Giovanni Pascoli - Collegio San Giuseppe · 2013-03-26 · E nella notte nera come il nulla, a un...
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La vita: la perdita del nido
• 31 dicembre 1855: nasce, quarto di dieci figli
• 10 agosto 1867: è assassinato il padre
• 1869: muoiono di malattia la sorella maggiore (Margherita) e
la madre
• 1871: muore un fratello (Luigi)
Studia all’Università di Bologna
• 1876: muore il fratello primogenito (Giacomo)
• 1879: è arrestato durante una manifestazione anarchica e
trascorre alcuni mesi in carcere
La ricostruzione del nido • 1882: si laurea in Lettere
• 1884: va a vivere con le sorelle Ida e Mariù fino al matrimonio
di Ida (1895)
1891: pubblica Myricae
1897: Poemetti
1895: diventa professore di grammatica
greca e latina all’Università di Bologna
(1904 Letteratura italiana)
1903: Canti di Castelvecchio
1904: Poemi conviviali
Myricae Bucoliche di Virgilio: “a noi
piacciono gli arbusti e le umili
tamerici”
DICHIARAZIONE DI
POETICA: Argomenti
umili/registri differenti
Linguaggio “fonosimbolico”
(onomatopee, sinestesie,
analogie…)
Temi ricorrenti del nido e
della natura
Solitudine, abbandono,
inquietudine
Lavandare Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese
Valore simbolico: aratro =
abbandono e solitudine
Aspetti fonici: rime interne,
onomatopee, consonanza. Il suono
grave dei panni (parole cupe)
San Lorenzo , io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto :
l'uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono ;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
X agosto
Parallelismo tra la rondine che porta il cibo ai piccoli e l’uomo con le
bambole per le sue bambine: sono costretti dalla morte ad abbandonare
la prole al suo destino
L’inutile attesa porterà i rondinini alla morte e i figli di Pascoli dovranno
vivere senza l’affetto paterno
Il TUONO E nella notte nera come il
nulla, a un tratto, col fragor
d'arduo dirupo che frana, il tuono
rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò
cupo, e tacque, e poi rimareggiò
rinfranto, e poi vanì. Soave allora un
canto s'udì di madre, e il moto di
una culla.
• Figure retoriche di suono • Allitterazioni :“n” (v.1); “r” , “u” ed
“o” (v.2); “r” ,“o” che riproduce il suono del tuono (v.4);
• Allitterazione in RIMB - RIM con funzione onomatopeica
• Paronomasia fra “nella” e “nulla” che da un senso d’attesa iniziale (v.1);
• Onomatopea “il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo”.
• Figure retoriche d’ordine: • Enumerazione: • .per polisindeto “e tacque, e poi
rimareggiò, rinfranto e poi” che rende più lento il ritmo quando il fenomeno sta per finire;
• per asindeto fra “rimbombò”, “rimbalzò” e “rotolò” che dà un ritmo incalzante e veloce, senza interruzioni.
• Similitudine “nera come il nulla” Tema del nido
IL LAMPO IL LAMPO E cielo e terra si mostrò
qual era:/ la terra ansante, livida, in sussulto;/ il cielo ingombro, tragico, disfatto:/ bianca bianca nel tacito tumulto/ una casa apparì sparì d'un tratto;/ come un occhio, che,largo,esterrefatto,/ s'aprì si chiuse, nella notte nera.
Figure retoriche d’ordine:
• -Climax ascendente: ansante, livida in sussulto; ingombro, tragico, disfatto; largo, esterrefatto
• -Enjambement (v 6-7);
• -Anafora: bianca bianca (l'accostamento dei due aggettivi ha valore di superlativo)
Figure di suono:
• -Paranomasia: apparì sparì
Figure di significato:
• -Similitudine: come un occhio s’aprì si chiuse
• -Ossimoro: tacito tumulto;
• -Metafora: terra ansante, cielo tragico
• -Antitesi: apparì sparì i due verbi sono accostati senza nessun segno di punteggiatura.
L'assiuolo Dov’era la luna? ché il cielo notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù; veniva una voce dai campi:
chiù... Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte: sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte; sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu. Sonava lontano il singulto:
chiù... Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento: squassavano le cavallette finissimi sistri d’argento (tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...); e c’era quel pianto di morte...
chiù...
Molte sensazioni uditive
L'assiuolo Dov’era la luna? ché il cielo notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù; veniva una voce dai campi:
chiù... Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte: sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte; sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu. Sonava lontano il singulto:
chiù... Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento: squassavano le cavallette finissimi sistri d’argento (tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...); e c’era quel pianto di morte...
chiù...
Immagini:
bianco dell’alba,
nero del temporale
Angoscia dell’abbandono degli affetti
CANTI DI CASTELVECCHIO
• Pascoli abbandona la misura breve
delle liriche di Myricae
• Dominano le sensazioni del poeta e il
simbolismo che riporta alla tragedia
familiare: tema della morte
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch'ami e che
vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra
stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il
cipresso
là, solo,
qui, solo quest'orto, cui
presso
sonnecchia il mio cane.
NEBBIA
La sicurezza del nido è contrapposta al pericolo del mondo esterno alla casa
Immagine consolatoria della morte che riunirà il poeta ai suoi cari scomparsi
LA MIA SERA
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che
scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E', quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra ...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era ...
sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che
scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E', quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra ...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era ...
sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.
Nuovi Poemetti – La vertigine
Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell'eterno vento;
voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all'erbe dell'aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.
Oh! voi non siete il bosco, che s'afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d'altrettanto non va su, sotterra!
Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s'effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non
varia.
Eternamente il mar selvaggio l'onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.
Ma voi... Chi ferma a voi quassù le
piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore
stretti
a questa informe oscurità volante;
che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell'oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!
Ma quando il capo e l'occhio vi si piega
giù per l'abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di
Vega...?
Allora io, sempre, io l'una e l'altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno
stelo,
a un filo d'erba, per l'orror del vano!
a un nulla, qui, per non cadere in cielo!
Oh! se la notte, almeno lei, non fosse! Qual freddo orrore pendere su quelle lontane, fredde, bianche azzurre e rosse, su quell'immenso baratro di stelle, sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi, quel seminìo, quel polverìo di stelle! Su quell'immenso baratro tu passi correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa, con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi. Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa. Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi occhi, tutta la notte, la Grande Orsa: se mi si svella, se mi si sprofondi l'essere, tutto l'essere, in quel mare d'astri, in quel cupo vortice di mondi!
Veder d'attimo in attimo più chiare le costellazïoni, il firmamento crescere sotto il mio precipitare! Precipitare languido, sgomento, nullo, senza più peso e senza senso. sprofondar d'un millennio ogni momento! Di là da ciò che vedo e ciò che penso, non trovar fondo, non trovar mai posa, da spazio immenso ad altro spazio immenso; forse, giù giù, via via, sperar... che cosa? La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io, io te, di nebulosa in nebulosa, di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!
Sgomento dinnanzi al terrore di essere sospeso nel vuoto
e di venire proiettato vertiginosamente verso gli spazi
stellari
Angoscia per il mistero che ci circonda: sfocia in una
disperata quanto inutile ricerca di Dio
POEMI CONVIVIALI
• Pubblicati sulla rivista
“Convito”, ma il titolo
allude anche ai canti
degli aedi nei banchetti
• Figure del mondo
classico reinterpretate
con sensibilità
decadente: diventano
simboli dell’infelicità e del
mistero
(Pella 356- Babilonia
323°a. C.) re di
Macedonia a partire
dal 336 a.C.,
succedendo al padre
Filippo II.
Alessandro Magno
Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.
Montagne che varcai! dopo varcate,
sì grande spazio di su voi non pare,
che maggior prima non lo invidïate.
Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:
il sogno è l'infinita ombra del Vero.
Oh! più felice, quanto più cammino
m'era d'innanzi; quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!
Figlio d'Amynta! io non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo di tra le are
intonava Timotheo, l'auleta:
soffio possente d'un fatale andare,
oltre la morte; e m'è nel cuor, presente
come in conchiglia murmure di mare.
O squillo acuto, o spirito possente,
che passi in alto e gridi, che ti segua!
ma questo è il Fine, è l'Oceano, il Niente...
e il canto passa ed oltre noi dilegua. -
E così, piange, poi che giunse anelo:
piange dall'occhio nero come morte;
piange dall'occhio azzurro come cielo.
Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell'occhio nero lo sperar, più vano;
nell'occhio azzurro il desiar, più forte.
Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell'immenso piano,
come trotto di mandre d'elefanti.
Ricchezza di
suggestioni sonore
(allitterazioni, verbi,
aggettivi e
sostantivi)
VI
Intanto nell'Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.
A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d'un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita
le grandi quercie bisbigliar sul monte.
Il nido vuoto
Affetti familiari
perduti Evocazione delle
Parche (la morte)
Il tempo scorre La madre cerca
nel mistero della
natura un segno
del ritorno del
figlio
L’ultimo viaggio
E il Vecchio vide un grande mucchio d'ossa
d'uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch'io muoia, a ciò ch'io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
Ulisse, incapace di fermarsi a Itaca e spinto dall’ansia di
conoscere il significato dell’esistenza, riparte per un ultimo
viaggio. Ripercorre le tappe delle sue avventure, ma non
trova ciò che cerca. Infine giunge presso le Sirene:
Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E s'ergean su la nave alte le fronti, con gli occhi fissi, delle due Sirene. Solo mi resta un attimo. Vi prego! Ditemi almeno chi sono io! chi ero! E tra i due scogli si spezzò la nave.
La morte è l’unica risposta alla domanda di Ulisse.
Il mare riporta il corpo dell’eroe all’isola di Calipso, la ninfa che l’ha tanto amato.
E il mare azzurro che l'amò, più oltre
spinse Odisseo, per nove giorni e
notti,
e lo sospinse all'isola lontana,
alla spelonca, cui fioriva all'orlo
carica d'uve la pampinea vite.
(…)
Calipso esce dalla grotta
Ed ecco usciva con la spola in mano,
d'oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori
del mare, al piè della spelonca, un
uomo,
sommosso ancor dall'ultima onda: e
il bianco
capo accennava di saper quell'antro,
tremando un poco; e sopra l'uomo un
tralcio
pendea con lunghi grappoli dell'uve.
Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all'isola deserta che frondeggia
nell'ombelico dell'eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte
ancora,
chi l'immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l'uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l'udia nessuno:
- Non esser mai! non esser mai!
più nulla,
ma meno morte, che non esser
più! -
La poetica del fanciullino
quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle:
che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e
ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte
degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che
nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena.
Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d'amaro e di
dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo.
Egli è quello che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere;
quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai;