in Italia Casa Pound (il livello è quello) avesse preso il 20%.

Oltre i quattro quinti degli elettori di Mélenchon non ha avuto dubbi sul voto ad Hollande. Tale generosità rende pleonastico il dibattito sul condizionamento a sinistra di Hollande lasciandogli mani libere per quello che si prospet-ta come uno scontro di civiltà. Un regalo prezioso che solo da una posizione di forza la sinistra può fare. E questa sa-rebbe una sconfitta?

gauche Sopra iL 10%cHe beLLa ScoNFitta

Ma davvero Jean-Luc Mélenchon è andato male alle presidenziali francesi? Liquidato con pochi commenti, il Fronte delle sinistre è andato invece oltre una soglia che non superava da trent’anni

È da quando Marchais prese il 15% che un candidato “radicale” non andava così bene. e l’aiuto a Hollande è una prova di forza

occidenteLatinoamerica

1/2 • 2012 I 173

uesti i risultati finali (mancano solo alcuni dati delle urne in Kosovo, che comunque potranno al massimo spostare un solo seggio, dove ha vota-to solo il 32% degli aventi diritto). Per il Parlamento, il Partito Progressista Serbo di Tomislav Nikolic ha vinto le elezioni con il 29,2% ed avrà 73 seggi

di enrico vignaPortavoce del Forum Belgrado Italia

Q

nel parlamento serbo: Secondo, il Partito Democratico di Boris Tadic ha ottenuto il 26,8% e 67 seggi; terzo il Partito Socialista Serbo di Ivica Dacic con il 17,6% e 44 seggi; al quarto posto il Partito Democratico Serbo di Vo-kislav Kostunica con il 6,9% e 21 seggi; seguito dai Liberal Democratici con il 6,6% e 20 seggi. Gli altri Partiti: Regioni Unite della Serbia hanno avuto 16 seggi; Alleanza Ungheresi Vojvodina avranno 5 seggi; il Partito Azione Democratica del Sangiaccato, Nessuno al di sopra, Tutti Insieme avranno 1 seggio ciascuno. Il Patito Radicale Serbo, il cui leader Vojislav Seselj, si era consegnato ed è tuttora imprigionato all’Aja, non è riuscito a raggiungere il 5%, e con il 3,9% resta fuori dal Parlamento.

Per le elezioni presidenziali i candidati al ballottaggio sono Tadic (Pd) e Nikolic (Pps), avendo ottenuto il 25,33 ed il 24,99%, rispettivamente. L’af-fluenza al voto è stata del 61%. [Ndr: mentre andiamo in stampa si è svolto il secondo turno: ha vinto a sorpresa il conservatore e nazionalista Tomislav Nikolic, ma meno della metà dei serbi è andata alle urne]

Il capo delegazione della Ue a Belgrado Vincent Degert si è affrettato a congratularsi ed a esprimere soddisfazione, per l’ottimo risultato ottenuto dalle forze favorevoli all’Ue e alle politiche occidentali. Ed ha ragione, in quanto l’unica forza fortemente e apertamente oppositrice della Ue e delle ingerenze occidentali era il Partito Radicale; il Partito Progressista di Niko-lic ha una politica e un programma critici alla Ue e più attenta agli scenari rivolti verso la Russia e l’est, ma tutto questo non si è ancora risolto in un preciso programma o piattaforma propositiva e chiara.

Il Partito Democratico Serbo di Kostunica, ha una proposta di “neutra-lità” e di priorità verso l‘interesse nazionale, ma anche qui, non si capisce quale direzione futura questa “criticità” prenderà.

E’ certamente una situazione complessa, per cui sicuramente è preve-dibile che gli scenari politici futuri, a breve termine resteranno intatti. Ha ragione a rallegrarsi, la Ue e il suo rappresentante in Serbia, di come sono andate le cose, ma oltre a capire cosa pensa e cosa farà quel 40% circa di serbi che non è andato a votare, ci sono nodi fondamentali e cruciali, che non potranno che aumentare e incrementarsi, in una spirale che potrebbe strangolare oggettivamente la leadership “democratica” filo-occidentale e da questi sostenuta, sia finanziariamente che politicamente; se non il ripro-porsi tragici scenari di violenza e guerra

Queste elezioni del 6 maggio (amministrative, legislative e presidenzia-li) si sono infatti svolte in un momento molto delicato e complesso per la Serbia e il suo popolo, legato a una rovinosa situazione sociale, uno stran-golamento economico diretto dal Fmi e dalla Banca Mondiale, con una di-soccupazione in crescita continua, si parla ormai di oltre il 35% reale; tra i giovani è oltre il 50%, e in una indagine governativa il 71% di essi pensa che solo emigrando ci può essere un futuro; una miseria dilagante, un milione di profughi dalle varie guerre balcaniche in condizioni miserrime. Un indu-

belgrado, Serbia 2011L’immagine di tito in vendita al mercato dell’usato

UNa SvoLta NazioNaLiStaper La Serbia iN GiNoccHio

Il buco nero del Kosovo, i rapporto con un’Europa che tiene Belgrado sulla porta, la Nato di cui nessuno ha dimenticato le bombe, una miseria resa più nera dalla “rottamazione” delle industrie

174 I latinoamerica • 1/2 • 2012 latinoamerica • 1/2 • 2012 I 175

occidente

Enrico Vigna

stabilizzatici. O la stessa situazione della Repubblica Serba di Bosnia, sempre più vicina a una definizione rispetto alla fasulla situazione attuale della Bosnia creata dalle cancellerie occidentali, e assolutamente impossibile da mantenere in questo stato.

Un altro nodo e elemento di divisione interna è il cosiddetto piano di integrazione con la Nato, di cui la Serbia è partner in attesa di entrare. Infatti un recente sondaggio dell’istituto Ipsos (Strategic Marketing Agency) di Belgrado ha rilevato che in Serbia il 70% dell’opinione pubblica è assolu-tamente contrario all’ingresso del proprio paese nella Nato: ancora non si è dimenticato le devastazioni, i morti e il ricordo dei 78 giorni dell’aggres-sione e dei bombardamenti Nato del 1999.

Una cosa di cui tenere anche conto, però, è una profonda stanchezza e sfinimento, oltrechè sfiducia e disillusione ormai verso tutto e tutti, palpa-bili e verificabili da chiunque abbia occasione di lavorare insieme al popolo serbo. Realisticamente oggi in Serbia, non è neanche in gestazione una forza politica radicata nella società e nella gente, che esprima un vero pro-gramma e strategie legate all’interesse nazionale, a politiche e orientamen-ti di difesa dell’indipendenza e della sovranità nazionale, contro le politiche liberiste. Sia sul terreno economico che sociale, che politico.

Il popolo serbo ha una grande storia di lotte, conquiste, e anche nelle sconfitte ha sempre continuato a resistere. Nel corso della sua dignitosa e millenaria storia di popolo, è sempre riuscito a trovare e produrre forze e grandi uomini che l’hanno guidato e rappresentato degnamente, uomini che hanno dato la loro vita per il proprio popolo, senza indietreggiare o mettersi in vendita.

Ecco, la speranza è che nelle sacche di resistenze, oggi disperse e spar-se nella Serbia o nel Kosovo Metohija, emerga una forza e personalità puli-te, capaci e carismatiche, che sappiano riprendere un cammino per un fu-turo dignitoso, degno di essere vissuto, in modo che il popolo serbo ripren-da in mano il proprio destino.

Come ha detto un’amica in Serbia, nostra referente per i progetti di solidarietà, sintetizzando il suo senso di sconfitta e sofferenza verso il futu-

ro: “Siamo un popolo in ginocchio”. Al di là di facili ottimi-smi di chi non è coinvolto materialmente, è effettivamente una sensazione che si prova nell’anima e nella coscienza, lavorando fianco a fianco con quelle genti dal basso, oggi. Diceva una canzone di Bob Dylan: ““Quanti colpi dovrà ancora sparare un cannone, prima di tacere per sempre? / Quanti anni potrà resistere un popolo prima di essere un popolo libero? / Quante volte dovrà un uomo voltare la testa per far finta di non vedere? / La risposta, amico mio, è sospesa nel vento…”

Una svolta nazionalista per la Serbia in ginocchio

stria ridotta ormai ad una sorta di “rottamazione”, dove le strutture migliori sono state e vengono tuttora svendute e rapinate dalle industrie straniere, e dopo vengono “ristrut-turate” (da leggersi come licenziamenti di massa). Un esem-pio per tutti l’ex Zastava: quando c’era il “regime” di unità nazionale “antipopolare” e “non democratico” vi erano 36mila lavoratori, oggi in piena libertà e democrazia ne sono rimasti circa tremila, senza diritti, senza assistenza sanitaria garantita e con contratti e salari da terzo mondo,

ma con un costo della vita ormai occidentale.Dal punto di vista politico interno, il nodo Kosovo è ormai sempre più

esplodente e fattore di divisioni profonde, sia nell’ambito politico che di quello della società serba. Il referendum indetto negli scorsi mesi dalla co-munità serba del Kosmet per non riconoscere il governo secessionista di Pristina dell’Uck, che ha visto il 94% dei serbi votare contro il Kosovo Nato, è una spina nel fianco dei politici filo-occidentali di Belgrado, ma anche una spina nell’anima del popolo serbo intero.

La concessione/svendita del Kosovo, come condizione posta dal club europeo per entrare nella Ue, di fatto sarà una mina vagante per qualsiasi futuro governo a Belgrado. A parole quasi tutti i politici in campagna elet-torale hanno fatto alte dichiarazioni circa la non accettazione dell’indipen-denza, nei fatti da oltre due anni il Kosovo è solo, è stato messo come merce al tavolo dei negoziati, basta parlare con il popolo serbo di lì o segui-re le sue denunce/appelli, per rendersi conto della realtà.

Chi passerà ufficialmente alla storia patria come colui che ha svenduto gli interessi storici ed attuali del popolo serbo? La risposta è molto vicina e anche le sue conseguenze. Per quanto ancora l’Europa, alle prese con una propria crisi interna non certo vicina ad esaurirsi bensì a crescere, conti-nuerà a mantenere con fiumi di denaro il “buco nero” di un narcostato (definizione della Dea) quale è il Kosovo attuale?

Certamente è oggettivamente una situazione delicata, estremamente complessa e foriera di possibili nuovi scenari conflittuali. Anche se si pensa a ciò che sta avvenendo in Macedonia, dove gli scontri tra i secessionisti albanesi e la comunità macedone slava hanno portato a continui scontri, atti terroristici e uccisioni anche nelle ultime settimane, e dove in molte aree è stato instaurato il coprifuoco. Il tutto con il supporto e la complicità del governo secessionista Uck di Pristina, che fa da retroguardia logistica ai terroristi macedoni, nella strategia della “Grande Albania”.

Estremamente complicate sono le stesse situazioni ai confini serbi, dal Sangiaccato dove le spinte secessioniste dei musulmani della provincia aumentano di settimana in settimana, anche qui in sintonia con i piani di Pristina, alla Vojvodina dove per ora le forze scioviniste della minoranza ungherese sono state fermate, ma sono pronte a riprendere campagne de-

in parlamento tengono i progressisti di tadic ma il presidente sarà il conservatore Nikolic così la Ue raccoglie ciò che ha seminato

Mentre il narcostato chiamato Kosovo, fatto dai bombardieri atlantici, continua a essere una spina nel fianco dell’europa

www.giannimina-latinoamerica.itIl nuovo sito di Latinoamerica è online

In rete con noI

e aLtrI...

La rivista che dà voce all’informazione negata

Luis sepúLveda

Bruce Jackson

A. Perez esquivel

Noam Chomsky

eduardo galeano

juan gelman