Giuseppe Butera. Giovanna e la Magara
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Giovanna e la magara
(inedito)
Giovanna non era per nulla una credulona, ma in fondo la
pensava come quel famoso scettico spagnolo che era solito dire: ‚Non
credo alle streghe, ma che esistano, ah se esistono!‛
Un banco di prova di tale atteggiamento le venne offerto dalla
nipote Mimì, smarrita davanti all’incertezza del futuro, adesso che il
giovane marito era stato sbattuto in prigione.
Ciccino Spidugliafacenni non era un delinquente di professione,
ma si era messo nei guai per via dello spavento che aveva fatto
prendere a don Calò Spiziale quando questi prese sul serio le velate
minacce rappresentate da tre pipistrelli morti stecchiti trovati davanti
alla porta dell’unica farmacia del villaggio, di sua proprietà, a due
passi dalla chiesa matrice.
Don Calò non fiatò neppure fino a quando, alzando gli occhi, non
si vide davanti Ciccino con la coppola moderatamente affondata sul
lato destro della fronte e con un sorriso sornione sulle labbra.
— Chi vi mandò? — riuscì ad espirare con un soffio lo speziale,
dopo aver riempito i polmoni con tutta l’aria che gli stava attorno.
— Voi lo sapete — rispose senza rispondere il giovanotto sempre
con lo stesso sorriso.
Don Calò si ricordò subito del pizzo richiesto dai fratelli
raffadalesi Tano e Pasquale Intrulla, che si erano oramai resi padroni
dell’intero territorio di Raffadali e villaggi limitrofi. Ancora non c’era
scappato nessun morto, ma qualche gamba rotta e qualche cazzotto in
faccia erano già stati distribuiti a chi aveva irresponsabilmente pensato
che quei giovani oziosi fossero dei semplici quaquaraquà.
Tutto ciò passò in un baleno per la mente di don Calò, che
immediatamente capì il senso dei tre pipistrelli morti. Immigrato dal
continente, si era insediato recentemente nel villaggio con la moglie e
una bimba di sei anni. Ma per la prima volta in quel momento ebbe la
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chiara percezione che tutta la sua famigliola, la sua professione e i suoi
beni erano in pericolo.
— Dite a colui che vi ha mandato che provvederò presto a
compiere il mio dovere.
Ciccino non disse più nulla ma si allontanò con quella andatura
dinoccolata e trascinante propria di chi vuol dire e non dire che se ne
va, ma in fondo in fondo rimane appiccicato alle calcagna del debitore
e se non sono le gambe ad esprimere plasticamente il suo stato
d’animo, basta lo sguardo di sottecchi allungato all’indietro sulla
propria spalla a lasciare interdetta la povera vittima.
La prima idea a balenare nella mente di don Calò fu quella di
andare a chiedere consiglio al prevosto, ma subito l’accantonò sapendo
che si sarebbe facilmente impelagato in un ginepraio di principi, di
dubbi, di scrupoli morali e di segreti confessionali, che lo avrebbero
disorientato invece di indicargli la via più breve per uscire dal
dilemma. Così, invece di salire sulla scalinata della matrice, pensò che
fosse meglio bussare prima al portone del cortile di Gerlando della
Fonseca, conosciuto e chiamato da tutti, anche dagli estranei, Papà
Giurlà. Questi era un ‚burgisi‛, un borghese, perché oltre al casamento
con cortile proprio e un appartamento per ognuno dei figli, erano
conosciute da tutti le proprietà rurali che egli stesso e numerosi coloni
stipendiati lavoravano.
Lo trovò in procinto di recarsi nei campi a sorvegliare i picciotti
già al lavoro fin dall’alba. Fu ricevuto con la deferenza che il padrone
era solito dispensare a tutti. Ma quando seppe di chi si trattava, risolse
seduta stante il caso.
– Non vi preoccupate, don Calò, ci penserò io a raddrizzare questo
ragazzo.
Ciccino era sposato da qualche mese con Mimì e Mimì era una
delle numerose nipoti di Papà Giurlà. Questi aveva storto il naso
quando suo genero zu Munnì, rispettatissimo ex-podestà del villaggio,
aveva ceduto alle insistenze di Mimì ed aveva concesso la mano della
figlia ad un giovane ancora senza arte né parte. Ma oramai nella
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famiglia di Terezina, sua figlia maggiore e madre di Mimì, era zu
Munnì che comandava e le sue decisioni dovevano essere rispettate.
Ciononostante, subito dopo aver congedato lo speziale, scese dal suo
appartamento ed andò a bussare alla porta del genero, situato a
pianterreno nel cortile stesso.
– Caro zu Munnì, credo che la cosa migliore da farsi per
raddrizzare questo vostro genero Ciccino, sia quello di farlo arrestare.
– Cominciavo a preoccuparmi oltremodo – rispose perplesso l’ex-
podestà zu Munnì –, ma oramai Ciccino è parte della mia famiglia e
oltre alla vergogna che ricadrebbe su di noi, c’è il fatto che mia figlia
Mimì è incinta.
– Lo sapete che tutti noi saremo al vostro fianco per difendere il
nome del nostro casato e il bambino ci penseremo tutti noi a farlo
crescere sano e onesto.
Chi naturalmente non accettò mai l’accordo tra il padre e il nonno
fu Mimì e quando vennero i carabinieri a portarsi via il maritino si
lasciò andare ad una comprensibilissima crisi isterica, con omerici
improperi contro tutti i membri della famiglia, del governo, della
chiesa e del mondo. Ma dopo qualche tempo cominciò a ragionare e si
convinse che la zia Giovanna, da qualche tempo stabilitasi in città,
l’avrebbe potuto in qualche modo aiutare.
Giovanna era l’ultima figlia di Papà Giurlà che proprio a lei aveva
particolarmente tenuto ad assicurare un futuro di benessere, anche
perché non era quella che si potesse definire una gran beltà. Lei stessa
ne era conscia, tanto che già in età avanzata ai figli che la
vezzeggiavano con elogi come: ‚Bella sei, mamma‛, rispondeva
invariabilmente: ‚Bella, ero... E neanche….‛, soggiungeva, ‚Ma mio
padre aveva la grana!...‛. Fu così che la maggior parte dei giovanotti
ancora scapoli faceva la fila per accaparrarsene la mano.
Uno di quei giovani intraprendenti era Bartolomeo
Mezzotùmmino, che si presentò con la casacca di velluto e la berretta
del padre, con il quale divideva le fatiche nel piccolo appezzamento di
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famiglia. Era un ragazzone forte e persino di notevole presenza, ma la
povertà è una pessima lettera di raccomandazione anche nei luoghi in
cui i più ricchi non sono che dei modesti possidenti anch’essi.
– Papà Giurlà – si fece coraggio Bartolomeo. Anche lui non
conosceva altre forme di rivolgersi a Papà Giurlà. – Papà Giurlà, vorrei
che mi concedeste la mano di vostra figlia Giovanna – disse tutto di un
fiato.
L’occhiata glaciale del patriarca fece svanire di colpo qualsiasi
speranza a cui si era aggrappato fino allora il giovane.
– Mio caro giovanotto – rispose con gravità l’attempato patrizio –,
sono solito concedere la mano delle mie figlie a chi non ha bisogno di
chiedermela.
Fu così che Bartolomeo Mezzotùmmino se ne tornò a casa come
un cane bastonato, rimuginando un rancore che sarebbe lievitato nel
tempo, con progetti di sicura rivalsa. In realtà sapeva benissimo che la
condizione in cui la sua famiglia versava non gli avrebbe potuto mai e
poi mai permettere di osare tanto.
La fortuna arrise invece a Cocò Impallomeni, rimasto orfano di
madre al nascere e di padre a quindici anni, quando il religiosissimo
don Peppe morì di un colpo al cuore mentre accompagnava il prevosto
che portava il viatico a un moribondo. Ora Cocò era un coltivatore
diretto, instancabile nel badare ai vari appezzamenti di terra fertile
ereditati dal padre e ad aiutare persino nella manutenzione di quelli
dei due fratelli maggiori emigrati in America, dell’unica sorella e di
un terzo fratello, rimasti a Montaperto.
Il matrimonio di Giovanna della Fonseca e Nicola Impallomeni
fu celebrato nella matrice, proprio di fronte al cortile di famiglia, dal
cui portone la sposina usciva condotta dall’elegantissimo Papà Giurlà,
con dietro il corteo di figli e nipoti agghindati a festa. Sul portale della
chiesa li aspettava il giovane Cocò, elegantissimo nel vestito avana,
gilè a righe e cravatta di seta. A Giovanna cadeva bene l’abito da sposa
alla moda, bianco avorio con merletti lavorati a mano sulla scollatura
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e sui bordi delle maniche e della gonna, cintura sciolta, compiacente
con la sua tendenziale pinguedine.
Dopo la cerimonia, tutto il paese si riversò nel cortile dei Della
Fonseca per il trattenimento a taralli e rosolio. Le sorelle e cognate
avevano preparato con le proprie mani anche le tagliatelle, gli
innumerevoli tipi di paste e pasticcini con gli immensi lenzuoli di
farina di grano duro delle loro campagne, appiattiti con gli ingenti
mattarelli e distesi sui letti matrimoniali di tutto il familiare
condominio. La musica del grammofono nuovo di zecca regalato dalla
sorella maggiore, ‚Teresina e consorte Raimondo‛, cioè l’allora podestà
zu Munnì, a rallegrare l’intero villaggio intervenuto in massa. La festa
continuò fino al tramonto, quando finalmente Giovanna e Cocò si
ritirarono a vivere la loro nuova vita a due nella casetta di lui e nelle
tenute di entrambi ad arare, seminare, mietere, vendere…
Finché il cognato, in quei tempi ancora podestà, riuscì a trovargli
un impiego stabile come manovale delle ferrovie presso la stazione
centrale di Agrigento dove Cocò si trasferì con la famiglia intera
lasciando per i brevi períodi di ferie o di riposo settimanale il controllo
delle terre.
Fu quando nacque Ninniddu, il quarto figlio, venuto a completare
la felicità della laboriosa famiglia.
Sei mesi dopo Cocò morì. Una brutta infezione, inflitta da una
fredda notte di lavoro sotto il diluvio, gli complicò il funzionamento
dei reni e se lo portò all’altro mondo mentre contemplava il cacanido
che gli sorrideva ignaro delle malasorte che coinvolgeva loro tutti.
Anche dalla magara Giovanna andò in compagnia di Ninniddu,
come faceva ogni qualvolta usciva di casa. Già undicenne, il piccolo
l’aveva raggiunta in statura, il che non era stato troppo difficile, dati gli
ormai definitivi centosessanta centimetri della madre. Concettina era
ancora in collegio, Munniddu già a Palermo, per l’università, grazie
alla borsa di studio del Comune ottenutagli dallo zio Munnì, ancora
influente, nonostante il recente sfascio del regime e il disastro della
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guerra, e Vanniddu, ancora ammaccabasole, sempre in attesa di un
impiego al Comune stesso.
Ninniddu non sapeva niente delle intenzioni della madre ma era
sempre pronto ad obbedirle, qualunque fosse il tipo di impresa a cui lei
lo intimasse. Non sempre riusciva a compiere le missioni a cui era
inviato, tipo quelle frequenti di esattore dei prestiti fatti a vicini
sistematicamente morosi, come la signora Domenica del terzo piano
del palazzo, ma era pienamente consapevole che i suoi insuccessi
avevano almeno il merito di risparmiare a sua madre certe figuracce,
se non quello di sanarne le finanze. Per un altro verso, Ninniddu era
sempre presente nelle visite agli strozzini ai quali Giovanna si faceva in
quattro per poter pagare puntualmente le cambiali emesse per
qualsiasi tipo di compere, a volte ingenuamente convinta che il
prestito fosse un favore e non un vero e proprio cappio al collo.
Eppure non mancavano persone giudiziose che la consigliavano a
non fidarsi facilmente di persone troppo sollecite ed amichevoli nel
momento del bisogno, ma smemorate in quello di ricambiare i favori
ricevuti. Fra i veri amici primeggiava il maresciallo Giammusso che
era stato sempre affiatato con Cocò Impallomeni in vita e che divenne
il protettore della sua famigliola rimasta orfana.
La magara riceveva i clienti in un appartamento di via Saponara
in cui nessuno avrebbe potuto mai immaginare che abitasse una
persona con dei poteri soprannaturali. Si entrava direttamente in una
saletta di attesa spoglia con quattro sedie che Ninniddu avrebbe
trovato e lasciato sempre vuote.
La mamma lo lasciò solo a guardare le mosche, mentre lei
seguiva la voce di una donna che la invitava ad entrare da dietro una
porta appena socchiusa.
Dopo un pochino, stanco di stare a far niente, Ninniddu si affacciò
sul pianerottolo giusto nel momento in cui passava un giovanotto che
entrava nella porta accanto senza neanche accorgersi della sua
presenza.
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La mamma uscì affrettata dopo un altro po’.
– Vieni, Ninniddu, dobbiamo raccogliere alcuni capi di vestiario e
una ciocca di capelli di Ciccino Spidugliafacenni, perché ne abbisogna
la fattucchiera per fargli la fattura.
Ci vollero alcuni giorni per poter raccogliere gli oggetti richiesti e
Giovanna si dovette fare una buona camminata fino a Montaperto per
racimolarle da Mimì, da sua madre donna Teresina e dai genitori di
Ciccino.
Ninniddu era quindi la compagnia permanente di Giovanna
Impallomeni. Ne condivideva la sua esperienza di adulta e ne godeva
lo sviluppo intellettuale e affettivo quotidianamente. Commentava con
lui il comportamento dei vicini e degli estranei e rideva con lui delle
cose strane o comiche osservate da lei, come quel giovanotto che era
rimasto a guardarla attraverso il balcone dal lato opposto del vicolo e
le aveva persino fatto l’occhiolino.
Mentre la mamma era a Montaperto per raccogliere gli oggetti
richiesti dalla magara, Ninniddu era intento a farsi i compiti solo
soletto, quando attraverso il balcone spalancato vide di sfuggita un
uomo che stava a guardarlo, come se stesse aspettando di vedere
qualche altra persona dentro di casa. Si ricordò del tale che faceva
l’occhiolino a mamma. Lo riconobbe subito. Era lo stesso tizio che
aveva visto entrare dalla porta accanto alla sala di attesa della magara.
Al ritorno di mamma, fu la prima cosa che Ninniddu le narrò.
Giovanna si fece descrivere l’uomo e si convinse che era lo stesso che
le aveva fatto l’occhiolino. Mamma e figlio intuirono all’istante che lo
strano corteggiatore era la spia della magara, trasformata ormai ai loro
occhi in una qualsiasi spregevole fattucchiera.
Giovanna tornò con Ninniddu dalla magara con quel mucchietto
di oggetti richiesti e questa volta fece anche entrare il figlio,
nonostante le rimostranze della donna. Ninniddu sgranò gli occhi
davanti a quella grottesca scenografia degna di un’immaginazione
forsennata. Ascoltò in silenzio insieme a sua madre le informazioni
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particolareggiate sul caso, come se stessero uscendo dalla palla di vetro
che le stava davanti ed i consigli più stravaganti per trasformare in
futuro felice la triste situazione di Ciccino e Mimì.
Giovanna la lasciò parlare e finalmente aprì la bocca:
– Ora vossia mi fa il piacere di restituirmi i soldi che le ho dato in
cambio di questa turlupinatura.
– Ma che dice, donna Giovà, il mio un servizio serio è. E il
risultato è garantito.
– E allora lo spieghi al maresciallo Giammusso pazientemente
seduto in sala di attesa.
– Chi? – sghignazzò la magara. – Ma quello è guardia municipale.
– Certo, ma si è portato appresso due carabinieri per arrestarla.
Fu così che la magara passò ad esercitare la professione dietro le
sbarre del carcere di San Vito, nel settore femminile e il suo segretario
in quello maschile.
Ciccino invece, completamente ricuperato, fu prosciolto dopo
qualche mese, grazie alle buone conoscenze del suocero, sempre ex-
podestà e del maresciallo Giammusso, per sempre amico e garante
della famiglia di Giovanna.
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Giovanna e Pirandello (da ‚La mia Landau (ed altre storie)‛ On demand su
http://www.progettobabele.it/butera/libro.php)
— Hai conosciuto Pirandello?
— Gna certo. È il teatro qua dietro dove ci vediamo il cinema.
— No, mamma, che c’entra? Sto parlando di Luigi Pirandello, il
nostro concittadino, scrittore di fama mondiale. È morto nel ‘36 e
aveva vinto il premio Nobel quando tu avevi già avuto a Vanniddru e
Munniddru.
— Ah sì, l’ho sentito nominare, ma non l’ho mai visto. Ne ha fatto
cinema?
Giovanna della Fonseca, vedova Impallomeni, aveva fatto fino
alla terza e si era presa la quinta alla scuola serale. A quarant’anni.
Chiederle aiuto in certe situazioni poteva essere magari pericoloso.
Come quando Ninniddru faceva ancora la prima e lei ebbe la
spiacevole sorpresa di vedergli scrivere ‚la capra‛, in un compito a casa.
— Ma comu, figliu mè, non ti impararono che si dice ‚la crapa‛?
E il figlio piccolo a prenderla con le buone per cercare di
convincerla che, in italiano, ‚crapa‛ era sbagliato.
— Mmah — concludeva invariabilmente. — Certe cose che
inventano...
A parte queste piccolezze però, Giovanna della Fonseca sfruttava
al massimo il lato buono del suo estremo scetticismo che, se da una
parte la faceva diffidare perfino delle regole grammaticali, dall’altra la
proteggeva da certe trappole che i furbi di turno sogliono tendere alla
gente semplice.
— Senta la tessitura, la composizione dei colori, le sfumature, il
risalto del ricamo... — si infervorava il giovane rappresentante
gentilmente ammesso nell’entratina, mentre sfoderava tutto il suo
scilinguagnolo sui capi di biancheria che si sforzava di sospingere sul
conto della donna di casa, nonostante lo sapesse ovviamente modesto.
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— E che c’è bisogno di cantarmela tutta la messa cantata? Mi deve
dire il prezzo e quanto tempo mi toccherà di gettare sangue per pagare
il corredo.
— È tutto molto relativo. Non c’è bisogno di pagarmi niente. Io le
lascio la mercanzia e lei se la gode...
— Ccé! E allora non ci siamo capiti. Vossia mi deve dire, che so,
‚uno, nessuno... centomila‛.
Era diventata ormai una expert su Pirandello. La sera, aspettava
che tutti si fossero messi a letto e andava a sbirciare l’antologia del
piccolo, dove c’erano tutti i titoli delle opere del maestro.
— Ti piacì, Cuncittì? — La figlia ancora impubere sorrideva
impacciata senza sapere cosa dire. Gli occhi del venditore facevano
invece la spola tra gli articoli da vendere e la ragazza che era già
qualcosa da... vedere.
Erano poveri e dal futuro incerto. Ma il corredo della futura sposa
era da farsi.
— Non voglio che mia figlia sia ‚l’esclusa‛ — citava la neofita
pirandelliana, ribadendo, senza eccessiva fedeltà all’argomento: —
Bisogna pur ‚vestire gli ignudi‛.
— E allora firmiamole queste quattro cambialucce...
— Ma manco ‚quando ero matto‛ — esclamò la matriarca, al
maschile stesso, per rispetto al titolo della novella.
— Va bene, mi dica cosa vuole fare.
— Allora, quanto costa ‚la giara‛? — si riferiva al corredo e
pensava a Zi’ Dima Licausi.
— Centomila.
— È questo — fu sarcastica Giovanna. — È questo che mi fa più
piacere: ‚il piacere dell’onestà‛. Perciò, può scegliere tra ‚l’uomo, la
bestia e la virtù‛ e mi sceglie la bestia?
— Allora facciamo novanta...
— Bumma, spavento! Gna ‚come prima, meglio di prima‛ è. Pare
che ‚questa sera si recita a soggetto‛. ‚Non si sa come‛, ‚ma non è una
cosa seria‛... — sguainò quasi tutto il suo repertorio letterario, mentre il
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povero commesso s’impappinava sempre più, diminuendo
progressivamente il valore del debito (e, per conseguenza diretta,
quello della sua magra commissione).
— Settanta... Sessanta...
Quando arrivò dove voleva lei, ‚la trappola‛ era stata disfatta. O
aveva stretto ne ‚la morsa‛ lo stesso cacciatore che l’aveva tesa. Certo,
la testolina de ‚la mosca‛ abbozzò l’ultimo sussulto, ma il ragno in
gonnella le assestò il colpo di grazia.
— Paga in contanti?
— Che contanti?
— Tre rate?...
— ???
— Sei?
— E che sono i ‚sei personaggi in cerca d’autore‛? E allora non si
capacitò? Queste, come minimo, ‚novelle per un anno‛ sono.
— E la ragazza?
— Che ragazza? Cu, Cuncittina?
— Sì, insomma, vorrei avere qualche speranza...
— Che speranza... Picciliddra è... Ma guarda un po’ che razza di
proposte che mi viene a fare... proprio a me...
Dall’alto dei suoi centosessanta centimetri, la già alquanto robusta
Giovanna si trasformava in uno de ‚i giganti della montagna‛. Anzi,
pareva proprio uno di quei telamoni del tempio di Giove.
— Ma perché, non é forse lei la capo-famiglia? — il giovane si
appigliava ancora alle ultime risorse di coraggio.
— ‚Sogno (ma forse no)‛.
Che c’entra? Direte voi. Il fatto è che, in siciliano, ‚sugnu‛
(italianizzato ad hoc da Giovanna) vuol dire ‚sono‛ e a lei piaceva
giocare con le parole, soprattutto quando una reminiscenza
pirandelliana le veniva così sulla punta della lingua.
— Beh, diciamo, ‚così è (se vi pare)‛.
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A Giovanna piaceva moltissimo questa contrapposizione, questo
dubbio introdotto come per caso (e che le parentesi finivano per
risaltare), questa sospensione di giudizio che le permetteva, come a
Pirandello, di prendere le distanze tra il reale e l’immaginario, tra il
possibile e il probabile, tra la necessità e la contingenza...
E alla fine si tenne il corredo e la figlia e pagò puntualmente le
cambiali de ‚la giara‛.
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Giovanna e gli swing
(da ‚La mia Landau (ed altre storie)‛ On demand su
http://www.progettobabele.it/butera/libro.php)
Giovanna non era a casa quel giorno in cui morì Totò Strazzera, il
marito di Fofa, la sua migliore amica e vicina. Al ritorno da un fine
settimana nelle campagne di Montaperto, Giovanna aveva trovato
molto strano il silenzio che incombeva sul vicolo, in pieno pomeriggio,
quando invece era solito impazzare il grammofono di Fofa.
Totò e Fofa erano giovani e poveri come tutti nel vicolo, ma i
disagi non erano mai bastati a guastare l’aria di eterna festa con cui
affrontavano la vita di stenti.
— Di questo passo, avrete presto più figli di me — osservava
Giovanna, giocosamente sovrappensiero, — a rallegrare tutto il
quartiere. O a rompergli l’anima?
— E vabbé, donna Giovà, a domani pensa Dio — le rispondeva
l’amica in una risata esuberante come il corpo glorioso che si ritrovava
ai suoi beati venti anni.
E subito il grammofono di Fofa cominciava uno di quegli swing
che sapeva facevano andare in sollucchero la vedovella, solo una
decina di anni meno giovane di lei. Non fosse per la voglia di far
piacere all’amica, il vecchio macinino a corda avrebbe seguitato a
stonare la testa di tutto il vicinato con le canzoni antiche di cui Fofa era
innamorata e che cantava lei stessa a squarciagola: ‚Quel mazzolin di
Fiori‛, ‚O campagnola bella‛, ‚Funiculì, funiculà‛...
Ma quando metteva a girare ‚Te lo lavo quel fazzolettino‛ fino a
far fiaccare il disco, Giovanna (come i vicini tutti) sapeva che Salvatore
Strazzera stava lavorando presso la ferrovia là vicino e che era riuscito
a fare una scappatina all’ora del rancio, raggiungendo casa sua lungo
il vicolo deserto, per intrufolarsi sotto le lenzuola e godersi brevi istanti
di piacere insieme alla mogliettina. Allora Fofa non cantava più e al
grammofono era affidata l’incombenza di coprire con il massimo dei
volumi i sussuri e le grida che certo avrebbero disturbato
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infinitamente di più la siesta di quella brava gente. Solo a piano Lena,
davanti all’elegante facciata barocca del palazzo Badalamenti, c’era un
gruppetto di ragazzi che giocavano ai nìchili.
— Ma lassaccillo lavare ‘sto fazzolettino... — gli scappava a don
Peppino il calzolaio in tono di canzonatoria tolleranza, quando non ce
la faceva proprio più a sorbirsi l’interminabile esecuzione.
— Fofò, il disco incantò... — avvisava ad alta voce donna Zina
dall’altra punta del vicolo, in un rassegnato quanto inutile tentativo di
farle cambiare musica.
Chi invece riusciva nell’intento era sempre Giovanna, che con
Fofa si intendeva facilmente attraverso il lucernaio della cucina
prospiciente sul camerino degli Strazzera, senza bisogno di uscire in
strada. Avevano adottato un codice proprio, una specie di alfabeto
Morse, sulla base dei numeri romani, che Ninniddru aveva trasferito
direttamente dai banchi di scuola all’agile intelligenza della mamma.
L’inglese dei titoli poi, lei lo pronunciava a modo suo, sulla scorta
della pronunzia già abbastanza approssimativa di Zi’ Peppe, il cognato
tornato dall’America, anche lui insegnante a tempo perso, che le
ammanniva tutto quanto di inglese aveva imparato a Bruccolino.
Così, quando Giovanna voleva che Fofa suonasse ‚Inti murdi‛ (In
the mood), numero uno del loro catalogo esclusivo, Giovanna batteva
un solo colpo sul vetro del lucernaio. Se voleva ‚Aivi gotti mi lavi‛’
(I’ve got my love to keep me warm), che era il numero cinque,
Giovanna faceva strisciare con forza il bastone sui vetri rugosi.
Due striciate perciò era il dieci, ‚Danti bi datti guai‛ (Don’t be that
way); ‚Zinghiventi testrìnghisi‛ invece, il più complicato di tutti da
pronunziarsi (Zing went the strings of my heart), valeva una strisciata e
due battute, cioè sette.
E così via.
Totò Strazzera morì nel lettone, mentre il grammofono
prometteva per l’ennesima volta di lavare quel famigerato fazzolettino,
ma nessuno se ne accorse. Finché Alfonsa Scicolone, ormai vedova
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Strazzera, non ebbe avvertito il padrino, don Luvici Badalamenti, che
abitava nello stesso palazzo nobiliare di cui gli Strazzera e gli
Impallomeni occupavano i miserabili scantinati del retro. Don Luvici
provvide subito alle esequie, con le premure con cui aveva provveduto
a trovare il posto di manovale allo sfortunato Totò.
— Totò — diceva sempre don Luvici, — è come uno della mia
famiglia.
Fece affiggere i manifesti in tutte le contrade, ordinò il miglior
servizio di pompe funebri della città, la veglia al defunto composto nel
tabuto di noce, con diritto alle grida rimunerate delle prefiche a dar
rinforzo a quelle altrettanto strazianti, ma gratuite, della novella
vedova, i rinfreschi per gli intervenuti, la messa cantata, il corteo con
la carrozza a quattro cavalli, la dolorosa banda dietro e finalmente la
sepoltura in una discreta tomba di pietra bianca, nel cimitero di
Bonamorone.
Al ritorno di Giovanna, Totò era ormai morto e seppellito, ma nel
vicolo rimaneva un’atmosfera di lutto e di rispetto, ingigantito
dall’insolito silenzio del grammofono di Fofa.
— Non può essere — mormorava Giovanna ad ogni particolare
del tragico evento, raccontato da Fofa in persona, venuta apposta per
metterla subito alla pari dei fatti e farsi consolare un po’ da lei.
— Era meglio che mai — singhiozzava Fofa. — Più forte di un
leone era. Più bello di un angelo...
— Non può essere — ripeteva Giovanna, avvilita e incredula
anch’essa, con gli occhi fissi sul viso stravolto dell’amica.
— Voleva che ci mettessi il numero quattro...
— Ma che dici, Fofò? Il ‚Singhi singhi‛? Quello di Luvici Prima? Il
mio preferito? — Giovanna capiva il turbamento della giovane amica,
ma c’erano troppe cose che non quadravano.
— Sì, però ci ho messo quello di sempre... E nel più bello mi si è
accasciato sopra come un sacco di patate. E non ci fu verso di farlo
tornare in sé...
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Fofa si impappinava, andava avanti e indietro nei fatti, si
correggeva, confondeva persone e cose...
— Non può essere...
Nei giorni sucessivi, Giovanna ricevette la visita del maresciallo
Giammusso, dei vigili urbani, ma sempre maresciallo, con la scusa
delle domande per le case popolari.
— Marescià, vossia lo sa benissimo che io non ho fatto nessuna
domanda. La casa ce l’ho. Può non essere un gran che, ma la
buon’anima di mio marito qualcosa me l’ha lasciata.
— E allora vuol dire che qualcuno la domanda l’ha fatta per lei
—. E faceva già per andarsene.
— Marescià, me lo dica subito. Che vuole sapere da me?
— Niente, stanno cercando una pecorella smarrita che non è
tornata all’ovile.
— E la viene a cercare proprio qui? E che le pare che abitiamo in
una mànnara?
— No, si tratta di un picciotto continentale che lavora alla ferrovie
e da una quindicina di giorni non si è più fatto vivo.
— E si vede che sarà tornato in continente — suggerì Giovanna,
ma tra sé e sé pensò: lo dicevo che i conti non tornano...
— Macché, poverino. È uno sfollato istriano che perdette tutti i
parenti nei bombardamenti su Fiume e che aveva ottenuto un lavoro
alla ferrovia come manovale.
Donna Giovanna della Fonseca vedova Impallomeni era fatta
così. Sospettosa, sempre un passo indietro e due avanti, riusciva a
sapere sempre più di quanto gli altri ci tenessero a scoprire da lei.
Ma non si poteva fare persuasa: il ‚Singhi singhi‛ di Luvici Prima
ci ha messo. Non può essere...
Passarono alcuni mesi e la pancia di Fofa cominciava a farsi
notare. Costretta a sopravvivere con la miserabile pensione di
seicentoventi lire che le passava la ferrovia, il lutto e la miseria
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sarebbero anche stati sopportabili, se avesse potuto almeno mettere in
azione il suo grammofono. Ma tutti avrebbero gridato allo scandalo e
perciò se ne stava il giorno intero in silenzio ad attaccare bottoni alle
camicie che le portavano da una sartoria e persino la sera, al lume di
candele, per sbarcare il lunario e preparare il corredino al nascituro.
Ma un bel giorno venne a salutare Giovanna perché andava in
America.
— In America? E che ci vai a fare in America, ancor più con la
pancia che cresce?
— Don Luvici mi ha procurato un posto sul prossimo bastimento
che parte da Messina e spero di andare a fare fortuna anch’io. Chi esce
riesce, donna Giovà...
— Sì, attaccando bottoni alle camicie degli americani invece dei
siciliani?...
— Vorrei che si tenesse il mio grammofono, che quando torno ne
porto uno molto più grande e più bello da Bruccolino e una cassa di
dischi di quelli che ci piacciono di più.
— Sì, aspetta e spera, Fofò...
Il maresciallo Giammusso fece un’altra apparizione qualche
tempo dopo che Alfonsa se ne fu andata.
— E allora, signora Giovanna, la vuole o non la vuole la casa
popolare?
— Gliela dia a chi ce ne ha di bisogno, marescià. Mi dica piutosto
quali sono le novità?
— Niente, è che hanno rintracciato la pecorella smarrita.
— (Non può essere, pensò Giovanna). Ah, e dove? — indagò con
apparente noncuranza.
— Era nella lista dei passeggeri dell’ultimo bastimento che è
partito dal porto di Messina, carico di emigranti per l’America.
— (Lo dicevo io, gridò dentro Giovanna, senza battere ciglio).
Cinque anni dopo, Giovanna era impegnata a rassettare la casa,
come faceva tutti i giorni, quando senti battere in modo concitato alla
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porta. Lo spavento la colse quando aprì e si trovò davanti Alfonsa, che
venne subito ad abbracciarla in preda a una gioia prorompente.
Giovanna rimase davvero trasecolata.
— Lasciati guardare, Fofò — disse, non appena riuscì a ricuperare
il fiato.
Sul riquadro della porta, offuscato dal sole spettacolare di un
primo pomeriggio estivo, la figura dell’amica si stagliava come quella
di una star hollywoodiana. Il vestito dal taglio e dal tessuto di finissima
fattura le cadeva a pennello sul corpo opulento che la maternità aveva
reso ancora più sinuoso e appariscente. Il trucco, il taglio dei capelli, il
cappellino di paglia con il fiore finto ed il nastro delicato... tutto
contribuiva per fare di lei qualcosa realmente da vedersi.
— Le ho portato il grammofono che le ho promesso. E una cassa
di dischi. Guardi, ci sono tutti gli swing che esistono: quelli di Razaf e
Garland, di Noble, di Louis Prima, di Irving Berlin, di Goodman, di
Parish, di Sampson, di Oliver Garris, di James Hanley, di Billy
Strayhorn, di Gray Chappell...
— E a me basta averti rivisto, Fofò. Che per una vedova un
grammofono nuovo è inutile tanto quanto uno vecchio. Non lo potrò
mai mettere a suonare a casa mia e la tua ormai l’hai venduta per
andartene a Bruccolino...
— Certo, siamo ospiti dell’albergo Gellia...
— E chi ti portò fin qua?
— Mio marito, con la macchina affittata...
— Ah, non sei più vedova?...
— No, mi sono sposata con un riccone. E sennò come facevo
fortuna? Adesso non sono più Alfonsa Strazzera, ma Alphonsine
Stronnberg...
— Fofò, ti voglio molto bene ma te lo devo proprio dire: sei una
grandissima troia.
— Ma che dice, donna Giovà...
— No, non è per il fatto che l’hai data a tutti i maschi che hai
trovato per strada nel vecchio e nel nuovo mondo. Questi sono affari
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solo tuoi. Ma perché me l’hai voluto dare a bere a me, la tua migliore
amica. E ancora insisti nel prendermi per il culo.
— Ma come, donna Giovà?...
— Ma ti pare che non lo sapevo cosa avete combinato, tu e Totò?
E don Luvici, che ci doveva bagnare il pane anche lui? E che voleva
farmi sfrattare dalla mia casa di proprietà per togliermi di mezzo
mandandomi a stare a Bonamorone, in una casa popolare?...
— Ma che dice, donna Giovà?...
— Chiamalo a tuo marito che glielo dico in faccia anche a lui.
Alphonsine/Fofa si affacciò al finestrone che dava sul lato di via
Teatro e chiamò:
— Vieni, Yuri.
— Ah, si è cambiato anche il nome? E Bravo. Certo, è bastata una
lettera, Yuri, invece di Turi, Turiddru, Salvatore... Totò, vieni pure che
non ti mangio.
Dal finestrone, si vedeva benissimo il giovane autista dai capelli,
basette e baffetti rossicci, che cercava di proteggersi dal sole cocente e
dagli sguardi dei curiosi con il panamà fiammante. Elegantissimo, nel
suo vestito di lino impeccabilmente stirato, portava in braccio un
bambino di pochi mesi d’età, mentre sul sedile di dietro della
millecento sedevano tre altri bimbetti, cheti e indifferenti a quanto
succedeva loro intorno.
Vennero tutti in fila indiana, adagio adagio, con il loro papà
dietro. Si accomodarono sul piccolo sofà di vimini e Giovanna potè
osservare i lineamenti di ognuno. Il piccolo in braccio aveva la faccia
di un cinesino. Degli altri tre, solo il più grandetto si somigliava al
padre, o forse era il padre che aveva cambiato i connotati per
assomigliarsi al figlio. Il secondo aveva la faccia bruna di un siciliano,
ma il terzo aveva tutte le fattezze di un negretto.
— Totò, non l’ho detto mai a nessuno, ma a te lo posso dire: sei un
gran cornuto. Che hai fatto in faccia per trasformarti in un
continentale? E a chi vuoi turlupinare con i tuoi capelli ossigenati? Te
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lo dovevi immaginare che io l’avrei capito subito che il morto non eri
tu.
— Donna Giovà, mi deve scusare, ma che vuole che facessi in
quel momento? Che morissi anch’io o che accettassi la vita intera la
fama di cornuto? O che uccidessi mia moglie per salvare l’onore? Ho
fatto di necessità virtù.
— E perciò hai mandato Fofa a consigliarsi con don Luvici, che ha
montato la farsa. Hai scambiato i documenti con il povero sfortunato e
ti sei nascosto mentre ti facevano i funerali, fino a quando ti sei potuto
imbarcare nel bastimento insieme alla tua falsa vedova.
— Eh, l’America, donna Giovà, mi ha insegnato almeno questo,
che è meglio essere ricco, anche se ruffiano, che povero e cornuto per
giunta — ponderò Totò.
— Ma le posso assicurare che Yuri è morto felice... — aggiunse
Fofa.
— Ah, su questo non ho il minimo dubbio. E anche voi siete
rimasti tutti felici e contenti... Ma ora basta. Ormai è acqua passata. E
facciamo anche questo strappo alla regola. Fofò mettimi uno dei tuoi
nuovi swing. Ma non dimenticarti poi di metterci anche il mio ‚Singhi,
singhi, singhi‛.
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Giovanna e la Ferrari
(da ‚La mia Landau (ed altre storie)‛ On demand su
http://www.progettobabele.it/butera/libro.php)
Giovanna tornò a casa e non vi trovò nessuno. Concettina, vabbé,
era in collegio, Vanniddru e Munniddru, per i fatti loro, ciascuno con i
propri amici ammaccabàsole, ma Ninniddru, come mai non era come
al solito a fare i compiti?
Il sangue le salì alla testa e la scena mai dimenticata della
scomparsa del figlio piccolo quando era proprio piccolo, le invase il
cervello come un lampo.
A quei tempi, Giovanna, vedova da qualche mese, aveva
un’anziana serva, il cui unico compito era quello di badare al
bambinello e, quando a questi non erano neanche spuntati ancora i
denti di latte, era lei a masticargli il pane con i pochi denti che le
rimanevano. E in un attimo di distrazione della vecchia balia asciutta,
il piccolo era scomparso. Incredibile, ma vero.
In preda alla disperazione, Giovanna si appigliò a tutte le ipotesi e
congetture che le elargivano a piene mani la sorella Enzuccia, la vicina
Fofa, la comare Filomena, il putiaro don Ciccio, tutti. Alla fine, con
uno sforzo immenso per cercare di frenare il batticuore, Giovanna
prese la decisione più giusta, approfittando del pomeriggio ancora
luminoso di piena estate: ricorrere all’abbanniatore.
L’abbanniatore era un omone dalla pancia rispettabile. Dotato di
una voce stentorea, si guadagnava il pane gridando il giorno intero ai
quattro venti gli annunci che gli affidavano ricchi e poveri, dietro
congruo compenso. Senza bisogno di megafono o di altoparlanti,
l’inserzione pubblicitaria era fatta letteralmente a viva voce.
— A chi ha trovato un picciliddru ...
Dal vicolo degli Impallomeni, con i fratellini del bimbo
scomparso dietro, sbucava sul piano Lena già con un corteo
considerevole di ragazzi e sfaccendati vari, proseguendo la scalata
dell’erta via Bacbac, sulle bàsole di basalto su cui le ruote dei carretti
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producevano quel rumore che aveva conferito l’onomatopeico nome
alla salita, su su verso il ventoso quartiere di Bibirria, l’araba ‚porta dei
venti‛, appunto.
— Che? Non sia mai dio. Un picciliddru s’è perso? E come mai? E
di chi è figlio? Poveretta sua madre —. Le voci della gente, come in
una festa di paese, si rincorrevano, si accavallavano, si scontravano con
quella da trombone dell’abbanniatore, che sembrava il pifferaio
magico della favola dei fratelli Grimm, con quello stuolo di ragazzi
dietro, pur senza musica e senza canti.
Munniddru, con le mani dietro, incedeva tutto impettito,
compenetrato nell’alta funzione di fratello maggiore, come un
dignitario di corte preceduto dall’araldo. Appresso a lui veniva
Vanniddru, che trascinava per mano Concettina con la sua bambola di
pezza.
All’imbocco di via San Michele, una donna venne fuori dall’umile
tugurio dove abitava e si fece strada tra la calca appena formata dai
curiosi del quartiere.
— Avvossìa, l’ho trovato io il bambino e l’ho messo a dormire nel
mio letto —. Fatto. Il mistero era risolto. — Era stanco poverino, a tratti
si faceva la salita carponi, che a stento ha imparato a camminare. Gli
ho preparato un biberon e si è subito addormentato.
— Ti dovessero ammazzare li cani! — Così Giovanna accolse il
figlio appena ritrovato, come qualunque madre siciliana avrebbe fatto.
Frasi terribili, maledizioni sproporzionate anche al cospetto di un figlio
con più dell’anno e mezzo di vita che Ninniddru aveva allora. — Botta
di sangue! Ti dovesse venire un colpo! — Per poi affogarlo di baci con
gli epiteti più spasimanti — Fiato mio! Sangue del mio cuore! Cosa
dolce! Pupetto di zucchero!
In ogni modo, pensava con tristezza, quel piccolo che la aiutava a
dura pena a colmare un po’ del vuoto lasciato dal giovane marito, con
quel piede lungo che già si ritrovava, ne avrebbe sicuramente fatta di
strada.
E ora, a otto anni, era scomparso di nuovo.
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Purtroppo, ormai nessuno più faceva l’abbanniatore, che la radio
era divenuta un elettrodomestico presente anche nelle case più povere
e notizie come la scomparsa di un bambino finivano per raggiungere
le orecchie di tutti gli abitanti dell’isola.
Giovanna si mise immediatamente a ragionare con le
supposizioni più attendibili, ma si ricusò fin dall’inizio di stare a sentire
la sorella Enzuccia, le comari, le vicine, il putiaro e il calzolaio. Stavolta
preferì andare difilato dalla polizia. Ed era già buio.
Per fortuna davanti al portone del tribunale di via Bacbac c’era il
maresciallo Giammusso dei vigili urbani, ancora e sempre maresciallo.
— Marescià, forse lei mi può aiutare. Hanno rapito mio figlio.
— Ma che dice, donna Giovà? E come fu?
Quel posto esagitava oltremodo l’immaginazione di Giovanna con
il ricordo delle facce patibolari dei detenuti, intraviste per un istante
tra le teste dei carabinieri alla discesa dalla cellulare, mentre si
avviavano, oppressi dal peso delle manette e dall’obbrobrio della folla
di curiosi, verso il giudizio e la condanna.
Accanto al tribunale c’era poi un macellaio, presso cui ogni
venerdì scaricavano i quarti di bue, marchiati in blu dall’ispezione
veterinaria, che sembravano squallide deposizioni dalla croce, di
esangui cadaveri martoriati.
Tutto parlava di violenza e di crimini, proprio davanti alla scuola
comunale che riempiva di grida infantili la strada intera, ogni
qualvolta suonava la sua festante campanella della fine delle lezioni. E
i gruppi di ragazzi che giocavano ai nìchili o al soffio delle fatidiche
figurine o si azzardavano nei carrettini con i cuscinetti a sfere sul piano
inclinato del marciapiede cementato. Tutto parlava altrettanto di gioia
e di vita. Da godere e da preservare.
Giovanna non versava una lacrima, ma l’affanno aveva fatto
impallidire quel volto roseo, paffuto e volitivo.
— Questi zingari che circolano ogni tanto dalle nostre parti. O
certi malintenzionati come quello che ha le stesse generalità di mio
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figlio Munniddru e che ci ha fatto stirare il collo per poter fargli
ripulire la fedina penale. O malandrini come quel nostro conoscente
che mandava lettere minatorie ad amici e parenti, per servire da
murobasso ai capi mafia del paese.
— Ma suo figlio adesso è cresciutello e mi pare abbastanza
sveglio.
— È vero, ma sempre picciliddru è. E ancora molto innocente.
— Lei se ne torni a casa. Ci penso io a mobilitare la polizia,
qualora tardasse a farsi vivo. Purtroppo domani sarò ancora in servizio
per via della corsa. Ah, se almeno potessi prevedere chi vincerà —
soppesò triste il maresciallo Giammusso.
— Che corsa? Ah, è questo, la corsa! Ma che smemorata che sono.
Come mi era potuto sfuggire. È per domani mattina..
— Non lo sapevate?
— Certo che lo sapevo. Ma mi è svanito dalla mente. Quei
discolacci il pesce d’aprile mi hanno fatto. Ma questa me la pagano —.
E Giovanna se ne scappava via come un razzo, imprecando ai figli
maschi che si stavano portando sulla mala strada anche il piccolo e
alla memoria che le stava cominciando a giocare dei brutti scherzi e a
questa vita disgraziata che l’avrebbe portata alla rovina —. E potete
giocarvi la scommessa, marescià, che la corsa la vince la Ferrari.
— E come lo sa?
— L’anno scorso non hanno forse vinto i fratelli Bornigia con
l’Alfa Romeo?
— Sì.
— Nuvolari non si è dovuto ritirare per un guasto nella sua
Cisitalia-Abarth 204?
— Sì, ma che c’entra con la corsa di quest’anno?
— La Ferrari di Bernabei e Pacini non è arrivata seconda e quella
di La Motta e Alterio terza?
— Sì, è vero. E, a proposito, come fa a sapere tutte queste cose? —
si sbalordiva il maresciallo.
— È come uno e due che fanno tre. Lo so e basta!
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Era successo venti giorni prima. Ninniddru voleva vedere la corsa
e Vanniddru, in un raro accesso di generosità, era disposto a portarselo
dietro.
— Ma ancora è troppo piccolo — obiettava invariabilmente sua
madre, tutte le volte che le uscite dei figli più grandi coinvolgevano il
cacanido.
— Mamà, è la Targa Florio, la corsa di automobili più antica del
mondo, che quest’anno passa di nuovo dalla nostra città.
Vanniddru sapeva che convincere sua madre sarebbe stato
difficile, ma non si aspettava che lo fosse tanto.
— E dove me lo vuoi portare?
— A Porta di Ponte, a casa del mio amico Gerlando. Così ci
svegliamo presto e in un salto arriviamo a Piazza Stazione.
I primi bolidi sarebbero infatti passati all’alba dalla Passeggiata, il
maestoso viale che prolunga lo spiazzo antistante la stazione centrale.
Da casa loro fino a Porta di Ponte bastavano in realtà dieci minuti
appena, percorrendo a piedi l’intera via Atenea, il decadente salotto
della cittadina. Ma i giovincelli ci tenevano a passare la notte svegli, a
giocare a carte e a riscaldare i motori del tifo per l’indomani.
Ninniddru se ne stava in un angolo ad ascoltare in silenzio i due
che mercanteggiavano la sua prima notte fuori casa.
— Mamà, è un’occasione unica per vedere la Ferrari.
— E che premura c’è? Quando cresce la vede.
Non c’era verso. Vanniddru finì per desistere. Chi invece riuscì a
piegare l’intransigenza di Giovanna, anche se lei non l’ammise mai
esplicitamente, fu proprio Ninniddru, che si dispose a elucidarle per
chi e per come tutta la gloriosa storia della Ferrari.
Era lui infatti il fortunato e geloso possessore di un intero
scatolone pieno di figurine, ritagli di giornale, opuscoli illustrativi e
persino un poster del gran debutto di Ascari nel campionato del
mondo di Formula 1, in occasione del Gran Premio di Monaco
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dell’anno prima, su di una fiammante Ferrari 125 F1. A tutti gli effetti,
però, per il piccolo l’interdizione continuava.
— Mamà, ma lo sai almeno chi è Enzo Ferrari?
— Chi sarebbe costui? — Allora, lei lo ignorava proprio. Ma
avrebbe scoperto un giorno, sempre dall’informatissimo Ninniddru già
più avanti negli studi, che un certo scrittore aveva reso celebre da
tempo quella stessa risposta/domanda, in bocca a un oscuro curato di
campagna, a riguardo di un altrettanto oscuro personaggio del passato:
‚Carneade... Chi era costui?‛.
— Devi sapere che Enzo Ferrari da piccolo faceva il maniscalco,
ma a vent’anni ha vinto la sua prima grande corsa ad Acerbo, battendo
le Mercedes che arrivavano proprio dal successo alla Targa Florio.
— E qui ad Agrigento, correrà pure lui?
— No, mamà, oramai è troppo vecchio per correre. Adesso è il
padrone della scuderia Ferrari.
E lì a spiegarle che Enzo Ferrari non era tornato in una scuderia a
fare il maniscalco, ma che ora faceva l’industriale e che il probabile
campione della corsa di quella Targa Florio sarebbe stato il suo pilota
principale, Alberto Ascari, appunto, come nel passato lo era già stato
Tazio Nuvolari.
— E che si sono messi d’accordo? Ferrari, Ascari, Nuvolari...
A poco a poco la mamma si andava interessando all’argomento,
immedesimandosi sempre più in ogni particolare che il piccolo le
illustrava. Scoprì inoltre lo scatolone sotto il letto del ragazzo e si rese,
in poco tempo e all’insaputa di tutti, una ferratissima ferrarista. Era
oramai rapita dall’incantesimo di quelle storie fantastiche e si rese
conto che, alla fine, avrebbe ceduto.
Ma quel giorno, impegnata com’era a sgobbare nelle cucine del
Collegio Zirafa, dove aveva accettato l’impiego di aiuto cuoca, si era
completamente dimenticata della faccenda, e i ragazzi, dal canto loro,
sicuri che non avrebbero mai ottenuto il permesso, decisero di
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arrischiare ugualmente il loro progetto, senza l’autorizzazione
materna.
Alle nove di quella sera, Ninniddru aveva già gli occhi a
pampinella, che era l’ora in cui era abituato a dormire. E quanto più si
sforzava di tenerli aperti e più crollava dal sonno.
I giovanotti accomodarono alla meglio il bambino su un divano e
neanche la baraonda che si susseguì, tra risate, grida di vittoria di chi
vinceva e di disappunto di chi perdeva, nuvole di fumo e fumi alcoolici
dei più, riuscì a distoglierlo dai suoi sogni d’oro.
E quando, ancor prima dell’alba, i giovani tifosi dovettero proprio
andare, per assicurarsi i migliori posti dietro le transenne a San Calò,
non ebbero il coraggio di svegliare Ninniddru, che continuava a
dormire beatamente. Tanto c’era il portinaio dirimpetto, che, vigile e
ben disposto, sarebbe potuto accorrere a qualsiasi evenienza.
L’aurora dorava già piazza Stazione rigurgitante di gente quando
cominciò ad arrivare dalla valle dei templi il ringhio dei bolidi che
risalivano la passeggiata archeologica.
In quel momento, una voce di donna sovrastò il ronzio distante
dei motori e il crescente clamore della folla.
— Vannì, Munnì, vi dovessero...
— Mamà — risposero all’unisono Vanniddru e Munniddru colti
dallo spavento, mentre vedevano la loro madre ingigantirsi come una
valanga nera in loro direzione. Giovanna, con il volto infuocato e gli
occhi fuori dalle orbite, veniva portandosi in braccio Ninniddru, i cui
piedi quasi strisciavano sul selciato da quanto era cresciuto e, ormai
svegliato dalle grida, si divincolava come poteva dagli eccessi della
protezione materna.
— Così vi siete presi cura del nicarello, figli di...?
In quanto non si avvistavano le prime macchine, il centro delle
attenzioni era divenuto quel singolare e rumoroso nucleo familiare. E
sicuramente dalla testa di non pochi scommettitori inveterati deve
essere passata l’idea, una volta che c’erano, di giocarsi qualcosa su chi
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dei due si sarebbe per primo guadagnato una sberla o chi avrebbe
inventato la scusa più fantasiosa per sfuggire alle ire della madre.
Per fortuna gli astanti furono subito richiamati al motivo
principale di quell’assembramento. La prima macchina da corsa
spuntava difatti da dietro la caserma Crispi e in un batter di ciglia
arrivava in piazza per fare l’inversione di marcia ed entrare
trionfalmente nel viale delle Vittorie, sotto le acclamazioni della folla.
— È una Ferrari, mamà — gridò giulivo Ninniddru, il cicerone
personale di Giovanna.
— Ma non mi avevi detto che le Ferrari sono rosse? Quella, da
come è dipinta, sembra un carretto siciliano.
— Mamà, è un modello nuovo fatto a piacere del pilota riccone
che se l’è comprata e ha contrattato un pittore siciliano per adornarla
con i motivi folcloristici dei carretti, in omaggio al giro di Sicilia
appunto.
— E Ascari, dov’è, che non l’ho visto?
— Mamà, quello si sta preparando per il campionato mondiale e
non è venuto in Sicilia.
Dopo un po’, altri bolidi passarono sfrecciando fulminei, sotto le
ondate assordanti dell’effetto doppler. Altre Ferrari, Stanguellini, Alfa
Romeo, Lancia, Maserati, Mercedes-Benz...
Pochi istanti di spettacolo avrebbero fornito innumerevoli spunti
di conversazione a tutto un popolo, per molto e molto tempo ancora.
Riconciliata sotto l’egida della Ferrari, la famiglia Impallomeni se
ne tornava a casa definitivamente unita e appagata dalla gioia comune
e sottomessa come non mai all’incontestabile matriarcato di Giovanna.
Quel primo aprile 1951, la Ferrari con la nuova vettura 2560/212
Export del conte Vittorio Marzotto, il ‚carretto siciliano‛, vinse
l’undicesimo Giro di Sicilia, percorrendone i mille e ottanta chilometri,
alla straordinaria media di cento chilometri all’ora. Secondo fu Taruffi
con una macchina identica.
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In un incidente nei pressi di Priolo, avevano perso la vita il barone
Stefano La Motta e Franco Faraco.
Ascari quell’anno arrivò secondo in formula uno, dietro Fangio,
ma l’anno dopo fu primo e, nel cinquantatre, si mise in tasca lo stesso
Fangio, il quale finì per diventare a sua volta pilota della Ferrari, e
vincere la gara, nel cinquantasei.
Il maresciallo Giammusso divenne anche lui uno sfegatato
ferrarista. Per sempre.