Gli Uragani 18 - tsunami edizioni · Lodwijk van Halen, il 26 gennaio 1955, la giovane famiglia si...

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Gli Uragani 18

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  • Gli Uragani18

  • Titolo originale dell’opera: “Everybody Wants Some - The Van Halen Saga”Copyright © Ian ChristeEdizione originale pubblicata in USA e Canada da:John Wiley & Sons, Inc., Hoboken, New Jersey

    Copyright © 2014 A.SE.FI. Editoriale Srl - Via dell’Aprica, 8 - Milanowww.tsunamiedizioni.com - twitter: @tsunamiedizioni

    Traduzione di Stefania Renzetti

    Prima edizione Tsunami Edizioni, giugno 2014 - Gli Uragani 18Tsunami Edizioni è un marchio registrato di A.SE.FI. Editoriale Srl

    Progetto copertina: Max BaroniProgetto grafico: Eugenio Monti

    Stampato nel mese di maggio 2014 da Arti Grafiche La Moderna - Roma

    ISBN: 978-88-96131-64-0

    Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, in qualsiasi formato senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.Nell’impossibilità di risalire agli aventi diritto delle fotografie pubblicate, l’Editore si dichiara dis-ponibile a sanare ogni eventuale controversia.

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  • VAN HALENTutta laStoria

    Ian Christe

    TRADUZIONE DI STEFANIA RENZETTI

  • Non importa quello che dice la gente, secondo mebisogna sempre leggere il manuale.

    —Edward Van Halen su come fare le cose nel modo giusto

  • 9VAN HALEN - TUTTA LA STORIA

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    OMINTRODUZIONE - IMPARARE A SUONARE "ERUPTION" ...................................................... 13PARTE I - RUNNIN' WITH THE DEVIL

    1 THE IMMIGRANT SONG ................................................................................ 19 2 RATS IN THE CELLAR .................................................................................29 3 HOTEL CALIFORNIA ....................................................................................39 4 BAT OUT OF HELL .....................................................................................47 5 BACK IN THE SADDLE .................................................................................57 6 GIRLS ON FILM ........................................................................................69 7 JUKEBOX HEROES .....................................................................................79 8 KING OF ROCK ........................................................................................95 9 ROAD TO NOWHERE ..................................................................................111

    PARTE II - TOP OF THE WORLD

    10 IT'S THE END OF THE WORLD AS WE KNOW IT (AND I FEEL FINE) ..................................121 11 ROLL WITH IT ....................................................................................... 129 12 NOTHING'S SHOCKING ...............................................................................141 13 LOVELESS ........................................................................................... 153 14 MELLON COLLIE AND THE INFINITE SADNESS ........................................................ 167 15 ILL COMMUNICATION ................................................................................ 183

    PARTE III - WHERE HAVE ALL THE GOOD TIMES GONE?

    16 NO WAY OUT ........................................................................................ 197 17 DEAD LEAVES AND THE DIRTY GROUND .............................................................211 18 GET THE PARTY STARTED .......................................................................... 221 19 A GRAND DON'T COME FOR FREE ................................................................... 231 20 ALL THE RIGHT REASONS ........................................................................... 243

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  • 10 VAN HALEN - TUTTA LA STORIA

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    OMBIS - VAN HALEN IV ........................................................................................ 251SECONDO BIS - AMERICAN IDOLS .......................................................................... 259BONUS TRACK - EDDIE VAN HALEN - COLLABORAZIONI .................................................... 269BONUS TRACK B - I SACRI GRAAL: RARITA INEDITE DEI VAN HALEN ...................................... 271BONUS TRACK C - PICTURES ON THE SILVER SCREEN: I VAN HALEN AL CINEMA ........................... 275BONUS TRACK D - IL MENU: LA COVER BAND DI PASADENA ............................................... 277BONUS TRACK E - UNCOVERED: LE TRIBUTE BAND DEI VAN HALEN ........................................ 279BONUS TRACK F - VAN HAGAR PER NEGATI ............................................................... 283

    RINGRAZIAMENTI - LOOK AT THE PEOPLE HERE TONIGHT ! ................................................ 285NOTA SUL FOTOGRAFO ...................................................................................... 286

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    OMHo pensato che non fosse giusto scrivere questo libro senza aver imparato a suonare “Eruption”, sia per farmi un’idea della velocità mentale e manuale di Eddie Van Halen, che per capire quanto lavoro e pratica ci vogliano per suonare e sviluppare il suo stile. In sostanza, volevo scrivere l’epica storia dei Van Halen avendo una seppur minima nozione di che aria si respira tra i grandi del rock. Come tanta gente, quando da piccolo ho sentito per la prima volta quell’as-solo di chitarra, mi è sembrato palesemente impossibile da suonare. Ho pensato che fosse una sorta di effetto speciale, come un’esplosione laser di Guerre Stella-ri, o un sintetizzatore tecnologicamente avanzato, oppure una combinazione di montaggio di nastri e rumori di videogioco. Quella convinzione errata si è raf-forzata negli anni, sfida dopo sfida – se nessun eroe delle sei corde riusciva a fare meglio di “Eruption”, voleva dire che quell’assolo era praticamente intoccabile. Chiunque riuscisse a suonarne anche un pezzetto doveva chiaramente avere un talento incredibile.

    Se Eddie Van Halen era il miglior chitarrista di sempre, l’unica presa di po-sizione logica era lasciar perdere. Dato che i seguaci che si gettavano a capofitto su “Eruption” suonavano perlopiù vuoti, in qualità di adolescente fanatico di he-avy metal e punk mi era sembrato sensato ignorarlo. “Eruption” era diventato il biglietto da visita di quel genere di stronzetto che bazzica i negozi di strumenti musicali in attesa di essere scoperto, e nel frattempo fa il gradasso con i musicisti più giovani.

    Erano passati dieci anni, e “Eruption” era ancora lì, con tutta la sua magia, la breve cartolina di un delirio infinito dei Van Halen risalente al 1978, ancora mi-racolosamente veloce e furioso. Per sfizio, ho sfogliato una raccolta di spartiti dei Van Halen e ho esaminato “Eruption”. In quel momento mi sono reso conto che era possibile suonarlo. Sapevo di poter eseguire le note abbastanza velocemente, ma non sapevo da dove iniziare – era come voler stringere la mano al Diavolo della Tasmania. Le tablature per chitarra utilizzano un sistema arcano di notazio-ne per indicare finger slide, trilli e corde piegate – e “Eruption” usa praticamente tutti questi espedienti.

    Ho affrontato la stesura di questo libro molto più serenamente dopo aver scoperto che “Eruption” è il risultato di una serie di tecniche attentamente

    IntroduzioneIMPARARE A SUONARE “ERUPTION”

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    selezionate, e non un’improvvisazione spontanea. Seduto a casa, con la mia Jack-son sul ginocchio, mi sono concentrato sul brano, meravigliandomi per ogni pez-zetto che riuscivo a estrapolare dalla versione su Van Halen. Una volta ricostruito il tutto, dopo qualche giorno di lavoro, mi ci sono voluti circa dodici minuti per compiere il viaggio di 90 secondi di Eddie dal blues tagliente, al tapping neoclas-sico allo spazio cosmico.

    La brillante sezione di finger-tapping si è rivelata una delle parti più semplici, dato che è tutta suonata su una sola corda. Mi dispiace però dire che memorizzare la progressione di accordi in rapida successione dietro a tutte quelle note ha ri-chiesto molto più tempo. I miei progressi si sono arenati solo quando ho scoperto su YouTube oltre un migliaio di video di ragazzini che eseguono l’apparentemen-te insormontabile “Eruption” come dei fulmini – dev’essere il genere di video più popolare che ci sia, secondo solo a quelli della gente che cade dagli skateboard e degli animali che mordono le persone in mezzo alle gambe.

    Alla fine, però, sono riuscito a domare “Eruption” ed è stata una sensazione fantastica. Ho applicato tecnica e scorciatoie al mio stile – a differenza del geniale Eddie, dovrei aggiungere, che condensava tutti i suoi piccoli accorgimenti per far sì che una canzone normale risultasse speciale. Secondo me il motivo per cui nessuno ha mai provato a scrivere un libro come questo prima d’ora è che non c’è mai stato un autore in grado di suonare “Eruption”. O forse tutti ci hanno lasciato la pelle provandoci.

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    OMPARTE IRUNNIN’ WITH

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    OM• 8 Maggio, 1953, Alexander Arthur van Halen nasce in Olanda.• 10 Ottobre, 1953: David Lee Roth nasce a

    Bloomington, Indiana.• 20 Giugno, 1954: Michael Anthony Sobolewski

    nasce a Chicago, Illinois.• 26 Gennaio, 1955: Edward Lodwijk van Halen

    nasce in Olanda.• Inverno 1962: Jan van Halen emigra in

    California con la sua famiglia.• 1967: Edward compra una chitarra Teisco Del Ray

    da 100 dollari al Sears.• 1971: Alex e Eddie Van Halen formano i Trojan

    Rubber Company.• Autunno 1973: David Lee Roth si unisce ai

    fratelli Van Halen nei Mammoth.• Primavera 1974: Mike Sobolewski entra nei Van

    Halen e diventa Michael Anthony.• Maggio 1976: Gene Simmons “scopre” i Van Halen

    allo Starwood e finanzia un demo che non ottiene riscontri.

    • Maggio 1977: Ted Templeman riscopre i Van Halen e mette la band sotto contratto con la Warner Bros.

    • 10 Febbraio, 1978: Esce Van Halen; la band va in tour con i Journey, poi con i Black Sabbath.

    • 10 Ottobre, 1978: i Van Halen ottengono il disco di platino.

    L’ERA ROTHOZOICA1950-1985

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    OM• 23 Marzo, 1979: Esce Van Halen II; il primo tour da headliner va avanti fino a ottobre.

    • 26 Marzo, 1980: Esce Women and Children First.• 29 Agosto, 1980: Eddie Van Halen incontra

    Valerie Bertinelli.• 11 Aprile, 1981: Eddie sposa Valerie.• 29 Aprile, 1981: Esce Fair Warning.• 14 Aprile, 1982: Esce Diver Down.• 29 Maggio, 1983: i Van Halen vengono pagati

    1,5 milioni di dollari per suonare davanti a quattrocentomila persone all’US Festival del 1983.

    • 4 Gennaio, 1984: Esce 1984, contenente il primo singolo della band a raggiungere la vetta delle classifiche, “Jump”.

    • 2 Settembre, 1984: Ultimo concerto con la formazione classica a Norimberga, Germania.

    • 31 Dicembre, 1984: David Lee Roth pubblica Crazy from the Heat.

    • Aprile 1985: David Lee Roth lascia i Van Halen.

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    OMCome le storie di altri grandi americani, da Henry Ford a Walt Disney, a Fievel Toposkovich, la saga dei Van Halen inizia in una terra antica, lontana dagli Stati Uniti e dalla sua costante disponibilità di acqua calda ed elettri-cità. Come direbbe la voce narrante dei film di una volta: “Tra i mulini a vento, i tulipani e gli zoccoli di legno della graziosa Amsterdam, in Olanda, un tempo viveva un affabile musicista di nome Jan van Halen”.

    Nato nel 1920, van Halen suonava il sassofono e il clarinetto dappertutto, dagli eventi politici alle orchestre radiofoniche e i tendoni da circo. Durante la Secon-da Guerra Mondiale, pare fosse stato catturato mentre lottava contro i nazisti, e costretto a girare la Germania come prigioniero, suonando musica di propaganda per l’odiato Terzo Reich. Una volta liberato, dopo la guerra, andò in Indonesia, dove conobbe e si innamorò di una bellezza locale, Eugenia van Beers. Lei era più grande, nata nel 1914, ma si sposarono e tornarono ad Amsterdam, in Mi-chelangelostraat, dove un bambino, Alexander Arthur van Halen, vide la luce l’8 maggio 1953.

    Il signor van Halen suonava in ogni locale immaginabile, ma la vita del mu-sicista era instabile e girovaga. Poco dopo la nascita del secondo figlio, Edward Lodwijk van Halen, il 26 gennaio 1955, la giovane famiglia si trasferì in Rozema-rijnstraat a Nijmegen, Olanda. L’orgoglioso genitore voleva che un giorno i suoi figli diventassero dei musicisti famosi, e le aspettative nei confronti del secondo-genito erano particolarmente alte, dato che Edward Lodwijk era stato battezzato con il nome del maestro compositore Ludwig Van Beethoven.

    La casa dei van Halen vibrava di musica. Jan lavorava costantemente alla tona-lità e suonava seguendo i dischi di musica classica della propria collezione, e tutta la famiglia ascoltava sempre le sue trasmissioni radiofoniche. Quando Jan si unì alla banda dell’aviazione militare olandese, i suoi figli presero a sfilare per la casa picchiando sulle pentole e i coperchi, mentre il padre provava le marce militari. “I miei primi ricordi musicali vengono da mio padre”, racconta Alex, “Non c’era modo di non essere toccati dalla musica – ne eravamo circondati”.

    Siccome Jan non aveva la pazienza di insegnare la musica ai suoi bambini, li mandò a lezione per diventare pianisti concertisti. All’età di sei anni, Edward già studiava pianoforte con un severo insegnante russo di settantadue anni. Lui e

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    Alex continuarono a prendere lezioni, esercitandosi su Beethoven e Tchaikovsky, per quasi dieci anni. In una rara occasione, quando Alex non se la sentiva di eser-citarsi, ricorda che sua madre gli mise le mani sul tavolo della cucina e gliele colpì duramente con un cucchiaio di legno.

    Una volta diventati abbastanza grandi, Alex e Edward si unirono al padre per i suoi concerti. All’apice della carriera, Jan entrò a far parte del Ton Wijkamp Quintet, che nel 1960 conseguì il primo premio al pregiato Loosdrecht Jazz Fe-stival in Olanda. Viaggiando per tutto il Paese, e a volte oltre confine, in Germa-nia, i ragazzi vissero in prima persona gli aspetti pratici di una carriera musicale, e durante alcune delle serate più rozze e volgari ne scoprirono i benefici extra – a quanto pare, Alex perse la verginità a nove anni dopo uno dei concerti di suo padre.

    Le lettere dei parenti di Eugenia raccontavano di una vita migliore negli Stati Uniti, e pian piano invogliarono i van Halen a tentare la fortuna nella terra delle opportunità. Sul finire dell’inverno del 1962, Jan ed Eugenia presero i due bam-bini e il pianoforte di famiglia, un Rippen fabbricato in Olanda, e si imbarcaro-no per una traversata di nove giorni sull’Atlantico, con nelle tasche poco più di settantacinque fiorini olandesi. Jan suonava con l’orchestra di bordo per pagare il viaggio, e anche Eddie e Alex sfoggiarono la loro abilità al pianoforte, riscuo-tendo le mance dei passeggeri. E così, i musicisti monelli arrivarono nel Nuovo Mondo, belli navigati e pronti a lavorare. Imitando un aspetto comune a tante storie di immigrati, anche Jan, non appena arrivato a New York, americanizzò il suo cognome, cambiandone la grafia dall’antiquato “van Halen” al più informale “Van Halen”, ricominciando simbolicamente come un uomo nuovo. Dopo lo sca-lo a New York, il clan Van Halen, fresco di conio, salì a bordo di un treno per un viaggio di quattro giorni verso la California, un angolo del Paese in cui il sogno americano era ancora disponibile senza dover versare un anticipo. Trovarono un piccolo bungalow a Pasadena, dove abitarono tutti insieme per quasi vent’anni.

    Alex, con i capelli a cespuglio, e l’olandesino Edward arrivarono in California con le schegge degli zoccoli di legno ancora conficcate nei piedi. Non parlando ancora l’inglese, sorridevano e dicevano di sì a qualsiasi cosa. La seconda parola inglese che impararono fu “incidente”. Edward era ancora estremamente timido e suo fratello, più coraggioso, lo proteggeva. I due strinsero un legame molto forte – confrontando ogni giorno dopo la scuola, nel cortile per la ricreazione, quello che avevano imparato. Iniziarono a integrarsi, andando in bici con i bambini del vicinato, arrampicandosi nella loro casetta sull’albero, e picchiandosi a sangue.

    La sera, il signor Van Halen continuava a suonare nelle bande per matrimoni, ma durante il giorno faceva diversi mestieri. Lavorava come custode, e all’occor-renza percorreva cinque miglia all’andata e cinque al ritorno per lavare i piat-ti all’Arcadia Methodist Hospital. Rafforzò l’entusiasmo dei suoi ragazzi per la musica, sorridendo quando suonavano con delle chitarre di cartone seguendo la

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    radio, usando le vaschette di gelato vuote come batteria. La California era davve-ro il paradiso che si aspettavano – se solo ci fossero stati altri bambini in famiglia: “Ho sempre chiesto a mia mamma dove fosse il nostro bassista”, racconta Eddie.

    In occasione delle festività, la famiglia suonava tutta insieme, con Eugenia che prendeva posto davanti a un enorme organo elettrico. Ma la signora Van Halen era più tradizionalista, e molto occupata a prendersi cura della famiglia. Sebbene spingesse i ragazzi a esercitarsi dopo le lezioni di musica, non sopportava l’idea che un giorno sarebbero diventati dei musicisti. A volte faceva da madre tanto al giocoso Jan quanto ai suoi figli. “Sono cresciuto con mia madre che mi dava della ‘testa vuota – proprio come tuo padre’”, raccontò Eddie a Guitar World. “Quando cresci così, l’autostima ne risente”.

    Arrivati in quarta e quinta elementare, i fratelli Van Halen iniziarono a imitare i gruppi che vedevano all’Ed Sullivan Show, come i Beatles e i Dave Clark Five, il cui “Glad All Over” fece conoscere a Edward un nuovo genere di musica popo-lare. Quelli erano i primi gruppi a entrare nelle classifiche pop, perché piacevano agli studenti – e Eddie e Alex erano degli studenti già capaci di suonare musica. Così, alla Hamilton Elementary School, formarono la loro prima band, i Broken Combs, con Alex al sassofono, come suo padre, Edward al pianoforte, e vari com-pagni di scuola, tra cui Brian Hill alla batteria, Kevin Hill alla chitarra di plastica di marca Emenee, e Don Ferris al secondo sax.

    Suonando pezzi originali come “Rumpus” e “Boogie Booger” in locali di un certo livello, come la mensa scolastica, Alex e Eddie superarono l’imbarazzo adat-tandosi allo stile americano. Non c’era più bisogno di integrarsi – ormai erano speciali. “La musica è stata il mezzo con cui ho aggirato la timidezza”, disse poi Eddie a Guitar World.

    C’erano anche altri modi per rafforzare un animo timido. Quando Eddie aveva dodici anni, venne attaccato e morso da un pastore tedesco durante una gita in famiglia, qualche miglio lontano da casa. Per calmare l’angoscia del suo secon-dogenito e alleviare il dolore, suo padre prescrisse immediatamente uno shot di vodka e una sigaretta Pall Mall – iniziando il ragazzino ai due vizi che si porta dietro da una vita.

    Arrivati alle medie, i fratelli Van Halen avevano entrambi imparato a suo-nare il violino, e Alex era diventato abbastanza bravo da entrare a far parte di un’orchestra selezionata. Ma la televisione li tentava con un genere di musica più selvaggio. Eddie ricorda che se ne stava seduto sul divano a strimpellare la sigla di Peter Gunn col violino. Non c’era alcuna speranza per la musica classica – i ragazzi volevano suonare stando in piedi. Con l’idea di mantenere costante il progresso musicale di Alex, i suoi genitori gli comprarono una chitarra con le corde di nylon e lo mandarono a lezione di flamenco.

    Nel frattempo, Eddie aveva iniziato a distribuire i quotidiani porta a porta. “L’unico lavoro onesto che abbia mai avuto”, ha poi detto scherzando. Comprò

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    una batteria St. George da 125 dollari e iniziò a studiare le canzoni dei Dave Clark Five.

    Alex imparava lentamente a suonare la chitarra. Era passato a una chitarra elettrica da quattro soldi con un amplificatore Silverstone, ma lo scarso progresso gli causava frustrazione. Così, quando Eddie andava a riscuotere il compenso per i quotidiani, Alex si metteva dietro alla batteria e iniziava a darci dentro, copiando i fraseggi di Buddy Rich. Ben presto imparò le primitive rullate di “Wipe Out” dei Surfaris, un marchio di distinzione in qualsiasi cortile scolastico. Sentendosi in qualche modo frustrato per l’ingiusta piega che avevano preso gli eventi, Eddie imbracciò la chitarra di Alex per dimostrare che era lecito fare dietrofront. Quan-do lasciò di stucco suo fratello maggiore imparando “Blues Theme” degli Arrows, il vero ordine naturale delle cose divenne subito lampante.

    All’età di dodici anni, Edward possedeva una chitarra elettrica Teisco Del Ray con quattro pickup, acquistata al Sears per 100 dollari, e si cimentava in pezzi strumentali come “Walk Don’t Run” dei Ventures. Il suo primo amplificatore per chitarra fu un modello a rete metallica fatto a mano da un amico di suo padre. Il primo insegnante di chitarra “clandestino” di Eddie fu Eric Clapton, il chitarri-sta più tosto di quel periodo. Eddie decifrò ogni riff e assolo che Clapton aveva registrato con gli Yardbirds e i Cream. Cercò faticosamente di imitarne i dischi, ma in seguito ammise che le sue versioni non erano mai del tutto giuste – la sua colpa più grande era quella di non riuscire a nascondere il proprio stile personale.

    Lasciandosi coinvolgere dalla crescente scena rock and roll, i Van Halen si infatuarono di Jimmy Page degli Yardbirds, Jeff Beck del Jeff Beck Group, e dell’imprevedibile Jimi Hendrix. Sorprendentemente, considerati i paragoni che sarebbero emersi in seguito, Eddie non era un amante dello stile selvaggio e libe-ro di Hendrix. “Usava un sacco di effetti, e io non mi potevo permettere i pedali wah wah e il fuzz”, ha ammesso.

    Ogni volta che Eddie infrangeva le regole o trascurava il pianoforte, Eugenia Van Halen gli chiudeva la chitarra nell’armadio per una settimana – il castigo definitivo. Gli amici della scuola ricordano anche che Eddie finì nei guai per aver toccato il sacro pianoforte da concerto Steinway, l’orgoglio del dipartimento di musica, ma le punizioni furono leggere, grazie al suo talento e al sorriso malizioso. Continuando a seguire lezioni fino all’età di sedici anni, con un nuovo e sempre severo insegnante lituano di nome Staf Kalvitis, Eddie vinse il primo premio alle competizioni giova-nili di pianoforte del Long Beach City College per tre anni di seguito. Anche se il primo anno non riuscì a ritirare il premio sul palco: seduto sugli spalti, nel momen-to in cui chiamarono il suo nome, rimase pietrificato e fece finta di non aver sentito l’annuncio. Non sapeva come accettare un riconoscimento.

    Sebbene le sue dita fossero stupefacenti, Eddie non ha mai saputo leggere bene la musica, come invece avrebbe dovuto. Alex era eccellente nella lettura, mentre le esecuzioni di Eddie venivano meticolosamente stipate nella sua testa in anticipo,

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    nota per nota, fraseggio per fraseggio. I giudici delle competizioni di pianoforte lodavano le sue interpretazioni insolite, ma per quanto ne sapeva lui, suonava come da copione. “L’unico motivo per cui scrivevano la musica, era perché non avevano i registratori”, si lamentò in seguito Eddie. “Pensate che Beethoven o Bach avrebbero mai scritto qualcosa se avessero avuto un ventiquattro piste?”.

    Siccome la casa dei Van Halen era troppo piccola per ospitare le prove della band, i fratelli capirono di dover suonare con i ragazzini del posto che vivevano in case con il garage. Formarono un gruppo chiamato Revolver, e progredirono dai Ventures alle cover più pesanti di Cream e Mountain – dei power trio incen-trati sulla chitarra e la batteria. “Mi sono avvicinato alla batteria non come a uno strumento vero e proprio”, ricorda Alex, “ma più come a un’attitudine – come se stessi attaccando brutalmente qualcosa”; con la bacchetta più grossa e pesante a disposizione.

    All’età di tredici anni, Alex iniziò a sostituire il batterista nelle bande per ma-trimoni del padre, tenendo il tempo dei pezzi jazz e salsa guidati dal clarinetto e dalla fisarmonica. Spesso Eddie si univa a loro, suonando le linee di basso più profonde. “Uno dei primi concerti miei e di Al è stato con mio padre al La Me-rada Country Club”, ricorda Eddie. “Eravamo il piccolo fenomeno da baraccone che si esibiva mentre la band faceva una pausa. Io suonavo il piano o la chitarra e Al suonava la batteria”.

    Dopo la prima serata sul palco, i ragazzi fecero girare un cappello tra le coppie che ballavano e raccolsero ventidue dollari. Il padre diede loro cinque dollari cia-scuno e disse: “Benvenuti nell’industria musicale, ragazzi”.

    SDavid Lee Roth nacque il 10 ottobre 1953 a Bloomington, Indiana, dove suo

    padre Nathan, persona fortemente orientata alla carriera, frequentò la facoltà di medicina. Dopo la laurea, Roth padre trasferì la sua famiglia diverse volte, prima in un piccolo ranch a Newcastle, Indiana, dove il dottor Roth si occupava di un serraglio di cavalli e cigni. Poi i genitori portarono David e le due sorelle, Allison e Lisa, sulla costa Est, stabilendosi a East Alton Court a Brookline, Massachu-setts, fuori Boston.

    David era un bambino pieno di energia, ma era afflitto dalle allergie e dovette lottare con dei problemi di salute che lo costrinsero a portare un tutore per le gambe, da quando iniziò a muovere i primi passi fino all’età di quattro anni. Poi venne mandato in terapia per quasi un decennio. A nove anni iniziò tre anni in-tensivi di trattamenti clinici per l’iperattività. Riusciva però a sfogarsi in maniera salutare – i genitori di Roth chiamavano la sua esibizione dell’ora di cena “Mon-key Hour”, quando imitava i cartoni animati e cantava delle esuberanti versioni delle canzoni del varietà per gli ospiti a cena.

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    Sebbene sua madre, Sibyl, insegnasse musica e lingue alla scuola superiore, Roth afferma che i suoi genitori non fossero neanche lontanamente orientati alla musica, come la famiglia Van Halen. “Non ho avuto alcuna influenza musicale di rilievo”, disse a MTV. “I miei idoli sono sempre stati Gengis Khan, Muhammad Ali o Ales-sandro il Grande, o il tipo che ha inventato gli hamburger di McDonald’s”.

    Secondo lui, non soffriva di alcuna mancanza di concentrazione. Tutti gli altri avevano semplicemente difficoltà a recitare il proprio ruolo nel suo costante film mentale, una specie di veloce libro animato che stava a metà tra Mad e Playboy. Dave era ossessionato da Bugs Bunny, Tarzan, e il cantante e ballerino blackface1 Al Jolson, di cui ascoltava le canzoni su dei vecchi e fragili 78 giri in gommalacca. In seguito adorò Elvis Presley – ma non per la musica, bensì per i film.

    Mentre la mente di Roth fluttuava nella cultura pop, le sue radici erano ben salde nel Vecchio Mondo – i suoi genitori erano ebrei ucraini che avevano scam-biato le montagne e le steppe dell’Europa dell’est con gli afosi campi di grano del Midwest. Di fatto, tutti e quattro i suoi nonni parlavano russo. “Il mio bisnonno è morto dondolando”, ha scherzato una volta con un giornalista televisivo, “appeso a una corda”.

    Quando Roth aveva sette anni, suo padre, appassionato di cinema, lo portò a vedere A Qualcuno Piace Caldo, il classico di Billy Wilder in cui Tony Curtis e Jack Lemmon si vestono da donne per avvicinarsi a Marilyn Monroe. “La mia vita si è trasformata nella ricerca continua di un modo per essere in quel film, un modo qualsiasi”, raccontò Roth a Rolling Stone. Quella sera, tornando a casa, con gli occhi ancora impressionati, suo padre gli spiegò nel dettaglio la trama di Robin Hood – il film che la signora Roth pensava fossero andati a vedere.

    Il turbolento David trovò uno spirito affine nello zio Manny Roth, un bohé-mien fanatico del jazz il cui piccolo locale, Café Wha? su MacDougal Street, divenne il fulcro della scena beatnik del Greeenwich Village di New York nei primi anni Sessanta. Bob Dylan, Jimi Hendrix, Bruce Springsteen, Bill Cosby e Richard Pryor vi forgiarono tutti il loro repertorio anti-sistema davanti a un pubblico cosmopolita e altamente coinvolto. “New York rispecchia senza dubbio l’ambiente in cui sono cresciuto”, disse Roth a un giornalista. “Ovviamente mi ha incoraggiato”.

    Le gite estive a New York fecero capire al giovane David Roth che, alla faccia dei consulenti per l’orientamento e dei terapeuti comportamentali, c’era un mondo grande e grosso che bramava e desiderava le personalità stravaganti. Lo zio Manny gli comprò una radio per il suo ottavo compleanno, sperando di dare al ragazzo un po’ d’ispirazione. “L’ho accesa e c’era Ray Charles che cantava ‘Crying Time’”, racconta David, “e ho semplicemente capito che anche io dovevo essere alla radio”.

    1 - Uno stile di make-up teatrale in voga negli Stati Uniti nel XIX secolo che consisteva nel truc-carsi in modo marcatamente non realistico per assumere le sembianze stilizzate di una persona di colore.

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    I Roth lasciarono la costa est per andare in California nel 1963, quando Dave aveva dieci anni, giusto in tempo per farsi ammaliare dai Beach Boys nel fiore della loro carriera – l’unica vera arma dell’America contro i Beatles. Dalla sua nuova casa ad Altadena, il giovane Dave si trascinò in quarta elementare alla Altadena School, con i suoi capelli arruffati e le scarpe da tennis. Nel frattempo lo studio oftalmologico del dottor Roth andava a gonfie vele – divenne un oftal-mologo di successo e si diede anche da fare nelle produzioni teatrali del posto. Durante le medie, Roth ricorda di aver avuto un poster attaccato sopra al letto, regalatogli dal padre, raffigurante due polli che incontrano un tacchino con la scritta: “Sii fedele a te stesso”.

    Dopo tre anni passati da boyscout a livello principiante, Roth si lasciò l’in-fanzia alle spalle così come i fratelli Van Halen avevano abbandonato la loro casa sull’albero, e scoprì il suo impiego futuro. Una volta raccontò di aver perso la verginità su una spiaggia di Tahiti all’età di tredici anni, sotto la luna piena e con una ragazza che non parlava inglese. “Continuava a dire che le piacevo, che le piacevo. Ma sapevo che intendeva dire che mi amava – ma da quella volta sono rimasto complessato”. Per Roth, Tahiti si trasformò così in un polivalente scenario ideale per storie che forse accadono solo in paradiso. Nella sua autobio-grafia, Crazy from the Heat, racconta un altro momento cruciale degli albori della sua vita sessuale – essersi fatto fare un pompino dietro ai cespugli, in una zona periferica, mentre guardava nella finestra del salotto di qualcuno e c’era Johnny Carson in televisione.

    Con la carriera del dottor Roth che andava a gonfie vele, la famiglia si trasferì nella zona facoltosa di Pasadena. Quando venne introdotto il servizio scuolabus integrato, Dave divenne una sorta di cavia sociale e dalle medie in avanti frequen-tò scuole con alunni prevalentemente di colore. In seguito si sarebbe vantato di quanto fosse nero nel profondo, ma a quei tempi essere un hippie bianco con i capelli biondi significava cacciarsi in un sacco di risse. Si metteva quintali di bril-lantina nei capelli, gli piaceva fare la verticale e la scuola si trasformò in un talent show quotidiano. Gli insegnanti non capivano che problemi avesse.

    Nonostante la sua personalità esuberante, Dave era piuttosto solitario, un ra-gazzino ricco, troppo intelligente, con manie di grandezza. Si sentiva perseguita-to, ma allo stesso tempo superiore. Aveva un’idea volgare e patinata della sessua-lità, un effetto collaterale dell’aver conosciuto il mondo attraverso le lenti distorte di Mad e Playboy. Nonostante i soldi del padre, aveva sempre lavorato: alla fine del suo terzo anno presso la John Muir High School, Roth si comprò uno stereo con i dollari guadagnati spalando letame in una stalla insieme ai membri delle gang messicane.

    Una rissa scoppiata durante una partita di football nell’ora di ginnastica si risolse in un breve periodo trascorso in collegio. L’incremento delle regole lo indusse a una maggiore resistenza, così, dopo un semestre in uniforme, David

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    tornò tra i teenager della scuola pubblica, con la sua vena selvaggia ancora intatta. “Non andavo mai a lezione, ma andavo comunque a scuola”, raccontò. “Di solito mi sedevo sotto a un albero nel parcheggio, e suonavo la chitarra”. Attirava le ragazze e si costruì una reputazione per il repertorio insolitamente datato e l’at-teggiamento allegro. Mentre a casa era impegnato in una lotta culturale costante contro dei genitori troppo premurosi, fuori spingeva attentamente al limite la propria immagine – per un breve periodo, il suo tratto distintivo fu una ciocca di capelli ossigenata al centro della testa, stile puzzola.

    SOriginario del Midwest, come Roth, Michael Anthony Sobolewski nacque

    il 20 giugno 1954 al St. Joseph’s Hospital di Chicago. La sua famiglia viveva in un quartiere popolare di quello che ai tempi era considerato il ventre della classe operaia americana. Michael era il secondo di cinque figli, e il maschio più grande. Suo padre, Walter, suonava la polka nei complessi, esibendosi spesso all’Aragon Ballroom con quel burlone di Kay Kyser, il famoso leader della band che scrisse “Praise the Lord and Pass the Ammunition”. Walter incoraggiò anche Michael a suonare la tromba.

    La famiglia Sobolewski diede ascolto allo stesso richiamo che aveva attirato i Van Halen e i Roth verso ovest, andando a tastare il terreno con un breve trasfe-rimento nel 1963. Nel 1966 lasciarono definitivamente Chicago e si stabilirono ad Arcadia, California, una cittadina cinque miglia a est di Pasadena, dove Jan Van Halen lavorava come lavapiatti in un ospedale. Walt Sobolewski continuò a suonare ai balli, proponendo dei classici per gli altri trapiantati del Midwest e i nostalgici.

    Michael si dedicò al salto in lungo alla Dana Junior High. Suonò la tromba nella banda e rimase attivo nello sport, cimentandosi anche nel baseball. Quan-do sua sorella maggiore, Nancy, portò a casa i dischi di qualche band acid rock come Electric Flag, Cream e Blue Cheer, l’attenzione di Michael si spostò verso l’aspetto rumoroso e animale della musica. Imparò la linea di basso walking di “Groovin’ Is Easy” degli Electric Flag e divenne un fan del bassista della band, Harvey Brooks. Allontanatosi dal conformismo della banda del liceo, idolatrava il bassista dei Blue Cheer, Dickie Peterson – un hippie iconoclasta la cui rude attitudine consisteva sostanzialmente nel mostrare un bel dito medio al mondo.

    A quindici anni, con il fratello minore Steve alla batteria e l’amico Mike Her-shey alla chitarra, Mike fondò i Poverty’s Children, in seguito conosciuti come Balls. Il suo basso era una chitarra giapponese da quattro soldi della Teisco che apparteneva a Hershey – avevano rimosso le due corde più alte per creare un “basso”. Sebbene giocasse come ricevitore con le squadre di baseball locali usan-do la sinistra, si considerava ambidestro – infatti, iniziò a suonare il basso con la

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    sinistra, ma cambiò posizione perché gli strumenti per destri erano più facili da usare.

    Siccome Michael non sapeva bene come accordare un basso, il primo anno usò un’accordatura open E, tipica delle chitarre. Ben presto si procurò una replica di un basso Fender P al mercato delle pulci della città. Come Alex Van Halen, anche Michael si esibiva con la band del padre, un complesso di polka, e suonò la tromba per pochi spiccioli fino al college.

    SIntorno ai sedici anni, Alex e Eddie si esibivano regolarmente dal vivo suonan-

    do cover di Black Sabbath e ZZ Top, continuando a dare una mano al padre per i suoi concerti fissi al North Continental Club di North Hollywood, e facendo da autisti quando necessario. Gli mancavano ancora parecchi centimetri, dollari e decibel per arrivare dove volevano, ma erano pieni di risorse e abbastanza sfacciati da elemosinare o farsi prestare l’attrezzatura necessaria per i loro concerti.

    Nel 1971, i fratelli Van Halen fondarono il power trio Trojan Rubber Com-pany, con il loro vicino di casa Dennis Travis al basso. I ragazzi erano già dei tep-pistelli della little league, fumavano sigarette come i ragazzini di strada europei – e la madre, Eugenia, gli comprava persino i pacchetti. Per ottenere il permesso di suonare in un liceo cattolico, dovettero cambiare il nome in Space Brothers – i preti e le suore trovavano il riferimento alle droghe cosmiche più accettabile di quello ai preservativi.

    A prescindere dal nome, i fratelli Van Halen divennero noti per le loro im-peccabili imitazioni di band hard rock fighe come i Cream e i Cactus. Eddie suonava con un amplificatore Marshall da 100 watt da quando aveva quattordici anni. Una volta, in gara contro dei ragazzi dagli otto ai dieci anni più grandi nell’ambito di una battle of the bands nella sua zona, Alex aveva rubato la scena con un’esecuzione impressionante – tutti e quindici i minuti dell’assolo di batteria di Ginger Baker tratto da “Toad”.

    Mentre i suoi coetanei uscivano con le ragazze, affrontavano le delusioni amo-rose, facevano a botte e sopportavano le infinite umiliazioni del liceo, Eddie non prese parte a niente di tutto questo. Relegato nella sua camera da letto, intraprese una relazione a lungo termine con la propria chitarra. “Tutti attraversano l’adole-scenza facendosi fregare da qualche tipa o avendo problemi a farsi accettare dagli atleti della scuola. Io in pratica mi sono chiuso nella mia stanza per quattro anni”, raccontò poi.

    Avrà anche avuto la mente occupata dalla chitarra, ma il suo talento di chi-tarrista lo rese famoso. Ebbe la sua prima esperienza sessuale in giovane età, e le ragazze trovavano sempre interessante quel tenero ragazzo timido. In terza su-periore, la sua ragazza rimase incinta. “Era tutto poco chiaro”, disse al giornalista

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    David Rensin di TeenAge. “Non avevamo nemmeno abbastanza soldi per andare da un dottore e capire se fosse davvero incinta. E marinare la scuola per occuparsi della faccenda non era un’impresa da poco. Per fortuna avevo un amico in segre-teria che mi aveva dato dei permessi in bianco”.

    L’evento che gli avrebbe potenzialmente cambiato la vita venne prontamente scongiurato, prima che la sua gravità si abbattesse sulla giovane coppia. “Voleva abortire”, racconta Eddie. “Eravamo andati al consultorio e ne avevamo parlato. Eravamo preoccupati che i rispettivi genitori lo venissero a sapere, che ci bec-cassero per aver marinato la scuola. Alla fine i suoi genitori l’hanno scoperto, e la loro reazione mi ha sorpreso. Hanno detto: ‘Perché non siete venuti da noi, vi avremmo aiutati’. Credevo ci avrebbero considerati come feccia”.

    Messa da parte quell’esperienza, Eddie rimase concentrato sulla chitarra e sul-la band che aveva fondato insieme a suo fratello. Anche se i loro compagni di scuola già li adoravano, durante un concerto cambiarono completamente la vita di un ragazzo di una scuola vicina, Dave Roth. Era una spugna che assorbiva ogni forma di cultura, alta o bassa, di massa o per pochi, e seguiva tutti i balli del momento, dal Twist al Freddie – eppure, in un certo senso, era sempre tenuto d’occhio: i suoi genitori gli vietavano di andare ai grossi concerti rock. Ma poi, a diciannove anni, sgattaiolò via per andare a vedere gli Humble Pie. Così, quando l’adolescente Roth vide per la prima volta Eddie Van Halen suonare la chitarra, ebbe un’illuminazione.

    “Eddie era una specie di mentore”, disse in seguito Roth a un giornalista tele-visivo. “Avevo visto quello che faceva con le dita e avevo capito che volevo fare lo stesso con i piedi, e con la voce”. Sempre sia lodato e alleluia.

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    OMQuando nel 1971 Alex Van Halen si diplomò alla Pasadena High School, lui e suo fratello erano già degli stimati musicisti professionisti esordienti. Con-tinuando a dirigere e gestire la sua band con Eddie, Alex iniziò a prendere lezioni di musica al Pasadena City College. Si iscrisse a un corso di composizio-ne, dove arrangiò West Side Story per un’orchestra jazz di quattordici elementi, e quando ce n’era bisogno continuava a dare una mano a suo padre nella banda per matrimoni. “Ero sorpreso dalla bravura di Alex nel suonare il nostro genere di musica – polka e valzer”, disse Richard Kreis, uno dei bassisti di ruolo nel gruppo di Jan Van Halen. “Trascinava il ritmo della band! E mentre ci sistemavamo, pri-ma dell’apertura del bar, teneva d’occhio la porta mentre io mi prendevo la birra dalla spina”.

    I fratelli erano ormai andati oltre le band del vicinato – i Trojan Rubber Com-pany avevano chiuso bottega quando il bassista Dennis Travis aveva traslocato. Nel 1972, Alex e Eddie formarono un nuovo gruppo con il bassista Mark Stone. Volevano chiamarsi Rat Salad, il titolo di un pezzo strumentale dei Black Sab-bath tratto dal loro nuovo pesantissimo e innovativo album, Paranoid. Invece, i fratelli Van Halen scelsero il nome Genesis – l’ottimistico inizio di una carriera musicale di proporzioni bibliche.

    Non appena i Genesis iniziarono a suonare alle feste nei cortili a Pasadena, un amico disegnò per scherzo un poster che annunciava: “Genesis at the Forum” – evocando la spassosa idea che un giorno la band sarebbe stata così famosa da suonare al Forum di L.A.. Poi, un triste pomeriggio, Eddie tornò a casa dal nego-zio di dischi e con aria cupa informò Alex che la loro band aveva già pubblicato un album – aveva scoperto l’ultimo disco del gruppo progressive rock britannico Genesis sullo scaffale delle novità.

    Dopodiché divennero i Mammoth, una bestia selvaggia e lanuginosa che pro-metteva un passo pesante. Per un po’ di tempo, nella formazione dei Mammoth militò un tastierista, che Eddie odiava perché il piano elettrico riempiva il suono e limitava la sua chitarra. Oltre a suonare la chitarra, Eddie era anche la voce so-lista dei Mammoth, sebbene il canto non fosse il suo punto di forza.

    “Rock Steady” Eddie, come era stato soprannominato a scuola, seguì ben presto il fratello Alex al Pasadena City College, dove studiò composizione con

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