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TALAMONA per due giovedì di febbraio e due di marzo uno si e uno no GIOVEDI’ LETTERARI QUATTRO INCONTRI ALLA SCOPERTA DEGLI AUTORI VALTELLINESI E DELLE LORO OPERE di Antonella Alemanni In principio erano i focolari dove gruppi di uomini si trovavano per raccontarsi le giornate, fatte prevalentemente di battute di caccia. Poi sono venuti i simposi greci, i banchetti romani, le corti del medioevo e del rinascimento e più avanti i salotti e i caffè mentre nei contesti contadini per secoli e secoli si è avuta la realtà delle veglie con tutti che stavano nelle stalle a raccontarsi le storie e la vita. La casa Uboldi si propone come una particolarissima sintesi di tutte queste realtà, ne evoca gli echi di serata in serata, di evento in evento durante i quali si è parlato di tutto. Dall' arte alla memoria storica, dagli sport di montagna ai viaggi, disquisizioni religiose e persino lezioni di astronomia oltre naturalmente la letteratura. Siamo pur sempre in una biblioteca e la biblioteca è fatta in primo luogo di libri da presentare, commentare, condividere, libri di cui discutere con chi li ha scritti per arricchirsi e aprire nuovi orizzonti, nuovi percorsi. È con questo spirito che il gruppo dei volontari della biblioteca ha voluto proporre questo ciclo di serate denominate GIOVEDI’ LETTERARI che ricordano anche nella dicitura un sapore di altri tempi quando animare salotti era una sorta di moda, un fenomeno di costume cui chi voleva essere dentro lo spirito del tempo doveva attenersi (pare che anche Margherita di Savoia quando stava al Quirinale organizzasse in casa sua degli eventi, dei salotti culturali che in tutta Roma erano diventati famosi proprio con la dicitura di giovedì letterari). Ed è così che a partire da giovedì 4 febbraio, un giovedì si e uno no fino al 17 marzo, ci si è ritrovati alle 20.30 per dare spazio e voce a quattro autori che attraverso racconti, poesie e riflessioni vogliono proporre ciascuno la propria personale visione del Mondo. Giovedì 4 febbraio 2016 VENTIDUE RACCONTI E UNA POESIA PER UNA RIBELLIONE GRAVIDA di Al Jahel Se non in una biblioteca in quale altro luogo si può parlare di libri, di letteratura, promuovere nuovi scritti, nuove leve. Poteva dunque mancare nel calendario degli eventi della biblioteca una serie di serate dedicate alla letteratura? Ovviamente no. Ecco

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TALAMONA per due giovedì di febbraio e due di marzo uno si e uno no

GIOVEDI’ LETTERARIQUATTRO INCONTRI ALLA SCOPERTA DEGLI AUTORI VALTELLINESI E DELLE LORO

OPERE di Antonella Alemanni

In principio erano i focolari dove gruppi di uomini si trovavano per raccontarsi le giornate, fatte prevalentemente di battute di caccia. Poi sono venuti i simposi greci, i banchetti romani, le corti del medioevo e del rinascimento e più avanti i salotti e i caffè mentre nei contesti contadini per secoli e secoli si è avuta la realtà delle veglie con tutti che stavano nelle stalle a raccontarsi le storie e la vita. La casa Uboldi si propone come una particolarissima sintesi di tutte queste realtà, ne evoca gli echi di serata in serata, di evento in evento durante i quali si è parlato di tutto. Dall' arte alla memoria storica, dagli sport di montagna ai viaggi, disquisizioni religiose e persino lezioni di astronomia oltre naturalmente la letteratura. Siamo pur sempre in una biblioteca e la biblioteca è fatta in primo luogo di libri da presentare, commentare, condividere, libri di cui discutere con chi li ha scritti per arricchirsi e aprire nuovi orizzonti, nuovi percorsi. È con questo spirito che il gruppo dei volontari della biblioteca ha voluto proporre questo ciclo di serate denominate GIOVEDI’ LETTERARI che ricordano anche nella dicitura un sapore di altri tempi quando animare salotti era una sorta di moda, un fenomeno di costume cui chi voleva essere dentro lo spirito del tempo doveva attenersi (pare che anche Margherita di Savoia quando stava al Quirinale organizzasse in casa sua degli eventi, dei salotti culturali che in tutta Roma erano diventati famosi proprio con la dicitura di giovedì letterari). Ed è così che a partire da giovedì 4 febbraio, un giovedì si e uno no fino al 17 marzo, ci si è ritrovati alle 20.30 per dare spazio e voce a quattro autori che attraverso racconti, poesie e riflessioni vogliono proporre ciascuno la propria personale visione del Mondo.

Giovedì 4 febbraio 2016 VENTIDUE RACCONTI E UNA POESIA PER UNA RIBELLIONE GRAVIDA di Al Jahel

Se non in una biblioteca in quale altro luogo si può parlare di libri, di letteratura, promuovere nuovi scritti, nuove leve. Poteva dunque mancare nel calendario degli eventi della biblioteca una serie di serate dedicate alla letteratura? Ovviamente no. Ecco dunque come nel corso dei prossimi due mesi ogni 15 giorni per quattro giovedì tra febbraio e marzo avremo quattro libri e quattro autori. In ordine di apparizione Al Jahel che parlerà questa sera, Giusy Gosparini, questa sera tra il pubblico, ma che avremo il piacere di ascoltare tra due settimane e poi Bruno di Giacomo Russo e Giacomo Gusmeroli per gli ultimi due incontri. Persone che attraverso le loro parole scritte si fanno promotrici di una scrittura che veicola riflessioni e dibattiti riguardo a varie tematiche legate soprattutto alla poesia, alla narrativa all’attualità. Un occasione per il pubblico di sperimentare il potere unificante della cultura e la positività dei libri che nell’epoca della comunicazione digitale rischiano di scomparire. Chi è il nostro ospite di stasera accompagnato da Elisa Ronconi? Con la sua opera 22 RACCONTI E UNA POESIA PER UNA RIBELLIONE GRAVIDA egli è un ribelle dei nostri giorni, una sorta di contestatore, un visionario, che, attraverso la scrittura, apre una finestra su quel grande teatro dell’assurdo che sta diventando sempre più l’esistenza umana. Ed è questa una serata letteraria che ha lo scopo di scuotere le coscienze e stimolare la riflessione, affinchè, come si propone lo stesso autore nell’introduzione del libro, l’umanità si ponga la domanda “che cosa stiamo facendo?”. Non per niente tutto il corso della storia umana è stato determinato da ribelli e contestatori. Sono queste figure a rendere la storia un fluire dinamico salvandoci dall’immobilità che può portare anche all’annullamento. Infatti una volta qualcuno ha detto che se nessuno si fosse lamentato della vita nelle caverne e non avesse cominciato a costruire palafitte l’umanità dalle caverne non sarebbe mai uscita. Ecco perché se è vero che l’umanità ha bisogno di eroi è ancor più vero che essa ha bisogno di persone di questo genere, visionari, nonché

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di serate imperdibili come questa. Così l’assessore alla cultura Lucica Bianchi (riprendendo in larghissima parte le parole del comunicato stampa scritto da me per promuovere l’evento) ha introdotto la serata prima di passare la parola al protagonista Al Jahel, classe 1983. Mi permetto di far notare, ha esordito Al Jahel, che c’è un poeta italiano che diceva “uomo tu che sei ancora quello della clava” e dunque chissà se da quelle caverne ci siamo usciti del tutto. Dopo questo commento iniziale che si riaggancia al discorso introduttivo (la più bella presentazione ricevuta secondo Al Jahel) dopo tutti i ringraziamenti del caso la serata è potuta finalmente entrare nel vivo.Il libro si compone di 22 racconti cui corrisponde per ciascuno un’illustrazione, ha spiegato ancora Al Jahel, la parte illustrativa del libro è stata curata da Elisa Ronconi. Ed è quest’ultima che ha a questo punto preso per un attimo la parola. Io ho ricevuto il manoscritto di questo libro, che ancora non si componeva di 22 racconti, ma era fermo a 16, nel 2012 il giorno del mio compleanno e Al Jahel si è presentato con questo libro invitandomi a leggerlo e chiedendomi se avessi avuto voglia di realizzare le illustrazioni. All’interno del manoscritto lui aveva già messo parecchi schizzi con degli appunti, delle spiegazioni a mo’ di suggerimento, ma a voce mi ha poi dato carta bianca. Il risultato è stato quello di mettere in evidenza nel libro due visioni differenti, una maschile e una femminile. Nel libro ci sono tantissimi racconti che lui aveva interpretato in una maniera più violenta, più cruenta, ai quali io ho abbinato disegni molto più dolci che ho impiegato un po’ ad elaborare, però alla fine, man mano che presentavo le varie tavole, le nostre visioni hanno trovato modo di conciliarsi, i racconti aumentavano di numero, è arrivata ancora qualche dritta e così alla fine il libro è stato realizzato, una bellissima esperienza, un bel percorso, un prodotto che alla fine si può definire completo grazie a queste due visioni. Ho cercato di fare delle illustrazioni che non c’entrassero niente con le vere immagini dei racconti, ho cercato di esprimere nei disegni (di cui l’autrice ha portato l’album con le tavole originali ndr) cio che i racconti mi evocavano di modo che quando i racconti vengono letti anche le illustrazioni vanno interpretate. E ora di nuovo Al Jahel. Diciamo che dal paesaggio frastagliato dei miei racconti a livello letterario, Elisa ha saputo far cadere la neve che ha addolcito e smussato gli spigoli ed è stata una bella esperienza, perché nonostante la neve la roccia rimane roccia e nonostante la roccia la neve resta neve. Dopo queste riflessioni preliminari Al Jahel ha spiegato in che modo ha pensato di articolare, d’accordo con Elisa Ronconi, questa serata. Noi avremmo intenzione, ha dichiarato, di leggere uno dei racconti, cio richiederà una ventina di minuti che Elisa ha pensato di dividere in primo e secondo tempo per lasciare spazio, nell’intervallo, a riflessioni e commenti, io mi sono appuntato qualche pensiero, ma ovviamente chiunque tra voi può intervenire per aggiungere il suo pensiero, perché la cultura, che io non pretendo di fare, la si costruisce proprio così. Il tema del racconto che leggerò è un tema molto natalizio che ha per protagonista Gesù, che, voglio precisare, in queste righe, non è assolutamente bersaglio di una satira, ma è, ancora una volta, vittima dell’essere umano. Infatti, la satira di queste parole, che forse alla vostra sensibilità possono risultare un po’ forti, cosa per cui mi scuso anticipatamente, è proprio l’essere umano perché non sa gestire nemmeno Gesù. Il titolo del racconto è LA VENUTA DEL MESSIA. In questo racconto l’autore immagina che Gesù torni di nuovo a mescolarsi tra gli umani nel Mondo di oggi per rendersi conto che ben poche storture sono migliorate rispetto a quando è stato tra gli umani la prima volta e soprattutto che, ancora una volta, nessuno sembra riconoscerlo. Voglio precisare, ha ripreso a spiegare Al Jahel dopo la lettura della prima parte del racconto, ad ogni modo che l’utilizzo, il prendere a prestito la figura di Gesù, è determinato dal fatto che noi, per via della nostra tradizione religiosa, abbiamo certamente a che fare con la figura di Gesù Cristo, ma se fossi stato in un altro Paese avrei potuto prendere a prestito il nome di un altro profeta (personalmente non posso fare a meno di dire di aver pensato che prendere a prestito il nome di Maometto, non sembra particolarmente consigliabile ndr) perché questa non è una questione del cristiano che sbaglia a trattare con Gesù, bensì una questione dell’essere umano che sbaglia a trattare con Dio e questo voglio che sia chiarissimo. A questo punto Al Jahel, ha voluto sottoporre al pubblico i suoi appunti realizzati allo scopo di sviluppare un breve discorso riguardante i rapporti degli esseri umani tra loro e anche con il divino. I rapporti tra di noi si possono caratterizzare tutti come diretti da un sistema gerarchico maschile. Noi non siamo

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forse inseriti in gerarchie dove per qualcuno siamo i gerarchi e per qualcun altro i sudditi? Viene da pensare che i ruoli, che sono precipui, determinati per ogni persona in base alle sue propensioni, le sue prospettive, le sue capacità, sono certamente un qualcosa che dona unicità all’individuo che la possiede. Tuttavia, se qualcuno attribuisce al suo ruolo una certa importanza, mettendosi al di sopra di qualcun altro, non abbiamo più la giustezza del ruolo, ma abbiamo, secondo me, l’errore della gerarchia. Posso fare alcuni esempi di quelli che sono i rapporti gerarchici in questo mondo. Il primo non può che essere il rapporto tra il maschio e la femmina (e non dico volutamente l’uomo e la donna). Noi ci siamo sviluppati un po’ ovunque su questa terra senza avere per parecchio tempo la possibilità di disporre di tecnologie all’avanguardia e neanche quelle più semplici all’inizio, ma le uniche risorse di cui potevamo disporre ce le forniva esclusivamente il nostro corpo. È indubbio che il corpo dell’uomo dispone di una forza maggiore, che non è una maggiore resistenza al dolore, perché in questo sono le donne ad avere maggiori risorse, ma è semplicemente, ad esempio, la capacità di spostare una pietra e certamente in passato ci saranno stati degli uomini che hanno dovuto spostare delle pietre che le donne non riuscivano a spostare. Dopo un po’ di spostamenti quegli uomini avranno cominciato a pensare “io la pietra la so spostare, le donne no”. Da qui a pensare di potersi eleggere a re il passo è stato molto breve. Psicologicamente parlando credo che l’idea di grandezza che suscita un re non è esattamente allo stesso livello che potrebbe evocare la grandezza di una regina, bensì, un gradino più alto. il re è dunque il gerarca dei suoi sudditi, ma come è possibile che uno solo debba dire a molti che cosa devono fare. Al giorno d’oggi ci sono più presidenti che re, ad ogni modo ci sono i capi d’azienda e per certi versi gli allenatori di calcio. I re hanno bisogno di qualcuno per continuare a stare dove stanno e l’esercito non è forse uno dei più efficaci esempi di sistema gerarchico con cui abbiamo saputo costituirci? C’è un detto che recita “armiamoci e partite”. Il che significa che i generali dicono di armarsi poi i soldati partono e muoiono e infine sono i generali ad essere decorati. Bisogna tener presente che tali categorie sono applicabili all’interno di qualsiasi nostra struttura persino la famiglia. Poi ci sono altri due esempi, forse un po’ più labili, ma vorrei che comunque tutti ci riflettessero. C’è la gerarchia che divide i mondi che non rientra nei confini geografici, spesso anch’essi frutto della nostra incapacità di gestirci, ma è quella gerarchia di un sedicente primo mondo che dice che esiste il secondo mondo, il terzo e adesso hanno inventato anche il quarto ultimamente. Il primo mondo che è ricco ed è certamente maschio e re (anche se a ben guardare le donne, in un modo o nell’altro, se la passano male un po’ ovunque; l’infibulazione alle donne, ad esempio, la praticano quelle società che fanno parte del terzo mondo non gli stati del primo e del secondo i quali in compenso elaborano altri metodi, più subdoli di dominazione ndr) e certamente questo primo mondo deve dire a tutti gli altri cosa deve fare. Infine c’è un quinto esempio. La gerarchia del bianco contro nero. Quel primo mondo che ancora così non era arrivato a definirsi, perché evidentemente mancava ancora quel pizzico di fantasia che gli Stati Uniti hanno saputo apportare, aveva pensato di raggiungere i popoli al di la del Sahara dicendo di essere un popolo eletto. Un popolo coi capelli biondi e bianco. Come fa un popolo, che è così simile a Dio, un popolo che ha fatto Dio a sua immagine e somiglianza e non viceversa, come fa quel popolo a non andare nei paesi africani e dire “qui comandiamo noi”? il problema è che, per una sorta di aberrazione mentale, comune a tutti gli esseri umani, i sudditi finiscono col credere di essere inferiori a chi li governa. Storicamente, in questo esempio, il nero ha creduto di essere inferiore al bianco e tutti hanno dovuto aspettare persone come Malcolm X negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, uno sportivo come Muhammad Alì, per cercare di ridare un certo tipo di dignità ai popoli di colore. Non so se sia stata ripresa da tutti quanti e questo è un gran peccato. Se questi cinque esempi, applicati su così larga scala, arrivano capillarmente all’interno della psiche di ognuno, ebbene forse dovremmo seriamente chiederci che tipo di mondo abbiamo creato con questo vassallaggio psicologico che fa da base d’appoggio per la piramide sociale in cui siamo inseriti. Come dicevo prima, il problema è che questa piramide è una piramide a gradoni, all’interno della quale ogni gradone è nettamente diviso dagli altri, dal precedente e dal successivo, dove ognuno è l’aguzzino di chi sta sotto e il servo di chi sta sopra fino ad arrivare ad

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un vertice che, sino ad oggi, abbiamo avuto la magia di non identificare nemmeno più in una persona, ma in un’entità astratta (ma non troppo ndr) che oggi potremmo chiamare mercato. E che cos’è il mercato? Non lo so. Forse l’interesse, forse il risultato dell’idolatria umana verso un nuovo Dio, il dio soldo, che nei giorni di Natale vive i suoi giorni di maggior splendore. La seconda parte del racconto di Al Jahel è proseguita proprio con Gesù Cristo che osserva i negozi che sotto Natale sono pieni di merci. Lui cerca di fare quello che ha sempre fatto, operare in favore dei più bisognosi e ancora una volta si trova a cozzare contro uno spesso muro di incomprensioni. Ma prima di proseguire c’è stato spazio per un’ultima riflessione. Non so, mi viene davvero di chiedermi, a questo punto, se siamo davvero liberi, specialmente in un’epoca triste come questa purtroppo e dunque noi cercheremo di farci anche due risate. Dopotutto, rispetto a molti altri Paesi nel Mondo, noi qui un po’ più di libertà ce l’abbiamo, ma , mi chiedo, la libertà è così come Dio un assoluto? Possiamo forse avere la libertà in percentuali? O sei libero o non sei libero. O credi in Dio o non credi. E questo ha portato il discorso di Al Jahel ai rapporti col divino. Io credo che Dio sia ovunque perché non è da nessuna parte, ha affermato, mi chiedo dunque perché l’essere umano si impegni, con la diversità delle singole tradizioni, con tutte le distinzioni che ora non possiamo stare qui ad annoverare, insomma perché si ostina a consacrare dei pezzi di suolo, quando tutto il suolo è sacro, quando il nostro stesso corpo è il primo tempio sacro. Dio è principalmente dentro di noi. Parecchie religioni e in primo luogo le due più importanti che ora si fanno la guerra, identificano come la miglior dimora di Dio proprio il cuore e allora perché capitava che nei paesi si ergevano maestose dimore per Dio, certamente più accoglienti rispetto alle case della povera gente che in quei paesi ci viveva in tempi in cui non era esattamente scontato avere una bella casa con tutti i comfort? Perché per molti secoli la gente doveva vedere che la chiesa del paese era più bella di casa propria? Perché l’uomo non è stato capace, e non lo è del tutto neanche oggi, di donare a tutti una casa dignitosa che è il primo nido per una famiglia? Dobbiamo invece costruire case per Dio che non ha mai chiesto case perché non ha casa e non ha bisogno di avere case. Forse perché, come ho detto prima, noi abbiamo fatto Dio a nostra immagine e somiglianza e non viceversa, dunque crediamo che attribuendogli questi regali lo si possa compiacere e noi stessi, in primo luogo i grandi architetti, possiamo tutti compiacerci per dire “questo l’ho fatto io” ovviamente con l’aiuto dei sottoposti grazie alla regola delle gerarchie di cui si parlava prima, per poi arrivare al giorno del giudizio e avere una moneta di scambio per reclamare un angolo di paradiso. Peccato che non si tiene conto del fatto che il giorno del giudizio altro non è che un’allegoria di qualunque giorno. Ogni giorno siamo giudicati da quel Dio che ci guarda attraverso i nostri stessi occhi. È comprensibile che il tempio, per qualunque cultura, svolge un’importante funzione di aggregazione sociale, perché la fede ovviamente si sostiene attraverso la preghiera di gruppo e la ritualità che antropologicamente parlando si possono ben capire. A questo punto per arricchire di ulteriori sfumature questa articolata riflessione, Al Jahel ha nuovamente passato la parola alla sua amica Elisa Ronconi che, come ho avuto modo io stessa di apprendere prima che la serata cominciasse ufficialmente, è una restauratrice con alle spalle, prima degli studi accademici, una maturità scientifica e che è poi divenuta esperta di arte sacra. Il suo intervento è stato una sorta di complemento tecnico al discorso. Ci siamo già trovati ad affrontare questo discorso, una delle prime volte in cui abbiamo letto il racconto stesso, e sicuramente appoggio anche io il discorso dell’esagerazione nella costruzione di edifici troppo eleganti, eccessivamente ricchi di decorazioni, di preziosità. Tutto questo però si può guardare anche da un altro punto di vista. Da restauratrice a me capita di mettere molto spesso mano ad opere frutto del lavoro di molte persone (uomini perlopiù) che non erano altro che semplici artigiani che facevano la fame e si ammazzavano di fatica per mettere in pratica i progetti ideati da famosi architetti, lavorandoci anche per anni interi per creare delle splendide decorazioni, fregi, capitelli e quantaltro o anche solo per intonacare metrature di pareti e soffitti enormi. Ecco dunque come sia il caso di vedere, all’interno di queste opere, non tanto la magnificenza di Dio, quanto più le grandi capacità dell’uomo, soprattutto di quelle persone che lavoravano come artigiani così come oggi non succede più. Il valore di lavorare attraverso le mani e il corpo con i vari materiali si sta perdendo ed è soprattutto da questo punto di

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vista che bisogna prendere in considerazione tutte queste grandi opere, attraverso la forza di piccoli uomini che tutti insieme (e restando anonimi ndr) sono riusciti a creare opere di siffatta grandezza che resistono salde da secoli (anche da millenni se pensiamo alle piramidi; certo qui si parlava perlopiù di cattedrali ed edifici cristiani, ma il principio di fondo è lo stesso ndr). A questo punto anche una signora tra il pubblico ha voluto dire la sua, una signora che ha dichiarato di essere tornata da poco da un viaggio a Roma durante il quale ha potuto vedere da vicino non poche opere significative tra cui la Cappella Sistina. Opere che le hanno dato da pensare. Se non ci fossero state questo tipo di opere ha dichiarato, considerando che bisogna tornare indietro a tempi in cui c’era si miseria, ma il popolo aspirava anche ad una certa spiritualità, che poteva soddisfare attraverso l’osservazione di queste opere, e appunto se non ci fossero state queste opere, queste persone avrebbero non avuto un canale importante attraverso cui coltivare la fede e noi stessi che viviamo nel presente avremmo meno bellezza da ammirare. Io credo che, comunque sia, non condividendo comunque nemmeno io la grandezza, in quanto la religione prescrive che bisogna essere umili e poveri e dunque tutta questa magnificenza contrasta questo principio, però credo allo stesso tempo che il fatto che ci siano queste opere è comunque a suo modo importante e bello, io credo che tutte queste opere fossero un modo per il popolo, che purtroppo per troppi secoli è stato fortemente ignorante, di capire la religione, di conoscere i contenuti delle Scritture (non per niente queste opere sono state definite da molti storici e studiosi la Bibbia dei poveri ndr). Ora, io ho cercato di aggiustare un po’ il discorso della signora, lasciando comunque inalterati nella forma i concetti espressi. La mia tristezza più grande ha osservato a questo punto Al Jahel in risposta a questo intervento è proprio quello che ha detto lei, il popolo è ignorante. Mi chiedo ora quale tipo di conoscenza abbiamo raggiunto, o forse è meglio parlare di consapevolezza, e io quando uso la prima persona plurale mi immagino come il primo della fila. Il punto comunque è proprio questo. L’ignoranza che viene messa al servizio che però permette di esprimere delle facoltà umane elevate. Ma se noi queste facoltà, quelle che ci hanno fatto creare grandi opere, l’arte divina, l’arte come soffio creativo che non si sa da dove viene, ecco se si impiegassero questi soffi anche per altri nobili scopi chissà… è un bene comunque aver trovato un punto d’incontro sul quale potersi confrontare, un modo per mettere un po’ di neve sulle creste del mio discorso, visto che non nevica sulle montagne. Prima di passare alla lettura della seconda parte del brano, Elisa Ronconi ha voluto proporre un’ulteriore riflessione riguardo allo sviluppo dell’arte, soprattutto pittura e scultura che, soprattutto nel periodo rinascimentale, si incanala esclusivamente, per quanto riguarda il territorio europeo, nell’ambito del cattolicesimo, senza quindi dare modo di esprimere arte al di fuori delle tematiche religiose che dovevano in questo modo essere più fruibili al popolo che era ignorante ed era nell’interesse di chi governava che restasse tale, che si sentisse suddito, che si convincesse di esserlo. Questo a differenza di un periodo come quello greco, in cui potevi vedere statue nelle piazze affinchè tutti potessero ammirarle perché erano un patrimonio di tutta la comunità e non, come sarebbe accaduto molti secoli dopo, un’esclusiva della Chiesa e dei ricchi signori che ci abbellivano i loro palazzi. Nella storia dell’arte c’è dunque questa impronta molto forte di asservimento ai potenti che per molto tempo ha incanalato l’arte stessa (gli artisti per molto tempo potevano dialogare solo con i potenti che erano gli unici a poter comprare le loro opere e a garantire loro vitto e alloggio, affrancandoli dalle varie questioni pratiche che li avrebbero inevitabilmente distolti dall’esercizio della loro arte; se gli artisti non avessero potuto contare sulla protezione dei potenti avrebbero dovuto fare altri mestieri, dedicarsi ad altre arti, magari più democratiche, più socialmente utili, chessò avrebbero fatto i fornai, visto che, infondo, anche fare bene il pane è un arte e il pane, a differenza delle opere d’arte, serve davvero a tutti; dover contare sulla protezione di qualcuno però implica inevitabilmente una forte limitazione della libertà creativa e bisogna considerare che non sempre i rapporti coi committenti erano idilliaci; Ariosto per esempio, ha sempre dichiarato di trovarsi malissimo alla corte degli Estensi ndr). A questo punto è arrivato il momento di proseguire con la lettura del racconto. Di questa seconda parte vorrei dire giusto due cose ha dichiarato Al Jahel al termine della lettura, la prima riguarda le corsie dedicate ai bambini nei supermercati. Li dentro i balocchi sono stati rilevati un po’ più colorati rispetto alle pietanze e

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alle merci destinate agli adulti perché bisogna agire sull’inconsapevolezza e dunque sull’istinto del bambino, ma io mi chiedo, avendo io purtroppo o per fortuna studiato da grafico pubblicitario, mestiere che poi ora non pratico per mia convinzione personale, insomma a me sembra di vedere in modo così chiaro la volontà di trattare anche gli adulti come se fossero poco più che bambini, una cosa davvero disgustosa, il metro di misura con cui il capitalismo ci valuta ed è una cosa disgustosa perché, se prima abbiamo parlato delle potenzialità di grandezza del genere umano ebbene queste persone che valutano tutti in questo modo secondo criteri capitalisti ci stanno sbattendo in faccia chiaramente la nostra miseria, il nostro essere dei miserabili. È dura pensare di essere piccoli per sempre anche se a volte potrebbe fare comodo. Come già accennavamo prima il Natale è diventato un prodotto, un prodotto da vendere e oggi mentre avevo un attimo di tempo per riflettere ho pensato che in fin dei conti abbiamo disconosciuto l’unico vero Dio per iniziare ad adorare il denaro come dei moderni idolatri. Cerchiamo ogni soluzione in banca e il nostro pellegrinaggio lo compiamo al centro commerciale (ci hanno fatto pure una puntata di DOC 3 durante la quale intervistavano a caso delle persone in un centro commerciale che si raccontavano così come veniva, guidati dalle domande dei documentaristi quando si bloccavano e ne è venuto fuori un interessante spaccato di modernità ndr). A questo punto Al Jahel ha dichiarato di aver terminato la sua serata, ma poi incalzato dall’interesse e da ulteriori osservazioni del pubblico c’è stato ancora spazio per ulteriori considerazioni. In percentuale siamo tutti dipendenti da tutto questo. Io me ne sono reso conto già da anni facendo alcuni viaggi e sperimentando varie realtà. Per esempio una volta mi è capitato di alloggiare presso una comunità anarchica per qualche giorno durante un viaggio, ero qui in Italia. Li ho ammirati per la loro scelta ma uno di loro mi disse che dopotutto non fanno nulla di straordinario, era l’elettricista della comunità che dichiarò che lui i fili della corrente andava a prenderli al negozio come qualsiasi altra persona e questo nonostante tutte quelle persone avessero deciso di costituire una comunità a parte, fuori dal comune tessuto sociale, con regole proprie eccetera e questo dimostra che in proporzione tutti siamo coinvolti nella deriva capitalista perché se neanche chi ha deciso di chiamarsi fuori non riesce a farlo del tutto che cosa si può pretendere dalla cosiddetta gente “normale”? Quella che possiede quella grandezza così opinabile. C’è davvero qualcuno in questo mucchio che può permettersi di dire “si però io un po’ meno di te”? Un po’ meno o un po’ di più conta poco alla fine, conta il fatto che nessuno è fuori del tutto da questo giro. Tutto questo mi duole profondamente, mi ha veramente rotto il guscio delle illusioni. Vittorio Arrigoni diceva, riprendendo le parole di Nelson Mandela “il vincitore è colui che non smette mai di sognare” eppure la realtà è li così quadrata che io personalmente non ho ne la forza ne la fantasia ne l’intelligenza per riuscire a smussarla almeno un po’. Certo questo è un mio problema personale che non deve essere necessariamente di tutti, però mi sembra davvero incombente questa realtà per riuscire a scalfirla. Il problema è che siamo tutti troppo collusi. Forse anche le parole dette questa sera mancano assolutamente di consapevolezza e forse il silenzio sarebbe stato più dignitoso. A questo punto la stessa signora che era già intervenuta precedentemente ha osservato che il problema potrebbe risiedere invece nel fatto che siamo troppo una minoranza. In sostanza la signora ha fatto giustamente notare come la maggioranza sia composta da una massa acritica che non esercita il pensiero ed è davvero difficile credere che i pochi possano fare la differenza (anche se io conosco persone pronte a giurare che le cose stanno davvero così cioè che bastano in pochi a fare la differenza proprio perché la maggioranza è un gregge e se quei pochi sono determinati prima o poi riescono a farsi seguire ndr) non riusciamo, non vogliamo forse, non riusciamo ad essere pochi contro tanti ha proseguito la signora per esempio a me veniva in mente un lago, credo fosse in Nigeria che dava da mangiare a tutto il popolo finchè una multinazionale, credo fosse americana, arriva e depreda quel lago persino degli scarti che vengono usati per produrre cibo per gatti. Ma nessuno si interessa di nulla tutti se ne sbattono di tutto. A proposito degli animali Al Jahel ha risposto all’intervento della signora cominciando col proporre una piccola riflessione. Gandhi diceva che il grado di civiltà di un Paese lo si stabilisce da come vengono trattati gli animali però sembra che ci odiamo a tal punto da riversare tutto l’amore sugli animali (cosa che mi trova

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assolutamente d’accordo perché gli animali sanno amare in un modo che le persone non impareranno mai se non a prezzo di mettere l’orgoglio da parte cosa che sfido chiunque a fare; se quando arrivi a casa e ti metti a piangere perché hai i cazzi tuoi ad accoglierti è per esempio il cane, esso ti lecca il viso e non ti si stacca più di dosso, se invece ad accoglierti è una persona sia essa un genitore, un amico, il fidanzato si può star certi che si avranno solo rogne e osservazioni stupide del tipo “non sei mai contento di niente, non ti manca niente e piangi, se tu ti lamenti io che dovrei dire” dunque per me gli animali rispetto all’uomo stanno almeno due spanne sopra visto che non insultano e danno tutto senza chiedere nulla ndr). Una società civile dovrebbe trattare bene le persone perché se le persone si trattano bene tra loro dovrebbe essere logico dedurre di conseguenza che tratteranno bene anche gli animali. Ora però chiudendo la parentesi animali e tornando al lago africano, pensiamo che nel delta del Niger ci sta l’ENI che in quelle zone fanno dei grossi scempi ambientali, ma ci portano l’energia con cui svolgiamo tutte le attività in casa nostra. Noi cuciniamo grazie all’ENI, amiamo cio che mangiamo e dunque come possiamo indignarci poi nei riguardi dell’ENI. Lo si può dire che ci si indigna, ma questa indignazione finisce col suonare borghese perché cio che ci indigna è anche cio che usiamo, che per altri aspetti fa comodo. Almeno chi sta sul posto sa di essere li a fare il lavoro sporco è ha poco da essere ipocrita mentre noi da casa gli sputiamo addosso. Penso per esempio ai reduci dal Vietnam quando rientravano a casa dopo aver ucciso vecchi e bambini e impazzivano e tutti li scansavano dopo che si erano macchiati di atti orribili per la loro bandiera che non li copriva più. Quanto siamo ipocriti dunque? Io stesso avrei avuto il diritto di scrivere questo libro se fossi vissuto nudo in una caverna. Per stampare il mio libro si è sacrificato un albero (considerando il fatto che quando i libri erano fatti di pergamena per un solo libro bisognava scuoiare un intero gregge di pecore, forse un piccolo progresso se lo è fatto e se non ci si dimenticasse che si può sempre migliorare chissà quanti altri passi avanti sarebbero possibili ndr) e dunque per questo a un certo punto ho pensato che forse era meglio che stavo zitto e ora mi chiedo come facciamo a dire che non ci siamo dentro. Andiamo al lavoro in automobile. Certo non tutti hanno la macchina, ma anche chi non può rinunciare a determinate comodità come la macchina il riscaldamento eccetera ha tutta la mia comprensione, eppure siamo qui a cercare di trovare delle soluzioni per salvare il mondo a dirci che siamo in pochi a pensarla così e infatti è vero perché c’è poca gente questa sera. Ma se fossimo in molti? E noi pochi come ci comportiamo? Cuciniamo col gas dell’ENI andiamo in macchina con la benzina dell’AGIP. La signora di prima ha riproposto la soluzione degli acquisti consapevoli. Se si sa che la ditta tal dei tali ha dichiarato produce le sue merci chessò sfruttando un territorio o utilizza i suoi guadagni a scopi negativi la si può in qualche modo boicottare evitando di acquistarne i prodotti. Potere d’acquisto. Non ho potuto fare a meno di pensare che questa espressione, che si usa solitamente per indicare quanti prodotti possiamo acquistare con una determinata somma, in realtà potrebbe avere un significato più profondo, potrebbe stare ad indicare il potere di influenzare il corso degli eventi attraverso i nostri acquisti. Si potrebbe per esempio evitare di comprare merce prodotta nei Paesi poveri attraverso l’uso di manodopera praticamente schiavile, oppure carne proveniente da allevamenti lager chessò. Il fatto è che, per la maggior parte, i prodotti sono difficilmente tracciabili, se nel del tutto impossibili da tracciare, per quanto riguarda la provenienza e la filiera e inoltre bisogna ammettere che la gente non pensa a queste cose quando va a fare compere, anzi non pensa praticamente a nulla in quanto lo shopping per molti (se non praticamente per tutti e sfido chiunque a dire che non è così) non è soltanto un’azione compiuta in risposta a necessità materiali, bensì soprattutto uno svago contro il cosiddetto logorio della vita moderna. Dunque il potere d’acquisto inteso più alta espressione di democrazia e migliore opportunità per le masse di continuare ad avere un ruolo nella Storia (conquista che risale solo a tre secoli fa) va letteralmente a farsi friggere perché la gente ha già abbastanza problemi e pensieri nella vita da rifiutarsi categoricamente di porsi questioni anche mentre fa la spesa. E questo è il mio pensiero alla luce di tutte queste considerazioni. Anche la signora nel suo ragionamento ha puntualizzato il fatto che tutti comperano di fretta e distratti. Non dimentichiamo inoltre il fatto ha osservato Al Jahel che se una ditta propone i suoi prodotti antietici, chiamiamoli così, ma lo fa ad un prezzo più

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accessibile rispetto a ditte più corrette più attente all’ambiente alla salute eccetera chi se la sentirebbe di spendere qualcosa in più per delle questioni etiche? In effetti tutti vanno a lavorare, tutti fanno fatica, tutti hanno varie spese, tutti devono arrivare alla fine del mese, tutti cercano il risparmio il più possibile e non è un comportamento biasimabile. Se poi ci sono delle ditte che anche solo per nome sono nazional popolari… se si parla di ditte alimentari la cosa migliore sarebbe di chiedere alle nostre donne di imparare di nuovo a fare ad esempio il pane e la pasta in casa come una volta, ma così facendo saremmo dei misogini e ritornerebbe la questione della gerarchizzazione. Ci si potrebbe dividere i compiti all’interno di una coppia ma non c’è mai tempo, ne voglia. Come si fa dunque? Certo il boicottaggio in sé è un’arma efficace, l’ha realizzato Martin Luther King e anche Gandhi, lo stesso Vittorio Arrigoni divulgò una lista di prodotti e ditte di Israele o provenienti dalle zone occupate della Palestina. Ma quand’è che arriva il momento nella vita di porsi le grandi questioni? Quando si è giovani si pensa a divertirsi, più tardi si va a lavorare e ci sono i figli, quando si è anziani ormai per principio non si pensa più al futuro perché tanto comunque non lo sappiamo il domani cosa ci riserva e noi intanto abbiamo lasciato passare almeno tre generazioni perpetuando lo status quo di cui parlavo all’inizio. Io parlo molto a livello personale, di uno che è cresciuto con dei profeti laici, chiamiamoli così. Ma poi penso “e se nascesse ora Ernesto Che Guevara?” come farei a credere che possa avere la forza di spirito per immaginarsi così sognatore e generoso da compiere la stessa vita che ha compiuto fino a quell’ottobre del 1967? Ci siamo strappati via di dosso la possibilità del sogno perché non abbiamo più ideali (ma è perché anche avendoli ti senti dire da qualcuno “con gli ideali non si mangia” qualcuno ci ha mai pensato? ndr). A questo punto si è riflettuto sul fatto che sembra proprio che gli ideali sono andati scemando dagli anni Sessanta in poi. Io parlavo con Elisa prima di cominciare la serata ha ripreso Al Jahel e trovo una buona soluzione, ma parlo a livello quasi mistico e ancor più a livello personale, nel sapere che ci aspetta una sorta di tramonto e nella ferma intenzione di volermelo godere, il che per certi aspetti suona quasi perverso, ma con la consapevolezza di tutto quello che è stato detto. Io davvero mi sento di voler cercare un ultimo scampolo di pace in un angolo così intimo da poter guardare alla fine come concetto con una sorta di stato d’animo quieto. Forse è questa l’ultima ribellione possibile. Cercare, alla luce di tutto cio che sappiamo, di non morire con l’angoscia. Ora non parlo solo della morte prettamente fisica della mia generazione o di me stesso piuttosto di chi è ancora più giovane. L’unica via di fuga che mi indico è, al contrario di quel che si potrebbe pensare o evincere dalle mie parole, dal mio temperamento, è la moderazione, quindi cercare appunto di consumare, se del tutto è inevitabile, quantomeno, il meno possibile, di pensare di vestirsi pesanti d’inverno per non tenere il riscaldamento a 20 gradi e intanto far pompare petrolio nel delta del Niger. Il tutto diventa quasi un esercizio paranoico, ma poi arriva il momento in cui tutto rientra nella quotidianità. La cosa importante è avere il più possibile il possesso di qualunque possibilità di scelta e quando si presentano le varie circostanze, avere la lucidità della conoscenza che va oltre quello che potremmo trovare sui mass media per saper trovare la via che fa meno male perché laddove non si può scegliere il bene bisogna almeno riuscire a scegliere il meno peggio e questo, io per primo, non è una scelta che faccio spesso piuttosto mi astengo come nel caso delle elezioni che a prima vista possono non c’entrare nulla, ma credo che un nesso logico apparirà, perché in caso di elezioni, dovendo scegliere tra due candidati ed è un mio diritto scegliere chi voglio, ma nessuno dei due mi rappresenta allora scelgo di non scegliere mentre invece alla luce di quel che ho appena detto dovrei scegliere il meno peggio, dando modo a quel meno peggio di poter risultare un po’ più positivo del meno peggio attuale, così pian piano si potrà tornare ad un epoca in cui i figli o i nipoti potranno fare delle scelte di cui saranno davvero convinti perché quello che sceglieranno sarà davvero quello che vogliono e invece io non scelgo. A questo punto Elisa Ronconi ha voluto aggiungere delle riflessioni personali. Avendo la possibilità di leggere questo libro ha detto si noterà che in questi racconti ci sono moltissime situazioni che si possono vedere fuori dalle nostre finestre e ci si chiede se è tutto vero perché si fatica a credere che le cose stanno così. In questi racconti alcuni momenti sono fiabeschi, altri ironici, altri terribili, però è tutto vero anche se a

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volte ad Al Jahel è venuto il sospetto di avere esagerato e invece no perché sono cose che succedono non ci sono dubbi. In un altro racconto si parla di animali con le scarpe e c’è effettivamente il mercato delle scarpe per animali. Alla fine di tutto il libro, dopo aver letto tutti i racconti ci si chiede come ne possiamo uscire e più spesso ci si dice che non se ne esce. Una soluzione possibile è la moderazione. Ebbene io vengo da Sacco, un piccolo paese della Val Gerola, ho studiato a Como ma poi ho deciso di tornare qui perché credo fortemente che ognuno comunque, anche se inserito nelle logiche di cui abbiamo parlato, può provare a vivere meglio, cercare nella quotidianità anche del piccolo paese di fare qualcosa altrimenti la tentazione è quella di chiudersi in casa e di non uscirne più e invece un passo alla volta si va verso il cambiamento guardando il mondo con occhi nuovi e in questo senso questo libro ci stimola, ci da una mano ci fa riflettere sui rapporti tra noi, con i vicini di casa, ci fa pensare di dedicare il nostro tempo agli altri con più gioia anche attraverso piccoli gesti, il semplice ascolto. A Sacco abbiamo realizzato un museo aperto a tutti, si parla delle opere, di chi le ha realizzate per esempio una povera donna che si è ammalata e ha fatto fare un ex voto e così nel piccolo trovare quel qualcosa per andare avanti con ottimismo e positività, sicuramente moderazione anche nei piccoli territori che sono i nostri tesori. L’unica chiave di lettura che si può avere è riuscire a vivere la giornata come se fosse l’ultimo giorno del giudizio e lavorare bene su se stessi nel rapporto con gli altri, con la famiglia, col Mondo. Io ho deciso per esempio di coltivare l’orto per imparare a mangiare quello che da la terra nella stagione giusta. Partendo dalle piccole cose e anche sbagliando anche non potendo sempre essere virtuosi al 100% ma a piccoli passi qualcosa di positivo ci deve essere. A questo punto è stato l’assessore Bianchi a proporre l’ultima riflessione per chiudere la serata. Credo che il presupposto di questa serata sia stato pienamente raggiunto. Ahimè non so se siamo riusciti a trovare delle risposte, ma sicuramente i nostri amici, ospiti di questa sera hanno contribuito a farci riflettere e a stimolarci a porci delle domande avere dubbi, eccetera. Come dicono i filosofi se vuoi essere veramente libero renditi schiavo della filosofia. Certo è un vero peccato che questi importanti messaggi non siano stati veicolati ad un pubblico più ampio, ma come faceva notare ancora l’assessore Bianchi prima che la serata cominciasse la cultura non è tanto quantità quanto profondità. Non conta tanto l'affluenza quanto il messaggio che si trasmette quando si organizza un evento. Se anche una sola persona ha recepito quel messaggio lo ha interiorizzato lo ha fatto proprio allora l'evento ha comunque avuto un senso. E dunque non si può proprio dire che questo evento non abbia avuto un senso. Ma poiché non mi limito semplicemente ad interiorizzare un messaggio, ma ne voglio fare oggetto di ulteriori riflessioni, il mio lavoro non è terminato con la fine dell’intervento e quando tutti gli altri se ne sono andati. Sono arrivata prima degli altri e me ne sono andata dopo per avere la possibilità di conoscere meglio Al Jahel che questa sera ha si presentato un libro, ma ne ha messo a disposizione anche un altro per la vendita (a chi fosse interessato), la sua raccolta di poesie FIAMME IN FIORE che, non ho potuto fare a meno di osservare, ha un titolo che evoca i FIORI DEL MALE di Baudelaire e una copertina da fumetto, quasi da manga giapponese. Al Jahel ha detto di aver disegnato la copertina lui stesso, ma anche sottolineato di non essere particolarmente esperto di fumetti e dunque di non aver notato particolari analogie in questo senso, mentre invece, tanto per restare in tema, l’autore della prefazione ha uno pseudonimo dal suono vagamente giapponese, Kento, ed è un rapper che pubblica i suoi lavori di grande spessore culturale in una serie di video su YOU TUBE. Per quanto riguarda il mio accostamento con Baudelaire, soprattutto in qualità di poeta ribelle, Al Jahel ha dichiarato di aver letto poesia solo in ambito scolastico e dunque di non conoscere molti poeti (anche se, chissà perché, ho avuto l’impressione, durante il suo intervento, che lui possieda molta più cultura di quella che è disposto ad ammettere) e che il titolo FIAMME IN FIORE gli è venuto in mente un giorno per caso, per non intitolare il libro semplicemente POESIE com’era la sua idea iniziale. Dopo la serata è stato piuttosto difficile per me avvicinarmi e porre qualche domanda così come ci eravamo accordati all’inizio, dopo un discorso del genere qualsiasi cosa detta diventa una buccia di banana su cui si scivola cadendo nell’inopportunità, ma ormai Al Jahel se l’aspettava, era li pronto a rispondere e dunque ho raccolto il mio coraggio e ho effettuato una piccola intervista con cui

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concluderò il racconto dell’evento. Una signora del pubblico prima di andare ha già voluto porre una domanda di suo. Perché l’hai scritto? Ha chiesto. Perché un libro, perché parole? La risposta di Al Jahel è stata perché ce l’avevo dentro era come una diga e i colori non mi venivano. Quando poi è toccato a me fare le domande Al Jahel ha voluto rompere il ghiaccio leggendo una sua poesia intitolata VENERDI’ che a me ha ricordato l’ermetismo di Ungaretti. E dunque ora veniamo all’intervista

Prima abbiamo detto che tu ( ha voluto che gli dessi del tu ndr) non leggi molte poesie e questo conta fino ad un certo punto, perché ci sono persone che leggono molto, ma poi non sanno produrre nulla di proprio. La poesia, la spinta creativa è un qualcosa di irrazionale che non si può comprendere e dunque non chiederò da dove ti arriva questa spinta che hai dentro per la scrittura bensì quando hai sentito di averla, a sentirla dentro, in che circostanzaFaccio una piccola premessa. Bob Marley per certi aspetti ringraziava il fatto di non essere stato educato e questo non significa che Bob Marley odiasse la cultura, ma non essere educato significa essere un terreno incolto. Lo vediamo anche nelle nostre terre. Anche senza un contadino che ci lavora un terreno produce sempre qualcosa da comunque frutto spontaneamente, ed è la prima onda che viene fuori e quindi io penso che sia lo stesso per un poeta o per uno scribacchino come nel mio caso che vomita qualcosa senza averlo prima appreso perlomeno coscientemente, non dico che arriva l’originalità, perché il linguaggio stesso ci sta già ingabbiando al livello semantico di ogni parola che è già in qualche modo precostituita, però quantomeno è un pochino meno viziato dal comune intendere, ecco. Forse è questa l’originalità molto in minuscolo che al massimo ora possiamo pensare di propugnare, di proporre.

Collegandomi a questo discorso mi viene in mente Schopenhauer che diceva “non insegnate la religione ai bambini perché hanno ancora il cervello tenero e se gli fissate dei paletti così presto poi non se ne liberano più (non erano queste le parole esatte, ma è questo il concetto ndr) Il discorso della religione specialmente di questi tempi è un discorso molto complesso. Io però ricordo appunto che da bambino, quando mi si diceva che la chiesa è la casa di Dio, io andavo a cercarlo e non lo trovavo mai, così crescendo dopo un po’ mi sono detto “o mi hanno preso in giro, o Dio non si fa vedere” e dunque in chiesa non ci sei più andato, poi fortunatamente ti rendi conto che non è Dio che gioca a nascondino, ma sono gli uomini che cercano di mettere troppi veli tra i propri occhi e Dio e allora si cercano altre strade. Certo se il discorso di Schopenhauer è quello di dire che ogni bambino va lasciato libero di poter sperimentare la vita da questo punto di vista sono d’accordo poi certamente, un giorno come genitore lo so già che se ti nasce un figlio non puoi pensare di lasciarlo solo in un angolo a sperimentare, ma dovrai cercare di passargli la tua esperienza quelli che sono pareri travestiti da consigli e così stai formando un’altra persona. Ecco vorrei credere che un bambino ad ogni modo non ci appartiene che noi siamo al massimo i custodi di quella vita li e a un certo punto bisogna pensare che la sua è una vita indipendente e deve avere le sue possibilità per mettersi in gioco.

In effetti c’è un libro che parla tra le altre cose dei figli (IL PROFETA di Kahlil Gibran, uno dei miei libri preferiti ndr) e dice che i figli sono le frecce e i genitori l’arco che scaglia le frecceCosì dicendo il figlio non è affatto libero perché la direzione è già in qualche modo stabilita… però il genitore è l’arco, il figlio è la freccia e l’arciere chi è? Lasciamolo in sospeso (in seguito sono andata a rileggermi bene il brano e ora per maggiore completezza riporto l’estratto che ci interessa: siete l’arco dal quale, frecce vive, i figli scoccano, l’arciere vede il segno sulla via dell’infinito e vi piega con la potenza sua perché i suoi dardi sfreccino via lontano e da cio si evince che l’arciere dovrebbe essere Dio o quel qualcosa, qualunque cosa sia che ci sta sopra trascendente ndr) ognuno si fa la sua idea di chi possa essere l’arciere.

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Io avevo anche pensato di domandare qualcosa di un po’ più pratica per quanto riguarda la pubblicazione dei libri però mi sembrava un po’ inopportuno dopo tutto il discorso di prima Forse però è opportuno adesso per liberarsi un po’ delle tensioni che si sono create. Il libro FIAMME IN FIORE è stata la prima esperienza per me a livello letterario e di pubblicazione. Io ho cercato di far girare questo volume per un paio di anni circa e ho sempre trovato delle buone recensioni da parte di editori che comunque ti domandano un compenso per cui non sai se la buona recensione è per farti abboccare e pagare il compenso che a volte ammonta anche a parecchie migliaia di euro.

Allora non è un problema che è capitato solo a meIo ho scoperto che una casa editrice di cui ora non ricordo il nome mandava a tutti una prestampata dove cambiando semplicemente il nome del destinatario inviava a tutti gli stessi complimenti. Ad ogni modo finchè mi hanno chiesto soldi non ho pensato che fosse il caso di pubblicare perché prima di tutto i soldi volevo usarli per fare altre cose e secondo perché se un editore fa quello dovrà ben fare quello.

È quello che dico sempre io, se credi in un autore dimostralo finanziando quell’autore e assumendoti tutti i rischi Al giorno d’oggi è sempre più difficile trovare un certo tipo di editoria e infatti vedi che si stanno sviluppando altri tipi di canali come la pubblicazione autonoma.

E quindi questi libri alla fine come sono usciti?Per questi ho trovato, perseverando, un editore che era già nel campo dell’editoria come persona, come professionista, lavorava a Roma e si era messo in gioco fondando questa casa editrice GALASSIARTE. Un giorno mi inviò una risposta con una mia poesia che, mi disse, lo aveva colpito parecchio chiedendomi di spiegargliela (perché non mi è venuto in mente di chiedere quale poesia fosse? Ndr). Quando gliela spiegai risultò abbastanza impressionato da propormi un contratto nell’ambito del quale lui si prendeva le sue responsabilità di editore.

E dunque senza compenso.Esatto. Io incredulo per suggellare il momento presi il treno andai a Roma, firmai il contratto al tavolino di un caffè che non bevvi. Dunque questa è stata l’esperienza (il libro presentato stasera rappresenta invece la seconda esperienza di pubblicazione come lui stesso ha detto ndr) e ti dicevo prima (prima che la serata cominciasse ndr) ho altri tre progetti tra cui un romanzo col quale sto partecipando a concorsi importanti che poi certamente non mi vedranno tra coloro che portano l’alloro, e due resoconti di viaggio, uno in Senegal e uno in Turchia e nel mar Nero. Per questi progetti sono in cerca di un editore un pochino più grande perché adesso ad ogni modo tecnicamente non risulto più esordiente, tecnicamente, poi è chiaro che sono un signor nessuno, però nel curriculum questi due libri ci sono sufficienti per togliere l’idea dello scrittore alle prime armi indipendente dal valore letterario dei libri stessi e da quante copie ho venduto e ora vediamo come vanno questi altri progetti che ho in ballo. Il discorso degli editori però è un discorso molto complesso perché ormai non è più l’autore che arriva al lettore, ma è il lettore che è costruito da quell’astratto che chiamiamo sistema, dunque lui con la sua domanda agisce sull’editore e l’editore agisce su di te, scrittore, per dirti “io voglio questo”. Questo vale sotto ogni aspetto fino al condizionamento per i vocaboli usati perché questo mio romanzo di cui ti ho parlato l’ho presentato in Feltrinelli e mi hanno detto che, si è vero, non sono più un esordiente, per cui si poteva prendere in considerazione, ma tuttavia, mi hanno detto che, essendo scritto con linguaggio troppo barocco non risulta fruibile per il lettore medio. Io non ho fatto l’università, non so usare certi termini, se viene riconosciuto che la mia scrittura è troppo barocca come devo scrivere? Come devo scrivere per essere adeguato al mercato? La cultura, che io non pretendo di fare, non è soltanto riportare dei

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dati, ma anche trasmettere il linguaggio, perpetuare parole, perché ogni parola sfuma, ha un significato diverso, l’italiano è una lingua bella perché la vogliamo condensare?

Bisogna anche considerare che la maggior parte della gente non legge neanche un libro all’anno e se leggono, leggono FACEBOOK con tutte le abbreviazioni e lo slang vario Vedi che in questo momento scrivere normalmente è impossibile, si è abbassata di molto la soglia di tolleranza e tu non puoi più permetterti di scrivere a livello argomentativo in primo luogo, cose troppo difficili perché nella vita tutti siamo già stressati dal lavoro, dai figli, dalla scuola, dai consigli comunali magari, da tutto insomma, dalle notizie che arrivano dal mondo e dunque vuoi darmi un libro così per addormentarmi la sera, (e ha sollevato una copia del libro che è stato oggetto della serata ndr) per cui anche a livello argomentativo ci sono dei paletti a meno che tu sia un nome che sa già di essere venduto come, chessò io, Tiziano Terzani, che con legittimità e consapevolezza affrontava certi temi, ma, e direi anche e per fortuna, il suo nome risulta in voga ed è bene che arrivi a più persone possibili perché comunque stiamo parlando di scrittori e di uomini eccezionali, ma se tu vieni da zero con una vocazione così tu non ci entri in quel mondo li.

Io però dico sempre se non si aprono anche gli editori o i lettori o chi per essi agli autori nuovi saremmo fermi all’ODISSEA. Il discorso delle caverne di prima, se nessuno avesse deciso di uscirne saremmo ancora tutti li.A questo punto è stata Elisa Ronconi a rispondere. Lo stesso discorso vale anche per l’arte per la pittura. I pittori devono mantenere gli stili che attirano le masse che vengono a vedere le mostre d’arte e vogliono vedere l’astratto (la cosa strana è che io invece sento molta gente che odia l’astratto e l’arte contemporanea perché non ne capisce il senso, la paragona a spazzatura, addirittura si sentono casi di opere d’arte esposte nelle mostre che vengono “rovinate” dalle donne delle pulizie che ne buttano dei pezzi o le opere intere scambiandole per rifiuti lasciati dai visitatori ndr) e dunque non si dipinge più come una volta con le pitture, i pennelli, perché ormai è tutto troppo antico e banale.

Però se proponi chessò, una mostra del Caravaggio la gente va a vederla A questo punto è ancora Al Jahel a prendere la parola. Perché Caravaggio è l’equivalente pittorico di quello che dicevamo prima di Terzani nella letteratura. Ci son nomi che sono già affermati e quindi non li butti giù dal podio, potranno magari oscillare avere momenti di minor gradimento. Ma se dovessero arrivare o il nuovo Caravaggio o il nuovo Terzani per dire, non si potrebbero neanche fare queste similitudini, ognuno è una personalità unica con la sua personale impronta, ma in ogni caso il nuovo è escluso, sebbene porti gli stessi principi di altri già più conosciuti. Poi diciamoci la verità, una grande parte di artisti, soprattutto figurativi, soprattutto pittori quando diventano famosi, quando sono morti.

Infatti nessuno sta dicendo di buttare giù dal podio quelli che ci sono già, come invece pensavano di fare i Futuristi che volevano bruciare i musei, cosa con la quale non sono assolutamente d’accordo, ma almeno permettere a tutti di avere il proprio spazio, la propria possibilità di esprimersi, per chi ha qualcosa da esprimere naturalmenteLa portata dell’arte è rivoluzionaria perché l’arte è pace e la pace è forse l’unica vera rivoluzione in un mondo che praticamente è sempre in guerra. Uno pensa alla rivoluzione coi fucili, ma in realtà dovrebbe pensare alla pace perché è l’unica condizione che non abbiamo. Per cui se l’arte è questa cosa veicolarla e contenerla è già un bel modo per cominciare a dire no alla pace alla faccia di chi va nelle piazze con gli striscioni arcobaleno o li mette fuori dalla finestra.

Io per esempio dico sempre che è inutile inneggiare alla pace nel mondo quando non c’è pace nemmeno nei condomini visto come si scannano nelle riunioni di condominio

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Si scannano anche in famiglia prima di arrivare alla riunione di condominio. Questo ci riporta ha puntualizzato Elisa Ronconi a questo punto al discorso di cercare di agire ognuno nella quotidianità a fare le cose fatte come Dio comanda come si diceva una voltaE come dice anche ora per esempio l’assessore Lucica Bianchi che ha dichiarato che o si fanno le cose come Dio comanda o non si fanno affatto com’è giusto.E quindi questa serata è stata organizzata come Dio comanda e siamo tornati comunque sui binari intrapresi durante la serata anche con questa intervista.

A questo punto ho chiesto informazioni di servizio per mio interesse personale su come eventualmente contattare la casa editrice, ma questo non ha più nulla a che vedere con i contenuti di questa sera. Una sera molto piena che tutti dovrebbero tenere nel cuore e rammentare mentre sono alle prese con la vita di tutti i giorni.Come si noterà l’ultima parte più che un’intervista è stata una conversazione e, dal punto di vista dell’arricchimento personale è stato molto meglio così. In conclusione di questo mio racconto non posso fare a meno di chiedermi che cosa succederebbe se l’autore decidesse di leggere e commentare in pubblico ogni racconto del libro come ha fatto stasera col racconto prescelto. Ne verrebbe fuori un bel ciclo di conferenze. È stato un peccato non pensarci e non aver organizzato la cosa in questo modo. Ma chissà che non possa diventare possibile in un futuro. Potrebbe essere questo un segno del cambiamento, del miglioramento delle coscienze di cui si è parlato questa sera.

Giovedì 18 febbraio 2016 IL MONDO DI GIUSY: SERATA DI POESIA E MUSICA con Giusy Gosparini

Questa è stata una serata in cui si è fatto di più che parlare di poesia. Questa sera ha parlato la poesia. Così l’assessore alla cultura Lucica Bianchi nella sua introduzione. “ogniqualvolta mi è capitato di incontrare un poeta” ha dichiarato “mi sono sempre chiesta cos’è la poesia per noi oggi e cosa rappresenta la poesia per quel poeta. Come la definisce e come la traduce a noi che leggiamo e ascoltiamo la sua opera. Anche quando ho conosciuto Giusy Gosparini la questione è tornata ad imporsi. La poesia è un’arte riservata solo a pochi illuminati oppure tutti oggi possiamo scrivere versi, rime, pensieri? Leggendo il libro di Giusy provo a rispondere dicendo che per la poetessa Giusy Gosparini la poesia è l’arte di esprimere e rappresentare fatti, immagini, sentimenti, emozioni, con parole poste in un certo modo secondo una certa logica a volte oppure altre volte talmente libera senza alcuna logica che la possa intrappolare in uno schema predefinito. La poesia di Giusy Gosparini è come la musica, deve avere una sua logica, un suo spartito, deve essere interpretabile, deve stimolare sensazioni, emozioni, ricordi attraverso le parole, ma è anche una poesia libera di esprimere il suo pensiero, libera e senza confini delimitabili. Per la poetessa Giusy Gosparini la poesia è nell’aria, la poesia è dentro e attorno a noi. La parola è poi andata agli ospiti: il menestrello sondriese Angelo Copelli che ha ricevuto le poesie di Giusy in regalo e di esse dice “sono momenti leggeri, pastelli di vita, cose che noi pensiamo, desideriamo e magari diciamo nel corso di una giornata e tutto questo lei riesce a collocarlo in una melodia con uno stile domestico” e che ha suonato un brano al flauto di Vivaldi come overture e naturalmente Giusy Gosparini che ha letto alcuni brani scelti dal suo libro BATTER D’ALI articolato in quattro sezioni tematiche e che della poesia dice “la poesia può darti molto, se la lasci entrare nella tua vita diventa un qualcosa di importante, ma per capirlo bisogna sentirlo”. Prima delle letture ha voluto raccontare in breve il suo cammino artistico, cominciato appena una decina di anni fa. “mi piace pensare” ha detto “che quando un sogno, una gioia, un tormento, un dolore sono messi nero su bianco, diventa una realtà che cammina accanto a me, dentro di me attraverso un linguaggio semplice, vero e immediato che non si avvale di termini difficili e ricercati, un linguaggio che arriva al cuore perché penso che chi legge deve capire immediatamente quello che vuoi dire”. Dopo questa emozionata introduzione i primi tre brani dalla prima sezione intitolata INTIMISTICA introdotti dall’assessore alla cultura Lucica Bianchi. “la poetica di Giusy Gosparini è molto particolare, volta alla scoperta sia della

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dimensione soggettiva e interiore dell’animo poetico, sia degli aspetti quotidiani dell’esistenza, espressi mediante uno stile dimesso, spesso venato di toni nostalgici”. I tre brani che Giusy ha letto in questa prima parte sono VOCE, BATTITO D’ALI e NEL SILENZIO. Quest’ultima poesia trae la sua ispirazione da un brano biblico I DUBBI DI ELIA che svaniscono tutti quando il profeta sa dove rivolgere il suo pensiero, nella leggera brezza del soffio divino. Ogni lettura di Giusy è stata intervallata da un momento musicale offerto da Angelo Copelli. La seconda sezione del libro è intitolata NATURISTICA. “il poeta deve ispirarsi alla vita contemporanea” ha detto l’assessore Bianchi nella sua presentazione “studiando l’uomo così come appare nella società, nel suo ambiente naturale come a voler ricordare quel celebre passo dell’AMLETO di Shakespeare, quello che dice che ci sono più cose in cielo e in Terra che non nella filosofia. Nella poetica di Giusy Gosparini appare chiaro come la natura sia l’unica realtà esistente, tangibile, palpabile, quindi principio e fine, alfa e omega che regola ogni fenomeno sia sul piano fisico che su quello spirituale. Da questa sezione la poetessa ha letto i brani VENTO, TREMULO MIRAGGIO, PIOGGIA e ALLEGRO RUSCELLO. Dopo la lettura di queste poesie anche Angelo Copelli ha voluto proporre una sua lettura intitolata IL SERMONE DEL TEMPORALE cioè una profonda descrizione di un temporale vicino ad una chiesa. Un anziano si trova li e brontola. Il sermone era in dialetto. Dopodiché la lettura della terza e ultima sezione del libro intitolata AFFETTI che l’assessore Bianchi ha commentato così “leggendo le poesie di Giusy Gosparini troviamo tra i versi un immediato rapporto tra le parole e i sentimenti nonché con gli effetti prodotti sull’animo umano e vi dirò di più, si percepisce un nuovo rapporto tra l’anima e la poesia in cui la poesia viene sentita come strumento che intensifica le passioni, i sentimenti, gli affetti. L’adesione della poetica di Giusy Gosparini al mondo degli affetti è uno dei fili della sua opera. Lo statico equilibrio cede posto a un vibrante dinamismo espressivo che si manifesta in ogni verso e in ogni parola. La ricerca della tensione si afferma nella poesia di Giusy Gosparini, nasce e si sviluppa tra uno stato d’animo e un altro in un continuo variare di vibranti emozioni”. Di quest’ultima sezione Giusy Gosparini ha letto i brani VORREI, LA SCOGLIERA e CHI SONO IO PER TE. In una lettura Giusy Gosparini si è alternata con Angelo Copelli, trasformando una poesia in una piccola recita, una piccola storia. Per finire anche la lettura di un brano scelto tra quelli che Giusy Gosparini inserirà in un libro di prossima pubblicazione, intitolato TU VUOI. Come corollario di questa serata piena di sentimenti ed emozioni (e con qualche imprevisto di natura tecnica) l’assessore Bianchi ha voluto dire che “l’arte poetica di Giusy Gosparini definisce il modo in cui la poesia rappresenta i sentimenti con le parole abilmente scelte e libere da ogni costrizione mentale, una poesia delle parole che esplicitano dei concetti astratti come l’anima, l’emozione, la passione, l’amore. Non a caso da sempre, cominciando già dalla cultura degli antichi Greci, la poesia è riconoscibile come elemento costitutivo di quell’arte delle Muse la cui caratteristica fondamentale consiste nel presentarsi come unione indissolubile di ritmo, suono, danza e logos, più in generale, ed è cio che è emerso stasera, è la tendenza a rappresentare la poesia come un particolare tipo di sapere che le Muse, non a caso figlie di Zeus e della dea della memoria, concedono ad alcuni uomini e da stasera in poi, grazie a Giusy Gosparini un po’ anche a noi comuni mortali”. Per finire Giusy Gosparini ha voluto leggere la prima poesia da lei scritta, in dialetto, con la quale ha partecipato ad un concorso arrivando in finale. Questa poesia fa parte della prima raccolta di Giusy Gosparini intitolata LE STAGIONI DEL CUORE in vendita questa sera con il libro BATTER D’ALI vero oggetto della serata.

Giovedì 3 marzo 2016 IL VALORE DELLA SUSSIDIARIETA’ con Bruno di Giacomo Russo

In passato c’è stato chi ha lamentato il fatto che alla Casa Uboldi si facesse solo cultura d’evasione e non si trattassero tematiche relative alla politica, all’economia, all’attualità. Questa serata si può in qualche modo considerare quella decisiva per colmare questa lacuna anche se in realtà la Casa Uboldi in passato ha ospitato delle tavole rotonde tra amministrazione e cittadini, con la partecipazione anche delle varie associazioni talamonesi proprio per discutere di politica, attualità e tematiche sociali anche se circoscritte ad un livello più territoriale. Stasera invece, partendo dal

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libro scritto e magistralmente presentato da Bruno Di Giacomo Russo con la collaborazione dell’assessore alla cultura di Talamona, Lucica Bianchi, libro che già nel titolo IL VALORE DELLA SUSSIDIARIETA’, racchiude la sua tematica, c’è stato modo di allargare un po’ il campo e di fare una serata che sarebbe stata sicuramente nelle corde di chi non si è mai accontentato di “cultura d’evasione” (qualunque cosa questo volesse dire). Com’è nel suo stile, l’assessore Bianchi ha introdotto la serata e l’ospite proponendo le sue riflessioni personali, sempre pertinenti e stimolanti, in grado di dare sempre ulteriori sfumature alle serate proposte. Sarà una coincidenza ha dichiarato al pubblico composto soprattutto di amministratori e consiglieri di vari comuni nonché membri di associazioni il fatto che come storico che da anni sta studiando questo meccanismo sociale cercando di individuare le sue origini e credo di averle rinvenute nella dottrina ecclesiastica che sosteneva l’importanza del ruolo dei privati e delle comunità minori all’interno della società ai fini del mantenimento del giusto ordine. Un esempio di questo potrebbe essere l’enciclica REUM NOVARUM del 1891 di papa Leone XIII nella quale per la prima volta la Chiesa Cattolica prende posizione in merito alle questioni sociali. Questa posizione fu poi ripresa nel 1931 da papa Pio XI nell’enciclica scritta in occasione dei quarant’anni dall’uscita della RERUM NOVARUM per poi essere ulteriormente approfondita nell’enciclica MATER ET MAGISTRA del 1961 di papa Giovanni XXIII. Certamente il nostro ospite saprà essere molto più preciso nel presentare questo quadro storico in merito all’argomento. Nel 2001 nell’atto di riformare la Costituzione Italiana (articolo 5, articolo 118) è stato per la prima volta introdotto il cosiddetto principio di sussidiarietà e c’è da sottolineare qui che l’Italia è l’unico Paese Europeo oltre alla Polonia ad avere legiferato questo principio. Nello stesso articolo 118 leggiamo l’affermazione riguardante le pubbliche amministrazioni in Italia che, cito, “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati sulla base del principio di sussidiarietà” questa affermazione secondo me apre un nodo cruciale e mette alcuni punti di domanda. Quanto veramente le amministrazioni in Italia conoscono e applicano questo concetto? Il pubblico e i singoli cittadini, le organizzazioni, le associazioni riescono ad inserirsi in tali definizioni e in che modo? Sono trascorsi più di dieci anni da quando è entrato in vigore questo principio nella nostra Costituzione, ma credo che c’è ancora tanta strada da fare. Più nella nostra realtà talamonese, a cui vorrei riferirmi brevemente, si sa che la presenza di associazioni di volontariato, l’associazionismo in genere, è molto premiante e se per certi versi questo potrebbe essere letto come un sintomo di frammentazione della società, d’altro canto si riscontra anche una forte volontà da parte dei cittadini di incidere sulle decisioni che riguardano il bene comune. Le mie ricerche, le analisi compiute, la stessa esperienza di volontariato personale, mi portano a credere che le motivazioni che spingono i cittadini a fare volontariato sono molteplici però si potrebbero riassumere in quattro categorie: la necessità di essere altruisti, perché si sa che la gratuità è la caratteristica principale del volontariato, la partecipazione attiva alla società, il cosiddetto protagonismo, la possibilità di crescita personale, perché il volontariato, attraverso il suo carattere liberatorio può arricchire moltissimo una persona e non per ultimo la socializzazione. Ecco come il sociale diventa pilastro, punto cardine, principio, valore e fondamento della società. Questo principio di sussidiarietà permette dunque ai cittadini di prendersi cura dei beni comuni a fianco delle amministrazioni locali per lo sviluppo della comunità. Certo la decisione finale è presa dalle istituzioni perché è legittimata dal voto. La sussidiarietà apre dunque ai cittadini attivi e ai volontari una serie di spazi di intervento nella vita pubblica nei suoi quattro grandi campi d’azione: politico, economico, sociale e culturale nell’ottica di una democrazia partecipativa e di una cittadinanza attiva. Nel momento in cui i cittadini da utenti diventano protagonisti della cura dei beni, sorge ancora un interrogativo. Come dovrebbero gestire questo rapporto i funzionari pubblici e gli amministratori? Come potrebbero rapportarsi gli uni con gli altri? Come delegare, come funziona questo meccanismo? Tutti questi interrogativi, cui spero si potrà rispondere ampiamente per quanto il tempo ce lo concederà insieme al nostro invitato Bruno Di Giacomo Russo nella sua qualità di docente di diritto e di costituzionalista proprio con l’obiettivo di far luce su questi aspetti prettamente giuridici, ma anche di forte

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rilevanza sociale. A questo punto la parola è passata all’ospite e qui di seguito si riporta integralmente il suo intervento dopo i ringraziamenti di rito.Questo libro, IL VALORE DELLA SUSSIDIARIETA’ è frutto di una ricerca iniziata ovviamente con l’avvento nel 2001 della già citata riforma costituzionale che costituzionalizza appunto il principio della sussidiarietà. Nel libro io non tengo una posizione per cui arrivo a dire che non c’è traccia di sussidiarietà nella Costituzione e questo perché? Partiamo dunque dall’inizio, dal 2001 quando decisi di fare la tesi di dottorato e scelsi questo principio che era una grande novità nell’ambito del livello costituzionale anche se c’era già stata una previsione della legge Bassanini, ma soprattutto una previsione a livello europeo perché se è vero che la sussidiarietà è un principio che potremmo definire ancora nuovo, lo si può definire così nelle sue potenzialità, però ha delle radici molto antiche. Io nella prima parte del libro nel primo capitolo sviluppo il primo quesito che mi sono posto. In realtà come titolo del libro io avevo pensato IL SENSO DELLA SUSSIDIARIETA’ ma l’editore mi propose di tenere il valore anziché il senso perché, come è spiegato nel discernimento successivo dei capitoli, c’è un rapporto un approfondimento di tipo comparativo. E dunque perché pensavo di dire il senso e non il valore? Perché ad un certo punto decisi di scegliere questo studio il mio maestro mi disse che questo era un principio scivoloso da affrontare nel senso che è difficile percepirne immediatamente gli effetti (anche nel caso degli OGM si verifica questo problema, ma non per questo si è diffidenti nel parlarne ndr) perciò la sua attualità. Allora io feci uno studio di tipo storico e filosofico e diciamo che l’impostazione del volume, pur essendo io giurista, segue una cronologia, una ricostruzione di tipo storico, perché io parto dalle origini, da Aristotele e quant’altro, passando attraverso la millenaria storia della chiesa fino alla positivizzazione del diritto e alla Costituzione italiana e arrivo a fare del diritto comparato poi provo ad allacciarmi nell’ultimo capitolo a quelle che sono le prospettive future e le potenzialità, perché se è vero che in diversi documenti e trattati non compare la parola sussidiarietà (Aristotele ad esempio non ne parlava, non usava questo termine) però il concetto che l’entità, il soggetto superiore possa sussidiare, supplire alla necessità di un soggetto inferiore già si riscontra, Aristotele ad esempio parlava dell’individuo, della famiglia, della comunità sociale e di quella politica. Ripercorrendo questo itinerario a un certo punto è giocoforza che l’ente superiore possa supplire quello inferiore. La sussidiarietà è stata costituzionalizzata nel nostro ordinamento nella sua doppia accezione, quella orizzontale e quella verticale. Quella verticale la definiamo istituzionale, cioè il rapporto che intercorre tra i soggetti delle istituzioni. Quella orizzontale la definiamo sociale perché il rapporto è tra il pubblico e il privato e anche tra il privato e il privato, perché nella sua dimensione originale la sussidiarietà è di tipo orizzontale perché nei vari passaggi anche filosofici (nel libro si fa cenno a filosofi e pensatori di ogni epoca l’autore citava anche Montesquieu ndr) cio che comunque preme comprendere è quale sia il rapporto tra la società civile e lo Stato. Quello che poi è, come spiego alla fine del libro, il paradigma sul quale si sono dibattute diverse ideologie anche diametralmente opposte, da quella socialista, comunista, liberista, liberale, neoliberale, dibattute su cio che debba essere il rapporto tra queste due dimensioni, quella privatistica e sociale e quella pubblica e istituzionale. Un rapporto che poi, già è stato anticipato, si riflette non solo nel diritto, ma anche nelle dinamiche sociali e in quelle economiche. Fin dal principio ho pensato che la sussidiarietà non potesse essere studiata esclusivamente da giurista ma necessitava anche, per comprenderne il significato uno studio storico, filosofico, politologico e quant’altro. La sussidiarietà viene dunque fuori come un principio dalla doppia accezione. Un’accezione negativa a quella che ne è il presupposto, per cui lo stato non prevarica e consente libertà d’azione della società civile e un’accezione positiva che è quella sussidiaria supplementare quella nel caso in cui la dimensione pubblica intervenga nel caso in cui ci sia bisogno, come può essere il caso dei fallimenti del mercato, l’assenza del perseguimento dell’interesse generale e del bene comune. Questo connota delle caratteristiche che vanno un po’ ad opporsi, all’epoca, e qui faccio un passo avanti e vado alla fine dell’Ottocento, alla dimensione dello Stato, al rapporto tra lo Stato e la cittadinanza, a porsi come intermedio, non sono solo io che lo sostengo cioè che la sussidiarietà nella sua massima espressività nella dottrina sociale della Chiesa, si va a collocare in posizione

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intermedia tra tutte le altre ideologie concorrenti. Si pone in maniera intermedia sviluppando soprattutto dei paradigmi che sono forti, che connotano essa stessa al suo principio. La sussidiarietà ha dei corollari che sono il bene comune, la solidarietà e la valorizzazione della persona umana. tutti questi quattro principi sono l’essenzialità dei quattro cardini della dottrina sociale della Chiesa che sviluppa il magistero e questo principio perché all’epoca la dottrina si pone il perseguimento della discussione, dell’approfondimento di quelle che sono le tematiche non più di tipo spirituale, ma anche economico sociale e qui entra in gioco l’enciclica citata prima dall’assessore. Una fase decisiva, importante nello sviluppo della sussidiarietà è la dottrina sociale della Chiesa, ma nel mio libro affronto anche la questione di un documento storico importante che è il codice di Camaldoli per la stesura del quale parteciparono tre illustri valtellinesi: Baronetto, Saraceni e Vanoni. Si tratta di un insieme di enunciati redatti al monastero di Camaldoli da diversi pensatori, studiosi, politici e anche sacerdoti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Siamo in un momento molto particolare, siamo di fronte alla necessità di ristrutturare l’ordinamento o meglio l’ordine sociale, perché un problema che si pongono fin dall’inizio tutti queste menti, Grassi ed altri, è la necessità di voltare pagina, perché se lo stato liberale era degenerato nella forma totalitaria che aveva portato alla soppressione di quelli che sono i diritti di cittadinanza, necessariamente a metà del Novecento nasce l’idea che il rapporto tra Stato e cittadini debba essere strutturato sulla base di un rapporto tra autorità e cittadinanza. Sopraggiunge, anche se già era presente nello stato fascista, l’idea dello stato interventore, uno stato cioè che abbia ruolo di intervenire nell’economia come nell’ambito sociale. I redattori del codice di Camaldoli non utilizzano la parola sussidiarietà. Essa non compare in nessuno dei settantatre enunciati del codice, ma è chiaro che in tutta la sua strutturazione, penso soprattutto al capitolo dedicato alla giustizia sociale, al capitolo dedicato alle forme dello Stato, al capitolo dedicato all’economia, è chiaro che quello che hanno di fronte è la sussidiarietà. Siamo nel 1943. La sussidiarietà è partecipazione, è cittadinanza attiva, democrazia partecipativa. Ci sono degli enunciati proprio dove rimane sorprendente come i redattori già avevano percepito la necessità di democratizzare la democrazia cioè ci si è resi conto che il semplice potere di voto non era più sufficiente. Siamo in un momento storico in cui si è più preoccupati per la ricostruzione del Paese dal punto di vista giuridico ed economico e dunque proporre dei capisaldi robusti con cui edificare lo stato costituzionale. Questo lo dico perché, tra i vari redattori, tra cui Vanoni, ce ne furono che parteciparono anche all’Assemblea Costituente. Anche nel leggere i lavori di questa assemblea si evince come buona parte di questi pensieri, di questi confronti redatti nei lavori del codice di Camaldoli confluiscono nella Costituzione e infatti io sostengo che il codice di Camaldoli è sicuramente il documento precedente alla Costituzione particolarmente incisivo e questo perché diversi sono i capisaldi enunciati nel codice di Camaldoli tra cui soprattutto il principio di uguaglianza. La preoccupazione dei camaldolesi era che ci fosse uno Stato che si occupasse dell’equilibrio, del raggiungimento di forme di quella che loro chiamavano eguaglianza sostanziale, cioè l’intento di trovare una strumentazione che potesse a un certo punto perseguire uno dei capisaldi sia della dottrina sociale della Chiesa che del codice di Camaldoli che era la giustizia sociale, un principio secondo il quale si potessero ridistribuire le risorse, le ricchezze di modo che si potesse perseguire l’uguaglianza reale. Gli articoli 2 e 3 della Costituzione che sono l’enunciazione dei diritti fondamentali ma anche il riconoscimento e la difesa di questi diritti, diventano, presi insieme, il nucleo duro sul quale si fonda il nuovo stato costituzionale, perché cio che premeva era che ci fosse un riconoscimento solido di quelli che erano i diritti di cittadinanza come l’uguaglianza, ma anche la libertà di azione perché in diversi pezzi del codice di Camaldoli confluiti poi in parte direttamente e indirettamente nella Costituzione si parla del bisogno della valorizzazione della persona e del corpo intermedio del pluralismo sociale. Infatti, tra i principi che riecheggiano il significato della sussidiarietà di sicuro c’è il principio personalista, il principio pluralista che influiscono, secondo la teoria dei principi della Costituzione, nella democrazia. La democrazia è tale nel momento in cui il perseguimento dei diritti, che non rimangono solo come nello stato liberale solo dei diritti enunciati, sono appunto dei diritti garantiti anche nei fatti non solo sulla

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carta. Ed ecco dunque il ruolo dello Stato, già pensato nell’ambito del codice di Camaldoli, di garante dei diritti, uno Stato che dunque non si deve limitare solo a riconoscerli. Questi sono i presupposti di quello che diventerà lo stato sociale che si fonda sul principio di giustizia sociale. Famoso è l’ordine del giorno del 9 settembre 1947 che prevedeva esplicitamente un’assistenza dello stato ai cittadini in termini di sussidiarietà, perché cio che si voleva realizzare fin dall’inizio era l’attivismo civico. Era molto sentito il fatto che il cittadino diventasse un soggetto attore protagonista e non più un suddito passivo e questo è stato già determinante per il passaggio da una forma di Stato assolutistica e anche liberal-autoritaria allo stato sociale e costituzionale, perché la componente fondamentale della nostra Costituzione è l’aumento di quelle che sono le garanzie per far si che questa strutturazione per l’appunto garantista fosse assicurata. Successivamente nel 2001 la Costituzione viene cambiata, viene introdotto il principio di sussidiarietà che trova complementarietà nella prima parte della Costituzione, nella valorizzazione del ruolo del cittadino, nel principio personalista e in quello pluralista. Nel realizzare la Costituzione e il diritto costituzionale quello che emerge e che spiego in un capitolo del libro dove faccio la ricostruzione del panorama più comparatistico con gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e sono ordinamenti che o introducono esplicitamente la sussidiarietà o ne introducono il significato, ma non direttamente il principio. È certo che trova grande eco in tutta Europa la sussidiarietà nel momento in cui l’articolo viene introdotto nel trattato di Maastricht del 1992 a livello appunto europeo. L’Unione Europea introduce con forza il principio di sussidiarietà nel trattato anche se già la carta europea delle autonomie locali del 1989 prevedeva la sussidiarietà. L’Europa però fa una scelta che è un po’ limitata, relativa alla sua dimensione, perché l’introduzione della sussidiarietà a livello europeo ha preso in considerazione solo il suo aspetto verticale cioè il rapporto che c’è tra i vari Stati. Il principio è, che nel momento in cui lo Stato membro non possa svolgere delle funzioni l’Europa interviene. L’Europa però comincia ad introdurre alcuni principi di partecipazione amministrativa, partecipazione attiva dei cittadini e introduce il mediatore, vari aspetti, introduce anche il principio della cittadinanza amministrativa, cioè l’idea che a livello locale possano votare anche i non titolari di cittadinanza. L’Europa da quel punto di vista spinge verso cio che ho definito una cittadinanza amministrativa sostanziale più della partecipazione che dell’appartenenza, perché di per sé, la cittadinanza europea di cui tutti siamo titolari è una cittadinanza che è in partecipazione. Il capitolo successivo del libro si occupa in particolar modo di individuare quello che è il ruolo della sussidiarietà nell’ordinamento costituzionale o generalmente nello Stato della democrazia, perché quello che si pone in evidenza è la sussidiarietà che, diciamo, assume questo ruolo di dottrina della terza via di ideologie diametralmente opposte. È un principio che piace un po’ a tutti sia a sinistra che a destra. Dopo la riforma costituzionale del 2001 diventa un principio consumato, spendibile da chiunque. C’è un particolare avvicinamento da parte dei partiti politici con un orientamento più di sinistra, perché la sussidiarietà si combina alla partecipazione. C’è un orientamento di centrodestra, si ricorda ad esempio la proposta di Tremonti per la riforma costituzionale, insomma un orientamento dove c’è un particolare interesse per la sussidiarietà che è combinata all’iniziativa economica, fondamento del liberalismo. La sussidiarietà comincia a diventare qualcosa di molto appetibile però necessita ad un certo punto di una sua realizzazione. In questo capitolo dunque approfondisco le dinamiche della sussidiarietà nell’ambito dell’ordinamento e vado a rapportarla a quella che è la forma dello stato democratico. A un certo punto la democrazia necessita di un’ulteriore forma di democratizzazione e il principio di sussidiarietà diventa il principio sul quale fondare quelli che sono gli accorgimenti necessari per la sostenibilità della democrazia. Perché se ci sono pensatori, come ad esempio Bobbio, che sostengono che la democrazia va democratizzata, ad un certo punto il problema diventa come attuare questo. La sussidiarietà così come è stata costituzionalizzata è questo principio che permette di introdurre forme di sostegno alla democrazia nonché forme di partecipazione e qui si apre lo scenario della democrazia partecipativa e deliberativa. In questo momento storico ci sono tante forme di democrazia partecipativa. Si va dalla partecipazione alle commissioni comunali previste dallo statuto, alla previsione di uno statuto locale del consiglio comunale aperto, alla

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previsione di tanti strumenti che cercano di raccordare la dimensione sociale e politica della società con la dimensione politico istituzionale, perché la democrazia ha bisogno di questo, perché la democrazia concepita come rappresentativa è in difficoltà. La democrazia diretta, in parte espressa dalla sussidiarietà diventa il terreno su cui applicare queste condizioni. Più difficile è lo sviluppo della democrazia deliberativa così come era stata originariamente pensata, pensare cioè che le decisioni pubbliche possano cambiare quelle che sono le decisioni istituzionali, è difficile pensarlo. Sempre più ci sono forme di partecipazione e pensiamo alle primarie, alla revisione della legge regionale in Toscana per le primarie cosa che possono fare tante altre regioni. La democrazia con la sussidiarietà trova il fondamento per provare ad andare avanti ed evolversi di fronte a questa crisi. Come ci ricorda il professor Zamani, la crisi economica che stiamo vivendo non è semplicemente una crisi economica o istituzionale o politica, ma è una crisi antropologica e qui allora andiamo al fondamento della sussidiarietà che si combina con la valorizzazione della persona, col perseguimento del bene comune e la combinazione tra sussidiarietà e solidarietà o altruismo perché era lo stesso valore, come scrisse Vanoni in una lettera a Saraceno dicendogli “guidami a stimolare, perché comunque noi crediamo nell’interventismo dello Stato” che Baronetto aveva teorizzato ad esempio nella sua politica per il sostegno del Mezzogiorno, uno dei principi cardine per la politica economica della Democrazia Cristiana che era stato appunto dettato dalla triade Baroni, Baronetto e Saracino, cioè l’intervento dello Stato che, e su questo insiste Vanoni, bisogna fare in modo che sia graduale perché bisogna perseguire uno stato sussidiario e non uno stato assistenziale, non uno stato che comprima la libertà, le energie per la libertà di azione civica e comprima perciò delle forze per creare questo tipo di Stato. Siamo arrivati, dice il professor Magatti, fortemente in un sistema per cui la politica è funzionale all’economia e invece dovrebbe essere l’opposto. Siamo arrivati in un momento in cui il perseguimento dei fini che, dice ancora il professor Magatti, il quale afferma “non mi piace un qualunque meccanismo che persegua interessi particolari di tipo economico, perché scavalca il valore della persona umana”. ci sono varie realtà che si applicano a questa definizione che applicano in questo momento storico il perseguimento di fini che non valorizzano la persona umana, primo tra tutti il consumismo. La sussidiarietà diviene il fondamento per cominciare a pensare a una strutturazione giuridico istituzionale e ad una economia fondata sul principio del bene comune o di più beni comuni e qui si potrebbe aprire una parentesi e discutere delle varie differenze se ci sono, quali sono eccetera. Essi comunque vengono costituzionalizzati nella riforma della Costituzione all’articolo 118 perché c’è il perseguimento di un interesse generale. E qui c’è un passaggio fondamentale cui la letteratura giuridica non ha mai dato molta importanza. Con l’introduzione della riforma costituzionale si introduce il concetto di interesse generale scavalcando quello di interesse pubblico. Il perseguimento, i soggetti della scala istituzionale comuni, per pochi mesi ancora province, città metropolitane, regioni e Stato che tutti insieme compongono la Repubblica cioè l’ente unificatore dell’ordinamento istituzionale, devono favorire l’attività, l’autonoma iniziativa volta al perseguimento di attività di interesse generale, cioè si scavalca la dimensione dicotica, ovvero in contrapposizione, tra pubblico e privato e c’è un interesse generale, cioè l’idea di introdurre un principio che è quello della sussidiarietà perché tutto questo viene fatto in base alla sussidiarietà, sulla base dell’idea di creare un sistema che io definisco di coamministrazione. Il collega professor Arena l’ha definito di amministrazione condivisa. Quest’idea della democrazia partecipativa altro non è che l’idea di creare un sistema sinergico tra due dimensioni che non sono più in contrapposizione tra loro, non lo devono essere. I paternariati svolgono una funzione che è quella del proseguimento degli interessi generali. Zamani partendo da questo arriva a riprendere il concetto dell’economia civile, un’economia volta alla strutturazione dei sistemi di produzione per la ridistribuzione del benessere in maniera equa, per la giustizia sociale. Zamani sostiene la sussidiarietà circolare fondata sul volontariato che qui a Talamona svolge un ruolo fondamentale sia culturalmente che economicamente e questo c’è da tempo, ma la sussidiarietà diventa quel principio che va a cristallizzare questa realtà e cerca di portarla oltre. Perché Zamani, che è un economista e insegna Economia Politica all’università di

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Bologna dice che la triade tra istituzioni, situazione pubblica e società civile e impresa dunque tra no profit e profit, creano un sistema di collaborazione e di sinergia volto al perseguimento di un interesse perché lui dice cio che ho detto anche io da un punto di vista giuridico, ma lui lo dice da un punto di vista molto più profondo, dice insomma che l’esternalizzazione, la privatizzazione non è sussidiarietà. Conferire la gestione ad esempio di una biblioteca ad una società, un soggetto esterno non è sussidiarietà, è esternalizzazione. La sussidiarietà si verifica nel momento in cui c’è una condivisione dalla A alla Z del processo di formazione e visualizzazione del bisogno. Perseguimento e raggiungimento. Esternalizzare un servizio, l’appalto, la privatizzazione come nel caso dell’ENEL o delle ferrovie, qualcuno ha voluto indicare questi come due esempi di sussidiarietà e invece non è così. Il principio di sussidiarietà ha una potenzialità tale perché tradotto in un ordinamento esistente trova difficoltà nell’esplicare la sua potenzialità perché inverte i canoni, i rapporti. Pur ponendosi ad un certo punto a metà strada tra due ideologie (anche se la dottrina sociale della Chiesa non è un’ideologia ma appunto una dottrina) è chiaro che necessita di tempo e di fasi lunghe per far si che da questo principio possano realmente scaturire innovazioni. Nell’ultimo capitolo parlo proprio di un prospetto sussidiario cercando di capire innanzitutto quali sono i fondamenti condivisi che permettono di pensare a come ridisegnare l’ordine sociale, il rapporto tra ordinamento giuridico istituzionale e ordine sociale.Con questo l’intervento di Bruno Di Giacomo Russo è terminato e il restante tempo in cui è durata la serata è stato riempito dalle considerazioni e dalle domande degli astanti cui l’ospite ha prontamente risposto, aggiungendo di volta in volta ulteriori dettagli al suo discorso già pregno di riflessioni. Ha ripreso subito la parola l’assessore Lucica Bianchi cui l’intervento dell’ospite ha suggerito ulteriori riflessioni oltre a quelle da lei già proposte come introduzione. A un certo punto è stata pronunciata la parola crisi definita come crisi economica, ma che io ho appuntato come crisi di valori perché all’inizio quando abbiamo fatto questo piccolo sguardo alle origini della sussidiarietà mi sono venute in mente due considerazioni. Si è parlato di sussidiarietà nel 1931 e mi è venuto subito in mente il crollo della borsa di New York del 1929 dunque una crisi. Poi andiamo nel 1961 e mi è venuto in mente che coincide con la tendenza alla decolonizzazione, l’aiuto dei Paesi sottosviluppati, questa solidarietà internazionale che cominciava ad essere messa sempre più in luce, quindi, tenendo conto anche dell’odierna crisi economica, ma anche io dico di valori che fa tornare a parlare di sussidiarietà io mi chiedo, si può parlare di sussidiarietà, darle un quadro giuridico, filosofico, storico e quant’altro solo in coincidenza di periodi di crisi? Quando va tutto bene di sussidiarietà non se ne parla, se ne parla solo quando i bisogni e i problemi sono più evidenti? quando le problematiche e i bisogni evidenti rendono più che mai necessaria l’attivazione di una qualche forma di solidarietà e di pensare al bene comune. È solo una coincidenza questo convergere tra crisi e solidarietà? Sono solo coincidenze questi momenti in cui sono emerse da parte della Chiesa, ma in seguito anche da parte dello Stato queste attenzioni rivolte al principio della sussidiarietà? Risposta di Bruno Di Giacomo Russo. Rispetto alla nascita della dottrina sociale della Chiesa con la prima enunciazione del principio della sussidiarietà in realtà in quel caso l’intento era quello di porsi subito in contrapposizione al marxismo, ma anche al neocapitalismo che proprio in quell’epoca si stava sviluppando. Non c’era una previsione rispetto alla crisi come poteva essere nel 1931 che peraltro è successiva. Nel 1931 la circostanza storica per cui si comincia a parlare di queste tematiche poteva essere facilmente la crisi del 1929 però nel suo sorgere il principio di sussidiarietà non è stato legato ad una crisi. La dottrina del Magistero impone proprio il perseguimento dei propri orizzonti a quelle che sono più tematiche di ordine sociale, economico e lavorativo e in linee generali si pone come non favorevole a quelle che sono i capisaldi del marxismo. Con la crisi che stiamo vivendo, questo rispolverare con vigore l’economia civile fondata sulla sussidiarietà ma anche sul principio di reciprocità è importante perché comunque il Magistero della Chiesa si è posto il dubbio che volesse superare quella che era una critica fatta dal marxismo verso il magistero che diceva che la Chiesa era fondata semplicemente su un sistema di elemosina. Con la sussidiarietà invece l’idea era quella di creare o comunque di portare avanti un principio che fosse fondamento per un nuovo rapporto perché comunque loro

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volevano andare oltre la semplice idea di una Chiesa Cattolica che fosse un ente che esercitasse semplicemente la solidarietà del tipo il ricco deve dare al povero perché questo di per sé si contrappone a quello che è il principio di sussidiarietà, perché se io credo in un sistema di questo genere ricco per il povero, non valorizzo la dignità delle persone ne creo per loro possibilità che essi risorgano per se stessi indipendentemente. Perciò da qui riprendo con le parole di Benedetto XVI nella sua enciclica CARITAS VERITATE in cui si afferma chiaramente che lo Stato non deve essere di natura assistenziale, ma sussidiaria perciò deve creare le condizioni per cui le persone liberino le proprie forze. Zamani per esempio parte dal presupposto di quella che è la teoria dello sviluppo delle capacità dell’uomo che diventa dunque il fondamento di questa teoria, di questo sistema. L’economia civile, che si basa un po’ su questi presupposti, in realtà nasce da uno studioso del 1795 titolare della prima cattedra di Economia Politica nella storia delle università europee, una cattedra che si trovava all’Università di Napoli, uno studioso che sviluppa il suo trattato parlando di mercato e affermando che deve esserci una reciprocità delle azioni. L’economia civile si contrappone all’utilitarismo ad un’economia fondata sul capitalismo. A questo punto ha ripreso la parola Lucica Bianchi per fare la sua osservazione personale su quest’ultimo enunciato. L’economia si è sempre basata sul mercato libero e sulla libera circolazione delle merci, delle persone e di tutto, valori che si ritrovano nel sistema liberale degli anni Novanta che quando si parlava di una democrazia che ha bisogno di un sistema democratico per essere messa in atto io mi chiedo, coloro che hanno pensato questo sistema essendo filosofi e non giuristi di professione quindi filosofi che cercano l’appoggio dei giuristi per dare un impatto politico, una rilevanza a queste idee che sono idee filosofiche perché tra chi le ha teorizzate troviamo Benedetto Croce ed Einaudi che sono prima di tutto filosofi, non sono giuristi di formazione e dunque ricollegandomi ad un altro passaggio dico che non è il ricco che deve dare al povero. Risponde ancora Russo. Non bisogna però pensare che la soluzione alla giustizia sociale sia questa. Di nuovo Lucica. Però siamo tutti consci che il sistema assistenziale ha proprio questo fondamento e per parecchio tempo è andato avanti considerandosi volontariato, assistenzialismo filantropico. Da qui il carattere del volontariato prettamente riparatorio, cioè in qualche modo questa filantropia, i ricchi che avevano tanti soldi per dirla in parole povere, si compiva perché in qualche modo i ricchi sentivano che era un loro dovere però in questo modo il volontariato, ammesso che si possa parlare di volontariato in questa fase, ha recepito questo carattere puramente riparatorio. Invece il vero volontariato, per come io credo si dovrebbe sviluppare, deve avere un carattere liberatorio cioè uscire fuori dalla persona, perché io mi arricchisco dal momento in cui posso mettere le mie passioni, il mio tempo, le mie attitudini, le mie conoscenze e quanto altro al servizio della società. Questo è il carattere liberatorio che si diffonde, non quello di dover fare una cosa perché sono ricco o perché la Chiesa, la dottrina lo richiede. Studiando un po’ il sistema assistenziale in Italia, lo stesso fenomeno del volontariato e del terzo settore mi sono imbattuta in questa conferenza di manifestazione nel fare volontariato che veniva fatto in modo filantropico ma anche in modo da perseguire il bene della comunità arricchendosi interiormente nel contempo. Risposta di Russo io distinguerei tra assistenzialismo e filantropia. L’assistenzialismo ha quella concezione negativa che presuppone un rapporto con una dimensione psichica e un rapporto di dipendenza tra chi assiste e chi viene assistito. Invece la filantropia ha sicuramente valori più nobili e comunque ha una dimensione più privata anche nei confronti della società civile. Gli Stati Uniti ad esempio sono un Paese ricco di ricchi che sono anche filantropici i quali però ha osservato Lucica provengono tutti dall’Europa perché infondo l’America è nata così. A questo punto è stato il marito dell’assessore Lucica Bianchi, presente tra il pubblico, a prendere la parola a proporre una sua riflessione. Quando il ricco si trova a fare elemosina verso il povero sta facendo dell’assistenzialismo. Se invece la stessa persone ricca, o comunque con una certa disponibilità investe sull’individuo indigente anziché pagandogli dei bisogni immediati, pagandogli gli studi perché vede in quella persona delle potenzialità e vuole permetterle di svilupparle per poi ripagare questo aiuto sfruttando il potenziale suddetto a beneficio di tutta la comunità questa è sussidiarietà. Fornire dunque i mezzi e le possibilità ad una persona che se avesse le risorse

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potrebbe esprimersi è l’applicazione del principio di sussidiarietà. Risposta di Russo. Si è esattamente questo il senso della sussidiarietà e si potrebbe fare un altro esempio dicendo che anziché pagare gli studi a una persona le posso far prendere la patente così ha un mezzo per andare a lavorare, ma si possono fare moltissimi esempi, perché la sussidiarietà comunque combina un certo attivismo con un concetto che io chiamo autonomia e responsabilità col quale mi piace dare una definizione in breve del principio di sussidiarietà. Autonomia per cui qualcuno è responsabile, una responsabilità che risiede nel perseguimento dell’interesse generale, mentre l’autonomia risiede nell’assunzione per ciascuno della propria funzione. Ci sarà una prima fase negativa in questo processo quando ci si trova nel bisogno seguita però da una fase positiva quando si può mettere a servizio il potenziale sviluppato grazie all’aiuto, dal punto di vista della realizzazione di un’attività generale. Da poco è stato adottato un disegno di legge sulle big corporation cioè società che hanno doppia finalità, sono istituti di derivazione anglosassone molto diffusi in America, società che combinano profit e no profit per il raggiungimento di scopi comuni. Confcooperative a livello nazionale che si sentono titolari di attività che perseguono l’interesse generale. Nel 2006 è stata introdotta anche una normativa che disciplina l’impresa sociale, una dimensione giuridica che ha l’intento di perseguire il bene comune. Da qualche anno si discute in diversi comuni ed è stato adottato anche dal comune di Sondrio il regolamento di rigenerazione dei beni comuni urbani, ad esempio la disciplina relativa ai rapporti tra comune e cittadinanza nello svolgimento della rigenerazione, cioè la riqualificazione di beni da un edificio del comune abbandonato alla tutela e gestione di un parco, dove il rapporto è paritario tra il comune e il soggetto proponente. All’origine di tutto il comune di Bologna che ha varato un corposo regolamento comunale riprese da altri comuni anche qui in Valtellina in versione molto più sintetica, tutti regolamenti che vanno ad esplicare le potenzialità della sussidiarietà, perché comunque svolgere un’attività che persegue la rigenerazione del bene comune cioè i beni pubblici e privati del quale godimento ha una ricaduta positiva su tutta la cittadinanza. Sono tutte delle fasi attraverso cui la sussidiarietà si esprime e c’è anche un’altra circostanza di particolare interesse che può interessare i nostri sindaci soprattutto ed è un esempio di sussidiarietà orizzontale: la specificità montana, prodotta dalla legge Del Rio che prevede un regime differenziato per la provincia montana di confine specifica. Ma perché si può parlare di sussidiarietà orizzontale? Perché il comma 57 della legge Del Rio prevede che lo statuto della provincia montana quale ente di governo rilevato dall’istituzione possa prevedere, nel suo statuto, forme di coordinamento con i soggetti, espressioni della realtà sociale, perché le idee del coordinamento tra gli organismi, si usa proprio questa parola, però non c’è una concezione istituzionale di organismi della realtà, direttamente in rapporto con gli organi politici, cioè prevedere nell’ambito dello statuto solo delle province nella specificità montana e non le altre province a parte quelle speciali, cioè con un regime istituzionale speciale che al di là delle disposizioni normative hanno una certa forza finanziaria invidiabile, ma anche tutte le altre province ordinarie escludendo le città metropolitane hanno questa facoltà. Questa facoltà ce l’ha solo la città metropolitana e la provincia della specificità montana. Cosa può valere questo? Nell’introdurre un sistema di democrazia di secondo livello, cioè non più la democrazia diretta, poco gradita a questo territorio, è possibile prevedere forme istituzionalizzate di partecipazione democratica. Sostenere la democrazia. È legittimo prevedere, anche quando sono ancora organi costituzionali, livelli di governo istituzionali, cosa che tra poco, forse non lo saranno più, è possibile prevedere un secondo livello, perciò vediamo come la sussidiarietà diventa lo strumento per sostenere la democrazia. Prendendo, per scelta politica, un sistema di secondo livello, con gli amministratori che eleggono il presidente della provincia, si può prevedere in statuto, d’accordo con la regione Lombardia una fonte di secondo grado propria del territorio e prevedere questa forma di raccordo. Si possono prevedere queste forme di raccordo per compensare questa disparità democratica. Altro aspetto di interesse rispetto alla sussidiarietà è la revisione costituzionale. Noi sappiamo tutti che la legge Del Rio è questa legge che anticipa, lo dice il primo comma, una riforma costituzionale. Se poi questa riforma arriverà o meno io non lo so però conosco il testo che ora nella fase di seconda e ultima

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approvazione e poi sarà sottoposta al referendum del 16 ottobre e questo testo prevede grossi cambiamenti dal punto di vista dell’impatto e la ricaduta sui territori e gli enti locali e sarà la riforma delle competenze legislative sulla quale ora non mi soffermo. Però di fronte ad un tentativo, perché per ora è solo un tentativo di razionalizzare le competenze amministrative per sottrarne alle regioni e darne di più allo Stato, l’articolo 118 rimane uguale. L’articolo di costituzionalizzazione della sussidiarietà viene rafforzato con l’introduzione del principio di razionalizzazione, semplificazione, efficienza, ma sono tutti principi corollari della sussidiarietà un principio che viene rinforzato, ma rimane tale. La struttura della pubblica amministrazione dovrebbe rimanere su una dimensione istituzionale verticale: comune, provincia non più, città metropolitana, regione e Stato, ma la dimensione orizzontale, quella che è tipica della sussidiarietà, rimane tale e il perseguimento di attività di interesse generale rimane come principio della Costituzione. Ma che fine faranno le province? Se possiamo prevedere forme di sussidiarietà, bisogna istituzionalizzare questo rapporto lavorativo tra le società civili e istituzioni in termini di democrazia partecipativa e non deliberativa, ma prevedendo la scomparsa dell’ente provincia. Sembra una contraddizione in effetti, ma Russo ha fornito una spiegazione. Molto infondo al disegno di legge c’è un articolo, in fondo al disegno della legge costituzionale Boschi-Rizzi che dice che il governo di area vasta rimane nella competenza della sua struttura ordina mentale allo Stato e dunque rimanda alla legge Del Rio perché è la legge sulla quale si ristruttura l’assetto locale, mentre tutto il resto lo decideranno le regioni, perciò viene regionalizzato definitivamente il governo dell’area vasta, tenuto conto che il principio sul quale si deve fondare la podestà delle regioni deve decidere come fare, ma loro hanno già dichiarato che ne farà otto invece che dodici e dovranno tener conto che c’è una specificità montana per la quale c’è uno statuto in accordo con la regione che va riscritto e bisognerebbe prevedere il coordinamento tra organismi e organi politici. Noi sappiamo che il nostro statuto della provincia non è stato ancora, nella sua sostanza, non è ancora stato infranto e quella è una partita importante sulla quale si potrebbero trovare forme di sostentamento significative sia dal punto di vista sociale e anche istituzionale, fino a pensare di arrivare ad una strutturazione a livello di area vasta, e ce ne sono poche, perché in genere è successo solo a livello comunale, di democrazia partecipativa in ottica di sussidiarietà. A questo punto il dibattito si è molto animato, ciascuno dei presenti aveva un’osservazione, un discorso, una riflessione da sottoporre alla lucida analisi del nostro ospite. Ha cominciato uno degli amministratori (mi pare fosse il sindaco di Tirano ndr) con un discorso sulla non accademicità del principio di sussidiarietà che va invece considerato la base per la costruzione concreta di un vero sistema democratico. Il principio di sussidiarietà, non sarebbe accademico nel senso di teorico perché la sua scottante attualità e attinenza con la realtà che stiamo vivendo è sin troppo evidente mentre invece un concetto accademico di solito è qualcosa di astratto che non riguarda da vicino nessuno. Chi amministra si scontra quotidianamente con l’evoluzione delle istituzioni. Il principio alla base dovrebbe essere l’equilibrio da cui si declinano la rappresentatività, la partecipazione e la consapevolezza soprattutto. Attualmente sono state create strutture, anche in termini democratici che sono particolarmente complesse e dunque prive di equilibrio. I comuni per esempio sono enti cardine, ma sono accompagnati da tre enti di secondo livello e una serie di società partecipate e questo crea confusione ed è difficile sia per i cittadini che per gli amministratori trovare un punto d’incontro tra tutti questi enti per discutere di questioni chiave. In questa confusione anche chi, come un sindaco, è investito dai suoi cittadini di rappresentatività diretta, poi di fatto non riesce ad esercitarla perché qualcuno che non è eletto democraticamente, ma è un secondo livello e dunque non direttamente partecipe delle scelte dei cittadini. La riflessione cos’è in un passaggio nel quale, come diceva Bruno, uno Stato ti garantisce delle specificità perché probabilmente la Valtellina, insieme ad altre province, ha una realtà storica particolare, ma anche una posizione geografica periferica che fa si che abbia un riconoscimento, uno status, disciplinato dall’articolo 44 della Costituzione che disciplina le zone periferiche cui appunto viene riconosciuto uno status particolare per via della marginalità anche perché il senso e la logica è che per evitare le tensioni ai confini bisogna riconoscere loro qualcosa perché altrimenti si rischia di incorrere in aspetti e

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fenomeni che comunque sono sempre accaduti. Da sindaco avevo come programma la città attiva cioè la capacità di attivare le persone in chiave propositiva cioè anziché essere l’amministrazione a direzionare è la gente che porta le proposte e la condivisione porta all’azione. Questo aspetto è particolarmente difficile. Vuoi perché le risorse economiche sono fortemente limitanti e dunque sei già bravo se riesci a conservare i servizi che già c’erano e secondariamente perché si ha a che fare con enti del secondo livello che in un passaggio storico come questo con, da una parte un legislatore che ti sta dicendo che i comuni piccoli dovrebbero fondersi e dall’altra la difficoltà ad attuare la fusione a livello automatico perché ogni comune ha una sua identità, una storia, i propri spazi comunitari e secondariamente la questione di quale rappresentatività si genera dopo la fusione la questione del voto capitario, del diverso peso che hanno le comunità in base al numero degli abitanti. Tutto cio non risponde ad un sistema democratico, ma è cio che si verifica col secondo livello. Gli enti di secondo livello non comprendono che ad esempio realtà di 10 mila abitanti hanno necessità diverse rispetto a comunità che hanno 200 unità, necessità diverse in termini sociali ad esempio un aspetto che non è rappresentato ne rappresentabile perché non c’è un nesso diretto tra quel che io rappresento in quell’istituzione e il cittadino che mi ha votato. Lo stesso effetto lo ottieni nei rapporti tra un’istituzione come un comune ad esempio e gli enti di secondo livello e adesso sta avvenendo nei rapporti con l’istituzione provincia il cui presidente incarna un ruolo rappresentativo e non è sfiduciabile per consiglio. Ci sono tutta una serie di disequilibri che impediscono una democrazia competitiva e portano a dei cortocircuiti. L’unica soluzione a tutto questo sembra essere limitare l’azione degli enti di secondo livello imponendo delle regole condivise cioè o si fa un consesso unico democratico, ma per me la democrazia è il voto diretto. Io vorrei avere ad esempio una provincia elettiva non una provincia di secondo livello perché la forza di un’istituzione risiede nell’investitura popolare perché è cio che genera la necessità di partecipare. Non ci sono certezze in questo però è in atto un processo di trasformazione in una comunità montana che vorrei trasformare in un’associazione di comuni togliendo spazio a quello che è l’aspetto decisionale del secondo livello. Solo in questo modo si possono generare processi di diffusione che siano corretti perché attualmente il potente deterrente a qualsiasi forma di unione è il voto capitario. Se un comune di 200 unità vale come uno di 20 mila, non c’è alcuna convenienza a fondersi. Ogni cosa deve essere stabilita con delle regole condivise piuttosto astratte lasciando al comune il potere decisionale, perché il comune è rappresentativo dell’elettivo. Sul tema della provincia io dico che dovrebbe tornare ad essere un organo elettivo non di secondo livello specialmente laddove ci sono delle specificità. Dopo questo discorso il sindaco chiedeva delle valutazioni all’ospite e questa è stata la risposta. C’è una legge, la legge 19 che anticipa un po’ tutto questo discorso, che vuole eliminare le comunità montane, rivedere i finanziamenti a questi enti. La legge Del Rio impone l’unione dei comuni e porta inevitabilmente ad un cambiamento di mentalità verso la fusione riguardo alla quale è in arrivo uno specifico disegno di legge. La prospettiva è che gli enti di secondo livello di sicuro diminuiscano. La particolarità è molto complicata perché i legislatori sono due. L’intento è che le comunità montane divengano fusioni di comuni montani, come già sta avvenendo in altre regioni, praticamente finora in tutte tranne la Lombardia. L’accorpamento, il trasferimento di quelle funzioni che la legge 19 attribuisce alla provincia, rafforza gli enti di secondo livello in un sistema a voto ponderato. È venuto poi il turno di un’altra questione. Tra il pubblico c’era la referente dell’associazione Bradamante Silvana Onetti che ha organizzato eventi molto interessanti in quella stessa sala e che questa sera ha voluto sottoporre al nostro ospite giurista il caso della sua associazione, raccontando brevemente la storia, le attività in cui è impegnata per la valorizzazione dell’Orlando Furioso in collaborazione con la città di Ferrara città dell’Ariosto, autore dell’opera, ma anche con la Normale di Pisa nonché con vari atenei e studiosi un po’ da tutta Italia che fanno ricerche sull’argomento, organizzano convegni e vari eventi. L’operato dell’associazione in Valtellina è concentrato sulla valorizzazione di alcuni cicli di affreschi presenti in palazzi signorili locali che hanno per tema appunto le storie dell’Orlando. Ma chi segue le attività dell’associazione chi conosce gli eventi che sono stati realizzati a riguardo in biblioteca tutto questo lo sa già. Il discorso che la signora Onetti

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questa sera ha voluto portare all’attenzione riguardava soprattutto l’applicazione della sussidiarietà orizzontale nel caso delle associazioni di volontariato, in particolare la sua. In questo percorso di valorizzazione turistico culturale l’associazione si proponeva come canale di comunicazione tra i vari enti per la valorizzazione di edifici che appunto rispondevano a enti diversi: uno statale, un altro prima demaniale poi comunale e un altro ancora privato. Una rete che avrebbe coinvolto via via tutta una serie di altre figure, artisti soprattutto e, come ricordavamo prima, studiosi, ma anche appunto enti turistici, albergatori e ristoratori poiché tutta questa attività la si vuole rivolta ad un grande pubblico per fornire appunto un turismo culturale. Nel 2014 tutto questo ha dato vita anche ad un comitato locale che ha visto coinvolti i sindaci di vari comuni valtellinesi e ha richiesto l’approvazione del ministero anche per tutta una serie di eventi che hanno a che fare con le ricorrenze legate all’Ariosto e alla sua opera. Tutto questo ha portato nel tempo ad una serie di proficui scambi, incontri, confronti. Tutto cio però non è stato esente da alcune problematiche ricorrenti. In primo luogo il fatto di essere confusi con le associazioni di promozione sociale che vengono tendenzialmente favorite nel rapporto con le amministrazioni perché sono direttamente riferite ai comuni in cui operano mentre l’associazione Bradamante è più trasversale e dunque la signora Onetti faceva notare che non ci sono nemmeno gli strumenti dunque per richiedere dei finanziamenti perché ciascun comune da la precedenza ognuno ai suoi progetti. Questo progetto non è sentito da nessun comune. Visto che si parla di leggi la signora Onetti ha anche citato l’articolo 6 della legge regionale della Lombardia che dice che le organizzazioni iscritte nei registri partecipano all’organizzazione dei servizi comunali sovra comunali e regionali e a tal fine devono essere informate dei programmi regionali e locali per i settori di specifica attività e possono proporre a riguardo programmi e iniziative. L’associazione Bradamante ha proposto le sue iniziative, ma non è mai stata chiamata dagli enti, comuni provincia, comunità montana, hanno però realizzato dei progetti come soci di un’altra associazione ARTEINSCENA hanno ricevuto dei riconoscimenti e vorrebbero elevare sempre di più la qualità. Un altro problema è l’apertura del Palazzo Besta di Teglio non proponibile allo stato attuale nei pacchetti turistici. Questa questione ha molto a che fare con la sussidiarietà. Il sindaco di Tirano proponeva la creazione di un consorzio indipendente dai comuni che potesse occuparsi della questione, ma le strutture non controllate costituiscono sempre un problema in qualche modo. L’associazione porta avanti i suoi progetti gratuitamente perché l’alternativa era si ricevere soldi, ma per lasciare i progetti in mano ad altri. Progetti che possono comprendere vari aspetti come testi per delle guide esplicative ad esempio, la promozione turistica nei distretti culturali e appunto l’apertura del Palazzo Besta che potrebbe essere più fruibile se gestito da un’associazione di volontari appassionati che vi dedicano tempo ed energie. Il problema è che la questione va discussa coi sindacati perché i volontari tolgono posti di lavoro, dunque non lo si accetta nemmeno come sperimentazione, sottoforma di startup. Questo il commento del nostro ospite alla questione. Fare volontariato in ambito culturale non è facile, se poi si valuta anche la questione dei palazzi. La questione dovrebbe essere riferita al comune di riferimento che deve poi sollecitare e comunicare con le associazioni. Il problema però, faceva notare ancora la signora Onetti è che l’opera dell’associazione è di ampio respiro e dunque non fa riferimento ad un solo comune. Il sindaco di Tirano poi faceva notare che agli enti di secondo livello poi si susseguono anche quelli di terzo che governano settori strategici. Negli statuti degli enti locali la sussidiarietà sembra espressa in modo perfetto, ma poi ci si accorge che il finanziamento al 90% è pubblico e di conseguenza è logico dedurre che qualcosa non funziona e che tutta la rappresentatività interna è politica non di categoria. Questo porta in genere a scelte che non sono assolutamente funzionali allo spirito per cui nascono perché chi le rappresenta non è operatore del settore, ma fa scelte che sono di logiche che tendono ad avvantaggiare il proprio territorio a scapito degli altri senza che ci sia mai una visione d’insieme. E qui torna il tema dell’equilibrio come assetto strutturale per far si che il privato sia privato, il pubblico sia pubblico e ognuno segua il suo campo d’interesse. C’è inoltre necessità di trasparenza, di chiarezza, che le azioni che richiedano la spesa di fondi pubblici abbiano le opportune verifiche. Tutto sta avvenendo adesso, se ne sente la necessità, è fondamentale perché anche il fatto di associare i comuni sta facendo muovere qualcosa ma il problema è come perché il

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livello di argomentazione è baso, qualsiasi riforma si voglia fare si vuole sempre comunque cercare di conservare lo status quo. Risposta di Russo. Riguardo a questa particolarità c’è un luogo nel quale si possono avviare discussioni, le assemblee dei sindaci è quell’organo che comunque ratifica due fasi fondamentali che sono il bilancio e le modifiche allo statuto. Questo è il luogo dove si può presentare un progetto che riguarda ad esempio le fusioni o che riguardi un percorso per la ridefinizione di un nuovo statuto, quello della specificità dove prevedere quali possano essere le prospettive. Da qui un discorso più specifico su tutta una serie di vari decreti come quello numero 124 per la ridefinizione della camera di commercio che ha introdotto la specificità come principio generale per la legislazione e dunque le camere di commercio in quanto specificità non si toccano e la stessa cosa dovrebbe accadere, e il condizionale è d’obbligo, perché tutto dipende dall’organizzazione delle prefetture e dal governo che potrebbe far cadere la costituzione della delega però anche li l’emendamento dice che bisogna tener conto della legge 56 del 2014 per la ridefinizione delle prefetture perciò tener conto della ridefinizione della struttura dello Stato rispetto anche alla riorganizzazione provinciale. È chiaro che tutte queste riforme se si mettono insieme, l’intento è quello di eliminare i sovra livelli cioè tutte queste forme intermedie che creano tutte queste situazioni di cui stiamo parlando. Per quanto riguarda la realtà della provincia di Sondrio l’intento sarà quello di eliminare le comunità montane (di questo intento avevo letto sul libro LA CASTA perché c’erano dei luoghi che si costituivano come comunità montane pur essendo in riva al mare per ricevere vantaggi cui non avrebbero avuto diritto anche se in realtà non so se questo c’entri effettivamente qualcosa con questa normativa ndr), favorire le fusioni e nel frattempo le unioni sperando che diventino poi fusioni. Il punto di domanda rimane sulla partita del BIM che ha una natura e una deriva diversa perché spetterà allo Stato decidere, poi è chiaro che sono anni in cui l’intento è quello di semplificare l’articolazione dello Stato e rientra in quella che è di sicuro una componente della sussidiarietà perché comunque la macroregione alpina è una strategia dove appare chiaro che c’è una visione che ha tre livelli e sono la città metropolitana, la regione e lo Stato. È chiaro che per noi il comune è fondamentale, ma tutti i comuni parteciperanno a un secondo livello perché il modello europeo considerato centro di propulsione e sviluppo è la città metropolitana. È chiaro che il comune rimane comunque fondamentale in quanto titolare della sussidiarietà e il soggetto più vicino al cittadino in base al principio che dovrebbe essere un fondamento. Alcuni la chiamano la riforma dei sindaci nel suo complesso, la partita starà li perché poi nella definizione delle funzioni dell’area vasta l’alternativa è o la regione o il comune. Le regioni saranno chiamate a scegliere se tenere oppure no le aree vaste. È chiaro che poi da quel momento dovranno farsi carico di alcune delle funzioni che erano di competenza delle province e darle all’area vasta e tendenzialmente le regioni non si vogliono fare carico perché poi in realtà, subito dopo la riforma Del Rio si rischia confusione. Non sono poche infatti le funzioni a carico delle province soprattutto in Lombardia che è la regione che più di tutte ha distribuito le funzioni perciò la partita è molto importante. A questo punto è stato di nuovo il marito dell’assessore Bianchi a voler prendere di nuovo la parola per portare l’attenzione su una questione che in Italia è sempre più evidente che forse esula un po’ dal tema della serata, ma è comunque attuale. Io credo che in Italia ci siano troppe leggi perché c’è la tendenza a legiferare su troppe particolarità o specificità che creano confusione e diventa difficile agire anche riguardo a questioni che sembrano semplici, ma richiedono degli iter burocratici labirintici, lenti e snervanti che alla lunga tolgono la voglia di fare. Risposta di Russo che ha fornito tra l’altro qualche dato interessante. La Germania ha circa 20 mila leggi, la Francia 30 mila mentre l’Italia arriva a 200 mila. Era stato istituito un ministero che faceva capo a Calderoli e che aveva proprio il compito di operare semplificazioni di questo tipo. C’è stato poi un incontro che riguardava proprio la burocrazia alla Camera di Commercio con Maroni durante il quale si è parlato anche dell’eliminazione delle leggi. In realtà erano state eliminate solo leggi che già non si usavano più. Dal 1988 esiste un istituto della delegificazione che ha lo scopo di eliminare appunto un po’ di leggi e oggi è stato approvato il nuovo codice degli appalti che riduce del 30% la normativa a riguardo creando da più codici un solo codice di 267 articoli. Dunque questa è una partita fondamentale. La sovrabbondanza

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istituzionale normativa di questo Paese rende tutto davvero complicato, dalla decisione di riordinare l’articolazione dello Stato per quanto riguarda province, comuni eccetera fino ad arrivare a temi di cui non parla praticamente nessuno come il rapporto tra un testo unico delle leggi sull’ordinamento locale e la legge Del Rio, perché ci sono dei motivi di scontro su alcune norme. La riforma costituzionale del 2001 ha, e lo si sapeva, generato una proliferazione di normative, perché dopo questa riforma sono aumentate le competenze delle regioni che dunque potevano fare tutte le leggi che volevano, creando così un sistema iperstatale. Dal 2001 ad oggi quando ancora si parla di riformare la Costituzione, non si è riusciti a fare due cose: attuare definitivamente il federalismo fiscale in base all’articolo 119 della Costituzione e a una legge, la 42 del 2009 che prevedeva semplici decreti legislativi che da tredici sono stati portati a tre e il federalismo fiscale è la partita più importante per questo Paese e poi non si è riusciti ad attuare il nuovo codice per la carta delle autonomie locali perché dopo la riforma del 2001, si sarebbero dovute definire le funzioni fondamentali degli enti locali, di quelli aggiuntivi eccetera per cercare di mettere in ordine. Tutto questo non è mai riuscito. Le ore passavano, ma l’attenzione lungi dal scemare nei presenti, generava sempre nuovi fermenti, spunti per aprire nuovi argomenti di discussione. Un volontario della cultura del gruppo della biblioteca di Talamona ha proprio voluto approfondire la questione del volontariato che pare non fosse presa in esame dal Codice di Camaldoli e la questione della sussidiarietà, che, lui raccontava, ai tempi della sua infanzia, soprattutto nelle piccole comunità, veniva applicata spontaneamente, disciplinata semplicemente dal buon senso delle persone che si davano aiuto reciproco in base al bisogno, senza che dovesse esservi una legge che regolasse queste cose. Insomma un tempo il principio veniva applicato come regola di vita quotidiana senza che se ne parlasse, mentre ora se ne parla molto perché sembra difficile la loro applicazione (in realtà cio che diceva questo signore si può riscontrare oggi per quanto riguarda le cosiddette banche del tempo, una questione che sarebbe stato interessante sollevare, ma lì per lì non mi è venuto in mente ndr). Per quanto riguarda il codice di Camaldoli, il signore raccontava che è molto incentrato sull’industria di Stato. Il senatore Vanoni diceva che la società capitalistica è il miglior sistema per produrre, ma non è il miglior sistema per distribuire, mentre per spiegare quello che sta succedendo adesso basta la barzelletta di Eco sulla fetta di pane (che il signor volontario, il signor Scarpa, non ha citato, ma sicuramente internet sarà d’aiuto ndr) alla fine si parla, si discute e se non si può dire che siamo andati indietro ora però non è più spontaneo, tutto deve essere disciplinato. È molto interessante questo discorso, in pratica si dice che la gente non è più in grado di agire secondo coscienza, bensì solo perché ci sono le leggi che dicono cosa fare o non fare e stabiliscono sanzioni, il che purtroppo diventa sempre più drammaticamente evidente. Addirittura nei paesini si facevano le collette diceva ancora il signor Scarpa collette della comunità a favore dei vari bisognosi. Mi è capitato di pensare che questo sistema delle collette sarebbe meglio delle tasse, si insomma la riscossione classica delle tasse su scala nazionale, ma quando provo a dirlo non mi ascolta nessuno. A questo proposito e a proposito dell’intervento introduttivo, anche il sindaco di Talamona ha voluto proporre il suo pensiero. A un certo punto è stato fatto il parallelo tra la sussidiarietà e la terza via che avrei bisogno di capire meglio, ma intanto, per come la vedo io, per la mia formazione eccetera per una cultura che comunque a livello giuridico è molto scarsa e dunque qualche passaggio mi è sfuggito, però credo di poter interpretare la terza via come un passaggio tra due vie opposte, una cosa che mi è chiara dal punto di vista economico, mentre secondo me la sussidiarietà rientra nella categoria del sociale più che dell’economico, quindi volevo chiedere se era possibile chiarire quali sono le opposte vie nella categoria del sociale, non dell’economico, perché penso che dal punto di vista economico sia abbastanza chiaro. Risposta di Russo. Zamani quando ha presentato il report sulla sostenibilità sociale spiegando anche il principio di reciprocità, lo chiarisce così: il principio di reciprocità lo si può spiegare portando l’esempio di un condominio; quando un bambino non sta bene la persona anziana lo cura se il padre di quel bambino gli porta la spesa perché non riesce (e qui ci voleva un intervento sulle banche del tempo, ma i postumi di una brutta influenza non hanno giocato a mio favore ndr). Questo lo spiegava un professore sul finire dell’Ottocento, che ha scritto un trattato

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che Zamani riprende e parla di varie comunità di pescatori, piuttosto che di altre realtà nella città di Genova ed è tutto basato sul principio di reciprocità, un principio che, ha fatto notare il signor Scarpa, in comunità di questo tipo può essere applicato capillarmente, ed è un qualcosa che ha ripreso Russo, connota culturalmente e anche dal punto di vista dell’identità ideologica una società che al giorno d’oggi è difficile riscontrare perché c’è un senso della comunità, della sicurezza soprattutto ben diverso, c’è una disarmonia sociale forte soprattutto nelle grandi realtà, ma sempre più anche nelle piccole. Il signor Scarpa faceva notare che la realtà di un tempo, quando ci si conosceva tutti, favoriva l’applicazione spontanea del principio di reciprocità, quando tutti si interessavano di tutti, mentre ora invece non ci si interessa più di nessuno (in realtà però bisognerebbe chiedersi quanto questo interessarsi tutti di tutti ha a che fare con la reciprocità e quanto invece più con la mera morbosità di impicciarsi della vita altrui ndr). La società dei consumi fondata esclusivamente o quasi sugli interessi economici, ha osservato ancora Russo, è quanto di più ostacolante per l’applicazione del principio di reciprocità. Per quanto riguarda invece quello che diceva il sindaco (di Talamona ndr) la terza via va intesa in questo senso: la sussidiarietà è stata proprio pensata in contrapposizione a due ideologie diametralmente opposte che sono da una parte il capitalismo e il neoliberismo, cioè il perseguimento dell’interesse economico personale e dall’altra il marxismo di tipo collettivistico per cui appunto si può notare quanto siano ai due estremi. Nell’ambito giuridico io ho sostenuto che la sussidiarietà si pone anche come terza via che cambia la forma dello Stato che per i costituzionalisti è rappresentato dal rapporto tra il potere e il cittadino e dunque tutto si gioca tra il governante e il governato tra chi esercita il potere e chi lo “subisce”. È ovvio che la sussidiarietà si pone come terza via rispetto a due modelli diametralmente opposti dove la libertà viene completamente negata da una parte mentre dall’altra non è regolamentata. È chiaro che in questo momento la circostanza si pone come terza via, una terza via che Stefano Zamani identificava come dottrina sociale della Chiesa rispetto alle due ideologie capitalista e marxista. Dunque io faccio questo ragionamento sulla sussidiarietà perché nelle due accezioni particolari delle forme di Stato dove da una parte prevarica appunto lo Stato e dall’altra il privato penso ad esempio all’iniziativa economica. Quando l’Italia ha aderito all’Unione Europea il punto di domanda era l’articolo 41 della Costituzione che afferma che l’iniziativa economica è libera con il limite, disciplinato dal comma successivo, dell’utilità sociale. A che tipo di sistema è ascrivibile questo principio, al marxismo o al liberismo, considerando che pone limiti all’iniziativa economica che è un componente fondamentale per un sistema giuridico ed economico in un’economia mista, una tipologia nella quale il principio di sussidiarietà si pone a suggello di un modello che costituisce appunto una terza via. Una delle ultime iniziative del governo Berlusconi è stata una proposta di riforma costituzionale per l’articolo 41 della Costituzione in modo che anche in questo articolo, come nel 118, venisse introdotto il principio di sussidiarietà a coronamento di un modello che avrebbe dovuto essere di tipo marxista leninista, ma più liberista e rimanendo comunque questa componente della sussidiarietà che connota le due sfumature. A questo punto dal pubblico è giunta un’altra considerazione da parte di chi ha dichiarato di aver partecipato a due incontri col professor Zamani e tra l’altro in un’occasione si trattava di una scuola politica triennale patrocinata dalla diocesi e che riguardava la dottrina sociale della Chiesa, un tema dunque esattamente com’è stato descritto questa sera che comprendeva anche l’economia civile. In uno di questi incontri Zamani aveva raccontato uno dei suoi sogni che era quello della borsa sociale che era un’esperienza già presente nella Firenze dei tempi che furono dove effettivamente veniva quotata nella società no profit e dunque una borsa senza profitto, inteso come profitto in termini di economia, ma comunque con un valore e dunque le persone possono investire in una società, in una azienda che in realtà crea un valore che però non è misurabile in termini economici secondo la mentalità corrente, un concetto che si sposa molto con quello di sussidiarietà nel quale cambia il paradigma per cui non esiste solo il concetto di produttività. Un discorso in cui Russo ha avuto modo di inserirsi. Lui (Zamani ndr) avrà parlato anche dell’economia di comunione e dell’economia cooperativa. In America si stanno sviluppando studi importantissimi su questa cooperazione economica come modello che cerca di superare i

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limiti e le arretratezze del capitalismo. Magatti che è un sociologo anche dell’economia ha scritto un libro in cui afferma che la concorrenza non piace e ci sono degli studi sempre più accurati sul sistema economico della concorrenza così com’è stata originariamente recepita in contrapposizione a modelli di economia civile. A questo punto è stato il signor Scarpa a portare un nuovo intervento. Il primo dopoguerra è iniziato sulla base del codice di Camaldoli, ma oggi che cosa rimane di questo codice nella società attuale? Risposta di Russo. Nella Costituzione italiana ci sono le tracce nei principi fondamentali, se ci si chiede cosa rimane dello spirito questa è una bella preoccupazione. Ed è l’assessore Lucica Bianchi che ha voluto a questo punto intervenire. Più che cercare di trovare le tracce perché probabilmente coloro che hanno vissuto quei tempi potrebbero dare una migliore interpretazione perché io credo, avendo trovato nel libro un paragrafo che mi ha incuriosito parecchio, cioè mi chiedo quanto la globalizzazione possa ancora tenere conto della specificità dell’individuo perché tu nel libro scrivi che il fondamento concettuale, in termini molto generali sotteso al principio di sussidiarietà e il riferimento al singolo, alla persona, al cittadino, quale membro della società civile e politica come destinatario finale però noi paradossalmente viviamo in una società che tende alla globalizzazione, un po’, con gusto amaro lo dico, quella che, non tanto tempo fa fu la massificazione che rende tutti uguali, quindi come si possono trovare questi corpi di legge, come ci si può trovare a vivere un principio come quello della sussidiarietà in una società che tende alla globalizzazione? Questo è un mio grande interrogativo irrisolto e tenete presente che per formazione, crescita e cultura sono vissuta in due sistemi sociali e di governo diversi passando da un regime totalitario a uno democratico quindi tutti i sistemi che sono stati nominati stasera portano al comunismo, a questo sistema che coopera perché la cooperazione è uno dei suoi fondamenti e dunque c’è una certa nostalgia per alcuni sistemi del passato cosiddetti totalitari che sono stati cancellati perché si voleva cancellarli? Dal pubblico è arrivata questa risposta. La crisi attuale ha messo in crisi anche il modello attuale che sembrava consolidato. Questa crisi dura ormai da otto anni può richiamare Camaldoli nella voglia di cambiare che ora c’è in tanti a cambiare anche le prospettive, riconsiderarne di vecchie. E qui si ritorna alla considerazione che faceva l’assessore Bianchi subito dopo che l’ospite ha presentato il suo libro: sono necessari momenti di crisi per far emergere queste tematiche e spingere la gente a riflettere? Perché solo la crisi spinge a rimettersi in discussione? (del resto quando va tutto bene cosa vuoi discutere se va tutto bene non si cerca mai il pelo nell’uovo se non in rare eccezioni ndr) Una crisi ha portato al Rinascimento per esempio. Dunque la crisi sembra essere il motore del progresso senza alcuna alternativa, sembra che solo con le crisi l’umanità tutta in modo compatto dia il meglio di sé (in realtà c’è chi non dà il meglio di sé in nessuna situazione buona o cattiva che sia, ma questo è un dettaglio ndr) e percepisca meglio tutti questi concetti di cui abbiamo parlato. Ma è proprio necessaria la crisi per tutto questo, non c’è un altro modo? A questo punto è intervenuto il sindaco di Talamona che ha raccontato di aver assistito alla conferenza di un professore della Bocconi, Pezzani, che ha scritto un libro che mette in evidenza il valore umano dell’economia, dunque l’economia non solo come valore economico, ma anche sociale, dunque l’importanza di valorizzare il capitale umano, la forza lavoro. Questo economista insomma vede il valore economico nella valorizzazione del capitale umano che se vogliamo è un aspetto complementare della solidarietà e della sussidiarietà. La crisi stimola questi pensieri, gli aspetti legati alla difficoltà, al volontariato, alla necessità di prestare volontariato per far fronte a delle difficoltà. Proprio cio che l’assessore Bianchi, come ha di nuovo ricordato, definiva caratteri liberatorio e riparatorio del fare volontariato partendo dalla persona per esercitare la propria voglia di fare perché chi fa volontariato fa del bene alla sua vita e a quella degli altri un senso di società che si riscontra più facilmente in una società comunitaria. E dunque sulla base di queste riflessioni, delle sue esperienze personali e incalzata dal marito, l’assessore Lucica Bianchi ha concluso che il comunismo è un terreno migliore rispetto al capitalismo per l’applicazione del principio di sussidiarietà. Un sistema totalitario che sia fascista o comunista è un sistema piramidale con una punta e una base senza nulla in mezzo che permetta a questo principio di andare su e giù a destra o a sinistra e dunque lo rende paradossalmente più applicabile nel

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comunismo. A questo punto l’ospite ha ripreso la parola. Questa domanda ricompone il fatto che le due anime, i due aspetti della sussidiarietà, che è stata proprio pensata a cavallo di due sistemi e regimi diversi comunista e capitalista perciò quest’ultima questione sul dove, in quale ambito il principio di sussidiarietà si manifesta meglio è molto interessante anche se io invece credo che il principio di sussidiarietà si esprima al meglio nell’ambito del sistema democratico-capitalistico perché l’intento delle cooperative così come erano concepite nei sistemi sovietici, nulla hanno a che fare con i sistemi cooperativi così come invece si esprimono nelle democrazie capitaliste. Uno dei maggiori temi di interesse tra i vari studiosi mondiali, premi Nobel recenti per l’Economia, è la diseguaglianza. Questo è diventato il tema dei temi. In un sistema globalizzato che porta disparità economiche, ma non solo economiche, perché il problema della coesione sociale si fa sentire in vari modi nei discorsi di Obama, ma anche in quelli di papa Francesco che teorizza il concetto di democrazia poliedrica. Nell’incontro che c’è stato due estati fa tra Obama e papa Francesco, si contrapponeva un modello, quello della democrazia poliedrica appunto, a quello della democrazia multiculturale e aperta che sembrerebbero due sfaccettature di uno stesso discorso in quanto sia l’uno che l’altro non credono in una globalizzazione che appiattisca e rende tutti uguali, ma appunto in una globalizzazione che riconosce le varie culture, i vari aspetti, le varie sfaccettature appunto del mondo e dell’umanità e dunque dove in tutto questo la sussidiarietà può essere una risposta? Per i giuristi la sussidiarietà è un principio di preferenze, ma anche di relazioni, di valori, di relazioni sociali. La globalizzazione ha la caratteristica di portare al distacco del territorio e il problema è che lo spazio giuridico europeo delle istituzioni corrisponde con quello del mercato. La prevaricazione, il condizionamento delle imprese del mercato rispetto alla valorizzazione dei compiti delle istituzioni porta a un distaccamento. Che democrazia è se si eleggono delle istituzioni che poi in realtà non hanno potere? Questo è un problema, perciò la democrazia è fortemente rimessa in discussione. La sussidiarietà, al di là delle dinamiche orizzontali e verticali, al di là delle dinamiche superiori eccetera porta e consegue una serie di corollari ed estrapolazioni che sono la partecipazione, l’economia reale, tutte sfaccettature, nella sua fase attuativa, applicativa, che portano a pensare ad un modello diametralmente opposto che è quello della globalizzazione senza regole perché è questo il problema quello che a partire dagli anni Ottanta ha causato il crollo del sistema finanziario. Obama quando è stato all’università di Parigi ha detto che è stato creato un sistema di economia globale in cui se fallisce una banca fallisce uno Stato com’è successo all’Islanda. Il principio di sussidiarietà sottintende necessità di operare riforme perché il vento non si ferma con le mani. La democrazia è un percorso. L’ultimo premio Nobel per l’economia dice che, comunque vada, il progresso portato ad un livello di diseguaglianza rimane indietro e così la democrazia. Il tutto ha bisogno dei propri percorsi e la sussidiarietà potrebbe essere un fondamento per gli elementi di sostenibilità di cui ha bisogno la democrazia, perché il problema della democrazia così come di molte altre realtà che riguardano l’economia e la dimensione sociale, è la sostenibilità. Che modello di democrazia lasceremo in eredità alle generazioni successive? Il problema è la sostenibilità tramite strumenti di supporto. In virtù di questo discorso del nostro ospite qualcuno si è chiesto se in fin dei conti ce la siamo meritata la democrazia, se siamo stati capaci di usarla, a che punto siamo con lo sviluppo dei sistemi democratici, cosa abbiamo perso e cosa guadagnato rispetto ai sistemi precedenti (questi interrogativi assillano anche me ndr) considerando che per i più giovani è difficile fare dei confronti non potendo quasi più contare sulle testimonianze di chi ha vissuto il prima e il dopo, le guerre e la ricostruzione. A questi interrogativi il nostro ospite ha così risposto. La democrazia è di sicuro una forma di governo che è la migliore che sia stata inventata perché finora non sono state inventate alternative migliori per quanto riguarda la libertà, la partecipazione eccetera. I partiti politici sono in crisi è vero, ma non è stato ancora inventato nulla che sostituisca in meglio questo sistema. Qualcuno tra il pubblico è intervenuto mettendo a confronto i vecchi lazzaretti che alleviavano le sofferenze con gli ospedali di oggi che sono visti come sistemi per fare soldi, soprattutto le cliniche private che perdono di vista l’obiettivo principale che è curare. Da qui una riflessione sul sistema sanitario che potrebbe essere un’applicazione concreta del principio di sussidiarietà se non ci

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fossero alcune pecche che qualcuno, proprio quando si era ormai in chiusura di serata ha voluto analizzare. Qualcuno ha notato come costi di più il biglietto per entrare allo stadio che un antibiotico, ma un antibiotico, come tutti i farmaci è frutto di investimenti e ricerche che richiedono molto tempo e denaro e così ci si chiedeva dove va a finire la differenza tra i prezzi di acquisto tutto sommato irrisori e i costi di produzione (io vorrei sapere quale farmacia fa pagare così poco così potrei andarci anche io ndr). Pecche a parte, la sanità pubblica, così come l’istruzione per tutti, come qualcun altro faceva notare, è una grande conquista dei sistemi democratici. Cio che non torna e non và giù è il fatto che la libertà spesso venga usata per speculare, dunque che un principio fondamentale della democrazia venga usato in modi e con risvolti decisamente poco democratici. Insomma sembra che ai sistemi manchi sempre un pezzo e non si possa mai dire che è impossibile fare meglio di così. Credo che sia questa la lezione più importante che deriva da questa sorta di simposio del XX secolo.

Giovedì 17 marzo 2016 VIVERE QUI con Giacomo Gusmeroli

Se quella della volta scorsa è stata una serata in stile simposio/salotto tra Sei e Ottocento (più o meno) quella di stasera ha avuto un sapore più rustico, più contadino, un tempo in cui i nonni raccontavano ai nipotini la loro giovinezza arricchendoli di un tesoro di ricordi ed esperienze. Per usare le parole dell’assessore alla cultura Lucica Bianchi (in parte riprese dal mio comunicato stampa) l’ultima tappa dei giovedì letterari, un evento che si spera possa continuare a svolgersi, perché continueremo certamente ad ospitare scrittori con le loro opere, stasera si conclude con un poeta, un poeta di montagna, che nelle poesie di VIVERE QUI traduce in versi echi di vita di altri tempi, una vita dettata dai ritmi della natura, scandita dai riti religiosi, dal lavoro nei campi e dalle tappe principali della vita nelle società contadine (ma per molti secoli in tutte le società): nascite, morti, matrimoni. Versi vividi quelli di Giacomo Gusmeroli, classe 1955 e una vita intera all’insegna della poesia (anche attraverso laboratori appositamente pensati per persone più disagiate), versi che compongono una sorta di capsula del tempo che ci riporta in un epoca che è allo stesso tempo antica, ma in certi luoghi ancora presente e che tecnologia e globalizzazione rischiano di far scomparire per sempre. Versi che, a voi che partecipate a questa serata, potete gustare tranquillamente, versi in cui, io credo, tutti noi, troveremo qualcosa in cui riconoscerci. Il poeta Giacomo Gusmeroli sarà accompagnato, nella sua presentazione, da Maurizia Bertolini e dal musicista Paolo Laboule. Ed è stata Maurizia Bertolini a questo punto ad introdurre l’ospite ripercorrendo le tappe principali della sua biografia e della sua carriera artistica (nato a Tirano in Val Corta, ha pubblicato L’APPRENDISTA DELLA PAROLA, LUCORE D’ACQUE, LA BILANCIA IN EQUILIBRIO, VIVERE QUI che è il libro presentato questa sera. Ha collaborato con artisti, tenuto laboratori nelle scuole e lavorato a progetti poetici con persone con varie problematiche. Le sue poesie sono state tradotte in inglese e hanno partecipato all’International Poetry, è fra i premiati del premio internazionale di poesia Città di Porciano e un’importante rivista mondiale di poesia gli ha dedicato un articolo) e proponendo anche delle riflessioni personali sulla particolare magia dei libri che se aperti a caso possono dare dei messaggi, com’è successo a lei medesima coi libri scritti dall’ospite da presentare. Attraverso questo gioco di casualità è come se fosse stato l’ospite stesso a suggerire le linee guida dell’intervento introduttivo. È magico quando i libri ti parlano ha appunto detto la signora Bertolini ed è proprio lo scopo di Giacomo Gusmeroli creare dei libri che dicano qualcosa. Lui si definisce un nostalgico malinconico, ma non di una nostalgia che ci lascia nel perdere, ma nel guardare cio che è stato che cosa è stato, guardare il nostro passato, la nostra storia, proprio per invitarci a non perderla. Un passato come quello in cui si “faceva villa” (queste sono le parole che Maurizia Bertolini ha letto aprendo un libro di Giacomo Gusmeroli a caso ndr) cioè si creava una magia dell’incontro e dello stare insieme, che oggi non c’è più perché oggi è tutto cambiato e se è vero che non si può tornare indietro è anche vero che possiamo non perdere alcune cose oppure possiamo lavorare, dal nostro cuore, per conservare cio che è importante e per essere qua, non limitandosi a guardare a ritroso, ma compiendo un vero e

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proprio cammino di ricerca interiore per vedere cosa si fa oggi, che cosa si può andare a prendere dal passato e portarlo nell’oggi per non dimenticare mai chi siamo. Ed è nello spirito del far villa di una volta che, come ha augurato la stessa Maurizia Bertolini, si è svolta questa serata, che ha concluso un ciclo molto interessante. Giacomo Gusmeroli ha preso la parola per i ringraziamenti di rito e prima di cominciare a leggere i testi da lui scelti per la serata ha spiegato come il libro si articoli in quattro fasi e che i testi da lui scelti riguardano solo la prima fase in cui il poeta racconta di quando era piccolo. La seconda parte è dedicata ad un uomo che veniva spesso a Tartano che il poeta ha messo a paragone con San Francesco. La terza parte racconta del ritorno in Tartano di Giacomo Gusmeroli adulto. L’ultima parte è il racconto di una passeggiata. Nel libro il poeta immagina di raccontare i propri ricordi per trasmetterli ai propri figli e in effetti la sensazione che si prova sfogliando il libro e ascoltando il poeta durante la lettura è proprio questa. Si ha l’impressione di avere a che fare con un taccuino di appunti ove sono annotati i ricordi di un viaggio dentro se stessi e attraverso la vita, un libro scritto non tanto per essere pubblicato, ma per lasciare una traccia indelebile del proprio cammino terreno. La maggior parte delle persone una volta diventate adulte e mature esprimono questo bisogno di comunicarsi soprattutto a voce ed è un peccato perché così molto va perso. In particolare mentre il poeta leggeva ho ripensato a quando da piccola ho provato a mettere per iscritto le memorie di mia nonna, ma non è stato possibile portare a compimento questo progetto e questo è un mio grande rimpianto. A rendere ancora più efficace il tutto un accompagnamento musicale che io definirei tono su tono nel senso che il ritmo e il senso della musica si sposava perfettamente con quelli della poesia. Il musicista infatti ha arrangiato personalmente la maggior parte della musica che ha suonato mettendo insieme i suoni e i rumori raccolti durante una passeggiata in montagna (per i luoghi di Tartano e dintorni) proprio con Giacomo Gusmeroli. Così ad accompagnare il suono della chitarra sentiamo il vento, il cinguettio degli uccelli, un ruscello, le parole di Giacomo durante la loro chiacchierata. Il musicista Paolo ha espressamente descritto questo suo particolare arrangiamento come una sorta di piccolo poema musicale che celebra appunto questi istanti trascorsi con Giacomo. L’ultimo accompagnamento prima della chiusura del reading è stata invece la cover di un brano francese che parla dell’importanza del ricordare. Un brano accompagnato dal suono dello scorrere di un ruscello tratto appunto dal personalissimo piccolo grande poema musicale creato da Paolo. Dopo l’esecuzione del brano Giacomo Gusmeroli ha voluto esprimere la sua stima verso Paolo che egli conosce sin da quando era piccolo essendo amico della sua famiglia, dei suoi genitori, presenti in sala, che nell’ultima parte della serata hanno espresso la loro gioia per il cammino del figlio e per questa serata che si è svolta. Ma prima Giacomo Gusmeroli ha letto ancora qualche poesia. Queste tre poesie le ha tratte dai suoi tre libri precedenti (uno dei quali, APPRENDISTA DELLA PAROLA era in vendita con VIVERE QUI). La prima poesia COSA PUO’ UN ATTIMO fa parte della raccolta LUCORE D’ACQUE dedicata dal poeta ai suoi fratelli Gervasio, Daniele, Dario, Sara e Giuliano. La seconda si intitolava SIAMO FORME FRAGILI. Prima di leggere l’ultima poesia Giacomo Gusmeroli ha voluto fare una piccola introduzione. Il poeta crea emozioni e quant’altro però a volte deve anche mandare dei messaggi (c’era un poeta che diceva che la poesia è un messaggio in bottiglia lanciato nel cuore degli uomini, ma non ricordo chi fosse ndr) nella mia ultima poesia che si intitola PER CANCELLARE vorrei lanciare un messaggio in cui io credo molto che è quello del perdono. A questo punto la lettura è terminata e Giacomo Gusmeroli ha voluto lasciare la parola a Paolo in modo che anche lui potesse raccontare la sua vita, le sue esperienze e il suo percorso musicale. Ho avuto questa fortuna di incontrare Giacomo e di lavorare con lui perché è una vecchia conoscenza infondo e dunque lui ha deciso di coinvolgermi per questa presentazione delle sue poesie per la quale ho voluto appositamente registrare il suo mondo sonoro proprio per portarlo come arricchimento della serata. Ed è così che si è svolta questa passeggiata documentata da una precisissima mappa che vorrei che divenisse un vero e proprio audio documentario a testimonianza di questo cammino insieme. Questa sera alcuni spezzoni di questo lavoro hanno accompagnato dei pezzi del mio repertorio che richiamano le tematiche di questa serata. Il primo pezzo riguardava la nascita in qualche modo, l’embrione che si sviluppa nel

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grembo materno, le generazioni passate e future, mentre i due pezzi centrali erano due parti di uno stesso brano, una saga familiare dei parenti di mio padre emigrati in America col sottofondo della voce di Giacomo che parlava di emigrati e l’ultimo era il pezzo sul tema del ricordare col sottofondo di acqua portatrice di memoria. La mia musica si trova per adesso solo su Internet, non ho più copie del mio disco, uno nuovo è in preparazione che uscirà quest’anno. A questo punto è stata Lucica Bianchi a rompere il ghiaccio inaugurando il momento dello scambio dei pensieri, delle opinioni, delle impressioni. I nostri ospiti di questa sera sembrano incarnare perfettamente lo spirito di questa iniziativa dei giovedì letterari ha esordito perché siamo qua in una tranquilla serata di primavera, di giovedì a fare letteratura ad ascoltare musica. Mentre ascoltavo mi sono fatta un appunto. Leggevo tanti anni fa il poeta Mario Luzi senatore a vita morto nel 2005 e mi chiedevo se c’è qualche verità nel pensare ad una vicinanza un percorso spirituale tra il percorso di questo poeta e quello di Giacomo Gusmeroli. Mario Luzi faceva parte della corrente dell’Ermetismo (cioè una poesia oscura che non punta tanto sul significato quanto sul suono delle parole ndr) una poesia di non facile comprensione. Io mi domando quanto c’è di vero perché queste poesie che sono state lette sono entrate immediatamente nel cuore in modo vivo, mi sono vista bambina, ho visto i miei famigliari mi sono riconosciuta in alcune cose che queste poesie raccontavano. E dunque quanto c’è di spirituale, mi chiedo, in questa ricerca poetica? Risposta di Giacomo Gusmeroli. Io ho contattato Mario Luzi per sottoporgli delle mie poesie pochi giorni prima che morisse, tanto che qualcuno ha insinuato che Mario Luzi fosse morto leggendo le mie poesie. Quando ho cominciato a scrivere ho sottoposto le mie poesie a diversi poeti già affermati e tra questi anche Mario Luzi uno dei più grandi poeti italiani, ma molto umile che per me ha rappresentato tantissimo mi ha dato dritte e consigli, mi diceva che le mie poesie andavano bene se volevo scrivere per me stesso e che per migliorare avrei dovuto leggere poesie così mi sono messo a leggere moltissimi libri di poesie. Io credo che nella mia poesia la spiritualità ci sia in pieno perché per me la spiritualità è la fonte più alta della mia esistenza, ma spiritualità intesa in ogni ambito della vita anche quando coltivo l’orto, perché anche mentre coltivo l’orto riesco ad esprimere qualcosa che per me diventa spirituale quindi alla fine non è solo una ricerca di Dio o di un’entità superiore, ma guarda anche al creato che ci circonda e dunque credo che la mia poesia sia proprio imbevuta di spiritualità. Di nuovo l’assessore Bianchi. Sempre parlando di spiritualità qui per intenderci con l’aiuto della poesia di Giacomo e la musica di Paolo, stasera credo che in qualche modo la spiritualità è scesa qui tra di noi. La tua poesia mi ha stimolato una riflessione, perché sempre le tematiche inerenti a poesia, spiritualità e filosofia mi fanno pensare molto. Vorrei solo dire in un’unica frase che, così come Giacomo ha trovato e seguito questo percorso, questa ricerca spirituale che lo ha portato poi a compiere queste opere, io credo che ognuno di noi dovrebbe avere un motto nella vita. ascoltando queste poesie mi sono venute in mente le parole di un altro scrittore e santo italiano, San Bernardino da Siena, che diceva che “ogni volta che l’anima ha stima di una cosa essa diviene atta ad essere acquisita, mentre cio per cui non si ha stima non potrà mai essere acquisito e questo è il fondamento di tutto” perché c’è una continua ricerca, non soltanto nel mondo dei filosofi, ma in tutti noi, in qualche modo per vari gradi ha luogo questa ricerca continua di una risposta al tutto, dunque io credo che questa ricerca possa concludersi proprio nel cercare di avere, come Giacomo dice, persino piantando l’orto, avere stima, perché la stima comporta poi quella carica di spiritualità e amore. Questo discorso dell’assessore pare aver infiammato gli animi del pubblico, che sono partiti in quarta con commenti, complimenti. Qualcuno ha fatto notare con un certo pathos come le persone come Giacomo, che riescono a realizzare i sogni della gioventù siano degli esempi per tutti. Un membro dell’amministrazione comunale ha voluto esprimere le sue riflessioni e i suoi ringraziamenti anche all’assessore Lucica Bianchi che si è particolarmente prodigata per la realizzazione di questo ciclo di serate in un giorno che di solito è giorno di riunione, ma che stasera appunto, come è già stato detto, è stato dedicato ad una maggiore scoperta della spiritualità, dunque non si può che ringraziare di questo. Queste poesie che conoscevo poco mi hanno fatto, come dice Lucica, prendere stima dei libri e in particolar modo questo libro di poesie mi ha fatto riscoprire un modo di vivere che io purtroppo o per fortuna non ho vissuto direttamente, ma che

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conosco attraverso i racconti di genitori, nonni, zii e parenti vari e mi affascina e mi sarebbe piaciuto almeno provare a vivere. Ringrazio anche Paolo per l’atmosfera creata con la sua musica che ha contribuito non poco alla spiritualità. Qualcuno ha voluto esprimere a Giacomo un’ammirazione sconfinata per il suo modo di scrivere utilizzando il linguaggio ermetico che è quello più efficace per consentire al lettore di interagire coi pensieri dello scrittore e ha dichiarato che bisogna sostenere i talenti. Se su un determinato territorio sono presenti scrittori o artisti di pregio essi meritano di essere aiutati a sviluppare il loro talento e ad emergere su più vasta scala. Si va sempre a cercare gli scrittori in giro in posti molto lontani da noi e non si riesce a vedere e ad apprezzare cio che ci sta vicino (questo succede anche coi luoghi ndr) a valorizzare le eccellenze di casa nostra. Purtroppo questo discorso lo si fa sempre moltissimo a parole e relativamente poco all’atto pratico. Ed è stato a questo punto Giacomo Gusmeroli a fare l’intervento conclusivo. Lo scrivere è innanzi tutto un atto di solitudine ha detto è un atto molto intenso e privato poi però se non si libera la parola non serve a niente. Sono contento di aver creato le emozioni che vedo sui vostri volti e io vedo anche nei miei laboratori che la poesia crea emozioni e questa ormai per me è diventata una specie di missione e tutto quello che stasera avete detto mi incita a continuare. Dunque ringrazio tutti sperando possano esserci altre occasioni per incontrarsi. A questo punto la serata si è davvero conclusa ed è venuto il tempo per me di fare una mini-intervista al nostro autore che qui di seguito trascriverò e che ho rubato durante la firma dei libri venduti. Non ho potuto fare a meno di porre domande relative alla modalità di pubblicazione di questi libri essendo anche io una scrittrice emergente che sta cercando di farsi strada con la parola.

Più o meno questi libri sono tutti di genere memorialistico diciamo. Questo è il suo genere preferito o pensa anche di praticare altri generi? Io ho quattro libri che sono tutti molto diversi, non contengono solo la nostalgia. In effetti per quest’ultimo libro che ho scritto, VIVERE QUI, c’è tutto un percorso di vita che porta anche all’oggi. È una vera e propria parabola della vita.

Ma pensa di fare anche poesie che riguardano altre tematiche anche non personali, anche non di vissuto, riguardanti la natura ad esempio? Sto lavorando su progetti molto diversi perché la mia è sempre una ricerca sia delle tematiche che delle parole. È bene non soffermarsi mai su un solo aspetto dunque sto lavorando a libri molto diversi da questo.

Perfetto. La ringrazio e speriamo in un’altra presentazione.

Si è concluso così questo interessantissimo e variegato ciclo di serate letterarie che hanno saputo rendere ancora una volta efficacemente il concetto di biblioteca viva, di un luogo dove si fa cultura in modo attivo e dove i libri non prendono la polvere sugli scaffali, ma si fanno motore e cuore pulsante per scambi di idee, discussioni, serate in cui ci si intrattiene in conversazioni illuminanti, nonché per momenti di aggregazione sociale. Momenti che in vari modi riempiono la vita e costituiscono splendidi esempi di democrazia e civiltà.

Antonella Alemanni