Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini...Rassegna bibliografica 143...

18
Rassegna bibliografica 143 Imprenditori S e r g io r o m a n o , Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano, Bompiani, 1979, pp. 210, lire 8.000. Che la storiografia viva in qualche misura e da qualche tempo una propria condi- zione entropica in riferimento alla forma- zione e alla definizione delle idee-forza del nostro tempo è opinione piuttosto dif- fusa. Ma altrettanto sicuro è, almeno ci sembra, che — magari proprio in virtù di una crisi siffatta — sia scattata una quasi meccanica attivizzazione di un comporta- mento sfida-risposta, con esiti adesso im- prevedibili, per il quale si viene contem- poraneamente assistendo ad una crescita quantitativa e ad una dilatazione temati- ca del lavoro storiografico prive di apprez- zabili precedenti. Prendiamo il caso del cosiddetto genere biografico. Scarsamente praticato in questo paese sino ad oggi esso trova adesso cultori sempre più numerosi ed agguerriti. In generale e, per rimanere nell’ambito cui può essere riferito questo libro, in quella particolare sub-specializza- zione che è rappresentata dalla biografia imprenditoriale. A dimostrazione di ciò è sufficiente ricordare come negli ultimissi- mi anni, siano comparsi studi di variabili dimensioni, di diversificato impegno e ri- sultato — tutti alieni peraltro, ed il fatto è ben degno di nota, dallo stucchevole quan- to ingenuo agiografismo tipico di analoghe pubblicazioni sino a non molto tempo fa — dedicati ad Alessandro Rossi (diventato ad un certo momento una specie di star della storiografia italiana), ad Alberto Be- neduce, a Giuseppe Cenzato, ad Enrico Mattei, a Francesco Giordani, ad Arturo Luzzatto, ai Cantoni, ai Caprotti, ai Fio- rio, a Giuseppe Pomba, a Vittorio Vailetta, a Giovanni Agnelli, a G. B. Mazzoni. Per non dire delle voci nominative — spesso brillanti e sempre utili — che stanno siste- maticamente comparendo nel « Dizionario biografico degli Italiani ». Si deve inoltre osservare — ed il rilievo potrebbe essere non del tutto insignifican- te, né tanto meno puramente registratorio — che questa crescente attenzione alla vi- ta ed alle opere di imprenditori e di uomi- ni d’affari è da collegare soltanto esterior- mente all’influenza o alle suggestioni, pure non trascurabili, promananti da quelle sto- rie speciali che nella cultura anglo-sassone vanno sotto le espressioni di « business history » e di « entrepreneurial history ». Nelle quali, al di là del personaggio in sé, e della sua vicenda individuale, l’interesse principale degli studiosi si è appuntato in via prevalente sulle sue imprese ed inizia- tive o, per dirla in altre parole, si è venuto concentrando sulla sua funzione più che sulla sua figura: alla ricerca di certe « rego- larità » di comportamenti dalle quali rica- vare in ultima istanza una più credibile de- finizione del concetto di imprenditore — e con esso di una giustificazione della sua remunerazione, il profitto — che era ri- masta di fatto sullo sfondo nella teoria economica, e ciò nonostante le riflessioni di Cantillon e di Say, almeno sino al cru- ciale contributo di Schumpeter prima e dei suoi pur critici seguaci poco dopo. E’ in- vece ad una serie di interrogativi che si disegnano lungo tutta la storia d’Italia, e perciò ad una problematica di ordine squi- sitamente storiografico che può, ed a no- stro avviso deve, essere ricondotta la fio- ritura di studi biografici di cui si è fatto cenno in precedenza: alla quale anche que- sto volume di Sergio Romano, un diploma- tico che si mette spesso e volentieri alla macchina da scrivere e che ha pubblicato diversi libri di storia, è visibilmente e tran- quillamente attribuibile. Lavorando infatti su una bibliografia non amplissima ma scelta con innegabile accuratezza; metten- do a frutto studi precedenti su Volpi — rammenterei fra gli altri l’ottima tesi di laurea di Cesare Sartori; avvalendosi di alcune preziose testimonianze personali, ma principalmente ricorrendo a sondaggi di- retti negli archivi Volpi oltreché nelle car- te Galli, Nogara e Lamont (queste ultime conservate presso la Baker Library della Harvard University) e nei ricchissimi fon- di del ministero degli Esteri, egli ha riper- corso 1’esistenza non comune di Giuseppe Volpi, dal 1925 conte di Misurata, « mer- cante, diplomatico, governatore, procurato- re e « doge », con sorvegliato senso criti- co e secondo un’ottica che, appunto, non si discosta di molto da quella delle biogra- fie imprenditoriali « all’italiana » or ora ri- chiamate. In una sede come questa non è certamen- te il caso di richiamare neppure nelle loro linee essenziali, discutendoli o anche sem- plicemente commentandoli, i momenti ed i passaggi più o meno noti di una vita d’eccezione come quella di Volpi. Più uti- le, e comunque più opportuno è invece

Transcript of Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini...Rassegna bibliografica 143...

  • Rassegna bibliografica 143

    Imprenditori

    S e r g i o r o m a n o , Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano, Bompiani, 1979, pp. 210, lire 8.000.

    Che la storiografia viva in qualche misura e da qualche tempo una propria condizione entropica in riferimento alla formazione e alla definizione delle idee-forza del nostro tempo è opinione piuttosto diffusa. Ma altrettanto sicuro è, almeno ci sembra, che — magari proprio in virtù di una crisi siffatta — sia scattata una quasi meccanica attivizzazione di un comportamento sfida-risposta, con esiti adesso imprevedibili, per il quale si viene contemporaneamente assistendo ad una crescita quantitativa e ad una dilatazione tematica del lavoro storiografico prive di apprezzabili precedenti. Prendiamo il caso del cosiddetto genere biografico. Scarsamente praticato in questo paese sino ad oggi esso trova adesso cultori sempre più numerosi ed agguerriti. In generale e, per rimanere nell’ambito cui può essere riferito questo libro, in quella particolare sub-specializzazione che è rappresentata dalla biografia imprenditoriale. A dimostrazione di ciò è sufficiente ricordare come negli ultimissimi anni, siano comparsi studi di variabili dimensioni, di diversificato impegno e risultato — tutti alieni peraltro, ed il fatto è ben degno di nota, dallo stucchevole quanto ingenuo agiografismo tipico di analoghe pubblicazioni sino a non molto tempo fa— dedicati ad Alessandro Rossi (diventato ad un certo momento una specie di star della storiografia italiana), ad Alberto Be- neduce, a Giuseppe Cenzato, ad Enrico Mattei, a Francesco Giordani, ad Arturo Luzzatto, ai Cantoni, ai Caprotti, ai Fiorio, a Giuseppe Pomba, a Vittorio Vailetta, a Giovanni Agnelli, a G. B. Mazzoni. Per non dire delle voci nominative — spesso brillanti e sempre utili — che stanno sistematicamente comparendo nel « Dizionario biografico degli Italiani ».Si deve inoltre osservare — ed il rilievo potrebbe essere non del tutto insignificante, né tanto meno puramente registratorio— che questa crescente attenzione alla vita ed alle opere di imprenditori e di uomini d’affari è da collegare soltanto esteriormente all’influenza o alle suggestioni, pure non trascurabili, promananti da quelle storie speciali che nella cultura anglo-sassone

    vanno sotto le espressioni di « business history » e di « entrepreneurial history ». Nelle quali, al di là del personaggio in sé, e della sua vicenda individuale, l’interesse principale degli studiosi si è appuntato in via prevalente sulle sue imprese ed iniziative o, per dirla in altre parole, si è venuto concentrando sulla sua funzione più che sulla sua figura: alla ricerca di certe « regolarità » di comportamenti dalle quali ricavare in ultima istanza una più credibile definizione del concetto di imprenditore — e con esso di una giustificazione della sua remunerazione, il profitto — che era rimasta di fatto sullo sfondo nella teoria economica, e ciò nonostante le riflessioni di Cantillon e di Say, almeno sino al cruciale contributo di Schumpeter prima e dei suoi pur critici seguaci poco dopo. E’ invece ad una serie di interrogativi che si disegnano lungo tutta la storia d’Italia, e perciò ad una problematica di ordine squisitamente storiografico che può, ed a nostro avviso deve, essere ricondotta la fioritura di studi biografici di cui si è fatto cenno in precedenza: alla quale anche questo volume di Sergio Romano, un diplomatico che si mette spesso e volentieri alla macchina da scrivere e che ha pubblicato diversi libri di storia, è visibilmente e tranquillamente attribuibile. Lavorando infatti su una bibliografia non amplissima ma scelta con innegabile accuratezza; mettendo a frutto studi precedenti su Volpi — rammenterei fra gli altri l’ottima tesi di laurea di Cesare Sartori; avvalendosi di alcune preziose testimonianze personali, ma principalmente ricorrendo a sondaggi diretti negli archivi Volpi oltreché nelle carte Galli, Nogara e Lamont (queste ultime conservate presso la Baker Library della Harvard University) e nei ricchissimi fondi del ministero degli Esteri, egli ha ripercorso 1’esistenza non comune di Giuseppe Volpi, dal 1925 conte di Misurata, « mercante, diplomatico, governatore, procuratore e « doge », con sorvegliato senso critico e secondo un’ottica che, appunto, non si discosta di molto da quella delle biografie imprenditoriali « all’italiana » or ora richiamate.In una sede come questa non è certamente il caso di richiamare neppure nelle loro linee essenziali, discutendoli o anche semplicemente commentandoli, i momenti ed i passaggi più o meno noti di una vita d’eccezione come quella di Volpi. Più utile, e comunque più opportuno è invece

  • 144 Rassegna bibliografica

    prospettare alcune riflessioni che un’opera impostata con un nitido disegno e condotta con equilibrio e con una felice ed apprezzabilissima scioltezza narrativa può suggerire al lettore non disattento, il quale, giunto alla pagina conclusiva del libro, finisce per avvertire una dose piuttosto consistente di imbarazzo. E ci spieghiamo. Per un verso egli si trova del tutto disposto ad aderire al giudizio complessivo che dell’avventura umana dell’« ultimo doge » viene dato concisamente in apertura.« [...] Chi cerchi di ricostruire la figura di Volpi — scrive Sergio Romano — può incorrere in una tentazione, quella di scrivere la sua vita come un susseguirsi di capitoli veneziani [...] Ma il biografo che s’ispirasse a questo schema cadrebbe nella trappola tesagli dal suo personaggio perché se Venezia rappresentò la giustificazione morale e letteraria della vita di Volpi, Roma fu il punto di riferimento costante e concreto della sua attività. Mentre quasi tutti gli Empire builders del boom giolit- tiano — Colombo, Esterle, Conti, Agnelli, Pirelli, Gualinof?) — ebbero in certi momenti un rapporto dialettico con lo Stato, Volpi si mosse sempre all’interno delle sue direttive, ora anticipando i desideri di Roma, ora concorrendo a formare il pensiero economico del governo, ora inserendo i suoi programmi in quelli di cui si discuteva nei corridoi dei palazzi romani [...] » (p. 9).A maggior ragione, ed in maniera ancor più convinta egli è portato a condividere la valutazione estensiva che, fondata sull’ipotesi iniziale, e coerente con il lavoro nel suo insieme — viene formulata nelle righe finali del volume. Laddove, assumendo in qualche modo la vicenda di Volpi a guisa di emblema del progrediente burocratismo statalistico a dominazione privata che impronta di sé il « capitalismo italiano », e al contempo, dando per scontato che una tale commistione si sarebbe manifestata originariamente in imprese al di fuori dei confini nazionali (come fu certamente per Volpi), del carattere « mediatore » e « interstiziale » dello « imperialismo economico italiano » (il cui obiettivo fu «sin dai primi [anni del] secolo, e attraverso « una continuità di modelli e di comportamenti » che giunge a toccare i nostri giorni, quello di occupare gli spazi lasciati dalle grandi potenze egemoniche vendendo con capitali stranieri una tecnologia in buona parte mutuata » (p. 246).

    Per un altro verso tuttavia quel lettore è portato, quasi obbligato, a rilevare una serie di lacune « tecniche » che non possono non indurre a più di una perplessità. In primo luogo l’impiego pur accorto della bibliografia non nasconde alcuni « vuoti » difficilmente comprensibili. Libri come quelli di Scalfari, di Lyttelton, di Confa- lonieri, di Sarti, di Sala-Collotti, per limitarsi agli esempi più rilevanti, sarebbero stati in grado di offrire punti di appoggio e informazioni, dirette e di contorno, indispensabili ad una più corretta ed armonica sistemazione della biografia volpiana. In secondo luogo non può non impressionare il mancato ricorso, anche per assaggi, ad archivi come quelli della Banca commerciale italiana, del Comune di Venezia, della Confindustria, di alcuni ministeri degli Esteri di altri paesi e dell’Archivio centrale dello stato (nel quale sono certamente conservati materiali di sicuro interesse per quella biografia). In terzo luogo, e qui il discorso si fa di merito ma si ricollega in buona parte anche a tali carenze, certe fasi « strategiche » dell’opera di Volpi (la parte da lui giocata nel 1926 per frustrare il tentativo della « amica » Banca commerciale, momentaneamente riuscito, di conquistare' la maggioranza della « Bastogi »; le modalità e le alleanze che, dopo la nascita dell’IRI, lo proiettano alla presidenza della Confindustria; la complessa ed oscura stagione del suo avvicinamento agli interessi finanziari tedeschi negli anni trenta ed i suoi rapporti con Mussolini) sono trattate con una sinteticità a dir poco eccessiva ed a volte anche con genericità. Intendiamoci. Non si vuole qui affermare che tutta la documentazione consultata e raccolta per la preparazione di un lavoro storiografico debba trovare forzatamente posto nella stesura definitiva, né che non se ne possa scrivere uno senza aver rintracciato sin l’ultimo foglio di carta stampata o manoscritta in qualche modo utilizzabile. E neppure che, nel caso in esame, queste lacune inficino in qualche modo le conclusioni cui Romano è pervenuto. Conclusioni che, come si è detto, ci trovano, nel loro complesso, d’accordo. Eppure l’imbarazzo nel giudizio c’è. Ed è difficile pensare che non ci sia specie per chi, pur senza ricorrere a modelli ormai classici del genere biografico, confronti un libro come questo a lavori come quello su Cavour di Rosario Romeo o quello su Mussolini di Renzo De Felice. Il fatto è che il libro di

  • Rassegna bibliografica 145

    Sergio Romano ripropone a nostro modo di vedere per l’ennesima volta — e come è stato asciuttamente annotato qualche tempo fa per un’opera del tutto diversa — « il problema (ancor oggi non ben definito) della divulgazione scientifica ». In riferimento al quale « [...] da una parte ci si pone lo scopo di evitare al lettore ogni specifica difficoltà relativa ad un certo campo di ricerca. [...] cosicché ne risulta in generale un tipo di informazione nel quale [,..J vengono sfumate distinzioni ritenute troppo sottili e ammorbiditi passaggi ritenuti particolarmente ardui. Il principio è qui proprio quello di non esplicitare al lettore quei problemi nodali riservati agli addetti ai lavori, nella errata (a mio parere) convinzione che il lettore non specialista, posto di fronte a certe questioni di natura delicata e complessa, abbandonerebbe addirittura la stessa informazione scientifica tout court. Con atteggiamento diametralmente opposto si può invece impegnare il lettore a partecipare in prima persona alla comprensione dei punti nodali di un dato campo di ricerca, nella convinzione che tali questioni siano di fatto « difficili » e non possano essere afferrate senza uno sforzo d’applicazione talora anche notevole [...] ( c . m a n g i o n e . Prefazione a f . v v a i s m a n n , Introduzione al pensiero matematico. Torino, 1971, p. 9).Personalmente propendiamo per il secondo corno del dilemma. Ma aggiungiamo anche che, al di là di certe vacue polemiche giornalistiche, la questione non sembra davvero di quelle per le quali sia possibile dare una soluzione univoca e semplificata. Nel caso del libro di cui ci stiamo occupando, ad esempio, è doveroso constatare che, allo stato degli atti — e al di là del soggettivo imbarazzo del lettore — esso è, e di gran lunga, il migliore fra quelli dedicati alla vita e alle opere di Giuseppe Volpi.

    G I O R G I O M O R I

    Le patronal de la seconde industrialisation, Etudes rassembleés par Maurice Levy-Le- boyer, Paris, les Editions ouvrières, 1979, pp. 324.

    « La storiografia è in ritardo di una rivoluzione industriale sulla realtà storica ». Questo giudizio, che conclude il profilo del padronato francese tracciato da Maurice Levy-Leboyer, fornisce anche la principale chiave di lettura del volume. Originati da

    un convegno del 1977, i contributi qui raccolti vogliono anzitutto documentare i vuoti d’analisi che circondano le sorti delle dirigenze industriali nel Novecento. Vuoti non assoluti, si intende, ma tali comunque da ostacolare fortemente compiute comparazioni tra le varie realtà nazionali e sistematiche incursioni nei decenni più recenti. Lo dimostra il fatto che, con Lecce-1 zione del caso francese affrontato con sufficiente completezza e per approci diversi, i contributi sulla Germania si arrestano in pratica alla prima guerra mondiale, quelli sulla Gran Bretagna procedono per linee parziali e settoriali, mentre le altre aree sono interamente assenti: nulla su quella nordamericana, nulla sui paesi europei di più tarda industrializzazione, salvo un rapido studio generale dedicato alla Svezia ed uno settoriale sulla Svizzera. Sono limiti da rimarcare con forza (ed appare singolare che la prefazione non ne faccia cenno), non tanto per le lacune informative che comportano, quanto per la definizione stessa del quadro problematico che si intende porre in discussione. Due semplici riferimenti possono esemplificare le conseguenze di tali assenze: da un lato, gli inevitabili rinvìi al « modello statunitense » restano di necessità estrinseci; dall’altro, uno dei nodi centrali del discorso, l’incidenza frenante di persistenti valori sociali tradizionali sulla formazione delle élites industriali, resta priva di quegli approfondimenti che possono essere attinti soprattutto alla realtà dei paesi di più recente industrializzazione. Il contesto sul quale le valutazioni si esercitano è pertanto anglo-franco- tedesco: test la cui importanza non ha certo bisogno di essere sottolineata, ma non per questo passibile di accreditare delle conclusioni globali.Ma in che consiste — al di là degli aspetti quantitativi — il già ricordato giudizio di ritardo storiografico e quali sono i suoi effetti? Lo stesso Levy-Leboyer lo ripropone insistentemente nella prefazione fissando l’ipotesi di una sensibile modificazione della dirigenza industriale per effetto del progresso tecnologico, della crescente diffusione della grande impresa, del trasferimento di alcuni settori produttivi alla mano pubblica. Pur precisando che tali modificazioni non consentono di riconoscere brusche fratture tra vecchio e nuovo padronato, mantenere la convinzione a lungo diffusa che gli stati maggiori della grande industria si configurino come entità immobili e chiù

  • 146 Rassegna bibliografica

    se al ricambio, impedirebbe — aggiunge lo studioso francese — di apprezzare lo spessore storico di alcuni fenomeni di indubitabile evidenza, quali il peso crescente della formazione scolastica e la correlativa attenuazione della discriminante prodotta dalla origine proprietaria o l’afflusso, attraverso la figura dell’imprenditore salariato, del manager, di nuove leve provenienti non più dall’oligarchia tradizionale, ma da famiglie medio-alte, legate alle libere professioni e alla pubblica amministrazione. Da ultimo — sempre nella prefazione — Levy- Leboyer pone in risalto quanto il corso di queste trasformazioni sia stato reso tortuoso, irto di pause e rilanci, dai cicli economici, coincidendo i periodi di espansione con una accelerazione del processo e le fasi di ristagno con una ripresa dei moduli tradizionali di selezione e avanzamento.Non è possibile misurare in modo netto l’aderenza di questa proposta interpretativa al contenuto complessivo del volume. La sua struttura necessariamente discontinua e in qualche tratto episodica lo impediscono. Certo l’interrogativo va disarticolato a molteplici livelli e Levy-Leboyer per primo, nell’indagine sul suo non esiguo campione del padronato francese (588 quadri dirigenti, per un totale di 103 imprese, verificati su sei momenti cronologici compresi tra il 1912 e il 1973), mette in guardia da conclusioni nette ed univoche. Egli individua tuttavia una forte divaricazione tra settori tradizionali (siderurgico, meccanico, del carbone, tessile) e settori moderni (chimico, automobilistico, elettronico, dei trasporti). La contrazione percentuale del padronato appartenente ai primi (71 per cento nel 1912-19, 46 per cento nel secondo dopoguerra) e il corrispettivo ampiamente di quella espressa dai secondi si basa principalmente sulla valorizzazione di capacità tecniche e amministrative svincolate dalla proprietà del capitale sociale: « la modernizzazione s’è fatta a spese del potere delle famiglie » (p. 147), ovvero « il progresso tecnico e il rinnovamento parziale dei milieu padronale hanno proceduto parallelamente» (p. 150). L’esempio più probante di una nuova componente immessa grazie alla competenza è quella degli ex alti funzionari pubblici, couche tanto più preziosa quanto più il prevalere dei problemi di mercato su quelli produttivi fa declinare il ruolo di primo piano esercitato, a cavallo dei due secoli, dagli ingenieri

    e richiede più puntuali esperienze giuridiche e amministrative.Tuttavia — ed è il primo interrogativo che scaturisce dalla lettura del saggio — questa tendenza alla « democratizzazione » della dirigenza industriale sin dove riflette un rimescolamento interno alla categoria, sin dove esprime modelli di organizzazione sociale diversi da quelli guidati dal potere economico tradizionale? La ricostruzione di Levy-Leboyer resta largamente esterna a tale problematica, che è invece al centro del contributo di Kocka sui managers tedeschi dalla fine dell’Ottocento alla prima guerra mondiale. Kocka ritiene sicuramente ipotizzabile che il diffondersi dell’im- prenditore-salariato abbia determinato una maggiore razionalizzazione delle strategie aziendali, ma nega che siano ravvisabili apprezzabili diversità tra questi e gli imprenditori proprietari sia nella scelta degli obiettivi economici generali, sia nell’interpretazione del proprio ruolo sociale e politico, sia, infine, nella definizione dei rapporti con la manodopera. In definitiva « l’ascesa degli imprenditori salariati si integrava perfettamente nello schema complessivo di modernizzazione della Germania di Guglielmo II: essa contribuì ad una crescita rapida e fortunata dell’economia senza troppo mettere in discussione la struttura sociale e politica tradizionale » (p. 99). E qualche rimando alla stessa problematica è recuperabile anche nell’intervento di G. Roche su ingenieri e quadri superiori dell’industria a Weimar, quanto meno nella sottolineatura della loro incapacità ad elaborare, sulla scia delle molte ondate culturali che si susseguono in quegli anni (da Schumpeter a Keynes alla muti- forme mitologia tecnocratica) modelli realmente alternativi di assetto sociale. Del resto, l’identità del gruppo assorbe certo caratteristiche peculiari all’ambito tedesco, ma alcuni connotati centrali travalicano i confini nazionali. Basti guardare alle osservazioni che Leslie Hannah sviluppa sul reclutamento della dirigenza del settore pubblico inglese: se si instaurano forme più avanzate di relazioni industriali, ciò è dovuto al peso di singoli dirigenti provenienti dalla leadership tradeunionistica, non alle conseguenze del nuovo sistema di gestione. Anche in questo caso la cultura riformatrice (innescata, per ragioni di efficienza, dagli stessi conservatori) è essenzialmente tecnocratica e tale è destinata a permanere (come dimostra il fallito tenta

  • Rassegna bibliografica 147

    tivo della sinistra laburista di imporre l’equivalenza gestione pubblica-controllo sindacale).L’impressione complessiva è dunque che il problema della formazione di nuove éli- tes industriali debba essere posto in relazione ai processi di ristrutturazione del sistema capitalistico, quasi una nuova tavola delle regole del gioco interne alla classe dirigente economica e assai povera, se non del tutto priva, di riflessi al suo esterno. In altri termini, se è riscontrabile una maggiore mobilità sociale nel passaggio dalla prima alla seconda industrializzazione, ciò non significa che il fenomeno coincida con un allargamento della base decisionale che presiede alla determinazione degli scopi aziendali, dei rapporti tra potere economico e potere politico, delle relazioni industriali. La comparazione condotta da Harmut Kaelble tra Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna pone in evidenza il ruolo degli studi superiori e con esso l’apertura delle carriere manageriali ai figli di famiglie medie o medio-alte (libere professioni, burocrazia), ma collega strettamente tale circostanza, da un lato ai nuovi livelli scolastici imposti dallo sviluppo del sistema produttivo, dall’altro alla sempre maggiore accettazione dei valori dell’industrialismo anche in strati sociali sino ad allora indifferenti o addirittura ostili. Tutto questo impone e consente un’area più larga di reclutamento. Ma non va dimenticato che se entrano in scena componenti nuove, altre ne escono. I piccoli imprenditori, che nella prima industrializzazione avevano alimentato in percentuali non del tutto irrilevanti le fila del grande padronato, appaiono ora — come anche Kaelble ricorda — del tutto privati di possibilità di ascesa sociale dalla diffusione della grande impresa. Di fronte a canali che si aprono altri si chiudono o comunque — si vedano i contributi di P. Cayez,H. Morsel e F. féquier — pongono in termini nuovi il rapporto tra grande e piccolo.Si manifestano inoltre fenomeni solo apparentemente paradossali. La preminenza delle concezioni industrialiste attivizza capitali che erano rimasti immobilizzati nei beni più tradizionali quali la terra. Così, a fianco delle nuove élites di formazione tecnocratica, se ne allineano altre che, sia pure quantitativamente marginali, appaiono significative per la loro diversissima estrazione. Il quadro, dunque, è tutt’altro che

    statico, e proprio per questo richiede approcci molteplici. Così si vorrebbe, ad esempio, che nel volume fosse maggiormente presente l’analisi delle ideologie maturate dalle varie stratificazioni della dirigenza industriale.Gli elementi percepibili in alcuni contributi (solo quello di Christophe Charle è espressamente dedicato alTimmagine sociale del padronato francese ad inizio di secolo) sono passibili di stimolare delle curiosità, non ancora di fissare i termini della questione. Particolarmente necessario risulta lo spoglio delle stesse fonti padronali — dirette e indirette — per identificare gli elementi di legittimazione che esse propongono. A cominciare dalla terminologia di base — padronato, imprenditoria — sulla quale opportunamente richiama l’attenzione Michelle Perrot nella sua rassegna della letteratura operaia e sindacale. Proprio perché ci si trova in presenza di un processo vario e complesso di modificazione e integrazione delle élites — e a maggior ragione se si sottolinea la prevalenza in esso delle procedure di « cooptazione » —• diventa indispensabile cogliere i meccanismi di consenso che esso innesca, la mobile frontiera che di volta in volta lo coinvolge o lo allontana dalle articolazioni del corpo sociale e dal succedersi dei regimi politici.

    MASSIMO LEGNANI

    A. MARTINELLI, A. M. CHIESI, N. DALLA CHIESA, / grandi imprenditori italiani. Profilo sociale della classe dirigente economica, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 292, lire 10.500.

    Il volume fissa i risultati provvisori di una più ampia ricerca. Nessuno dei saggi pubblicati è inedito, ma l’averli raccolti consente una prima valutazione d’insieme e di indicare, in prospettiva, quale collocazione trovino questi contributi nella letteratura sul tema. L’insufficienza di que- st’ultima è opportunamente richiamata da Martinelli nell’introduzione, soprattutto per sottolineare come l’analisi della borghesia industriale e finanziaria sia « stata sostituita spesso da una immagine stereotipata del capitale, entro la quale le più rilevanti questioni di ricerca, come la coesione interna della borghesia, la sua coscienza di classe, le condizioni e i processi della sua riproduzione come classe, la sua capacità di costruire istituzioni capaci di rappresen-

  • 148 Rassegna bibliografica

    farne gli interessi nei confronti della controparte sindacale e dello stato, sono state considerate dei meri postulati non soggetti a verifica empirica » (pp. 9-20).L’apporto che Martinelli, Chiesi e Dalla Chiesa offrono per colmare tale lacuna viene da una indagine compiuta, tramite questionario, sui presidenti, consiglieri delegati e direttori generali delle 563 principali società con sede in Italia (secondo i dati del 1973). Degli 875 personaggi interessati, 306 hanno inviato risposte complete o tali comunque da poter essere correttamente utilizzate. I limiti del campione appaiono pertanto evidenti, anche se parallele ricerche condotte in altri paesi inducono a non sottovalutarne l’entità e la consistenza. Va semmai rimarcato con più forza di quanto non facciano gli autori che il ricorso al questionario porta a nettamente privilegiare gli aspetti quantitativi su quelli qualitativi e suscita, per conseguenza, più di una perplessità proprio in relazione all’ipotesi centrale su cui gli autori si muovono, ovvero che « la funzione imprenditoriale configura la collocazione sociale degli individui e dei gruppi che la svolgono, ma non definisce a priori il loro agire di classe » (pp. 12-13). Ma d’altro canto il ricorso a fonti diverse pone limiti non minori. Lo dimostra il tentativo di Chiesi di ricostruire il profilo della dirigenza economica dall’unità alla seconda guerra mondiale sulla base delle pubblicazioni. Accanto a quelle celebrative, incominciano ad allinearsi le biografie critico-informative; esse, tuttavia, sono ancora insufficienti a delineare un panorama veramente rappresentativo. Ne esce pertanto un campione di 190 nominativi il quale, più che dimostrare, suggerisce. Vale comunque rifarsi anzitutto alle conclusioni di questa prima analisi, anche per comprendere se e in qual misura i dati prospettati dal questionario si raccordano con il quadro storico che fa loro da retroterra. Il nucleo originario della nuova imprenditorialità è abbastanza nettamente caratterizzato dalla prevalenza dei capitalisti industriali (e all’interno di questi dei tessili), dalla loro provenienza dalle regioni nord-occidentali (la sola Lombardia fornisce il 43 per cento delle nascite), da un alto livello di istruzione (50 per cento di laureati) e di partecipazione politica (12 ministri e 38 senatori, benché, avverte opportunamente Chiesi, l’ingresso in Senato è più un sostitutivo del titolo nobiliare che non la dimo

    strazione di una diretta presenza nella gestione degli affari pubblici). Rispetto ai dati iniziali, le modificazioni rilevanti sono legate alle grandi svolte economiche: così la crescita del settore meccanico nel periodo giolittiano, il ruolo preminente dei finanzieri privati sotto il fascismo, l’ingresso massiccio dell’imprenditoria centro-meridionale a seguito dello sviluppo del settore pubblico nel secondo dopoguerra (tema, quest’ultimo, al quale Dalla Chiesa dedica un saggio ricco di indicazioni). Al di là di queste trasformazioni il gruppo appare tuttavia notevolmente chiuso e la sua alimentazione essenzialmente affidata alla riproduzione. Lo conferma la persistenza dell’impresa a conduzione familiare (il 72,3 per cento) e la fitta rete di alleanze matrimoniali. Tutte circostanze non solo « in contraddizione evidente con la tradizione ideologica del self help tanto in voga nel primo novecento » (p. 23), ma anche e soprattutto — si tratta di una ipotesi sottesa all’intero volume — attestanti un sensibile grado di separazione del mondo degli affari da altri nuclei delle élites dirigenti. E’, quest’ultimo, un aspetto che necessita di approfondimenti, anche perché coinvolge le interrelazioni complessive tra le diverse componenti della classe dirigente e difficilmente può essere analizzato dall’osservatorio di uno solo di essi. Del resto anche la tipologia che Chiesi estrae dal proprio campione (imprenditore tradizionale, sovvenzionato, finanziere privato, imprenditore pubblico) propone modelli di relazione diversi sia all’interno del ceto imprenditoriale che verso le altre frazioni del blocco dominante.Per tornare al questionario, molti degli esiti che esso prospetta si muovono in linea di continuità con le risultanze del campione ora riferito. Sono persistenze che certo conoscono segni di declino, ma che ostentano anche forti capacità di resistenza e di recupero. L’imprenditorialità degli affari, « sia essa familiare o meno, tende ad interessare la stessa famiglia per più generazioni » (p. 87), mentre i margini di mobilità sono ristrettissimi e toccano al più alcune frange degli stati intermedi (p. 73). Questi dati trovano significative conferme indirette nell’immagine del prestigio sociale e del ruolo imprenditoriale che gli stessi protagonisti tracciano. Nel primo caso l'imprenditore si ritiene « sottostimato » (p. 102), nel secondo filtra un elemento di differenziazione generazionale tra chi riven

  • Rassegna bibliografica 149

    dica come costitutivo della propria personalità « uno stile di vita, secondo la tradizionale concezione weberiana » e i giovani, più portati a valorizzare le « capacità professionali legate allo svolgimento delle funzioni » (p. 103), Resta il fatto che la convergenza è poi trovata su terreni quali lo statuto dei lavoratori, che raccoglie una valutazione negativa « pressocché unanime ».Meno indicativo ci appare il sondaggio sul comportamento elettorale, legato ad una sola votazione (quella politica del 1976); esso consente tuttavia di introdurre il discorso sulla più generale presenza politica degli imprenditori e in particolare sul loro rapporto con la Democrazia cristiana. Affermare che « la rappresentanza politica degli imprenditori è di tipo diffuso all’interno dei partiti di governo» (p. 112) e che, per conseguenza, « il partito democristiano viene appoggiato in quanto partito di governo, partito dell’ordine sociale non in quanto portatore di valori borghesi in cui gli industriali possano identificarsi » (p. 112), significa illuminare un solo aspetto del problema, quello del « ministerialismo » padronale, trascurando la complessità delle interdipendenze, ad esempio, tra De e Confindustria, sulle quali torna, entro un quadro di più generali referenze, il saggio conclusivo di Martinelli su borghesia industriale e potere politico. In esso l’analisi riparte da un tema centrale del dibattito storico-politico (la debolezza ed eterogeneità della borghesia italiana), che rappresenta anche, superfluo sottolinearlo, l’elemento di congiunzione tra le indagini sociologiche contenute nel volume e una più generale impostazione storiografica del problema.

    M A S S I M O L E G N A N I

    a n g e l o c o s t a , Scritti e discorsi, voi. I; 1942-1948, pp. 650; voi. II; 1949-1951, pp. 612, voi. Ili, 1952-1955, pp. 717, Milano, Angeli, 1980, lire 24.000 + 24.000 +28.000.

    Notoriamente povera sia di studi che di pubblicazioni di fonti, la letteratura sulla imprenditoria italiana riceve un sensibile impulso da questi tre primi volumi degli scritti e discorsi di Angelo Costa, che coprono gli anni 1942-1955. La struttura dell’edizione — va subito precisato — suscita qualche delusione per i limiti del mate

    riale raccolto e, più ancora, per il trattamento cui esso è stato sottoposto. Nel primo caso, infatti, si è andati raramente al di là del già noto; se si eccettuano alcuni appunti e note del 1942-44 e qualche lettera degli anni successivi, i volumi si limitano a riproporre quanto già apparso sulla stampa coeva, principalmente sul « Notiziario della Confindustria » per quanto riguarda gli interventi di Costa nelle sue vesti di presidente confederale e su « 24 ore » ed altri quotidiani per ciò che attiene a discussioni e polemiche di carattere più generale. Nel secondo caso, del trattamento, l’edizione si giova di un apparato critico estremamente ridotto, dove le note di presentazione ai singoli documenti sono più intese a celebrare — talora con scoperta ingenuità — la « filosofia » dell’autore che a illuminare le circostanze in cui il materiale si è prodotto. E’ una limitazione resa più grave dal fatto che ci si trova di fronte a interventi provocati da occasioni molteplici, spesso minute, e quindi ancor più bisognosi di un ambientamento filologico che ne certifichi le correlazioni con la restante episodica sindacale o più generalmente politica.Quasi paradossalmente, tuttavia, quest’ul- tima lacuna pone in maggiore evidenza il tratto forse più caratteristico della personalità di Costa, la necessità, da lui avvertita anche nelle occasioni più esterne, di riportare ogni presa di posizione ad un nucleo di principi continuamente riproposti. E’ una circostanza sulla quale richiama l’attenzione anche la prefazione di Franco Mattei. Presidente lungo tutto il primo decennio repubblicano (e poi di nuovo dal 1966 al 1970) di un sindacato padronale le cui proteste di apartiticità sconfinano spesso in quelle della apoliticità tout court, Costa si presenta in realtà come portavoce di scelte fortemente ideologizzate. Il suo impegno centrale è infatti quello di porre in chiaro e ribadire le premesse delle scelte economiche e sindacali, di ancorare quest’ultime ad una professione di fede inequivoca e totale. Qual è la preoccupazione fondamentale del leader padronale? Già il primo documento, una lettera indirizzata ad Einaudi nel luglio del 1942, ci fornisce la risposta; « Il diritto di nascere è ancora più forte di quello di vivere e questo mi sento di poterlo dire, tanto più che sono un industriale già nato ». E verso la fine del 1943, chiosando alcuni appunti di Pasquale Saraceno, dapprima os

  • 150 Rassegna bibliografica

    serva che « buon capo di grande azienda si diventa dopo essere stato capo di aziende piccole, ed attraverso lo sviluppo stesso dell’azienda che si dirige » (doc. IX) e successivamente afferma: « Libertà, piccola a- zienda e diritto di nascere come imprenditore sono intimamente legati, allo stesso modo che al regime vincolistico sono legate la grande azienda e la cristallizzazione delle posizioni acquisite (doc. XII). In queste citazioni sono già presenti l’immagine e la funzione imprenditoriale che Costa non si stancherà di portare a modello e che sono del resto intimamente legate alla sua biografia, tutta condensata nel lavoro aziendale e nella concezione patriarcale della famiglia, che di quell’impegno è cornice e presupposto (valga anche qui il rinvio alle osservazioni contenute nella prefazione di Franco Mattei). Ciò non significa — si badi — che la sua gestione della Confindustria sia identificabile, come vedremo, con tali dichiarazioni di principio. Ben altri interessi e pressioni interverranno a determinare la linea dell’associazionismo padronale. Ma è altrettanto fuor di dubbio che le idee riprese da Costa attingano ad un sostrato culturale e ideologico largamente presente nell’universo imprenditoriale degli anni quaranta e cinquanta. Il primo riferimento storico utile a saggiarne la consistenza va al fascismo e sotto questo profilo Costa si presenta come uno dei più autorevoli sostenitori di due equivalenze che peseranno sensibilmente sulle scelte della ricostruzione: fascismo-dirigismo; antifascismo-liberismo. Non è questa la sede per rinverdire il dibattito storiografico in proposito (ed in particolare sugli equivoci e le ambiguità sottese alla categoria del liberismo). Vale tuttavia notare che le formulazioni di Costa restano sempre al di qua di tali ambiguità; in realtà l’industriale genovese traccia come ideale un profilo di imprenditore che sembra voler far giustizia non solo dell’« involuzione » fascista, ma delle stesse caratteristiche emerse nella precedente fase di decollo industriale.L’elogio della piccola azienda (cfr., fra gli altri, docc. 13 e 33), la convinzione che il capitano d’industria possa formarsi solo attraverso il tirocinio di fabbrica (e la diffidenza per il ruolo dei dirigenti non proprietari troverà più volte modo di esprimersi, cfr. ad esempio docc. XVI, 76 e 266), la libertà intesa come sottrazione dell’economia ad ogni interferenza politica so

    no le componenti principali di questo cammino a ritroso, coerentemente tributario in parte della predicazione einaudiana (l’intervento pubblico è il solo, autentico creatore di posizioni monopolistiche), e radicato, in altra parte, nella ideologia paternalistica della prima industrializzazione. Mentre da un lato, infatti, Costa rivendica il diritto a nascere come dimostrazione che solo lo spontaneo manifestarsi delle energie individuali assicura il ricambio e l’ascesa sociale (« Dobbiamo convincerci, e soprattutto dovrebbero convincersene i maggiori responsabili della nostra politica economica, che il problema industriale italiano non si risolve con qualche grande iniziativa fatta a spese della comunità- ma che sono necessarie molte iniziative e soprattutto iniziative medie e piccole », doc. 262), dall’altro guarda ai rapporti padrone-operai con un’ottica che contraddice gli sviluppi stessi del sistema di fabbrica. Il paradigma ideale è difatti quello di relazioni fondate sul vincolo di familiarità, sulla solidarietà di mestiere (vedi la prefazione di Costa al volume L’industria italiana per i suoi operai edito dalla Confindustria nel 1953, doc. 254). Ed è una riproposizione del paternalismo che trae alimento dalla aperta professione di cattolicesimo, ma che, proprio per questo, impegna Costa in precisazioni e distinzioni non sempre agevoli. « L’unica uguaglianza possibile è quella di tutti gli uomini davanti a Dio. Tutte le altre uguaglianze sono contro natura e non possono perciò costituire delle mete », aveva scritto nell’ottobre 1944 intravedendo concessioni « demagogiche » nei primi programmi della De (doc. XVIII). Coerentemente con questo assunto denuncia cedimenti sul problema dei consigli di gestione (doc. 7), censura la politica agricola democristiana (docc. 122 e 245), si duole con Luigi Gedda che il partito cattolico segua direttive prive di « basi morali » e « basate su motivi di opportunità » (doc. 201) e, posto in un’intervista di fronte al problema di come conciliare leggi di mercato e dottrina delle encicliche papali conclude che la « scuola liberale » è quella che « maggiormente garantisce la libertà dell’uomo e con questo la dignità della persona umana » (doc. 172). Del resto, tornando più oltre sul medesimo interrogativo, Costa riesce anche più esplicito: « mentre credo che si possa affermare che tutto quello che è antieconomico e antisociale, credo che si possa soltanto affermare che a

  • Rassegna bibliografica 151

    lungo andare quello che è antisociale è anche antieconomico » (doc. 224).Sarebbe naturalmente interessante valutare il livello di integrazione o di conflitto tra le due componenti ora evocate della personalità di Costa (e trarre da ciò anche elementi per meglio chiarire il rapporto Costa-De Gasperi, certo uno dei più indicativi per capire il secondo dopoguerra e sul quale è estremamente significativa la polemica dell’agosto 1952 a proposito dello « Stato forte », doc. 237); limitiamoci in questa sede ad osservare che le accuse di opportunismo scagliate contro la De si riallacciano ad un aspetto ben più generale della tematica di Costa, quello del rifiuto del sistema partitico in quanto sopraffattore delle leggi economiche a causa delle necessità del consenso di massa su cui si fonda. Per la verità Costa non si spinge, come altri consistenti nuclei del padronato industriale e agrario, a contestare la base stessa del regime rappresentativo, il suffragio universale, ma le sue riserve sull’assetto istituzionale del nuovo stato sono non meno ferme proprio perché negano alla base la legittimità di ogni intervento pubblico. In questo, che postula come immediata conseguenza la riduzione della politica all’amministrazione o quantomeno l’affidamento del maggior numero possibile di funzioni di governo ai tecnici, la linea di Costa oltrepassa largamente la lezione einaudiana e, riesumando ancora una volta schemi da prima industrializzazione, pone le premesse per una netta presa di distanza dalla « socialità » della carta costituzionale repubblicana.Tuttavia come e quanto di questo bagaglio ideologico si travasa nell’attività di Costa alla guida della Confindustria? Va da sé che i documenti qui raccolti sono in proposito del tutto elusivi. Proprio perché la leadership sindacale dell’imprenditore genovese è costruita su complesse mediazioni tra le non omogenee componenti dell’associazionismo padronale, i rapporti interni al vertice confederale avrebbero bisogno di essere documentati direttamente. Una lettera del gennaio 1951 a Vittorio De Biasi (il quale aveva avanzato alla gestione confederale una serie di critiche che anticipano le motivazioni della successione di De Micheli a Costa nel 1955) (doc. 183) esemplifica l’utilità di questo tipo di materiale, ma rimane un pezzo unico. La documentazione ora proposta, e per la quasi totalità già apparsa sulla stampa confede

    rale, consente in sostanza di seguire un triplice percorso: quello delle trattative sindacali; quello dei rapporti con l’autorità politica; quello dell’adattamento, per così dire, della visione personale di Costa alle esigenze operative dello schieramento padronale. Sul primo aspetto merita di essere ricordato il carteggio tra CGII-CGIL e altri interventi di Costa dell’estate 1946 per la vertenza sui licenziamenti e le rivalutazioni salariali (docc. 23, 24, 26 e 27). Le lettere di Costa confermano il prevalente interesse disciplinare attribuito dagli industriali all’effettivo sblocco dei licenziamenti (restaurazione della discrezionalità padronale sulla manodopera). Sulle relazioni con il governo la scelta è assai ricca e tale da consentire di sottolineare il rapporto privilegiato della Confindustria con l’esecutivo. Certo non sempre le richieste che la presidenza confederale avanza all’atto della costituzione dei successivi ministeri (cfr. ad esempio, i docc. 48, 116, 121, 140) trovano integrale accoglimento, e Costa non manca di dolersene con brusca franchezza. Ma ad illuminare il modulo di relazioni instauratosi può bastare una citazione da una lettera a Fanfani nel settempre 1948 a proposito dell’aumento dei massimali contributivi INPS da quest’ultimo deliberati nella sua qualità di ministro del Lavoro. « Abbiamo trovato consenzienti sul nostro punto di vista — lamenta Costa rievocando i precedenti contatti —, anche per motivi di difesa della lira, i diversi ministri interpellati e per questo abbiamo affrontato il peso di lotte, agitazioni, scioperi, con l’animo sicuro di compiere con l’appoggio del governo il nostro dovere nell’interesse del paese e delle sue stesse classi lavoratrici » (doc. 82). Passo che lascia pochi margini di dubbio sul livello di concertazione delle scelte economiche, console De Gasperi, tra esecutivo e padronato (per una testimonianza diretta di tale politica si vedano anche i promemoria relativi a riunioni interministeriali alle quali Costa partecipa, docc. 61, 121, 206).Sull’intreccio, infine, tra le convinzioni personali del suo presidente e la linea confindustriale una sola osservazione di carattere generale. Le condizioni in cui, nell’immediato dopoguerra, il sindacalismo padronale ricrea i propri strumenti di intervento sono tali da attutire i potenziali contrasti sulle prospettive. Piccoli, medi e grandi imprenditori, stretti tra la ripresa dei conflitti sociali, le incognite del sistema politi

  • co e le incertezze dei rapporti con il mercato internazionale trovano nelle intransigenti teorizzazioni privatiste di Costa una comune base, nel variare della congiuntura, di difesa-offesa. Le differenziazioni anche nette che si faranno strada nei secondi anni cinquanta sono di là da venire.

    M A S S I M O L E G N A N I

    152 Rassegna bibliografica

    g u i d o C a r l i , Intervista sul capitalismo italiano, a cura di Eugenio Scalfari, Bari, Laterza, 1977, pp. 132, lire 2.000.

    A oltre tre anni di distanza dalla sua comparsa nella fortunata serie laterziana, questa intervista di Carli merita tuttora di essere segnalata. Anzi, i motivi che ne sottolineano l’utilità sono piuttosto cresciuti che diminuiti. Se infatti appaiono inevitabilmente scoloriti i riferimenti al quadro specifico dentro al quale la intervista si colloca — la congiuntura della fase centrale degli anni settanta — le considerazioni di più largo respiro che Carli sviluppa escono come valorizzate dai ritardi della produzione storiografica. Su due punti centrali soprattutto: l’analisi comparata degliaspetti economici e sociali del ciclo espansivo 1955-65 e gli interrogativi affacciati dal recente emergere di ipotesi neoliberi- ste. L’angolatura attraverso cui filtrano i giudizi di Carli è quella del ceto imprenditoriale (con una accentuazione certo legata alla carica di presidente della Confin- dustria allora ricoperta dall’autore) e, più precisamente, degli spazi politico-economici, oltre che sociali, di cui esso dovrebbe beneficiare per realizzare interamente la propria funzione « modernizzatrice ». In quale direzione questi spazi vadano ricercati è detto esplicitamente nella valutazione che fa da premessa all’intera intervista. Dal ’50 al ’70 — afferma Carli — la grande impresa privata e soprattutto l’industria pubblica conobbero uno « sviluppo formidabile », ma « l’evoluzione essenziale... si verificò nelle fasce mediane dell’imprenditoria. Cioè: sorse l’impresa medio-piccola e media. Non che prima non ci fosse, ovviamente; ma sorse come un fatto di massa. Questo è stato in un certo senso il vero fatto rivoluzionario di quei ven- t’anni » (p. 8). Questo terzo tempo della industrializzazione italiana dopo il decollo d’inizio secolo e la ricostruzione all’indomani dalla seconda guerra mondiale, avrebbe tuttavia lacerato più che trasformato

    il tessuto della società italiana: « Diventammo in pochi anni un paese industriale, almeno da Roma in su, ma le istituzioni, i servizi pubblici, le strutture sociali e politiche ed anche le ideologie e la cultura dominante restarono ancora per parecchio tempo quelle d’un paese contadino » (pp. 47-48). E questi esiti conflittuali dovrebbero indurre — ribadito che nel 1950-63 « lo sviluppo economico del paese fu guidato principalmente da decisioni di tipo imprenditoriale » (p. 47) — a rivedere la filosofia della industrializzazione-modernizzazione: « bisogna sapere — conclude Carli — che nel breve e nel medio termine gli effetti sociali complessivi sono destabilizzanti » (p. 50). La parabola del giudizio si presta a più di una considerazione. Quella essenziale è certamente offerta dalla contraddittoria presenza di due spinte connaturate alla storia dell’imprendito- ria italiana e riassumibili nella costante oscillazione tra la rivendicazione del ruolo egemone del ceto capitalistico e la funzione compensatrice attribuita al potere politico in quanto depositario di interventi di contenimento delle tensioni sociali. Ma Carli si sottrae ad una valutazione puntuale di tale connessione, preferendo riferirsi alla « tendenza verso un generico solidarismo» (p. 21) come atteggiamento della classe di governo per concludere che « abbiamo deresponsabilizzato l’imprenditore senza tuttavia eliminarlo, abbiamo a- perto il varco all’intervento dello Stato senza tuttavia programmarlo. Abbiamo corrotto al tempo stesso il socialismo e il capitalismo. Non potevamo fare di peggio » (pp. 68-69). Dove, in tutta evidenza, il giudizio storico sembra cedere il passo ad una sorta di recriminazione moralistica che svaluta la ricchezza del discorso. In parte quest’ul- tima viene recuperata attraverso un ritratto della borghesia industriale non privo di forti connotazioni negative, imperniate sulla incapacità dei ceti imprenditoriali a considerare « lo stato come un’organizzazione sociale di cui essi fossero direttamente responsabili » (p. 71). Secondo Carli questa «mancanza di senso dello Stato» (p. 116) va recuperata su un duplice versante. Da un lato richiamando la « classe economica » ad un ruolo prioritario nella struttura statale, dall’altro inducendola a colmare il suo ritardo storico riposante sulla convinzione che l’economia di mercato resta vincolata al mitico spontaneismo ottocentesco e non ad una pianificata fondazione delle

  • Rassegna bibliografica 153

    regole che le permetterebbero una incisiva espressione. E’ probabilmente partendo da quest’ultima affermazione (e ricordando, fra l’altro, il dibattito in corso da tempo sullo « statuto d’impresa ») che l’analisi di Carli può essere proficuamente ripercorsa per trarne spunti utili alla ricerca storica.

    M A S S I M O L E G N A N I

    Emigrazione

    e m i l o f r a n z i n a . Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina 1876-1902, Milano, Feltrinelli, 1979, lire 5.000.

    Dopo un’ampia introduzione dedicata ai problemi metodologici e storiografici, il volume raccoglie e commenta quaranta lettere di contadini veneti e friulani emigrati in Brasile e Argentina dalla fine dell’Ottocento ai primi del Novecento, scelte fra circa 400 rinvenute negli archivi comunali o già pubblicate su giornali locali. L’autore non nasconde l’ambizione di « avviare un discorso radicalmente nuovo in materia di storia delle classi subalterne », soprattutto avvalendosi di una documentazione che, « pur essendo ’scritta’, e quindi dotata di tutti i requisiti reclamati dalla filologia e dalla tradizionale critica delle fonti, risulta, senza ombra di dubbio, e- spressione di una cultura prevalentemente orale» (p. 11).Proprio sulla questione delle fonti, Franzina, inserendosi nel dibattito, ormai da anni avviato, su una storia « dal basso » delle classi non egemoni, precisa la necessità di affiancare all’uso alternativo delle fonti (integrato dall’impiego di strumenti diversi e combinati di ricerca), la fonte alternativa, cioè il documento popolare scritto, definibile anche come il risultato di un « trasferimento del parlato su carta ».Non si può non concordare con questa impostazione. Tuttavia, come ha già osservato Franco Beici (si veda Contadini veneti e friulani in America Latina, in « Quale- storia », 1980, n. 1, p. 22), se è indubbio che queste lettere rappresentano una « fonte alternativa », non è scontato invece che esse costituiscano un punto di vista radicalmente autonomo.Proprio questo ci sembra il punto più debole dell’introduzione di Franzina, in cui

    peraltro non mancano opportune osservazioni sul concetto marxiano di « classe » e sul fatto che « siamo ancora sprovvisti di convincenti analisi sui problemi relativi alla coscienza di classe e, ancor più, al linguaggio (in senso lato) di classe » (p. 17). Tali osservazioni infatti non valgono a dirimere l’impressione che lo schema interpretativo dell’autore si sovrapponga talvolta a quello che le lettere stesse dicono, piegandole alla ricostruzione di una cultura popolare che si vorrebbe autonoma e pura, una volta liberata di tutte le influenze clericali e padronali.In molte delle lettere raccolte si possono rinvenire infatti elementi (riferibili ad una visione del mondo, ad una serie di abitudini, di tradizioni, di modi di concepire la famiglia, il lavoro, la politica, la religione ecc.) appartenenti contemporaneamente a linee culturali diverse e che non possono essere spiegati come semplici contaminazioni da parte delle culture egemoniche.Ci sembra cioè che il gruppo rurale (come altri gruppi sociali peraltro) presenti un codice culturale che non è compatto ma che appare, piuttosto, percorso da numerose contraddizioni interne, le cui polarità tendono poi a disporsi lungo linee più avanzate o più arretrate e a riprodursi nei singoli individui in forme non meccaniche e non date una volta per tutte (per una analisi psicologica di questo tema, si veda Sergio Piro, Le tecniche della liberazione, Feltrinelli, 1971).Ciò naturalmente non significa che non si possano identificare modelli comuni, stereotipi, archetipi collettivi che emergono, con particolare evidenza, anche dal materiale epistolare raccolto in questo volume. Confrontando tra loro le diverse lettere, si può ad esempio mettere a fuoco una rete associativa comune, all’interno della quale si annodano e si ordinano diversi materiali: il mito appunto della « Merica » (moderna e aggiornata riedizione del Paese di Cuccagna), il mito della frontiera, lo stesso mito forse della « rinascita ». A questi motivi se ne collegano altri, altrettanto ricorrenti: dal rapporto con la terra improntato ad un timore reverenziale verso una natura sentita come potenzialmente ostile e pericolosa, come appare ad esempio dalle numerose lettere che descrivono le invasioni di cavallette) al rapporto con i locali (« portano lunga barba e capelli, sono bruni la pelle locché al primo vederli mette

  • 154 Rassegna bibliografica

    un po’ di paura », p. 144); dalle credenze e tradizioni religiose, che costituiscono una nota costante dell’universo culturale del contadino, all’atteggiamento rispetto alla morte; dai resoconti di viaggio attraverso i quali gli scriventi si sforzano di descrivere ai parenti rimasti in patria la traversata e le terre sconosciute (« Dopo lungo viaggio alla fine arrivamo alle nuove terre scoperte dal nostro famoso Colombo. Già sappete che partimo li 29 aprile, ai 2 magio da Genova, ai 11 passamo lotropico del Sole li 17 la zonatorida, ossia l’equatore, il 28 arrivammo in Buenos Aires, al 1 giugno partimo col Vaporetto lungo il fiume Paranà alla fine siamo giunti in Rosario di Santa Fe, insoma il viagio fu lungo, tribolati fortemente, ma rivamo sanni », p. 102) ai progetti di lavoro per il futuro. Ugualmente interessanti sono le caratteristiche tipologiche e linguistiche di queste lettere che, osserva Franzina, sono tutte riconducibili all’unico modello della « lettera di saluto» (p. 51).A questo proposito non si può non ricordare il magistrale lavoro di Spitzer sulle lettere dei prigionieri di guerra italiani, soprattutto per quanto riguarda le formule di apertura e di chiusura, le « scuse per la cattiva scrittura », le notizie sullo stato economico e di salute degli scriventi, che si ripetono, insieme ad altre espressioni e motivi tipici, con monotona regolarità in quasi tutte le missive.Ma, al di la degli spunti che esse offrono a chiavi di lettura diverse, queste lettere costituiscono una documentazione straordinaria soprattutto da un punto di vista storiografico, non solo per fare storia delle classi subalterne, avvalendosi, come dice Franzina, di « voci le quali appunto dal basso provengono », ma anche per la comprensione dei problemi che si pongono nell’analisi del più complesso fenomeno dell’emigrazione italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

    L O R I S R I Z Z I

    Affari sociali internazionali, Milano, Angeli, 1978, numero unico, lire 6.000.

    Questo fascicolo monografico di « Affari sociali internazionali » (numero unico del 1978) raccoglie saggi di autori diversi sotto il titolo « Cenni storici sull’emigrazione italiana nelle Americhe e in Australia », a cura di Renzo De Felice. E’ quindi ovvio

    che, trattandosi di un tema assai vasto, che copre un arco cronologico altrettanto ampio (dalla fine del secolo diciannovesimo al secondo dopoguerra) i saggi presentino una notevole eterogeneità, di taglio e di livello.Pur con le debite eccezioni, la storiografia italiana — sostiene De Felice — si è interessata soprattutto agli aspetti generali del fenomeno migratorio, alle sue cause socio- economiche o politiche, senza indagare poi a fondo la realtà della vita italiana nei paesi di emigrazione. Una delle ragioni, se non la principale, di questa carenza, è la difficoltà se non addirittura l’impossibilità a reperire in Italia le fonti documentarie indispensabili. Mentre in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, si sta raccogliendo e valorizzando questo ricchissimo materiale, in altri, come i paesi dell’America Latina, le fonti documentarie sono non soltanto disperse ma rischiano di venire entro breve tempo distrutte. Non si può quindi che condividere appieno quanto auspica De Felice, che gli istituti italiani a vario titolo interessati a tale lavoro (e in primo luogo il ministero degli Esteri e il Consiglio nazionale delle ricerche) compiano uno sforzo serio per identificare, recuperare e microfilmare questo materiale, così da renderlo consultabile anche in Italia.Un passo nella direzione indicata, quella cioè di studiare la vita degli italiani giunti in terra straniera, è costituito dai saggi di Eugenia Scarzanella e di Giorgio Eder che analizzano rispettivamente l’emigrazione italiana in Argentina tra il 1860 e il 1880 e nello stato brasiliano di Rio Grande do Sul tra il 1875 e il 1914. Vengono così valutati, sulla base di fonti e documenti tanto italiani quanto argentini e brasiliani, la provenienza degli emigrati, le motivazioni socio-economiche della loro partenza e le condizioni di vita e di lavoro che dovettero affrontare nel corso del difficile processo di assimilazione.Ancora sulla massiccia emigrazione verificatasi a cavallo del secolo verso il Brasile, ed in particolare sul rapporto tra mercato del lavoro ed emigrazione italiana in Brasile, il saggio di José De Souza Martins si propone di analizzare la genesi ideologica del concetto di lavoro (facendo riferimento all’area di produzione del caffè) come contributo alla comprensione dei rapporti di classe all’interno delle società brasiliana. Per quanto riguarda invece l’Australia, il saggio di Gianfranco Cresciani

  • Rassegna bibliografica 155

    sugli antifascisti italiani in Australia offre la riprova di quanto vantaggio lo sviluppo della ricerca tragga da un buon ordinamento delle fonti: malgrado la ridotta consistenza numerica degli italiani, le fonti documentarie sono state infatti particolarmente curate. Cresciani osserva come in effetti gli oppositori del regime abbiano costituito una minoranza quanto mai esigua, attiva nel ristretto ambito degli oriundi italiani, priva di contatti con il mondo australiano come pure di una leadership intellettuale di un certo rilievo. Benché a queste circostanze obiettivamente poco favorevoli si aggiungesse l’ostacolo costituito dalla propaganda fascista e dal forte richiamo patriottico che questa esercitava sugli italiani emigrati, si registrarono in Australia alcuni movimenti antifascisti. Legati, negli anni venti, prevalentemente agli anarchici ed alla persona di Frank Carmagnola furono infatti la Lega antifascista, e il Club Matteotti nonché i giornali « Il risveglio » e « La riscossa », mentre il socialista Schiassi diede vita ad una Concentrazione antifascista, diramazione della omonima organizzazione di Parigi. Negli anni trenta e fino allo scoppio delle guerra mondiale agì invece un Gruppo italiano contro la guerra, che registrò una consistente presenza comunista. Il gruppo non riuscì tuttavia, come già i gruppi che lo avevano preceduto, a costituirsi una base consistente. Obiettivo in cui fallì, grazie anche alla dichiarata avversione della Chiesa cattolica, anche il movimento Italia Libera, fondato da Schiassi nel 1943.Ben più complesso e articolato il discorso che riguarda gli studi sull’emigrazione italiana negli Stati Uniti, come risulta dalla rassegna L’emigrazione italiana negli Stati Uniti: un bilancio storiografico di Gian- fausto Rosoli. Dalla panoramica della più recente produzione italiana sull’argomento risulta come, pur essendosi ultimamente verificata una certa ripresa degli studi, si debbano ancora segnalare gravi ritardi e soprattutto la mancanza di coordinamento tra studiosi isolati e istituzioni ed enti impegnati nello studio della storia americana. Tra le cause di questa arretratezza Rosoli indica (oltre alla già lamentata difficoltà nel reperire fonti), la subalternità che, in questi anni, la cultura italiana ha registrato nei confronti di quella statunitense. Dalla rassegna dei lavori italiani sull’emigrazione negli Stati Uniti appare poi chiaro come gli studi di storia americana in Italia

    abbiano sinora privilegiato la storia politica interna italiana e delle relazioni internazionali, senza mai analizzare la storia sociale ’dal basso' delle comunità italiane in USA, né il rapporto tra il movimento operaio americano e le masse immigrate. Anche per quanto riguarda il fascismo, osserva Rosoli, non sono mai state compiuta- mente valutate le conseguenze che esso ha avuto sulla vita delle comunità emigrate. Una valutazione del fenomeno migratorio durante gli anni del regime è infine oggetto il breve saggio di Claudia Belleri Damiani, recentemente ripubblicato nel volume Mussolini e gli Stati Uniti (Bologna, Cappelli 1980), che esamina la politica di Mussolini nei confronti dell’emigrazione, e soprattutto le reazioni italiane allTmmigra- tion Act del 1921 che riduceva drasticamente la quota degli emigrati italiani, reazioni che portarono a varie iniziative (tra le quali la Conferenza dell’emigrazione svoltasi a Roma nel maggio 1934) tendenti a fare aumentare tale quota. Il successivo Immigration Act del 1934 sancì una ulteriore riduzione dell’emigrazione, che ebbe consistenti ripercussioni sull’economia italiana e sulla politica migratoria del regime. Le restrizioni imposte dagli USA all’entrata nel paese della manodopera eccedente in Italia giustificarono infatti un programma fascista per la colonizzazione di nuove terre, definita ’emigrazione tutelata’. Poiché evidentemente questa filosofia non era applicabile al caso degli Stati Uniti, tra Italia, e Stati Uniti si verificarono attriti dovuti alla politica nazionalistica italiana, mirante a salvaguardare la ’italianità’ dei suoi figli emigrati, nonché alle attività dei fasci italiani all’estero.Anche Philip Cannistraro, autore di un saggio sui rapporti tra fascismo e italo- americani, pur confermando la carenza di studi sull’argomento, osserva ancora una volta come non manchino negli USA fonti per affrontare l’argomento dell’influenza del fascismo sugli italo-americani e per valutare fino a che punto la penetrazione dell’ideologia fascista abbia rallentato il processo di assimilazione, rafforzando la coscienza nazionale. L’influenza del fascismo (e di conseguenza dell’antifascismo) negli Stati Uniti dovrà essere quindi oggetto di un approfondimento che porti ad un esame più attento della vita della comunità italo-americana e delle sue istituzioni.

    A N N A M A R I A T A S C A

  • 156 Rassegna bibliografica

    U G O a s c o l i , M ovimenti migratori in Italia, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 186, lire5.000.

    Emigrazione all’estero e migrazioni interne: un tema complesso verso il quale sarebbe d’obbligo l’approccio interdisciplinare. E’ stato invece prevalentemente affrontato da angolature parziali e specialistiche, come la statistica, la sociologia, la psicologia, ecc.Il volume di Ascoli pubblicato da 11 Mulino, nell’ambito della serie « aspetti e problemi della società italiana », dedicata prevalentemente ad un pubblico di studenti costituisce una prima ed efficace messa a punto dei diversi studi esistenti sui movimenti migratori italiani nell’ultimo trentennio. Viene a completare l’arco cronologico della storia della emigrazione, italiana cui aveva dato l’avvio, sulla base di analoghi premesse metodologiche. Ercole Sori (L ’emigrazione italiana dall’Unità alla 2a guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979). Obiettivo di entrambi questi lavori è l’analisi dei vari aspetti del fenomeno migratorio e della sua dinamica in relazione all’andamento del ciclo economico internazionale e delle vicende economiche italiane. Il dato da cui muove Ascoli è costituito dall’inversione, negli ultimi anni, di una tendenza secolare: non solo l'emigrazione italiana all’estero sembra essersi arrestata ma l’Italia si sta avviando ad assumere il ruolo di paese importatore di forza-lavoro. Le correnti migratorie italiane verso i paesi europei (in particolare Svizzera e Germania) si sono drasticamente ridotte. Dall’inizio degli anni settanta i rimpatri prevalgono sugli espatri. Contemporaneamente aumenta il numero dei lavoratori stranieri in Italia (nel 1977 erano circa mezzo milione).Novità si segnalano anche per i flussi migratori interni. Il decentramento dell’attività produttiva, la crisi dell’industria automobilistica, la stagnazione dell’occupazione « regolare », hanno provocato un calo di « attrazione » del triangolo industriale e la trasformazione delle città del sud in aree di parcheggio per la forza lavoro espulsa dalle campagne. Saldi migratori positivi, immigrazione « clandestina » dal Nord Africa, rallentamento dei flussi migratori interni lungo la direttrice sud-nord, sembrano contrassegnare gli anni settanta. Una cesura significativa rispetto al passato, dunque.

    I due decenni successivi alla fine della guerra sono stati infatti caratterizzati da movimenti migratori di massa. Sono significativi tre periodi: il triennio immediatamente successivo la fine del conflitto, il biennio 1956-57 e infine gli anni del «miracolo economico» (1958-63).Se nella fase della « ricostruzione », l’emigrazione si configura come una tempestiva e lucida scelta della classe politica volta a frenare, decongestionando il mercato del lavoro, le tensioni provocate dalla disoccupazione, intorno al 1956 si ha una svolta. Si stabilisce un preciso legame (già sperimentato negli anni del « decollo industriale ») tra sviluppo capitalistico e movimenti migratori. La scelta di puntare sui settori esportatori e le esigenze di efficenza delle imprese (alla ricerca di uno spazio sui mercati esteri) comportano una ridotta creazione di posti di lavoro e il concentrarsi dello sviluppo al nord. Aumenta quindi l’immigrazione meridionale nel triangolo industriale e l’afilusso di lavoratori italiani nei vicini paesi europei (si esaurisce invece progressivamente l’emigrazione transoceanica). La Svizzera e soprattutto la Germania, che ha ormai esaurito la ri: serva di forza-lavoro rappresentata dai profughi e dagli espulsi dagli ex-territori tedeschi, alimentano una domanda di manodopera a basso costo.Quali effetti ha avuto il fenomeno migratorio da un lato nei luoghi di esodo e dall’altro in quelli di destinazione? E’ una domanda cui cerca di dare una risposta l’ultimo capitolo del libro di Ascoli.La tesi, prospettata in occasione del grande esodo della fine dell’Ottocento, dell’emigrazione come panacea dei mali del sotto- sviluppo italiano, trova qui una ulteriore smentita. Per una serie di ragioni: le rimesse non sono servite a ristrutturare l’agricoltura, i soggiorni di lavoro all’estero non hanno significato per la maggioranza una migliore qualificazione professionale. La temporaneità e la saltuarietà che hanno finito per caratterizzare i flussi migratori italiani nell’ultimo periodo hanno impedito anche l’auspicato effetto di riduzione dell’offerta di forza lavoro. Poiché chi é emigrato può sempre rientrare di fatto continua ad essere presente sul mercato del lavoro del luogo di esodo.Per quanto riguarda gli effetti sociali dell’immigrazione l’elemento più rilevante é rappresentato dal processo di terziarizzazione della popolazione autoctona. L’af

  • Rassegna bibliografica 157

    flusso di manodopera da altre aree geografiche sposta verso occupazioni più qualificate, meno nocive e più remunerative la manodopera locale. È quest’ultima a fruire dei servizi e delle case popolari realizzati sotto la spinta del’immigrazione. Questo spiega in parte come fino agli anni sessanta, in Italia come nei paesi europei, sia stato molto difficile il processo di integrazione degli immigrati con la classe operaia locale. Piazza Statuto (1962) in Italia e lo sciopero dei metalmeccanici del Ba- den-Wùrttenberg (1963) in Germania sono due episodi emblematici che segnano una inversione di tendenza: la partecipazione degli immigrati alle lotte sindacali.Il libro di Ascoli ha il merito di trarre da una letteratura « scarna e sovente di non buona qualità » una ricostruzione chiara ed esauriente del fenomeno migratorio nei suoi veri aspetti. L’aver preso in considerazione quasi esclusivamente gli studi sull’emigrazione, ha finito però per limitare a indicazioni molto generali il nesso tra movimenti migratori e sviluppo capitalistico. Quando negli anni settanta, Svizzera e Germania puntano a sostituire la manodopera italiana con quella di paesi come la Jugoslavia o la Turchia, nel tentativo di ridurre i costi, la situazione del nostro paese é cambiata rispetto al passato o l’esodo oltrefrontiera non é più Tunica soluzione alla disoccupazione. Come suggerisce Augusto Graziani l’emigrazione é stata al pari dello sviluppo del settore terziario una soluzione artificiale al problema della disoccupazione, che ha funzionato negli anni del boom economico. In seguito la risposta é stata cercata nell’avvio di un processo di ristrutturazione (ridimensionamento e ammodernamento del grandi impianti, sviluppo della piccola impresa, decentramento produttivo). Valeva forse la pena di soffermarsi un pò più distesamente su questi processi. Qui sta la ragione della trasformazione delTItalia in paese di immigrazione. Basti pensare alla solidità della piccola e media impresa emiliana e contemporaneamente alla presenza in questi settori (fonderie e forni per la ceramica) di lavoratori turchi ed egiziani.

    E U G E N I A S C A R Z A N E L L A

    ( a cura di p a o l o c r e s c i e L u c i a n o g u i d o - b a l d i ) , Partono i bastimenti, Milano, Mondadori 1980, pp. 240, lire 18.000.

    « Partono i bastimenti » propone storie e immagini dell’emigrazione italiana nel mondo: 1 documenti riprodotti riguardano infatti gli italiani emigrati tanto nei paesi europei quanto oltre Oceano. La maggior parte dei documenti è relativa agli anni in cui il fenomeno migratorio assunse dimensioni più rilevanti, tra il 1880 e il 1914, mentre solo alcune immagini sono dedicate al quindicennio successivo. 11 volume contiene anche alcuni brevi testi letterari di Sciascia, Sgorlon, Cassola, Messina, Strati. I documenti sono per la grande maggioranza inediti, e costituiscono il risultato delle ricerche condotte dai curatori in archivi pubblici e privati; è rilevante notare come le carte conservate presso le famiglie di emigrati abbiano infine dato la parte forse più cospicua del materiale.Si tratta di fotografie, di lettere e cartoline, di circolari ministeriali, di giornali o volantini: una serie di didascalie degli autori permettono un sommario inquadramento storico. Ne esce un insieme eterogeneo e ricco di spunti, soprattutto emotivi: si intravvedono frammenti di vite povere e disperate, emergono momenti di nostalgia o di orgoglio per la ’fortuna’ raggiunta, si intuisce il peso del faticoso inserimento nella vita di paesi lontani. E’ tuttavia diffìcile dire che da tutto ciò possa uscire un quadro organico di ricerca: « suscitare — come dice il prefatore — l’interesse degli storici delle classi subalterne », nonché costituire « una fonte di grande rilievo per quell’altra storia alternativa che va man mano rovesciando l’ottica della storiografia tradizionale ». Il lavoro da compiere — e che in realtà non pochi studiosi hanno ormai avviato — è ben più complesso e articolato di quanto non abbiano sospettato gli autori di questo libro-strenna.

    A N N A M A R I A T A S C A

    Libri ricevutiE L E N A A G A R O S S l - B R A D L E Y F . S M I T H , La resa tedesca in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 254, lire 12.000.

    AA.VV., La grande guerra. Operai e contadini lombardi nel primo conflitto mondiale, a cura di Sandro Fontana e Mauri

  • 158 Rassegna bibliografica

    zio Pieretti, Milano, Silvana, 1980, pp. 446, lire 6.000 [Mondo popolare in Lombardia. 9].AA.VV., La storia contemporanea negli archivi lombardi. Un’indagine campione, Milano, Quaderni di documentazione regionale, n. 9, 1980, pp. 336, sip.Promosso dall’Assessorato alla cultura della Regione Lombardia con presentazione di Sandro Fontana e introduzione di Mario Invernicci, il volume che è stato realizzato da un gruppo di ricercatori dell’Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione, presenta il patrimonio archivistico lombardo inventariato in alcune istituzioni pubbliche e private. Sono stati spogliati archivi comunali, enti ospedalieri, opere pie, sindacati, archivi universitari e industriali, istituti di cultura.laura b a r ile , Il Secolo. 1865-1923. Storia di due generazioni della democrazia lombarda, Milano, Guanda, 1980, pp. 387, lire 12.000.11 volume fa parte della collana sulla stampa fra 800 e 900 del Centro di studi sul giornalismo « Gino Pestelli » di Torino.

    le lio ba sso , Socialismo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 364, lire 13.000. Opera postuma pubblicata a cura di Fiorella Ajmone e Carlo Basso raccoglie il frutto delle meditazioni di Basso sulle teorie marxiane e sul socialismo nella sua storia e negli avvenimenti contemporanei.

    François bédarida , La stratégie secrète de la drôle de guerre. Le Conseil Suprême Interallié. Septembre 1939-Avril 1940, Paris, Presses de la Fondation nationale des Sciences politiques, Editions du Cnrs, 1979, pp. 570, sip.Edizione critica dei verbali delle riunioni del Consiglio supremo interalleato, preceduta da una introduzione che ne ricostruisce la storia (pp. 10-75).

    c a m il l o b e r n e r i, Epistolario inedito, volume primo, a cura di Aurelio Chessa e Pier Carlo Masini, Pistoia, Archivio famiglia Berneri, 1980, pp. 157, lire 4.000.Giu s e p p e berta , Le idee al potere. Adriano Olivetti tra la fabbrica e la comunità, Milano, Comunità, 1980, pp. 265, lire12.000.

    Giorgio boccolari, g ia n n in o d eg a n i, Antonio Piccinini. La vita e l’azione politica. Socialismo massimalista a Reggio Emilia.

    1914-1924, Presentazione di Vittorio Parenti, Reggio Emilia, s.e., 1980, pp. 136, sip.g en e a . b r u c k e r , Firenze nel rinascimento. Presentazione di Sergio Bertelli, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 407, lire22 .000.

    pier ò c a l e f f i, La lezione della resistenza e del socialismo. Scritti e discorsi. 1919- 1973, Introduzione e cura di Marina Tesoro, Prefazione di Sandro' Pertini, Milano, Angeli, 1980, pp. 297, lire 10.000.

    ALESSANDRO CAMARDA, SANTO PELI, L’altro esercito. La classe operaia durante la prima guerra mondiale, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 178, lire 4.800.aldo carera , L’azione sindacale in Italia. Dall’estraneità alla partecipazione, voi. I, Dalle origini all’involuzione corporativa, voi.II, L'evoluzione degli ultimi trent’anni, Brescia, La Scuola, 1980, pp. 294 + 359, lire 17.000.

    (a cura di Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia), La stampa italiana dalla Resistenza agli anni sessanta, Bari, Laterza, 1980, pp. 330, lire 14.000.Quinto volume della Storia della stampa italiana comprende saggi di Giovanni De Luna, I « Quarantacinque giorni » e la Repubblica di Salò; Nanda Torcellan, La Resistenza; Paolo Murialdi, Dalla Liberazione al centrosinistra.

    f e l ic e c a va llo tti, Lettere 1860-1898, Introduzione e cura di Cristina Vernizzi, Prefazione di Alessandro Galante Garrone, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 393, lire 9.000.

    Convegno d’intesa degli anarchici italiani emigrati in Europa (Francia-Belgio-Svizze- ra). Ottobre 1935, Pistoia, Nuova edizione a cura dell’Archivio della famiglia Berneri, pp. 44, lire 1.000.

    M ic h el CROziF.R, I partiti francesi, Torino, Edizioni della fondazione, 1980, pp. 68, lire 3.500 [Fondazione G. Agnelli. Quaderno 37/1980],Questo saggio viene pubblicato nel quadro della ricerca su Forze politiche e progetti di società in Europa.c la u d ia d a m ia n i, Mussolini e gli Stati Uniti. 1922-1935, Cappelli, Bologna, 1980, pp. 325, lire 7.500.

    e m il io d il ig e n t i, Alfredo p o z z i, La Brian-

  • Rassegna bibliografica 159

    za in un secolo di storia d’Italia (1848- 1945). Prefazione di Giorgio Amendo'la, Milano, Teti, 1980, pp. 355, lire 12.000.Giu l ia Paola d i Nic o la , Interazione lavoro e società. Hegel e la sociologia, Teramo, 1979, pp. 54, sip. [Libera università abruzzese degli studi « G. D’Annunzio », Facoltà di scienze politiche, Istituto storico-sociologico] .DONOLO, SOAVE, PUGLIESE, CARIOTI, GRASSI,pe r n a , Classi sociali e politica nel Mezzogiorno, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980, pp. 209, lire 3.800 [Quaderni di stato e fabbrica. 8].elv io fa ss o n e , La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 299, lire 6.500.

    pin o fe r r a r is , La contraddizione meridionale, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980, pp. 188, lire 3.500 [Quaderni di fabbrica e stato, 9].m arc fe r r o , Cinema e storia. Linee per una ricerca, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 163, lire 3.000.e m il io fr a n zin a , Merical Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America latina. 1876-1902, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 137, lire 5.000.

    norbert f r e i , Nazionalistische Eroberung der Provinzpresse. Gleichschaltung, Selb- stangpassung und Resistenz in Bayern, Stuttgart, Dva, 1980, pp. 363 [Stùdien zue Geschichte. Herausgegeben vom Institut ftir Zeitgeschichte].

    Alberto g aleazzi (Alba, Resistenza e contadini nelle carte di un partigiano (1919- 1949), Urbino, Argalia, 1980, pp. 282, lire 7.500 [Studi sulla Resistenza].Il volume raccoglie i documenti del « Fondo Galeazzi », presenti all’Istituto Regionale per la storia del Movimento di liberazione nelle Marche. Il volume comprende uno scritto autobiografico; documenti stampati ad Arcevia nel 1919-1922 sul movimento contadino; documenti sulla guerra partigiana nel 1943-1944; documenti sul movimento contadino nel dopoguerra.

    Giorgio g a l l i, Storia del socialismo italiano, Bari, Laterza, 1980, pp. 372, lire15.000.

    a n nam aria g a l o p p in i, Il lungo viaggio verso la parità. I diritti civili e politici delle

    donne dall’Unità ad oggi, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 276, lire 4.800.

    (a cura di Franco Gatti), La ricostruzione in Giappone, Torino, Stampatori, pp. 218, lire 10.500.Antologia di testi, prevalentemente americani e giapponesi sul dopoguerra, con un saggio di introduzione al problema.

    ROBERTO GUERRI, TERESA ISENBURG, GIORGIO m o r i , Ettore r o t e l l i, Il blocco di potere nell’Italia unita, Milano, Teti, 1980, pp. 395, lire 15.000.Primo volume pubblicato, ma 14° di una collana sulla storia sociale d’Italia, prevista in 25 volumi, diretta da G. Cherubini, F. Della Peruta, E. Lepore, G. Mori, G. Procacci, R. Villari. Contiene saggi di Roberto Guerri, Cronologia; Giorgio Mori, Blocco di potere e lotta politica in Italia; Teresa Isenburg, La popolazione, Ettore Rotelli, Le istituzioni politiche e amministrative.

    Giorgio la p ir a , Lettere a Salvatore Pu- gliatti (1920-1939), Presentazione di Francesco Mercadante, Roma, Studium, 1980, pp. 164, lire 4.000.kai von ie n a , Polnische Ostpolitik nach dem Ersten Weltkrieg. Das Problem der Beziehungen zu Sovietrussland nach dem Rigaer Frieden von 1921, Stuttgart, Deutsche Verlag-Anstalt, 1980, pp. 242.

    IOSe f m a c e k , Machiavelli e il machiavellismo. Introduzione di Luciano Antonetti, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 403, lire 22.000.

    Roberto m a r t u c c i, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio (1861-1865), Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 319, lire 15.000.

    Cla u d io m o f f a , La rivoluzione etiopica. Testi e documenti, Urbino, Argalia, 1980, pp. 493, lire 12.000 [Studi storici].

    (a cura di Giorgio Mori), La cultura economica nel periodo della ricostruzione, Bologna, II Mulino, 1980, pp. 652, lire20.000.Raccoglie i contributi della ricerca su « Il sistema delle autonomie. Rapporti tra stato e società civile », promosso dal Consiglio regionale della Toscana in occasione del XXX della Repubblica e della Costituzione. Contiene lavori di Piero Baruc

  • 160 Rassegna bibliografica

    ci, Gabriella Gioii, Simonetta Bartolozzi Batugnani, Piero Bini, Riccardo Padovani, Piero Roggi, Vanna Malagoli Anziani.

    Roberto morozzo della rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-sol- dati (1915-1919). Prefazione di Alberto Monticene, Roma, Studium, pp. 269, lire 9.000.

    nazario sa u ro o n o fr i, La strage di palazzo d’Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese, 1919-1920, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 326, lire 13.000.

    (a cura di Ettore Passerin d’Entrèves), Guerra e Resistenza nelle regioni alpine occidentali: 1940-1945, Milano, Franco Angeli, 1980, pp. 171, lire 8.000 [Istituto di Scienze politiche « Gioele Solari », Università di Torino].Il volume comprende saggi di H. Desvages, Le parti communiste et la Resistence dans l’Isère: Histoire régionale et histoire nationale-, D.W. Ellwood, Il comando alleato e la questione delle Alpi occidentali-, J.-P. Viallet, Les vallées vaudoises, du fascisme à la Resistence: Histoire, théologie et politique-, G. Perona, Ripercussioni sociali ed economiche della guerra con la Francia in Piemonte, 1940-1943; M. Cha- nal, L’occupation italienne dans l’Isère (nov. 1942-sept. 1943).

    anna m a r ia p r e z io s i, Borghesia e fascismo in Friuli negli anni 1920-1922, Roma, Bonacci, 1980, pp. 221, lire 8.000.

    c a m il i.a ravera, Lettere al partito e alla famiglia, a cura di Rosa Rossi, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 265, lire 4.500.

    andrea r ic ca r d i, Roma «città sacra»? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Roma, Vita e pensiero, 1979, pp. 414, lire7.000.

    anthony rh od es, Der Papst und die Diktatoren. Der Vatikan zwischen Revolution und Faschismus, Wien, Köln, Graz, H. Böhlaus, 1980, pp. 332.Traduzione tedesca del volume pubblicato nel 1973 in Inghilterra, con il titolo The Vatican in thè Age of thè Dictators 1922- 1945.

    Gia n l u ig i r o s s i , L’Africa italiana verso l’indipendenza (1941-1949), Milano, Giuflrè, 1980, pp. 626, lire 25.000 [Università di Roma, Facoltà di Scienze politiche].

    frank Ro sen g a r ten , Silvio Trentin dall’interventismo alla Resistenza, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 244, lire 10.000.

    A. VIRGILIO SAVONA, MICHELE L. STRANIERO, I canti del mare nella tradizione popolare italiana, Milano, Mursia, 1980, pp. 595, lire 25.000.

    Francesca ta d d ei, Il Pignone di Firenze. (1944-1954), con un saggio di Lirio Man- galaviti II Pignone tra Resistenza e ricostruzione, Firenze, La Nuova Italia/Tosca- na Sindacato, 1980, pp. 144, lire 3.000.

    Giovanni Sp a d o l in i, Il mondo di Luigi Salvatorelli con un’antologia di scritti di Salvatorelli e testimonianze di N. Bobbio, L. Valiani, A. Galante Garrone, L. Compagna, Firenze, Le Monnier, 1980, pp. 108, lire 3.000 [Quaderni della Nuova Antologia, 7],

    Giovanni Sp a d o l in i, I repubblicani dopo l'Unità. Quarta edizione accresciuta con una parte aggiuntiva sul Pri dalla costituzione al 1890, Firenze, Le Monnier, 1980, pp. 317, lire 10.000.Nuova edizione del volume pubblicato nel 1960 e integrato con documenti dal 1895 al 1980.