Giovanni Fiorentino

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4. La scuola, le scuole di Giovanni Fiorentino L’articolo uno, comma uno dello Statuto degli Studenti e delle Studentesse della Repub- blica Italiana recita: «La scuola è luogo di formazione e di educazione mediante lo stu- dio, l’acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo della coscienza critica». Il comma è riportato nella voce scuola dell’edizione italiana di Wikipedia (agosto 2008), che prosegue: «Con il termine scuola s’intende un’istituzione che persegue fina- lità educative attraverso un programma di studi o di attività metodicamente ordinate. Più comunemente, con il termine scuola si fa riferimento all’insieme di istituzioni che forni- scono l’istruzione e la formazione ai bambini e ai ragazzi. Le università, che sono tecni- camente anch’esse scuole, vengono escluse dal termine scuola nell’uso normale». Mi è difficile qui escludere l’istruzione universitaria dallo sguardo ampio che muove la nostra prospettiva e da un ragionamento che, come il nostro, interessa le relazioni dense, con- cettuali e materiali, tra educazione e comunicazione. Tanto più che, lo vogliamo o no, la scuola, nella sua versione classica di luogo di riproduzione del sapere, fa tuttora da mo- dello epistemologico e in buona parte anche metodologico per la formazione superiore, e persino per quella aziendale. Ecco tutta la forza, anche metaforica, del paradigma sco- lastico: una scuola, storicamente e filosoficamente determinata, uniforma a sé, o meglio aspira a uniformare a sé tutte le concretizzazioni scolastiche. 4.1 Una scuola distante dal mondo Il mio percorso ibrido, assolutamente personale, testimonia l’entrare e uscire dai model- li, abitarli dal di dentro, frequentarli talvolta scomodamente e da diversi punti di osser- vazione e produzione, talvolta facendo esperienza del piacere dell’insegnamento, della relazione comunicativa nelle sue diverse possibilità orizzontali e verticali, della possibi- lità di costruire, magari cooperativamente, apprendimento. Prima, manipolando le im- magini e i suoni: di fatto la mia prima esperienza di insegnante specialista si è materia- lizzata nelle aule di una scuola elementare privata, attraverso il lavorio giocato intorno al mondo dello sguardo e dell’orecchio, provando ad accendere i sensi sugli spazi inquie- tanti, differenziali e creativi dell’altro. Poi l’ingresso nelle aule di scuola elementare del- la scuola pubblica italiana, dal modulo al tempo pieno, fino all’esperienza nell’ammini- strazione centrale della scuola elementare, infine l’ingresso ufficiale nei ruoli dell’uni- versità. Il mio percorso trasversale d’insegnamento è stato sempre affiancato dall’attività della ricerca, intorno alle connessioni tra media e apprendimento, in una triangolazione costante tra insegnamento, ricerca e pratica del consumo mediale. La mia è stata fin qui

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anticipazione del Capitolo 4 del volume "Educare e comunicare. Spazi e azioni dei media", Mondadori, 2008

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4. La scuola, le scuoledi Giovanni Fiorentino

L’articolo uno, comma uno dello Statuto degli Studenti e delle Studentesse della Repub-blica Italiana recita: «La scuola è luogo di formazione e di educazione mediante lo stu-dio, l’acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo della coscienza critica».

Il comma è riportato nella voce scuola dell’edizione italiana di Wikipedia (agosto2008), che prosegue: «Con il termine scuola s’intende un’istituzione che persegue fina-lità educative attraverso un programma di studi o di attività metodicamente ordinate. Piùcomunemente, con il termine scuola si fa riferimento all’insieme di istituzioni che forni-scono l’istruzione e la formazione ai bambini e ai ragazzi. Le università, che sono tecni-camente anch’esse scuole, vengono escluse dal termine scuola nell’uso normale». Mi èdifficile qui escludere l’istruzione universitaria dallo sguardo ampio che muove la nostraprospettiva e da un ragionamento che, come il nostro, interessa le relazioni dense, con-cettuali e materiali, tra educazione e comunicazione. Tanto più che, lo vogliamo o no, lascuola, nella sua versione classica di luogo di riproduzione del sapere, fa tuttora da mo-dello epistemologico e in buona parte anche metodologico per la formazione superiore,e persino per quella aziendale. Ecco tutta la forza, anche metaforica, del paradigma sco-lastico: una scuola, storicamente e filosoficamente determinata, uniforma a sé, o meglioaspira a uniformare a sé tutte le concretizzazioni scolastiche.

4.1 Una scuola distante dal mondo

Il mio percorso ibrido, assolutamente personale, testimonia l’entrare e uscire dai model-li, abitarli dal di dentro, frequentarli talvolta scomodamente e da diversi punti di osser-vazione e produzione, talvolta facendo esperienza del piacere dell’insegnamento, dellarelazione comunicativa nelle sue diverse possibilità orizzontali e verticali, della possibi-lità di costruire, magari cooperativamente, apprendimento. Prima, manipolando le im-magini e i suoni: di fatto la mia prima esperienza di insegnante specialista si è materia-lizzata nelle aule di una scuola elementare privata, attraverso il lavorio giocato intorno almondo dello sguardo e dell’orecchio, provando ad accendere i sensi sugli spazi inquie-tanti, differenziali e creativi dell’altro. Poi l’ingresso nelle aule di scuola elementare del-la scuola pubblica italiana, dal modulo al tempo pieno, fino all’esperienza nell’ammini-strazione centrale della scuola elementare, infine l’ingresso ufficiale nei ruoli dell’uni-versità. Il mio percorso trasversale d’insegnamento è stato sempre affiancato dall’attivitàdella ricerca, intorno alle connessioni tra media e apprendimento, in una triangolazionecostante tra insegnamento, ricerca e pratica del consumo mediale. La mia è stata fin qui

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un’esperienza, anomala rispetto alla regola, di attraversamento del corpo della scuola daparte a parte, fendendo l’isolamento del quale troppo spesso i singoli compartimenti del-l’istituzione si nutrono. Ma anche connettendo il mondo dell’esperienza scolastica e lamia esperienza del mondo, mettendo in relazione tra loro scuole diverse in uno scambiocontinuo tra verticale e orizzontale, adoperando punti di riferimenti eterogenei e diversi,generando uno scambio possibile, forse utile, tra le aule dei bambini e quelle degli stu-denti universitari.

4.1.1 Scuola aperta e scuola chiusa

Secondo il dizionario etimologico, il termine scuola deriva dal latino schóla, e prima an-cora dal greco scholé: «ozio, riposo, agio». Letteralmente scuola significa «riposo da fa-tica corporea, il quale dà opportunità di ricreazione mentale o di studio»; donde il voca-bolo viene trasferito al luogo in cui insegnanti e studenti si raccolgono per fini d’istru-zione. La parola scuola, che nel senso comune e nell’immaginario occidentale suona co-me lavoro e studio, in origine significava, dunque, esattamente il contrario: riposo, ozio,tempo lontano da ogni fatica e preoccupazione.

Tra la stabilità di quelle istituzioni che forniscono l’istruzione e la formazione e la me-tafora volatile della «ricreazione mentale» sicuramente la genealogia della scuola in Oc-cidente ci consente di acquisire alcuni snodi fondanti. Storicamente, e geograficamente,la scuola presenta una radicale evoluzione con la modernizzazione industriale (Brint1999; Santamaita 1999; Semeraro 1999). L’Ottocento – l’epoca della fabbrica, della me-tropoli e della prima industria culturale di massa – vive nella maggior parte dei Paesi oc-cidentali un graduale cambiamento della scuola. La formazione dei primi Stati naziona-li e il maggior peso politico della borghesia convince la classe dirigente della necessitàdi offrire alla popolazione un’istruzione, che diventa il modo migliore per permettere lanascita di un sentimento nazionale e la condivisione dei valori della modernità. La fab-brica, che necessita sempre più di operai in grado almeno di leggere e scrivere, determi-na la crescita degli investimenti nell’istruzione pubblica. Al centro dell’insegnamentol’alfabetizzazione, con una progressiva attenzione per l’area scientifica piuttosto che perle conoscenze umanistiche. Il ruolo del maestro assume centralità sociale, in quanto for-matore di persone. La scuola ottocentesca si caratterizza quindi per un modello educati-vo funzionale al mondo del lavoro creato con la rivoluzione industriale: il modello è strut-turalmente industriale e prepara e destina gli studenti a quel tipo di futuro. Gli studentidevono recarsi a scuola dalle prime ore del mattino, come gli operai in fabbrica. Vengo-no preparati a essere fedeli alla consegna di chi li assumerà: il modello è caratterizzatoda un impianto normativo forte.

Tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, alcune esperienze importantisi differenziano profondamente rispetto alla tradizione. Si tratta delle cosiddette «scuolenuove» che, tra ricerca e prassi, lavorano sulla continuità tra scuola e famiglia, sul met-tere in connessione l’ambiente di vita reale e ordinario con l’ambiente istituzionalmentedeputato all’apprendimento. Personaggi come Helen Parkhurst, Carleton W. Washburnenegli Stati Uniti, il francese Roger Cousinet, gli italiani Rosa Agazzi e Maria Montesso-

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ri pongono al centro dell’attenzione il bambino, con i suoi bisogni e la sua capacità. Lariflessione e la sperimentazione intorno al processo d’apprendimento recupera la centra-lità dell’ambiente cognitivo piuttosto che il sapere codificato e sistematico. Il gioco, lascoperta e la manipolazione assumono via via più importanza, tessendo la continuità traambiente familiare e scuola, valorizzando il fare che precede il conoscere e matura ini-zialmente su un piano operatorio, e sostenendo processi di autogoverno e il principio del-la coeducazione.

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IL NOME

John DeweyPiù citato che conosciuto, il pedagogista John Dewey (1859-1952), americano nato a Burling-ton, è il principale esponente dell’educazione progressiva e vive la pedagogia, tra ricerca edesperienza, come strumento di trasformazione sociale. Dewey salda le ricerche e le esperienzeamericane con quelle sviluppate sul versante europeo, diventando il punto di riferimento di unagrande varietà di posizioni teoriche e iniziative pratiche rivolte essenzialmente a valorizzare ilbambino come protagonista del processo educativo, ponendolo al centro di ogni iniziativa di-dattica e opponendosi alle caratteristiche più autoritarie della scuola tradizionale. L’esperienza lungimirante di Dewey esprime al meglio i principi di una pedagogia attiva, im-mettendola nel tempo storico dell’industrializzazione e della democrazia, imbevendola di spi-rito sperimentale, del carattere ludico, esplorativo, aperto dell’apprendere attraverso l’agire e lamotivazione. La pedagogia deweyana si caratterizza per l’ispirazione al pragmatismo, quindi aun contatto intenso del momento teorico con quello pratico, con il quale il fare dell’apprendi-mento diventa momento centrale del processo di conoscenza. Con lui, la ricerca pedagogica siintreccia intensamente con i percorsi delle scienze sperimentali, in particolar modo con la psi-cologia e la sociologia. La pedagogia si delinea come filosofia dell’educazione che assume ruo-lo centrale in campo sociale e politico nel costruire la formazione del cittadino attraverso unamentalità moderna, scientifica e aperta alla collaborazione. Dewey per una parte accoglierà ilnucleo della «teoria dell’interesse» di Johann Friedrich Herbart – ossia il fatto che l’apprendi-mento avvenga attraverso una disposizione attiva del soggetto – sviluppandolo poi con l’aiutodella psicologia di Stanley Granville Hall. Dall’altra metterà al centro il dato che l’uomo è unessere con natura prioritariamente sociale. Perciò, l’educazione che intende svilupparne piena-mente la personalità deve aver presente soprattutto la necessità d’inserire l’educando adegua-tamente nei cambiamenti sociali.Scuola e società (del 1899), Come pensiamo (del 1910), Democrazia e educazione (del 1916),Esperienza e natura (del 1925), Arte come esperienza (del 1934), Conoscenza e transazione(del 1949): semplicemente dai titoli delle ricerche che scandiscono la sua produzione si ricavauna concezione educativa che vede la scuola al centro di una rete alimentata da un contesto so-ciale più ampio. La peculiarità della sua riflessione si basa su una concezione dell’esperienzacome rapporto tra uomo e ambiente, dove l’uomo non è spettatore involontario, ma interagiscecon ciò che lo circonda. Il pensiero dell’individuo nasce dall’esperienza, quest’ultima intesaprincipalmente come esperienza sociale. La «teoria dell’esperienza» si fonda sulla relazionecentrale tra soggetto e ambiente, sullo scambio costante, attivo, osmotico che trasforma en-trambi i fattori e resta costantemente aperto. Tale apertura comporta momenti di squilibrio, dicrisi – di certezze, di modelli comprensivi e operativi, delle stesse categorie cognitive – che co-stituiscono i rischi dell’esperienza e sui quali interviene il pensiero come mezzo di ricostruzio-ne di un equilibrio (quasi una sorta di pensiero riflessivo), sottoposto naturalmente a nuove cri-si e nuove ricerche di equilibri.

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4.1.2 La scuola del controllo

Rispetto alle «scuole attive», all’influenza di esperienze pilota che diventano punto diriferimento d’avanguardia nella prima metà del Novecento occidentale, il senso co-mune e la prassi quotidiana fanno registrare, anche in Italia, un modello rigidamenteancorato alla produzione industriale. Ne è testimonianza a mero titolo d’esempio unbreve e tagliente pamphlet del 1919 di Giovanni Papini, Chiudiamo le scuole, che re-gistra sintomaticamente un’esperienza generalizzata. Gli eccessi e le provocazioniavanguardiste di Papini attraversano il secolo, rimandano e parlano genealogicamenteal presente.

Proviamo utilmente a leggere alcuni tratti del testo: «per sua necessità formale e tra-dizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e a ritardare con testardiostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali» (Papini 1992, p. 5). Lascuola «non inventa le conoscenze ma si vanta di trasmetterle […]», le trasmette male o«trasmettendole impedisce il più delle volte, disseccando e storcendo i cervelli ricevito-ri, il formarsi di altre conoscenze nuove e migliori» (ivi). La scuola «insegna male per-ché insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità non tenendoconto delle infinite diversità d’ingegno, di razza, di provenienza sociale, di età, di biso-gni, etc.» (p. 9). Le conclusioni: «la scuola è così essenzialmente antigeniale che non ri-stupidisce solamente gli scolari ma anche i maestri. Ripeti e ripeti anni dopo anni le me-desime cose, diventano assai più imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio– e non è dir poco» (p. 11).

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L’educazione deve aprire la via a nuove esperienze e al potenziamento di tutte le opportunitàper uno sviluppo ulteriore. Se l’individuo è in interazione constante con l’ambiente di vita, l’e-sperienza educativa deve partire dalla quotidianità nella quale il soggetto vive. Successivamen-te ciò che è stato sperimentato deve progressivamente assumere una forma più piena e orga-nizzata. L’esperienza è realmente educativa nel momento in cui produce l’espansione e l’arric-chimento dell’individuo, conducendolo verso il perfezionamento di sé e dell’ambiente. Un am-biente in cui vengono accettate le pluralità di opinioni di diversi gruppi in contrasto tra loro fa-vorisce lo sviluppo progressivo delle caratteristiche dell’individuo.Già nella prima, importante opera, Scuola e società (del 1899), Dewey fissa i caratteri fonda-mentali del suo pensiero educativo. Il contesto ambientale è quello di un processo ampio di tra-sformazione produttiva e di crescita politico-sociale, che gli Stati Uniti vivevano attraverso l’e-spansione dell’industria e la richiesta di partecipazione politica delle classi sociali subalterne.Nel pensiero del ricercatore americano, la scuola deve cambiare sostanzialmente la sua natura,integrandosi alla profonda trasformazione della società e riorganizzandosi seguendo le conti-nue trasformazioni sociali. La scuola «deve diventare una comunità in miniatura, una societàembrionale»: ciò non può che avvenire attraverso una relazione diretta con l’ambiente e con larealtà sociale del lavoro. Naturalmente nel processo di apprendimento prende forza la centra-lità assoluta dello studente, dei suoi reali interessi e dei suoi bisogni di attività. L’insegnante,scrive Dewey già nel 1897, «non è nella scuola per imporre certe idee al fanciullo o per forma-re in lui certi abiti, ma è lì come membro della comunità per selezionare le influenze che agi-ranno sul fanciullo e per assisterlo convenientemente a reagire a queste esperienze».

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L’invito di Papini a chiudere le scuole, «tutte le scuole, dalla prima all’ultima» (p. 11)segnala, all’inizio del Novecento, molti dei punti di scollamento della scuola dalla realtàsociale. A partire dallo stesso isolamento fisico delle aule. Papini teme gli edifici di gran-di dimensioni dove vengono rinchiuse tante persone. La scuola, come le prigioni, le ca-serme, gli ospedali, è istituzione totale, spazio concepito per il controllo e la sorveglian-za, per la crescita sicura, dove il rischio dell’altro viene neutralizzato, almeno controlla-to. Un motivo che, con altri approcci, più vicini alla scienza e alla filosofia, si troverà suc-cessivamente anche in Foucault o sul versante più esplicitamente sociologico in Goff-man. La reclusione quotidiana in «stanze polverose piene di fiati», l’«immobilità fisicapiù antinaturale», ancora «l’immobilità dello spirito obbligato a ripetere invece che a cer-care» e infine «l’annegamento sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nelmar nero degli uniformi programmi» (Papini 1992, p. 7) sono richiami molteplici al pre-sente. Il fatidico intervallo, dall’istruzione primaria alle aule universitarie, funziona an-cora come la mezz’ora d’aria per il detenuto. Rischia di diventare l’aspirazione massimadello studente, e a volte anche dello stesso docente: non il tempo ordinario, ma il tempostraordinario desiderato, tempo della ri-creazione, tempo dell’agio ben distinto dallafrontalità della lezione e da conquistare.

Se alla fine degli anni Sessanta don Milani ribadisce l’aspetto più «sconcertante» del-l’istituzione scolastica: «vive fine a se stessa» (Scuola di Barbiana 1967, p. 24), oggi, inapertura del nuovo millennio è facile verificare, anche dall’interno, una particolare scissio-ne della scuola italiana – e più in generale delle scuole a impianto ottocentesco, nazionalee borghese, come si è detto – dalla realtà che è sempre più territorio vissuto dal sistema deimedia, luogo dei consumi, realtà dei flussi informativi. «Con la città magnetica – scrive sin-tomaticamente Marshall McLuhan già alla fine degli anni Settanta – l’intero pianeta divie-ne una macchina educativa, come la natura fu la guida dell’uomo arcaico. Ma con l’inputdella nuova scala di dati nella città magnetica, all’età di tre anni il bambino moderno ha in-contrato tante gestalt quante suo nonno a sessant’anni» (McLuhan 1982, p. 111).

4.1.3 A che serve la scuola

L’accelerazione determinata dai tempi e dai ritmi delle tecnologie ha generato nuove op-portunità, nuovi bisogni, nuove relazioni sociali, modificando radicalmente «le nostre ideecirca la trasmissione del sapere; il rapporto con il sapere; il rapporto fra i saperi; la produ-zione del sapere» (Bocchi – Ceruti 2004, p. 16). Oggi i ritmi e le modalità di accesso al si-stema dei media digitali – dalla rete ai videogiochi – presentano la prospettiva di un sape-re fortemente individualizzato e in contraddizione rispetto alle forme omogenee e norma-tive della tradizionale trasmissione dei saperi. Le diverse forme di multimedialità e di iper-testualità mettono in discussione le divisioni tradizionali delle sfere comunicative chespettavano alla scrittura, all’oralità, all’immagine, con mescolanze e connessioni che han-no già trasformato gli orizzonti della ricerca e della formazione. La rete dei saperi si mol-tiplica e si frammenta, configurandosi sempre più come un contesto evolutivo, instabile,ricco di discontinuità e di sorprese. In questo contesto bisognerebbe forse reinventarecompletamente la stessa metafora di scuola, spogliarla delle fondamenta consolidate, ag-

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