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GLI ACCORDI DI CONVIVENZA: UNO SGUARDO AGLI ORDINAMENTI STRANIERI*

di Francesco Bilotta

(Dottore di ricerca)

1. PremessaNel nostro sistema non vi sono norme concernenti i rapporti – di qualsiasi

natura essi siano (patrimoniali o non patrimoniali) – tra persone che decidono di

stare insieme, condividendo la loro quotidianità, senza creare una famiglia fondata

sul matrimonio.

Diversa è la situazione all’estero. Anzi, numerose e tra loro diversificate

sono state altrove le risposte sul piano legislativo ai problemi sollevati dai rapporti

di convivenza.

Bisogna subito dire che non interessa, in questa sede, affrontare la

questione di politica del diritto riguardante l’opportunità o meno, per un

ordinamento, di introdurre norme giuridiche a tutela di chi abbia deciso di

convivere rifiutando l’istituto matrimoniale1.

Punto di partenza delle riflessioni che seguono, è, piuttosto, il dubbio circa

la capacità del sistema vigente di diritto di famiglia, nella sua interezza, di dare

risposte adeguate alle esigenze dei cittadini. La ricchezza delle soluzioni

legislative rintracciabili all’estero – come vedremo – e una domanda sociale

sempre più insistente, dovrebbero indurre i giuristi di casa nostra a chiedersi con

maggiore insistenza se le norme italiane, nel settore in considerazione, siano al

passo con i tempi, o se vi sia una distonia tra le regole scritte e la vita vissuta. E’

*Il testo che segue, a cui sono state aggiunte successivamente le note, riproduce, con qualche aggiustamento, la relazione tenuta presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Roma Tre, nell’ambito di un ciclo di seminari di studio a cura delle Cattedre di Diritto privato comparato e di Diritto privato in collaborazione con la Cattedra di Sociologia, dal titolo Il diritto di fronte alle sfide della modernità, il 16 maggio 2001. Ringrazio il Dott. Raffaele Torino per la tenacia e l’affetto con cui ha sollecitato questo mio modesto contributo. 1 Sul punto v. A. De Vita, Note per una comparazione, in F. B. D’Usseaux e A. D’Angelo, Matrimonio, matrimonii, Giuffrè, Milano, 2000, 167 e ss. Inoltre, v. G. Ferrando, Gli accordi di convivenza: esperienze a confronto, in Riv. crit. dir. priv., 2000, 163 e ss. E le interessanti considerazioni di J. Hauser e D. Heut-Weiller, La famille. Fondation et vie de la famille, in Traité de droit civil sous la direction de J. Ghestin, Paris, 1993, 2 ed., 177-180 e 795-796.

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innegabile, infatti, l’esistenza (1) di una concezione della famiglia molto diversa

rispetto al 1942, anno di entrata in vigore del Codice civile, e anche rispetto al

1975, anno di entrata in vigore della legge di riforma del diritto di famiglia; (2) di

uno scambio intenso di modelli di convivenza dovuto ai flussi migratori e ai

contatti interpersonali favoriti da mezzi di comunicazione sempre più veloci; (3)

di una maggiore sensibilità verso le unioni tra persone dello stesso sesso, ancor

oggi, purtroppo, fortemente combattute da una certa cultura di matrice cattolica;

(4) infine, di un’organizzazione del lavoro e della progressione delle carriere (sia

in ambito privato che pubblico) che appare sempre più di ostacolo alla creazione

di un nucleo famigliare in senso tradizionale.

E’ necessario, allora, ricordare che al mutare degli assetti sociali non

possono non mutare, tendenzialmente, le regole che governano le attività dei

privati, onde garantire una migliore organizzazione della quotidianità delle

persone e rafforzare la tutela dei “nuovi” soggetti deboli.

A tutto ciò si aggiunga una considerazione. La decisione di non utilizzare

l’istituto del matrimonio non sempre testimonia un disprezzo per quelle regole. In

alcuni casi, si tratta di una decisione obbligata, come per le coppie gay2, che

continuano ad essere sistematicamente ignorate dal diritto italiano3. Tale unione

non è assimilabile – si è soliti affermare apoditticamente – a quella di una coppia

di persone di sesso diverso e perciò ad essa – si dice – non possono neppure

estendersi analogicamente le norme poste a tutela delle coppie unite in

matrimonio, così come sempre più spesso avviene quando si tratta della famiglia

di fatto.

Ecco un esempio – forse il più evidente – di quanto possa essere utile,

anche alla luce di modelli normativi stranieri, rivalutare un approccio negoziale

nell’individuazione delle regole di qualsiasi rapporto di convivenza, sia esso

fondato sul matrimonio o meno.

2 Anche nel prosieguo della trattazione si utilizzerà sempre l’espressione gay per indicare le persone che hanno scelto come partner una persona del proprio sesso. Questo perché si condivide la convinzione espressa da P. Rigliano, Amori senza scaldalo, Feltrinelli, Roma, 2001, secondo il quale l’espressione omosessuale è limitante per descrivere l’universo affettivo gay, perché assolutizza la dimensione (appunto) sessuale.3 Si legga la ferma denuncia in proposito di F. Grillini, Omosessuali e diritti. Il Pacs in Francia e il confronto con la situazione italiana, in Riv. crit. dir. priv. 2000, 183 e ss.

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2. Alcune precisazioni terminologichePrima di andare avanti, sarà bene premettere alcune precisazioni di

carattere terminologico per maggiore chiarezza espositiva.

Innanzi tutto, con l’espressione accordi di convivenza, va osservato come

ci si riferisca spesso anche agli accordi tra persone sposate4. Si tratta di figure

negoziali di carattere atipico con le quali le parti cercano di colmare le lacune

presenti nella disciplina legislativa5. A questa tipologia di accordi di convivenza si

faranno solo alcuni rapidi cenni, con particolare riguardo al loro governo in alcuni

sistemi stranieri.

Il termine convivenza – va inoltre sottolineato – sarà utilizzato nel

prosieguo in un’accezione volutamente generica, così da abbracciare relazioni

(unioni) socialmente tipiche, anche molto differenti tra loro. Gli accordi di

convivenza a cui si darà più spazio riguardano, in particolare, la convivenza di

una coppia (indifferentemente etero o gay) di persone legate da vincoli affettivi,

ovvero quella di due (o più) persone che vivono sotto lo stesso tetto senza alcuna

motivazione di carattere affettivo (per ragioni di solidarietà, ad esempio).

Più opportunamente, sarà bene che le convivenze da ultimo accennate,

vengano denominate unioni di mutuo aiuto.

Non si può, però, non segnalare l’ampliamento semantico che

recentemente ha subito l’espressione convivenza di fatto o more uxorio.

4 v. G. Oberto, Convivenza (contratti di), in Contr. e imp., 1991, 369 e ss. ove è possibile trovare una ricca bibliografia in argomento anche di letteratura straniera; inoltre L. Rubino, Gli accordi familiari, in I contratti in generale, diretto da G. Alpa e M. Bessone, II, 2, in Giurisprudenza sistematica civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, Utet, Torino, 1991, 1160 e ss. Il dibattito si è sviluppato, in Italia, soprattutto con riguardo agli accordi di separazione non omologati, c. d. contratti della crisi coniugale, v. per tutti G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, Giuffrè, Milano, 1999. Sulla natura giuridica dei contratti della crisi coniugale e sulle ricadute operative di tale qualificazione v. G. Ceccherini, Separazione consensuale e contratti tra coniugi, in Giust. civ., 1996, II, 392 ss.; A. Zoppini, Contratto, autonomia contrattuale, ordine pubblico familiare nella separazione personale dei coniugi, nota a Cass., 23 dicembre 1988, n. 7044, in Giur. it., 1990, I, 1, 1326. In particolare, sulla possibile modificazione del regime di separazione consensuale mediante accordi tra coniugi separati v. G. Alpa e G. Ferrando, Se siano efficaci – in assenza di omologazione – gli accordi tra i coniugi separati con i quali vengono modificate le condizioni stabilite nella sentenza di separazione relative al mantenimento dei figli, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi , Cedam, Padova, 1989, 505 ss.; A. Finocchiaro, Sulla pretesa inefficacia di accordi non omologati diretti a modificare il regime della separazione consensuale, in Giust. civ., 1985, I, 1659 ss.5 Per una rassegna delle diverse tipologie di negozi atipici che è possibile stipulare tra i partner di una coppia unita o meno in matrimonio v. N. Zanini, La crisi della famiglia e l’autonomia negoziale dei coniugi, in Il diritto privato nella giurisprudenza a cura di P. Cendon, I contratti nuovi, Vol. III, Utet, Torino, in corso di pubblicazione. Ringrazio l’autrice per l’opportunità offertami di leggere in anteprima le sue pagine.

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Oggigiorno, in effetti, essa non può non ricomprendere anche l’unione tra persone

dello stesso sesso. E ciò, non solo perché questa è l’unica veste giuridica che è

possibile attribuire a tali unioni – nei Paesi, almeno, in cui i gay non possono

contrarre matrimonio – ma anche perché il fatto di non riservare lo stesso

trattamento giuridico a due realtà, peraltro, assolutamente identiche, rischia di

rafforzare i pregiudizi di carattere culturale che resistono pervicacemente perfino

nel nostro Paese6.

Da ultimo, è bene rilevare che il valore giuridico degli accordi di

convivenza non è ovunque lo stesso. Solo in alcuni Paesi essi hanno rilevanza

esterna rispetto alla coppia. Solo in alcuni Paesi, cioè, essi possono essere opposti

ai terzi. A tal fine, sono previsti opportuni mezzi di pubblicità, che di volta in

volta si avrà cura di segnalare all’attenzione del lettore. In certi casi, la pubblicità

dell’accordo è l’unico aspetto regolato legislativamente, mentre rimane

interamente affidata all’autonomia dei privati la determinazione dei contenuti.

In altri casi, invece, come si avrà modo di vedere, i limiti normativi posti

all’autonomia privata sono ben più incisivi, così che il contenuto dell’accordo,

destinato a regolare la vita dei conviventi, è in tutto o in parte predeterminato dal

legislatore.

3. Le questioni da affrontareNelle pagine che seguono, si cercherà di illustrare quali siano le regole

vigenti presso alcuni sistemi giuridici stranieri in materia di convivenza non

fondata sul matrimonio.

Si noterà che in molti casi l’orientamento sessuale della coppia non è fonte

di alcuna discriminazione, tanto che le regole pensate per le convivenze etero

vengono dichiarate applicabili anche alle coppie gay.

La necessità di concepire la convivenza nel senso etimologico del termine,

ossia come uno stare insieme per condividere la vita quotidiana, indurrà a

ricordare alla fine di questo rapido excursus anche l’esperienza catalana delle

unioni di mutuo aiuto.

6 v. le considerazioni di G. Ferrando, op. cit., 170-172.

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4. L’apporto di una comparazione diacronicaL’impressione che si trae dall’analisi della maggior parte dei sistemi

stranieri, è che la volontà dei soggetti conviventi sia centrale nella creazione e

nella gestione – sul piano giuridico – di vincoli solidaristici e affettivi. Gli accordi

di convivenza possono a ragione, quindi, considerarsi l’ennesimo esempio di quel

trend che è caratterizzante di tutti quanti i rapporti dei privati, progressivamente

non più fondati sullo status, bensì sul contratto7.

Eppure – a ben vedere – non si tratta di un’originalità dell’epoca

contemporanea. Ciò è ampiamente testimoniato dal ruolo che, già in epoca

romana, aveva la volontà dei privati nella costituzione dei rapporti parentali. Si

pensi all’adoptio8, ma anche al ruolo del consenso nel matrimonio (consensus

facit nuptias)9.

Non si può, poi, non pensare alla muta, istituto di creazione

consuetudinaria degli antichi arabi, riconosciuto dal Corano10. Siamo di fronte –

semplificando – ad un matrimonio temporaneo diffuso nella società araba nomade

7 Nota l’espressione di Maine, Ancient Law: Its Connections with Early History of Society and Its Relations to Modern Ideas, New York, 1888, 164 s.: «The word Status may be usefully employed to construct a formula expressing the law of progress thus indicated which, whatever be its value, seems to me to be sufficiently ascertained. All the forms of Status taken notice of in the Law of Persons were derived from, and to some extent are still coloured by, the powers and privileges anciently residing in the Family. If then we employ Status, agreeably with the usage of the best writers, to signify these personal conditions only, and avoid applying the term to such conditions as are the immediate or remote result of agreement, we may say that the movement of the progressive societies has hitherto been a movement from Status to Contract».8 Fin dalle loro origini sia l’adrogatio che l’adoptio servivano a costituire, seppure in base a presupposti giuridici e rituali differenti, un rapporto di parentela fra due soggetti nel primo caso per assicurare una discendenza al pater familias; nel secondo caso per spostare forza lavoro da un nucleo famigliare ad un altro. Già all’inizio la sostanza dei due istituti si rivela decisamente lontana dalla concezione moderna di adozione, ma la massima distanza tra l’istituto romano e quello nostrano la si avverte in età postclassica «quando, scomparsa l’in iure cessio e ridotta a un nome vano la mancipatio, l’adozione si compì mediante dichiarazioni delle parti interessate (padre naturale, padre adottivo e adottato), ricevute dal magistrato municipale e destinate esplicitamente a costituire il nuovo rapporto familiare», così V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene, Napoli, 1994, 468. 9 Sarebbe troppo complicato ricordare, nei dettagli, la disciplina del matrimonio romano nel suo sviluppo secolare. Qui basti solo ricordare che, il consenso e il fatto della deductio della sposa in domum mariti, erano i due presupposti per il sorgere di un rapporto giuridico quale il matrimonium sine manu. Negli ultimi secoli della Repubblica e sotto il principato, l’assenza dalla casa coniugale di uno dei due sposi non faceva cessare gli effetti del matrimonio, se non veniva meno pure l’affectio maritalis. Cfr. V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, cit., 434-439, in particolare sullo scioglimento del matrimonio Id., op. cit., 448 e ss. Sul brocardo consensus facit nuptias v. le considerazioni di L. Migliardi Zingale, Il distillato, in F. B. D’Usseaux e A. D’Angelo, op. cit., 22-24.10 Per maggiori dettagli sull’istituto coranico v. M. Grondona, Il distillato, in F. B. D’Usseaux e A. D’Angelo, op. cit., 17 e ss.

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ed itinerante. Si tratta di nient’altro che di un contratto con presupposti e contenuti

ben determinati, in base al quale una donna si occupa di un uomo per un certo

tempo a fronte di un donativo nuziale.

Assai rilevante per la storia della nostra concezione di matrimonio e di

costituzione degli status famigliari è senza dubbio l’avvento dell’epoca cristiana.

La sacralizzazione del vincolo sottrae interamente ai privati la gestione negoziale

del rapporto: da un lato, impedendo loro di creare un rapporto di coniugio al di

fuori delle forme canoniche, dall’altro, fissandone rigidamente il contenuto.

Così, proprio in quanto calato all’interno di una realtà sacramentale, il

consenso dei nubendi è solo uno dei presupposti essenziali per la validità dell’atto

e la sussistenza del rapporto matrimoniale. Ciò comporta che il vincolo

matrimoniale non potrà essere sciolto dal solo venir meno del consenso.

Nell’evoluzione dell’istituto del matrimonio, come è ben noto, è

fondamentale il Concilio di Trento (seconda metà XVI sec.). Da quel momento i

nubendi sono obbligati al rispetto di alcune formalità, come l’espressione del

consenso davanti ad un sacerdote (in facie ecclesiae), pena l’invalidità del

vincolo.

La riforma tridentina influenza praticamente tutta l’Europa, tranne

l’Inghilterra, ove, a causa dello scisma anglicano che si era già prodotto, la forma

nello scambio delle volontà dei nubendi rimane libera. Nasce così il common law

marriage, che in Inghilterra verrà consentito fino al 1753 (quando l’English

marriage Act lo proibirà), e in Scozia fino al 193911.

Tale istituto, però, era intanto arrivato con i padri pellegrini fin nel Nuovo

Mondo, ove è ancora vigente in ben 13 Stati dell’Unione (Alabama, Oklahoma,

Colorado, Pennsylvania, New Hampshire, Rhode Island, Iowa, South Carolina,

Kansas, Texas, Montana, Utah, District of Columbia) e in seguito finirà con il

diffondersi anche in Australia.

E’ utile accennare a tale evoluzione storica, perché una comparazione

diacronica può fornire un’ulteriore spinta verso una modificazione dell’attuale

sistema normativo12.

11 C. Bellini, Common law Marriage, in F. B. D’Usseaux e A. D’Angelo, op. cit., 219 e ss.12 Sull’importanza di una comparazione diacronica e in generale sull’utilità del diritto comparato, v. G. Gorla, Diritto comparato, in Enc. Dir., XII, Giuffrè, Milano, 1964, 933: «Si parla così dei servizi che esso può rendere: (…) b) al diritto nostrano, cioè a quello proprio del comparatista.

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La prima constatazione da fare è che, già in passato, la volontà dei privati

aveva una notevole rilevanza nella creazione degli status famigliari.

In secondo luogo, storicizzare un istituto consente di non assolutizzare le

scelte di diritto positivo attualmente vigenti. In tal modo, (forse) riesce più

agevole considerare un’apertura – anche sul piano legislativo – verso gli accordi

di convivenza.

5. La famiglia di fatto«Famiglia di fatto» è un’espressione con cui si suole indicare l’unione tra

due persone che decidono di costruire insieme un progetto di vita fondato sul

reciproco affetto, senza contrarre matrimonio13. E’ un fenomeno che non conosce

confini geografici e che pone problemi analoghi a quelli in genere posti dal

rapporto di coniugio, proprio perché non è la sostanza del rapporto a differire, ma

la forma della sua costituzione14:

(1) sotto il profilo patrimoniale – Dal fatto di non aver contratto

matrimonio consegue che non si possa seguire il regime patrimoniale previsto

dalla legge per i coniugi. Il soggetto economicamente debole della coppia rimane,

in tal modo, privo di qualsiasi tutela, soprattutto nel momento più delicato della

convivenza, ossia quello del suo scioglimento. Nonostante l’omogeneità delle

situazioni, non è possibile estendere alla famiglia di fatto i regimi più favorevoli,

da un punto di vista fiscale o previdenziale, previsti per legge a favore delle

coppie sposate, né è possibile applicare le norme previste dal Codice civile in

materia successoria15;

Sotto questo aspetto il diritto comparato può servire nei progetti di riforma o a colmare, in sede di interpretazione e di sviluppo le lacune del diritto nostrano. Può servire altresì a correggere certe eccessive tendenze al concettualismo, alle generalizzazioni o astrazioni proprie della nostra dottrina (o certo eccessivo “empirismo” della dottrina altrui) a darci il senso della relatività di moltissimi dei suoi concetti e quindi il senso del problema concreto o storico; anzi addirittura a farci scoprire problemi pur vivi, ma ignorati dal concettualista o a meglio porli (eccitamento della problematica). Last but not least, può servire come incitamento a studiare la nostra storia giuridica». In pochi altri settori del diritto privato, come quello analizzato in questa sede, si avverte un altro effetto positivo - secondo Gorla - di un approccio comparatistico al problema: la liberazione dal provincialismo.13 In tema M. Bernardini, La convivenza fuori dal matrimonio. Tra contratto e relazione sentimentale, Cedam, Padova, 1992.14 J. Hauser e D. Heut-Weiller, La famille. Fondation et vie de la famille, op. cit., 799-804.15 Consiglio Nazionale del Notariato, La famiglia di fatto e i rapporti patrimoniali tra conviventi. Atti del XXXIII Convegno Nazionale del notariato (Napoli, 29 settembre – 2 ottobre 1993), Stamperia Nazionale, Roma, 1994.

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(2) sotto il profilo non patrimoniale – Anche per la coppia di fatto si

sottolinea la possibilità di accedere all’adozione e al regime comune previsto per

la patria potestà sui figli, quando i bambini conviventi con la coppia non siano

figli di entrambi.

E’ evidente che una normativa capillare che tentasse di dare una risposta a

tutte queste domande sarebbe nient’altro che una duplicazione delle norme

previste per il matrimonio. L’unica differenza, a quel punto, tra coppie di fatto e

coppie sposate consisterebbe nell’eliminazione dell’atto matrimoniale. Ma è

altrettanto evidente che ciò contrasterebbe con la volontà chiaramente espressa

dalla coppia di non sposarsi.

A fronte di questa esigenza – espressa dai conviventi di fatto – di

deregulation, non si possono, d’altro canto, tollerare discriminazioni fondate su

uno status, soprattutto quando a farne le spese sono i soggetti deboli coinvolti in

diverso modo nella convivenza (uno dei due partner o i figli nati dalla loro

unione). Si avverte, quindi, l’esigenza di una legislazione “leggera” che affronti e

risolva singole questioni senza essere monolitica e draconiana come la

legislazione sul matrimonio16.

5.1. I modelli di regolamentazione delle unioni di fattoCome si è già avuto modo di ricordare, in molti Paesi sono state previste

regole ad hoc per le convivenze non fondate sul matrimonio. In grande sintesi, si

possono individuare quattro modelli, per descrivere le differenti soluzioni

normative adottate.

Un primo modello si caratterizza per l’equiparazione dell’unione di fatto al

matrimonio ad opera della legge17.

Un secondo modello limita tale equiparazione a profili specifici della

convivenza18.

16 Nello stesso senso F. Grillini, op. cit., 187-188.17 Le norme a cui ci si riferisce sono l’art. 173 Còdigo civil Gautemala; la Ley 12 dicembre 1956 del Panama; la Costituzione della Bolivia. 18 Nelle Hawaii una legge del 1997 prevede, per chi non ha la possibilità legale di sposarsi: il godimento di benefits assistenziali; la possibilità di agire in tort per illeciti subiti dal compagno; il diritto di prendere decisioni di rilievo medico per il partner. Norme simili sono rinvenibili in altri Stati dell’Unione: Massachusset, New York, Oregon, Vermont. Anche in Canada, a partire dagli anni ’70, si registra lo stesso fenomeno grazie ad una legislazione federale.

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Un terzo modello si fonda sull’opera della giurisprudenza, che in certi

Paesi equipara le unioni di fatto alle unioni fondate sul matrimonio solo per taluni

profili19, mentre in certi altri realizza una completa equiparazione20.

Un quarto modello si caratterizza da un lato per il riconoscimento di

un’autonoma rilevanza sul piano giuridico della coppia di fatto – senza alcuna

equiparazione, quindi, con la famiglia tradizionale – e, dall’altro lato, per la

19 E’ quanto accade in Germania e in Spagna, ove la posizione della giurisprudenza è rafforzata dalla presenza dell’art. 25.1 della Legge sulle Autonomie locali che ha istituito i registri delle unioni civili. In Italia si può assistere allo stesso fenomeno. Già negli anni ’80 la Corte costituzionale è intervenuta con alcune sentenze per attenuare le discriminazioni tra conviventi di fatto e coppie sposate in relazione alla successione nel contratto di locazione nel caso di morte del convivente (sent. 45/1980; 404/1988) e rispetto al diritto di assegnazione dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica (sent. 559/1989). Anche la giurisprudenza di merito ha operato, in passato, significative aperture. E’ il caso della decisione del Pretore di Genova del 21 maggio 1981 che ha ritenuto possibile l'intervento del giudice ex art. 145 c.c., a tutela dell'unità familiare anche nelle situazioni di convivenza more uxorio. Secondo la Suprema Corte: «Le prestazioni di assistenza di tipo coniugale da parte di un convivente more uxorio, quando in fatto esclude, oppure riduce, lo stato di bisogno del coniuge separato o divorziato, spiega rilievo in ordine alla esistenza del diritto all'assegno di mantenimento o divorzile, e alla sua concreta determinazione» (Cass., sez. I, 5 giugno 1997, n. 5024; Cass., sez. I, 27 marzo 1993, n. 3720). Il Consiglio di Stato, Adunanza della Sezione Terza del 9 gennaio 2001, n. 1915, in un parere al Capo dello Stato ha stabilito che: «I doveri derivanti da una famiglia di fatto possono costituire un valido impedimento per svolgere il servizio di leva». Nonostante ciò non sia previsto tra le cause di esonero dalla leva (d. lgs. 504/97), il Consiglio di Stato, ha sottolineato che l’indirizzo più recente della giurisprudenza è quello di dare un “rilievo” sociale al fenomeno delle unioni di fatto, quando si vengano realmente a creare “aspettative e vincoli di fedeltà, assistenza, reciproca contribuzione agli oneri patrimoniali, in tutto analoghi a quelli che nella famiglia legittima imposti dalla legge oltre che dalla solidarietà familiare”. Anche nei rapporti di convivenza more uxorio, poi, la casa spetta al genitore a cui sono affidatati i figli, in caso di interruzione della stessa (Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166). Per quanto riguarda il risarcimento del danno al convivente si è registrato un’evoluzione che portato ad un progressivo accoglimento della domanda di risarcimento da parte dello stesso. Esemplare la sentenza del Tribunale di Verona, 3 dicembre 1980 che, riconoscendo il diritto della convivente more uxorio al risarcimento del danno non patrimoniale, ha evidenziato come il rapporto di convivenza more uxorio e la conseguente famiglia di fatto sia un «potenziale luogo di arricchimento della personalità, volto quindi a scopi socialmente utili e meritevoli (e sostanzialmente analoghi a quelli della famiglia fondata sul matrimonio)», in coerenza con lo spirito della riforma del diritto di famiglia, l. 19 maggio 1975, n. 151, con la quale alla prevalenza del vincolo formale del matrimonio, come fondamento esclusivo della famiglia, si è sostituito «l'elemento

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previsione di alcuni limiti alla libertà negoziale delle parti nel momento in cui si

accordano per regolare i loro rapporti21.

In presenza di una disciplina puntuale della famiglia fondata sul

matrimonio, legislativamente estesa alle unioni di fatto, gli accordi di convivenza

sono più rari, ma non meno interessanti in una valutazione comparatistica22.

5.2. Le unioni gayAlle questioni concernenti le unioni non fondate sul matrimonio, oggi si

aggiunge con sempre maggiore forza il problema del riconoscimento delle unioni

gay. Come notavamo in apertura, in tal caso i partner non rifiutano per loro libera

scelta il matrimonio, poiché ad esso gli interessati non vengono ammessi affatto in

taluni Paesi, tra i quali vi è il nostro.

Punto comune – sotto il profilo giuridico – tra le unioni di fatto e le unioni

tra partner dello stesso sesso, in ordinamenti simili al nostro, è che (per motivi

diversi) in tutti e due i casi ci si trova di fronte ad una convivenza per la cui

regolamentazione non è possibile richiamare il regime matrimoniale.

Le soluzioni astrattamente prefigurabili per il trattamento giuridico delle

coppie gay sono più d’una. Creare un regime matrimoniale per le coppie gay con

apposita legge23. Equiparare alle unioni di fatto le unioni gay, riconoscendo a

queste ultime i diritti spettanti alle prime24. Dare giuridica e autonoma rilevanza

della stabilità dei sentimenti e degli interessi che legano i membri della famiglia stessa». Dopo alcune resistenze iniziali (Cass. 5 dicembre 1980; Cass. 21 settembre 1981) la Corte Suprema ha modificato il suo orientamento, con la sentenza, 28 marzo 1994, n. 2988.20 Si segnala in tal senso la Gran Bretagna.21 Così in Australia, in Catalogna, in Norvegia con la legge del 1991 sulla comunione domestica, in Belgio con la legge del 1998, in Francia con la legge del 1999 sul patto civile di solidarietà, in Olanda con la legge del 1998 sulla registrazione delle unioni di fatto.22 Si vedano gli atti del Convegno Registrierte Partnerschaften, tenutosi a Berna il 10 novembre 2000, pubblicati sulla Revue Suisse de droit international et de droit européen, n. 1/2001.23 E’ quanto è accaduto in Olanda con la legge 26673/2000, che ne ha fatto il primo Paese europeo a riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso e in Germania con la legge del novembre del 2000, in base alla quale a seguito della regolarizzazione dell’unione davanti all’ufficiale dello stato civile, le coppie gay avranno il diritto di portare un solo nome di famiglia, e ad essere equiparate a quelle eterosessuali per quanto riguarda il diritto di eredità, i diritti delle coppie a vantaggi nella ricerca della casa, il diritto alle stesse prestazioni del welfare tedesco. Dopo il rigetto dell’impugnazione davanti alla Corte Costituzionale della legge in questione da parte dei länder di Baviera e Sassonia, la stessa è entrata in vigore il 1° agosto 2001.24 In Svezia, la legge per la registrazione delle coppie eterosessuali n. 232/87 è stata estesa dalla legge n. 813/87 alle coppie gay. Lo stesso avviene in Australia. Anche in Francia il pacs è un regime comune sia alle coppie gay che alle coppie eterosessuali. Nel 1999 l’Ontario e il Quebec hanno esteso la legislazione federale sulle unioni di fatto alle coppie gay.

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alle unioni gay, differenziandole, quindi, dalle unioni di fatto e da quelle fondate

sul matrimonio25.

La convivenza per i gay – come si è ricordato – è una scelta obbligata nel

nostro Paese, ma in quei Paesi ove essi sono ammessi al matrimonio, si potrà

riproporre – come è ovvio – la stessa situazione già postasi per le coppie

eterosessuali. Infatti, vi potranno essere coppie che decidono di convivere e

coppie che decidono di sposarsi.

La necessità avvertita, ovunque, di adottare ora l’una ora l’altra delle

soluzioni normative indicate, la dice lunga sul cammino, ancora da percorrere,

verso la totale equiparazione delle unioni gay agli altri rapporti di coppia. La

rilevanza giuridica dell’unione gay sembra dover passare necessariamente

attraverso il medio del riconoscimento legale, il che dimostra, ove mai ce ne fosse

bisogno, quanto intensamente i pregiudizi influiscano sulla nascita delle regole26.

6. Il sistema di common lawLa diffusione di accordi di convivenza anche in costanza di matrimonio si

riscontra innanzi tutto nei sistemi di common law.

Nel caso Vervaeke v. Smith del 1982 si legge: gli effetti giuridici del

matrimonio sembrano oggigiorno discendere sempre più da accordi privati che

intercorrono tra marito e moglie, piuttosto che dallo status di coniuge.

Ciò, però, non toglie che anche in questi sistemi sono le unioni di fatto ad

esaltare il ruolo della volontà privata nella definizione delle regole di convivenza.

Infatti, i partner, in questi casi, sono liberi di regolare sia i loro rapporti personali,

sia le conseguenze economiche scaturenti dalla cessazione della convivenza. Si

tratta dei c. d. cohabitation contracts.

Le condizioni di validità di tali accordi sono essenzialmente due. Vi deve

essere in ciascuno dei contraenti la concreta intenzione di vincolarsi con lo

scambio di mutue considerations ovvero attraverso la redazione di un atto formale

25 Sempre in Svezia la legge del 23 giugno 1994 ha introdotto un modello di unione gay registrata, lo stesso è accaduto in Danimarca nel 1989 e in Norvegia nel 1993.26 Si legga l’interessante ed informato saggio di C. Forder, Riconoscimento e regime giuridico delle coppie omosessuali in Europa, in Riv. crit. dir. priv. 2000, 107 e ss. Sulla situazione inglese v. M. Freeman, United Kingdom Law and the Gay with special reference to gay marriage ,in J. Basedow, K. J. Hopt, H. Koetz und P. Dopffel (heraugegeben von), Die Rechtsstellung gleichgeschlechtlicher Lebensgemeinschaften, Mohr Siebeck, 2000, 174-185.

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(deed). Inoltre, tali accordi non possono contrastare con principi di public policy,

soprattutto quando viene in considerazione la regolamentazione delle prestazioni

sessuali.

Venendo ai contenuti delle convenzioni, in genere sono espressamente

regolati: le modalità del mantenimento e del sostentamento reciproco; il regime

dei beni acquistati in costanza di matrimonio; i diritti spettanti a ciascuno dei

partner al termine della relazione; il regime dei beni spettanti al contraente dopo

la morte dell’altro; la cura e il mantenimento della prole, anche se il rispetto del

children’s best interest and welfare consente ai giudici un controllo di congruità

dell’accordo in caso di controversia.

6.1 La tutela per inadempimentoLa presenza o l’assenza di un accordo può dar vita a due situazioni molto

diverse tra loro, quanto alla tutela giuridica del convivente che subisce una perdita

patrimoniale a causa della condotta del proprio partner.

Le fattispecie da tener presenti quindi sono le seguenti: (1) vi può essere

un accordo, capace di generare in uno dei due conviventi un affidamento circa la

validità dello stesso e circa l’impegno dell’altra parte a rispettarlo; (2) si può

instaurare una convivenza senza la stipulazione di alcun accordo; (3) vi può essere

un accordo, con il quale, però, non si è regolata una certa attività compiuta

durante la convivenza per soddisfare un interesse comune ai due partners, attività

che induce ciascuno dei due ad alterare la propria situazione patrimoniale.

La common law ha affidato la tutela del partner che subisce

l’inadempimento della controparte, in questi casi, ad una serie di doctrines

fondate sull’estoppel e sul constructive trust27.

Nel caso dell’estoppel il convivente deve dimostrare di aver agito con

danno al proprio patrimonio per le spese effettuate, ovvero provare l’esistenza di

apporti al patrimonio di cui è esclusivo proprietario l’altro ex convivente. Si tratta

di un rimedio che lascia al giudice una larga discrezionalità circa le misure da

adottare per salvaguardare la posizione del plaintiff, che vanno dall’ordine di

trasferimento coattivo del diritto di proprietà, al riconoscimento di un diritto 27 Sull’istituto del contructive trust nell’ambito considerato v. M. D. Panforti, Il distillato, in F. B. D’Usseaux e A. D’Angelo, op. cit., 72-74 e sul raffronto tra il rimedio dell’estoppel e quello del contructive trust v. G. Marini, ibidem, 75-78.

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personale limitato nel tempo a favore del coniuge che ha subito l’inadempimento,

al risarcimento del danno.

In alternativa, la posizione del convivente danneggiato dall’affidamento in

lui suscitato dal comportamento del compagno, viene tutelata attraverso

l’imposizione di un constructive trust sul bene, a carico del partner intestatario ed

a favore dell’altro ex convivente.

7. Il sistema australiano: libera coppia in libero statoCome si è già ricordato, la diffusione in Australia del common law

marriage ha condotto il Paese ad una liberalizzazione del rapporto matrimoniale,

con il conseguente riconoscimento delle libere unioni28.

La regolazione dei rapporti tra i conviventi è interamente affidata alla

volontà delle parti, sebbene siano stabilite delle regole precise per la tutela del

soggetto debole della coppia e dei figli. Tale accordo ha rilievo esterno rispetto

alla coppia grazie alla sua registrazione. La disciplina si applica anche alle coppie

omosessuali.

8. Il sistema spagnoloLa struttura costituzionale della Spagna è tale che alle regioni è consentito

legiferare anche in materie come il diritto di famiglia29.

Ciò nonostante, le regole a cui la giurisprudenza fa riferimento per quanto

riguarda la famiglia di fatto sono le regole dettate dal Codigo civil. In generale, è

riconosciuta la possibilità ai componenti delle uniones de hecho di sottoscrivere

accordi per disciplinare la convivenza e le conseguenze del suo venir meno. Tali

accordi sono validi purchè: non siano contrari alle leggi, all’ordine pubblico e al

buon costume; non creino una situazione di squilibrio in capo ad una delle parti;

non abbiano un oggetto illecito; non violino il divieto di discriminazione stabilito

dall’art. 14 della Costituzione.

28 I principali testi normativi in materia sono: il De facto Relationship Act del 1984; il Domestic Relationship Act del 1994 e il Family Law Reform Act del 1995.29 V. Zambrano, Parejas no casadas e tutela del convivente: l’esperienza spagnola e la Llei catalana 10/98, in F. B. D’Usseaux e A. D’Angelo, op. cit., 393 e ss.

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In mancanza di uno specifico accordo sul regime patrimoniale della

convivenza la giurisprudenza cerca di dirimere le relative controversie applicando

analogicamente le norme sulle società di fatto e sulla comunione.

8.1 Il sistema catalanoLa legge del 30 giugno 1998 n. 10 della Catalogna riconosce ai conviventi

la libertà di regolare verbalmente, per scrittura privata o per atto pubblico i loro

rapporti personali e patrimoniali30. La legge pone delle restrizioni all’autonomia

negoziale delle parti solo in relazione al regime successorio e agli obblighi

alimentari, per cui al convivente economicamente debole è comunque

riconosciuto un assegno periodico nel caso in cui la convivenza abbia

compromesso le sue possibilità di guadagno o la presenza di figli abbia ridotto le

sue possibilità di lavoro.

E’ sempre il legislatore a stabilire la presunzione che il bene sia in

proprietà esclusiva del convivente che l’ha acquistato, a meno che le parti non

dichiarino che appartiene ad entrambi o stabiliscano delle quote.

Viene stabilito poi un regime di solidarietà nelle obbligazioni contratte con

i terzi nell’interesse della coppia.

Le stesse norme si applicano anche alle coppie omosessuali.

9. Il sistema tedesco Per molto tempo i Partenerschaftverträge sono stati considerati contrari al

buon costume e quindi nulli, oggi, invece, essi non solo sono considerati validi,

ma sono anche diffusi31.

Non sono considerate valide, in quanto contrarie al buon costume, le sole

clausole che attengono al modo di condurre la convivenza, come le clausole

attinenti al credo religioso o politico, all’obbligo di fedeltà, alla filiazione, alla

libertà di riconoscere o meno la prole32.30 La legge è stata pubblicata sul Butlletì oficial del Parlament de Catalunya, n. 309, 10 luglio 1998.31 F. B. D’Usseaux, I partenerschaftverträge nella giurisprudenza tedesca, in F. B. D’Usseaux e A. D’Angelo, op. cit., 231 e ss.32 V. in proposito la sentenza del BGH, 17 aprile 1986, in FamRZ, 1986, 773. Si trattava di un azione per risarcimento del danno subito da un uomo che aveva avuto un figlio dalla convivente, poiché costei non si era attenuta all’accordo di fare uso di contraccettivi. La Corte Suprema tedesca ha respinto la domanda affermando la nullità del contratto tra i conviventi in quanto lesivo della più intima sfera di libertà personale.

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Le clausole maggiormente utilizzate attengono alla distribuzione degli

oneri della convivenza; alla previsione di un assegno in caso di separazione, che

sia limitato nel tempo; alla previsione di una buonuscita per compensare la donna

degli svantaggi economici, subiti per aver abbandonato la propria professione a

causa della convivenza.

Non sono, però, considerate valide le clausole che prevedano il

versamento di una somma di denaro talmente alta da scoraggiare un’eventuale

interruzione del rapporto33 e in quanto tale limitante la libertà di

autodeterminazione del partner.

Contrarie al buon costume sono considerate quelle clausole (come quelle

relative ad atti di disposizione per causa di morte) che pregiudichino i diritti della

moglie e dei figli del convivente già unito in un precedente matrimonio.

La forma di tali accordi è libera, anche se la giurisprudenza è restia ad

ammettere che essi possano essere conclusi per atti concludenti. La scelta di

convivere, infatti, farebbe presumere la volontà di assumere i relativi oneri fuori

da ogni vincolo di carattere giuridico.

10. Il sistema belgaIL 23 novembre 1998 il Belgio si è data una legge sulle unioni di fatto

applicabile sia alle coppie eterosessuali sia a quelle omosessuali, che ha introdotto

nel codice civile nel Libro III un titolo V bis intitolato, De la cohabitation légale.

Presupposto dell’appicabilità della legge è la dichiarazione delle parti

all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza di voler coabitare e di

essere a conoscenza della disciplina legale.

Alla volontà delle parti è interamente lasciata la determinazione

dell’aspetto patrimoniale del rapporto, che può cessare anche unilateralmente con

una semplice dichiarazione resa all’ufficio dell’anagrafe.

Tale libertà negoziale, circa i contenuti patrimoniali dell’accordo, incontra

il limite legale dell’obbligo di contribuzione al ménage famigliare e della

solidarietà delle obbligazioni contratte. Le norme sul regime dei beni acquistati

durante la convivenza sono derogabili. La legge stabilisce, infine, gli effetti della

cohabitation légale sulla successione mortis causa.33 Cfr. OLG Hamm, 24 marzo 1987, in FamRZ, 1988, 618.

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Ampia libertà per la determinazione delle decisioni rilevanti sul piano

personale, anche se al Giudice di Pace è attribuito il potere di decisione in caso di

mancato accordo tra le parti su un aspetto essenziale della convivenza.

11. Il sistema franceseIn Francia la legge n. 99/944 del 15 novembre 1999 ha introdotto la

disciplina del Pacte civil de solidarité34.

La legge applicabile alle unioni di fatto, anche gay, stabilisce che il

contratto tra i conviventi sia da opponibile ai terzi con la sua registrazione presso

la cancelleria del Tribunal d’Instance.

I partenaires sono tenuti a prestarsi mutua assistenza, pur potendone

stabilire convenzionalmente la misura e le modalità della contribuzione di

ciascuno. Il Conseil constitutionnel ha, però, precisato che la libertà delle parti

può incidere esclusivamente sulle modalità della contribuzione, nel senso che è

nulla la clausola che esclude del tutto l’obbligo di contribuzione, mentre è valida

la clausola con cui si stabile che si possa contribuire al ménage con un apporto di

tipo non pecuniario.

Nel caso in cui le parti non prevedano nulla a proposito dell’ammontare

delle contribuzioni patrimoniali a carico di ciascuno dei conviventi, essa si

determina in base alle possibilità e alle capacità di ciascuno. E’ previsto un regime

di solidarietà per le obbligazioni contratte da uno dei due conviventi per i bisogni

della vita quotidiana.

Per quanto riguarda il regime patrimoniale dei beni vi sono discipline

differenti per i beni mobili e per i beni immobili. Per i beni mobili le parti possono

consensualmente derogare al regime legale di comunione pro indiviso. In ogni

caso i beni mobili che arredano la casa, acquistati a titolo oneroso dopo la

registrazione del pacs si presumono (presunzione semplice) appartenenti per metà

a ciascuno dei conviventi.

34 La si può leggere integralmente in italiano in Riv. crit. dir. priv. 2000, 152 e ss., trad. di T. Monfeli. Inoltre, v. il commento di A. Ambanelli, La disciplina del pacte civil de solidarité e del concubinage, in Nuov. giur. civ. com., 2001 II, 75 e ss. ove è possibile rintracciare puntuali informazioni bibliografiche sulla letteratura francese in argomento.Le unioni registrate sono apparse per la prima volta in Danimarca, dove sono state introdotte con la legge 7 giugno 1989, n. 372; successivamente hanno introdotto lo stesso istituto la Norvegia, con la legge 30 aprile 1983, n. 40, la Svezia, con al legge 23 giugno 1994 e l’Islanda con la legge 12 giugno 1996. In argomento C. Forder., op. cit., 136.

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I beni immobili appartengono ai due conviventi in quote uguali, salvo che

dall’atto di acquisto non emerga una loro diversa volontà.

La cessazione del vincolo può avvenire per decisione congiunta, per

decisione unilaterale di ciascuno dei due conviventi, perché si è deciso di

contrarre matrimonio e, ovviamente, per la morte di uno dei due conviventi. Il

Tribunal d’Instance che ha ricevuto la dichiarazione della costituzione del patto di

solidarietà riceverà la dichiarazione di uno o di entrambi i coniugi di voler porre

fine alla convivenza, ovvero gli sarà comunicato l’avvenuto matrimonio o la

morte di uno dei due conviventi. La legge stabilisce che di comune accordo le

parti liquidino i diritti e gli obblighi a loro derivanti in base al patto civile di

solidarietà. In mancanza di tale accordo sarà il giudice a decidere in merito alle

conseguenze patrimoniali dello scioglimento, senza pregiudizio del risarcimento

del danno eventualmente subito.

E’ importante notare che il legislatore ha previsto una serie di norme che

equiparano le coppie unite in un pacs alle coppie unite in matrimonio sotto il

profilo tributario e previdenziale.

12. Le unioni di mutuo aiutoQuesto tipo di convivenza si fonda su un presupposto del tutto differente

rispetto alle unioni fin’ora considerate. La si prende in considerazione per

maggiore completezza, coerentemente con una concezione aperta di convivenza.

E’ un tipo di convivenza che si può fondare o meno su un’affectio. Il suo scopo è

eminentemente solidaristico e in concreto il fine perseguito dalle parti è la

condivisione delle spese comuni e del lavoro domestico. Essa può avere come

protagonisti una persona anziana bisognosa di aiuto e una persona più giovane, un

gruppo di studenti che per un certo periodo deve condividere un appartamento e

gestire l’economia di una casa35 e così via.

Anche in Italia limitatamente agli effetti anagrafici essa ha un qualche

rilievo giuridico36.

35 In questo senso anche la legge norvegese del 1991.36 Leggi il D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, in Gazz. Uff. 8 giugno 1989, n. 132, Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente, con riguardo all’art. 4 «Famiglia anagrafica – 1. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune. 2. Una famiglia anagrafica può essere costituita da una

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Significativa, invece, è la normativa vigente in Catalogna e introdotta dalla

legge 19/98, che ha regolato puntualmente questa fattispecie. Le parti sono libere

di regolare la convivenza e gli effetti della sua cessazione (art. 8) in un regime di

separazione dei beni e di autonomia verso i terzi della responsabilità per le

obbligazioni contratte. Presupposti per la validità di tale accordo sono (1) la sua

redazione per atto pubblico, funzionale ad un’esigenza di certezza del diritto, (2)

la sua durata, che deve essere almeno di due anni.

sola persona» e all’art. 5 «Convivenza anagrafica – 1. Agli effetti anagrafici per convivenza s'intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune. 2. Le persone addette alla convivenza per ragioni di impiego o di lavoro, se vi convivono abitualmente, sono considerate membri della convivenza, purché non costituiscano famiglie a se stanti. 3. Le persone ospitate anche abitualmente in alberghi, locande, pensioni e simili non costituiscono convivenza anagrafica».