Gli stati vegetativi - Fondazione LUVI Onlus · del Modulo 4 “il paziente terminale non...

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1 5° Master Universitario “Cure palliative al termine della vita” Anno accademico 2004-2005 Gli stati vegetativi Riflessioni intorno al tema delle cure palliative e delle malattie inguaribili non oncologiche Documento di posizione proposto dai docenti e dagli allievi del Modulo 4 “il paziente terminale non oncologico” Milano, 22 settembre 2005

Transcript of Gli stati vegetativi - Fondazione LUVI Onlus · del Modulo 4 “il paziente terminale non...

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5° Master Universitario “Cure palliative al termine della vita”

Anno accademico 2004-2005

Gli stati vegetativi

Riflessioni intorno al tema delle cure palliative e delle malattie inguaribili non

oncologiche

Documento di posizione proposto dai docenti e dagli allievi

del Modulo 4 “il paziente terminale non oncologico”

Milano, 22 settembre 2005

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INDICE Premessa pagina 3 Parte prima. Gli stati vegetativi: informazioni generali

• Definizione, incertezze, immagine pubblica ............................................................................ 6 • I disturbi della coscienza.......................................................................................................... 8 • L'eziologia degli SV................................................................................................................. 8 • La prognosi degli SV conseguenti a eventi acuti traumatici e non traumatici ......................... 9 • La prognosi degli SV conseguenti a malattie neurodegenerative o malformative.................. 11 • Tabelle..................................................................................................................................... 12

Parte seconda. Spunti di riflessione sui principali temi proposti dal dibattito sui malati in stato vegetativo e posizione del gruppo di lavoro.

• Riflessione n. 1 - Stati vegetativi e diffusione pubblica delle notizie e delle informazioni. I determinanti del senso comune ............................................................................................... 16

• Riflessione n. 2 - La definizione di stato vegetativo: persistente, permanente? ..................... 19 • Riflessione n. 3 - Stati vegetativi e definizione di morte ....................................................... 20 • Riflessione n. 4 - Prevenzione, consenso informato, direttive anticipate .............................. 22 • Riflessione n. 5 - Stato vegetativo e decisioni di fine vita ..................................................... 25 • Riflessione n. 6 - I luoghi della cura ...................................................................................... 29 • Riflessione n. 7 - Operatori e familiari................................................................................... 33

Sintesi delle posizioni del gruppo di lavoro 36 Appendice. Stati vegetativi e malattie inguaribili non oncologiche. Riflessioni a margine delle cure palliative.

• Premessa: stati vegetativi, cure palliative e terminalità non oncologica................................ 40 • Sospendere o iniziare: limiti e potenzialità dell'agire sanitario. Buoni e cattivi? .................. 42 • I luoghi della cura: la terminalità non oncologica.................................................................. 44

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PREMESSA Il tema degli stati vegetativi è, come per altre situazioni di malattia o disabilità di lunga durata e non guaribili, oggetto ora di lunghi silenzi ora di improvvise esplosioni mediatiche. Più rari, ma di elevato contenuto etico e scientifico, i documenti ufficiali che cercano di offrire indicazioni condivise e condivisibili. Alcuni temi appaiono particolarmente congeniali a una riflessione che, a partire dalla specificità di una condizione ancora poco nota o poco compresa, si estenda al complesso delle sindromi, malattie e disabilità di lunga durata, che costituiscono oggi uno dei principali problemi di salute pubblica e che imporranno, nei decenni futuri, una profonda evoluzione del sistema sanitario e di quello assistenziale. Nelle pagine che seguono, trovano spazio le riflessioni scaturite dal lavoro condiviso dei docenti e dei partecipanti alla quinta edizione del Corso Master “Cure palliative al termine della vita”. I contributi più significativi derivano dal dibattito interno al modulo 4, (dedicato alla terminalità non oncologica), dal forum collegato al modulo e dalle riflessioni dei familiari e degli operatori intervistati nel progetto di ricerca "Lo stato vegetativo persistente: punti di vista e determinanti emotivi e culturali delle decisioni di fine vita", finanziato dalla Fondazione Luvi e la cui conclusione è prevista per il mese di maggio 2006. Le riflessioni sono state integrate, - e a volte confrontate -, sia con i risultati del lavoro di analisi della letteratura scientifica e dei documenti ufficiali in tema di bioetica che ha accompagnato il modulo e la fase preliminare del progetto di ricerca citato, sia con le esperienze personali e professionali dei partecipanti. Il documento è organizzato in due parti integrate da un’appendice. La prima parte richiama le principali informazioni necessarie a comprendere gli stati vegetativi, entità clinica originale e recente: la sua definizione attuale è stata proposta da Jennet e Plumm non più tardi del 1972, ma ancora oggi viene spesso confusa con condizioni diverse per aspetti clinici e evoluzione prognostica. Nella seconda parte sono proposte le riflessioni del gruppo di lavoro, sintetizzate o tradotte in alcune posizioni sui temi più significativi o problematici e riportate in calce all’argomentazione relativa. Esprimere una posizione non implica necessariamente proporre una soluzione conclusiva, ma certamente sottintende un giudizio o una linea di pensiero rispetto a un dibattito che, anche sui media oltre che in contesti ufficiali, ha assunto toni accesi. Basti ricordare i casi recenti di Terry Schiavo o di Eluana Englaro o quelli di Nancy Cruzan, Karen Quinlan o Tony Bland, tutti collegati al dibattimento giudiziario legato alle relative decisioni di fine vita. Il dibattito pubblico è apparso ai più come un dibattito estremo, portato ad accentuare le divisioni e poco adatto ad analizzare la realtà. Questa, per i malati e i loro familiari e prossimi, è più spesso rappresentata da anni di fatica, incertezze, frustrazioni. Soprattutto i familiari più esposti lamentano la sensazione di solitudine e abbandono, la carenza di informazioni, la difficoltà di reperire soluzioni convincenti, gli alti costi umani ed economici sostenuti. Frequente la difficoltà di ottenere informazioni tempestive, con particolare attenzione alle reali aspettative prognostiche, utili a orientarsi in modo consapevole nella rete dei servizi e ad assumere decisioni coerenti. Non meno difficoltà traspaiono dalle parole degli operatori dei sistemi di cura, chiamati a gestire con poche informazioni e poche certezze, anche scientifiche, una relazione di cura originale: il malato non parla, non comunica, non riflette, non decide, appare (è) totalmente inconsapevole e indifferente. La sua rappresentazione di persona, la sua storicità, sono in gran parte affidate a foto, oggetti, ai racconti di familiari e amici. E’ una relazione atipica, emotivamente coinvolgente e complessa per le tensioni che in essa si agitano, certamente utile a rivedere abitudini e prassi intorno al concetto di vita e al significato della morte e del morire. E’ una sorta di limbo, quello dei malati in stato

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vegetativo; vivi per la legge e per gli affetti ma in una condizione incerta e ancora tutta da definire per la natura e per la biologia. E’ un limbo affidato alle cure e ai desideri di chi vuole, ma anche al disinteresse, alle distorsioni, alle ideologie dei più. La riflessione proposta è centrata sulla condizione dei malati in stato vegetativo, ma molte argomentazioni propongono analogie con la condizione delle persone affette da malattie e disabilità di lunga durata; in particolare, le fasi avanzate, terminali e di morte imminente di questi malati sembrano proporre temi molto simili a quelle che la cultura delle cure palliative affronta da tempo nella consuetudine della cura al malato oncologico. Anche in esse il controllo dei sintomi, il comfort ambientale, la cura delle relazioni, il rispetto delle emozioni, l’attenzione alla comunicazione, la presa in carico globale delle esigenze della persona e della rete di cura, divengono progressivamente prevalenti rispetto ai trattamenti orientati alla guarigione. Non da meno, altrettanto cruciale è il dibattito sulle scelte di fine vita: sui contenuti etici che esse evocano, ma anche sulle soluzioni organizzative ed economiche necessarie per tradurre queste attenzioni in soluzioni concrete. Così, questo documento è completato da un’appendice dedicata a queste analogie, orientata a proporre agli attori privilegiati del mondo delle cure palliative un’occasione di dibattito intorno a temi proposti con forza dall’evoluzione per età e dello stato di salute della popolazione italiana e, più in generale, dei paesi ad economia avanzata. Il documento proposto è necessariamente incompiuto. Contiene però una serie di proposte anche molto pratiche. Può essere l’occasione per arricchire il cammino della Fondazione LUVI e del Centro universitario di ricerca sulle cure palliative al termine della vita di nuovi obiettivi, da raggiungere insieme a chi riterrà opportuno farsi carico di un problema delimitato ma dai riflessi decisamente ampi. Può essere la proposta per un itinerario specifico - documenti, dibattiti, gruppi di lavoro, ricerche dedicate – o per catalizzare il lavoro di centri di cura e specialisti fino ad oggi meno coinvolti nell'ambito delle cure palliative. Sono decisioni che gli estensori del documento rimettono nelle mani dei Comitati scientifici della Fondazione, del Centro universitario di ricerca e del Corso master e delle società e realtà già attive nel mondo delle cure palliative.

Per il gruppo di lavoro

Fabrizio Giunco

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Hanno collaborato alla stesura di questo documento: • Fabrizio Giunco, medico • Carlo Angelini, medico • Sabrina Tamborini, infermiera • Laura Mancini, infermiera • Rita Brenna, infermiera • Daniela D'Arrigo, infermiera • Luisella Massironi, terapista della riabilitazione • Carla Orlandi, terapista della riabilitazione • Elena Bellotti, terapista della riabilitazione • Carlo Monzillo, sociologo • Sara Zambello, assistente sociale

Hanno partecipato al dibattito, al forum e contribuito con i loro interventi alla stesura del documento gli allievi del quinto Master "Cure palliative al termine della vita"

• Alessandra Ricci, medico • Angela Danese, infermiera • Antonella Goisis, medico • Antonella Rovedo, infermiera • Cinzia Berto, infermiera • Clotilde Somenzi, fisioterapista • Donatella Pozzi, infermiera • Fabio Formaglio, medico • Francesco Eberli, infermiere • Laura Redaelli, medico • Mariuccia Furlan, infermiera • Nadia Guandalini, sociologa • Patrizia Garlatti, medico • Roberto Paredi, medico • Sabina Guglielmi, medico • Simonetta Fiandaca, infermiera

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PARTE PRIMA GLI STATI VEGETATIVI: INFORMAZIONI GENERALI Definizione, incertezze, immagine pubblica Lo stato vegetativo (SV) è una sindrome o condizione clinica di recente definizione, in gran parte, legata alla maggiore diffusione ed efficacia dei trattamenti di rianimazione, terapia intensiva e supporto vitale. Come per altre situazioni di malattia o disabilità di lunga durata e non guaribili, il tema degli SV è stato oggetto ora di lunghi silenzi ora di accesi dibattiti. Sono note, per la loro rilevanza pubblica, le storie recenti di Eluana Englaro, di Terry Schiavo, precedute da quelle di Karen Quinlan, di Anthony Bland e di Nancy Cruzan. Queste storie sono accomunate dall’aver attivato, a partire da altrettanti procedimenti giudiziari, un intenso dibattito pubblico sulla prosecuzione o sospensione dei trattamenti di supporto vitale e, in particolare, della ventilazione invasiva e della nutrizione artificiale, ma anche di aver provocato un confronto ancora aperto fra esperti di bioetica e scuole di pensiero scientifico. Storie in sintesi: sofferenze private, aule giudiziarie, dibattiti pubblici, schermi televisivi • Karen Quinlan entrò in SV post-anossico nel 1975; la corte suprema del New Jersey autorizzò i genitori a

interrompere la ventilazione invasiva. Karen sopravvisse altri dieci anni in regime di nutrizione parenterale totale per morire quindi di polmonite per la quale non si ricorse a un trattamento antibiotico. Le decisioni sono state prese in relazione al concetto di mezzo straordinario o ordinario di sostegno alla sopravvivenza. Ventilazione invasiva e trattamento antibiotico sono stati interpretati come mezzi straordinari, soggetti alla discrezionalità scientifica o giuridica; nutrizione e idratazione come mezzi ordinari, quindi indispensabili e non condizionabili.

• Nancy Cruzan entra in SV nel 1983 in seguito ad un incidente stradale. In successivi livelli di giudizio, che coinvolgono la Corte Suprema del Missouri e quella Suprema Federale, viene prima rigettata e poi autorizzata la sospensione della nutrizione artificiale. Le motivazioni delle sentenze fanno essenzialmente riferimento alla volontà manifestata dalla paziente prima della sopraggiunta incapacità ed alla solidità delle deposizioni testimoniali in tal senso, in relazione agli orientamenti personali sulle scelte di cura e di fine vita.

• Tony Bland entra in SV nel 1989, a 17 anni, in conseguenza delle lesioni riportate durante la tragedia di Sheffield: oltre 100 persone muoiono in uno stadio troppo affollato, la maggior parte schiacciate contro le barriere o dalla folla. Nel 1993 la corte suprema inglese viene investita della responsabilità di decidere in ordine alla prosecuzione o sospensione dei trattamenti antibiotici e della nutrizione artificiale. La corte autorizza la sospensione; i giudici riconoscono che tale decisione, pur esprimendo in termini omissivi l’intenzione di interrompere la vita di un malato in termini di diritto ancora vivo, non implica alcuna responsabilità civile e penale da parte dei medici curanti in presenza di indicazioni oggettive di una condizione clinica senza speranze di recupero. Al contrario del caso Cruzan, i giudici inglesi affermano che quando un paziente non è in grado né di accettare né di rifiutare il trattamento e non abbia espresso in precedenza una volontà esplicita, i medici sono tenuti a decidere dopo averne discusso con la famiglia. Sono ribaditi due concetti: l’alimentazione e l’idratazione sono trattamenti medici soggetti alla valutazione medica di appropriatezza; il medico non ha l’obbligo giuridico di somministrare trattamenti che siano inutili secondo una accreditata valutazione medica della condizione clinica del paziente. Nella decisione inglese, come per altre situazioni di incapacità del paziente, si fa riferimento al ruolo del medico chiamato a interpretare e decidere secondo il “miglior interesse” del paziente.

• Terry Schindler Schiavo, in SV dal 1990, è stata oggetto di un lungo e complesso iter giudiziario promosso dal marito, Michael Schiavo, che era anche suo tutore legale, contro l’esplicita opposizione dei genitori, Bob e Mary Schindler. Il marito ha chiesto e ottenuto dai diversi livelli di giudizio l’autorizzazione a interrompere l’idratazione e la nutrizione artificiali. La Corte d’Appello federale ha autorizzato tale sospensione, nonostante l’opposizione dei genitori fosse stata accolta da altri livelli di giudizio fra cui la Corte Suprema dello Stato della Florida. Questa diversa interpretazione ha determinato un vero e proprio conflitto giurisidizionale, oltre che culturale e religioso, sfociato in un confronto drammatico fra forze di polizia statali e locali chiamate a far rispettare, alla soglia della casa di cura nella quale era ricoverata Terry, le direttive ricevute dai rispettivi tribunali di competenza: in attesa delle decisioni dello Stato della Florida, i cui giudici erano stati investiti dell’ennesimo ricorso, gli agenti della polizia statale erano stati infatti inviati presso la struttura di ricovero con l’incarico di imporre il riposizionamento della sonda naso-gastrica e la ripresa delle nutrizione artificiale, contrastati in questa azione dagli agenti della polizia locale della città di Pinellas Park, chiamati a far rispettare la sentenza già emessa e l’ordine contrario del giudice. Questo clima di tensione e di enfatizzazione dei conflitti ha favorito un confronto pubblico che a tratti ha sfiorato l’assurdo, ma anche l’immaginazione di esagitati e mitomani: un uomo incensurato è stato arrestato dalla polizia federale dopo essersi offerto pubblicamente di uccidere, per una somma cospicua, il marito di Terry e il

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giudice di Pinellas Park, reo di essersi pronunciato più volte sul caso, confermando in più riprese il suo ordine di sospendere la nutrizione artificiale. Anche in questo caso il dibattimento e la decisione dei diversi gradi di giudizio sono stati in gran parte basati sulla ricostruzione delle volontà espresse in precedenza dalla persona e sulla testimonianza verbale del marito-tutore, ricostruzione contestata dalle testimonianze diverse dei genitori.

• Eluana Englaro entra in SV il 18 gennaio del 1992, all’età di 21 anni, in conseguenza di un grave incidente stradale che determinò, oltre al danno cerebrale, anche la frattura mielica della seconda vertebra cervicale. Nel 1996 il padre della ragazza, che nel 1997 diviene a tutti gli effetti anche il suo tutore legale, propone alla Corte di Milano di sospendere la nutrizione artificiale, motivando tale richiesta con le dichiarazioni espresse dalla stessa ragazza in occasione di un evento analogo che aveva colpito, due anni prima del proprio incidente, un suo caro amico. Nel 1999 la Corte delibera che, sulla base del codice civile, il tutore ha il potere di rappresentare anche in tale ambito gli interessi della persona ed è quindi legittimato a esprimere o rifiutare il consenso al trattamento terapeutico quando questo sia legato a desideri espliciti, anche espressi in forma verbale, dalla persona. Nel caso specifico la richiesta di sospensione viene però rigettata “considerato il dibattito ancora aperto in ambito medico e giuridico in ordine alla qualificazione del trattamento somministrato (alimentazione e idratazione artificiale)”. Il padre propone ricorso, che viene rigettato il 19 dicembre 2003 dalla Corte d’Appello di Milano, che conferma la carenza attuale di certezze relativamente ai temi da dibattere e rinvia il problema al legislatore, auspicando vengano sanciti strumenti adeguati a tutela di queste persone. Il dibattito si arricchisce dell’intervento del medico curante, il primario rianimatore dell’ospedale di Lecco, che ha seguito l’intera vicenda dal suo drammatico esordio alle sue espressioni più attuali. Il medico esprime tutte le sue incertezze, ma ribadisce che quella di Eluana è comunque vita e come tale ritiene di doverla preservare, fino al punto di dichiarare che un’eventuale evoluzione legislativa che vada verso la possibilità di interrompere i trattamenti di supporto in questi malati, debba anche prevedere la corrispondente possibilità dell’obiezione di coscienza da parte dei medici chiamati ad applicarla.

Il primo tentativo di definizione rigorosa di SV risale solo al 1972 1. Prima di tale data essa era descritta con decine di nomi diversi, che comprendevano quadri clinici e funzionali non sempre omogenei; fra i più diffusi quelli di coma cronico, coma vigile, coma irreversibile, coma prolungato, stato apallico e altri ancora 2. Alcune di queste definizioni, in realtà, sembrano contribuire ancora oggi a confondere il dibattito pubblico, il senso comune, le decisioni di cura. Nelle stesse casistiche pubblicate possono ancora confluire disturbi della coscienza non strettamente omologabili, per caratteristiche cliniche ed evoluzione prognostica, allo SV in senso stretto. Secondo Jennet e Plum, per SV si intende uno “stato cronico di veglia senza alcun segno comportamentale di interazione con l’ambiente (e quindi senza una apparente coscienza), durante il quale il respiro, la pressione sanguigna e, più in generale, le funzioni necessarie a mantenere la vita sono preservate”. Secondo la Multy-Society Task Force on PVS 3 è possibile formulare una diagnosi di SV se la persona dimostra:

• nessuna consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante • l'incapacità ad interagire con gli altri; • nessuna evidenza di comportamenti sostenuti, riproducibili, finalizzati o volontari in risposta

a stimoli visivi, uditivi, tattili o dolorosi; • nessun segno di comprensione o espressione verbale; • una stato di intermittente vigilanza compatibile con un ritmo sonno-veglia; • il parziale mantenimento delle funzioni autonomiche del tronco e dell’ipotalamo, sufficienti

a garantire la sopravvivenza in presenza di cure mediche e infermieristiche; • incontinenza urinaria e fecale; • variabile conservazione delle risposte riflesse dei nervi cranici (riflessi della pupilla, oculo-

cefalici, corneali, vestibolo-oculari e suzione) e di quelli spinali. Più in generale la persona in SV mostra una dissociazione fra il livello della coscienza – la persona è vigile e alterna fasi di sonno e di veglia - e il suo contenuto. I danni anatomici rilevabili sono eterogenei; le lesioni dominanti sembrano riguardare i nuclei talamici e la sostanza bianca sottocorticale, mentre la corteccia può anche apparire integra o con minime lesioni contusive. Le conoscenze attuali sono comunque ancora incomplete. Secondo Jennet è possibile ipotizzare che la

1 Jennet B. Plum F. Persistent vegetative state after brain damage: a syndrome in search of a name. Lancet 1972;1:734-737 2 Verlicchi A, Zanotti B. Il coma & co. New Magazine Edizioni, Trento, 1999 3 Multy-Society Task Force on PVS. Statement on medical aspects of the persistent vegetative state. N Engl J Med 1994; 330 1499-507, 1572-9

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coscienza dipenda dall’integrità di una “sufficiente quantità di connessioni talamo-corticali e intercorticali e che la persistenza di isolati focolai di attività neuronale corticale, anche se associati con alcuni schemi comportamentali stereotipati, non indichi necessariamente la persistenza di un livello anche minimo di coscienza” 4. I disturbi della coscienza Lo SV va distinto da altri disturbi della coscienza, fra cui il coma in senso stretto, la sindrome “locked-in” (o di deafferentazione), il mutismo acinetico, oltre che dalla morte dell’encefalo e del tronco cerebrale (tabella 1). In particolare, lo SV è condizione diversa, sia sotto il piano clinico che giuridico, dalle condizioni definite come morte cerebrale o coma irreversibile. In queste si identifica infatti la completa e irreversibile perdita di attività dell’encefalo, confermata dalle registrazioni elettrofisiologiche, e delle funzioni vitali correlate, fra cui l’attività respiratoria. Piuttosto che di coma, sarebbe in questo caso più corretto parlare di stato cadaverico 5. Secondo la legislazione italiana 6, l’accertamento della morte cerebrale richiede la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, inclusa l’assenza dei riflessi del tronco, del respiro spontaneo e dell’attività elettrica cerebrale. La condizione deve essere verificata per almeno 6 ore nell’adulto, 12 ore per i bambini fra 1 e 5 anni e 24 ore al di sotto di questa età ed il suo accertamento è premessa indispensabile per avviare la proceduta di espianto di organi destinati al trapianto su vivente. Viene messa in discussione anche la concezione di SV come condizione morbosa associata alla morte corticale; in realtà, nel malato in SV possono persistere isole anche ampie di tessuto corticale funzionale 7 8 9 10 senza che questo implichi di necessità la presenza di un contenuto di coscienza clinicamente rilevabile. Più di recente è stato avviato il riconoscimento di un nuovo quadro clinico, definito dall’American Academy of Neurology come Stato di coscienza minimo o Stato di minima coscienza (Minimally conscious state - MCS) 11. I pazienti in MCS si distinguono da quelli in SV per la presenza parziale di segni di consapevolezza e di interazione con l’ambiente, che si esprimono attraverso comportamenti anche inconsistenti e di breve durata, ma ripetibili e sufficientemente sostenuti da essere distinguibili da semplici risposte riflesse. L’MCS può essere l’evoluzione di uno SV, può ulteriormente evolvere verso un più elevato livello di coscienza o stabilizzarsi a sua volta come condizione di lunga durata o permanente. L’eziologia degli SV Lo SV può essere conseguenza di insulti cerebrali di diversa natura, traumatici e non traumatici, o essere determinato da malattie neurologiche degenerative o metaboliche o da malformazioni dello sviluppo del sistema nervoso centrale. Nel primo caso si tratta di eventi acuti: un terzo di origine traumatica (32%), due terzi di origine medica (anossie cerebrali per il 27%, incidenti cerebrovascolari per il 15%) 12; nel complesso l'encefalopatia post-anossica determina quasi la metà degli SV per cause mediche 13. I disordini degenerativi e metabolici e le malformazioni dello sviluppo che possono determinare uno SV sono numerose e riassunte in tabella 2. Prevalenza e incidenza degli SV La sindrome è rara, ma i numeri in gioco sono significativi se analizzati rispetto alle esigenze organizzative ed economiche collegate con le necessità di cura. Stime statunitensi indicano in

4 Jennet B. The vegetative state. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2002. 73:355-356 5 Pilotto F. Vegetative State: terminological matters and ethical consequences. Poster al convegno "Le terapie di sostegno delle funzioni vitali e lo stato vegetativo: progressi scientifici e dilemmi etici". Roma, 17-20 marzo 2004 6 legge n. 644/1975; legge n. 578/1993; decreto del Ministero della Sanità n. 582/1994 7 Menon DK, Owen AM, Williams EJ. Cortical processing in persistent vegetative state. Lancet 1999; 352:200 8 Schiff ND, Plum F. Cortical function in the persistent vegetative state. Trends Cog Sci 1999; 3:43-6 9 Adams JH, Graham DI, Jennet B. The Neurhopatology of the vegetative state after an acute brain insult. Brain 2000; 123:1327-28 10 Pontificia Academia pro Vita, Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici. Riflessioni sui problemi scientifici ed etici relativi allo stato vegetativo. Documento finale congiunto. Atti del convegno, Roma, 18 aprile 2004 11 American Academy of Neurology. The minimally conscious state. Definition and diagnostic criteria. Neurology 2002; 58: 349-353 12 Verlicchi A, 1999. Op. cit. 13 Verlicchi A, 1999. Op. cit.

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600.000-1.875.000 $ il costo di cura medio life-time per persona conseguente a danni encefalici post-traumatici di grave entità 14, ma l’impegno economico può essere anche più elevato. Sono stati descritti casi singoli nei quali la quantificazione dei costi diretti e indiretti ha portato a una stima superiore ai 6 milioni di dollari 15. Limitandosi agli SV conseguenza di eventi acuti, traumatici e non traumatici, le casistiche pubblicate permettono di stimare una prevalenza di 64-140 casi per milione di abitanti, un terzo dei quali riguarda bambini 16. Sempre limitandosi ai casi conseguenti ad eventi acuti e considerando i soli SV perduranti da almeno un mese dopo l'insulto che ne ha provocato l’insorgenza, l'incidenza annuale è di 14-67 nuovi casi per milione di abitanti; l’incidenza scende a 5-25 nuovi casi per anno e per milione di abitanti prolungando il limite di durata a tre mesi 17. I dati relativi alle casistiche europee sembrano attestarsi sui livelli inferiori di queste stime, rispetto a quelli di origine nordamericana 18 19. Se i valori di prevalenza e di incidenza pubblicati risultassero validi anche per la popolazione italiana (in assenza di studi dedicati), il numero di casi presenti sul territorio nazionale potrebbe essere stimato in 3.700-8.200 unità, con una incidenza pari a 800-3.900 nuovi caso per anno. Limitandosi al territorio regionale lombardo, è possibile ipotizzare 600-1.300 casi complessivi (prevalenza) e 130-600 nuovi casi ogni anno (50-230 a tre mesi); considerando che la maggior parte delle strutture che accolgono questi malati garantiscono da 1-2 a un massimo di 10-15 posti letto dedicati, si tratta quindi di malati distribuiti in alcune decine o centinaia di strutture con caratteristiche amministrative e organizzative molto diverse fra loro. L’entità dei numeri in gioco cambia radicalmente se al numero di persone in SV in conseguenza di eventi acuti viene sommato quello dei malati con caratteristiche clinico-funzionali simili, ma espressione della evoluzione avanzata di una malattia cronico-degenerativa di lunga durata. Le sole sindromi di demenza coinvolgono, utilizzando le stime di Ugo Lucca derivate da un pool di 10 studi italiani applicati alla popolazione nazionale al 1999, poco meno di 1.100.000 italiani 20; l’aspettativa di vita media di questi malati è stimabile in 7-10 anni di vita, gli ultimi 2-3 dei quali attinenti alla fase avanzata, vegetativa della malattia: si tratta quindi di poco più di 250-300.000 persone, oggi sostenuti nella maggior parte dei casi nella propria casa dalle rispettive reti familiari o accolti, in minor misura, nelle strutture residenziali per anziani. Specifico del contesto italiano è la ridotta proporzione, rispetto agli altri paesi economicamente avanzati, dei malati con queste caratteristiche che intercettano servizi di cura formalizzati, domiciliari, semiresidenziali o residenziali. Situazione analoga, ma cifre meno sicure e collocazione assistenziale ancora più eterogenea, quella dei bambini e adulti affetti da malformazioni o altre malattie degenerative del sistema nervoso centrale. Mancano infine dati affidabili relativi alle fasi avanzate dei complessi stati polipatologici e delle insufficienze multiorgano dell’età avanzata e molto avanzata, dati che in parte si sovrappongono a quelli della fase avanzata delle sindromi di demenza, coincidendo abitualmente questa nelle età avanzate con altre insufficienze di sistema. La prognosi degli SV conseguenti a eventi acuti traumatici e non traumatici Lo SV conseguenza di eventi acuti può seguire direttamente la lesione, ma più spesso si sviluppa dopo un periodo di coma di durata variabile. In genere la maggior parte dei pazienti in coma inizia il risveglio entro 2-4 settimane, indipendentemente dalla gravità del danno 21 22. Sempre per gli SV conseguenza di eventi acuti, la stima della evoluzione successiva è condizionata da molte incertezze, legate alla persistente difficoltà di discriminare i diversi disturbi della coscienza e alle variabili legate all’età, all’eziologia e alle scelte di cura. La più vasta casistica oggi disponibile, quella della Multy-society Task Force on PVS (753 casi seguiti fino ad un anno dall'evento che ha 14 NIH. Consensus Development Panel on Rehabilitation of Persons with Traumatic Brain Injury. JAMA 1999; 282: 974-983 15 Paris JJ. The six million dollar woman. Conn Med 1981; 45:720-721 16 Jennet B, 2002. Op. cit. 17 Jennet B, 2002. Op. cit. 18 Jennet B, 2002. Op. cit. 19 Manciaux C, Marsala V. Les etas végétatifs persistants: mode de prise en charge en regions Lorrain e Rhone-Alpes. Mémoire pour la formation de medicine-inspecteur de La Santé. Rennes, Edition Ecole Nationale de La Santé Publique, 1987 20 Lucca U. Dimensione epidemiologica e impatto economico delle demenze. Milano, Emme edizioni, 2002 21 Verlicchi A, 1999. Op. cit. 22 Plum F. The diagnosis of stupor and coma (3rd edition). Philadelphia, Davis, 1980

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determinato lo SV), ha preso in esame i pazienti con SV determinato da eventi acuti e perdurante da almeno un mese rispetto all’evento iniziale 23. In questo sottogruppo il 43 per cento ha riguadagnato la coscienza entro l'anno di osservazione, il 34 per cento è andato incontro a morte e il 23 per cento si è mantenuto in SV (tabella 3). La sopravvivenza a un anno è influenzata da diverse variabili, fra le quali l’età dei pazienti e la natura dell’evento. Muoiono entro un anno il 33 per cento degli adulti e il 9 per cento dei bambini con SV di natura traumatica, ma questa proporzione sale al 53 per cento degli adulti e al 22 per cento dei bambini con SV di origine non traumatica 24 (tabella 4). In generale, gli SV post-traumatici hanno mostrato una prognosi migliore rispetto a quelli non traumatici, e quelli dei bambini migliore di quelli degli adulti. Oltre l'anno di sopravvivenza, la mortalità si riduce gradualmente e l'aspettativa di vita residua cresce proporzionalmente. Lo studio californiano di Strauss e colleghi, segnala la differenza fra media e mediana nella stima dell'aspettativa di vita: la seconda è più breve perché meno influenzata dalle più rare sopravvivenze protratte 25. Dopo un anno dall'evento l'aspettativa di vita residua media è di 10.5 anni, la mediana di 5.2; dopo 4 anni di 12.2 e di 7 anni rispettivamente. La sopravvivenza oltre i 10 anni è inusuale, ancor più quella di resistere oltre i 15 anni (da 1 caso su 15.000 a 1 caso su 75.000) 26. Sono comunque descritti casi singoli di sopravvivenza prolungata fino a 40-48 anni, ma in assenza pressoché totale di studi di follow up in pazienti con SV di lunga durata (oltre i due o tre anni). In generale, è possibile affermare che lo SV condiziona una riduzione dell'aspettativa di vita residua per età: la sopravvivenza media è di 2-5 anni per i pazienti in SV ad un mese dall'evento 27. Il tasso di mortalità per gli adulti in SV conseguente a danno encefalico acuto riportato è del 70% a 3 anni e dell'84% a 5 anni 28. L'aspettativa di vita è influenzata dall'età del paziente. Lo studio di Ashwal su una popolazione di 847 bambini e adulti in SV descrive la mediana di sopravvivenza in anni e per classe di età indicata nella tabella 5 29. Mancano, però, studi che mettano in relazione il tempo di sopravvivenza con la qualità dell'assistenza 30. Oltre a una ridotta aspettativa di vita, lo SV condiziona un’elevata attesa di disabilità. Il recupero della coscienza può avvenire senza un recupero della funzionalità, mentre il recupero della funzionalità non può avvenire senza un parallelo recupero della coscienza 31. La casistica della Multy-society Task Force on PVS descrive un miglioramento del livello di coscienza a 12 mesi nel 52 per cento dei casi traumatici e nel 15 per cento di quelli non traumatici. In generale, più lunga è la durata dello SV, più rara è l'evoluzione positiva. In ogni caso, il recupero di una piena validità è essenzialmente anedottico. Un "buon recupero" della coscienza è stato registrato solo in 7 casi su 100 di SV post-traumatico a un anno dall'evento e in 1 su cento di quelli di origine non traumatica. Entrando nel dettaglio dei 7 casi post-traumatici citati, si evidenzia come in un caso è stato possibile registrare il recupero della coscienza a 30 mesi dal trauma, ma in presenza di una grave disabilità residua 32; nei 6 casi riportati dalla Traumatic Coma Data Bank la coscienza venne riacquistata da 1 a 3 anni dopo l'evento traumatico, residuando una disabilità severa in 4 e moderata in 1 (non determinato lo stato funzionale del sesto) 33. In generale, anche in presenza di un miglioramento del livello di coscienza, la disabilità residua è di regola grave o moderata: la possibilità di buon recupero funzionale nelle casistiche controllate è minore dello 0.1%, con possibilità conseguenti di errore prognostico estremamente piccole 34. 23 Multy-Society Task Force on PVS, 1994. Op. cit. 24 Multy-Society Task Force on PVS, 1994. Op. cit. 25 Strass DJ. Life expectancy and median survival time in the permanent vegetative state. Pediatr Neurol 1999; 21:626-631 26 Verlicchi A. op. cit. 27 Multy-Society Task Force on PVS, 1994. Op. cit. 28 Verlicchi A, 1999. Op. cit. 29 Ashwal S. Life expectancy of children in a persistent vegetative state. Pediatr Neurol 1994; 10:27-33 30 Verlicchi A, 1999. Op. cit. 31 Verlicchi A, 1999. Op. cit. 32 Arts WFM. Unexpected improvement after prolonged posttraumatic vegetative state. J Neurol Neurosurg Psychiatry 1985; 48:1300-1303 33 Levin HS. Vegetative state after close-head injury: a Traumatic Coma Data Bank Report. Arch Neurol 1991; 48:580-585 34 Tasseau F. Etas végétatifs cronique: répercussion humaines, aspects médicaux, juridique et éthiques. Rennes, Edition Ecole Medical de La Santé Publique, 1991

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La sopravvivenza di questi pazienti è funzione delle caratteristiche delle malattie di base, della qualità dell'assistenza, del corretto supporto idro-alimentare e della prevenzione e gestione della complicanze. Le cause di morte sono in genere 35:

• infezioni, di solito polmonari o urinarie (52%); • decadimento generale sistemico (30%) • morte improvvisa per cause non determinate (6%) • insufficienza respiratoria (6%) • altre cause (stroke, tumori, eventi cardiaci) (3%)

Evitabili, in presenza di un attento monitoraggio e di programmi appropriati di prevenzione e trattamento, alcune complicazioni ricorrenti: contratture, infezioni respiratorie e urinarie, alterazioni renali, stipsi, diarrea, denutrizione, ulcere da stress, trombosi venose profonde, ulcere da decubito, ossificazioni eterotopiche, reazioni avverse da medicamenti 36. La prognosi degli SV conseguenti a malattie neurodegenerative o malformative Gli SV che rappresentano la fase avanzata o terminale di malattie cerebrali croniche e quelli conseguenza di malformazioni dello sviluppo del SNC hanno ovviamente una storia naturale e una aspettativa prognostica diversa. Le malattie degenerative sono in genere caratterizzate da una progressiva evoluzione verso la totale perdita delle funzioni mentali superiori e dell'autonomia residua. La morte può avvenire prima che si raggiunga una situazione clinica funzionale compatibile con una diagnosi di SV o alcuni anni dopo la stabilizzazione della condizione vegetativa, in genere conseguenza di eventi infettivi o dello sviluppo di una progressiva cachessia. Alcuni pazienti con quadri degenerativi cerebrali gravi possono andare incontro a SV di durata transitoria facilitata da farmaci neurolettici o sedativi, infezioni, malattie sistemiche, comizialità, disidratazione o malnutrizione, che vanno esclusi prima di formulare diagnosi di SV. Escluse queste situazioni, lo SV da malattie neuro-degenerative di lunga durata non presenta alcuna possibilità di recupero. Nelle gravi malformazioni cerebrali l'assenza di corteccia cerebrale alla nascita determina inevitabilmente uno SV di tipo permanente; quadri meno gravi possono evolvere con lo sviluppo del tessuto cerebrale residuo, verso l'espressione anche minima di segni di consapevolezza o interazione con l'ambiente. In generale, in bambini con SV a tre mesi, l'assenza di segni di coscienza entro i sei mesi di vita sembra escludere ogni possibilità di recupero futuro 37.

35 Verlicchi A, 1999. Op. cit. 36 Andrews K. Misdiagnosis of the vegetative state: retrospective study in a rehabilitation unit. Br Med J 1996; 313:13-16 37 Multy-Society Task Force on PVS, 1994. Op. cit.

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PARTE PRIMA - TABELLE Tabella 1 Comparazione delle caratteristiche cliniche di diversi disturbi della coscienza

Condizione Coscienza Sonno/veglia Funzioni motorie Funzioni uditive Funzioni visive Comunicazione Emozioni

Coma Assente Assente Solo riflessi e risposte

posturali Nessuna Nessuna Nessuna Nessuna

Stato vegetativo

Assente Presente

Riflessi, risposte posturali e allo stimolo doloroso.

Occasionalmente movimenti spontanei non finalizzati

Reazione di allarme. Breve

orientamento verso il suono.

Nessuna o fissazione visiva di breve durata

Nessuna

Nessuna. Eventuale pianto o

sorriso riflesso

Stato di coscienza minimo

Parziale Presente

Viene localizzato lo stimolo doloroso e raggiunti oggetti. Sono manipolati o toccati

oggetti in modo coerente con le loro dimensioni e forma. Sono eseguiti movimenti

automatici (grattarsi)

Localizza la provenienza del suono. Inconstante esecuzione

dei comandi.

Fissazione sostenuta dello

sguardo

Vocalizzazione finalizzata.

Inconsistente ma

comprensibile verbalizzazione

o gestualità.

Sorriso o pianto

finalizzati

Sindrome locked-in

Piena Presente Quadriplegia Preservate Preservate

Afonico, anartrico.

Movimenti verticali e

chiusura degli occhi di solito

possibili.

Preservate

Fonte American Academy of Neurology. The minimally conscious state. Definition and diagnostic criteria. Neurology 2002; 58: 349-353

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Tabella 2 Origine possibile degli SV da malattie e malformazioni di lunga durata

Disordini degenerativi Malformazioni dello sviluppo

Negli adulti • malattia di Alzheimer • demenza multi-infartuale • malattia di Pick • malattia di Jacob-Creutzfeldt • malattia di Parkinson • malattia di Huntington

• anencefalia • idranencefalia • lissencefalia • oloprosencefalia • encefalocele • schizencefalia • idrocefalo congenito • severa microcefalia

Nei bambini • sfingolipidosi • adrenoleucodistrofia • ceroidolipofuscinosi • aciduria organica • encefalopatia mitocondriale • disordini degenerativi della

sostanza grigia

Fonte Verlicchi A, Zanotti B, 1999

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Tabella 3 Incidenza del recupero della coscienza e della funzione in adulti e bambini in SV dopo insulto cerebrale traumatico o non traumatico

ADULTI (% dei pazienti osservati)

Esito e recupero funzionale 3 mesi 6 mesi 12 mesi Evento traumatico (n. 434)

Morte 15 24 33 Stato vegetativo 52 30 15

Recupero della coscienza 33 46 52 - con disabilità severa 28

- con disabilità moderata 17

- buon recupero 7

Evento non traumatico (n. 169)

Morte 24 40 53 Stato vegetativo 65 45 32

Recupero della coscienza 11 15 15 - con disabilità severa 11

- con disabilità moderata 3

- buon recupero 1

BAMBINI (% dei pazienti osservati)

Esito e ricupero funzionale 3 mesi 6 mesi 12 mesi Evento traumatico (n. 106)

Morte 4 9 9 Stato vegetativo 72 40 29

Recupero della coscienza 24 51 62 - con disabilità severa 35

- con disabilità moderata 16

- buon recupero 11

Evento non traumatico (n. 45)

Morte 20 22 22 Stato vegetativo 69 67 65

Recupero della coscienza 11 11 13 - con disabilità severa 7

- con disabilità moderata 0

- buon recupero 6

• I dati derivano da una casistica di pazienti in SV ad un mese dopo l’evento acuto e non includono case reports individuali.

Alcuni pazienti con recupero della coscienza sono morti dopo un anno dall’evento o sono stati persi al follow up; • i dati relativi agli insulti non traumatici includono tutte le possibili cause e non solo gli insulti post-anossici; la prognosi di

questi ultimi pazienti è più grave di quanto indicato dai dati in tabella; • i dati sul recupero funzionale riguardano i pazienti che hanno recuperato il livello di coscienza dopo 12 mesi dall’evento.

Fonte Multy-Society Task Force on PVS. Statement on medical aspects of the persistent vegetative

state. N Engl J Med 1994; 330 1499-507, 1572-9

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Tabella 4 Stato vegetativo: esito ad un anno dall’evento acuto in relazione alla durata dello stato

N. Morte SV Coscienza Totale

SV dopo 1 mese • Traumatico 540 28% 18% 54% 100% • Non traumatico 214 47% 39% 14% 100%

SV dopo 3 mesi • Traumatico 268 31% 30% 39% 100% • Non traumatico 108 36% 58% 6% 100%

SV dopo 6 mesi • Traumatico 151 28% 53% 19% 100% • Non traumatico 80 18% 81% 1% 100%

Fonte Jennet B. The vegetative state. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2002. 73:355-356 (dati

derivati dalla casistica della Multi-Society Task Force on PVS Tabella 5 Mediana del tempo di sopravvivenza in 847 bambini e adulti in SV Età (in anni) Mediana del tempo di sopravvivenza (anni ± errore standard)

< 1 2,6 ± 0,3 1-2 4,2 ± 0,4 2-6 5,2 ± 0,4 7-18 7,2 ± 0,8 ≥ 19 9,9 ± 0,8

Fonte Ashwal S. Life expectancy of children in a persistent vegetative state. Pediatr Neurol 1994;

10:27-33

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PARTE SECONDA SPUNTI DI RIFLESSIONE SUI PRINCIPALI TEMI PROPOSTI DAL DIBATTITO SUI MALATI IN STATO VEGETATIVO. SINTESI D ELLE POSIZIONI DEL GRUPPO Riflessione n. 1 - Stati vegetativi e diffusione pubblica delle notizie e delle informazioni. I determinanti del senso comune Le vicende di Terry Schiavo e di Eluana Englaro hanno confermato i rischi di un dibattito pubblico orientato alla drammatizzazione e all'enfasi delle posizioni estreme, piuttosto che all'approfondimento dei temi trattati e alla qualità delle informazioni fornite. I pericoli sono evidenti; se queste dinamiche influenzano marginalmente il dibattito scientifico e quello etico, possono però distogliere l'attenzione dalla ricerca di servizi e soluzioni coerenti con le esigenze dei malati: priorità politiche, evoluzione normativa, modelli organizzativi, equa distribuzione delle risorse. Non vanno trascurate, al tempo stesso, le ripercussioni sulla sensibilità dei familiari chiamati a convivere con la condizione vegetativa di un proprio congiunto, già dominata da incertezze, frustrazioni, sensazioni ambivalenti. Come per altre malattie non guaribili, è possibile che il familiare attribuisca a sé e ai propri errori il mancato risveglio o il recupero dell'abilità del malato: non aver lottato a sufficienza, non aver cercato e scelto la struttura giusta, non aver tentato tutte le cure possibili. Non da meno, soprattutto i più fragili o i più affettivamente vicini alla persona, possono restare feriti dalla sensazione che le esperienze descritte, così laceranti ma così vicine alla propria, siano giudicate in modo affrettato e sommario. In realtà, la sofferenza psicologica di un familiare impegnato per anni in una relazione di cura così intensa e frustrante, va prima di tutto compresa nei suo motivi più profondi, per essere poi accompagnata verso la ricerca di soluzioni ragionevoli e sostenibili. Queste, a loro volta, richiedono il sostegno di una opinione pubblica correttamente informata e formata. Vicina al mondo delle cure palliative è l'esperienza, non ancora del tutto risolta, delle resistenze verso la diffusione della morfina nel trattamento del dolore o delle cultura di accompagnamento alla sofferenza e al morire nel malato oncologico. Il dibattito pubblico sulle scelte di fine vita nel malato in SV è stato in effetti distorto dalla confusione terminologica diffusa dai media, alimentata da equivoci riferimenti medici, arricchita dalle generalizzazione di esperienze anedottiche, amplificata dalla violenza strumentale delle immagini dei malati-simbolo e dalla trasformazione pubblica di storie radicalmente private. Soprattutto il tema del risveglio è stato trattato senza l’attenzione a discriminare situazioni clinicamente diverse e a fornire strumenti utili a comprendere la difficoltà implicita del tema. Non da meno, lo stesso difetto di informazione è replicato anche in ambienti professionali. Le conoscenze e la formazione degli operatori sono in questo ambito ridotti, spesso datate, comunque tale da contribuire ala ridotta qualità della comunicazione pubblica, ma anche di quella dovuta nei confronti delle persone direttamente coinvolte. Sembra quindi indispensabile la diffusione, in tutti i contesti di cura, di formazione e informazione, di riflessione culturale e scientifica, di una terminologia univoca sugli SV. Questa deve essere basata sulla solidità delle evidenze e rispettosa della

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posizione delle principali società scientifiche e di bioetica. Va inoltre accolta, anche in ambito non specialistico, la collocazione nosologica originale degli SV rispetto agli stati di coma e quella degli altri disturbi della coscienza caratterizzati da un maggiore livello di consapevolezza o dalla normalità della coscienza, come il mutismo acinetico, la sindrome di deafferentazione (locked-in) o l’MCS di più recente definizione. Questo anche e soprattutto in relazione al giudizio prognostico; gli stessi concetti di coma, coma irreversibile e di morte cerebrale sono ancora confusi con lo SV o utilizzati come equivalenti, mentre viene disattesa l’esistenza di indicatori clinici e prognostici – ancorché imperfetti – utili a orientare le scelte di cura. In realtà, l’analisi dei documenti ufficiali proposti da organismi scientifici o di altra natura, anche in tema di bioetica, dimostra una convergenza sui temi maggiori ben superiore a quanto emerso dal dibattito mediatico. Ad esempio: • esistono ormai strumenti adeguati a circoscrive il tema degli SV entro confini

nosografici più precisi che in passato ed esiste accordo sulla necessità di utilizzare criteri rigorosi per la definizione di SV. Questo per evitare di includere nel dibattito e nelle casistiche situazioni con caratteristiche cliniche, funzionali e prognostiche diverse, ma anche di porre in essere programmi di cura non idonei;

• è ammessa da tutti l’esistenza di incertezze nella definizione della prognosi degli SV, con particolare riferimento alla povertà di dati clinici utili a prevedere l’evoluzione del singolo caso; questa constatazione impone una assistenza adeguata in ogni fase della malattia, la prevenzione delle complicanze, una osservazione attenta dei segni clinici di miglioramento del livello di coscienza, ma anche prudenza nella discussione per macrocategorie omologanti: i malati in SV non sono tutti uguali;

• anche per questo motivo la maggior parte dei commentatori non considera tout court lo SV una condizione di tipo terminale. E' nota la possibilità che la situazione clinica e funzionale si stabilizzi in una proporzione significativa dei casi e che la sopravvivenza della persona si prolunghi per tempi anche protratti. Al tempo stesso, è certo che lo SV condiziona un elevato rischio di morte e una riduzione significativa dell'aspettativa di vita residua;

• i temi della prevenzione dello SV, del tutto originale, e quello dell'accanimento terapeutico lasciano emergere alcune iniziali convergenze. Ad esempio, lo stesso documento della Pontificia Academia Pro Vita, che afferma l'indispensabilità di proseguire comunque nutrizione e idratazione artificiali, sostiene anche: “rigettiamo ogni forma di accanimento terapeutico nell’ambito della rianimazione, che può costituire una causa sostanziale di SV post-anossico” 38.

Sembra quindi auspicabile che queste e altre nozioni siano accettate come condivise, e che come tali siano diffuse ma anche tradotte in soluzioni organizzative. Al tempo stesso, sembra utile promuovere la ricerca e il dibattito sulle restanti aree di incertezza, quali l’atteggiamento da assumere rispetto alle terapie di supporto vitale, il significato da attribuire alla nutrizione artificiale (terapia, supporto, assistenza di base), la ricerca di determinanti prognostici (storia naturale, semeiotica clinica, rilevazioni strumentali). Questo anche per evitare la diffusione di prassi non sempre coerenti con gli stessi principi affermati e ulteriori fonti di incertezza per malati e familiari. Come affermato in uno degli interventi alla lista di discussione del master: "provo disagio nel dover esprimere una posizione in assenza di conoscenze sufficienti; più che affermazioni sono solo in grado di esprimere dubbi. Il disagio

38 Pontificia Accademia pro Vita, 2004. Op. cit.

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nasce anche dalla consapevolezza di muovermi spesso, nella mia pratica medica, su posizioni in disaccordo con i principi etici che mi sembrano indiscutibili quando si rimane in una discussione astratta". Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 1 • È indispensabile la diffusione, in tutti i contesti di cura, di formazione o di

riflessione culturale e scientifica, di una terminologia univoca, che faccia riferimento alla solidità delle evidenze scientifiche, quando esistente, e alla posizione delle principali società scientifiche e di bioetica. In particolare va diffusa, anche in ambito non specialistico, la collocazione nosologica originale degli SV rispetto agli stati di coma, ma anche degli altri disturbi della coscienza caratterizzati da un maggiore livello di consapevolezza o dalla sua sostanziale normalità, come il mutismo acinetico, la sindrome di deafferentazione (locked-in) o il Minimally Conscious State-MCS di più recente definizione. In relazione al giudizio prognostico, va in particolare evitata ogni ulteriore confusione con il concetto di morte cerebrale globale o con ambiti nosografici equivalenti.

• La diffusione di una definizione univoca e scientificamente sostenibile è indispensabile:

o per la corretta definizione diagnostica e la comprensione della storia naturale della sindrome;

o per una informazione tempestiva ai familiari; o per garantire a ogni malato cure proporzionate alle proprie effettive

esigenze e potenzialità, senza disattendere le esigenze minime di qualità di vita, controllo dei sintomi, comfort ambientale e arricchimento relazionale dei malati con iniziali o potenziali segni di evoluzione del contenuto di coscienza;

o per evitare distorsioni nel dibattito etico, scientifico e pubblico. • E’ proponibile l’elaborazione e diffusione di un documento divulgativo che

sintetizzi le informazioni cliniche, prognostiche ed etiche necessarie a comprendere la sindrome. Il documento dovrebbe rispondere in modo comprensibile alle domande più frequenti e sottolineare gli errori più comuni sugli SV e, così formulato, potrebbe essere indirizzato agli organi di stampa, ai comitati etici e agli ordini professionali coinvolti (medici, infermieri, avvocati, assistenti sociali, giornalisti).

• I documenti ufficiali in tema di bioetica e di SV, elaborati da diverse agenzie scientifiche, culturali e religiose, convergono in realtà su più temi di quanto sembri trasparire dal dibattito mediatico. Sembra quindi tempo di proporre la traduzione coerente dei principi condivisi in prassi, norme e soluzioni, ricercando le modalità più efficaci e efficienti per garantire a questi malati assistenza adeguata in ogni fase della malattia: luoghi di cura dedicati, risorse mirate, approccio di cura omogeneo, comunicazione tempestiva, informazione completa.

• Al tempo stesso sembra necessario promuovere ricerche dedicate e occasioni di dibattito utili a offrire risposte o ricercare u na maggior condivisione nelle aree oggetto di incertezza, anche etica. Questo, per offrire al legislatore, alla magistratura e agli operatori sanitari gli strumenti necessari a garantire omogeneità e certezze al lavoro di cura e tutela dei diritti soggettivi delle persone malate.

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Riflessione n. 2 - La definizione di stato vegetativo: persistente, permanente? La Multy-society Task Force on PVS ha introdotto nel 1994 le definizioni di SV persistente e di SV permanente. Secondo la Task Force, lo SV va definito persistente quando sia presente ad almeno un mese di distanza da un danno cerebrale acuto traumatico o non traumatico o da almeno un mese nei casi cronici di disordini degenerativi o metabolici o di malformazioni dello sviluppo; va invece definito come permanente quando la sua durata sia superiore a 1 anno se il disturbo della coscienza è stato determinato da un evento traumatico o a tre mesi nei casi non traumatici. Allo stato attuale delle conoscenze, la definizione è fondata soprattutto su osservazioni statistiche, ancorché solide. In termini clinici, però, non esistono segni, sintomi o evidenze strumentali che possano escludere con assoluta certezza e nel singolo caso un miglioramento del livello di coscienza successivo a tale limite. In effetti, gli aggettivi persistente e permanente sono stati messi in discussione da altri gruppi di lavoro. Nel 1995 l’American Congress of Rehabilitation Medicine osservava infatti che la definizione di permanente avrebbe dovuto consentire, per essere giustificata, l'assoluta certezza dell’esito infausto, dato non sostenuto dalle evidenze scientifiche prese in considerazione dagli estensori del documento. La posizione del gruppo analizzava anche il termine di persistente, giudicato sostanzialmente inutile, suggerendo quindi di adottare la sola definizione di SV seguita dalla semplice indicazione della sua durata 39. La stessa indicazione è stata ripresa dal documento congiunto finale della Pontificia Academia Pro Vita - Federazione internazionale delle Associazioni dei medici cattolici, che ha altresì suggerito di specificare, oltre alla durata, anche la causa dello SV 40. Va invece ricordato come gli SV che compaiono come evoluzione delle malattie neuro-degenerative o delle malformazioni cerebrali rappresentano a tutti gli effetti la fase avanzata delle condizioni morbose che ne sono la causa e che quindi, in tali situazioni, la reversibilità è esclusa, fatta salva la possibilità di fluttuazioni del livello di coscienza in relazione alle caratteristiche della malattia, della persona, del contesto, dei trattamenti. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 2 • Appaiono giustificati i dubbi rispetto all’attribuz ione del concetto di

permanente agli SV di durata protratta oltre un limite temporale predefinito. La definizione più condivisa, accogliendo le attuali incertezze prognostiche e i limiti delle conoscenze, sembra quella di SV associata alla causa e alla durata della condizione.

• Al tempo stesso, i dati epidemiologici a disposizione sono concordi nel dimostrare la proporzione ridotta di malati in grado di recuperare un buon livello di coscienza negli SV protratti, e ancora meno quelli in grado di recuperare autonomia nella vita quotidiana. I dati a disposizione sulla storia naturale dello SV devono far parte della comunicazione ai familiari ed ai prossimi di questi malati e dei documenti di consenso informato preliminari a procedure rischiose.

39 American Congress of Rehabilitation Medicine Position Paper. Recommendation for use of uniform nomenclature pertinent to patient with severe alteration in consciousness. Arch Phys Med Rehabil 1995; 76: 205-209 40 Pontificia Accademia Pro Vita, 2004. Op. cit.

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Riflessione n. 3 - Stati vegetativi e definizione di morte La condizione dei malati in SV ha imposto una rinnovata riflessione sul concetto di morte e sul processo del morire. Nella storia della medicina la morte è stata identificata prima con la semplice cessazione del respiro (criterio respiratorio), poi con il rilievo empirico dell’abbassamento della temperatura corporea e quindi (Harvey W, 1628) con la cessazione dell’attività cardio-circolatoria (criterio cardio-circolatorio). Più di recente la riflessione ha riguardato funzioni più complesse, come quella di autopoiesi (la capacità dell’organismo vivente di autoregolarsi, autoorganizzarsi, automantenersi e autorinnovarsi, funzionando complessivamente come un tutto) 41 42, ripresa anche dal Comitato nazionale di bioetica: “può dirsi che la morte avviene quando l’organismo cessa di essere un tutto, mentre il processo del morire termina quando tutto l’organismo è giunto a completa necrosi” 43. Ancora più di recente, è stato sviluppato il dibattito sulla relazione fra morte e attività dell’encefalo. In realtà, questa era già implicita nel concetto di autopoiesi, posto che l’encefalo è l’organo deputato al mantenimento dell’unità strutturale-funzionale del corpo. Dai primi anni ’60, con l’evoluzione delle tecniche rianimatorie, è stato però possibile sostenere con tecniche artificiali la funzione di diversi organi e apparati, impedendo l’arresto dell'attività cardiaca e circolatoria anche in malati con danni encefalici gravissimi. Nel 1959 è stata quindi introdotta da Mollaret e Goulon la definizione di “coma depassé”. Nel 1968 una commissione dedicata dell’Harvard Medical School definiva la morte come cessazione di ogni funzione encefalica, coniando il termine, peraltro ambiguo, di “coma irreversibile”. Nel 1981 la President’s Commission stabilì in modo più rigoroso i criteri di accertamento della morte sulla base del concetto di “whole-brain death”, da cui la traduzione italiana di “morte cerebrale” 44 45 46. Quest’ultima non è in realtà del tutto corretta, dovendo in effetti riferirsi alla distruzione irreversibile di tutte le strutture encefaliche e non del solo cervello. E' quindi preferibile, probabilmente, parlare di “morte encefalica” 47. Se questo è, in sintesi, lo stato attuale del concetto di morte, è comunque accettato che la condizione del malato in SV è diversa da quella di un corpo cadaverico, la cui attività cardiaca sia possibile solo in virtù delle tecniche rianimatorie e, ad esempio, proponibile per l’espianto di organi. Nel malato in SV l’autopoiesi è conservata e il danno encefalico può spaziare da lesioni massive a situazioni nelle quali le indagini strumentali faticano a riscontrare lesioni significative. Esiste quindi accordo nel distinguere la definizione di SV da quella di morte cerebrale. Altri autori hanno proposto una nuova definizione del concetto di morte cerebrale 48, identificando questa con la “morte corticale”, indipendentemente dall’esistenza di strutture troncoencefaliche integre e funzionanti. Il concetto è rischioso: “potrebbe essere possibile dichiarare clinicamente morti, contro l’evidenza biologica, soggetti in cui si

41 Maturana H, Varala F. De maquinas y seres vivos. Una teoria sobra la organizaciòn biològica. Madrid, 1972 42 Basti G. Filosofia dell’uomo. Bologna, EDS, 1995 43 Comitato Nazionale di Bioetica. Definizione e accertamento della morte nell’uomo. Roma, 15 febbraio 1991. 44 Guidelines for the Determination of Brain Death. Report of the Medical Consultants on the Diagnosis of Death to the President's Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research. JAMA 1981; 246:2184-2186 45 Autori vari. Numero monografico di Medicina e Morale 1986; 36: 493-545 46 White RJ. Working Group on the Determination of Brain Death and its Relationship to Human Death. Pontificia Academia Scientiarum, Città del Vaticano, 1992 47 Pilotto F. Vegetative State: terminological matters and ethical consequences. Poster al convegno "Le terapie di sostegno delle funzioni vitali e lo stato vegetativo: progressi scientifici e dilemmi etici". Roma, 17-20 marzo 2004 48 Veath RM, Spider CM. Medically futile care. The role of the physician in setting limits. American Journal of Law Medicine 1992; 18: 15-36

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verifica un danno irreversibile del neopallio indipendentemente dal mantenimento autonomo delle principali funzioni vitali veicolate dalla regione troncoencefalica” 49. Questa definizione, molto estensiva, porterebbe in effetti all’inclusione nel concetto di morte non solo i malati con SV, ma anche i bambini con anencefalia o altri gravi anomalie del sistema nervoso centrale e, per esteso, molti adulti e anziani con malattie neurodegenerative in stadio avanzato. Le conseguenze etiche sono rilevanti e segnalate da più fonti, non ultime diverse associazioni per la tutela dei diritti dei disabili, che hanno (anche nella recente vicenda di Terry Schiavo), segnalato il continuum che esiste fra alcune situazioni cliniche descritte come SV e le malattie disabilitanti più gravi 50; viene quindi sottolineato il pericolo di introdurre distorsioni del diritto soggettivo alla vita, indipendente come tale dalle condizioni di salute e autonomia della persona. In realtà, come ricorda Defanti 51 nel caso degli SV: • è documentato che un certo numero di casi citati come SV non rispondano ai

criteri diagnostici necessari, potendosi rilevare, a una valutazione più approfondita o meglio condotta, segni clinici di consapevolezza;

• un numero ridotto di malati in SV riprende un contatto con l’ambiente anche dopo il limite temporale proposto dalla Multy-society Task Force per il concetto di SV permanente.

Non da meno, è già stata segnalato nella parte introduttiva di questo documento, l'incostante rapporto che esiste negli SV fra funzione neuronale corticale e livello di coscienza. Defanti e il gruppo di studio “Bioetica e neurologia” della Società italiana di neurologia 52 53 hanno proposto un punto di vista diverso. Nella pratica clinica non è adottabile, secondo gli autori, un criterio di definizione di morte corticale: il suo accertamento è infatti molto più lungo e laborioso di quello più breve, semplice e rigoroso di morte cerebrale totale. Viene però sottolineata l’equivalenza morale fra la morte cerebrale e una condizione di vita biologica dissociata dalla vita mentale, fondando su questa dissociazione la necessità di ripensare i criteri di legittimazione della sospensione del supporto nutrizionale artificiale. Allo stato attuale delle conoscenze, comunque: • identificare ogni situazione di SV come equivalente a uno stato di morte corticale

non è né scientificamente né clinicamente corretto 54; • è sostenibile che nessuna decisione di sospensione delle cure possa discendere

automaticamente dalla diagnosi di SV 55. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 3 • Anche il dibattito sul concetto di morte richiede l’adozione di una

terminologia corretta. In particolare, la definizione di SV va mantenuta distinta da quelle di coma e di morte cerebrale. Inoltre, allo stato attuale delle conoscenze, è possibile affermare che:

o non è né scientificamente né clinicamente corretto identificare ogni situazione di SV come equivalente a uno stato di morte corticale 56;

49 Pilotto F, 2004. Op. cit. 50 www.grusol.it/informazioni/28-03-05.asp (riporta il comunicato della FISH - Federazione Italiana per il superamento dell’handicap, organizzazione, che raccoglie 30 associazioni di tutela della disabilità, sulla vicenda di Terry Schindler Schiavo) 51 Defanti CA. Uno stimolo al dibattito per una buona morte. Bioetica 2001; 2: 14 52 Document on the persistent vegetative state by the Società Italiana di Neurologia working group on bioethics and neurology. Ital J Neurol Sci 1993; 15:643-646 53 Defanti CA. Vivo o morto? Zadig, Milano, 1999 (www.zadig.it/speciali/ee/stud9.htm) 54 Pilotto F, 2004. Op. cit. 55 Defanti CA. 2001. Op. cit. 56 Pilotto F, 2004. Op. cit.

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o è sostenibile che il dibattito sulle scelte di cura e di supporto vitale non debba far riferimento al concetto di morte nelle sue diverse accezioni e che nessuna decisione di sospensione delle cure possa discendere automaticamente dalla diagnosi di SV 57.

• Come per altre malattie e sindromi inguaribili ma curabili, le decisioni di cura vanno assunte (o dibattute) in relazione:

o alla prognosi della condizione e alla proporzione fra questa e le scelte terapeutiche e di supporto;

o alle indicazioni etiche e di legge: diritto soggettivo alla vita, qualità di vita e dignità della persona malata, proporzionalità fra scelte di cura e esiti, principi di beneficenza e di maleficenza;

o all’autonomia deontologica e professionale del medico; o ai desideri anticipati dalla persona; o ai desideri e aspettative espressi dai prossimi.

Riflessione n. 4 - Prevenzione, consenso informato, direttive anticipate Lo stato vegetativo è in gran parte una creazione dei tempi moderni, frutto della migliorata capacità clinica e della maggior diffusione ed efficienza dei servizi di emergenza-urgenza e di terapia intensiva, ma anche della imperfetta capacità di selezione dei casi e di identificazione degli indicatori prognostici negativi. Accanto ai risultati positivi di questa evoluzione, sembra proponibile una linea di riflessione critica. L’implicito desiderio di onnipotenza o la particolare vocazione tecnologica della medicina moderna devono essere temperati dall'analisi realistica degli esiti dei percorsi di cura e dalla revisione dei processi collegati. In questo senso, lo SV andrebbe probabilmente analizzato, a proposito della rischiosità delle procedure diagnostiche e terapeutiche, come condizione autonoma. Sarebbe anche auspicabile la progettazione di studi epidemiologici mirati, utili a definire valori di incidenza e prevalenza specifici per la popolazione italiana e a conoscere in miglior dettaglio la storia naturale di questi malati. La lunga durata, la confusione terminologica e la frequente eterogeneità dei luoghi di cura rende questo obiettivo oggi poco realistico. La situazione potrebbe migliorare con la diffusione delle conoscenze e l’attivazione, ad esempio, di un registro epidemiologico su base regionale o nazionale. In ogni caso, in attesa di studi dedicati, una particolare attenzione va applicata a quelle procedure nelle quali prassi consolidate o condizionamenti organizzativi o medico-legali possono determinare conseguenze discutibili. Sarebbe auspicabile, ad esempio: • lo sviluppo e la diffusione di linee guida sull'inizio e la durata delle manovre di

rianimazione cardio-polmonare, sulla qualità e quantità delle successive procedure di terapia intensiva e sull'attivazione di procedure invasive (come la ventilazione artificiale), quando:

o l’evento (arresto cardiaco o respiratorio) abbia superato una soglia temporale limite oltre il quale il rischio dello sviluppo di uno stato vegetativo post-anossico o di altra natura, sia troppo elevato o addirittura certo;

o la perdita di sostanza o il danno encefalico conseguente a traumi, eventi emorragici o ischemici, neoplasie o malformazioni sia di tale entità da lasciar prevedere come certo o altamente probabile l'evoluzione in SV;

57 Defanti CA, 2001. Op. cit.

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• una riflessione sulle indicazioni e controindicazioni di interventi neurochirurgici che coinvolgano soggetti con traumi cranio-encefalici maggiori e certa perdita di sostanza cerebrale o danno massivo delle strutture encefaliche, o sugli interventi su neoplasie cerebrali la cui estensione o localizzazione siano tali da lasciare prevedere un elevato rischio di perdita delle funzioni mentali superiori;

• un analisi critica dell’eccesso di complicazioni collegato: o ad una diffusione dei centri neurochirurgci o cardiochirurgici non

proporzionata all’attesa di un numero adeguato di interventi e, quindi, a una esperienza adeguata dell'équipe di cura;

o ad una crescita del numero di procedure chirurgiche generali e specialistiche non coerente con i bisogni di salute della popolazione.

In realtà, è probabile che le conoscenze attuali non permettano risposte univoche. Ad esempio, appare oggi difficile o impossibile definire un limite temporale certo e riproducibile per gli interventi di rianimazione cardio-polmonare. Il danno cerebrale conseguente ad anossia si manifesta infatti come un continuum che va dal decesso all’assenza di sintomi maggiori. L'evoluzione non è sempre prevedibile nel singolo caso e la definizione di termini temporali rigidi e predeterminati, può risultare arbitraria. A parità di tempo, infatti, l’anossia cerebrale in arresto cardiaco potrebbe in alcuni provocare un danno compatibile con una evoluzione in SV, in altri una completa ripresa della funzione neuronale. Inoltre, l'eventuale danno cerebrale potrebbe a posteriori risultare parziale, con disturbi di coscienza transitori o deficit cognitivi residui settoriali e limitati. Non da meno, va tenuto conto dei contesti, anche umani, nei quali queste procedure vengono attivate e condotte: strade, case, eventi improvvisi e inattesi, giovane età dei pazienti, intensa emotività. Insieme alla crescita delle conoscenze, è probabilmente possibile auspicare migliori soluzioni organizzative, quali la diffusione nella popolazione delle tecniche di rianimazione cardio-polmonare, la diffusione sul territorio dei defibrillatori automatici, la diffusione e dotazione tecnica dei servizi di emergenza-urgenza e di pronto soccorso, la formazione e specializzazione degli operatori addetti. Non è detto, però, che questi miglioramenti determinino univocamente esiti positivi: il miglioramento della capacità di intervento ha già dimostrato di poter determinare sia una riduzione che un aumento delle diverse tipologie di danno encefalico maggiore e che i relativi determinanti sono ancora incerti. In questo senso, sempre restando sul piano delle soluzioni organizzative, è invece probabile l'influenza positiva del favorire una maggiore esperienza e specializzazione, piuttosto che una maggiore diffusione delle unità chirurgiche di II e III livello (almeno nelle regioni nelle quali il loro numero è già sufficiente o in eccesso rispetto alle esigenze) e del contenere il numero degli interventi chirurgici generali e specialistici entro i confini delle necessità prevedibili di salute pubblica. Questo per evitare, oltre ad altre conseguenze negative, eccessi di complicazioni o uno sfavorevole rapporto fra risorse impegnate e esiti raggiunti. Le conseguenze di queste riflessioni, sono quindi di diverso livello. In generale, è necessario diffondere la consapevolezza che lo SV non è il buon esito di un percorso di cura, ma una complicazione tecnicamente, organizzativamente e umanamente sproporzionata rispetto alle possibili premesse. Ancora di più, è utile e indispensabile approfondire la ricerca o la diffusione di informazioni riguardo gli indicatori prognostici e i determinanti del rischio, per evitare di iniziare o protrarre procedure che abbiano un’alta probabilità (o la certezza) di facilitare l'evoluzione verso lo SV. Un aspetto collegato è quello dell’informazione alle persone. Questo, in particolare:

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• per la raccolta del consenso informato ad una procedura diagnostica o terapeutica;

• per la formulazione di direttive anticipate coerenti con le conoscenze attuali e con le esigenze di consapevolezza che queste decisioni richiedono.

Sembra auspicabile che lo SV sia previsto e descritto in modo esplicito nei documenti di consenso informato proposti in vista di interventi chirurgici o di procedure diagnostiche che possano includere questa condizione come possibile complicazione. Il documento dovrebbe contenere una definizione comprensibile di SV, la descrizione delle sue conseguenze sulla consapevolezza di sé e sulle relazioni con l’ambiente e di quelle sociali, la descrizione delle sue possibili ricadute prognostiche. In questo senso, il concetto generico di risveglio o di recupero della coscienza andrebbe integrato dal livello di disabilità residuo prevedibile secondo le casistiche maggiori e espresso secondo i criteri della Glasgow Outcome Scale. Il documento dovrebbe includere la descrizione delle principali complicazioni associate (infezioni, insufficienza respiratoria e cardiaca, lesioni da decubito, disfagia, incontinenza, limitazioni funzionali, danni osteo-articolari) e delle procedure invasive necessarie a stabilizzare la situazione vitale ed a garantire il necessario sostegno assistenziale (tracheostomia, cateteri venosi periferici e centrali, cateterismo vescicale, sonda naso-gastrica o gastrostomia percutanea, digiunostomia nutrizionale, ventilazione artificiale, nutrizione artificiale). In questo senso la persona dovrebbe essere invitata a esprimere il proprio consenso rispetto alla procedura programmata, ma anche la propria opinione e i propri desideri-direttive rispetto alle scelte di cura collegate alla eventuale evoluzione vegetativa, sul breve, medio e lungo periodo. Quest’ultima indicazione appare indispensabile alla luce dell’evoluzione della prognosi collegata alla durata dello SV e, in particolare, alla diversa evoluzione del rischio di morte, delle possibilità di recupero di un miglior livello di coscienza e di sviluppo di disabilità residua oggi descritti (tabella 4). L’informazione, associata al documento di consenso, deve includere la rispondenza dell'intervento a criteri scientifici e di buona prassi e il margine di rischio espresso non in termini generali, ma in relazione alla effettiva operatività della propria struttura o équipe. Quando possibile, il consenso va richiesto alla persona interessata; in sua assenza, alle figure che la legge propone. Non va disatteso il diritto alla nomina, anche con procedura di urgenza, di un amministratore di sostegno per le persone non competenti. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 4 • Sembra necessaria la progettazione di studi epidemiologici mirati, utili a

definire valori di incidenza e prevalenza specifici per la popolazione italiana e a conoscere in miglior dettaglio la storia naturale di questi malati. Questo per una migliore comprensione delle situazioni di rischio, dei determinanti della prognosi e della distribuzione delle soluzioni di cura. In questa direzione, sembra auspicabile l’attivazione di un registro epidemiologico dedicato degli SV, su base regionale o nazionale.

• In attesa di studi dedicati, una particolare attenzione va applicata a quelle procedure nelle quali prassi consolidate o condizionamenti organizzativi o medico-legali possono determinare un eccesso di rischio verso l'evoluzione in SV. Allo stato attuale delle conoscenze, infatti, lo SV appare come una complicazione non proporzionata e non desiderabile di un intervento medico, chirurgico o rianimatorio, sia in situazioni acute che nelle procedure elettive. Su questa base, sembra auspicabile una riflessione critica sui luoghi e le

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situazioni di cura, per rileggerne opportunità e limiti in relazione al rischio di determinare un danno encefalico totale o comunque compatibile con l’evoluzione in SV.

• Nel caso di procedure chirurgiche o di diagnostica strumentale invasiva a rischio per l'evoluzione verso un disturbo di lunga durata della coscienza, la stesura dei documenti di raccolta del consenso informato dovrebbe includere, fra le complicazioni possibili, lo SV e le informazioni necessarie a comprenderne le ricadute prognostiche e le concrete aspettative di evoluzione. Queste devono fare riferimento a casistiche consolidate, prima fra tutte quella della Multy-Society Task Force on PVS, ed alla diversificazione della prognosi in relazione alla durata dello SV (tabella 4).

• Nel documento di richiesta del consenso informato dovrebbero essere richieste alla persona indicazioni esplicite relativamente alle decisioni cliniche e assistenziali successive a una possibile evoluzione in SV, con particolare riferimento all'attivazione o sospensione dei trattamenti di supporto vitale, alle procedure chirurgiche e invasive, all’utilizzo delle terapie antibiotiche, alla donazione di organi. Queste scelte devono essere proposte in relazione alla diversa durata dell'eventuale SV; ad esempio, quali orientamenti assumere nel caso la condizione duri oltre un mese, tre mesi, sei mesi, un anno, cinque anni.

Riflessione n. 5 - Stato vegetativo e decisioni di fine vita A fronte delle convergenze già descritte, è evidente come le posizioni delle principali scuole di bioetica divergano nettamente rispetto al tema della prosecuzione o sospensione dei trattamenti di supporto vitale in presenza di sopravvivenze prolungate ma in assenza di ripristino del contenuto di coscienza. In particolare, il dibattito più recente si è concentrato soprattutto sul tema della nutrizione artificiale. Le posizioni attuali espresse da ordinamenti differenti, da scuole di pensiero di diversa estrazione o da ambienti scientifici a diverso orientamento sembrano riassumibili come segue: • la tendenza attuale dei tribunali statunitensi è quella di dare rilevanza ai desideri e

alle opinioni espresse in precedenza dalla stessa persona. Viene quindi enfatizzata la ricerca di prove documentali (direttive anticipate, testamento biologico, altre dichiarazioni esplicite) o di testimonianze orientate a ricostruire a posteriori il pensiero della persona malata. In precedenza (come nel caso di Karen Quinlan) i diversi livelli di giudizio avevano analizzato il concetto di mezzo ordinario o straordinario di mantenimento della sopravvivenza, autorizzando la sospensione dei secondi (ventilazione artificiale e terapia antibiotica) ma non dei primi (nutrizione e idratazione). L’organizzazione federale e l’autonomia dei singoli stati giustifica la persistente eterogeneità degli orientamenti dei tribunali e delle prassi adottate dalle strutture sanitarie, parzialmente corretta dopo la sentenza Cruzan;

• in Gran Bretagna, con particolare riferimento al caso di Tony Bland, le posizioni degli ordini professionali dei medici e degli avvocati sono ormai codificate e così le norme di legge e le prassi dei tribunali. Il medico è chiamato ad agire nel rispetto della propria autonomia e nell’interpretazione del miglior interesse del paziente, quando questi non sia competente per la compromissione delle funzioni mentali superiori. I familiari vanno ascoltati, ma solo per aiutare il medico a costruirsi una opinione adeguata su questa interpretazione. Non è indispensabile il

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loro accordo. Nutrizione e idratazione sono considerati, nel malato in SV, trattamenti medici soggetti alla valutazione medica di appropriatezza e il medico non ha l’obbligo giuridico di somministrare trattamenti che siano inutili secondo una accreditata valutazione della condizione clinica del paziente. La posizione del Royal College of Physicians sugli SV è esplicita: superata la durata di un anno la prosecuzione della nutrizione artificiale nel malato in SV non migliora in alcun modo la qualità di vita e la prognosi del paziente. Raggiunta questa consapevolezza, il professionista segnala il suo intendimento al Tribunale di competenza per la necessaria autorizzazione; questa viene espressa in base ai documenti in possesso e ad eventuali integrazioni e dichiarazioni ritenute necessarie;

• in Italia si confrontano opinioni e posizioni diverse, che in parte richiamano quella già citate, almeno nei temi di fondo. Nel 1993 si era già espresso il Gruppo di studio “Bioetica e Neurologia” della Società Italiana di Neurologia. Il documento giudicava riprovevole l’accanimento terapeutico di fronte nelle condizioni nelle quali non può esserci miglioramento del paziente, facendo riferimento alla dissociazione fra vita biologica e vita mentale che lo SV propone in modo originale. Questa dissociazione è stata giudicata, come riconfermato da Defanti nel 1999, moralmente equivalente alla morte cerebrale e tale da legittimare la sospensione di ogni trattamento medico, compresa la nutrizione-idratazione artificiale. Rispetto alla posizione tutioristica attribuita ad altri bioetici (“nel dubbio, optare sempre per la speranza”), il gruppo di studio ha opposto due argomentazioni: la medicina non può garantire certezze assolute, ma solo ragionevoli approssimazioni fondate sul metodo scientifico; appaiono sproporzionati i costi umani e economici collegati al mantenimento dei malati in SV in una dimensione di vita esclusivamente biologica. Nel 2000, il gruppo di lavoro istituito con un apposito decreto dall’allora Ministro della Sanità Umberto Veronesi, ha prodotto un documento articolato. Il documento richiamava la centralità della volontà del diretto interessato per ogni decisione inerente “il proprio corpo, la propria salute e la propria vita”; per i pazienti incompetenti attribuiva importanza alla ricostruzione a posteriori o alle dichiarazioni formali che esprimessero questa volontà; sottolineava la necessità di identificare per il paziente non competente un rappresentante legale (NdR allora il tutore, oggi anche l’amministratore straordinario) e l’obbligo per il curante di attivare la relativa procedura di nomina; infine, affermava la natura di trattamento medico dell’idratazione e della nutrizione artificiale e la necessità che la decisione di attivazione o sospensione fosse quindi determinata “secondo i parametri etici e giuridici che governano il campo dei trattamenti medici”. Il gruppo di lavoro suggeriva al Ministro una procedura conseguente: la condizione di SV permanente avrebbe dovuto essere accertata da una Commissione medica (da istituirsi) dopo una osservazione prolungata; idratazione e nutrizione avrebbero potuto essere interrotti dopo che la Commissione si fosse pronunciata rispetto alla irreversibilità dello SV; la stessa Commissione avrebbe dovuto essere consultata a fronte di ogni proposta di sospensione delle stesse procedure. Nel 2004 la Pontificia Academia Pro Vita e la Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici proponevano, al termine del convegno "Le terapie di sostegno delle funzioni vitali e lo stato vegetativo: progressi scientifici e dilemmi etici" un documento congiunto che ribadiva, a fronte delle incertezze conoscitive e delle imperfezioni dei metodi clinici e di diagnostica per immagini per la definizione prognostica e la valutazione di irreversibilità della condizione di SV, alcune osservazioni già citate

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in questo documento: la necessità di definire in modo rigoroso lo SV, di distinguerlo da altri disturbi della coscienza e dalla morte cerebrale, la non assimilabilità a priori alla morte corticale. Il documento, inoltre, negava che lo SV potesse essere considerato una condizione terminale e, richiamando il principio della eguale dignità di persona di ogni essere umano, contestava la possibilità che alcuna decisione, anche espressa autonomamente, potesse “giungere a giustificare decisioni o atti contro la vita umana propria o altrui”; veniva affermato che “il paziente in SV è persona umana e, in quanto tale, ha diritto al pieno rispetto dei suoi diritti fondamentali, primo fra tutti il diritto alla vita e alla tutela della salute”. La sospensione dell’idratazione e della nutrizione, che ha per conseguenza inevitabile la morte della persona in SV, veniva equiparata ad un atto di eutanasia omissiva “moralmente inaccettabile”. Anche il tema dell'autonomia della persona rispetto alla possibilità di esprimere, ad esempio, un testamento di vita o biologico (“living will”) è stato oggetto di un intenso dibattito, in gran parte ancora aperto. Nel 1990 la Consulta Bioetica di Milano ha sostenuto il riconoscimento della cosiddetta Biocard o “carta di autodeterminazione” 58. Un’altra versione di testamento biologico è stata promossa dall’Associazione “Exit-Italia” 59; il relativo documento prevedeva espliticitamente il caso di una “malattia o lesione traumatica cerebrale invalidante e irreversibile” e quello di una “malattia implicante l’utilizzo permanente di macchine o altri sistemi artificiali e tale da impedire una normale vita di relazione”. Il Comitato Nazionale di Bioetica ha affrontato l’argomento con un primo documento (“Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana” - 14 luglio 1995) 60, che ha riconosciuto “rilievo morale alle direttive anticipate di trattamento” pur esprimendo perplessità sulla possibilità che esse valgano come disposizioni perentorie; nel 2000 si è espresso il Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (“Autonomia del paziente e responsabilità del medico: a proposito della c.d. carta dell’autodeterminazione”) 61, che ha riconosciuto “la legittimità etica e giuridica che ogni persona, in pieno possesso delle sue facoltà mentali, possa far conoscere, anche attraverso un documento scritto, le proprie volontà in merito agli interventi medici da attuare nella fase finale della propria vita”, ma rilevando che “l’eventuale ricorso ad una carta di autodeterminazione dovrebbe rimanere sempre nell’ambito di una procedura di comunicazione interpersonale e non elevata al rango di documento di valenza giuridica, imposto al personale sanitario”, per salvaguardare la responsabilità personale, professionale e deontologica del medico. Lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica, più di recente, ha prodotto un documento specifico sulle direttive anticipate, auspicando fra l’altro, “che la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate, escludendone espressamente il carattere vincolante, ma imponendogli, sia che le attui sia che non le attui, di esplicitare formalmente e adeguatamente in cartella clinica le ragioni della sua decisione” (18 dicembre 2003) 62. Da citare, infine, le posizioni del Comitato Etico di fine vita ospitato dalla Fondazione Floriani, prima con la pubblicazione della Carta dei diritti del Morente (15 maggio 1997) 63 e poi con il recente commento al caso di Terry Schiavo, nel quale si sostiene: “A rendere il caso di Terry controverso è il fatto di disporre di una sua volontà anticipata

58 http://www.consultadibioetica.org/documenti/biocard.PDF 59 http://www.exit-italia.it/testam.htm 60 www.palazzochigi.it/bioetica/testi/140795.html 61 http://webprd.rm.unicatt.it/pls/unicatt_rm/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=13450&id_lingua=3&idsc=&pwdsc= 62 http://www.palazzochigi.it/bioetica/testi/Dichiarazioni_anticipate_trattamento.pdf 63 http://www.fondazionefloriani.org/media/Carta%20Diritti%20Morenti.pdf

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espressa solo verbalmente, testimoniata dal marito, in qualità di tutore, e smentita dai genitori. Le concordi pronunce giudiziarie fino a questo momento succedutesi, autorizzano, tuttavia, a ritenere che la volontà testimoniata sia riferibile alla donna con sufficiente attendibilità. Porre il problema dell’attendibilità di una volontà manifestata anticipatamente ed auspicare la diffusione di direttive redatte in forme che ne favoriscano la prova è, comunque, questione ben diversa dal ritenere che sulla volontà manifestata anticipatamente possa, anzi debba, sempre prevalere la tutela della vita, realizzata ricorrendo anche a provvedimenti legislativi ad hoc. Breve sarebbe, lungo questa strada, il tratto che porta dalla difesa del diritto alla vita alla condanna a vivere ad ogni costo” 64.

Altri ordinamenti prevedono infine soluzioni diverse (in Olanda è ammessa l’eutanasia, anche se non legalizzata; in altri stati del Nord Europa è possibile interrompere le cure, in accordo con i familiari, ma sempre con modalità variabili e posizioni oggetto di dibattito) ed è possibile affermare che, su questi temi, i motivi di incertezza siano decisamente prevalenti. Lo scenario italiano è quindi in linea con quanto descritto altrove, ma questa situazione apre il fianco a zone grigie di prassi e comportamenti discutibili, comunque da sorvegliare. E’ ad esempio possibile che forme di eutanasia omissiva siano comunque già praticate in molti ambiti di cura e lasciate come tali alla eterogenea interazione fra curanti e familiari. Allo stesso tempo, l’assenza di servizi qualificati e i difficili percorsi di cura di questi malati, soprattutto nelle zone del paese meno dotate di strutture, possono introdurre un eccesso di mortalità collegato alla ridotta qualità o quantità delle cure ricevute; il meccanismo è pericoloso, perché può coinvolgere sia i pazienti destinati ad una condizione di irreversibilità, sia quelli potenzialmente in grado di evolvere in modo positivo. Le stesse carenze, fra l’altro, possono determinare un eccesso di prevalenza di SV, ad esempio di tipo post-anossico, per carenze organizzative della rete di emergenza-urgenza. Entrambi le condizioni possono essere analizzate solo con adeguati studi epidemiologici. Il dato è peraltro ben noto in altri contesti culturali e soprattutto in aree rurali, documentati da alcuni studi dedicati (Cina, Giappone); può essere costume o prassi quella di portare questi malati nella propria abitazione per lasciarli morire fuori dal controllo medico. In definitiva, a partire dall’integrazione fra convergenze e divergenze nelle posizioni bioetiche o scientifiche, è comunque indispensabile garantire a questi malati risposte assistenziali qualificate, in attesa di una definitiva definizione della sindrome e dei suoi determinanti prognostici, ma anche riconoscere il giusto peso alla volontà espressa dalla persona nei modi e nelle forme su cui il legislatore dovrà certamente essere chiamato a pronunciarsi. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 5 • Nell'attuale dibattito bioetico sugli SV, le divergenze principali riguardano il

tema della prosecuzione o interruzione delle cure o la legittimità della loro sospensione superata una determinata soglia temporale di durata (un anno nei documenti più diffusi), in assenza di segni di evoluzione positiva del livello di coscienza. Il dibattito pubblico è stato orientato soprattutto intorno al tema della prosecuzione o sospensione della nutrizione e idratazione artificiali. Le posizioni ufficiali sono, a questo proposito, ancora distanti e le conoscenze scientifiche non sembrano adeguate a garantire solidità a orientamenti diversi. Anche per questo motivo sembra però necessario evitare di concentrare il dibattito pubblico su quest’unico tema, ancorché

64 Comunicato sul caso di Terry Schiavo del Comitato Etico di fine vita ospitato dalla Fondazione Floriani (24 marzo 2005)

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cruciale. In assenza di soluzioni di cura e di risorse umane e economiche adeguate, la semplice enunciazione di principi anche condivisibili è destinata ad essere sopravanzata dalle difficoltà oggettive delle famiglie di questi malati. E’ quindi necessario destinare adeguata attenzione alla costruzione di una rete di cura qualificata, utile a sostenere malati e familiari con servizi coerenti e proporzionati.

• I temi dell’autodeterminazione, del riconoscimento della validità del testamento biologico e le sue ricadute sull’agire medico sono da tempo oggetto di riflessioni autorevoli e documentate. Sembra necessario sollecitare il legislatore perché queste riflessioni trovino soluzione in norme omogenee e diffusamente applicabili, con particolare riferimento, oltre che alle situazioni di morte imminente, anche al tema degli SV di lunga durata.

Riflessione n. 6 - I luoghi della cura Resta infine aperto il tema delle risposte assistenziali e dei servizi. La maggior parte delle famiglie dei malati in SV è accomunata dalla eterogeneità, superata la fase acuta, dei percorsi di cura intermedi e finali. L’eterogeneità è oggi acuita dalle differenze strutturali dei diversi sistemi regionali. Così, malati con caratteristiche anche omogenee, sono accolti in modo apparentemente casuale in reparti ospedalieri di rianimazione o terapia intensiva, in reparti di degenza ordinaria (generali o specialistici), in strutture di degenza riabilitativa con diverse caratteristiche (ospedalità riabilitativa pubblica o accreditata, IDR ex 833, RSA specializzate), in strutture del comparto sociale o socio-sanitario (case di riposo, RSA), in strutture per disabili. Una quota residuale è gestita al proprio domicilio, con il parziale sostegno di servizi ADI, di cure domiciliari o di sistemi a voucher eterogenei e poco confrontabili. Queste diversità sono acuite dalla carenza di certezze scientifiche, di informazioni di base e di esperienza degli operatori sanitari e sociali di ogni livello. Soprattutto nelle situazioni di lunga durata divengono notevoli le differenze di qualità delle risposte, ma anche dei costi sopportati dalle reti familiari; accanto a malati a totale carico del SSN (quelli accolti nelle strutture ospedaliere, riabilitative o in IDR) troviamo malati accolti in strutture con rette alberghiere sostenute dalle famiglie (RSA, case di riposo, solventi in proprio delle strutture private accreditate) o quasi completamente a carico delle stesse, come per la maggioranza di quelli gestiti al proprio domicilio: l’intervento dei servizi di assistenza domiciliare formalizzata è in questo caso spesso marginale. Anche il costo per la sanità pubblica può essere molto variabile a seconda dei DRG adottati e del tipo di reparto e di degenza; dai 100-150 euro al giorno in RSA e IDR a quelli ben più elevati dei malati gestiti in rianimazione o terapia intensiva. Sembra quindi necessario orientare il dibattito sugli SV verso un piano diverso dalla sporadica esplosione mediatica di notizie ad elevato contenuto drammatico. E’ piuttosto necessario favorire la diffusione di norme e soluzioni organizzative in grado di garantire standard qualitativi omogenei ai processi di cura e assistenza offerti alle persone e alle famiglie, e costi omogenei e sostenibili. In questo senso, la normativa nazionale è del tutto adeguata; l’assistenza a questi malati è contemplata fra i livelli essenziali di assistenza e prevista al 100% a carico del SSN. Non è quindi giustificata l’esistenza di percorsi di dimissione-espulsione dalla rete ospedaliera in assenza di soluzioni alternative coerenti e ugualmente finanziate. Allo stesso tempo appare

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evidente come le tradizionali strutture ospedaliere, e in particolare i reparti a maggiore intensità di cura, faticano a incontrare le esigenze globali espresse da questi malati e dai loro familiari. La storia naturale di questi malati è infatti sufficientemente riproducibile: superati i primi mesi dall’evento acuto, caratterizzati da una maggiore instabilità, dalla più frequente comparsa di complicanze e da una maggiore mortalità, le fasi successive sono dominate in modo crescente dalle esigenze assistenziali di routine (igiene, nutrizione e idratazione, gestione delle posture, mobilizzazione, terapie mediche di base), dalla prevenzione e gestione delle complicanze più comuni e dalle esigenze di relazione con i familiari e di accoglienza delle loro esigenze specifiche. Nel tempo, una quota significativa di questi malati assume caratteristiche sovrapponibili a quelle delle persone affette da disabilità di maggiore gravità e il numero di eventi acuti che richiedono una assistenza di maggiore intensità sanitaria si riduce. Gli aspetti riabilitativi assumono connotazioni diverse nei diversi malati o nelle diverse fasi della storia naturale dello stesso malato. Le esigenze di mobilizzazione passiva destinate a mantenere la funzionalità articolare e prevenire le retrazioni si affiancano alle fasi di svezzamento dalla tracheostomia, alla ricerca e attivazione di residue capacità di deglutizione e possibile passaggio ad una nutrizione integrata (orale, artificiale), alla progettazione e gestione dei piani di postura e mobilizzazione, alla ricerca condivisa con la restante équipe di cura e con i familiari di segni di coscienza consapevole e di risposte elementari non riflesse, fino alla elaborazione di strategie di stimolazione più complesse successive al riscontro di segni di evoluzione positiva. In ugual modo, le esigenze di assistenza infermieristica possono divenire nel tempo meno intense rispetto a quelle orientate alla tutela assistenziale di base, parzialmente delegabili anche a operatori con minore qualificazione professionale ma dotati del necessario addestramento. Oltre alla prevenzione delle complicanze e della qualità assistenziale, una particolare attenzione va posta nei confronti di quei malati che possono esprimere una evoluzione positiva del contenuto di coscienza. I segni relativi possono essere sfumati e non sempre immediatamente evidenti in assenza di adeguata attenzione e addestramento. Allo stato attuale delle conoscenze, è possibile che esistano finestre temporali nelle quali livelli anche minimi di coscienza siano già presenti ma non ancora rilevati dalle équipe di cura, e durante le quali non è prevedibile il livello di percezione soggettiva dei sintomi di disagio o dolore. Questa attenzione diviene fondamentale nel paziente non competente ma in MCS o con contenuto di coscienza superiore, e richiede comunque una conseguente attenzione al controllo dei sintomi, al comfort ambientale, alla cura delle relazioni e alla qualità e quantità degli stimoli sensoriali. Infine, nel tempo, questi malati possano divenire mobilizzabili in carrozzina, trasferibili con veicoli attrezzati e gestibili anche con modelli di intervento di tipo diurno, semiresidenziale, ambulatoriale o integrato. Come per le altre disabilità, il tempo acuisce le diversità e enfatizza le esigenze di contesto. Diventa quindi indispensabile la metodologia operativa dei piani di assistenza individuali e di approccio multidimensionale, più diffusa negli ambiti socio-sanitari che in quelli strettamente sanitari. Queste esigenze si affiancano a quelle, nel tempo crescenti, espresse dai familiari di queste persone e meglio descritte di seguito; esse impongono un’attenzione particolare. In termini strutturali i servizi destinati ad accogliere questi malati sembrano richiedere alcune caratteristiche comuni: • devono essere sufficientemente vicini alla residenza naturale della persona, per

garantire ai familiari la desiderata continuità e intensità della relazione; questo

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senza interferire in modo eccessivo, soprattutto nei processi di cura di durata pluriennale, con la normale vita domestica del restante nucleo familiare;

• la loro progettazione deve garantire spazi adeguati per il soggiorno di familiari e conoscenti, per l’espressione delle normali esigenze di relazione, per la sosta (anche notturna) nelle fasi di acuzie;

• l’intensità emotiva del percorso di cura richiede attenzione e supervisione psicologica sia delle esigenze dei familiari che degli operatori;

• i piani di cura necessari richiedono una particolare formazione degli operatori e la coesistenza di conoscenze e competenze non abituali;

• soprattutto nelle fasi nella quali si manifesta una evoluzione positiva del contenuto di coscienza, diviene indispensabile un ambiente più ricco di stimoli e di luoghi dedicati alla riabilitazione e riattivazione delle funzioni quotidiane.

Il ridotto numero complessivo di questi malati e la diversificazione delle esigenze propongono temi originali. Oltre alla citata vicinanza alla residenza abituale della persona, le esigenze di continuità di cura e la necessità di sviluppare esperienza nel setting espressivo proprio di ogni paziente e nella condivisione dell’esperienza e delle sue scelte con i familiari e prossimi, suggeriscono di ridurre al minimo le occasioni di trasferimento ad altro servizio o strutture, una volta superata la fase immediatamente post-acuta. Queste condizioni (vicinanza, qualificazione, continuità delle cure) possono risultare reciprocamente confliggenti e imporre adeguate mediazioni. Ad esempio, è difficile pensare ad una notevole diffusione territoriale di strutture ad alta specializzazione per una casistica complessivamente ridotta; questo a meno di non pensare ad una gestione condivisa delle situazioni di SV da evento acuto con quelle, ben più numerose, conseguenze di malattie cronico-degenerative. Le due condizioni, però, divergono per numerose caratteristiche oltre che per età media, e la soluzione potrebbe risultare non coerente con gli obiettivi di cura. Alta specializzazione, però, non implica necessariamente un elevato impegno tecnologico; si tratta, piuttosto, di una particolare attenzione alla selezione, formazione e supervisione degli operatori impiegati, al tempo complessivo di assistenza, alla dotazione di figure professionali qualificate e agli standard strutturali degli ambienti di vita e di cura. Le soluzioni di mediazione potrebbero essere: • favorire la sperimentazione di strutture di nuova definizione, di piccole

dimensioni e con standard strutturali e di personale predefiniti e in linea con le esperienze di buona prassi. La distribuzione possibile potrebbe essere su base provinciale o di Azienda sanitaria locale;

• favorire la nascita di Unità operative ospedaliere dedicate o di reparti a prevalente caratterizzazione riabilitativa con distribuzione territoriale equivalente;

• permettere l’attivazione di nuclei dedicati, con standard strutturali e professionali equivalenti, nelle strutture socio-assistenziali per disabili gravi o nelle RSA accreditate.

Quale che sia la soluzione o l’ambito di riferimento (sanitario o socio-sanitario), i servizi dovrebbero essere equivalenti per:

• standard strutturali; • dotazione di personale; • minuti di assistenza; • protocolli operativi e modelli di lavoro in équipe; • capacità di proiezione sul territorio e di erogazione di servizi anche in forma

semiresidenziale o integrata;

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• modalità di finanziamento. Quest’ultimo aspetto è cruciale: quale che sia la collocazione e nel rispetto delle esigenze richieste da coerenti standard di accreditamento, il finanziamento del percorso di cura deve essere a carico del SSN, in linea con quanto previsto dalla normativa dei LEA e delle norme collegate sulla ripartizione delle competenze economico-finanziarie fra SSN, Comuni e persone. La tariffazione deve essere proporzionata ai minuti di assistenza richiesti e alle professionalità coinvolte. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 6 • Le diversità di posizione e del senso comune non devono disattendere le

legittime esigenze espresse da questi malati e dai loro prossimi. Queste devono concretizzarsi in soluzioni di cura:

o coerenti con i principi etici condivisi e con il diritto soggettivo alla vita e alla cura di ogni persona;

o adeguate alla qualità e quantità delle esigenze di cura e assistenza di questi malati e di accoglienza delle aspettative e diritti dei loro prossimi;

o omogenee per qualità e quantità delle cure e delle professionalità coinvolte;

o in linea con la normativa dei LEA e quindi a totale carico del SSN. • La specificità della sindrome sembra richiedere servizi dedicati o unità

operative o nuclei dedicati di strutture più complesse. Questi devono poter garantire la presenza di équipe di cura multidisciplinari con adeguata formazione, in grado di rispondere alle diverse esigenze di questi malati, compresa la capacità di riconoscere i segni di evoluzione positiva del livello di coscienza e di modificare in modo proporzionato i piani di assistenza individuali.

• Deve essere garantita adeguata attenzione alla prevenzione e trattamento delle complicanze, al comfort ambientale, al controllo dei sintomi, al mantenimento delle relazioni e alla quantità e qualità delle stimolazioni sensoriali; questo soprattutto nei malati in vicinanza dell’evento acuto o che esprimano una modificazione in atto della reattività. Allo stato attuale delle conoscenze, è possibile che esistano finestre temporali nelle quali livelli anche minimi di coscienza siano già presenti ma non ancora rilevati dalle équipe di cura, e durante le quali non è prevedibile il livello di percezione soggettiva dei sintomi di disagio o dolore. Queste attenzioni divengono fondamentali nel paziente non competente ma in MCS o con contenuto di coscienza superiore.

• La metodologia adottata deve essere coerente con le esigenze di approccio globale e multidimensionale che questi malati impongono e con la necessità di condividere con i familiari e i prossimi del paziente le principali decisioni terapeutiche e i programmi di cura.

• La diffusione territoriale dei servizi deve essere adeguata a rispondere alle esigenze dei familiari di coniugare il mantenimento delle relazioni con una vita personale sostenibile; per garantire la necessaria continuità al percorso di cura e alla tensione riabilitativa, deve inoltre essere ridotta al minimo la necessità di trasferimenti da una struttura ad un'altra in risposta alla evoluzione della storia naturale della persona.

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Riflessione n. 7 - Operatori e familiari Come per altre malattie e disabilità di lunga durata, il tema degli SV propone la necessità di ripensare il tradizionale approccio clinico. Diviene determinante una particolare attenzione alle esigenze delle reti di cura, composte dai familiari e da altri prossimi al malato, oltre che degli operatori o équipe professionali intercettate. I componenti del sistema di cura a malati in SV sono fortemente provocati sotto il piano emotivo. Sotto il piano della percezione soggettiva e dell’emotività la persona in stato vegetativo appare infatti viva: respira, ha un cuore che batte, è calda, alterna fasi di veglia e di sonno, reagisce in modo variabile anche se elementare al contatto fisico e agli stimoli ambientali, esprime in modi e forme mutevoli sensazioni apparenti (o percepibili come tali) di disagio e dolore o, al contrario, di rilassatezza e benessere. E' altrettanto certo che le modalità concrete con le quali questa vita si esprime sono in contrasto con il desiderio di senso, di qualità e di dignità che ogni persona esprime: costrette in un letto o in una carrozzina, nutrite e idratate in modo artificiale e senza il piacere del gusto o degli odori, totalmente dipendenti, incontinenti, soggette a pratiche terapeutiche anche invasive. Questa condizione può apparire intollerabile ai più, e soprattutto a chi è affettivamente più vicino alla persona e alla sua storia, ma lo spettro delle reazioni emotive, dei comportamenti e delle decisioni conseguenti è estremamente ampio. Il paradosso è che entrambi le posizioni che si confrontano, abbreviare la vita o protrarla finché possibile, sono spesso espressione del medesimo affetto e dello stesso profondo desiderio di bene. Altrettanto paradossale può apparire il fatto che tanto maggiore è questo affetto, tanto maggiore potrà essere o divenire la forza con la quale si arriva a sostenere posizioni apparentemente lontane: il genitore che chiede e lotta per l'interruzione della nutrizione della propria figlia non lo fa con motivazioni diverse da chi è pronto a mettere tutto se stesso contro chi propone o impone la cessazione di questo sostegno elementare. Il malato in stato vegetativo costringe i familiari a una profonda revisione del proprio atteggiamento e delle proprie abitudini. I familiari, soprattutto quelli più coinvolti sotto il piano affettivo, sono divisi fra sentimenti contrastanti e sostanzialmente inconciliabili. Affetti, desideri, relazioni, ricordi si mescolano a incertezze, frustrazioni, rabbia, sensazioni di impotenza. Questi sentimenti evolvono secondo forme e tempi diversi nello stesso familiare e nei diversi familiari e sono amplificate, nelle loro conseguenze umane, dalla durata di queste storie. Quello che può apparire ragionevole o tollerabile per qualche mese o qualche anno, può divenire insostenibile dopo 10 o 15 anni di condivisione delle frustrazioni e dei disagi della condizione. La posizione resa esplicita e tradotta in comunicazione verbale dal singolo familiare o dall’intero gruppo dei prossimi, anche con energia e decisione, è più spesso la sintesi di posizioni e sensazioni molto diverse. Questa sintesi esprime in modo semplificato ciò che la persona, più raramente il gruppo, ha elaborato come via privilegiata (o semplicemente più ragionevole o più sostenibile) di un dibattito personale o di gruppo più sofferto e articolato. Questa posizione può cambiare nel tempo, influenzata da determinanti diversi, sia soggettivi che oggettivi e di contesto. In ugual modo, anche gli operatori sociali e sanitari coinvolti nella relazione di cura sono provocati a un percorso di ricerca personale che evolve nel tempo e che è influenzato a sua volta da molte variabili personali e contestuali. Soprattutto se di lunga durata, la relazione di cura può divenire impersonale o, al contrario, caratterizzata da un coinvolgimento emotivo di particolare intensità. L’interazione

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quotidiana con questi malati è chiamata a farsi carico della mancanza degli elementi portanti di ogni relazione significativa. Eccezion fatta per i malati in fase di risveglio, infatti, la maggior parte di questi malati va incontro a morte o ad una sopravvivenza prolungata in assenza di ogni forma di comunicazione verbale e non verbale con i presenti. E' elevato il rischio che la persona divenga oggetto di proiezione della soggettività inconscia dell'operatore, una sorta di lavagna nera sulla quale è possibile riportare le tracce dei propri desideri espressi o inespressi, ma anche delle proprie paure e delle proprie zone grigie. Infine, soprattutto nelle fasi di mantenimento di maggiore durata, il rapporto fra operatori e familiari può assumere aspetti francamente conflittuali. Mentre il momento della cura intensiva, prossima all'evento che ha determinato lo stato, è più facilmente connotato dai presenti in senso positivo (la persona è viva, è stata sottratta alla morte, ci sono ancora speranze), i mesi e gli anni successivi possono lasciar emergere stanchezze e frustrazioni. E' possibile che gli insuccessi o le complicazioni possano essere attribuiti agli operatori o al sistema, chiamati in causa come corresponsabili della mancata evoluzione o dello sviluppo di complicazioni. E' anche possibile che familiari e operatori divergano nella consapevolezza o esplicitazione dello stato della persona, oscillando nel tempo fra il desiderio di risveglio e di cura e quello di abbandono della persona al proprio destino. Il complesso di relazioni che si sviluppa intorno alla persona in stato vegetativo è quindi di particolare ricchezza e intensità e coinvolge in modo difficilmente separabile componenti tecniche, professionali, emotive e affettive. E’ quindi indubbio, e ben documentato dai pochi studi disponibili e dalla esperienze di buona prassi, che la cura di questi malati richiede una particolare attenzione al retroterra emotivo degli attori privilegiati del sistema di cura. Ogni luogo di cura e ogni fase della cura dovrebbe essere sostenuto da adeguati percorsi di supervisione psicologica, in grado di offrire ai caregiver professionali e non professionali sostegno tempestivo alle fasi di burn out e in presenza di una evoluzione critica dell’affettività. Una uguale attenzione dovrebbe essere prestata alla selezione psicologica del personale chiamato a operare stabilmente in strutture specializzate, che deve inoltre essere destinatario di percorsi di formazione dedicati. Non da meno, proprio il particolare coinvolgimento emotivo e la complessità delle relazioni in gioco rende auspicabile, oltre che dovuto sotto il piano legale, che la situazione di incompetenza della persona venga precocemente segnalata al giudice tutelare per la nomina di un amministratore straordinario, per favorire una più ordinata gestione delle relazioni e la salvaguardia del miglior interesse della persona. Queste dinamiche richiedono il sostegno di una informazione attenta e puntuale, oltre che tempestiva. Come nelle altre malattie di lunga durata, la ricerca di una fattiva alleanza terapeutica fra operatori e familiari, coinvolge un adeguato processo di informazione e formazione dei care giver. La comunicazione delle cattive notizie richiede la stessa tempestività e le stesse modalità già sperimentate, nella loro importanza e efficacia, per le malattie oncologiche o neurologiche avanzate e non guaribili. Le famiglie vanno messe in condizione di pianificare compiutamente il proprio futuro. Già dalle prime fasi della comparsa di uno SV, i familiari vanno informati sulla reale natura della sindrome, sul significato della coscienza e del suo contenuto, sulla distinzione fra reazioni volontarie e reazioni automatiche e riflesse e sulle conseguenze del danno subito. I dati prognostici vanno diffusi in forma veritiera, soprattutto rispetto all’aspettativa di un pieno recupero delle funzioni mentali e della funzionalità fisica. E’ ancora troppo frequente che le prime informazioni oggettive sulla sindrome e sulle possibili aspettative prognostiche, siano offerte ai familiari dopo l’accoglienza in strutture

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specializzate nella gestione di mantenimento di questi malati, a distanza quindi di molti mesi dall’evento acuto e dalla stabilizzazione dello SV. Gli operatori che interagiscono ai diversi livelli con malati in stato vegetativo devono disporre di informazioni adeguate e coerenti con la letteratura più recente, con particolare riferimento alla reale consistenza e veridicità delle situazioni anedottiche. Questo, per non diffondere inutili colpevolizzazioni o la ricerca di soluzioni irrealistiche, a scapito di quelle di minor contenuto tecnico, ma ragionevoli, sostenibili e rispettose della dignità. Non da meno, la qualità delle informazioni in possesso degli operatori di ogni livello garantisce anche qualità dell’informazione diffusa e ambientale trasmessa ai familiari nella condivisione quotidiana dei processi di cura, e riduce il rischio di distorsioni, fraintendimenti, incertezze, false aspettative. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 7 • La cura di questi malati impone una particolare attenzione ai familiari:

informazione, sostegno psicologico, ambienti di cura organizzati in modo adeguato a permettere il loro soggiorno e l’espressione delle normali relazioni, coinvolgimento nei processi decisionali. Come per le altre condizioni di malattia e disabilità di lunga durata o inguaribili, le informazioni ai familiari devono essere puntuali, tempestive, complete e aggiornate rispetto allo stato attuale delle conoscenze, con particolare riferimento alle realistiche aspettative prognostiche.

• Gli operatori dedicati alla cura di questi malati devono essere attentamente selezionati, anche sotto il piano psicologico, e possedere una formazione adeguata. Questa deve includere le informazioni necessarie riguardo lo stato vegetativo e la sua possibile evoluzione prognostica e garantire motivazione alla cura del comfort ambientale, alla tutela della dignità, alla rilevazione dei sintomi di disagio ed alla prevenzione e cura delle complicanze. Il percorso formativo deve includere la capacità di riconoscere i sintomi e i segni suggestivi dell’insorgenza di complicanze e quelli indicativi di una modifica del livello di coscienza.

• E’ indispensabile una supervisione psicologica che prevenga e sostenga le fasi di burn out, che analizzi la percezione personale del malato in SV e che orienti in modo coerente la riflessione personale sul senso e significato del lavoro di cura nei suoi confronti.

• E’ compito dei medici e del personale infermieristico e di assistenza trasmettere ai familiari le informazioni decisive riguardo la definizione, lo stato attuale, le aspettative prognostiche. In particolare, va trasmessa la distinzione fra comportamenti volontari e finalizzati e reazioni riflesse non indicative di una coscienza consapevole, ma va anche condivisa la responsabilità di una osservazione protratta tesa a identificare la ripetizione di schemi comportamentali indicativi di una evoluzione positiva della condizione clinica.

• Nei limiti di quanto definito dalla deontologia e dalle indicazioni etiche e di legge, le decisioni di cura richiedono l’ascolto delle persone prossime al malato e la considerazione delle aspettative e dei desideri espressi. Formulata la diagnosi di alterazione della coscienza e superati i termini temporali oltre i quali diviene prevedibile una durata protratta della condizione, è dovere dei medici curanti segnalare la situazione di incapacità al giudice tutelare per la nomina di un amministratore di sostegno, o di altra figura analoga prevista dalla normativa in atto, a tutela degli interessi del paziente.

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SINTESI DELLE POSIZIONI 1. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 1 (Stati vegetativi e diffusione pubblica delle

notizie e delle informazioni. I determinanti del senso comune) 1.1. È indispensabile la diffusione, in tutti i contesti di cura o di formazione o di riflessione

culturale e scientifica, di una terminologia univoca, che faccia riferimento alla solidità delle evidenze scientifiche, quando esistente, e alla posizione delle principali società scientifiche e di bioetica. In particolare, va diffusa, anche in ambito non specialistico, la collocazione nosologica originale degli SV rispetto agli stati di coma, ma anche degli altri disturbi della coscienza caratterizzati da un maggiore livello di consapevolezza o dalla sua sostanziale normalità, come il mutismo acinetico, la sindrome di deafferentazione (locked-in) o il Minimally Conscious State-MCS di più recente definizione. In relazione al giudizio prognostico, va in particolare evitata ogni ulteriore confusione con il concetto di morte cerebrale globale o con ambiti nosografici equivalenti.

1.2. La diffusione di una definizione univoca e scientificamente sostenibile è indispensabile: 1.2.1. per la corretta definizione diagnostica e la comprensione della storia naturale della

sindrome; 1.2.2. per una informazione tempestiva ai familiari; 1.2.3. per garantire a ogni malato cure proporzionate alle proprie effettive esigenze e

potenzialità, senza disattendere le esigenze minime di qualità di vita, di controllo dei sintomi, di comfort ambientale e arricchimento relazionale dei malati con iniziali o potenziali segni di evoluzione del contenuto di coscienza;

1.2.4. per evitare distorsioni nel dibattito etico, scientifico e pubblico. 1.3. E’ proponibile l’elaborazione e diffusione di un documento divulgativo che sintetizzi le

informazioni cliniche, prognostiche ed etiche necessarie a comprendere la sindrome. Il documento dovrebbe rispondere in modo comprensibile alle domande più frequenti e sottolineare gli errori più comuni sugli SV e, così formulato, potrebbe essere indirizzato agli organi di stampa, ai comitati etici e agli ordini professionali coinvolti (medici, infermieri, avvocati, assistenti sociali, giornalisti).

1.4. I documenti ufficiali in tema di bioetica e di SV, elaborati da diverse agenzie scientifiche, culturali e religiose, convergono in realtà su più temi di quanto sembri trasparire dal dibattito mediatico. Sembra quindi tempo di proporre la traduzione coerente dei principi condivisi in prassi, norme e soluzioni, ricercando le modalità più efficaci e efficienti per garantire a questi malati assistenza adeguata in ogni fase della malattia: luoghi di cura dedicati, risorse mirate, approccio di cura omogeneo, comunicazione tempestiva, informazione completa.

1.5. Al tempo stesso sembra necessario promuovere ricerche dedicate e occasioni di dibattito utili a offrire risposte o ricercare una maggior condivisione nelle aree oggetto di incertezza, anche etica. Questo, per offrire al legislatore, alla magistratura e agli operatori sanitari gli strumenti necessari a garantire omogeneità e certezze al lavoro di cura e tutela dei diritti soggettivi delle persone malate.

2. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 2 (La definizione di stato vegetativo:

persistente, permanente?) 2.1. Appaiono giustificati i dubbi rispetto all’attribuzione del concetto di permanente agli SV di

durata protratta oltre un limite temporale predefinito. La definizione più condivisa, accogliendo le attuali incertezze prognostiche e i limiti delle conoscenze, sembra quella di SV associata alla causa e alla durata della condizione.

2.2. Al tempo stesso, i dati epidemiologici a disposizione sono concordi nel dimostrare la proporzione ridotta di malati in grado di recuperare un buon livello di coscienza negli SV protratti, e ancora meno quelli in grado di recuperare autonomia nella vita quotidiana. I dati a disposizione sulla storia naturale dello SV devono far parte della comunicazione ai familiari e ai prossimi di questi malati e dei documenti di consenso informato preliminari a procedure rischiose.

3. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 3 (Stati vegetativi e definizione di morte)

3.1. Anche il dibattito sul concetto di morte richiede l’adozione di una terminologia corretta. In particolare, la definizione di SV va mantenuta distinta da quelle di coma e di morte cerebrale. Inoltre, allo stato attuale delle conoscenze, è possibile affermare che:

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3.1.1. non è né scientificamente né clinicamente corretto identificare ogni situazione di SV come equivalente a uno stato di morte corticale 65;

3.1.2. è sostenibile che il dibattito sulle scelte di cura e di supporto vitale non debba far riferimento al concetto di morte nelle sue diverse accezioni e che nessuna decisione di sospensione delle cure possa discendere automaticamente dalla diagnosi di SV 66.

3.2. Come per altre malattie e sindromi inguaribili ma curabili, le decisioni di cura vanno assunte (o dibattute) in relazione:

3.2.1. alla prognosi della condizione e alla proporzione fra questa e le scelte terapeutiche e di supporto;

3.2.2. alle indicazioni etiche e di legge: diritto soggettivo alla vita, qualità di vita e dignità della persona malata, proporzionalità fra scelte di cura e esiti, principi di beneficenza e di maleficenza;

3.2.3. all’autonomia deontologica e professionale del medico; 3.2.4. ai desideri anticipati dalla persona; 3.2.5. ai desideri e aspettative espressi dai prossimi.

4. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 4 (Prevenzione, consenso informato, direttive

anticipate) 4.1. Sembra necessaria la progettazione di studi epidemiologici mirati, utili a definire valori di

incidenza e prevalenza specifici per la popolazione italiana e a conoscere in miglior dettaglio la storia naturale di questi malati. Questo per una migliore comprensione delle situazioni di rischio, dei determinanti della prognosi e della distribuzione delle soluzioni di cura. In questa direzione, sembra auspicabile l’attivazione di un registro epidemiologico dedicato degli SV, su base regionale o nazionale.

4.2. In attesa di studi dedicati, una particolare attenzione va applicata a quelle procedure nelle quali prassi consolidate o condizionamenti organizzativi o medico-legali possono determinare un eccesso di rischio verso l'evoluzione in SV. Allo stato attuale delle conoscenze, infatti, lo SV appare come una complicazione non proporzionata e non desiderabile di un intervento medico, chirurgico o rianimatorio, sia in situazioni acute che nelle procedure elettive. Su questa base, sembra auspicabile una riflessione critica sui luoghi e le situazioni di cura, per rileggerne opportunità e limiti in relazione al rischio di determinare un danno encefalico totale o comunque compatibile con l’evoluzione in SV.

4.3. Nel caso di procedure chirurgiche o di diagnostica strumentale invasiva a rischio per l'evoluzione verso un disturbo di lunga durata della coscienza, la stesura dei documenti di raccolta del consenso informato dovrebbe includere fra le complicazioni possibili lo SV e le informazioni necessarie a comprenderne le ricadute prognostiche e le concrete aspettative di evoluzione. Queste devono fare riferimento a casistiche consolidate, prima fra tutte quella della Multy-Society Task Force on PVS, e alla diversificazione della prognosi in relazione alla durata dello SV.

4.4. Nel documento di richiesta del consenso informato dovrebbero essere richieste alla persona indicazioni esplicite relativamente alle decisioni cliniche e assistenziali successive a una possibile evoluzione in SV, con particolare riferimento all'attivazione o sospensione dei trattamenti di supporto vitale, alle procedure chirurgiche e invasive, all’utilizzo delle terapie antibiotiche, alla donazione di organi. Queste scelte devono essere proposte in relazione alla diversa durata dell'eventuale SV; ad esempio, quali orientamenti assumere nel caso la condizione duri oltre un mese, tre mesi, sei mesi, un anno, cinque anni.

5. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 5 (Stato vegetativo e decisioni di fine vita)

5.1. Nell'attuale dibattito bioetico sugli SV, le divergenze principali riguardano il tema della prosecuzione o interruzione delle cure o la legittimità della loro sospensione superata una determinata soglia temporale di durata (un anno nei documenti più diffusi), in assenza di segni di evoluzione positiva del livello di coscienza. Il dibattito pubblico è stato orientato soprattutto intorno al tema della prosecuzione o sospensione della nutrizione e idratazione artificiali. Le posizioni ufficiali sono, a questo proposito, ancora distanti e le conoscenze scientifiche non sembrano adeguate a garantire solidità a orientamenti diversi. Anche per questo motivo sembra necessario evitare di concentrare il dibattito pubblico su quest’unico tema, ancorché cruciale. In assenza di soluzioni di cura e di risorse umane e economiche

65 Pilotto F, 2004. Op. cit. 66 Defanti CA, 2001. Op. cit.

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adeguate, la semplice enunciazione di principi anche condivisibili è destinata a essere sopravanzata dalla difficoltà oggettive delle famiglie di questi malati. E’ quindi necessario destinare adeguata attenzione alla costruzione di una rete di cura qualificata, utile a sostenere malati e familiari con servizi coerenti e proporzionati.

5.2. I temi dell’autodeterminazione, del riconoscimento della validità del testamento biologico e le sue ricadute sull’agire medico sono da tempo oggetto di riflessioni autorevoli e documentate. Sembra necessario sollecitare il legislatore perché queste riflessioni trovino soluzione in norme omogenee e diffusamente applicabili, con particolare riferimento, oltre che alle situazioni di morte imminente, anche al tema degli SV di lunga durata.

6. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 6 (I luoghi della cura)

6.1. Le diversità di posizione e del senso comune non devono disattendere le legittime esigenze espresse da questi malati e dai loro prossimi. Queste devono concretizzarsi in soluzioni di cura:

6.1.1. coerenti con i principi etici condivisi e con il diritto soggettivo alla vita e alla cura di ogni persona;

6.1.2. adeguati alla qualità e quantità delle esigenze di cura e assistenza di questi malati e di accoglienza delle aspettative e diritti dei loro prossimi;

6.1.3. omogenee per qualità e quantità delle cure e delle professionalità coinvolte; 6.1.4. in linea con la normativa dei LEA e quindi a totale carico del SSN.

6.2. La specificità della sindrome sembra richiedere servizi dedicati o unità operative o nuclei dedicati di strutture più complesse. Questi devono poter garantire la presenza di équipe di cura multidisciplinari con adeguata formazione, in grado di rispondere alle diverse esigenze di questi malati, compresa la capacità di riconoscere i segni di evoluzione positiva del livello di coscienza e di modificare in modo proporzionato i piani di assistenza individuali.

6.3. Deve essere garantita adeguata attenzione alla prevenzione e trattamento delle complicanze, al comfort ambientale, al controllo dei sintomi, al mantenimento delle relazioni e alla quantità e qualità delle stimolazioni sensoriali; questo soprattutto nei malati in vicinanza dell’evento acuto o che esprimano una modificazione in atto della reattività. Allo stato attuale delle conoscenze, è possibile che esistano finestre temporali nelle quali livelli anche minimi di coscienza siano già presenti ma non ancora rilevati dalle équipe di cura, e durante le quali non è prevedibile il livello di percezione soggettiva dei sintomi di disagio o dolore. Queste attenzioni divengono fondamentali nel paziente non competente ma in MCS o con contenuto di coscienza superiore.

6.4. La metodologia adottata deve essere coerente con le esigenze di approccio globale e multidimensionale che questi malati impongono e con la necessità di condividere con i familiari e i prossimi del paziente le principali decisioni terapeutiche e programmi di cura.

6.5. La diffusione territoriale dei servizi deve essere adeguata a rispondere alle esigenze dei familiari di coniugare il mantenimento delle relazioni con una vita personale sostenibile; per garantire la necessaria continuità al percorso di cura e alla tensione riabilitativa, deve inoltre essere ridotta al minimo la necessità di trasferimenti da una struttura ad un'altra in risposta alla evoluzione della storia naturale della persona.

7. Proposta di posizione rispetto alla riflessione n. 7 (Operatori e familiari)

7.1. La cura di questi malati impone una particolare attenzione ai familiari: informazione, sostegno psicologico, ambienti di cura organizzati in modo adeguato a permettere il loro soggiorno e l’espressione delle normali relazioni, coinvolgimento nei processi decisionali. Come per le altre condizioni di malattia e disabilità di lunga durata o inguaribili, le informazioni ai familiari devono essere puntuali, tempestive, complete e aggiornate rispetto allo stato attuale delle conoscenze, con particolare riferimento alle realistiche aspettative prognostiche.

7.2. Gli operatori dedicati alla cura di questi malati devono essere attentamente selezionati, anche sotto il piano psicologico, e possedere una formazione adeguata. Questa deve includere le informazioni necessarie riguardo lo stato vegetativo e la sua possibile evoluzione prognostica e garantire motivazione alla cura del comfort ambientale, alla tutela della dignità, alla rilevazione dei sintomi di disagio ed alla prevenzione e cura delle complicanze. Il percorso formativo deve includere la capacità di riconoscere i sintomi e i segni suggestivi dell’insorgenza di complicanze e quelli indicativi di una modifica del livello di coscienza.

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7.3. E’ indispensabile una supervisione psicologica che prevenga e sostenga le fasi di burn out, che analizzi la percezione personale del malato in SV e che orienti in modo coerente la riflessione personale sul senso e significato del lavoro di cura nei suoi confronti.

7.4. E’ compito dei medici e del personale infermieristico e di assistenza trasmettere ai familiari le informazioni decisive riguardo la definizione, lo stato attuale, le aspettative prognostiche. In particolare, va trasmessa la distinzione fra comportamenti volontari e finalizzati e reazioni riflesse non indicative di una coscienza consapevole, ma va anche condivisa la responsabilità di una osservazione protratta tesa a identificare la ripetizione di schemi comportamentali indicativi di una evoluzione positiva della condizione clinica.

7.5. Nei limiti di quanto definito dalla deontologia e dalle indicazioni etiche e di legge, le decisioni di cura richiedono l’ascolto delle persone prossime al malato e la considerazione delle aspettative e dei desideri espressi. Formulata diagnosi di alterazione della coscienza, e superati i termini temporali oltre i quali diviene prevedibile una durata protratta della condizione, è dovere dei medici curanti segnalare la situazione di incapacità al giudice tutelare per la nomina di un amministratore di sostegno, o di altra figura analoga prevista dalla normativa in atto, a tutela degli interessi del paziente.

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APPENDICE STATI VEGETATIVI E MALATTIE INGUARIBILI NON ONCOLOG ICHE: RIFLESSIONI A MARGINE DELLE CURE PALLIATIVE Premessa: stati vegetativi, cure palliative e terminalità non oncologica Il malato in stato vegetativo appare il paradigma estremo di un complesso di malattie e sindromi non guaribili caratterizzate dalla lunga durata della storia naturale, dalla necessità di cure continuative ma anche da incertezze e nella filosofia di cura e nelle soluzioni organizzative conseguenti, oltre che dalla più difficile delimitazione dei confini temporali della fase avanzata della malattia, di quella terminale e di morte imminente. In particolare, quando inizia e con quali criteri si delimita la fase terminale della vita di persone affette da malattie non guaribili e di lunga durata? Nella malattia oncologica sembra ormai esistere sufficiente condivisione al proposito, in termini di durata rispetto alla storia naturale complessiva della malattia e di definizione oggettiva dei sintomi di morte imminente. Essi giustificano, anche in termini etici e medico-legali, una modificazione sostanziale dell’atteggiamento di cura: ad esempio, viene ammessa l’interruzione del sostegno nutrizionale, la cessazione di trattamenti medici indirizzati alla cura di complicazioni specifiche (ad esempio infettive) o, nelle fasi di imminenza della morte, la proposta della sedazione terminale. Questi limiti permettono anche, in termini normativi e amministrativi, di delimitare la finestra temporale entro la quale questi malati possono essere presi in carico da servizi dedicati, come gli hospice. Al tempo stesso, la presa in carico da parte della rete delle cure palliative sembra caratterizzarsi oggi non solo come sostegno alle fasi di morte prossima o imminente, ma sempre più come accompagnamento articolato all’intera fase avanzata della malattia, con funzioni anche di sollievo temporaneo o ricorrente ed entro i confini di diverse soluzioni di cura. Sembra tempo di avviare un dibattito analogo per le situazioni di malattia inguaribile non oncologica. Molte di esse propongono aspetti di cura e di supporto simili a quelli della fase avanzata e di quella terminale della malattia oncologica. E’ possibile citare, a diverso titolo e con diverse sfumature: • scompenso cardiaco cronico, con particolare riferimento ai malati in classe IV

NYHA e a quelli refrattari al trattamento; • insufficienza respiratoria cronica, con particolare riferimento ai malati che

necessitano di ossigenoterapia continuativa o di altre forme di assistenza alla ventilazione;

• insufficienza epatica o renale in fase avanzata; malati in dialisi extracorporea o peritoneale, ambulatoriale o domiciliare;

• esiti sfavorevoli dei trapianti di organo; • insufficienza multi-organo e stati polipatologici e di totale dipendenza funzionale

dell’età avanzata; • malattie neurologiche complesse: sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica,

distrofie;

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• evoluzione avanzata della malattia da HIV, con particolare riferimento alle complicazioni psichiatriche e alla perdita dell’autonomia;

• disabilità gravi in esito di patologie malformative, genetiche, degenerative o traumatiche dell’età neonatale, infantile o giovanile-adulta;

• sindromi di demenza, malattia di Parkinson e sindromi parkinsoniane; cerebropatie vascolari.

In ognuna di esse la storia naturale della sindrome o malattia propone una finestra temporale entro la quale il controllo dei sintomi, le terapie di supporto, il comfort ambientale, la cura degli affetti e delle relazioni e il sostegno alle esigenze assistenziali primarie assumono significato esclusivo o prevalente rispetto ai trattamenti eziologici o orientati al tentativo di prolungare la sopravvivenza. Quest’ultima esigenza, in particolare, può apparire secondaria rispetto alla espressione della dignità della persona, alla realizzazione del suo personale progetto di vita, al confronto fra i desideri e l’intensità dei disagi quotidiani imposti dalla malattia e dalla disabilità. Caso per caso e situazione per situazione sono anche identificabili una fase terminale e una fase di morte imminente, che possono giustificare la sospensione di trattamenti primari e l’utilizzo di principi attivi a prevalente scopo sedativo e di sostegno alla dispnea, fra cui elettivamente la morfina. Alcune sindromi o malattie propongono inoltre temi specifici, come l’attivazione o sospensione delle diverse forme di ventilazione assistita o controllata, l’attivazione o sospensione del supporto dialitico, la prosecuzione o sospensione della nutrizione artificiale. Altre, come la sclerosi multipla o la sclerosi laterale amiotrofica, propongono il tema dell’accompagnamento di lungo periodo di una persona inguaribile e totalmente dipendente, ma pienamente consapevole: la decisione di attivare o non attivare il sostegno respiratorio artificiale avviene a paziente consapevole; iniziare una ventilazione artificiale invasiva implica una sopravvivenza residua di diversi anni; non iniziarla implica una modificazione sostanziale di questa, con morte in pochi giorni o settimane dall’inizio dei sintomi di insufficienza respiratoria. Le modalità di comunicazione delle informazioni al paziente e ai familiari, i contenuti di questa informazione, il livello di condivisione delle responsabilità assumono in questo caso un ruolo cruciale nelle decisioni di cura e possono essere distorte da atteggiamenti cautelativi, direttivi o non coerenti. Infine, non va dimenticato, come la via finale comune di molte malattie degenerative del sistema nervoso centrale (fra cui demenze, sindromi parkinsoniane, cerebropatie vascolari) e delle sindromi polipatologiche dell’età avanzate sia l’evoluzione e stabilizzazione di uno stato vegetativo dalle caratteristiche sostanzialmente sovrapponibili a quelle di uno stato vegetativo conseguenza di un evento acuto. In questo caso, lo SV assume con maggiore evidenza il significato di stadio avanzato e pre-terminale di una malattia non guaribile ma disabilitante di lunga durata; entro i suoi confini, ad esempio, non viene evocato il tema del risveglio o del possibile recupero del contenuto di coscienza, proprio delle fasi vegetative conseguenti ad un evento acuto traumatico o non traumatico. In conclusione, sembra tempo che il dibattito promosso dalla cultura delle cure palliative intercetti quello già proprio del sostegno a malattie, sindromi e disabilità di lunga durata e non guaribili, promuovendo anche in questo ambito l’evoluzione di atteggiamento, i benefici e le conoscenze maturati nella cura del malato oncologico. E’ probabile che questa estensione avrà ricadute positive anche nei confronti della cultura palliativa, contribuendo a una comprensione più articolata del processo della

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morte e del morire, ad un ampliamento del ventaglio di soluzioni proponibili ai malati e ai loro familiari e alla migliore discussione in ordine alla concreta espressione dei diritti soggettivi delle persone. Sospendere o iniziare: limiti e potenzialità dell'agire sanitario. Buoni e cattivi? Indipendentemente dai temi fin qui esposti, la situazione dei malati in SV appare anche l'occasione per riflettere sulla persistenza, fra gli operatori della salute, di abitudini e prassi quotidiane non sempre sostenute da una riflessione critica. Questa sembra necessaria per maturare una consapevolezza superiore riguardo i limiti e le potenzialità dell'agire sanitario. Ad esempio, è probabilmente utile evitare di distinguere, anche nel giudizio etico, l'iniziare (una procedura, una forma di sostegno) con il sospendere. La fase del processo di cura nella quale si decide di intraprendere o non intraprendere una procedura di ventilazione, di nutrizione artificiale, di sostegno dialitico ha gli stessi contenuti umani, emotivi, tecnici, normativi e etici del sospendere successivamente una procedura a suo tempo intrapresa. Questa constatazione, apparentemente ovvia, ha ricadute non indifferenti. Il senso del limite nell'agire medico deve coinvolgere tutti gli operatori della salute, quale che sia il luogo, la mansione, il tempo. Nel senso comune, ma anche in termini medico legali, l'operatore che fa, che inizia, che attiva viene più spesso attribuito di intenzioni e significati positivi, rispetto a quello che, contemporaneamente o successivamente, si esprime in modo critico o contrario. Nel dibattito pubblico intorno ai casi anedottici di SV di lunga durata, viene ad esempio compiuto un paradossale ribaltamento di ruoli. Viene criticata come espressione di onnipotenza e di assenza di senso del limite la posizione del familiare o del medico che suggerisce di sospendere procedure che mantengono artificialmente in vita una persona altrimenti destinata a morte certa per assenza delle possibilità naturali di sopravvivenza. Al contrario, viene normalmente presentata come posizione non onnipotente e rispettosa quella del medico che introduce e mantiene forme di sostegno artificiale e tecnologico della sopravvivenza di malati oltre il limite della vita naturale. Questo ribaltamento, anche giustificabile alla luce delle molte e non risolvibili incertezze già espresse nelle tesi precedenti, richiede però una particolare attenzione, proprio per evitare distorsioni o confusioni del senso comune e dei processi decisionali. In pratica: • la persona in SV può esserlo per l'evoluzione naturale della patologia di base o

perché, nella diverse fasi della sua storia naturale, sono stati utilizzati supporti terapeutici e tecnologici che hanno stabilizzato una situazione altrimenti destinata a morte. In questa dimensione, è bene che siano responsabilizzati i professionisti che hanno agito in questo senso, chiedendosi se, a fronte degli elementi clinici e prognostici in atto, l'utilizzo delle tecniche di terapia intensiva e supporto vitale (ventilazione, dialisi, rianimazione cardiopolmonare, nutrizione parenterale o enterale, procedure chirurgiche o invasive) sia stato proporzionato o, al contrario, dettato da motivi non etici: timore di assumersi responsabilità, cattiva informazione, ridotte competenze, desiderio di acquisire esperienza in determinate procedure, mancanza di una adeguata informazione ai familiari, mancata raccolta del consenso informato, atteggiamento difensivo nei confronti di possibili ricadute medico-legali. Lo SV può anche essere la conseguenza di errori iatrogeni (malpractice); è il caso di interventi neurochirurgici o cardiochirugici praticati in assenza di indicazioni condivise o delle condizioni di sicurezza necessarie: pazienti ad alto rischio, aspettativa di vita ridotta dalle condizioni di base, ridotta

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esperienza dell'operatore o dell'équipe, tasso di complicazioni non in linea con le regole di buona prassi;

• il problema del sostegno vitale va interpretato in modo compiuto. Idratazione, nutrizione, respirazione, attività cardiocircolatoria, funzioni emuntorie, sostegno alla termoregolazione e tutela dell'integrità cutanea sono tutte forme di sostegno alle esigenze elementari del corpo, in assenza delle possibilità di gestione autonoma delle relative esigenze da parte della persona. Oggi sembra diffusa e accettata una classificazione d’importanza o di essenzialità di queste procedure legata a prassi consolidate piuttosto che al riferimento a diritti soggettivi. Sembra rilevante, in questo senso, anche la rapidità con la quale la mancata tutela di queste esigenze può determinare la morte: una aritmia ventricolare o un grave deficit della conduzione atrio-ventricolare insorti acutamente possono determinare questa in pochi minuti; una insufficienza respiratoria o l'impossibilità al respiro sostenibili solo con procedure di assistenza respiratoria artificiale, in pochi minuti o ore; l'assenza di idratazione in due o tre giorni, l'assenza di nutrizione (con idratazione conservata) in 8-10 giorni. Meno prevedibile e meno conosciuta la relazione fra mancata attivazione di una procedura di sostegno e la morte nel caso di seri problemi della termoregolazione, di una insufficienza renale o della mancata cura della cute con la comparsa di lesioni da decubito e la loro successiva evoluzione. Non va dimenticato, infatti, come le stesse lesioni da pressione possono favorire la comparsa di sepsi e essere causa o concausa di morte di per sé e che la loro presenza alla dimissione da un ricovero ospedaliero rappresenta un indicatore potente di cattiva qualità delle cure e di giudizio negativo sulla stessa dimissibilità. La relazione temporale fra sintomo (cessazione dell'attività cardiaca, impossibilità al respiro, impossibilità a bere o nutrirsi, impossibilità a espellere sostanze tossiche attraverso l'emuntorio renale, impossibilità alla gestione autonoma della posizione a letto o seduta e a garantire l'integrità della propria cute, impossibilità a mantenere e preservare la temperatura del proprio corpo) e attivazione di una procedura di sostegno può influenzare molte dinamiche del processo decisionale, ma anche del dibattito pubblico, del senso comune, della stessa riflessione etica. In questo senso, la situazione dei malati in SV può essere l'occasione per unificare linee di riflessione oggi apparentemente separate. Ad esempio, è certo e da tutti accettato che un malato in SV non sia proponibile come ricevente di un trapianto d'organo (cuore, polmoni, fegato, reni) anche se la situazione clinica di base (grave cardiopatia o pneumopatia, insufficienza epatica o renale) potrebbe a rigore far porre l'indicazione in tal senso. E' proprio la presenza dello stato vegetativo di per sé, e le sue ricadute prognostiche, che suggeriscono la non opportunità-praticabilità dell'intervento, anche se questa decisione avrà come conseguenza - in un periodo di tempo variabile - la morte della persona. Questa non è, nel senso comune e nel dibattito etico, interpretata come atto di ingiustizia o di abbandono, ma come la coerente applicazione di principi di corretto utilizzo di risorse limitate e di proporzionalità fra strumenti, risultati, desideri. In ugual misura, una insufficienza renale non altrimenti risolvibile, non porterà un malato in SV alla inclusione nella lista dei pazienti da sottoporre alla dialisi ambulatoriale, ma non risulta diffuso in letteratura neanche il dibattito intorno alla più semplice e gestibile dialisi peritoneale. Anche in questo caso, sembra esistere un'area di esclusione dal dibattito pubblico e da quello etico; in realtà, non sembra in discussione ma anzi unanimemente accettato, il fatto che sia legittimo determinare dei criteri di esclusione del malato in SV (ma anche del malato con sindrome di demenza, AIDS avanzata,

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polipatologia senile o anche solo età molto avanzata) da una lista di pazienti proponibili per una determinata procedura. In particolare, per la limitatezza delle risorse tecniche, umane e economiche disponibili, per valutazioni di significato prognostico o per altri motivi (la distanza, la maggiore gradualità e la minore collegabilità della morte della persona con il segnale laboratoristico o la contrazione-blocco della diuresi) non sembra oggetto di discussione la possibilità che una persona in SV possa andare a morte per la cessazione della funzione renale senza la messa in atto di procedure strumentali sostitutive. Più ampio e articolato è il dibattito intorno alle procedure di sostegno respiratorio. Queste includono la semplice somministrazione di ossigeno, la messa a dimora di una tracheostomia, le diverse opzioni di ventilazione assistita o controllata invasive e non invasive. In questo caso, non sembrano esistere dubbi in ordine alla opportunità di somministrare ossigeno o di mettere a dimora una cannula tracheostomica; semmai, a questo livello, si rischiano eccessi non sempre giustificabili rispetto alle conoscenze scientifiche e alle indicazioni di letteratura o di buona prassi: la somministrazione di ossigeno e la scelta della via e della velocità di flusso, fanno spesso più parte del rito clinico che della coerenza scientifica. La stessa tracheostomia potrebbe essere discutibile in molte situazioni che non richiedano un accesso invasivo delle vie aeree. Al contrario, non sembrano esistere condivisione o linee guida di univoca applicazione rispetto all'attivazione di una ventilazione invasiva in un malato in SV con gravi alterazioni concomitanti della funzionalità respiratoria, per motivi ad esempio infettivi o per l'aggravamento di malattie polmonari o neurologiche preesistenti. Anche in questo caso, le scelte sono legate all'iniziativa del singolo operatore o servizio più che a indicazioni condivise e sono più spesso orientate in senso negativo. Sembra quindi accettabile o proponibile (comunque fa parte di prassi diffuse e non evoca reazioni di rilievo né pronunciamenti ufficiali), la realtà per la quale una persona in SV non sia proponibile per trattamenti ritenuti doverosi in assenza di tale stato. Al contrario, è stato particolarmente enfatizzato il dibattito intorno al sostegno nutrizionale, interpretato da alcuni come atto puramente medico, da altri come sostegno vitale non discutibile. Se la sua sospensione viene da qualcuno equiparata ad un atto eutanasico, perché questo non accade nel caso ben più frequente della decisione di non intraprendere o di sospendere per i motivi più disparati gli altri trattamenti di supporto vitale citati, negli SV come in altre malattie non guaribili?

In conclusione, il dibattito intorno a temi così delicati può rimanere entro i confini scientifici e dell’etica condivisa, ma deve accogliere principi di equità e di giustizia: non possono continuare ad esistere percorsi diversi di approccio alla morte e al morire, dove quel che è lecito per un malato non lo è più per un altro e dove quel che è opportuno per una procedura (come la nutrizione) non lo è più o non lo è ancora per un’altra parimenti vitale. E’ probabilmente necessario unificare percorsi di per sé comuni, offrendo agli operatori e a decisori politici criteri di lettura degli atti e delle potenzialità di cura più attinenti al tempo e alla fase della malattia che alla sua natura, o rendere espliciti i motivi che delimitano e giustificano processi decisionali diversi. I luoghi della cura: la terminalità non oncologica Infine, il settore della cura alle malattie e disabilità di lunga durata è accomunato dalla frequente evidenza della inadeguatezza dei servizi di cura. I malati sono in gran

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parte in carico alle rispettive famiglie, che segnalano la ricorrente sensazione di solitudine e di abbandono, gli elevati costi economici e umani sostenuti, la difficoltà a reperire operatori e servizi adeguati alle esigenze del proprio congiunto. Il sistema di cura, sia sanitario che sociale, è ancora in gran parte orientato verso la cura delle malattie acute o delle sole fasi di instabilità/scompenso di quelle di lunga durata. Questo nonostante l’evoluzione demografica, quella dello stato di salute della popolazione e quella della struttura sociale stanno già ponendo in primo piano i bisogni collegati con la gestione di lunga durata di processi di cura e di sostegno. Questi richiedono metodologie, servizi e soluzioni dedicate, diverse da quelle proprie della malattia acute: servizi di tipo domiciliare di diversa complessità e articolazione, servizi semi-residenziali e residenziali di sollievo e supporto alla gestione domiciliare di lunga durata, unità d’offerta residenziali di diversa natura e articolazione (riabilitativa, permanente, di accompagnamento alle fasi avanzate e terminali). Non è ulteriormente sostenibile uno scenario istituzionale nel quale le persone possono essere seguite da servizi qualificati solo se abitano nel luogo giusto e se hanno la malattia idonea a essere accolta nel servizio o struttura di cui quel luogo ha la fortuna di disporre. Sembra necessaria una riflessione più ampia, orientata a: • promuovere la diffusione di servizi di qualità e quantità proporzionate alla

evoluzione demografica, dello stato di salute e della struttura sociale della popolazione italiana;

• condividere e diffondere criteri di presa in carico diversi dai tradizionali criteri di suddivisione delle malattie, per accogliere in modo più ampio e articolato criteri legati alla fase della malattia e alle caratteristiche delle esigenze di cura;

• promuovere una cultura di accompagnamento alla buona morte e standard di qualità omogenei per le diverse età della vita e per le diverse cause di morte.

Il dibattito relativo, coinvolge inevitabilmente quello sull'equità distributiva delle risorse economiche. La realtà attuale del sistema dei servizi lascia emergere il confronto fra settori sovrafinanziati e caratterizzati da un eccesso di offerta ed altri che sono l’espressione di nuove povertà o di nuove emarginazioni. E’ paradossale, in questo senso, che il dibattito avviato abbia fatto emergere come particolarmente soggetti ad abbandono proprio quei malati e quelle persone che costituiscono il “prodotto” finale della nuova medicina tecnologica e in cerca di un limite o, più semplicemente, del nuovo benessere. La vecchiaia estrema, gli stati vegetativi, le sindromi cardiologiche avanzate, le malattie neurologiche complesse, le insufficienza d’organo sono oggi esposte al rischio di divenire oggetto di interesse e cure solo se e in quanto interessanti in termini economici o, peggio, commerciali: la redditività normativa o la vendita di un prodotto farmacologico o strumentale. Deve invece essere ribadito il concetto che la persona è depositaria di un diritto soggettivo alle cure, che deve tradursi in attenzione e servizi proporzionati e che non può essere condizionata da una logica di consumo: si nasce, si vive e si muore se interessanti, se belli, se ricchi, se utili, se produttivi. E questo oltre il caso, il “se si può”, i fai da te, i perché, i distinguo, i dibattiti astratti, i grandi polveroni mediatici.