Giovanni

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commento al vangelo

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«PICCOLA COLLANA MODERNA»

Serie biblica

n.84

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Ultimi volumi pubblicati disponibil i nel la collana:

53. L. SCHOTIROFF, W. STEGEMANN, Gesù speranza dei poveri 55. V. SUBILIA, Il problema del male 56. A. JACQUES, Lo straniero in mezzo a noi. Gli sradicati nel

mondo d'oggi 57. E. BEIN RICCO, G. PONS, Conoscenza scientifica e fede.

Incontri e scontri fra saperi del nostro tempo 58. G. BOUCHARD, I Valdesi e l ' Italia. Prospettive di una vocazio­

ne 59. M.L. STRANIERO, Don Bosco e i Valdesi 6 1 . A. BERLENDIS, La cicogna de/2000. Le nuove tecniche ripro-

duttive extracorporee 62. AA.VV. , Dio e la storia 63. D. BONHOEFFER, Una pastorale evangelica 64. M. BARTH, Riscopriamo la Cena del Signore 65. R. BERTALOT, Pau[ Tillich: esistenza e cultura 66. E. SCHWEIZER, Il discorso della montagna (Matteo, capp. 5-7) 68. R. GRIMM, Senso di colpa e perdono 69. E. SCHWEIZER, Gesù Cristo: l 'uomo di Nazareth e il Signore

glorificato 70. W. MARXSEN, Il terzo giorno risuscitò . . . La risurrezione di

Gesù: un fatto storico? 7 1 . H. CLARK KEE, Che cosa possiamo sapere di Gesù? 72. V. BENECCHI, I dieci comandamenti avventura di libertà 73. D. BONHOEFFER, La Parola predicata. Corso di omiletica a

Finkenwalde 74. K. STENDAHL, Paolo tra ebrei e pagani 75. CH.DEMUR -D.MOLLER, L 'omosessualità. Un dialogo teolo­

gico 76. E. BETHGE, Dietrich Bonhoeffer, amicizia e resistenza 77. JOHN POLKINGHORNE, Quark, caos e cristianesimo. Doman­

de a scienza e fede 78. P. RICCA - G. TOURN, Le 95 Tesi di Lutero e la cristianità

del nostro tempo 79. E. STRETTI, Il Movimento pentecostale. Le Assemblee di Dio

in Ital ia 80. L. KAENNEL, Lutero era antisemita? 8 1 . S. AMSLER, Il segreto delle nostre origini. La singolare attua­

l ità di Genesi 1 - 1 1 82. C. BIRCH- L. V ISCHER, Vivere con gli animali 83. B. CORSANI, La seconda lettera ai Corinzi. Guida alla lettura

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Robert Kysar

Giovanni

Il Vangelo indomabile

Claudiana - Torino

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Robert Kysar,

professore di Nuovo Testamento e omiletica al Semi­nario teologico luterano di Filadelfia, è uno dei massimi esperti mondiali su Giovanni e ha pubblicato nel 1 986 uno dei principali Commentari al quarto Vangelo.

ISBN 88-70 16-332-6

Titolo originale:

John, the Maverick Gospel © John Knox Press, 1 976

Westminster/John Knox Press, Louisville (Kentucky) Revised edition © Robert Kysar, 1 993

Per l'edizione italiana:

© Claudiana Editrice, 2000 Via Principe Tommaso l- 1 0 1 25 Torino T el. O 1 1 .668.98.04 - Fax O 1 1 .650.43.94 E-mail: [email protected] Sito web: www.claudiana.it Tutti i diritti riservati - Printed in ltaly

Ristampe:

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Traduzione di Domenico Tomasetto

Revisione di Stefano Frache

Copertina di Umberto Stagnaro

Stampa: Stampatre, Torino

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Dedicato con gratitudine a Edward P. Blair

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PREFAZIONE

Questo libro è rivolto a coloro che si accingono per la prima volta allo studio dei libri del Nuovo Testamento. Non vuole essere né tecnico, né dotto, piuttosto cerca di avvicinare il letto­re al modo in cui, sempre più diffusamente, gli studiosi contem­poranei comprendono il pensiero e il simbolismo del Nuovo Testamento. Conseguentemente confido di introdurre il quarto Vangelo al lettore e di aggiornarlo sul modo in cui questo viene percepito e compreso da gran parte degli studiosi di grado superiore.

Tra i tanti modi possibili di introdurre il quarto Vangelo, vorrei che questa pubblicazione portasse a termine alcuni compi­ti importanti . Prima di tutto, vorrei evidenziarne la peculiarità tra gli scritti presenti agli albori del cristianesimo. Parallelamente, vorrei inquadrarne il pensiero e il simbolismo in un contesto più ampio del solito, precisamente nell ' ambito dell 'universa­le ricerca umana della religiosità. Il Vangelo di Giovanni , presentato in questo volume, è una straordinaria pagina d i lette­ratura religiosa che propone interrogativi che vanno al di là della cristianità stessa per inserirsi nel contesto della religio­ne intesa in senso generale . Il terzo compito importante di questa introduzione è il tentati v o di coinvolgere il lettore proprio nel testo del Vangelo. Troppo spesso, leggendo un' introdu­zione al Nuovo Testamento o a parti di esso, capita di essere distratti dal documento che si sta leggendo e di trovarsi concen­trati in una lettura che risulta di secondaria importanza. Per evitare ciò, le pagine che seguono conterranno indicazioni circa il contenuto del testo, nella forma di «letture preparatorie». S]1ero che questi suggerimenti per la lettura del Vangelo siano di aiuto per poter instaurare un confronto a tre, una discussio­ne tra il Vangelo, il lettore e i concetti espressi da questo libro. Più il lettore si troverà addentrato nel dialogo con le altre due parti di questa triade, maggiore sarà il successo di questo libro.

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Si è spesso detto che la creatività è l ' arte di dimenticare la fonte delle proprie idee. Questo è di certo il caso di questo libro: ho cercato di riconoscere le origini delle mie idee fonda­mentali, quando sono stato consapevole di esse, ma sono sicuro che in molti casi la sola dimenticanza spiega ciò che potrebbe apparire creatività. Tuttavia, un libro di questo genere non dovrebbe essere appesantito con note a pié pagina, così chiedo indulgenza ai miei colleghi studiosi impegnati nella critica del quarto Vangelo, e imploro il lettore di considerare seriamente il debito che questo volume ha, non solo con gli altri elencati nella bibliografia, ma anche nei confronti di molte letture e conversazioni. Una storia di questo libro implicherebbe niente meno che un' autobiografia, siccome rappresenta la mia perso­nale lotta, lunga una vita, con il Vangelo di Giovanni .

Il detto: «Se non è rotto, non aggiustarlo» è un buon consi­glio. Il riscontro della prima edizione sembra indicare che questo libro ha funzionato. Per questo motivo, quando incomin­ciai la versione riveduta, era rischioso metter mano a ciò che sembrava aver raggiunto lo scopo prefissato. La mia battaglia con il Vangelo di Giovanni è continuata negli anni seguenti la prima stesura. In quegli anni si sono verificati molti cambia­menti negli studi scientifici del Vangelo così come è avvenu­to per il mio personale punto di vista. In fin dei conti , anche i libri, proprio come fanno le persone, dovrebbero cambiare e crescere.

Nella prima versione, però, c 'erano degli argomenti che non erano stati affrontati ma che un lettore ha il diritto di aspet­tarsi in un' introduzione al pensiero religioso del quarto Vangelo. Erano necessarie alcune precisazioni, in particolar modo per quel che riguarda il tema della salvezza. Nell ' appendice di questa edizione vengono affrontati altri argomenti che non si trovano all ' interno del testo per non interferire con l ' imposta­zione di base del libro, ma che forniscono al lettore spunti di discussione su argomenti di interesse attuale.

Nella storia di questo libro ci sono molte persone impor­tanti alle quali devo dei ringraziamenti . Primi e più importan­ti fra questi sono i miei studenti che si sono susseguiti negli anni. Le idee di questo libro rendono conto del tentativo, da parte mia, di fornire un' interpretazione del Vangelo agli studen-

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ti ali ' inizio dei loro studi e di rispondere con una certa chiarez­za alle loro preoccupazioni . Alcuni erano giovani, alcuni più anziani , alcuni inseriti in un contesto accademico (sia studen­ti alle prime armi, sia studenti già avanti negli studi), altri in un contesto ecclesiale. I capitoli, in realtà, li ho preparati per lo studio biblico per laici organizzato in una comunità. Da allora sono stati modificati numerose volte per altri gruppi e in risposta alle osservazioni che ho appreso dai miei allievi .

Sono in debito nei confronti di tutti coloro che hanno contri­buito con le loro osservazioni critiche riguardo la prima edizio­ne; esse hanno posto le basi per questa nuova versione. Sono riconoscente anche a tutti i miei colleghi nel campo degli studi giovannei che, proprio come i miei studenti, mi hanno impedi­to di ritenermi soddisfatto di tutto ciò che una volta credevo vero !

Soprattutto devo ringraziare mia moglie, la pastora Dr. Myrna C. Kysar. Con la sua intuizione teologica e la sua comprensione della natura umana mi ha insegnato molte cose; se non avesse incoraggiato i miei sforzi letterari questo volume non esisterebbe. Un'altra persona che ha formato la mia intera carriera è Edward P. Blair, professore emerito del Garret Theological Seminary. Dedico a lui questo volume con la mia più profonda gratitudine per tutto ciò che mi ha insegnato.

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INTRODUZIONE

C'è un delizioso film che parla di un bambino che imparò a camminare sulle mani invece che sui piedi. La storia è in forma di cartone animato e mette in evidenza le pressioni ali' in­temo della nostra società che spingono al conformismo. Lo strano comportamento del ragazzino gli riservava dei piace­voli risvolti: camminare sulle mani gli permetteva di avere un punto di vista originale sul mondo. Poteva annusare il profu­mo dei fiori senza chinarsi, era vicino alla terra a tal punto da poter vedere nitidamente la bellezza dell'erba ed incrociare lo sguardo della farfalla quando questa sfiorava il terreno. I suoi genitori, però, erano estremamente preoccupati. Il loro caro piccolo era un disadattato! Fu così che lo portarono prima da un medico, poi da uno psichiatra e infine dali' assistente socia­le. Tutte le più moderne teorie furono utilizzate per modifi­came il comportamento. A poco a poco gli fu insegnato a camminare sui piedi, come tutte le altre persone. I genitori ne furono sollevati; i medici, gli assistenti sociali e tutti quelli che avevano contribuito al raggiungimento di questo risultato erano fieri del loro successo. Da quel momento, però, il piccolo cominciò anche a vedere il mondo come tutti gli altri: sporco, brutto, inquinato e pieno di gente che diligentemente fa tutto ciò che ci si aspetta facciano. Quel punto di vista particolare, mantenuto per così poco tempo, non c'era più ed egli non poteva più apprezzare facilmente le meraviglie del mondo. Lo vedeva ormai come tutti gli altri!

Questa piccola parabola ci mostra come sia data un'enor­me importanza al conformismo nella nostra società. Ci fa inoltre intuire come le posizioni anticonformiste in religione possa­no essere fatte rientrare nei canoni della tradizione. Per loro natura, i pensieri religiosi devono essere omogenei, per evita­re che sembri compromessa la pretesa di verità sulla natura umana e sul cosmo.

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Talora una tradizione religiosa è flessibile al punto da riusci­re a gestire, in qualche modo, le variazioni interpretative che si verificano al suo interno; l 'hinduismo ne è un esempio. Altre tradizioni religiose più conformisticamente tendono a soffo­care i movimenti eterodossi interni. La storia del cristianesi­mo è costellata di simili avvenimenti, in particolar modo per quel che riguarda la frammentazione del protestantesimo. In un modo o in un altro, le religioni devono sempre confrontar­si con gli anticonformisti, quelli che, appunto, sembrano camrni­nare sulle loro mani .

Anche la comunità cristiana primitiva sviluppò precoce­mente la tendenza ad inquadrare le proprie origini all ' interno di un unico punto di vista. Si fece presto strada il convinci­mento che i primi anni della cristianità videro la nascita di una comunità omogenea, armoniosa. Si legga il resoconto delle prime chiese negli Atti degli apostoli e lo si confronti con le lettere dell ' apostolo Paolo. L' autore degli Atti tende in manie­ra evidente a presentare una visione della chiesa che smorza le differenze presenti tra i primi credenti . Verso gli anni 80-90 d.C. , l ' autore del Vangelo di Luca stava già tentando di diffon­dere una forma di comprensione della chiesa primitiva esente da significative contraddizioni ! D' altra parte, le epistole paoli­ne paiono suggerirei che si manifestavano già allora signifi­cative differenze, per lo meno tra Paolo stesso ed altre impor­tanti personalità cristiane (questo è evidente in modo partico­lare nella lettera ai Galati) .

Non deve quindi stupire che la storia delle interpretazioni del quarto Vangelo abbia mantenuto la tendenza a mettere in risalto le affinità tra questo e gli altri tre Sinottici. Le cosid­dette concordanze dei Vangeli , così popolari nei secoli scorsi, si impegnarono per far coincidere il resoconto del ministero di Gesù, così come presentato dal Vangelo di Giovanni , con lo schema dei primi tre. Per esempio, per il quarto Vangelo Gesù purifica il Tempio all ' inizio del proprio ministero (Giov. 2 , 1 3 -22), mentre negli altri Vangeli questo avviene nella sua ultima settimana di vita (Mt. 2 1 , 1 2- 1 3 ; Mc. 11, 1 5- 1 9; Le. 1 9,45-46). Gli armonizzatori risolsero la discrepanza suggerendo che Gesù avesse purificato il Tempio non una volta ma due ! Camminiamo proprio sui nostri piedi !

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Stante la tendenza ad armonizzare i quattro Vangeli , le peculiarità di ciascuno vengono sottovalutate. Questo è tanto più vero per il quarto Vangelo. U niformarlo agli altri tre compor­ta la cancellazione della sua forza vitale e il suo contributo alla comprensione delle origini della cristianità. Lo stesso nome che viene ora dato ai primi tre Vangeli dagli studiosi del Nuovo Testamento mette in evidenza la peculiarità del quarto: essi sono chiamati Vangeli sinottici . Questo sta a significare che condi­vidono lo stesso punto di vista, vedono e prospettano il loro contenuto in modo simile. Il quarto Vangelo, quindi , non è sinot­tico, presenta i temi trattati in un modo che si differenzia marca­tamente dagli altri tre del canone cristiano. Se si vuole, lo si può vedere come un dissidente tra i Vangeli. Si sviluppa libero dalla prospetti va presentata da Matteo, Marco e Luca. Lo si può considerare l ' anticonformista del gruppo. Non c 'è da stupirsi se si pensa che molti movimenti eretici nella storia della chiesa hanno utilizzato il Vangelo di Giovanni per fondare la loro autorevolezza a proposito del Nuovo Testamento.

Vorrei sottolineare, all ' inizio di questa introduzione al pensiero religioso del quarto Vangelo, che esso rappresenta una forma unica di pensiero cristiano primitivo. Si tratta di una forma eterodossa di cristianesimo, per lo meno se la si confron­ta con altre parti del Nuovo Testamento. Tenendo a mente il carattere dissidente del quarto Vangelo, passiamo ad esami­nare alcuni fatti preliminari che Io riguardano. Gli argomenti che dobbiamo brevemente introdurre sono tre:

l. il rapporto tra questo Vangelo e i tre Sinottici ; 2. la struttura letteraria del quarto Vangelo; 3. un certo numero di argomenti, tra cui il proponimento che

sta alla base di questo Vangelo, la data a cui risale e i suoi destinatari nonché il contesto storico nel quale si è svilup­pato.

Quelle che seguono sono affermazioni dei miei convinci­menti su questi argomenti ; esse forniranno il contesto all ' in­terno del quale procederemo ali' esame del pensiero religioso del Vangelo. Siete invitati a confrontare le mie opinioni con l ' evidenza dei fatti espressi dal Vangelo medesimo mentre procediamo.

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Letture preparatorie: leggere rapidamente l'intero Vangelo. Si osser­vi il linguaggio e Io stile con cui è espresso. Se ne costruisca un'im­magine mentale generale a grandi linee.

IL RAPPORTO TRA IL QUARTO VANGELO E I SINOTTICI

Siccome i l mio intento è quello di evidenziare le caratteri­stiche peculiari del quarto Vangelo nel confronto con quelli Sinottici, metteremo in evidenza dapprima le differenze tra di essi ; una volta fatto questo, potremo estrinsecare i punti che hanno in comune.

Letture preparatorie: si leggano: Matteo 1 -2; Marco 1 , 1 - 11; Luca 1 -2 e si confrontino con Giovanni 1 , 1 - 1 8. Si leggano e si confrontino Luca 1 1 , 14-20 e Giovanni 5, 1 0-24. Si legga una parabola presente nei Vangeli sinottici (per esempio Le. 1 0,29-37) e un discorso metaforico riporta­to in Giovanni (per esempio Giov. l 0, 1 - 1 8). Si confronti Matteo 6 con Giovanni 8. Si confronti Matteo 9, 1 8-26 con Giovanni 1 1.

Non è il caso che il lettore vada oltre i capitoli introduttivi del Vangelo per scoprirne l ' unicità. I Vangeli di Matteo e di Luca, ciascuno alla propria maniera, si presentano al lettore con un racconto della nascita di Gesù e una genealogia; quello di Marco si tuffa subito nel ministero di Gesù ; il quarto non presenta alcun racconto della nascita di Gesù e inizia con la predicazione di Giovanni Battista. Proprio come Matteo e Luca, inizia con una prefazione al racconto della predicazione del Battista, ma è del tutto particolare ! Non vi troviamo nessuna narrazione della natività ! Nessun concepimento verginale ! Nessuna genealogia ! Piuttosto, il lettore si ritrova in una dimen­sione cosmica. Si inizia con: «Nel principio». L'attenzione è

rivolta sulla «Parola» e la sua opera. Essa è con Dio dall ' ini­zio: partecipa alla creazione, diventa carne. Il Battista viene presentato come una persona distinta da questa Parola incar­nata e come uomo che le rende testimonianza.

Il lettore è colpito dal contesto cosmico del Vangelo. Se gli autori di Matteo e di Luca sottolineano il ruolo di Dio nel l 'o-

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rigine della persona che è il soggetto del loro Vangelo, Giovanni ne sottolinea lo status eterno. Gesù non nasce, neanche per un intervento straordinario dello Spirito santo, egli esisteva da sempre; non è altro che l ' apparizione incarnata della Parola eterna. Per questo il quarto Vangelo si apre avanzando la prete­sa più alta possibile per la persona di Gesù: la sua natura divina.

Il Prologo del quarto Vangelo (l, 1 - 1 8) manifesta anche differenze di stile e di linguaggio rispetto ai Sinottici. Non si nota forse l ' uso di parole come «vita» , «luce», «tenebre», «Vero», «mondo», «Padre» e «Figlio»? Queste sono alcune delle espressioni preferite del l ' autore, altre sono: «conosce­re», «Vedere» e «i giudei» . A questo evangelista piace presen­tare Gesù che apre il suo discorso con l 'espressione: «Amen, ameM (tradotta in italiano con «in verità, in verità») . Inoltre, Gesù spesso parla con l 'espressione enfatica: «Io sono» ( analiz­zeremo questi modi di esprimersi nel corso del cap. 1 ). Nonostante la maggior parte di queste espressioni si ritrovino anche nei Vangeli sinottici, esse non giocano là un ruolo così caratteri­stico nelle parole di Gesù. Per esempio, quegli studiosi che hanno tempo per queste cose, hanno contato il numero di volte in cui Gesù si rapporta a Dio chiamandolo Padre nei Vangeli sinottici e nel quarto Vangelo. I loro risultati sono istruttivi: l ' espressione Padre si riferisce a Dio sessantaquattro volte nei tre Sinottici presi assieme e centoventi volte nel quarto Vangelo.

Inoltre , alcune delle espressioni più caratteristiche dei Sinottici sono relegate ad un ruolo secondario in Giovanni. «Il regno di Dio» (o «regno dei cieli» come preferirebbe Matteo), «convertitevi», «apostoli», «scribi», «farisei», «funzionari delle tasse» ( «pubblicani» ), «adulterio», «demoni» ed «ereditare» sono esempi dì parole utilizzate spesso nei Sìnottici che si ritro­vano raramente, o quasi mai , nel quarto Vangelo.

Che cosa ne possiamo concludere? Semplicemente che questo autore ha un vocabolario unico, ricco e profondo, ma soprattutto distintivo.

Un terzo motivo di unicità del quarto Vangelo possiamo chiamarlo di tipo cronologico (riguarda l 'ordine degli avveni­menti) . Un dettaglio, apparentemente piccolo, che può tutta­via avere un grande significato, è il numero di riferimenti alla festa di Pasqua. Nei Vangeli sinottìcì c 'è un unico riferìmen-

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to alla Pasqua; si tratta dell 'occasione del viaggio di Gesù a Gerusalemme che culmina con il suo arresto, il processo e la crocifissione. Nel quarto Vangelo, invece, la festa di Pasqua viene richiamata in tre occasioni (2, 1 3 ; 6,4; 1 1 ,55) . Questi riferimenti cronologici implicano che Gesù abbia svolto gran parte del suo ministero in Giudea anziché in Galilea. Questo è in profondo contrasto con i Sinottici, dove Gesù impegna la maggior parte del suo tempo in Galilea e si spinge in una sola occasione verso Gerusalemme, per la celebrazione della libera­zione di Israele dalla schiavitù egiziana, la Pasqua.

Più importante della semplice differenza geografica, forse, è i l fatto che questo cambiamento nel luogo del ministero di Gesù, come è riportato nel Vangelo di Giovanni, comporti un radicale allontanamento dallo schema base dei Sinottici. La loro struttura (forse creata dal Vangelo di Marco e seguita da quelli di Matteo e Luca), infatti, divide il ministero di Gesù in due parti: una in Galilea e una in Giudea. L'autore del Vangelo di Giovanni non aderisce in nessun modo a questo schema e presenta Gesù che si muove liberamente fra le due regioni.

Se dovessimo prendere alla lettera la cronologia del quarto Vangelo, dovremmo dedurne che il ministero di Gesù si è svolto nell ' arco di tre anni, uno per ciascun riferimento al tempo di Pasqua. La cronologia sinottica indicherebbe che il ministero di Gesù si è svolto nell ' arco di un solo anno. È probabile che quella del quarto Vangelo abbia un significato teologico; l' evan­gelista ha voluto sottolineare la Pasqua in rapporto al ministe­ro di Gesù in quanto rappresentava per la comunità giovannea un nuovo esodo e l ' occasione per una nuova celebrazione della Pasqua. Tali osservazioni devono però essere sottoposte ad analisi più approfondite .

Un' altra differenza cronologica risulta evidente al lettore attento. Secondo i Sinottici, l ' Ultima cena di Gesù con i disce­poli , prima dell ' arresto, del processo e infine della crocifis­sione, avviene nello stesso momento in cui gli altri giudei stanno celebrando il pasto pasquale. Nel quarto Vangelo questo fatto avviene, in verità, ventiquattr'ore prima: quindi la croci­fissione e la sepoltura di Gesù sono completate prima della mensa pasquale. Il rapporto fra questi avvenimenti della vita di Gesù e l 'osservanza della Pasqua nei Vangeli sinottici e in Giovanni sono evidenziati dallo schema l.

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Sinottici: Mercoledì Giovedì Venerdì

1 3 Nisan 14 Nisan 15 Nisan

Pasqua-.. Pasto preparatorio

Gesù --.. l

Ultima cena

Arresto, processo,

ecc.

Quarto Giovedì Venerdì Sabato Vangelo:

1 3 Nisan 14 Nisan 1 5 Nisan 1 6 Nisan

Pasqua-.. Pasto preparatorio

Gesù Ultima l --.. Arresto, processo,

cena crocifissione

Schema l

Prendiamo nota di un paio di fatti riguardanti questo confron­to prima di mettere da parte, con troppa facilità, quella che può sembrare una differenza apparentemente insignificante fra i Sinottici e il quarto Vangelo. Innanzitutto, l'implicazione del

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racconto sinottico è che l ' Ultima cena di Gesù con i discepo­li era una celebrazione pasquale. L' istituzione del sacramento della Cena deve quindi essere compresa nel contesto dell' os­servanza della Pasqua ebraica. I I quarto Vangelo tralascia, però, questo significativo collegamento, ponendo l 'avvenimento un giorno prima nel corso della settimana. Così manca l ' i stitu­zione formale della Cena (vedi cap. 4), inoltre la circostanza dell'ultimo pasto di Gesù con i suoi discepoli non viene colle­gata con la normale cena pasquale.

Ancora, si notino i risvolti del cambiamento del Vangelo di Giovanni nei confronti degli altri Vangeli, in riferimento al rapporto fra crocifissione e Pasqua. Stando a questo, Gesù fu crocifisso proprio nel momento in cui si svolgevano i prepa­rativi della cena pasquale. Questi comportavano, naturalmen­te, l 'uccisione degli agnelli pasquali e la loro preparazione per il pasto che segui va. Gesù viene ucciso nello stesso tempo in cui si uccidono gli agnelli per la Pasqua! Una coincidenza? Non dobbiamo forse intendere che il parallelo sia una delibe­rata allusione alla natura della morte di Gesù? Non dobbiamo forse collegarlo con la testimonianza del Battista a Gesù: «Ecco l 'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo» { 1 ,29)?

In verità, questa lieve variazione nella datazione dell' Ultima cena solleva un'intera serie di domande (che qui non possiamo prendere in considerazione) : l ' ultimo pasto che Gesù condivi­se con i suoi discepoli era un'osservanza pasquale? II quarto evangelista ha utilizzato un calendario giudaico diverso da quello in uso presso la maggior parte dei giudei del tempo e per questo motivo ha datato la circostanza in modo difforme dai Sinottici? La variazione è una sottolineatura storica intenzio­nale da parte dell' autore, oppure è un errore casuale? Dobbiamo leggere un qualche significato simbolico in questa datazione della crocifissione? Si potrebbe ipotizzare che il quarto evange­lista volesse comunicarci un significato teologico nel paralle­lo fra la crocifissione di Gesù e l 'uccisione dell ' agnello pasqua­le? Quale dei due racconti (se non alcuno), quello dei Sinottici o quello di Giovanni, è storicamente accurato?

Abbiamo già accennato alla diversa collocazione cronolo­gica della purificazione del Tempio nel quarto Vangelo. È interessante notare che nei Sinottici questo avvenimento è l 'ulti-

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mo atto pubblico di Gesù. Per quanto riguarda i suoi opposi­tori si tratta della goccia che fa traboccare il vaso. Essi vengo­no presentati come persone che cercano il modo per far fuori questo perturbatore immediatamente dopo che ha compiuto quest'azione impudente (Mc. Il, 1 8) . Così la purificazione del Tempio è l ' avvenimento che costituisce il punto di svolta nella trama degli ultimi giorni della vita di Gesù. Il quarto evange­lista, però, presenta questo episodio come la prima azione pubblica di Gesù (non considerando le nozze di Cana tra queste). L'evento pubblico di svolta che porta al complotto per uccide­re Gesù, nella presentazione di Giovanni, è la risurrezione di Lazzaro. È paradossale che una azione benevola come il rende­re la vita ad un morto stimoli gli oppositori di Gesù a cercare il modo per distruggerlo ( 1 1 ,47-54). Non possiamo qui analiz­zare i motivi di questa diversità ma possiamo notare, ancora una volta, che c 'è un significato simbolico attribuito alla purifi­cazione del Tempio. L'episodio, essendo posto all ' inizio del ministero di Gesù, sembra suggerire che questo fosse conce­pito, in generale, per purificare il giudaismo.

È stato detto abbastanza per quanto riguarda le differenze fra i Sinottici e Giovanni ; prendiamo in considerazione, allora, le differenze nella presentazione di Gesù. Dapprima dobbia­mo notare il silenzio del quarto Vangelo nei confronti di una serie di avvenimenti molto importanti , presenti invece nello schema dei Sinottici . Nel quarto Vangelo mancano i seguenti episodi :

• il battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista (egli non è altro che un

'testimone di Cristo) ;

• le tentazioni nel deserto (Gesù non è mai soggetto alla tenta­zione nel quarto Vangelo e sembra ben distante da tali problemi) ;

• la confessione a Cesarea di Filippi dove Gesù fa dire a Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc. 8,29, cfr. Giov. 6,66-7 1 ) ;

• la trasfigurazione; • l ' agonia nel giardino del Getsemani ( 1 2,27) ;

• l ' istituzione dell 'Ultima cena; • il grido di abbandono dalla croce («Mio Dio, mio Dio,

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perché mi hai abbandonato?»- Mc. 1 5 ,34-35 ; Mt. 27,46-le uniche parole di Gesù in croce riportate da questi due Vangeli).

D' altra parte, ci sono pochi esempi di avvenimenti presen­ti nel quarto Vangelo di cui non sappiamo nulla dai Sinottici:

• le nozze di Cana; • il dialogo con Nicodemo; • l ' incontro con la donna samaritana; • la risurrezione di Lazzaro; • la lavanda dei piedi dei discepoli .

Ci sono anche delle variazioni correlate. Nei Sinottici il ministero di Gesù non inizia prima dell ' arresto di Giovanni il Battista (Mc. 1 , 14 ; Mt. 4. 1 2 ; Lc. 3 , 1 9-20) ma nel quarto Vangelo Gesù svolge un ministero che coesiste con quello del Battista. In forte contrasto con il Vangelo di Luca, in particolare, secon­do Giovanni ( 1 1 ,4 1 -42), Gesù non ha bisogno di pregare. Dai Sinottici ricaviamo l ' immagine di Gesù come Maestro: egli discute con i maestri del suo tempo su argomenti quali l' osser­vanza del sabato (Mc. 2,23-28), il digiuno (Mc. 2, 1 8-22) e il divorzio (Mt. 1 9,3-9). L' impressione che si ricava è quella di un insegnante e interprete della Bibbia ebraica, per quanto a dir poco radicale. Tuttavia, il suo carattere di rabbino è molto meno evidente (ma non del tutto perso) nel quarto Vangelo. Non c 'è discussione, Gesù ha avuto dispute con i capi del giudaismo, ma la controversia è sempre sull ' argomento della sua identità personale. Essa coinvolge l ' interpretazione della Torah soltanto nella misura in cui questa è rilevante per una corretta comprensione del chi è Gesù (vedi Giov. 5 ,2 1 -29 per un esempio) . Inoltre, i Vangeli sinottici (e specialmente Mc.) contengono il fascino di quello che è stato chiamato il «segre­to messianico}} . Nella maggior parte dei casi esso si riferisce alla prassi di Gesù di esortare quelli che aveva guarito a mante­nere il silenzio e a non parlare a nessuno del miracolo che egli aveva operato (per esempio Mc. l ,43-44 ). Questo aspetto è del tutto assente dal quarto Vangelo e l 'unica cosa che possiamo ritenere parallela è il modo in cui Gesù viene continuamente frainteso da tutti quelli che lo circondano (per esempio 8 ,27).

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L' impressione che queste differenze lasciano nel lettore è che il Gesù giovanneo sia chiaramente un essere divino, celeste. Il Gesù del quarto Vangelo è palesemente e dichiaratamente extra-umano: egli conosce se stesso e parla continuamente di questo. Se i Sinottici accennano in qualche modo all ' esitazio­ne di Gesù a identificarsi, il quarto Vangelo ha tralasciato questa esitazione. Inoltre, i poteri straordinari di Gesù nel quarto Vangelo vengono sottolineati . Vedremo ciò nei miracoli che gli vengono attribuiti , quando analizzeremo più avanti questo argomento. Per ora è sufficiente osservare che la presentazio­ne giovannea di Gesù è continuamente stupefacente ! Quest'uomo non ha bisogno di pregare; conosce i pensieri degli altri prima ancora che parlino ( 1 ,47 ; 2,25) . Cammina in mezzo ad una folla ostile senza che nessuno osi alzare la mano su di lui, perché «l 'ora sua non era ancora venuta» (7,30; 8,20) . Non voglio dire che la presentazione di Gesù fatta nei Vangeli sinot­tici manchi della dimensione extra-umana, perché questo non è certo il caso. Non voglio nemmeno dire che il Gesù del Vangelo giovanneo sia puro spirito senza dimensione umana, perché nemmeno di questo si tratta (per esempio 1 1 ,35 ; 1 9,28 ; 2 1 ,9- 1 3) . Nonostante ciò, il Gesù giovanneo è extra-umano in modo più marcato rispetto alla presentazione datane dai Vangeli sin ottici .

I suoi discorsi in questi ultimi e nel quarto Vangelo manife­stano un' altro contrasto nelle presentazioni del Galileo. Voglio generalizzare partendo dalle testimonianze che avete saggia­to leggendo i discorsi di Gesù nei Sinottici e in Giovanni. Questi sembrano essere di dueJ:ipi : detti brevi e parabole. I discorsi più estesi dei Sinottici (come per esempio il Sermone sul monte presente in Mt. 5 - 7) appaiono chiaramente come una colle­zione di brevi e semplici detti . Le parabole sono talvolta più prolisse, talaltra più concise. Spesso narrano una storia (per esempio Le. 1 5 ,3-32), oppure sono semplici paragoni (per esempio Mt. 5 , 1 3).

Nel Vangelo di Giovanni le parole di Gesù sono molto diver­se. Come primo elemento, osserviamo che la parabola che narra una storia è del tutto assente. Si attuano dei paragoni, ma essi assumono la forma di immagini elaborate e perdono la sempli­cità delle loro controparti sinottiche (ma vedi 1 2,24 per una

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metafora di stile sin ottico). Inoltre cambia l 'argomento; è sempre lo stesso in tutti i discorsi metaforici presenti nel quarto Vangelo: l ' identità di Gesù (vedi 8 , 1 2; 1 0, 1 - 1 8 ; 1 5 , 1 - 1 0). L'argomento delle parabole presenti nei Sinottici , per contrasto, è sempre il regno di Dio (per esempio M t. 25, 1 ) . I detti brevi e semplici di Gesù presenti nei Sinottici, nella maggior parte dei casi, sono similmente assenti . Al loro posto ne troviamo di lunghi ed estesi, forse anche stancanti nella loro prolissità. Gesù viene presen­tato come uno che parla . . . parla (si potrebbe dire, come un professore di Liceo). Dal punto di vista della buona comuni­cazione egli si espone alla ripetitività e all 'oscurità; inoltre la struttura logica di questi discorsi non è del tutto chiara. Se si volesse presentarli come discorsi logici, si dovrebbe dire che si tratta di una struttura con sviluppo a spirale e non lineare. Come avviene con i paragoni delle parabole, anche i discorsi di Gesù non hanno che un solo argomento: la sua identità, la sua origine, il suo rapporto con il Padre. Infine, dovrei aggiun­gere che, nei Sinottici, molti di questi detti incisivi si trovano a conclusione di brevi incontri e discussioni (solitamente con oppositori di Gesù). Un esempio è il famoso detto sul giorno di sabato (Mc. 2,23-28). C 'è una struttura dialogica in molti dei discorsi presenti nel Vangelo di Giovanni, ma gli interlocutori di Gesù vi partecipano borbottando il loro disaccordo o poco più, e fraintendendo completamente e stranamente le sue parole. Questo offre semplicemente a Gesù l 'occasione per riprende­re da capo l ' argomento e andare avanti per un altro bel po' .

I discorsi di Gesù nel quarto Vangelo indicano una diver­sa comprensione della figura di Cristo e una diversa visione delle sue parole. Egli è soprattutto il rivelatore, le cui parole sono la conoscenza essenziale necessaria per la sal vezza umana: si distingue dagli insegnanti umani, in quanto è il proclama­tore la cui parola è tutt'uno con la sua persona. Vale a dire, la rivelazione presente nelle parole del Gesù giovanneo ha a che fare con l ' identità del proclamatore.

Siamo stati condotti , infine, a prendere in considerazione le differenze fra i Sinottici e il quarto Vangelo nel loro modo di presentare le azioni miracolose di Gesù. Ci sono quattro osservazioni da fare: cominciamo con l 'osservare che la più comune forma di miracolo attribuita a Gesù nei Vangeli sinot-

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ti ci è l ' esorcismo, ovvero il cacciare i demoni e sconfiggere la possessione demoniaca delle persone. L'esorcismo domina fra le potenti opere di Gesù, in special modo nel Vangelo di Marco (vedi l ,23-28; 5, 1 - 1 0; 7,25-30; 9, 1 9-27) . Ma, abbastanza strano a dirsi , queste attirano l ' attenzione soltanto per la loro assen­za nel Vangelo di Giovanni . Si dice che Gesù avesse un demonio (8,48), ma mai che ne avesse esorcizzato uno.

Possiamo poi correttamente generalizzare, dicendo che la straordinarietà delle opere di Gesù è intensificata nel quarto Vangelo. Le guarigioni compiute dal Gesù giovanneo sono ancor più notevoli di quelle presentate nei Sinottici . Le malat­tie curate duravano da più tempo; spesso si tratta di mali di cui la persona soffre fin dalla nascita (per esempio 9, 1 ) . In un certo senso si può dire che i miracoli compiuti sulla natura siano ancora più stupefacenti . Si tratta, cioè, di quei casi in cui Gesù opera splendidamente con la natura, ancor più straordinaria­mente di quanto non faccia con le persone. Esempi di questo genere comprendono la trasformazione dell ' acqua in vino (2, l­l O) e la pesca miracolosa (21, 1 - 1 1 ) .

I l più significativo confronto si ha osservando la descri­zione della risurrezione dei morti . Vi viene chiesto di confron­tare il racconto della risurrezione della figlia del capo della sinagoga in Matte o 9 con la risurrezione di Lazzaro in Giovanni 1 1 . Nel racconto di Matteo la condizione della ragazza è dubbia: Gesù precisa: «La bambina non è morta, ma dorme» (M t. 9,24 ). Questo in contrasto con le parole del padre che aveva detto che era morta (v. 1 8). Nel caso di Lazzaro non ci sono dubbi : è morto. È stato nel sepolcro per quattro giorni (Giov. 1 1 ,39). Questa precisazione avrebbe dovuto dire ai primi lettori che il suo spirito (il suo soffio vitale) se n 'era andato (sembra che il pensiero giudaico del tempo sostenesse che lo spirito vitale dei deceduti rimanesse attorno al sepolcro per tre giorni prima di allontanarsene definitivamente). Quelli che piangevano la sua morte erano riluttanti a rimuovere la pietra che chiudeva il sepolcro, in quanto il corpo aveva già iniziato il processo di decomposizione e la puzza era spaventosa. Lazzaro è morto: non c'è alcun dubbio a riguardo. Quindi non siamo in presen­za di un semplice «risveglio», come potrebbe essere il caso dei racconti Sinottici. Questa è un 'autentica risurrezione dei morti .

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Come terza osservazione, notiamo il modo in cui viene enfatizzata la straordinarietà dei miracoli di Gesù. Infatti , nonostante quanto abbiamo appena detto, si deve precisare che il numero di prodigi operati da Gesù nel quarto Vangelo è signi­ficativamente minore che nei Sinottici . Essi dominano il Vangelo di Marco ma il Quarto ne presenta soltanto sette (o otto):

l. le nozze di Cana (2, 1 - l l ) ;

2 . guarigione del figlio dell 'ufficiale (4,46-54) ;

3 . guarigione nella piscina di Betesda (5 ,2-9);

4. la moltiplicazione dei pani (6, 1 - 15 ) ;

5 . il camminare sul mare (6, 1 6-2 1 ) ;

6. guarigione del cieco fin dalla nascita (9, 1 -7);

7. risurrezione di Lazzaro ( 1 1 ) ;

8. la pesca miracolosa (2 1 , 1 -7) .

I l capitolo 21 viene infatti considerato dalla maggior parte degli studiosi un' aggiunta redazionale posteriore al Vangelo. Quindi , possiamo dire che conteneva originalmente soltanto sette racconti di questo tipo; sono pochi, ma quanta forza hanno !

Gli esorcismi, comuni nei Sinottici, sono sorprendente­mente omessi in Giovanni ; i prodigi sono rafforzati ancor più dalla loro straordinarietà, per quanto siano numericamente inferiori . Inoltre, i miracoli di Gesù nel quarto Vangelo hanno chiaramente una funzione diversa da quelli presenti nei primi tre. Come si legge in Luca, la cacciata dei demoni (esorcismo) era significativa, in quanto segnalava l ' avvento del regno di Dio ( 1 1 , 1 4-20). Collocati , come sono, nel contesto della predi­cazione di tale avvento (Mc. l , 14), i miracoli operati dal Gesù sin ottico puntano alla realtà di questo affermato nuovo dominio di Dio nel mondo. Si potrebbe dire che queste opere vadano oltre Gesù, indicando la presenza del Regno inaugurato con il suo ministero. Le cose non stanno così per quel che riguarda il Gesù giovanneo; le sue opere non puntano al regno di Dio (ci sono pochissimi riferimenti al Regno nel quarto Vangelo). Piuttosto puntano all ' identità dell 'operatore stesso; sono infat­ti chiamate «segni» in molti testi (vedi 2, l1 ; 4,54; 20 . 30-3 1 ) e sono comprese come indicazioni della vera identità di colui

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che le ha operate. Esse hanno l ' intenzione di far nascere una risposta di fede sulla base della pretesa di chi le pone in essere. Ai miracoli, quindi, viene attribuito un carattere rivelatorio, così come accade con le parole di Gesù : schiudono la verità sull ' identità del rivelatore. Ci sono vari problemi più comples­si collegati alla funzione dei segni e delle opere di Gesù nel quarto Vangelo che richiederanno la nostra attenzione più avanti.

Per il momento dobbiamo notare il modo in cui i miracoli di Gesù hanno un trattamento così diverso nel quarto Vangelo rispetto ai Sinottici.

Questo basta per evidenziare le differenze fra il quarto Vangelo e i Sinottici. Questa è solo metà della storia (quella più ampia, credo). L' altra è il senso in cui ci sono sorprendenti somiglianze fra il Vangelo indomabile e i tre precedenti. Vorrei suggerirne solo alcuni esempi, sufficienti , credo, a porre più nettamente il problema della determinazione del rapporto fra i Sinottici e questo Vangelo.

La somiglianza più ovvia è la narrazione della Passione. Lungo le linee dei Sinottici, i l quarto Vangelo ricorda la stessa storia di base della separazione di Gesù dai discepoli , il suo arresto, il processo sia dinnanzi all ' autorità religiosa, sia dinnan­zi al responsabile politico locale, la sua esecuzione, la sua sepoltura e, infine, la sua risurrezione. In verità, ciascuno dei Vangeli ha le proprie caratteristiche in qualche punto del raccon­to (per esempio il Vangelo di Luca riporta che Gesù fu porta­to nella casa del sommo sacerdote, ma non c 'è alcuna traccia di un processo dinanzi a questi ; vedi 22,54). Anche Giovanni non costituisce eccezione. In questo Vangelo, Gesù viene sotto­posto ad un primo esame sia da parte di Caiafa, il sommo sacer­dote in carica, sia di A nano, il suocero predecessore ( 1 8 , 1 2-24 ). Questo per indicare soltanto una variazione nel racconto della Passione secondo il quarto Vangelo, che però condivide la stessa struttura di base della narrazione sinottica.

In secondo luogo, si noterà che pur essendoci delle varia­zioni cronologiche, il quarto Vangelo conserva comunque la somiglianza nella struttura di base dell ' ordine del ministero di Gesù presentato nel Vangelo di Marco. Riteniamo che la strut­tura storica di quest ' ultimo costituisse il fondamento sul quale gli altri due Sinottici si modellarono ed alcuni propongono che

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il quarto Vangelo sia similmente dipendente dall'ordine degli avvenimenti presente in Marco poiché segue, infatti, questo schema di fondo:

l. la predicazione di Giovani il Battista (Mc. 1 ,4-8; Giov. 1 , 1 9-36) ;

2. l 'opera in Galilea (Mc. 1 , 1 4s ; Giov. 4,3) ;

3 . l a moltiplicazione dei pani (Mc 6,34-44; Giov. 6, 1 - 1 3) ;

4. Gesù cammina sul mare (Mc. 6,45-52; Giov. 6, 1 6-2 1 ) ;

5 . l a confessione di Pietro (Mc 8 ,29; Giov. 6,68s) ;

6. viaggio verso Gerusalemme (Mc. 9,30s; 1 0, 1 .32 .46; Giov. 7,10- 1 4) ;

7 . l 'entrata in Gerusalemme e l 'unzione d i Gesù (Mc. 1 1 , 10 ; 1 4,3-9; Giov. 1 2, 1 2- 1 5 . 1 -8 ; si noti che Giovanni rovescia l 'ordine dei due avvenimenti) ;

8 . l ' ultima Cena (Mc.l4, 1 7-26; Giov. 1 3 , 1 - 1 7,26) ;

9. il racconto della Passione (Mc. 1 4,43-1 6,8 ; Giov. 1 8 , 1 -20,29).

(Ho sintetizzato l 'elenco dei paralleli presentato da C.K. BARRETI, The Gospel According to St. John, Londra, SPCK, 1 965, pp. 34-35) . Il parallelo è ovvio anche in virtù delle diffe­renze che abbiamo notato sopra.

Da questo punto in avanti le somiglianze sono meno eviden­ti al lettore, ma ciò nonostante ancora visibili . Si confrontino, per esempio, i racconti della guarigione del figlio del centu­rione in Matteo 8,5- 1 3 , la guarigione della donna sirofenicia in Marco 7 ,24-30 e la guarigione del figlio dell 'ufficiale reale in Giovanni 4,46-54; ci sono alcune somiglianze sorprenden­ti anche se i racconti si servono di personaggi diversi . C 'è una presentazione comune di Giovanni il Battista nei Sinottici e nel quarto Vangelo: a grandi linee tutti lo identificano allo stesso modo e tutti lo presentano come colui che preannunzia l ' apparizione del Messia.

Inoltre, non ci si deve aspettare di ritrovare dei paralleli fra i discorsi di Gesù presenti nel quarto Vangelo e nei Sinottici ; essi sono presenti nelle parole. Siete invitati a confrontare gli esempi che seguono:

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Giovanni

«Chi ama la sua vita, la perde ma chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna» ( 1 2,25) .

«In verità, in verità vi dico: chi riceve colui che io avrò mandato, riceve me; e chi riceve me riceve colui che mi ha mandato» ( 1 3 ,20).

Gesù disse (al paralitico) : «Alzati , prendi il tuo lettuc­cio e cammina» (5,8).

Sinottici

«Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perdu­to la sua vita per causa mia, la troverà» (Mt. 1 2,25) .

«Chi riceve voi , riceve me; e chi riceve me, riceve colui che mi ha mandato» (Mt. 1 0,40) .

Gesù disse (al paralitico) : «lo ti dico alzati , prendi il tuo lettuccio e v attene a casa tua» (Mc. 2, 11) .

C i sono anche alcune metafore utilizzate da Gesù, come, per esempio, quella del granello di frumento (Giov. 12,24; M t. 5, 1 3 o Mc. 3 ,24) . Ci sono perfino dei dialoghi che seguono uno schema simile a quello presente nei Vangeli sin ottici, come Giovanni 7,3 ss. e Luca 1 3 ,3 1 ss. (per ulteriori paralleli si può vedere C.H. DODD, La tradizione storica nel quarto Vangelo, Brescia, Paideia1 1 983 ) .

Queste somiglianze dovrebbero essere sufficienti a convin­cerci che ci sono sorprendenti analogie fra il quarto Vangelo e i Sinottici. Talvolta il parallelo si verifica esclusivamente con uno di questi, qualche altra con uno schema sinottico comune. Dobbiamo concludere, allora, che le diversità sottolineate in precedenza devono essere temperate da queste somiglianze. Ah, ma questo è appunto il problema! Il quarto Vangelo potreb­be essere spiegato più facilmente se avessimo solo l ' una o l ' altra possibilità; vale a dire, o una narrazione totalmente diffe­rente del ministero di Gesù, oppure totalmente armonizzata con gli altri Vangeli . Il modo in cui si presenta, sia con diffe­renze sia con somiglianze, ci pone un problema ben più vasto.

Come possiamo spiegare tutto ciò? Ritengo che ci siano in realtà tre modi per spiegare il rapporto fra il Vangelo indoma-

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bile e i tre canonici : innanzitutto, si è sostenuto che il quarto evangelista conoscesse almeno uno o forse tutti i Vangeli canoni­ci e che, in qualche misura, fosse dipendente da esso o da essi. In base a questa teoria, l ' autore intendeva seri v eme uno «supple­mentare>> . Il Quarto presume, infatti , che i lettori avessero una qualche conoscenza della narrazione sinottica di Gesù e ne ha offerto una meditazione, come in effetti si presenta. Con questa proposta l ' evangelista cercava di seri vere un documento "teolo­gico" o "spirituale" che avrebbe sottolineato nuovi aspetti impliciti nei Vangeli sinottici. Questa posizione ha dominato per un certo numero di anni ed è ancora sostenuta in alcuni settori della ricerca teologica.

A ciò si contrappone la possibilità che il quarto evangeli­sta non conoscesse affatto i Vangeli sinottici. L'autore, si sostie­ne, ha scritto in qualche misura sulla base di conoscenze perso­nali e di ricordi senza l ' aiuto della testimonianza dei primi tre evangelisti. In base a questa seconda teoria, le differenze sono ovviamente spiegate, ma le somiglianze sono più problemati­che. Per quanto riguarda le affinità con i Sinottici, la teoria propone si tratti di memorie che, casualmente, sono in accor­do con le testimonianze sinottiche.

La terza ipotesi è quella con la quale mi trovo d'accordo. Il quarto evangelista aveva la possibilità di far ricorso ad una tradizione che si collegava a quelle sinottiche. Vale a dire, la trasmissione orale dinamica delle parole e delle opere di Gesù ha assunto forme di v erse (come anche le differenze fra i Sinottici indicano). Una di queste ha raggiunto il nostro evangelista: nel tempo necessario a raggiungerlo, essa divenne molto diversa da quella che è stata incorporata nei Vangeli sinottici, ma manifestava ancora tracce evidenti della sua origine nella stessa corrente di trasmissione orale del materiale sin ottico. Riportata in un diagramma, questa posizione può essere illustrata così come indica lo schema 2.

La tradizione orale, sviluppatasi dopo la crocifissione di Gesù, era un corpo di detti e di narrazioni in continua espan­sione e in continua crescita. Questo sviluppo era il risultato dello sforzo della chiesa di comprendere e collegare a se stessa il ministero del Gesù storico. Era anche il risultato della fede in Gesù vivente e attivo nella chiesa, che parlava mediante i

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Gesù

Figura 2

profeti e i maestri cristiani . Quindi , il bagaglio di «materiale riguardante Gesù» non era fissato dalla semplice memoria dei testimoni oculari del suo ministero, ma era dinamico e in conti­nua crescita. Per una qualche ragione, sembra che si fossero sviluppati due segmenti principali di questa tradizione. La prima è nota a noi oggi in virtù dei Vangeli sinottici , la secon­da è incorporata, almeno in parte, nel quarto Vangelo (potrem­mo parlare anche di una terza tradizione presente nelle lettere di Paolo) . Forse è stata la geografia ad essere responsabile della separazione delle tradizioni; forse la diversità fu dovuta agli interessi e ai caratteri tipici della comunità nell' ambito della quale si formò il quarto Vangelo. Le due correnti della tradi­zione non furono del tutto indipendenti l 'una dall 'altra. Oltre ad avere un'origine comune, fra di loro c'era uno scambio (nello schema 2 questo viene suggerito dalle frecce che si inter­secano fra le due correnti di tradizione). Il risultato finale è che le tradizioni sono quasi distinte l ' una dall'altra, eppure hanno alcune analogie e somiglianze.

La tradizione raggiunse il nostro evangelista in varie forme; ci potrebbe essere stato del materiale scritto che egli ha incor-

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porato nel suo Vangelo. È molto probabile che questo conte­nesse un documento riguardante principalmente le azioni miracolose di Gesù e il materiale narrativo dei sette segni di Gesù. Inoltre, c ' erano forse altri scritti (come il racconto della Passione) tramandati alla comunità di cui il quarto evangeli­sta era membro. Sicuramente, però, la tradizione orale era ancora molto ricca e atti va quando egli si mise ali' opera. Questo significa che gran parte di quello che l ' autore ascoltava nella vita della comunità cristiana non era ancora stato scritto, ma veniva tramandato con parole vive a beneficio dei credenti che man mano si avvicinavano.

Potendo attingere a questa ricca tradizione, il nostro evange­lista, che continueremo per convenienza a chiamare Giovanni, senza però presumere che l ' autore fosse un maschio (vedi l ' Appendice B, «Le donne nel Vangelo di Giovanni>>), si mise a seri vere il Vangelo. Questa persona ali ' inizio voleva rimane­re fedele al materiale tradizionale di cui (egli o ella) era a conoscenza, ed essere importante per la comunità a cui si rivol­geva nella sua opera. Il quarto evangelista non fu diverso da un buon teologo cristiano (o da un predicatore) dei nostri giorni che cerca fedelmente di articolare l 'eredità della propria religio­ne in risposta alle domande scottanti del suo tempo.

LA STRUTTURA LETTERARIA DEL QUARTO VANGELO

Letture preparatorie: scorrere rapidamente l'intero Vangelo, cercan­do di notare le parti principali e come si collegano le une alle altre. Ponetevi queste domande: che cosa unisce l'intera narrazione? Cosa ha fatto l'autore per rendere coinvolgente e leggibile il racconto?

Prima di scandagliare il quarto Vangelo in cerca di possi­bili risposte ad alcune domande storiche, dobbiamo esamina­re il testo stesso. Per poter avere una serie di informazioni sul passato di un' altra persona, dobbiamo arrivare a conoscere quella persona nel presente. La sua storia non ha molto senso finché non conosciamo che cosa l ' ha prodotta; lo stesso vale

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per un documento storico antico. Cercheremo quindi di fare una breve analisi sullo stato attuale del Vangelo di Giovanni come base mediante la quale rintracciare il contesto in cui si è sviluppato. La nostra attenzione si focalizzerà principalmente sul come scorre la vicenda di Gesù presentataci dal quarto Vangelo, sul come è formulata e sul modo in cui l ' autore condu­ce il lettore attraverso le varie tappe. Vogliamo concentrarci sul come noi, lettori, viviamo quella storia, sul come ci coinvol­ge e incide sulle nostre emozioni.

Quando leggiamo con attenzione il Vangelo, notiamo, prima di tutto, che esso inizia con una sorta di prefazione. I primi diciotto versetti del Vangelo sembrano una bussola per orien­tarci nella storia che seguirà. La prefazione di un libro spesso avvisa il lettore di quello che deve conoscere, tenere a mente e valutare man mano che procede con la lettura. Giovanni l , 1 -1 8 è appunto un esempio di tale prefazione informati va e orien­tativa del Vangelo, ma è anche molto di più: ha la funzione del coro di una tragedia greca che occupa la scena prima che gli attori prendano il loro posto e abbia inizio la rappresentazio­ne. In altre parole, questa prefazione ci dà la chiave del dramma che si sta per sviluppare sotto i nostri occhi.

Ciò svela quel segreto, ce ne rendiamo subito conto, che molti dei personaggi della storia stanno cercando di scoprire . Cosa ancor più importante, la prefazione ci informa sul chi è realmente il personaggio principale e da dove viene. Egli non è altro che la Parola di Dio, e le sue origini sono con Dio fin dal principio. Possiamo dire ancora di più ! Egli stesso è Dio ( 1 , 1 . 1 8) . Ancor di più ! In questa prefazione ci viene prean­nunciato che la figura divina centrale della storia è responsa­bile dell' esistenza del mondo, tuttavia viene rifiutata proprio da coloro che sono sue creature. Però, per quelli che lo accet­tano e non lo rifiutano, la Parola di Dio garantisce un benefi­cio significativo: il potere di diventare figlioli di Dio ( 1 , 1 2).

L' identità di Gesù, la probabilità che lo si rifiuti , i benefici derivanti dalla sua accettazione, questi sono i nuclei di infor­mazione vitali che ci vengono affidati prima ancora di immer­gerci nel·racconto. Questi ci forniranno le informazioni che ci consentiranno di cogliere quanto sta avvenendo, anche quando alcuni dei personaggi della narrazione si imbatteranno nella

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loro ignoranza. L'autore ci fa un dono speciale, ci pone all'in­terno della storia, se è possibile, dove possiamo cogliere le varie fasi del racconto in modo più profondo e comprensibile.

Poi , in l, 18 il prologo si interrompe improvvisamente e siamo immersi nella narrazione vera e propria. Nel corso dei successivi undici capitoli partecipiamo ad un dramma strano e coinvolgente. Non siamo sorpresi dal fatto che questo perso­naggio, che è stato identificato come la Parola di Dio, compia delle opere meravigliose. Egli sembra conoscere quel che c 'è all'interno delle persone (l ,47 ; 4 , 1 7- 1 9), trasforma la comune acqua nel miglior vino (2, 1 - 1 1 ) , guarisce gli afflitti senza speran­za (5,2-29; 9, 1 -7), trasforma pochi pani e pesci in un pasto sufficiente per una folla ( 6, 1 - 14) e risuscita anche un caro amico defunto ( 1 1 , 1 -44) .

Non siamo neanche sorpresi dal fatto che i l protagonista del racconto parli in modo strano. Il suono delle sue parole somiglia a quello di una persona le cui origini sono in un'al­tra realtà, come se fosse un alieno che viene da un altro piane­ta. Le sue parole sono enigmatiche e provocatorie: «Se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio» (3 ,3) ; «L'acqua che io gl i darò diventerà in lui una fonte d'acqua che scaturisce in vita eterna» ( 4, 14 ); «Io sono il pane della vita» (6,35); «Io sono la luce del mondo» (8, 1 2); «lo sono la risur­rezione e la vita» ( 1 1 ,25) . C'è un alone di mistero attorno a questa persona, qualcosa di molto particolare !

Così la controversia che suscita non è inaspettata. Sappiamo che egli è una creatura divina e nei racconti ci aspettiamo cose insolite dalle creature divine. Possiamo capire perché le reazio­ni della folla contro di lui siano diverse ; abbiamo immediata­mente il sentore che questa persona susciterà un vespaio presso le autorità religiose. Egli manda in frantumi il Tempio e preten­de di poter ricostruire una tale struttura in tre giorni (2, 1 9) . Non dimostra alcun rispetto per il sabato e pretende di poter lavorare in quel giorno perché suo «Padre» opera di sabato (5, 1 7) . Le strane parole pronunciate riguardo al mangiare la sua carne e bere il suo sangue nel capitolo 6 sono, in verità, la causa che solleva l'opposizione (6,60) e da questo momento in poi ci sono opinioni nettamente divise su di lui (7, 1 2) . Peggio ancora, si comincia a parlare di condannarlo a morte (7, l) ! Nel

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tempo che impieghiamo per arrivare alla fine del capitolo I l , queste parole si sono trasformate in un complotto giunto a maturazione ( 1 1 ,45-54 ) .

Come lettori siamo sorpresi da tutto questo; in verità, possia­mo comprendere come questo misterioso personaggio possa suscitare qualche controversia. Ricordiamo dalla prefazione che l 'eroe della storia sarà rifiutato. Nonostante conoscessimo il segreto della sua identità, anche noi siamo stati sviati da alcune sue dichiarazioni riguardanti se stesso. Uccidere l ' eroe sarebbe uno sbaglio terribile; assistiamo allo svolgersi della tragedia verso il suo inevitabile epilogo.

Pensiamo che giunga al culmine al capitolo 1 2 . Gesù inter­preta l ' unzione da parte di Maria come preparazione alla sua sepoltura (12,7). Poi ascoltiamo le parole : «L'ora è venuta» ( 1 2,23) ; ricordiamo che in precedenza Gesù aveva detto che l' «ora» stava per venire (4,2 1 .23 ; 5 ,25 .28), ma che non lo era ancora (2,4; 7,30; 8,20) . Ora ci siamo ! Gli oppositori faranno la loro mossa. Che cosa farà il nostro eroe? In 1 2,32 egli parla ancora di essere «innalzato», così come aveva fatto in 3 , 1 4 e 8,28, ma non abbiamo la più pallida idea di ciò che significhi . Tra poco, forse, lo sapremo.

La narrazione prende un'improvvisa svolta nel capitolo 1 3 ; Gesù si è mosso tra la folla per gran parte della storia. Ora si ritira nel privato (si nasconde?) con i suoi discepoli . Siamo a questo punto, aspettando ansiosamente di vedere se gli antago­nisti realizzeranno i loro piani per ucciderlo e come rispon­derà se ci proveranno. Invece di risolvere immediatamente questa terribile suspence, la narrazione occupa cinque interi capitoli riportando le conversazioni private di Gesù con i suoi seguaci .

Siamo quindi tentati di saltare ali 'ultima pagina per conosce­re l 'epilogo, ma non dobbiamo farlo perché i capitoli inter­medi sono importanti . L'enigmatico eroe non ci delude in queste conversazioni ; all ' inizio c 'è quel sorprendente atto di lavare i piedi ai suoi discepoli (13 , 1 -20). Poi , gran parte di quello che dice sorvola le nostre teste senza farsi capire, come fanno i personaggi della storia. Egli parla di essere glorificato (per esempio in 13,32; 1 6, 14 ; 17,5), dell ' «and;trsène» ( 1 4,28; 1 6,7) e di un qualche «Consolatore» ( 1 4, 1·� .26 ; 1 5 ,26; 1 6 ,7) . Il

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linguaggio elusi v o che ha utilizzato in pubblico rimane invaria­to : «lo sono la via, la verità e la vita» ( 14,6); «lo sono la vera vita, e il Padre mio è il vignaiuolo» ( 1 5 , 1 ) . Continuiamo ad affidarci a quella informazione segreta dataci nel prologo, la Parola nel mondo, il rifiuto, l ' accettazione. Come in prece­denza, questo ci aiuta, ma non risolve tutti i nostri problemi .

Terminata la lunga preghiera di Gesù nel capitolo 1 7 sembra vicina la fine della suspence. Siamo quasi sollevati quando Giuda compie la sua vile azione e Gesù viene arrestato, ma siamo respinti nuovamente in una situazione di attesa quando Pilato emette il suo giudizio su Gesù . Sembra proprio che la tragedia debba essere sconvolta. Pilato sta per sbarrare la strada che le autorità religiose avevano programmato, in quanto ritie­ne che Gesù sia innocente ( 1 8 ,3 1 ). Emerge una strategia nasco­sta quando lo vediamo muoversi fra Gesù e «i giudei» : le autorità religiose sono determinate, egli però cerca di dar loro soddisfazione senza far violenza alla propria coscienza ( 1 9 , 1 -5), m a l a cosa non funziona. L a paura che h a dei suoi sosteni­tori lo vince ( 1 9,8) e infine consegna loro Gesù.

Stiamo ancora pensando che forse questo uomo-Dio schioc­cherà le dita e chiuderà l ' intera vicenda, ma non lo fa. Viene crocifisso. È vero, Gesù muore con dignità, ma comunque muore: ci sentiamo ancora provocati e sfidati dalle sue parole anche quando pende dalla croce, quando «egli rese lo spirito» ( 1 9 ,30).

L' ultima tragica scena è terminata: il mondo ha schiaccia­to questo estraneo. Allora nella narrazione accade un immedia­to rovesciamento delle parti . Dovremmo aver ascoltato con più attenzione la sua strana affermazione circa l ' essere la risurre­zione ( 1 1 ,25) ; avremmo dovuto notare con più attenzione quello che fece per Lazzaro, perché ora egli risorge dalla tomba. Appare, in un primo tempo, a Maria Maddalena, che si trova piangente all ' entrata della tomba vuota e l ' incarica di annun­ciare la sua risurrezione agli altri suoi seguaci (20, 1 1 - 1 8) . Poi si presenta improvvisamente ad alcuni di questi , impauriti nei loro nascondigli , non una sola volta, ma due (20, 1 9-23 e 24 -28) . Essi vanno a pescare, cercando di prendere le distanze da quanto era avvenuto, ed egli appare loro ancora una volta alla riva del lago, serve loro da mangiare ed ha una lunga conver­sazione con uno di essi (2 1 , 1 -23) .

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Il racconto termina con Gesù risorto che appare ai suoi seguaci in tempi e in luoghi inaspettati . Ci viene allora detto che questa intera storia è stata scritta affinché arriviamo «a credere che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio, e affinché, creden­do, abbiamo vita nel suo nome» (20,3 1 ) .Questa non è proprio una storia come tante altre: si tratta di un racconto che ha l' inten­zione di produrre un cambiamento in noi . Non possiamo non coglierne l ' intento posando il libro per poi dire : «Però, è stato interessante}} . Dobbiamo decidere se la storia è «Vera}} o meno, come chiede l ' autore, (21 ,24) e se Io è, allora «crediamo}} . La narrazione ha lo scopo di condurci ad incrociare la stessa strada sulla quale ha condotto i personaggi del racconto, per decide­re se credere che il personaggio principale sia veramente quello che pretende di essere, oppure metterei dalla parte dei suoi oppositori .

Il Vangelo di Giovanni ci narra una storia affascinante, prevedibile in qualche modo, piena di suspence in un altro. Non appena prendiamo le distanze dalla storia e riconsideria­mo l ' intera vicenda, alcuni schemi diventano chiari . Sembra dividersi tra i capitoli 1 1 e 1 3 , con quest'ultimo che si pone come una specie di ponte fra le due parti . Nella prima (capp. l - 1 1 ), il capitolo 6 funziona da punto di svolta cruciale, il momento in cui l 'opposizione è piena di energie per svilup­pare un complotto contro il protagonista. Nella seconda (capp. 1 3 - 2 1 ), il capitolo 1 8 funge da riassunto della tesi fonda­mentale della vicenda, dopo un importante iato nei capitoli 1 3 - 17 . Nel finale (capp. 2 0 e 2 1 ) l ' intera vicenda viene capovol­ta, non senza che ci fosse stato qualche suggerimento in questo senso. Non ci è mai stato detto che Gesù sarebbe stato croci­fisso e che avrebbe sconfitto la morte, ma accenni enigmatici a questo proposito sono disseminati per tutto il corso della narrazione. Per esempio, iniziamo a comprendere che cosa intenda Gesù quando parla del suo essere «innalzato}} .

Distolti dalla narrazione e messi in grado di riflettere sull 'e­sperienza di lettura che abbiamo fatto, arriviamo a capire che la storia ha avuto un ritmo ben preciso. L' autore ha narrato in primo luogo il ministero pubblico di Gesù, poi l ' insegnamen­to privato ai suoi discepoli ; inoltre il processo pubblico, l' ese­cuzione e infine una serie di apparizioni private ai suoi disce-

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poli . L' alternarsi fra opera pubblica e privata di Gesù costi­tuisce la cadenza della narrazione.

L' intera storia giovannea di Gesù può essere rappresenta­ta in un diagramma come indica lo schema 3 .

Prologo Gesù rivela la gloria Gesù riceve la gloria Riswrezione di Dio di Dio

1 , 1 - 1 8 1, 19 - 1 2,50 1 , 1 9 - 12,50 20, 1 - 2 1 ,25

Segni e discorsi

L'identità L' identità si di Gesù è manifesta. annunciata. L'opposizione Il lettore aumenta. conosce il Si accresce segreto. Gesù è Dio ( 1 , 1 - 1 8)

1

L'oppo-sizione si inten-si fica

re ma non è ancora arrivata.

2,4; 7 ,30; 8,20 Gesù sarà «innalzato»

3 , 14 ; 8,28

giunta 1 2,23

1 2,32

1 7,1

«innalza-mento»

Appari­zione

Gesù è Signore e Dio 20,28

A

1 t�-------------------------------------... · - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - .:

Schema 3

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SCOPO, DESTINAZIONE, CONTESTO STORICO E DATAZIO­NE DEL QUARTO VANGELO

Letture preparatorie : i testi biblici indicati sono di grande impor­tanza in relazione ai problemi che stiamo affrontando: 20,30-3 1 ;

capitolo 9; 6,22-58 .

Per quale scopo è stato scritto questo racconto così ben strutturato? Dobbiamo spingerei oltre la struttura del testo, mediante la storia, fino ali ' origine del Vangelo. Che cosa voleva ottenere l ' autore? A chi era rivolto in particolare questo scrit­to? Ci sono due piani sui quali dobbiamo procedere per affron­tare questi temi . Ci chiediamo dapprima se l ' autore abbia fatto un'esplicita dichiarazione di intenti da qualche parte nel corso del Vangelo, poi verifichiamo se altri testi implichino uno scopo e una destinazione che potrebbero non essere esplicitamente dichiarati .

Mentre affrontavamo il tema della struttura del Vangelo, abbiamo già notato che sembra esserci uno scopo esplicito, dichiarato in 20,30-3 1 . Ciò che è scritto nel Vangelo ha lo scopo di far sorgere la fede nei lettori ; quanto si propone il Vangelo è convincere i lettori che questo Gesù è il Messia dell ' attesa giudaica (il Cristo) e un rivelatore divino unico (Figlio di Dio) . Secondo questi versetti , l 'evangelista sperava di portare altre persone a credere. Lo scopo era quello di predisporre un documento da utilizzare nell ' impresa missionaria, un documen­to che avrebbe spinto a credere quelli che ancora non aveva­no abbracciato la fede . Egli, allora, è stato un vero evangeli­sta nel significato moderno del termine, uno che proclama la fede cristiana perché altri si convertano.

Tuttavia questa dichiarazione esplicita dello scopo del Vangelo non è adeguata per molte ragioni . In primo luogo, la dichiara­zione dello scopo che troviamo in 20,3 1 è discutibile a causa della variante nella forma del verbo greco tradotto con «crede­re» . Ci sono alcuni antichi manoscritti che contengono una forma verbale che si può tradurre al meglio con «possano giunge­re alla fede» , come appunto riportano molte versioni moderne. Però ci sono altri manoscritti che presentano una variante che

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dovrebbe essere resa con qualcosa del tipo «possano continua­re a credere» . La differenza fra le due forme greche è determi­nata da una singola lettera, ma il significato che le due parole esprimono è notevolmente di verso. Se si accetta la prima, questa vorrebbe indicare che il Vangelo è stato scritto con lo scopo di portare increduli alla fede. D'altra parte, se si accetta la secon­da, lo scopo del Vangelo sarebbe sostenere quelli che sono già credenti. Sfortunatamente gli specialisti di critica del testo sono divisi su quale delle due espressioni si avvicini di più al testo originale; l ' utilità del testo per determinare lo scopo del Vangelo è seriamente messa in discussione.

Inoltre, quando analizziamo il Vangelo nella sua totalità, questo non ci colpisce in modo particolare come se fosse un documento di tipo missionario. In verità, ci sono alcune sue parti che si leggono proprio così , come se questo fosse lo scopo per cui sono state scritte. L'esempio più significativo di questi testi sono i cosiddetti segni di Gesù, in quanto sembra siano stati scritti per evocare la fede, proprio come indica 20,30-3 1 . Gran parte del Vangelo, però, lascia l ' impressione di avere uno scopo diverso. I discorsi di Gesù, per esempio, sembrano troppo complicati e sofisticati perché si possano intendere rivolti a non credenti . Parlando un momento per analogia, i segni sono quel genere di cose che un Billy Graham scriverebbe per i suoi scopi evangelistici, ma i discorsi sono per la maggior parte come qualcosa che un teologo - mettiamo Paul Tillich - scrive­rebbe con lo scopo di comunicare un modo di comprendere la fede ad altri credenti .

Oltre a ciò, anche se «affinché crediate» fosse quello che l'autore ha scritto in origine, le parole potrebbero essere state parte di quella tradizione che l 'evangelista stava utilizzando. Si suppone, e io concordo con questa tesi, che 20,30-3 1 una volta costituisse la conclusione della collezione del «libro dei segni» che l ' evangelista usò. Questa fonte scritta, facciamo un' ipotesi, era un documento missionario che narrava sette opere potenti di Gesù. I versetti 20,30-3 1 costituivano la conclu­sione di questo piccolo libro come una chiara e accurata dichia­razione del suo scopo. Avendo egli utilizzato i segni presenti in questa fonte scritta, aggiunge ora la sua conclusione al termi­ne di quel lavoro, riconoscendo correttamente la sua dipen-

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denza da quella fonte. In verità questa conclusione è meno appropriata per l ' intero Vangelo di quanto lo fosse per il suo contesto originale (R. T. FORTNA, nella sua opera The Gospel

of Signs, difende questa tesi) . Il secondo piano che prendiamo in considerazione per capire

lo scopo del Vangelo è costituito dalle implicazioni dell ' inte­ro documento. Se mi date fiducia per un momento e accettate il fatto che l ' intento missionario non sia pienamente adegua­to per spiegare lo scopo del Vangelo, vedremo quali altre possi­bilità possiamo trovare. Ce n'è una che è implicita in una serie di testi e più chiaramente nel racconto della guarigione della persona nata cieca del capitolo 9. Quello che è suggestivo in questo racconto non è la storia in sé, ma ciò che segue. La guarigione operata da Gesù sembra suggerire quell ' intento evangelistico che abbiamo preso in considerazione; la narra­zione della reazione delle autorità alla testimonianza della persona guarita è affascinante. Dopo che ha testimoniato per la seconda volta il fatto che Gesù lo ha guarito e che egli deve essere da Dio, le autorità «lo cacciarono fuori» (9,34). Poi incontra nuovamente Gesù e rende una piena confessione di fede (9,35-38) . Nel mezzo di questa narrazione ci viene detto che i genitori del guarito avevano paura, «infatti i giudei aveva­no già stabilito che se uno avesse riconosciuto Gesù come Cristo sarebbe stato espulso dalla sinagoga» (v. 22).

Questo racconto potrebbe suggerire il genere di situazione che sperimentavano l' evangelista e la comunità giovannea e indicare uno dei motivi che hanno spinto alla redazione del Vangelo. Sappiamo che i giudei che abbracciavano la fede cristiana si separavano gradualmente dalla sinagoga. È molto probabile che talvolta lo facessero per propria scelta e talvol­ta la separazione era i l ri sultato della pressione da parte di loro sorelle e fratelli della sinagoga. Il libro di Atti accenna a questo molte volte (At. 9, 1 -2 ; 1 4, 1 -7 ; 1 7 , 1 -9 ; 1 8 ,4-7 ; 1 9,8- 1 0) e i l Vangelo di Matteo indica che i l primo evangelista era a conoscen­za di dispute fra giudei e cristiani (vedi M t. 1 0, 1 7 ; 23 ,34-36). Quello che la narrazione di Giovanni 9 sembra implicare è che, in verità, esisteva una lotta fra i giudei che credevano che Gesù fosse il Messia e quelli che non lo credevano. Alcuni giudei diventati cristiani continuavano a frequentare la sinagoga,

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convinti che la loro nuova fede non fosse incompatibile con la vita e prassi giudaica. I membri della sinagoga, però, in molti casi non accettavano questa situazione ed espellevano dalle comunità cultuali giudaiche chiunque aderisse alla fede cristia­na. In altre parole, c 'era tensione fra cristiani e giudei nella città in cui fu scritto il quarto Vangelo. Questa tensione saliva e inoltre causava a molte persone una grande angoscia. Giudei diventati cristiani si sentirono intrappolati fra la fedeltà alle proprie radici giudaiche e le loro nuove convinzioni che Gesù fosse il Messia atteso da lungo tempo. Quindi i cristiani furono imbrigliati in una disputa con i loro precedenti compagni della sinagoga. Torneremo su questa discussione più avanti nel capito­lo per presentare alcune ragioni dell ' inasprirsi del conflitto fra cristiani giovannei e membri della sinagoga (è stato ipotizza­to che questa situazione fosse dovuta ad un decreto formale, emanato da un concilio di rabbini verso la fine del primo secolo; questa ipotesi però non può essere più sostenuta, grazie alle ricerche storiche che non hanno trovato alcuna prova di un decreto di questo tipo).

Sostengo che questo contesto ci presenti un quadro accet­tabile della situazione e dello scopo dell 'evangelista. Se le cose stanno così, allora alcuni elementi del Vangelo di Giovanni cominciano ad avere più senso. Permettetemi di suggerime soltanto alcuni . È per questo motivo che il Vangelo parla dei «giudei» alla sua maniera. Questa espressione non viene utiliz­zata come qualifica etnica ma è un' allusione diretta agli opposi­tori principali della chiesa giovannea del tempo. Per questo motivo, in qualche misura, il Vangelo sembra contrapporre Gesù a Mosè o almeno sembra interessato a dimostrare che Gesù è superiore a Mosè (per esempio 1 , 1 6- 1 7; 6,32). Così viene anche chiarito il motivo del costante sforzo di presenta­re Gesù come inviato da Dio, che gode di status divino, ma che comunque è subordinato al Padre. Non potrebbe essere questa la risposta dell 'evangelista alle accuse da parte dei capi giudaici che i cristiani credessero in due dèi : Gesù e il Padre? Forse viene spiegato anche il ruolo importante assegnato al complotto mortale contro Gesù nel quarto Vangelo (questo complotto appare molto presto - 5 , 1 8 e per implicazione anche 2,23-25 - si noti ciò, in contrapposizione ai Vangeli sinottici).

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Forse l ' attuale persecuzione fisica dei cristiani ad opera dei giudei dava nuovo significato alla sofferenza di Gesù avvenu­ta molti decenni prima. Infine, Nicodemo (cap. 3) potrebbe essere un esempio di come alcuni giudei si comportassero al tempo del l ' evangelista. Essi erano segretamente cristiani o stavano segretamente esplorando la possibilità di aderire alla fede cristiana, ma lo facevano col favore delle tenebre, altri­menti i loro compagni avrebbero potuto scoprire le loro inten­zioni (questa ipotesi si basa sullo studio di J.L. MARTYN, Histo­ry and Theology in the Fourth Gospel) .

Penso che nella misura in cui analizziamo più profonda­mente il pensiero e il simbolismo del Vangelo di Giovanni, diverrà sempre più evidente che la situazione proposta per la redazione del Vangelo acquista senso. L'evangelista si è posto al servizio di una comunità bloccata in una disputa cruciale con la sinagoga giudaica locale . La comunità giudaica stava minacciando quella cristiana, proprio come gli sforzi evange­listici cristiani stavano minacciando la stabilità della sinago­ga giudaica. Il risultato era che entrambe le comunità si difen­devano. L'evangelista contribuì alla difesa di quella cristiana rivolgendo i l suo scritto in primo luogo ai membri di questa. Utilizzando le tradizioni di cui disponeva e adattandole, egli mise a disposizione dei primi lettori un importante messaggio. L' autore, o l ' autrice, mostrò loro che essi potevano discutere con i vicini giudei in risposta alle accuse sollevate contro il cristianesimo. Egli , o ella, presentò Gesù drammaticamente impegnato in una lotta con i suoi contemporanei giudei che non lo avrebbero accettato e che alla fine lo avrebbero messo a morte. Mostrò loro come Gesù fosse l ' ultimo anello della tradizione mosaica, non la sua contraddizione. Questo fatto era particolarmente importante in quanto alcuni suoi lettori (anche se non tutti) erano di eredità giudaica.

Lo scopo primario del Vangelo, allora, non era di tipo «evange­lico», né missionario. È stato rivolto alla comunità cristiana da uno dei capi più stimati ; aveva Io scopo di rafforzare i credenti cristiani nella lotta dovuta alla situazione locale. Era, se si vuole, un documento infracomunitario, era un Vangelo destinato alla famiglia. In verità, l 'evangelista potrebbe aver sperato che alcuni giudei , che avevano un qualche interesse per la fede cristiana,

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fossero persuasi da questo scritto. Per questo motivo l ' intento missionario di 20,30-3 1 non è da considerarsi improprio. Ma lo scopo dell 'evangelista non era tanto quello di convertire, quanto quello di educare; non tanto evangelizzare, quanto piuttosto incoraggiare quelli che erano già nella fede.

Può sembrare una piccola digressione quella che sto per fare, ma, a questo punto della nostra discussione, è importante solle­vare la domanda: perché l 'evangelista ha scelto di scrivere un vangelo? Vale a dire, per poter raggiungere lo scopo, perché l 'autore ha selezionato, fra i molti possibili generi letterari, questa forma piuttosto rara di letteratura cristiana che siamo arrivati a chiamare «vangelo»? Naturalmente, in nessuna parte l 'autore chiama la sua opera un vangelo (diversamente da Mc. 1 , 1 ) . Tuttavia, l 'evangelista preferisce dare espressione allo scopo del suo lavoro, che descrive la figura di Gesù, con una narra­zione che almeno sembra possedere una sequenza storica. Come Paolo e forse altri hanno fatto, si poteva scegliere di scrivere una lettera pastorale. Oppure con la forma apocalittica, come quella che utilizzerà Giovanni di Patmos qualche anno dopo, avrebbe potuto avere l 'onore di incoraggiare i cristiani in crisi.

Il problema è ancor più complicato, credo, se il quarto evangelista non conosceva gli altri Vangeli nella loro forma letteraria scritta. Forse egli, o ella, conosceva alcune tradizio­ni (orali o scritte) che formarono gli ingredienti della forma letteraria vangelo, ma non aveva mai visto un vangelo intero. Crediamo che fu l 'evangelista che chiamiamo Marco ad aver inventato tale forma letteraria nella tradizione cristiana (forse con una conoscenza di qualche letteratura ellenistica che potreb­be essere stata simile ai Vangeli). Ma se il quarto evangelista non aveva mai visto il Vangelo di Marco o altri, perché arrivò a scegliere questo genere? Alcuni direbbero che questa doman­da smonta la nostra ipotesi che il quarto evangelista non dipen­desse, per la forma letteraria, almeno da uno dei Vangeli sin ot­tici . Ritengo tuttavia che esistano altre possibilità.

La prima di esse ci dice che è alcuni hanno proposto che la fonte dei segni, che noi riteniamo egli abbia utilizzato nello scrivere il suo Vangelo, fosse essa stessa una forma primitiva del genere letterario vangelo. Vale a dire, presentava i miraco­li di Gesù insieme ad altro materiale narrativo in una sequen-

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za storica; faceva questo con lo scopo di proclamare la «buona novella» della fede, che è, naturalmente, il significato lettera­le di «evangelo». L' autore del quarto Vangelo adottò sempli­cemente questa forma dalla fonte e la riempì con discorsi e ulteriori testi narrativi (inclusa, forse, la storia della Passione; vedi le opere di R. T. FORTNA segnalate nella Bibliografia finale).

Una seconda possibilità che ritengo più concreta è che la tradizione orale che l 'evangelista conosceva e che utilizzò fosse già strutturata in quella che chiamiamo la forma letteraria vangelo. Allora, nel tentativo di ripresentare questa tradizio­ne il più fedelmente possibile, egli utilizzò naturalmente la forma letteraria vangelo. Questo per dire che la creazione del genere letterario vangelo non è dovuta al genio dell ' autore del materiale scritto (i Vangeli di Marco e Giovanni), ma al gradua­le e non deliberato sforzo della comunità cristiana primitiva di preservare le conoscenze che aveva a sua disposizione; la tradi­zione orale, allora, che si ricollegava al ricordo storico di Gesù di Nazareth, si formò come vangelo. Completando il materia­le storico precedente con leggende, miti e nuovi insegnamen­ti oltre a quelli che essi ritenevano provenire dal Gesù viven­te, i primi cristiani gradualmente strutturarono la forma vange­lo al tempo della tradizione preletteraria.

Riprendiamo il filo dopo la nostra digressione: questa discus­sione ha ben consolidato il mio punto di vista sullo scopo del Vangelo e sulla situazione concreta che portò alla forma scrit­ta. Nello stesso tempo abbiamo chiarito il fatto che il Vangelo è diretto ad una comunità di cristiani alla quale probabilmen­te apparteneva lo stesso evangelista. Si tratta di una comunità, così mi sembra, composta da cristiani aventi sfondo cultural­religioso vario. Alcuni sono giudei, come abbiamo già detto, altri sono senza dubbio di origine pagana. Per questo motivo l ' autore non poteva presumere che il lettore comprendesse l ' ebraico. Di conseguenza, pone la massima cura nel tradurre alcune parole da tale lingua, per esempio in l ,38 e l ,42. Ora dobbiamo affrontare un aspetto supplementare: il contesto culturale dell 'evangelista.

Se si vuole comprendere una persona, è necessario conosce­re qualcosa del suo contesto socio-culturale. Se si volesse comprendere la strana reazione di un amico, poniamo, nei

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confronti di una persona dell ' altro sesso, si dovrebbe conosce­re qualcosa riguardo i suoi genitori o i suoi parenti stretti . Soltanto allora si potrà capire perché si comporta in un determinato modo.

La stessa cosa è vera per un brano letterario. Il conoscere qualcosa di Shakespeare ci aiuta quando si leggono i suoi scrit­ti . Conoscere la vita di Albert Camus e l ' influenza che l ' esi­stenzialismo francese ha esercitato sulla sua personalità rendo­no la lettura dei suoi racconti più significativa.

Abbiamo cercato di ricostruire al meglio questo contesto fondamentale per la comprensione del Vangelo di Giovanni, ma ci rimane ancora da affrontare il problema dell ' influenza culturale sul pensiero del documento. Con quali tipi di idee era venuto a contatto l ' evangelista? Quali scritti avevano struttu­rato il suo pensiero? Ci sono nel Vangelo idee ed espressioni prese in prestito altrove? Tutti questi sono modi di informarsi sul l ' atmosfera intellettuale in cui ha operato il quarto evange­lista: quella che lui, o lei, respirava.

La situazione in cui scrisse suggerisce di per sé i fatti essen­ziali che dobbiamo conoscere per i nostri scopi . Prima di tutto, è evidente da quanto abbiamo detto sopra che io ritengo che l ' evangelista sia stato significativamente influenzato dal pensie­ro ebraico. Questo implica che le Scritture ebraiche e gli scritti extra-biblici fossero parte del patrimonio culturale dell ' autore. Ci sono, però, segni evidenti che il giudaismo che ha conosciu­to, e che potrebbe aver abbracciato a suo tempo, non fosse sempli­cemente il giudaismo rabbinico che divenne la tradizione princi­pale al termine del primo secolo. I paralleli fra il pensiero giovan­neo e la letteratura scoperti nei cosiddetti Rotoli del Mar Morto sono sufficienti per convincerci che l 'evangelista conoscesse il movimento giudaico in generale, il quale comprendeva una grande varietà di forme e di espressioni . Possiamo incontrare caratteristiche tipicamente rabbiniche nel Vangelo, per esempio, il discorso nel capitolo 6 sembra proprio un' interpretazione rabbi­nica di un testo scritturai e. Ma possiamo rintracciare nel Vangelo caratteristiche non presenti nel rabbinismo tradizionale: per esempio, il pensiero dualistico del Vangelo (vedi cap. 2).

Non posso soffermarmi a lungo su questo per ora. Vi chiedo soltanto di accettare questa affermazione come un' ipotesi di lavoro sulla quale continuiamo l ' argomentazione: l 'evangeli-

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sta era innanzitutto sottoposto all ' influenza di un giudaismo misto, che poteva tollerare da una parte un fariseo stretto e dall ' altra un fanatico apocalittico (come sono alcuni autori dei Rotoli del Mar Morto). Si trattava di un giudaismo che tollerò per un certo periodo di tempo perfino il movimento cristiano al suo interno, considerandolo una setta.

Un tale giudaismo come ora descritto, allora, non sarebbe privo di influenze provenienti dal mondo ellenistico: filosofie greche rivisitate, religioni misteriche importate (alcune dall 'e­st) , filosofie speculative e forse anche il culto dell ' imperatore romano. Tutte queste forme religiose o parareligiose influen­zarono il giudai smo del primo secolo d.C. così come avevano fatto nei due secoli precedenti . II risultato fu che il giudaismo che influenzò il quarto evangelista non era esente dal pensie­ro ellenistico più di quanto non Io sia in America il pensiero democratico rispetto a quello repubblicano.

La conseguenza di questa mescolanza di idee e influenze è che il magazzino concettuale del quarto evangelista era pieno fino a traboccare. Questo autore, o autrice, aveva a disposi­zione concetti provenienti integralmente da altre tradizioni . Un esempio a portata di mano è il ricco concetto utilizzato per introdurre il Vangelo, vale a dire, la Parola oppure, per utiliz­zare il termine greco, Logos. Quest'ultimo è un termine che aveva profonde radici nella filosofia greca, per la precisione nello stoicismo. Ma esso era anche radicato nel concetto di Parola di Dio della Bibbia ebraica e fu rivestito di speculazioni giudaiche in collegamento alla Sapienza. Possiamo immagi­nare, allora, che I' evangelista impiegasse spesso elementi simbolici e idee che erano il risultato dell ' influenza di diver­se eredità religiose e filosofiche. Potrebbe essere stato consa­pevole della ricchezza di molte di queste eredità. Possiamo anche immaginare che alcune di queste idee e concezioni del Vangelo potessero essere semplici luoghi comuni e che la loro ricchezza fosse considerata nota sia dall ' autore, sia dai Ietto­

·ri . Comunque stiano le cose, il risultato è che l ' evangelista era particolarmente adatto a scrivere un vangelo con concetti stupe­facenti e di respiro enigmatico. È proprio questo che ha contri­buito in parte alla formazione di questo brano indomabile della letteratura cristiana antica.

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Ecco che ci siamo: un autore generosamente dotato di strumenti concettuali e simbolici , che può beneficiare di un' in­vidiabile e stimolante tradizione, posto in una situazione criti­ca per la comunità cristiana. Quando è più probabile che avven­ne tutto ciò? È difficile dirlo con certezza e in un certo senso non è necessario stabilire una datazione precisa per il Vangelo. Sappiamo che il quarto Vangelo circolava in Egitto prima della metà del secondo secolo, poiché il frammento papiraceo più antico del materiale neotestamentario è un piccolo pezzo del Vangelo di Giovanni. Questo significa, così ritengono gli studio­si, che il Vangelo doveva essere stato scritto prima della fine del primo secolo.

Possiamo anche ritenere che non fosse stato scritto prima del 70 d.C. quando fu distrutto il tempio di Gerusalemme nella guerra fra giudei e romani. Il modo in cui si allude al Tempio nel Vangelo ha convinto di questo fatto la maggioranza degli studiosi (vedi 2, 1 3-22).

Suggerisco allora la datazione 75-85. Ma la decisione per una datazione più precisa è imperniata su una domanda diffi­cile: quando potrebbe essersi verificata la situazione che deter­minò la redazione del Vangelo? La datazione da me proposta si basa su un' altra considerazione. Si immagini questo: nella sinagoga di una certa città alcuni credenti nel Messia (che noi chiamiamo cristiani) erano tollerati da lungo tempo. In questa sinagoga eterodossa è facile immaginare che vi fosse un altro gruppo di credenti che sostenevano punti di vista strani ! Due cose devono essere accadute che hanno spinto la maggior parte dei credenti a iniziare a mettere in dubbio la loro tolleranza. La prima era forse dovuta ai giudei cristianizzati . Essi stava­no diventando sempre più evangelizzatori nel loro atteggia­mento nei confronti degli altri giudei. Probabilmente, inoltre, l 'utilizzazione delle fonti che alla fine furono incorporate nel Vangelo suscitarono malcontento. È normale in una comunità religiosa tollerare differenti posizioni quando c'è pieno e recipro­co rispetto. Ma che cosa accade quando uno dei gruppi presen­ti in quella comunità inizia a dire qualcosa del genere : «La nostra posizione è più fedele della vostra e voi siete religiosa­mente inferiori a noi in quanto non avete la nostra stessa posizio­ne»? La tolleranza comincia a scemare. È comprensibile allora

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che i giudei della sinagoga fossero sempre più scontenti di ospitare questi cristiani fra loro.

Il secondo avvenimento è la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. che fece un gran scalpore in tutte le sinagoghe giudaiche. Cosa poteva essere il giudaismo senza il Tempio? Cosa significava essere giudeo? I cristiani di origine giudaica potevano rendere le cose ancor peggiori , sostenendo che la distruzione del Tempio da parte dei romani esprimesse il giudizio di Dio sul giudaismo (vedi Giov. 2, 1 3-22). Le doman­de che i membri della sinagoga si ponevano e forse anche la posizione dei membri cristiani di questa comunità suscitaro­no un impulso naturale: «Facciamo pulizia in casa nostra. Quelli che sostengono una posizione diversa da quella autocom­prensione che cerchiamo di sviluppare qui devono andarsene altrove». È un' ironia della storia che l ' espulsione dei cristia­ni dalla sinagoga nascesse dalle nuove domande sull' autoi­dentità giudaiche causate dalla distruzione del Tempio. Questo a sua volta costrinse i cristiani a porsi la domanda sulla propria identità: chi siamo se non giudei che credono che Gesù sia il Messia lungamente atteso?

Tutto questo probabilmente è accaduto nel decennio succes­sivo alla distruzione del Tempio. Ritengo ragionevole ipotiz­zare che il Vangelo sia stato scritto nell ' arco degli anni 75-85 .

Forse il lettore si chiederà perché ci siamo addentrati così nell ' argomento senza fare alcun riferimento ali ' identità del quarto evangelista, noto con il nome di Giovanni . La ragione di questo ritardo è che, credo, non possiamo dire quasi nulla di più sull ' autore di quanto sia stato già indicato in questa intro­duzione. La sua figura è troppo immersa nell 'oscurità della storia da non consentirci di presentare altro che un personag­gio dai contorni vaghi. L'autore di questo Vangelo rimarrà proba­bilmente anonimo per sempre. Gli studiosi del Nuovo Testamento hanno giustamente messo in discussione il tradizionale colle­gamento del quarto evangelista con Giovanni, il figlio di Zebedeo, che ci è noto dai Vangeli sinottici. Anch' io dubito molto che si possa identificare l 'evangelista con il misterioso «discepolo che Gesù amava» (anche se molti non condividono il mio stesso scetticismo a tal proposito). Ciò che abbiamo a disposizione per procedere è il documento stesso e dal testo si può leggere

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soltanto questo. Abbiamo cercato di descrivere il contesto dell' au­tore, o dell ' autrice, che meglio si adatta allo scopo di scrivere questo Vangelo. Inoltre, abbiamo sostenuto che la tradizione a sua disposizione fosse ricca e completa. Sostenere più di questo sullo scrittore significherebbe avventurarsi senza necessità ben oltre l ' ambito della speculazione. Negare la possibilità che quest' autore fosse una donna non è corretto e tradisce il pregiu­dizio dei secoli precedenti (vedi l ' Appendice B, «Le donne nel Vangelo di Giovanni», per una breve digressione sulla possi­bilità che il quarto evangelista fosse appunto una donna).

Quello che abbiamo cercato di fare con questa introduzio­ne è suggerire il modo in cui i l quarto Vangelo è indomabile rispetto a quelli canonici : vale a dire, «Va da solo per la sua strada» se confrontato con i Sinottici . Si presenta a noi con una struttura letteraria unica e leggendo lo suscita un 'esperienza diversa da quella dei Sinottici. Inoltre è stato proposto che ci siano motivi che giustificano la natura indomabile di questo Vangelo. È stato scritto in base ad una tradizione diversa da quella incorporata negli altri tre, da un evangelista che era dotato in modo unico di un vasto corredo di concezioni e strut­ture simboliche che hanno avuto origine in un giudaismo cultu­ralmente misto e influenzato per di più dal pensiero ellenisti­co. È stato indirizzato ad una chiesa cristiana nel bel mezzo di una disputa vitale con la sinagoga giudaica: una situazione che richiedeva concezioni nuove e radicali . Tutte queste cause hanno contribuito al prodotto finale: un Vangelo che non si conformava ai canoni standard del cristianesimo che si stava­no sviluppando. Possiamo essere grati alla chiesa primitiva per non aver escluso il quarto Vangelo dal suo canone; se lo avesse fatto, noi saremmo stati veramente più poveri .

Ora è tempo di rivolgersi all ' esposizione del pensiero teolo­gico e al simbolismo di questo Vangelo. Questa analisi dimostrerà ancor di più il concetto che abbiamo presentato in questa intro­duzione: penso, in particolare, che esso esprima un' imposta­zione diversa del pensiero cristiano primitivo. Nello stesso tempo, cominceremo a vedere quanto sia universale nel suo pensiero e come ci fornisca l ' esempio principale del modo in cui una persona di fede combatte con molti problemi vitali .

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l

IL FIGLIO DEL PADRE: LA CRISTOLOGIA GIOVANNEA

La storia delle religioni è piena di racconti di straordinari fondatori di movimenti religiosi. La maggior parte delle princi­pali tradizioni religiose del mondo, ma non tutte, hanno ali ' o­rigine un fondatore. Esse si riferiscono a questi e ne ricono­scono il (di lui o di lei) ruolo nella scoperta del nucleo di verità che è diventato la pietra angolare di quella religione. Si ritie­ne che queste figure fondanti abbiano avuto una qualche rivela­zione o ispirazione speciale. Questa concezione è stata traman­data alle generazioni successive mediante strutture istituzio­nali della religione stessa. Il fondatore della tradizione viene considerato per lo meno come l ' iniziatore storico della fede.

Similmente, ogni tradizione religiosa che si basi su di una figura storica rivendica l 'unicità del fondatore e nello stesso tempo quella della sua rivelazione. Questo sviluppo è elabora­to e vario; in alcuni casi l ' esperienza del fondatore diventa dispo­nibile per tutti i seguaci devoti a quella fede. Questo sembra essere il caso di alcune forme di buddismo, per esempio, dove l ' illuminazione di Gautama è lo scopo di tutti coloro che aderi­scono a questa religione. In altri casi l 'unicità del fondatore è così marcata che non è la sua esperienza a poter essere ripetu­ta, ma quella personale che il credente fa della persona del fondatore. Il cristianesimo tradizionale sembrerebbe essere un esempio di quest'ultimo tipo, ma in ogni caso, l ' unicità del fonda­tore e della sua rivelazione è vitale per lo sviluppo della religio­ne e tende ad essere vista come un fatto autoevidente riguar­dante la figura storica fondante. Così , nelle rispettive tradizio­ni religiose, si pensa che Maometto, Mosè, Zoroastro e Gautama siano stati esempi sicuri e lampanti delle loro straordinarie qualità.

La rivendicazione di unicità del fondatore costituisce, però,

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uno sviluppo successivo di queste tradizioni. Vale a dire, la religione medita sulla natura del suo fondatore finché giunge, in un certo senso, ad una visione ultima, ortodossa. Questa impostazione finale può presentare tutto l ' intero spettro di posizioni: dalla semplice pretesa di una pietà specifica (Maometto), una nascita straordinaria (Gautama) o la natura divina (Cri­sto) .Ovviamente, ciò che è comune alle religioni del mondo è che quasi tutte hanno un fondatore per il quale fanno deter­minate rivendicazioni, che si sviluppano ali ' interno della storia della singola religione. La verità della rivendicazione è di solito nascosta n eli ' oscurità della storia, ma viene chiaramente testi­moniata dagli aderenti a quella fede .

A questo punto ci interessa il conflitto interno a ciascuna tradizione religiosa per definire la natura del suo fondatore. La spiegazione di tale natura è uno dei livelli primitivi-e di impor­tanza vitale per l ' emergere di una tradizione religiosa di grande rilevanza. Mettetevi a studiare una qualsiasi tradizione religio­sa e scoprirete una storia affascinante dell 'evoluzione delle posizioni sul fondatore. Nella tradizione giudaica, per esempio, si scopre già nella stessa Bibbia ebraica un atteggiamento onori­fico nei confronti di Mosè (per esempio Deut. 34, l 0). Poi , nel pensiero giudaico successivo alla chiusura del periodo della Bibbia ebraica, inizia un ' elaborata speculazione su Mosè. Le leggende si moltiplicano; si sostiene, per esempio, che egli non sia mai morto ma che sia stato rapito in cielo (Assunzione di Mosè) . Una tradizione religiosa non arriva mai facilmente alla definizione della figura del suo fondatore: questo è il risulta­to di un lungo processo di riflessioni e discussioni, di formu­lazioni e riformulazioni .

La veridicità di queste annotazioni per i l cristianesimo primitivo è evidente: la lotta dei cristiani per arrivare ad alcune visioni comuni sulla natura di Gesù di Nazareth inizia fin dai primi anni del movimento. Raggiunge il culmine (ma non termi­na) nel Concilio di Nicea e nel suo Credo (325 d.C.) . Il Nuovo Testamento si presenta a noi con molte prove degli sforzi fatti dai primi cristiani per formulare quello che volevano dire su Gesù, sulla sua persona e sulla sua opera. Se si cerca di estra­polare dal Nuovo Testamento una visione di Cristo unica e coerente ci si trova nei guai . Sembra proporre una serie di fatti

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diversi sulla persona di Gesù : io credo che il quadro che se ne ricava sia quello di pensatori cristiani primitivi che lottano per cercare le parole adeguate ad esprimere la loro fede in Cristo.

Il quarto Vangelo costituisce un importante contributo a questa visione di Cristo che emerge fra i cristiani del primo secolo. Riprende la sua figura da un diverso punto di vista e ne propo­ne alcune posizioni radicali . È corretto dire che con il quarto Vangelo la visione che il pensiero cristiano primitivo ha di Cristo progredisce enormemente in una direzione. Come poi avvenne, questa si dimostrò essere la strada che la chiesa avrebbe preso nelle sue confessioni di fede sulla persona di Cristo. Tuttavia non dobbiamo avvicinarci a questo Vangelo con l ' impressione che esso abbia una visione unica e coerente da propagare. Esso presenta non una ma più dichiarazioni sul fondatore della religio­ne. Non sono sempre del tutto coerenti nel modo in cui un teolo­go moderno vorrebbe che fossero, ma tendono a muoversi in una specifica direzione. È difficile sopravvalutare l ' importanza di queste affermazioni per il pensiero cristiano successivo.

Questo capitolo si soffermerà su alcuni aspetti del quarto Vangelo riguardanti la persona e l ' opera di Cristo. Ci occupe­remo di cinque argomenti :

l . il Logos o la cristologia della Parola del prologo di Giovanni;

2. la varietà di titoli rivolti a Cristo presenti in l, 1 9-5 1 ;

3 . il Figlio dell ' uomo e il rapporto fra Padre e Figlio nel Vangelo;

4. l ' importanza dei detti «io sono» per la cristologia;

5. l ' opera di Cristo compiuta con la sua morte.

LA CRISTOLOGIA DEL LOGOS

Letture preparatorie: si ri legga ancora una volta il Prologo del Vangelo ( l , l - 1 8), prestando la massima attenzione a quanto viene affermato sulla natura e l 'opera del la Parola.

I prinù diciotto versetti del quarto Vangelo sono fra i più importanti de li ' intero Nuovo Testamento: sono anche i più enigma-

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tici . È corretto affermare che questo è uno dei testi della lettera­tura cristiana primitiva studiati più frequentemente. Ci sono alcuni aspetti di esso che tralasceremo e credo che il lettore debba esserne informato. Il primo riguarda la caratteristica innica di questi versetti : molti studiosi del quarto Vangelo «sentono» che il cuore di questo testo si legge come una poesia e ritengono che esso sia stato utilizzato, in un modo o nell' altro, nel corso del culto cristiano. Questo fatto suggerisce una nuova domanda: il quarto evangelista ha composto questo testo, oppure ha incor­porato un inno cristiano popolare all ' inizio del Vangelo (in questo caso l ' autore sarebbe stato un «raccoglitore» molto attento che ha preso al volo questo testo con cui aprire il suo Vangelo)? Oppure è possibile che questi versetti siano stati aggiunti qualche tempo dopo che era stato scritto per intero? Esiste una forte prova a sostegno dell ' ipotesi che questa parte sia stata aggiunta poste­riormente: in nessun'altra pagina del Vangelo si fa riferimento alla Parola con significato simile a quello utilizzato in questi versetti iniziali. L'evangelista può aver composto questo testo o può aver utilizzato un inno cristiano preesistente quale introdu­zione al Vangelo. In entrambi i casi, non ci dovremmo forse aspettare che l ' autore colleghi la restante parte del Vangelo alle dichlarazioni teologiche presenti in questa introduzione?

Credo che le affermazioni teologiche di questo Prologo presentino un buon numero di temi coerenti con il Vangelo. Non ultime le affermazioni sulla reiezione di Cristo (per esempio

l, 1 0-11 ) e sulla superiorità della rivelazione di Dio in Cristo rispetto a quella sulla quale si fonda il giudaismo (per esempio

l, 1 7 - 1 8) . Proprio a causa del gran numero di questi temi, sono convinto che il Prologo sia strettamente collegato a tutto il Vangelo, come una ouverture in un'opera sinfonica o lirica che coglie l ' umore dell ' intera esecuzione. Grazie a questa carat­teristica, sono propenso a ritenere che il quarto evangeli sta, o la comunità giovannea, sia responsabile del contenuto del Prologo. Se esso fosse posteriore, sarebbe stato aggiunto sicura­mente da qualcuno che aveva compreso correttamente e piena­mente l ' atmosfera dell ' intera opera. Quale che sia la sua origi­ne ne costituisce una parte importante, quindi dobbiamo studiar­lo per quello che dice sulla concezione di Cristo condivisa dall 'evangelista e/o dalla comunità giovannea.

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L' Introduzione ha già fatto allusione alla ricchezza del conce t­to di Parola o Logos. Molto tempo è stato impiegato nel cerca­re i precedenti storici di questa concezione. La nostra inten­zione è soltanto quella di espandere il concetto che abbiamo già precisato, secondo cui il Logos era una concezione radica­ta in contesti religiosi e filosofici molto diversi . In primo luogo nello stoicismo, presente nelle filosofie ellenistiche, era conce­pito come una specie di ragione cosmica. Era la mente al centro dell 'universo, ne spiegava interamente il funzionamento, la struttura e gli dava ordine. Un granello di questo Logos univer­sale è presente in ogni persona, così sosteneva questa conce­zione, e in questo modo collegava tutti al cuore del cosmo.

Naturalmente gli ebrei avevano una tradizione della Parola di Dio similmente antica: la dabar Yahvè. Fu la Parola di Dio che portò ogni cosa ali ' esistenza, secondo la tradizione racchiu­sa in Genesi l. Era la Parola di Dio che si rivolgeva ai profe­ti e li riempiva del messaggio da portare al popolo ebraico : era come un ponte fra il Dio trascendente del pensiero ebraico e il mondo umano.

Il pensiero giudaico successivo elaborò più a fondo il concet­to di sapienza. La Sapienza era con Dio e pervadeva le perso­ne devote, fu fatta persona divina in qualche forma, in alcune pagine di letteratura giudaica, come Proverbi 8 ,22-3 1 . Più tardi, al tempo della Bibbia ebraica e oltre questo periodo, nel corso del primo secolo dell ' èra cristiana, la speculazione giudaica sulla Sapienza la mise in relazione alla Torah, la parola scrit­ta di Dio. Similmente, essa fu identificata con la Parola di Dio (memra, la forma aramaica per «parola»). Con un'eccessiva semplificazione di un lungo percorso storico, si può dire che la Sapienza fu personificata, poi collegata e armonizzata con la precedente tradizione relativa alla Parola di Dio.

Da questa ricca eredità l ' autore del Prologo del Vangelo ricavò i suoi pensieri . Si può vedere come il significato del Prologo potrebbe essere simile a quello del Logos del pensie­ro stoico, come si collega alla concezione della Parola di Dio presente nelle scritture ebraiche e anche come «parola>> potreb­be essere la traduzione di «sapienza» , così com'era concepita nella riflessione giudaica. Quali che siano le sue radici speci­fiche, l ' autore intende affermare che il Logos ha un significa-

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to ricco e vario. Egli, o ella, potrebbe aver voluto essere elusi­vo circa i precedenti specifici a cui si richiamava, così che sia i lettori giudei sia quelli pagani potessero sentirvi riecheggia­re i loro significati impliciti .

Anche così , l ' autore ha voluto dire qualcosa di specifico su Gesù mediante l ' impiego di questi concetti . Lui , o lei, intende applicare quest' ampia categoria filosofico-religiosa del Logos a Gesù, per affermare che egli era il compimento dell ' intera vasta tradizione di molte differenti religioni e visioni filosofi­che dell ' universo. L' autore, in effetti , sta dicendo che Cristo è tutto questo, Logos della tradizione stoica, Parola della Bibbia ebraica e Sapienza della riflessione giudaica, condensato in una persona. Questo, io credo, è il colpo decisivo del Prologo: il Logos per i cristiani è una persona. Non è un concetto filoso­fico astratto, non è una categoria dell' esperienza religiosa, né è mitologia religiosa speculati va. È una persona incarnata, viven­te, storica; proprio a questo punto si pone il genio del Prologo. Esso sostiene che il mito astratto, quello sperimentato sogget­tivamente, è diventato ed è una persona: questa è quasi una rivendicazione. Che si creda vero o meno, se ne deve ricono­scere l ' importanza in quanto rivendicazione cristiana per Gesù.

Ma immergiamoci nel Prologo stesso: che cosa ci dice a proposito del Logos? Ecco quanto viene affermato sulla Parola:

era nel principio; era con Dio;

era Dio; è stata l ' agente della creazione;

era la vita che illumina gli uomini ; (non era Giovanni il Battista) ;

era nel mondo, ma non fu riconosciuta dal mondo; non fu ricevuta dai suoi ;

dava il diritto a diventare figli di Dio; è diventata carne ed ha abitato nel mondo;

ha rivelato la gloria; era Figlio di Dio;

(Giovanni il Battista le ha reso testimonianza) ; ha portato grazia e verità;

era superiore a Mosè; ha fatto conoscere Dio come mai prima di allora.

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Alcune di queste affermazioni richiedono il nostro esame, non ultima fra queste proprio la prima. Essa costituisce una delle rivendicazioni più alte che i cristiani abbiamo fatto per Cristo: egli esisteva fin dal principio (nel testo farò riferimen­to al Logos utilizzando i pronomi maschili, come nel greco, soltanto per il fatto che si afferma che il Logos è una persona e che il Cristo preesistente si è incarnato come uomo. In verità, preferirei ipotizzare che il Logos, come Dio, sia nello stesso tempo maschile e femminile e che soltanto nell ' incarnazione la Parola assuma forma maschile). La preesistenza del Logos significa non solo che esso esisteva prima della stessa creazio­ne, ma ancor prima che «iniziassero ad essere tutte le cose» . La sua esistenza risale a quel misterioso tempo prima del tempo, nel regno della temporalità che sfugge alla concettualizzazio­ne umana. Per quanto non possiamo neanche immaginare che cosa significhi esistere prima di ogni cosa, possiamo provare a intuire che cosa stia cercando di affermare l ' autore nel dire tutto ciò. Cristo è così importante che non può semplicemente essere venuto ali ' esistenza come ogni altra persona o cosa. Lo si presen­ta come trascendente gli esseri viventi e le cose con l ' afferma-

' zione della sua esistenza pretemporale . Gli evangelisti respon-sabili dei Vangeli di Matteo e di Luca hanno detto qualcosa di simile quando hanno incorporato nella loro narrazione i raccon­ti della nascita verginale e/o del concepimento per mezzo dello Spirito santo. Essi volevano affermare che il significato di Cristo nella vita delle persone esclude che egli possa essere venuto ali' esistenza in modo ordinario: la sua origine è dovuta ad una iniziativa divina straordinaria. Il quarto evangelista (o I ' autore del Prologo) ha fatto un passo in più per dire la stessa cosa: Cristo non è un essere creato, egli è prima della creazione. II concetto che vorrei sottolineare è che questa affermazione è una espressione del valore assoluto di Cristo.

Un altro elemento che si evidenzia fra quelli presenti nel Prologo è che il Logos era l ' agente della creazione. «Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lui ; e senza di lui, neppure una delle cose fatte è stata fatta» (v. 3). Qui c 'è un' affascinante svilup­po del pensiero cristiano su Cristo. I primissimi cristiani sicura­mente affermavano la qualità redentiva della vita e morte di Gesù di Nazareth; egli è la fonte di un nuovo genere di vita,

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tutta protesa al progetto divino per l ' esistenza umana. Ma in qualche momento dello sviluppo del pensiero cristiano primi­tivo si arrivò ad una tappa successiva, vi fu un salto, direi. Questa persona che redime e salva è anche l ' agente della creazio­ne divina. Il nostro Prologo potrebbe, o no, essere stato la prima espressione scritta conosciuta di questa concezione: esso compe­te per questo onore con l ' inno cristologico presente in Colossesi 1 , 1 5-20 (vedi in particolare i l v. 1 6) . Che idea sorprendente è questa ! Ancora una volta si è portati a chiedersi cosa inten­dessero dire i primi cristiani con questo concetto di Cristo quale agente della creazione. Potrebbero aver colto nettamente la sua funzione in riferimento alla redenzione divina, ma non erano ancora contenti : volevano andare oltre, complicando le cose, attribuendogli anche un ruolo nella creazione. Certamente questa affermazione ha origini radicate nel significato esisten­ziale di Cristo per la vita umana. La rivelazione in Cristo è così basilare per il significato e per lo scopo dell 'esistenza che egli deve essere concepito come la forza che struttura il tutto fin dal principio de li ' esistenza !

Qual è, allora, i l rapporto che intercorre fra questo Logos preesistente e creativo e Dio? Su questo punto il Prologo è invitante. È come se l ' autore stesse stuzzicando il lettore con il linguaggio del primo versetto. Nell 'originale greco si legge­rebbe qualcosa di simile a: «II Logos era con il Dio» . La prepo­sizione «con» indica il genere di rapporto. «E la Parola era Dio» . Dio e la Parola sono identificati . L' articolo determina­tivo che precede «Dio» nella prima frase del versetto viene omessa nella seconda. Questo piccolo dettaglio grammatica­le ha portato alcuni a ritenere che l ' identità del Logos con Dio non si dovesse intendere completa. Essa indicherebbe qualco­sa del tipo «il Logos era divino/la Parola era divina» . Penso, tuttavia, che una tale interpretazione stia sopravvalutando il significato de li' assenza di un articolo determinativo.

Questa frase del Prologo introduce immediatamente al letto­re una concezione basilare di Cristo presente nel quarto Vangelo: i l Logos è un essere distinto e tuttavia identico a Dio. Vale a dire, nel rapporto fra Dio e il Logos (o Cristo) esiste sia l ' indi­vidualità, sia l ' identificazione. «Con Dio», «Era Dio» ! N o n vogliamo che il Prologo si legga come una confessione di fede

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cristologica sviluppata dalla chiesa in epoca posteriore. Esso è stato scritto in un tempo antecedente quello in cui la chiesa si trovò a combattere con la concezione trinitaria. Tuttavia, un' interpretazione onesta d eli ' espressione ci costringe a pensa­re che qui l ' autore ci stia conducendo in un paradosso, proprio al cuore del rapporto fra Cristo e Dio. Come ci può essere individualità (distinzione, separazione, dualità) e identità (unità, unicità) nello stesso tempo? L' autore non lo dice. Si può quasi udire il sorriso giovanneo alle nostre spalle nel momento in cui cerchiamo di spremerei le meningi per cercare di compren­dere il significato profondo di queste parole.

In ultima analisi, l ' autore intende dire che Cristo è la dimen­sione espressiva dell ' essere divino. Mi sia permesso far ricor­so ad una semplice analogia: si può affermare che una perso­na ha due aspetti o dimensioni. Ve n 'è uno che esprime chi essa sia con azioni e parole nei confronti di amici e compagni . Ma ve n 'è un altro, quello interiore, inespresso del tutto o quasi . In funzione del grado di intimità che si ha con gli altri , questo aspetto può essere colto oppure può essere quasi non rileva­bile. Se ne dimentichi l ' applicazione, il Logos è ciò che espri­me il lato esterno di Dio. Questo non vuoi dire che egli è compiutamente espresso nel Logos, ma che (questo afferme­rebbero i cristiani) il significato dell ' esistenza divina per gli uomini è manifestato in questa espressione dell 'essere di Dio. Se questo è quanto aveva in mente l ' autore del Prologo, ci sta dicendo che il Logos è quella dimensione di Dio che è giunta ad espressione per poter essere compresa dagli esseri umani .

. Questo ci porta al cuore del Prologo stesso, così come esso si trova ora nel Vangelo, il famoso versetto 1 4: «E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi». L'espressione dell ' essere divino dimora in una singola creatura umana e vive fra altri esseri umani per un certo periodo . La dimensione espressiva dell 'essere di Dio è fisicamente presente. È stata resa sensibile, così che possa essere toccata, vista, udita e speri­mentata. Naturalmente, per il quarto evangelista, questo «Logos sensibile» è l ' uomo di nome Gesù di Nazareth. Questa dichia­razione costituisce per il cristianesimo l ' affermazione norma­tiva della cristologia incarnazionalista. È stato affermato che il Logos è Dio e che è di ventata persona umana.

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Non si può cogliere il pieno significato di questo sforzo per articolare l ' identità del fondatore del movimento cristiano senza paragonarlo brevemente ad altre affermazioni dello stesso tipo, presenti in esso. Si potrebbe sostenere che ci siano tre conce­zioni fondamentali di Cristo nel Nuovo Testamento. Noi le indichiamo con i nomi di «cristologia adozionista», «cristolo­gia dell ' inviato» e «cristologia incarnazionalista».

La prima sostiene che Gesù era un uomo che a motivo della sua obbedienza a Dio fu adottato come Messia. Questa adozio­ne può essere avvenuta in qualche momento del ministero di Gesù, ma più spesso si ritiene che essa costituisca il vero signi­ficato della risurrezione. In questa impostazione non c 'è preesi­stenza di Cristo, né iniziativa divina nella sua nascita. Egli vive una vita di obbedienza e poi viene costituito come persona speciale di Dio, appunto come Messia. Credo che questo tipo di pensiero cristologico sia stato la forma primitiva adottata dai cristiani per parlare del loro fondatore. È presente soltan­to marginalmente nelle pagine del Nuovo Testamento, in quanto i cristiani iniziarono subito a elaborare una cristologia in termi­ni (spiegheremo perché) più appropriati . La presenza di una primitiva cristologia adozionista, tuttavia, fa capolino da questi testi del Nuovo Testamento: Atti 2,36; 3 , 1 3 ; Romani l ,3-4 (per una difesa più completa di questa ipotesi si veda J.A. T. ROBINSON, The More Primitive Christology at Ali?, in Twelve New Testament Studies, Londra, SCM Press, 1 962, pp. 1 39- 1 53) .

La cristologia dell ' inviato è più comune nel N uovo Testamento. In qualche modo essa dichiara che Dio ha preso l ' iniziativa di inviare un suo messo per svolgere una funzione rivelatoria e salvifica. Questo tipo di pensiero è presente in tutti quei testi neotestamentari che si limitano semplicemente a dire che Gesù fu «inviato» da Dio. È abbastanza interessante notare che una delle espressioni favorite del quarto Vangelo è vicina a questo concetto (per esempio 3 ,34). Tale cristologia è anche presen­te in altri testi del Nuovo Testamento come Matteo 1 0,40 e Romani 8,3 . Gesù viene talora concepito come un profeta di Dio inviato con un messaggio ed una missione, ma io sosten­go che i «Vangeli d eU' infanzia» in Matteo e Luca siano sostan­zialmente espressioni di una forma di cristologia dell ' inviato. In questo caso, egli è più che un semplice uomo: il suo essere

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è in qualche modo strutturato dall ' azione speciale di Dio. Inoltre, sia che la natura del l ' inviato sia quella di un prescel­to o di una creatura sovraumana, la sua funzione è essere invia­to, rappresentante o, se si vuole, ambasciatore.

La più ardita delle affermazioni nei confronti di Cristo si trova nella cristologia incarnazionalista. In questo modo di concepirlo si sostiene una qualche forma di esistenza previa, si ritiene che egli sia esistito prima della sua apparizione come uomo in questo mondo. Questa affermazione è di pari impor­tanza, e logicamente necessaria, al tema centrale della cristo­logia dell ' incarnazione: l ' essere divino è diventato una perso­na umana. Il contributo di tale concezione, allora, è afferma­re la natura divina di Cristo e nello stesso tempo la sua forma umana. Il Prologo del quarto Vangelo è la dichiarazione più piena e completa della cristologia incarnazionalista presente nel Nuovo Testamento, però Colossesi 1 , 1 5-20 gareggia in qualche modo per le sue affermazioni su questo tema. Si dibat­te ancora se l ' inno di Filippesi 2,6- 1 1 esprima anch'esso conce­zioni simili.

Se posso permettermi, vorrei utilizzare i sommari, in forma di diagrammi, proposti da Reginald H. Fuller di queste tre impostazioni cristologiche, che presento nei tre schemi seguen­ti (vedi R.H. FULLER, The Foundations of New Testament Christology, New York, Charles Scribner's Sons, 1 965, pp. 243-246):

Cristologia adozionista

Adozione da parte di Dio '

'

Obbedienza del la vita di Gesù

' '

' Esaltazione di

• Cristo come Messia

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Cristologia dell ' inviato

�:�:t Dio ._ \ l _. Es�ltazione di (Iniziativa Cnsto divina) '--

i-ta-

dt_. G

_es

_ù_ .....

Esistenza di Cristo prima del mondo (o prima del la creazione)

incarnazione .-

Cristologia incarnazionista

Vita di Gesù

Schema 4

Esistenza di Cristo dopo i l mondo

Esaltazione di -. Cristo

(Ritorno)

Il Prologo del quarto Vangelo, allora, si presenta a noi con il più elaborato esemplare di pensiero incarnazionalista del cristianesimo primitivo. Qui la natura divina del Logos preesi­stente è più chiaramente affermata e l 'umanizzazione o incar­nazione dello stesso è apertamente espressa. Giovanni l , 1 4 non solo l a dichiara, m a dice molto d i più. I l verbo tradotto con «ha abitato» significa letteralmente qualcosa come «ha messo lè sue tende per un periodo fra di noi» . L' implicazione è che il Logos è in viaggio, e ha «campeggiato» in questo mondo per un tempo come parte del suo itinerario: qui viene articolato il cuore dell ' evangelo cristiano. Non è nostro compi­to parlare a favore o contro questo evangelo, ma soltanto di metterlo in evidenza e stupirsi della mente religiosa (o della comunità di menti) che ne è responsabile.

Vorrei identificare il contenuto del Prologo con il nome di mito primario di Cristo. Con questo non voglio dire che le

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affermazioni su Cristo presenti nel testo siano necessariamente non vere (in verità, questo uso scorretto della parola «mito» deve essere accantonato una volta per tutte), ma che quelle sul cosmo, sulla straordinaria esistenza e sul comportamento del Logos sono poetiche e piene di immaginazione nel senso più profondo. Sono mezzi per esprimere il significato e lo status di Cristo nella vita delle persone di una comunità cristiana. Il Prologo è colmo di descrizioni mondane, storiche e «fattuali» per dirci qualcosa sugli antichi cristiani e la loro percezione della realtà. Il mito è quella prospettiva sulla vita umana e sul mondo che ha dato forma e ha strutturato l 'esistenza per loro. Ogni volta che qualcuno esprime ciò che dà significato e scopo alla vita, parla in forma mitologica. Fare questo significa propor­re un modello di comprensione del mondo che sposi bene l ' esperienza e la presa di posizione del credente. Questa è la funzione che ha svolto il mito di Cristo, presente nel Prologo, nella comunità dalla quale emerse. Esso ha articolato questo modello di significato e di scopo. Proponeva una prospettiva cosmica che andava al di là di tutte le esperienze della comunità di fede. Ha sviluppato una prospettiva all ' interno della quale si poteva vivere la vita senza paure mortali e/o disperazioni assolute. È in questo modo che ogni comunità religiosa propo­ne un mito che dà significato alla vita. Il Prologo ne è un esempio supremo alle origini del cristianesimo.

l TITOLI CRISTOLOGICI IN 1 , 1 9-5 1

Letture preparatorie: si legga l , 1 9-5 1 elencando tutti i titoli utiliz: zati in riferimento a Cristo in questo testo. Si noti anche ogni altra affermazione fatta su di lui .

Il capitolo l del Vangelo è colmo fino all 'orlo di afferma­zioni cristologiche. Il Prologo ci viene incontro con le dichia­razioni collegate al Logos e alla sua incarnazione. Nei verset­ti successivi alla sua conclusione viene attribuita a Cristo un ' in­tera serie di titoli. A questo punto una carrellata su di essi costi-

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tuisce, in effetti , un sommario delle molte impostazioni con le quali i l quarto Vangelo esplicita la sua comprensione di Cristo.

Il primo titolo con il quale il lettore viene messo a confron­to nel testo si ritrova sulle labbra di Giovanni il Battista: «Agnello di Dio» (vv. 29.36). Questo evoca una serie di possibili signi­ficati , che esamineremo soltanto superficialmente. Come molti dei titoli utilizzati qui e altrove nel Nuovo Testamento per Cristo, può avere molti significati . Il più ovvio l ' abbiamo già indicato nell ' Introduzione, vale a dire quello dell ' agnello pasquale. Questo aveva un particolare collegamento con la celebrazione della Pasqua ed evocherebbe immagini di libera­zione del popolo dalla schiavitù . Il Battista qualifica ulterior­mente la portata dell ' espressione «Agnello di Dio» precisan­do «che toglie i l peccato del mondo» . Questa aggiunta sugge­risce che il significato dell 'espressione non è quello dell ' a­gnello pasquale, ma quello sacrificale (oppure dell' agnello pasquale inteso in senso sacrificale : vedi anche I Cor. 5, 1 7) . Si tratta di qualcuno la cui morte simboleggia il pentimento di colui che offre il sacrificio. La sua morte è in qualche modo espiatoria: viene offerta a Dio e cancella il peccato. L' agnello pasquale e quello sacrificale potrebbero essere stati collegati, per quanto sia discutibile che la morte dell ' agnello pasquale fosse considerata una forma legittima di sacrificio espiatorio.

La terza attribuzione del titolo «Agnello di Dio» è presen­te nella letteratura apocalittica giudaica: gran parte di questa parla di un agnello nel dramma della fine del tempo. Esso costi­tuisce la figura centrale nella distruzione del male nel mondo (un esempio di questo genere di visione apocalittica della figura dell ' agnello è presente in Apoc . 5) . Infine, il servo sofferente del De utero-Isaia in Isaia (42 , 1 -4; 49, 1 -6; 50,4-9; 52, 1 3 - 53 , 1 2) viene descritto come un agnello in uno dei testi (53 ,7) . Dal momento che molti ritengono che i primi cristiani interpre­tassero Cristo a partire dal contesto di questa immagine del servo sofferente, essi scoprono con naturalezza allusioni alla figura del servo in questo uso del titolo «Agnello di Dio» (sono in debito con R. BROWN, Giovanni, Commento al Vangelo spirituale, Assisi, Cittadella editrice, 1 979 per alcune indica­zioni dei possibili significati del titolo che ho usato in questa sintesi).

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Che cosa ne deduciamo allora? Utilizzando il titolo «Agnello di Dio», l 'evangelista potrebbe voler indicare per Cristo una o più tra queste possibilità:

l . egli è il simbolo della nuova Pasqua, della nuova libera­zione dalla schiavitù offerta da Dio;

2 . egli è la vittima innocente le cui sofferenze e morte otten­gono la rimozione del peccato umano;

3 . egli è la figura che appare alla fine della storia per distrug­gere tutto il male presente nel mondo;

4. egli è il servo di Dio le cui sofferenze compiono l ' espia­zione per il peccato di altri .

La nozione apocalittica di Cristo come colui che distrugge il male viene accennata nel Vangelo (per esempio 1 2,3 1 ) , ma non costituisce un tema centrale . Il riferimento pasquale è attraente, dal momento che secondo la struttura storica di questo evangelista, Gesù viene crocifisso precisamente nel momen­to in cui si uccidevano gli agnelli in preparazione della cena pasquale . L' idea di liberazione è certamente collegata con l ' agnello sacrificale, per cui la morte della vittima effettua la cancellazione del peccato. Questa idea, a sua volta, ha chiare radici nel concetto del servo sofferente del Deutero-Isaia.

Quello che l ' evangelista voleva farci comprendere con l ' affermazione che Gesù è l ' Agnello di Dio credo sia che egli è l ' inviato di Dio la cui vita e morte producono liberazione. Nel quarto Vangelo una piccola parte del linguaggio e del pensiero propone che Gesù venga concepito come espiazione per il peccato. Per l ' evangelista la sua morte non è tanto un sacrificio, quanto piuttosto un mezzo mordace per esprimer­ne la glorificazione. Quindi , è probabile che volesse farci comprendere le qualità liberatrici di Cristo in termini più ampi di quel li di una morte espiatrice. «Voi conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (8,32) e, naturalmente, secondo il quarto Vangelo Cri sto stesso è la verità ( 1 4,6) . L' Agnello di Dio è il Rivelatore di Dio che libera. La sua opera non avviene soltan­to mediante le sue sofferenze e la sua morte, ma per mezzo della sua stessa persona: conoscerlo significa essere liberato. In questo modo il quarto evangelista ha utilizzato il titolo di

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Agnello di Dio, ma gli ha dato un significato nuovo e fresco che, nonostante tutto, non crea una discontinuità con i signi­ficati precedenti .

Successi v amen te ci imbattiamo nel primo di molti titoli che hanno tutti significato sostanziale, vale a dire la messianicità di Gesù: «Figlio di Dio» (nella variante presente in molti codici antichi si legge «il Santo di Dio>>) ( 1 ,34), «Messia» (v. 4 1 ) , «Colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i profeti» (v. 45) e «Re d ' Israele» (v. 49). Tutti questi titoli sono forme diverse per far riferimento all ' inviato particolare di Dio che sta per venire e sono colmi dell ' attesa giudaica di un re ideale che regnerà con giustizia. Ma a partire dal primo secolo dell ' e­ra cristiana, tutti i titoli messianici suggeriscono qualcosa di più che un sovrano politico. Essi fanno riferimento ad una figura che avrebbe liberato il popolo dall 'oppressione econo­mica, politica, che avrebbe corretto le ingiustizie e le falsità, che avrebbe distrutto le forze del male nel mondo, che era molteplicemente concepita come un uomo, un superuomo e una figura angelica di creatura divina.

Con questi titoli l ' evangelista sottolinea la convinzione che Gesù fosse appunto l ' adempimento dell ' intero corpo di attese messianiche. Di fronte all 'opposizione da parte dei capi giudei della città, proprio all ' inizio del suo Vangelo il quarto evange­lista vuole rendere chiaro un fatto : Gesù è il Messia. L' intera gamma di titoli utilizzati per riferirvisi sono qui raggruppati per fissare questo concetto. Il testo chiede a voce alta e con chiarezza: «C 'è qualcuno che non è ancora sicuro del fatto che noi cristiani crediamo che Gesù è il Messia?»

Questo ci porta al titolo «Figlio di Dio», utilizzato nel verset­to 49 (per il v. 34 vedi sopra) . Qui dobbiamo chiederci ancora una volta quali precedenti storici abbiano contribuito a produr­re il significato che l ' evangelista vuoi farci intendere. Figlio di Dio può indicare, a partire dal suo uso nella Bibbia ebrai­ca, semplicemente il re d ' Israele unto: quello scelto in parti­colare da Dio (peresempio ii Sam. 7 , 14). Gli stessi figli d ' Israele sono talvolta chiamati figli di Dio (Os. 2, l ) . La concezione del Figlio di Dio come essere divino emerge dal mondo ellenisti­co. L' uomo divino è una persona particolarmente dotata di poteri che hanno la loro origine nella divinità. Tale titolo fu

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adottato molto presto dai cristiani come attributo per Cristo e con questo si intendeva veicolare il suo status particolare in rapporto a Dio (per esempio Rom. 8,3) .

Applicandolo a Cristo, in che misura l ' evangelista voleva dire che egli è divino? Analizzeremo l ' uso del titolo generico «Figlio» più avanti . L' autore voleva che veicolasse i l peso speciale della divinità, ma qui «Figlio di Dio» sembra in stret­to rapporto con il titolo messianico. A Natanaele viene fatto utilizzare «Figlio di Dio» come apparente sinonimo di «Re d ' Israele}} . Di conseguenza, qui esso ha un significato messia­nico tradizionale, che I ' evangelista vuole modificare in uno più ampio. L' intenzione è dimostrare che Gesù è certamente il Messia, il Figlio di Dio, il Re d' Israele, ma ancora qualco­sa in più di questo.

Prima di arrivare al culmine di questa serie di titoli cristo­logici, contenuti nella seconda parte di questo primo capitolo, dobbiamo osservare un altro elemento presente nel testo. Accanto a questi attributi c 'è un tema insistente : quello del rapporto fra Gesù e Giovanni il Battista. Nel corso della narrazione che descrive la testimonianza resa dal Battista a Cristo, si distin­guono tre affermazioni su questo argomento:

l . Cristo è più grande del Battista. Questo ci viene detto non una volta, ma due. Il Battista non è degno neanche di chinar­si per sciogliere i calzari di Gesù (Giov. l ,27), in quanto Cristo si pone ad un livello ben diverso dal suo (v. 30).

2. II Battista esclama: «Egli era prima di me» (v. 30). Questo potrebbe significare semplicemente che Gesù è più anzia­no di Giovanni il Battista. Ma dato il tema della preesi­stenza di Cristo contenuto nel Vangelo (8,58, così come nel Prologo), è del tutto chiaro che qui l 'evangelista mostra il Battista che testimonia la preesistenza di Cristo.

3 . II battesimo di Giovanni è con I ' acqua, Cristo invece battez­za con Io Spirito santo (v. 33) . Si afferma chiaramente che Cristo è superiore al Battista in base al dono che egli fa dello Spirito stesso: il dono di Giovanni è un battesimo d' acqua, simbolico del pentimento.

Dobbiamo aggiungere a questo elenco l ' affermazione del

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Prologo che Giovanni non era la luce, ma soltanto un testi­mone di essa (v. 8) .

Perché tutta questa preoccupazione di far notare che Gesù è superiore a Giovanni il Battista? Alcuni sostengono che il quarto evangelista conoscesse un gruppo di persone che crede­vano che il Battista fosse il Messia, quindi l ' argomentazione sarebbe in polemica proprio con quelli . Ciò è possibile, poiché sembra che il Battista avesse attratto un gruppo di seguaci (vedi

l ,35) ; questi potrebbero aver considerato il loro capo come Messia, in particolar modo dopo la sua morte. Più probabil­mente, credo che ancora una volta l ' evangelista stia replican­do ad una accusa sollevata dai capi giudaici contro i cristiani . Essi dicevano: «Il vostro Gesù è stato soltanto un' altra voce profetica simile a quella del Battista, niente di più !» . L'evangelista sta replicando a questa accusa con l ' affermazione che Gesù si pone in una categoria del tutto diversa. Per fare in modo che questa replica abbia la massima efficacia possibile, l ' autore l ' ha posta sulla bocca dello stesso Battista.

Così Gesù è l ' insieme di tutto questo: Agnello di Dio, l ' Eletto di Dio, il Messia, colui del quale hanno scritto Mosè e i profe­ti, il Re d ' Israele ed è di gran lunga più grande di Giovanni il Battista. Ora arriviamo al punto cruciale di questo piccolo trattato sull' identità di Gesù : l ' ultimo titolo di questa serie utilizzato per presentare Cristo è «Figlio dell 'uomo». È impor­tante che l ' evangelista presenti Gesù che riceve tutti i titoli precedenti . Il Gesù giovanneo non solleva obiezioni , né correg­ge le varie confessioni di fede a lui rivolte . Ma dopo la forte confessione di fede di N atanaele presente nel versetto 49, Gesù replica: «Voi vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell 'uomo» (v. 5 1 ) . Certamente Gesù è il Messia nella linea che tutti questi titoli indicano. Certamente Gesù è più grande di Giovanni il Battista, ma la sua vera identità è riposta nel significato di quest'ultima espressione: Figlio dell ' uomo. ·

Molto è stato scritto alla ricerca del significato di questo titolo. Per noi è sufficiente dire semplicemente che esso denota un inviato particolare di Dio. La mitologia giudaica ha dato origine ad una figura celeste dalle forme umane che è con Dio fin dalla creazione. Egli verrà fra gli uomini al tempo scelto

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da Dio, alla fine dell ' età presente per sconfiggere il male e stabilire il regno di Dio sulla Terra. Egli rappresenta la figura messianica ma anche una figura la cui natura è sovraumana, è nello stesso tempo il prototipo degli esseri umani e il restau­ratore escatologico del l 'umanità. La sua natura sarà misterio­sa e nascosta fino al tempo in cui è destinato ad entrare nella storia e portarla infine al culmine (vedi Dan. 7, 1 3- 14; qui è presente l ' espressione «Figlio dell 'uomo» con questo signifi­cato escatologico) .

Penso che l ' evangelista stia dicendo: se voi volete utiliz­zare un titolo per Cristo, Figlio dell ' uomo è quello che calza meglio. L'autore sembra chiaramente preferire questo fra tutti quelli utilizzati per indicare Gesù nel testo. Le cose stanno così per alcuni motivi : il titolo «Figlio dell 'uomo» aveva un ruolo dominante nella tradizione che l ' evangelista ha ricevuto. Naturalmente il quarto Vangelo lo condivide con i Sinottici e con esso la sua rilevanza. Inoltre l ' evangelista potrebbe aver preferito questo attributo rispetto agli altri in quanto lasciava dello spazio in cui muoversi, designava un personaggio miste­rioso. All ' evangelista questo piaceva, così poteva utilizzare l ' ambiguità di significato a proprio vantaggio. Egli ha riempi­to di significato il titolo Figlio del l 'uomo a partire dalle affer­mazioni su Cri sto presenti nelle tradizioni della comunità giovannea e della sua personale interpretazione di queste . Tale attributo permetteva lo sviluppo creativo delle particolari riven­dicazioni che troviamo nel quarto Vangelo, le quali fanno esplo­dere le concezioni messianiche pregiudizial i .

A partire da questo appellativo, io credo, l ' evangelista ha utilizzato quello favorito del Vangelo, semplicemente i l Figlio. È questa designazione per Gesù che domina fra i nomi di Cristo nel quarto Vangelo e noi dobbiamo soltanto addentrarci nella cristologia giovannea fino a quando abbiamo esaminato in profondità le affermazioni sul Figlio e i l suo rapporto con il Padre. A motivo del la preminenza di Figlio del l 'uomo in Giovanni l , 1 9-5 1 (esso viene utilizzato altre dodici volte, per esempio in 6,53 ; 9,35 ; 1 3 ,3 1 ), sono propenso a ritenere che funga, per tutto il corso del Vangelo, da abbreviazione per il titolo completo Figlio dell 'uomo. Tuttavia, anche il Figlio di Dio è presente, ma soltanto in sette testi (per esempio in 3 , 1 8 ;

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1 1 ,27 e il forte 20,3 1 ) . L'attributo Figlio, senza qualificazioni ulteriori , potrebbe essere proprio una sintesi giovannea del contenuto e delle associazioni teologiche delle due qualifica­zioni legate al Figlio (dell ' uomo e di Dio). Come titolo (in forma sintetica e assoluta) compare pochissime volte nei Vangeli sinottici. È presente in Matteo 1 1 ,27 e in Luca l 0,22 (un testo della fonte «Q»), in Matteo 24,36 e in Marco 1 3 ,22 (dove il primo evangelista sembra dipendere dal Vangelo del secon­do), e in Matteo 28, 1 9 (un testo presente soltanto in Matteo) . Paolo lo utilizza occasionalmente (per esempio Rom. 1 ,3 .9 ; 8 ,3 .29 .32 ; I Cor. 1 ,9 ; 1 5 ,28 ; Gal. 1 , 16 ; 4,4.6; I Tess. 1 , 1 0) . Questo fatto potrebbe suggerire che l ' appellativo fosse larga­mente conosciuto nella tradizione cristiana primitiva, ma non godesse di quel favore che ha raggiunto in quella giovannea.

IL FIGLIO DELL' UOMO E IL RAPPORTO PADRE-FIGLIO

Letture preparatorie: per comprendere i l cuore della cristologia giovan­nea dovete leggere i seguenti testi sparsi, facendo attenzione a quanto dicono circa il Figlio dell 'uomo e il rapporto fra i l Padre e il Figlio:

testi sul Figlio del l ' uomo: 1 ,5 1 ; 3 , 1 3- 1 5 ; 5 ,27; 6,27.53.62; 8,28; 9,35-38 ; 1 2,23.34-36; 1 3,3 1 ; testi sul rapporto Padre-Figlio: 3 , 16- 1 7.3 1 -35 ; 4,34; 5 , 1 9-23 .37; 6,29.38.40-46; 7 , 1 6.28-29; 8 , 1 6.36-38 .42.54; 10, 17.30-38; 1 2,45-49 ; 14,9- 1 1 .20.28; 1 6,5.28; 1 7,8. 1 1 -24.

I titoli «Figlio dell ' uomo» e «Figlio» costituiscono il cuore della cristologia giovannea. Il nostro compito è cercare di comprendere quello che il quarto evangelista dice su Cristo come Figlio e come Figlio dell ' uomo, e il suo rapporto con il Padre. Lo faremo sintetizzando in nove affermazioni quello che i testi più rilevanti sembrano dire in proposito. Siete invita­ti a controllarle in riferimento ai testi del Vangelo che vi è stato chiesto di leggere per la vostra preparazione.

Prima affermazione: Gesù è i l Figlio dell 'uomo (9,35-38). Questo forse è un punto ovvio, ma è necessario affermarlo ali ' inizio. L'evangelista vuole che i lettori comprendano che

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l ' uomo Gesù di Nazareth era certamente questo misterioso Figlio dell 'uomo.

Seconda affermazione: la sua dimora è nel regno celeste con Dio. Giovanni 3 , 1 3- 1 5 è la più semplice dichiarazione di questa concezione. Il Figlio dell ' uomo ha la sua origine in questa dimora celeste, scende nel mondo umano e vi ritornerà ancora una volta dopo aver completato la sua missione (3 , 1 3 ; 6,62; 1 6,28). Egli non appartiene a questo mondo, l a sua origi­ne è altrove: è divina. Egli appare in forma misteriosa da un qualche luogo, dimora fra gli uomini per un breve tempo e poi va via. Per questo c 'è una grande discussione all ' interno del quarto Vangelo sull' origine di Gesù . Quando egli dichiara di essere il pane che è disceso dal cielo, i suoi oppositori sono perplessi . Dicono di conoscere suo padre e sua madre, sanno da dove viene e non è certo dal cielo (6,42-43) ! Similmente, essi non possono credere che i l Messia venga dalla Galilea (7,4 1 ) . Quando Gesù parla del suo ritorno (ascesa) al cielo in termini di «andare via» , i suoi ascoltatori sono ancor più confu­si . Forse pensa di andare ad uccidersi (8 ,22) ! Il tema della discesa e del l ' ascesa sono buoni esempi del modo in cui l' evan­gelista rappresenta la folla che fraintende totalmente le parole di Gesù . L'origine del Messia era una credenziale importante per il pensiero giudaico del primo secolo e il nostro evangeli­sta utilizza questo motivo per fare più volte il punto sul fatto che il Figlio dell ' uomo non ha origini terrene.

Terza affermazione: la concezione che il Figlio dell ' uomo sia stato inviato dal Padre viene collegata con la sua origine e destinazione celeste . I testi che esprimono questa concezione sono troppo numerosi per analizzarli tutti , ma per ora è suffi­ciente indicare 3 ,34; 4,34; 8,26; 9,4; 1 7,3 . Il Figlio viene invia­to nel mondo degli umani come fosse un profeta cosmico; egli rappresenta il Padre e parla in suo nome in quanto inviato da Dio. Tipica espressione della concezione corrente in quel tempo, la persona inviata riveste l ' autorità di colui che lo invia (vedre­mo l ' autorità del Figlio dell ' uomo nella sesta affermazione). Come in una missione diplomatica, i l Figlio è incaricato dal Padre, ne riveste l ' autorità e agisce per conto di Dio. Molto di quello che dobbiamo ancora dire su li' autorità del Figlio dell' uo­mo e sul fatto che ha assunto le funzioni del Padre ha le sue

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radici proprio nell ' essere stato inviato. Quella che abbiamo chiamato cristologia dell ' inviato è presente in modo eminen­te nella cristologia del quarto Vangelo. Ma questo inviato non è un semplice profeta (come Giovanni il Battista?). Egli non è altri che il Figlio dell ' uomo.

Quarta affermazione: questa è collegata all ' ascesa del Figlio dell 'uomo al cielo. I detti rilevanti su di essa sono di due tipi. I primi sono quelli in cui Gesù parla della sua «glorificazio­ne)) : egli rivendica il fatto che la sua morte costituisca anche la sua glorificazione ( 1 2,23) e che onorare lui significa onora­re il Padre ( 1 3 ,3 1 ) . Il contrasto è evidente: egli morirà e la sua morte sarà in effetti la sua glorificazione .

Il secondo tipo di detti accentua questa ironia. Per tre volte Gesù parla del suo essere «innalzato)) (3, 1 3- 1 5 ; 8,28; 1 2,32). La parola greca è anch' essa ambigua, infatti può indicare l ' atto della crocifissione, l ' innalzare la vittima sulla croce, ma può anche significare l 'esaltazione: l ' atto di onorare una persona. Nel presen­tare Gesù che parla della sua morte come un innalzamento, il quarto Vangelo sta suggerendo che proprio con la crocifissione, nonostante l 'umiliazione che comporta, Gesù viene onorato. Questa è la sua elevazione: quando verrà innalzato, dice Gesù, la sua vera identità si manifesterà con evidenza (8,28) e il suo ritorno alla casa celeste sarà compiuto ( 1 2,34-36).

Ci sono due osservazioni su questo tema dell' essere innal­zato che meritano una piccola pausa nella nostra affrettata andatu­ra. Per prima cosa si tratta di un buon esempio di ironia giovan­nea e di doppio senso. Il quarto evangelista ama giocare con parole che hanno doppi significati . Dico giocare per suggerire l ' approccio al linguaggio, ma questa tecnica porta sempre ad un concetto serio ed importante. Si può sentire il forte parados­so nelle parole : «Quando avrete innalzato il Figlio dell 'uomo, allora conoscerete che io sono)) (8,28). «Quando eseguirete la condanna a morte contro di me nella forma più vile come con un comune criminale, voi porterete a compimento la mia esalta­zione, la rivelazione della mia vera identità)) . Un altro esempio dell ' uso di parole con doppio significato si trova nella parola greca pneuma in 3 ,8 . Questa parola significa contemporanea­mente «vento)) e «spirito)) . In 3 ,8 con l 'utilizzo di questa singo­la parola l 'evangelista ha costruito una piccola metafora. Come

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il vento si muove tutt' intorno liberamente e senza controllo da parte umana, così fa anche lo Spirito di Dio !

Si deve ancora dire che il tema del l ' innalzamento del Figlio dell ' uomo racchiude come un guscio tutta la teologia giovan­nea della croce ! Giovanni sottolinea per tutto i l corso del Vangelo, in particolar modo nella narrazione della passione, che la morte di Gesù costituisce la rivelazione della sua identità. Quindi questo significa che la crocifissione è onorare il Figlio dell ' uomo per ciò che è veramente. È stato osservato molte volte che Gesù non si muove come una vittima nella presen­tazione giovannea della Passione. Egli non appare come colui sul quale si stanno abbattendo disgrazia e umiliazione, piutto­sto si comporta come signore sovrano nel corso di tutto il processo. Dal punto di vista giovanneo è giusto così , perché in Giovanni questo è il racconto del Re che va verso l' incoro­nazione. Si tratta del racconto delle vicende di un monarca anonimo che rivela la sua identità e che tutti i suoi sudditi devono riconoscere. Ne consegue che difficilmente si possa ritenere presente il tema dell 'umiliazione; anche se così fosse, poiché Gesù pare umiliato, si tratta di un aspetto che è parte integrante del processo di glorificazione. Il Figlio dell ' uomo, il Cristo giovanneo, non può essere umiliato. Egli non è sogget­to all ' influenza umana, a meno che non lo permetta voluta­mente come mezzo per raggiungere la sua glorificazione.

Questo aspetto della teologia giovannea diventa evidente quando si paragona il punto di vista del quarto Vangelo con quello di Luca e di Atti : quest'ultimo distingue chiaramente la crocifissione dall ' ascensione. Per un periodo di quaranta giorni il Cristo risorto appare ai suoi discepoli (A t. l ,3) , poi , come questi osservano, egli «fu elevato, e una nuvola, accogliendo­lo, lo sottrasse ai loro sguardi» (A t. l ,9). Nella maggior parte delle pagine di Giovanni, invece, si trova la proposta che la crocifissione stessa costituisca i l suo «essere innalzato» . I l Cristo risorto non può essere distinto dal Cristo glorificato. Crocifissione significa glorificazione, e la prima è un' espres­sione della seconda. Quindi, crocifissione e risurrezione nel Vangelo di Giovanni sono strettamente collegate. La risurre­zione è proprio il significato della crocifissione, è la glorifi­cazione che quest' ultima apporta. Di conseguenza il quarto

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evangelista non sa che uso fare di una scena di ascensione simile a quella che troviamo negli Atti degli apostoli .

Dobbiamo confessare, tuttavia, che il dato che si ricava dalle Scritture non è proprio così evidente. C 'è un testo che sembra indicare un' ascensione oltre la risurrezione. Il Cristo risorto dice a Maria: «Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre» (20, 1 7) .Questa allusione ad una futura ascen­sione non si inserisce con precisione nello schema generale del pensiero teologico giovanneo. Si è portati a pensare che nel testo di 20, 1 7 1 ' evangelista stia riprendendo un' antica tradi­zione: l ' allusione alla futura ascensione del Cristo risorto viene ripetuta, anche se l ' idea dell' evangelista è che l ' ascensione sia avvenuta in effetti nella crocifissione-risurrezione. Se le cose stanno così , allora si spiegano alcune contraddizioni presenti nel quarto Vangelo che possono essere il risultato del duplice sforzo dell' autore di conservare, da una parte, la tradizione della comunità e, dali ' altra, di articolare nuove interpretazio­ni di essa.

Quinta affermazione: le funzioni del Figlio sono quelle di Dio. I l Padre ha consegnato al Figlio quei compiti che di solito si pensa siano prerogativa divina. Il Figlio allora compie cose che normalmente ci aspettiamo da Dio: un esempio è dato dall ' argomento del giudizio. Il Figlio giudica per conto del Padre (3 , 1 8 ; 5,22.27). Similmente, il Figlio dell 'uomo (o il Figlio) è colui che dona la vita (o la vita eterna, 3 , 1 3- 1 5 ; 6,27 . 53) . Brevemente, parla del dono dell ' esistenza autentica, la vera qualità dell ' esistenza umana, come deve essere per creazione. In Giovanni, Gesù è colui che dispensa questo genere di vita; in modo analogo, il Figlio rivela la gloria di Dio. Nella Bibbia ebraica, la gloria indica la presenza stessa di Dio. Dicendo che il Figlio la ri vela ( 1 3 ,3 1 ) , l 'evangelista sta affermando che la presenza di Dio coincide con quella di Gesù. L' autorivelazione del Padre è stata delegata al Figlio. La sua opera è anche del Figlio; questo ci porta al prossimo punto.

Sesta affermazione: il Figlio esercita la piena autorità del Padre il quale ha apposto il «sigillo» divino sul Figlio (6,27). L' autorità di quest'ultimo viene affermata, inoltre, nell ' insi­stenza di Gesù sul fatto che la sua glorificazione è anche quella del Padre ( 1 3 ,3 1 ) . L'argomento dell' autorità divina che risiede

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nel Figlio è probabilmente il significato dell ' enigmatica dichia­razione di l ,5 1 : che cosa significa dire che i discepoli «vedran­no il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell 'uomo» ? Si tratta di una concezione difficile, ma sicura­mente significa proprio questo: l ' autorità della sovranità divina è affidata al Figlio. Questi ha vie di comunicazione "riservate" con il Padre. Se si vuole, i messaggeri (angeli) di Dio vanno e vengono di continuo nel rapporto fra Figlio e Padre. Il Figlio è allora il portatore dell' autorità divina: le sue parole, le sue opere e la sua stessa persona hanno l ' autorità dell ' essere di Dio.

Settima affermazione : il Padre e il Figlio sono presentati come uno e tuttavia con distinte individualità. Nell ' esame del Prologo abbiamo sostenuto che è caratteristica specifica della cristologia giovannea dire che c 'è identità fra il Padre e Cristo; nello stesso tempo ci sono individualità specifiche. Questo concetto nasce dall' analisi dei testi che parlano del rapporto fra Padre e Figlio. Da una parte c 'è una serie di testi che parla­no del l ' identità fra i due ( l 0,30.38 ; 1 7 , 1 .22) : viene detto con estrema chiarezza che essi sono uno e viene ulteriormente sotto­lineato che la loro opera è una (5, 1 9) . Essi costituiscono, come in effetti sono, una comunità dall ' unico agire. Così possiamo concludere che, almeno stando alla prima impressione, il quarto Vangelo indica che il Padre e il Figlio sono tutt' uno nell ' es­sere e nell ' operare.

D' altra parte ci sono dei testi che indicano chiaramente che esiste una distinzione fra il Padre e il Figlio. Ci viene detto che il Figlio obbedisce al Padre (4,34) : un' affermazione simile potrebbe suggerire che il Figlio è un essere separato e libero che sceglie di obbedire al Padre. L'obbedienza implica indivi­dualità, così pure l ' amore. Il Padre ama il Figlio (3,35) , ma ci può essere amore se non supponendo un rapporto, che a sua volta implica individualità? Infine, il Padre è più grande del Figlio ( 1 4,28) e sicuramente anche questa affermazione ha la stessa implicazione. Essa articola anche una chiara subordi­nazione del Figlio al Padre che contraddice ogni conclusione secondo la quale sono completamente uno e uguali .

Vorrei evitare sia di dire che l 'evangelista fosse confuso nella descrizione del rapporto Padre-Figlio, sia di affermare che questo costituisca la prima dichiarazione consapevole della

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teologia trinitaria. Nessuna delle due indicazioni è corretta. Penso che l ' evangelista fosse consapevole di quello che stava facendo nel presentare i detti che abbiamo appena analizzato in linea generale. Il rapporto paradossale ipotizzato da questi testi era lungi dall 'essere trascurato dal quarto evangelista; questi però non è un teologo moderno interessato ad articola­re un rapporto coerente e logico fra Padre e Figlio. Potrebbe darsi che l ' autore cercasse di conciliare fattori divergenti presen­ti nella tradizione della comunità o nel proprio pensiero.

Accade tuttavia che il Vangelo lasci il lettore con un profon­do paradosso: questo Figlio è uno con il Padre ma non identi­co a lui, è di vino e tuttavia subordinato a Dio. L' evangelista sta lottando per definire il rapporto fra il fondatore della sua fede e Dio, pur non avendo facili soluzioni da offrire. Dobbiamo ammirarlo per questo: è chiaro che il Figlio è la persona divina che partecipaall ' essere del Padre, tuttavia ha una propria identità.

Ottava affermazione: questa è la più semplice. L'evangelista chiama Gesù con il nome di «Unigenito» (3, 1 6. 1 8 e forse 1 , 1 8). La parola greca monogenes (tradotta con «unigenito») signi­fica letteralmente «unico nel suo genere»: per quanto l' evan­gelista non faccia uso esteso di questo aggettivo, sembra impor­tante che il significato del Figlio sia veicolato da quel titolo in queste due o tre occasioni . Probabilmente tale qualificazione vuole suggerire l ' assoluta distinzione tra la figliolanza di Gesù e una qualsiasi concezione degli esseri umani intesi come figli di Dio (dal momento che essi possono essere appunto «figli di Dio)) , l, 1 2) . La figliolanza di Cristo, Figlio dell ' uomo, è assolu­tamente unica. Non ci sono altri di natura paragonabile alla sua. Quindi quel titolo può anche voler dire che, qualunque altro essere divino possa esistere, Gesù gli è superiore in virtù del carattere unico della sua figliolanza con Dio. L' autore della lettera agli Ebrei era coinvolto nel combattere un' argomenta­zione a favore del fatto che Gesù fosse semplicemente uno della schiera degli esseri angelici (cap. l). L'autore del Vangelo potrebbe trovarsi ancora una volta a dover rispondere alle accuse giudaiche che quel Gesù che i cristiani confessano come Messia, sia al più un angelo. Le cose non stanno affatto così , replica l ' evangelista: egli è l ' unico figlio unigenito d i Dio.

Nona affermazione: è evidente che il quarto evangelista

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vuole che il lettore colga un messaggio forte e chiaro. Rispondere a Gesù, il Figlio, significa rispondere a Dio, il Padre (5,23)� Il punto della discussione sull' identità del Gesù giovanneo non è puramente teologico quando lo si approfondisce. Ciò che l ' evan­gelista sta affermando è di natura pratica: comunque si defini­sca il rapporto fra il Figlio e il Padre, il modo in cui si rispon­de al Figlio costituisce la risposta a Dio. Accetta lui e avrai acce t­tato Dio. Rifiutato e avrai rifiutato Dio. È come se l ' evangeli­sta stesse dicendo: «Bene, io non sono un teologo sufficiente­mente abile per dire più di quanto ho detto sul il rapporto fra il Figlio e il Padre. Ma di questo noi cristiani siamo sicuri : i l tuo rapporto con Cristo determina quello con Dio» . Il risultato finale di questa discussione cristologica è quindi pragmatico.

La figliolanza di Cristo nel quarto Vangelo sta a indicare un rapporto unico con Dio da parte di colui che partecipa all ' es­sere di Dio (e quindi è divino egli stesso) . Potrei aggiungere, a conclusione di questa sezione, che ancora una volta la cristo­logia giovannea è un matrimonio creativo tra due temi diffe­renti . Nel pensiero giudaico, essere un figlio di Dio costituiva principalmente un motivo di obbedienza. Essere obbedienti a Dio rendeva gli uomini figli . Anche oggi l ' espressione bar oppure bar mitzvah significa che si è figlio o figlia del coman­damento quando lo si prende su di sé in obbedienza. Ma la figliolanza della divinità nel pensiero ellenistico era un argomen­to di natura cosmica od antologica. Essere il Figlio di Dio signi­ficava avere la natura della deità nella propria persona. I figli di Dio erano mitologicamente generati da altre divinità. La figliolanza divina n eli ' ellenismo era un argomento sul! ' essenza della persona, mentre nell ' ebraismo riguardava la funzione o il comportamento della persona stessa. L'evangelista ha presen­tato Gesù come il Figlio del Padre in modo tale da comporre le differenze. Gesù è il Figlio del Padre quasi certamente in virtù della sua obbedienza ( 4,34 ) , ma è ancor più di questo. La sua vera essenza è quella del Padre ( 1 0,30). Non vorremmo imporre il linguaggio ecclesiastico posteriore, ma dobbiamo attribuire all ' autore il merito di aver percepito la differenza fra i significati di figliolanza nel pensiero ellenistico e in quello ebraico, quindi di aver proceduto a rendere la figliolanza di Gesù il compimento di quelle due.

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IL SIGNIFICATO CRISTOLOGICO DEI DETTI «IO SONO»

Letture preparatorie: elenchiamo i testi più significativi in cui compa­re in greco l 'espressione «io sono» :

senza predicato: 8,24.28.58; 1 3 , 1 9 ; • con il predicato implicito: 6,20; 1 8 ,5;

con i l predicato esplicito: 6,35.5 1 ; 8 , 1 2. 1 8 .23; 9,5 ; 10,7.9. 1 1 . 14; 1 1 ,25 ; 14,6; 1 5 , 1 . 1 5 ; forse 4,26.

Spero ci siano di aiuto i brani seguenti : ho tradotto dal greco in modo

più letteralistico ed enfatizzato il ruolo dell ' espressione «io sono» nella frase; anche visivamente il corsivo uti l izzato per questa espres­sione dovrebbe facil i tarvi . 6,20 «Ma egl i disse loro: i o sono, non temete» ; 8 , 1 8 «lo sono a testimoniare di me stesso» ; 8,23 «lo sono di lassù; voi siete di questo mondo; io non sono di

questo mondo»; 8,24 «Se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati» ; S ,28 «Quando avrete innalzato i l Figlio del l ' uomo, allora conosce­

rete che io sono» ;

1 3 , 1 9 «Ve lo dico fin d'ora, affinché quando sarà accaduto, voi credia­te che io sono»;

1 8,5 «Gesù disse loro: "io sono"» .

Il Cristo giovanneo è la Parola eterna di Dio che si è incar­nata. Egli è tutto quello che il Messia giudaico doveva essere e anche di più: in particolare è il Figlio del Padre e il Figlio dell 'uomo e in quanto tale partecipa pienamente all ' essere di Dio, tuttavia conserva la sua individualità rispetto al Padre. A questa raffigurazione di Cristo data dal quarto Vangelo dobbia­mo aggiungere ancora un altro elemento: il significato cristo­logico degli enigmatici detti in cui Gesù afferma: «lo sono» . Essi devono essere analizzati da di v erse angolazioni , ma questa breve occhiata introduttiva riguarderà soltanto ciò che indica­no sulla visione di come Cristo è presentato nel quarto Vangelo.

Prima di tutto, che cosa è un detto «io sono»? Si tratta di una parola di Gesù molto pregnante in cui è presente una costru­zione enfatica greca (ego e imi). Il modo normale in cui si seri ve­rebbe «io sono» in greco koine (greco parlato popolare, la forma utilizzata per scrivere il Nuovo Testamento) è semplicemente eimi (il verbo «sono» senza pronome personale) . Volendo

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enfatizzare l ' espressione si potrebbe aggiungere il pronome di prima persona (egO). Il risultato letteralmente suonerebbe come «io stesso sono !» , ma vedremo che la peculiare espressione giovannea sembra avere un significato che va ben oltre una semplice enfatizzazione del pronome.

La costruzione enfatica ricorre sulle labbra di Gesù in tre forme nel quarto Vangelo. La prima è «io sono» con un predi­cato esplicito. Un esempio di questo genere lo troviamo in 6,35 : «lo sono il pane della vita» . Un ' altra forma è l ' espres­sione «io sono» seguita da quello che sembra essere un predi­cato implicito. Ne troviamo un esempio in 6,20. La traduzio­ne della Nuova Riveduta presenta la forma: «Sono io» (le tradu­zioni inglesi possono utilizzare la forma «it is l» , che rende ragione della presentazione di Kysar, in quanto il traduttore dal greco aggiunge correttamente il pronome personale dopo il verbo, come un predicato). Però nell ' originale greco si legge semplicemente ego eimi, «io sono» . Il significato di queste formulazioni con il predicato implicito potrebbe essere qualco­sa del tipo «io sono quello», ma la forma enfatica lascia intui­re che l ' evangelista ha qualcosa di speciale in mente. Questo significato particolare è evidentemente inteso nei cosiddetti «io sono» in forma assoluta, quelli che non hanno alcun predi­cato né implicito, né esplicito. Giovanni 8,24 servirà come esempio. Gesù dice: «Perché se non credete che io sono, morire­te nei vostri peccati» (gli esempi tratti dai Vangeli sinottici comprendono Mc. 14,62 e Le. 22,70).

La maggior parte degli interpreti del quarto Vangelo concor­da sul fatto che i detti «io sono>> siano più che semplici affer­mazioni enfatiche. Essi ritengono che il quarto Vangelo abbia utilizzato questa espressione in una forma profondamente cristo­logica. Il cuore del problema è costituito dai detti «io sono» in forma assoluta (cioè quelli senza alcun predicato). Il loro signi­ficato potrebbe suggerime uno più profondo in quelli che hanno predicati espliciti e impliciti .

Il significato dei detti «io sono» può essere colto median­te l ' affinità che essi hanno con detti simili, presenti nelle altre tradizioni religiose. In alcune di esse, presenti nel mondo elleni­stico del primo secolo, il dio rivelatore parlava con l ' enfatico ego e imi. In una iscrizione si cita il dio Iside che utilizza l' espres-

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sione <<Ìo sono» seguita da predicati (vedi H.C. KEE, The Origins of Christianity: Sources and Documents, Englewood Cliffs [New Jersey] , 1 973, pp. 83-84). Altri paralleli simili si posso­no rintracciare nell ' insieme di testi conosciuti come Corpus Hermeticum, in particolare là dove Poimandres si rivela come Ermes. Altri hanno pensato che sia importante la letteratura mandaica: per quanto questi testi siano comparsi molto dopo il primo secolo d.C. , si ritiene che il movimento religioso avesse una datazione contemporanea alle origini del cristianesimo. La letteratura mandaica contiene testi che sembrano avere analogie con l ' espressione «io sono». La maggior parte di queste, presenti nelle religioni ellenistiche, sono paragonabi­li ai detti giovannei, in particolar modo a quelli nei quali il predicato segue l ' espressione «io sono». Per esempio, nella letteratura ermetica si può trovare la seguente formulazione: «Il messaggero di luce io sono)) e «il tesoro io sono, il tesoro della vita)) , oppure, nella letteratura mandaica: «Un pastore io sono, che ama le sue pecore)) e «un pescatore io sono, che . . . )) (questi esempi sono ricavati per la maggior parte da R. BULlMANN, Das Evangelium des Johannes, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1 94 1 ) .

Sembra allora che ci fossero dei precedenti nel pensiero religioso ellenistico e nella relativa prassi di attribuire alla divinità questi enfatici detti «io sono)) , almeno nella forma con un predicato. Alcuni ritengono che questi «io sono)) presenti nel quarto Vangelo siano intenzionalmente modellati a parti­re dall ' uso che si ritrova nelle religioni ellenistiche e che i l quarto evangelista stia affermando l ' identità di Cristo, in contra­sto con alcune pretese delle altre divinità. Quindi, quando Gesù dice enfaticamente «io sono il buon pastore)) ( l 0, 1 4 ) , si inten­de deliberatamente affermare un contrasto con altre rivendi­cazioni di status divino delle divinità ellenistiche. Che questo sia vero o meno, è chiaro che le religioni ellenistiche presen­tano un precedente con il dio che si rivela utilizzando l ' espres­sione enfatica «io sono)) . Una simile affermazione sulle labbra di un dio indicava la presentazione della rivelazione di verità che voleva offrire.

Quando ci rivolgiamo alla Bibbia e alla religione ebraiche per cercare precedenti dei detti «io sono)) , troviamo qualcosa

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di simile alla forma assoluta. La letteratura ellenistica sembra offrire dei paralleli soltanto per le espressioni «io sono» con predicato. Non è così per quanto riguarda la Bibbia ebraica. Si ricordi il significato del nome sacro di Dio rivelato a Mosè in Esodo 3 , 1 4. È difficile dire come deve essere tradotta quella espressione ebraica; una delle traduzioni più letterali dice: «lo sono colui che sono. Dirai così ai figli d' Israele: "L' io sono mi ha mandato da voi"». Non potrebbe forse darsi che il quarto evangelista intendesse indurre il lettore a riconoscere che il nome sacro di Dio, YHWH, fosse radicato nel nome «io sono» che egli ha dato di se stesso?

La ricerca di paralleli in ambito giudaico diventa più interes­sante quando ci rivolgiamo alla traduzione greca della Bibbia ebraica. Questa traduzione (chiamata Septuaginta e abbrevia­ta con la sigla LXX) veniva comunemente utilizzata da giudei e cristiani che, vivendo nella diaspora ellenistica nel corso del primo secolo, parlavano solitamente in greco. In molti testi i traduttori hanno utilizzato l ' espressione enfatica ego e imi per rendere l ' originale ebraico. In certi altri l ' originale stesso, in cui si legge qualcosa come «io, YHWH», viene tradotto dalla LXX con «io sono» (ego eimi, Is. 41 ,4; Os. 1 3 ,4; Gioele 2,27). In alcuni testi di Isaia che in ebraico presentano l 'espressione «io, sono io che», la traduzione greca dice: «io sono, io sono» . Tutti questi brani trattano della parola diretta di Dio ed enfatiz­zano l 'unicità del l 'esistenza di Dio (ringrazio R. E. BROWN per la sua eccellente Appendice sui detti «io sono» presente nel suo Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, Assisi, Cittadella editrice, 1 979).

Muovendo queste allusioni schematiche ai possibili prece­denti dell ' uso dell 'espressione «io sono» nella letteratura religio­sa del primo secolo, possiamo iniziare a ricostruire il signifi­cato che intendeva dargli l ' evangelista. Innanzitutto possiamo ritenere con buona certezza che con l ' espressione «io sono» l ' evangelista volesse segnalare che stava parlando Dio stesso. Da precedenti, sia ellenistici sia ebraici, l ' autore ha ricavato l ' idea sull' uso di questa espressione in rapporto alla rivela­zione divina. La presenza della stessa segnala una teofania, l ' apparizione e la rivelazione (una parola) di Dio. Il quarto evangelista intende utilizzare una formula che attragga i letto-

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ri cristiani di origine ellenistica ed ebraica. Quando gli uni o gli altri leggevano questo maestoso «io sono», pensavano ad una rivelazione di Dio agli uomini.

Inoltre possiamo concludere che l 'evangelista stesse facen­do un' affermazione esclusiva nei confronti di Cristo con l ' uso di questi detti. Forse il contrasto con altre affermazioni religio­se è implicito in alcuni detti che contengono predicati del tipo «il buon pastore» e «il pane della vita». L'evangelista sta dicen­do che qualunque altra affermazione si possa aver udito, Gesù è il vero rivelatore divino. C ' è quindi una consapevolezza dell ' uso della formula ego eimi nelle religioni ellenistiche. Tuttavia questa affermazione della verità esclusiva di Cristo è anche radicata nella tradizione ebraica. Il nostro autore sta dicendo che proprio come YHWH è l ' unico vero Dio, così Cristo è l ' unico vero rivelatore divino: nessun altro è parago­nabile a lui .

Infine, sembra che pronunciare le parole «io sono» all 'e­poca dell ' evangelista volesse far riferimento al nome proprio di Dio. Quel nome, infatti , non poteva essere pronunciato. La pietà giudaica aveva proibito da lungo tempo di pronunciare YHWH. Così quando Gesù viene presentato mentre dice «io sono», sta pronunciando il nome proprio di Dio. L' implicazione è che egli stesso è Dio. Può permettere che il nome sacro passi da bocca a bocca, perché egli è colui che quel nome indica. Come Yahvè nella Bibbia ebraica pronuncia il nome divino, così Cristo può dirlo. Se le cose stessero così , allora avremmo una delle più alte rivendicazioni per la divinità di Cristo dell ' in­tero Nuovo Testamento. Se questo è vero, abbiamo un' indi­cazione certa che il quarto evangelista riteneva che Cristo fosse Dio, almeno per quanto attiene argomenti pratici, umani.

In sintesi, l ' autore utilizza questa particolare espressione greca con piena conoscenza del suo significato religioso sia ellenistico, sia ebraico. Egli, o ella, la utilizza per affennare la divinità del fondatore della fede cristiana e per rivendicare che questi è l 'unica fonte della verità e della piena esistenza umana. Quando Cristo parla, sta parlando Dio stesso. Tutto questo sembra perfettamente coerente con la presentazione di Gesù che abbia­mo visto emergere in altre pagine del Vangelo. È coerente con il Prologo, con l ' insistenza dell 'evangelista sul fatto che Cristo

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è più che il Messia giudaico e con i testi che parlano del Figlio dell ' uomo e del rapporto Padre-Figlio. Essa sottolinea l 'equi­valenza funzionale di Dio e di Cristo. In altre parole, dice che per quanto riguarda argomenti umani, Cristo e Dio sono uno e lo stesso. Le parole di Cristo sono le parole di Dio, le opere di Cristo sono le opere di Dio, la risposta umana a Cristo è la rispo­sta a Dio. Per tutti gli intenti umani, quindi, la persona di Cristo è Dio. Il quarto evangelista fa questo coerentemente, e la miste­riosa espressione «io sono>> sviluppa questo concetto.

L' OPERA DI CRISTO COMPIUTA CON LA SUA MORTE

Letture preparatorie: si leggano nuovamente i capitoli 1 8-20 e si noti come il Vangelo interpreta il processo, la morte e la risurrezione di Gesù.

Il nostro sguardo sul come Gesù viene compreso da questo Vangelo non è ancora terminato. C 'è un altro argomento che richiede la nostra attenzione . Di solito i teologi dividono la cristologia in due sottotemi : chiamano il primo la «persona» di Gesù e il secondo la sua «opera» . Con questa divisione essi vogliono indicare che il chi è Gesù (la sua natura e la sua identità) può essere separato, per questioni di studio, da quello che ha fatto (in particolare la sua morte) . Naturalmente la divisione non è così ferrea, dal momento che ciò che Gesù ha fatto e la sua persona sono strettamente collegati . Di conse­guenza non possiamo aspettarci che il quarto evangelista abbia pensato a questi argomenti come divisibili.

Tuttavia, la visione giovannea di Cristo non può essere compresa distaccandosi da quanto il Vangelo sembra dirci che egli ha compiuto. In fin dei conti , questo argomento ha già fatto la sua apparizione nella nostra discussione. Per sintetiz­zare: abbiamo già detto che c ' è poca riflessione sulla morte di Gesù intesa come espiazione e molte più indicazioni del fatto che la sua morte producesse liberazione. La morte di Gesù è vista come una glorificazione. Il carattere mordace di tale morte è ricapitolato nell ' espressione «innalzato» . La narrazione della

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Passione in Giovanni presenta i fatti più come si trattasse di un' incoronazione che di un ' umiliazione e presenta una rivela­zione dell ' identità di Gesù . Anche dopo aver detto tutto questo, dobbiamo ancora cercare di mettere assieme i dettagli frammen­tari in una dichiarazione più sistematica che riguardi la conce­zione della croce nel Vangelo.

Iniziamo con l 'osservazione che il Nuovo Testamento presen­ta una varietà di modi per comprendere la croce. Come per le interpretazioni della persona di Gesù, i primi cristiani non avevano ancora stabilito un ' unica visione della croce. In verità, all ' inizio, questa si presentava come qualcosa di imbarazzan­te. Essi dovevano comprendere perché era accaduto che il Messia promesso avesse sofferto l 'umiliazione dell ' esecuzio­ne come un comune criminale per mano dell ' impero romano. Paolo chiama la croce uno «scandalo per i giudei e pazzia per i pagani», anche se essa è «potenza di Dio e sapienza di Dio» per i credenti (l Cor. 1 ,23-24) .

La «pazzia» di Dio nel permettere che il Messia soffrisse la morte sconcertava i cristiani, anche se essi sperimentarono che le sofferenze del loro Signore erano un' azione divina per la salvezza umana. Come poteva essere compresa la croce? Quale linguaggio ne poteva esprimere il significato? li Nuovo Testamento ci informa dei diversi sforzi volti a rispondere a queste doman­de. Il Vangelo di Luca, per esempio, utilizza un' impostazione relativamente semplice. Gesù muore come un martire, come una vittima innocente della brutalità sociale (vedi Le. 23,47; cfr. Mc. 1 5 ,39). Paolo, però, parla talvolta della croce utiliz­zando il linguaggio preso in prestito dal culto sacrificale ebrai­co, chiamandola «espiazione» (Rom. 3,23). La lettera agli Ebrei spinge questo paragone agli estremi, presentando Gesù come sommo sacerdote e come vittima che egli stesso offre (Ebr. 9, 1 2) . L' uso delle immagini ricavate dal culto sacrificale ebrai­co per comprendere il significato della croce sembra occupare un ruolo di primo piano nel periodo in cui l ' èra neotestamen­taria giunge al termine (vedi inoltre I Giov. 4, 1 0).

Lasciamo che il Vangelo di Giovanni ci presenti diversi punti di vista sullo stesso argomento ! Se volessimo ridurre le concezioni giovannee in merito alla croce al punto da farlo combaciare come uno stampo con gli altri scritti del Nuovo

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Testamento, vedremmo che ciò non è possibile . Pensando in maniera conformista, la visione giovannea della croce solle­cita la nostra immaginazione e sfugge alla nostra presa. Possiamo arrivare ad un appiglio più saldo sul cavallo indomabile giunti a questo punto?

Iniziamo con una breve sintesi della storia della passione di Gesù, così come ci viene presentata nel Vangelo di Giovanni. Il racconto segue la stessa struttura base della narrazione della Passione che conosciamo dagli altri tre Vangeli. Tuttavia questa ha le sue peculiarità. Come abbiamo già accennato, qui non ritroviamo l ' agonia nel giardino del Getsemani (o sul Monte degli ulivi, ma vedi 1 2,27). L' arresto di Gesù viene effettuato senza l ' indicazione della fuga dei discepoli che si trova nei Sinottici, ma emergono due differenze fondamentali . La prima è che il procedimento religioso contro Gesù viene condotto da Anna, il suocero del sommo sacerdote in carica, Caiafa ( 1 8 , 1 3 ss . ) . Gesù si difende, anche se brevemente, davanti al capo religioso. Il rinnegamento di Pietro viene raccontato in due scene nel corso della narrazione del provvedimento religioso ( 1 8 , 1 5- 1 8 . 25-27), con il risultato che la sua codardia è posta in contrapposizione alla ferma difesa di Gesù . Quando ci viene detto che Anna inviò Gesù a Caiafa, il sommo sacerdote ( 1 8 ,24 ), la scena torna indietro a Pietro nel cortile (v v. 25-27), per ripren­dere nuovamente con Gesù che viene condotto dalla casa di C ai afa al quartier generale di Pilato (v. 28 ). N o n abbiamo alcuna notizia di un procedimento davanti a Caiafa.

La seconda differenza tra gli episodi del processo riguar­da la preminenza attribuita alla scena dell ' interrogatorio di Gesù davanti a Pilato. Mentre il procedimento religioso viene presentato in sei versetti , quello politico ne occupa ventinove ( 1 8,28 - 1 9, 1 6) . Il processo viene presentato abilmente come una mini tragedia narrata in otto scene . Il difetto fatale di Pilato è la sua riluttanza a mettere in pericolo la popolarità di cui gode presso il popolo, così infine consegna Gesù perché sia croci­fisso. L' ultimo brandello rimasto dell ' integrità del romano è la sua fermezza nel mantenere il cartello appeso alla croce che dice : «Gesù di Nazareth, re dei giudei». Nonostante le insisten­ze egli non lo rimuoverà, né lo modificherà ( 1 9, 1 7-22).

La scena della crocifissione è descritta con parsimonia. I

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soldati tirano a sorte per sapere chi dovesse prendersi la tunica di Gesù, così da adempiere la profezia ( 19,23-24) . Gesù dalla croce parla con sua madre e con il discepolo prediletto (vv. 25-27), ha sete e gli viene dato dell ' aceto (vv. 28-30a). Poi dice : «È compiuto» e «chinato il capo, rese lo spirito)). Conformemente alla profezia, le gambe di Gesù non vengono spezzate, ma il suo fianco viene ferito da una lancia così da confermare ai suoi esecutori che avevano fatto bene il loro lavoro e per sancire che Gesù era veramente morto. Dalla ferita sgorgano sangue e acqua (vv. 3 1 -37) ; i l corpo viene reclamato da Giuseppe d 'Arimatea e dallo sfuggente Nicodemo e viene posto in una tomba nuova (vv. 38-42) . Seguono quindi la scoperta della tomba vuota e le tre apparizioni del Cristo risorto (20, 1 -29), con ancora un' altra apparizione narrata nel capitolo 2 1 .

Una serie di argomenti contenuti nella narrazione giovan­nea della passione potrebbero attirare la nostra attenzione, ma ci dobbiamo accontentare di alcune generalizzazioni riguar­danti le sottolineature specifiche di questo racconto (vedi il mio commentario, John, Minneapolis, Augsburg Publishing House, 1 972, per una discussione più dettagliata) .

La prima sottolineatura nel racconto giovanneo della passio­ne è la notevole attenzione prestata a Pilato. È interessante notare che il procuratore romano è uno dei personaggi centrali de li ' in­tero dramma del Vangelo, la cui personalità viene analizzata più a fondo. Sembra che l ' evangelista non volesse che scorres­simo tutto il Vangelo senza prendere consapevolezza di quanto sia pericoloso rimanere neutrali nei confronti di Gesù. La secon­da sottolineatura riguarda la responsabilità certa delle autorità giudaiche per la morte di Gesù, fino ali ' estremo ridicolo di far sembrare che i capi sacerdoti fossero gli artefici della crocifis­sione stessa (si noti il richiamo sintattico al v. 15 dei pronomi sottointesi in 1 9, 1 6- 1 8) ! Questo deve essere attribuito all ' in­tenzione de li' evangelista di attaccare gli oppositori della comunità nella sinagoga. Non si deve quindi ricavare da questa strana affermazione una prova storica del fatto che i giudei in genera­le fossero responsabili della morte di Gesù (per una discussio­ne sui giudei nel Vangelo di Giovanni, si veda il cap. 2).

La terza sottolineatura nella narrazione giovannea della passione è posta sulla centralità di Gesù stesso. La «cinepre-

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sa» non sbaglia mai , è sempre a fuoco su Gesù, anche quando si volge brevemente su Pietro per il suo rinnegamento o quando Pilato si porta in primo piano con l ' accusato.

Soltanto un occhio attento coglierebbe però la quarta sotto­lineatura: il racconto non dichiara mai espressamente che Gesù morì ! Certamente, il racconto della crocifissione vuole affer­mare la realtà della sua morte. Ma Gesù dice : «È compiuto». Lo scopo è stato raggiunto, quindi egli «rese lo spirito». L' autore si prende gioco di noi domandandosi di chi sia lo spirito che viene reso. Vuoi forse far intendere che Gesù volontariamente permette al suo spirito di !asciarlo? Vuoi forse dire che Gesù, avendo completato la sua missione, riconsegna lo Spirito a Dio? Oppure dobbiamo supporre che l 'evangelista-poeta, ancora una volta, utilizzi intenzionalmente un'espressione con un ulterio­re significato: nel rendere volontariamente la sua vita, Gesù consegna lo Spirito di Dio ai credenti? Questo scrittore non vuole evitare ai lettori l ' opera di interpretazione. Li lascia pensa­re a questo proposito da soli . Infine, per concludere, è ben diffi­cile che possiamo caratterizzare l ' attore principale di questa storia della passione con aggettivi quali umiliato o vittimizza­to. Certo, egli viene battuto e ingiuriato ( 1 8 ,22; 1 9, 1 -5) , ma questo Gesù giovanneo si comporta con dignità e compostez­za. In effetti egli è un re che va verso la sua incoronazione.

La storia della passione ci fornisce alcuni indizi per compren­dere il significato di ciò che Gesù ha compiuto secondo la conoscenza che ne ha il quarto evangelista, ma questi indizi ci rimandano a scorrere velocemente il contesto dell ' intero Vangelo per la soluzione dell' enigma. Ci potrebbe forse essere d' aiuto far convergere il significato della morte di Gesù nel Vangelo di Giovanni in una serie di temi, la maggior parte dei quali, a questo punto, ci è familiare.

Ovviamente, il primo tema deve essere questo: la croce è l 'incoronazione di Gesù come re . Questo tema viene suggeri­to dai detti che parlano di «innalzamento» (3 , 1 4; 8 ,28; 1 2,32-34). La crocifissione è nello stesso tempo la morte scandalo­sa di Gesù e la sua incoronazione. Questo tema viene ulterior­mente suggerito dali ' enfasi posta n eli ' evidenziare la scritta che · Pilato ha fatto appendere sulla croce. Il suo ostinarsi affinché fosse lasciata com'era, pendente al di sopra della testa del croci-

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fisso, è una dichiarazione vera, piena d' ironia. Pilato voleva che il segno (la scritta) fosse una provocazione per i capi giudai­ci e una derisione per Gesù. Ma essa è vera ! Gesù è il Re ! E non soltanto il re del popolo giudaico. Così la scritta è in lingua ebraica, latina e greca. Questi è i l re universale.

A questi piccoli frammenti di prova si aggiunga il compor­tamento regale di Gesù durante tutto il racconto della Passione e si avrà il quadro completo. Gesù, in verità, non è mai una vitti­ma ma ha sempre il pieno controllo del proprio destino (per esempio 1 9, 1 1 ) . Egli consente il suo arresto ( 1 8,6-8); in verità non muore ( 19,30). Inoltre, l ' intero processo davanti a Pilato è una discussione sul chi sia il vero re, tra Cesare e Cristo (vedi 1 9, 14- 1 5) . Il Vangelo rivendica che la croce sia il mezzo median­te il quale Cristo prende giustamente il suo posto sul trono, per governare come re dell ' umanità e dell ' intera creazione.

La croce è l 'ascensione e la glorificazione di Gesù. Questo secondo tema indica una parte del processo mediante il quale Gesù «Se ne va» ( 1 6,7; 20, 1 7). Insieme alla risurrezione, la crocifissione costituisce la partenza del rivelatore da questo mondo e la sua ascensione, dopo aver assolto completamente la sua funzione. Colui che è disceso deve nuovamente risali­re alla sua casa celeste (3 , 1 3) e la crocifissione-risurrezione è l ' immagine di questa ascesa. S i tratta di una concezione non facile da cogliere, specialmente per coloro che si riallacciano alla distinzione lucana fra crocifissione, risurrezione e ascen­sione. Ma si tratta chiaramente di un concetto giovanneo.

L' ascensione è compiuta mediante la glorificazione. Glo­rificare significa sostanzialmente onorare una persona. Nel quarto Vangelo l ' espressione si riferisce ali ' apparizione poten­te e chiara della presenza divina. La croce, per questo evange­lista, è l ' avvenimento mediante il quale la presenza divina è riversata su Gesù affinché tutti la vedano ( 1 2,28; 17 , l ) . La croce glorifica Gesù nel senso che essa proietta la presenza divina con lucidità inequivocabile. Essa glorifica Dio in quanto rende nota la sua presenza nel mondo. In questi temi l ' autore dice che nella croce Dio onora Gesù e sanziona le opere e le parole del rivelatore per mezzo della presenza del Creatore .

La croce è la nuova Pasqua. Questo è il nostro terzo tema. Molto è già stato detto a tal proposito, ma passiamo in rasse-

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gna i dati . Il primo è rappresentato dal contesto pasquale dell ' in­tero Vangelo, che spicca come un pesante indizio (2, 1 3 ; 6,4; 1 1 ,55) . L' intero quadro del ministero di Gesù è cadenzato dalle feste di Pasqua. La morte di Gesù corrisponde al momento dell ' uccisione degli agnelli pasquali in preparazione del pasto commemorativo di quella sera ( 1 9, 1 4 ; vedi l ' Introduzione). Cristo è il nuovo agnello pasquale con il quale Dio libera ancora una volta e definitivamente il popolo dall 'oppressione. Di conseguenza, la croce viene presentata come un nuovo esodo, un nuovo atto di Dio per liberare l ' umanità da tutte le forze opprimenti che le impediscono di essere l ' insieme dei figli propri di Dio (vedi 1 , 1 2) . Come si effettua questa liberazione? Mediante la rivelazione della vera natura di Dio. Quando gli esseri umani conoscono chi realmente è Dio, essi sono libera­ti dall 'oppressione delle false comprensioni. Questo ci porta al quarto tema, quello finale.

La croce è l 'atto supremo d'amore di Dio. Questo tema viene anticipato in 3 , 1 6 e si ritrova per tutto il Vangelo sotto forme diverse. La motivazione dell ' invio del Figlio da parte di Dio è l ' amore divino per il mondo, per quanto malvagio questo possa essere. Questo amore si ritrova anche in 1 5 , 1 3 . Gesù obbedisce alla volontà del suo genitore celeste e dona la sua vita per i suoi «amici», i credenti . Così la morte di Gesù modifica il rapporto degli esseri umani con Dio. Essi non sono più servi, ma amici amati (la parola greca per amici è philoi ed ha le sue radici nella philia, una delle parole che significa­no amore). La croce allora diventa il modello di quello che significa «amarsi gli uni con gli altri» ( 1 5 , 1 2) . La croce è il paradigma dell ' amore.

Alcuni testi del Vangelo acquistano maggior significato nel contesto di questa enfasi posta sull ' amore e sulla sua espres­sione nel sacrificio di Gesù. Egli afferma che quando sarà croci­fisso attirerà tutti a sé ( 1 2,32). Se la croce è suprema espres­sione dell ' amore di Dio, è la potenza di quell ' amore che attira gli uomini a Cristo, proprio come fa una calamita col metallo.

L' amore divino pone in una luce nuova anche la piccola parabola del seme che troviamo in 1 2,24. L' amore per il Padre e per l ' umanità porta Gesù alla morte ma, come un seme nel terreno, in virtù di questa morte germoglia qualcosa di nuovo:

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l ' amore divino nel mondo. Si consideri anche 1 1 ,50, quando Caiafa involontariamente suggerisce che la morte di Gesù è un vantaggio per l ' intera nazione. Il dono di Gesù crocifisso è per l ' intero popolo. L' amore, ancora, spiega in che modo la morte di Gesù si configuri come purificazione. Potremmo voler spiegare l ' aspetto purificatore della croce mediante immagini tratte dal culto sacrificale (come l 'espressione popolare «purifi­cato nel sangue»). Lo si potrebbe anche spiegare paragonan­dolo al tipo di purificazione che si prova quando si è amati . L' atto di Gesù di lavare i piedi ai suoi discepoli li purifica ( 1 3 ,8 ss . ) , perché si tratta di un gesto che anticipa il supremo atto d 'amore sulla croce.

Infine, quest' ultima crea una nuova famiglia di Dio. Il Prologo ci annuncia che a tutti quelli che l ' hanno ricevuto e hanno creduto nella Parola viene dato il diritto di diventare figli di Dio ( 1 , 1 2) . Nella croce questo annuncio è compiuto e da essa Gesù crea la nuova famiglia di Dio. Egli chiama sua madre la madre del discepolo prediletto e questi figlio di sua madre. La morte di Gesù semplifica la nuova creazione di una famiglia di Dio basata sull ' amore divino. L' annuncio del dono di poter diventare figli di Dio e la scena della croce circonda­no l ' intero Vangelo, proprio come un paio di fermalibri (vorrei ringraziare A. CULPEPPER per questo suggerimento: vedi la sua Anatomy ofthe Fourth Gospel) .

Questi sono i quattro temi attorno ai quali ruota la conce­zione giovannea della croce: è l ' insediamento di Gesù sul trono come re, la sua ascensione e glorificazione, la nuova Pasqua liberatrice e la suprema espressione dell ' amore di Dio.

Forse, ora siamo in grado di sintetizzare in forma più conci­sa e sistematica l ' intera discussione su ciò che Gesù ha compiu­to sulla croce. Possiamo dire, prima di tutto, che il significato della croce nel quarto Vangelo è il compimento della rivela­zione redentiva (vale a dire, essa porta gli esseri umani in relazione fraterna con Dio). La rivelazione del vero essere di Dio ha in sé il potere di sconfiggere l ' alienazione degli esseri umani . La disperazione dell ' umanità ha le sue radici nell ' as­senza di verità, la cui manifestazione (l' identità di Dio) consen­te di ristabilire il rapporto con Dio. Quindi «conoscere la verità» (8,32) è sinonimo di aver intrapreso un rapporto corretto.

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Allora possiamo dire che la rivelazione della croce e del! 'in­tero ministero di Gesù è un 'espressione di amore, e quest 'ul­timo libera. La rivelazione del vero essere di Dio è l ' articola­zione dell' amore che ha per gli esseri umani . Esserne a conoscen­za rappresenta la forza che rompe i legami del peccato e dell ' a­lienazione per potersi riferire a Dio come a un amico.

Infine, tutto questo è esposto con ironia. Così dobbiamo dire che la croce è l 'ironia di Dio e la rivelazione stessa ne è intrisa. Questo perché comunica l ' opposto di quello che gli uomini ritengono sia il divino. Lo strumento della rivelazione è la croce; ironicamente I' esecuzione del Figlio di Dio è proprio I' opposto di quanto noi umani immagineremmo essere la rivela­zione della realtà ultima. Quella croce è la dimostrazione de li ' es­sere stesso di Dio. Nel quarto Vangelo l ' ironia è molto più di una tecnica letteraria, è una categoria teologica, ironica - da un punto di vista umano - per quel che riguarda l ' atto rivela­torio di Dio (si veda il provocante libro di Gail O'DAY, Revelation in the Fourth Gospel, Filadelfia, Fortress Press, 1987).

CONCLUSIONE

Il quarto evangelista ha espresso una visione chiara del fondatore del movimento cristiano, l ' esperienza del quale è prova basilare per la formulazione del punto di vista svilup­pato nel Vangelo. Vale a dire, quanto viene detto sulla perso­na di Cristo è il tentativo di esprimere ciò che i cristiani speri­mentarono nella loro comunità di fede. Potremmo rivolgere ali ' evangelista l ' accusa che egli , o ella, si stia lanciando in speculazioni, che un semplice personaggio storico, Gesù di Nazareth, sia stato reso qualcosa che non era. Ma con un po' d ' immaginazione possiamo intuire la risposta che ci darebbe I' evangelista. La comunità di fede giovannea conosce quest' uo­mo Gesù in un modo diverso: Io vede come colui che ha porta­to un modo del tutto nuovo di affrontare la vita. La loro fede in lui Ii ha condotti a quella che considerano la vera essenza della vita umana, noi diremmo la vita eterna. Essi conoscono

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il loro fondatore non come una persona sepolta nella storia, ma come una presenza vivente, comunicata loro mediante l 'opera dello Spirito (vedi il cap. 4). Di conseguenza, l ' auto­re del nostro Vangelo rifiuterebbe qualsiasi accusa di specula­zione o di distorsione della verità storica. Piuttosto concepi­rebbe il quarto Vangelo come una realtà articolata, così come viene sperimentata dalla comunità di fede giovannea.

Il fondatore di questa fede non era altri che il Figlio del Padre, dice il Vangelo. Questo significa che l ' evangelista e la comunità giovannea hanno tratto la conclusione che colui il quale poteva comunicare la verità nel modo in cui Cristo l ' ave­va portata loro, non poteva essere altro che Dio in persona. Si tratta di un tipo di verità che non può essere comunicata per interposta persona. Non si trattava di una verità filtrata da un profeta umano; la verità divina era stata comunicata a Israele e alle persone del mondo ellenistico mediante profeti umani e rivelatori . Ma quella che la comunità giovannea ha trovato nella rivelazione attribuita a Gesù è di un' altro tipo. Si tratta della «realtà vera», incontrata in Cristo. Nessun intermediario può attribuirsi la responsabilità per questa verità. Se così non fosse, come potrebbe cambiare così radicalmente i credenti ovunque, alterare così profondamente le loro vite?

L'evangelista dichiara apertamente e senza remore che è soltanto nella persona di Cristo che si incontra la realtà divina. Egli è il vero pane, la vera luce, la vera vita, la risurrezione e la via di un'esistenza autentica. Il Gesù giovanneo sintetizza questo esclusivismo nell 'affermazione: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» ( 14,6). Una tale pretesa di accesso esclusi v o alla realtà ultima spaventa la mentalità moderna, suona dogmatica e restrittiva. Può essere compresa soltanto nel conte­sto di una comunità di fede per la quale il fondatore è stato la via per intraprendere un nuovo rapporto con la verità ultima.

L'evangelista riconosce che il fondatore è il Figlio del Padre. Tutte le dichiarazioni che affermano la divinità di Cristo sono giustificate dal fatto che egli è il Figlio, non il Padre in perso­na. L'autore non è un teologo sistematico, ma (egli o ella) è preparato teologicamente per poter chiarire che Cristo non deve essere confuso con Dio. Cristo è divino e partecipe della vera natura di Dio, ma è distinto e subordinato al Padre� Egli è la

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dimensione espressi va dell ' essere di Dio, o il Figlio che è piena­mente obbediente al Padre e da questi inviato. Il nostro evange­lista riconosce che qualunque cosa voglia indicare l ' incarna­zione della Parola, non può dirci in ogni caso che l 'essere umano è pienamente di natura divina. Se la comunità giovannea avesse conosciuto il concetto dell ' autosvuotamento (kenosis) di Cristo che si trova nell ' inno cristologico della lettera ai Filippesi (2, 7), l ' avrebbe utilizzato. Così come stanno le cose, la fede della comunità si esprime nelle affermazioni paradossali secondo le quali Cristo è Dio, possiede individualità, distinzione e gli è subordinato. In altre parole, Cristo è il Figlio del Padre.

Per dirlo in un altro modo, il quarto evangelista sostiene che Cristo è l ' equivalente funzionale di Dio. Per quanto riguar­da l ' essere, li si può distinguere, ma in pratica sono uno e per gli esseri umani , Cristo è Dio in mezzo a loro . Siamo quindi portati a riconoscere che la principale preoccupazione dell ' e­vangelista non è l ' elaborazione di una dottrina teologica, quanto piuttosto il fornire supporto alla fede pratica. La funzione del Vangelo consiste nell ' esporre un punto di vista che sia pragma­tico, utile. In pratica i cristiani possono pensare che Gesù sia Dio in mezzo a loro: la ragione di questa convinzione è che essa riflette l ' esperienza reale e innegabile della comunità cristiana in cui viveva l ' evangelista.

Questa è dunque la prima base su cui egli ha elaborato il pensiero espresso nel Vangelo. La seconda consiste nell ' op­posizione da parte della sinagoga che la chiesa affrontava. Questo Vangelo in usuale in parte rappresenta una reazione alle accuse lanciate contro i cristiani. La comunità è tacciata di rendere il culto a due divinità; il loro Cristo viene considera­to per nulla divino da parte degli oppositori . Viene riconosciuto come un angelo, un profeta o forse anche come un pretenden­te al trono messianico ma non è certamente il Messia, né di vino. L' autore del quarto Vangelo replica a queste accuse con una visione di Cristo quale Messia, di vino e che tuttavia non rappre­senta un secondo Dio. Lascio giudicare al lettare in quale misura la risposta data sia all ' altezza del compito. È importante vedere la cristologia del quarto Vangelo nel contesto della controver­sia fra la chiesa e i suoi oppositori .

Si può correttamente affermare che la cristologia del quarto

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Vangelo rappresenti una reazione agli assalti degli oppositori . Prendendo coscienza di questo fatto, siamo facilitati nel capire l ' esclusivismo della comunità giovannea. Quelle affermazio­ni uniche su Cristo, che abbiamo incontrato nella sezione che presentava i detti «io sono», sono dovute alla situazione della chiesa in quel momento storico: sta giocando di rimessa, lotta per difendere la propria linea della porta. Sta combattendo per la propria sopravvivenza contro un formidabile nemico. Le comunità religiose che si trovano in queste situazioni affer­mano i propri punti di vista nel modo più radicale e sono proba­bilmente portate a formulare il pensiero più creativo e forma­tivo sulla loro teologia. Una fede sotto tiro è costretta a pensa­re in modo attento e definitivo.

Di conseguenza, la cristologia del quarto Vangelo è una concezione sviluppatasi in una situazione reale, vissuta. Due aspetti sono allora di importanza vitale per la nostra compren­sione dell ' evangelista: la profonda esperienza di fede di Cristo da parte della comunità e l ' intensa lotta contro l 'opposizione locale. La cristologia del Vangelo è allora un esempio ammire­vole dello sforzo di una comunità di fede per elaborare in forma nuova una riflessione sul suo fondatore, proprio nel bel mezzo di una situazione concreta. Potremmo pensare che la visione di Cristo presentata nel quarto Vangelo abbia bisogno di essere equilibrata dalle prospettive degli altri Vangeli e dall 'elabora­zione successiva della chiesa. Potremmo anche voler mettere in questione la concezione giovannea della stessa esperienza cristiana primitiva. Ciò nonostante, possiamo ancora compren­dere le preoccupazioni di questo Vangelo e apprezzare il modo in cui espone la sua tesi centrale. Possiamo essere partecipi della situazione in cui si trovava la comunità giovannea e apprezzare la sua risposta ai problemi che stava affrontando. In modo fedele e creativo, l ' autore di questo documento rifor­mula le risposte ai problemi di fondo che sono stati sollevati sulla natura e sul ruolo del fondatore del movimento cristia­no, facendo tutto ciò alla luce dell'esperienza reale dei creden­ti . In questo modo il quarto evangelista ha fatto quello che ciascun pensatore religioso creativo deve fare in ogni periodo della storia, come spesso accade anche a noi.

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DUE MONDI DIVERSI: IL DUALISMO GIOVANNEO

Perché esiste il male? Perché gli esseri umani incontrano continuamente la parte devastante e senza senso della vita umana? Perché le persone buone soffrono senza alcuna apparen­te ragione? Perché ci sono terremoti, uragani e altre forme di distruzione naturali? Se per molti degli aspetti indesiderabili della vita possiamo prendercela con l ' ignoranza e l ' immatu­rità umana, che cosa pensare di quella dimensione della natura che ci colpisce e di cui non comprendiamo il senso? Come possiamo rendere ragione di questi fatti? Quale spiegazione si può dare dell ' intera realtà del male?

Naturalmente, tutte le persone nel corso della storia si sono trovate di fronte a queste domande. Si può anzi dire che una delle dimensioni più importanti del pensiero religioso sia stato il tentativo di comprendere il problema del male, ovvero arriva­re a farsene una ragione. La spiegazione religiosa più sempli­ce è stata quella di attribuire il male alle azioni degli dèi . Si trattava della manifestazione della loro collera e se gli uomini volevano sfuggire alla distruzione dovevano in qualche modo placare le divinità. Dalla più semplice delle spiegazioni religio­se del male alle più complesse, i sistemi religiosi hanno messo a disposizione dei loro adepti modi diversi di affrontare questa dimensione sfuggente dell 'esistenza umana. In alcune religio­ni (l ' hinduismo, per esempio) il male è semplicemente un'i l­lusione; si tratta soltanto dell ' apparenza della realtà e la salvez­za consiste in quella concezione che rivela il male apparente per quello che è veramente. Per altre religioni (come per esempio lo zoroastrismo) il male è molto reale: si tratta del risultato di una volontà sovraumana che si oppone alla volontà divina. Questa opposizione scatena disastri e danni in tutto il corso

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della storia del mondo, ma sarà definitivamente sconfitta alla fine della storia. Anche in quei sistemi in cui il pensiero e l' azio­ne umana sono concepiti in modo soltanto quasi religioso, si assiste allo sforzo di dare una risposta alla realtà del male: esso diventa parte del ritmo della natura (confucianesimo), oppure è interamente il risultato delle decisioni umane (umanesimo).

Quindi, il problema del male non è un semplice enigma intellettuale per pensatori senza occupazione. Si tratta di un problema umano basilare che ogni persona prima o poi incon­tra. La sua difficoltà consiste nel fatto che non si tratta di un semplice argomento accademico, ma è radicato nel cuore della personalità umana. Si tratta, se proprio si vuole, di un proble­ma vivente. Vale a dire, è un problema che sperimentiamo dire t­tamente e senza scampo. La realtà del male ci fa tremare e scuote le fondamenta della nostra fiducia nel significato dell 'e­sistenza. Esso tocca ogni angolo della nostra vita: non è neces­sario essere un cristiano per lottare contro le esperienze radical­mente indesiderabili della vita e continuare ad andare avanti affermando che la vita è degna di essere vissuta.

Il cristianesimo primitivo aveva ereditato un dualismo modificato dal suo «progenitore», il giudaismo. Nei cinque secoli precedenti l 'origine del cristianesimo, il giudaismo aveva sviluppato una comprensione del male che era sostanzialmente un dualismo condizionato, il quale sosteneva che c'era una forza sovraumana d'opposizione che ostacolava la volontà divina. Questa, però, ve n i va intesa di breve durata. I suoi giorni erano limitati in quanto, in un avvenimento che doveva accade­re al culmine della storia, sarebbe apparso il Messia atteso da tempo e tutta l 'opposizione sarebbe stata sconfitta. Dio avreb­be regnato nuovamente da sovrano unico sul mondo. Nel frattempo, la forza del male non era soltanto reale, ma anche preminente.

Il cristianesimo primitivo credeva chiaramente che negli avvenimenti della vita di Gesù di Nazareth, la potente sovra­nità fosse stata decisamente sconfitta. La seconda apparizio­ne di Cristo dal cielo avrebbe portato all ' annichilimento di ogni parvenza di male. Quindi, questi primi cristiani ritene­vano di vivere nel periodo interinale fra la prima apparizione di Cristo e la sconfitta dal male da una parte e la sua seconda

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apparizione dall' altra, che avrebbe portato a compimento l ' eli­minazione di ogni traccia di male. Essi credevano, quindi, in un dualismo condizionato nel senso che le forze del male erano reali , ma non erano in definitiva potenti quanto Dio e alla fine avrebbero cessato di esistere.

Essi avevano anche un dualismo temporale. La storia veniva divisa in due periodi fondamentali : l ' èra presente, ancora dominata dal potere di Satana e l ' èra futura, in cui Satana e il suo potere sarebbero stati distrutti e il regno di Dio sarebbe diventato realtà. Potremmo pensare a questa doppia forma di dualismo nel modo rappresentato dallo schema 5. La dimen­sione verticale rappresenta un dualismo cosmico e la dimen­sione orizzontale un dualismo temporale o storico (qui il termi­ne «cosmico» viene utilizzato nel senso di considerato reale in ogni tempo e in ogni luogo) .

DIO

Il tempo presente malvagio

governato da Satana

origine di Satana Satana

Apparizione del Cristo vittorioso

f Il tempo futuro

governato da Dio

distruzione di Satana

Schema 5

Il nostro quarto Vangelo, è un dato caratteristico, non accet­ta totalmente questa impostazione. Esso presenta una revisio­ne del pensiero dualistico del Nuovo Testamento in generale. Si pone fra i testi più fortemente caratterizzati dal dualismo; tuttavia non semplicemente in linea di continuità rispetto ali ' i m-

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postazione cristiana. Dobbiamo analizzare la revisione del pensiero primitivo per mano del quarto evangelista da due angolazioni. In questo capitolo presenteremo il dualismo giovan­neo in generale. Nel capitolo 4 torneremo su questo tema quando cercheremo di comprendere l ' escatologia giovannea.

Per ora il compito che ci sta davanti, è di cogliere il modo in cui il quarto evangelista utilizzi i simboli dualistici. Divideremo la presentazione in tre sezioni :

l . i simboli dualistici nel quarto Vangelo;

2. l ' atteggiamento specifico del Vangelo verso «i giudei»;

3 . il problema del determinismo nel Vangelo.

LE ESPRESSIONI SIMBOLICHE DEL DUALISMO NEL QUARTO VANGELO

Letture preparatorie: si scorra nuovamente l ' intero Vangelo. Questa volta si cerchi di rintracciare ed elencare tutte le coppie di opposti che si incontrano. Talvolta avrete la sensazione che una parola o un'espressione venga uti lizzata per indicare il polo negativo o quello positivo della coppia, ma non si ritroverà l ' uso espl icito del polo opposto. Elencatelo comunque. Un esempio al quale poter fare riferi­mento è la coppia di opposti <<luce/tenebre».

Non si deve leggere molto il Vangelo per essere colpiti dall ' uso di simboli del linguaggio dualistico'del nostro autore. Il Prologo si presenta a noi con il dualismo della luce e delle tenebre : «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l 'han­no sopraffatta» ( 1 ,5) . Naturalmente tali coppie di opposti non sono insoliti nel Nuovo Testamento o nella Bibbia ebraica. Quel che è insolito nel nostro Vangelo è la loro rilevanza. Sembra che l ' intero sistema del pensiero teologico presentato nel quarto Vangelo sia ancorato ad una struttura dualistica che contiene due punti saldi, all ' interno dei quali lo scrittore ha intessuto il pensiero del Vangelo. Lo schema 6 presenta soltan­to un elenco parziale delle più evidenti coppie di opposti utiliz­zate dali ' evangelista. Il vostro probabilmente includerà molti

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altri simboli che questo elenco abbreviato omette. Aggiungete i vostri.

Polo positivo Testo biblico Polo negativo

luce 1 ,5 tenebre alto 8,23 basso spirito 3,6 carne vita (eterna) 3 ,36 morte verità 8 ,44 s. menzogna cielo 3,3 1 terra Dio 1 3 ,27 Satana Israele 1 , 1 9.47 «i giudei» (talvolta)

1 7 , 1 4 i l mondo (talvolta)

Schema 6

Cerchiamo ora di analizzare il significato di questo duali­smo mediante l ' analisi di uno dei più importanti simboli giovan­nei : il «mondo» (kosmos ) . In primo luogo proveremo ad accer­tare quello che vuole indicare l 'evangelista con questa espres­sione e a specificare il suo ruolo nel sistema dualistico. In secondo luogo utilizzeremo il significato che troveremo negli usi dell ' espressione «mondo» per fare alcune affermazioni generali sul dualismo giovanneo . Scegliamo questo concetto di mondo in quanto è veramente centrale nel pensiero del Vangelo e poiché esemplifica il complesso uso dei simboli in tutto il documento.

Letture preparatorie: si deve cercare di cogliere con quali significa­ti il quarto evangelista uti l izzi l 'espressione «mondo». Quell i che seguono sono alcuni dei testi che si devono leggere e ponderare atten­tamente. Ci si chieda che cosa significa l ' espressione «mondo» in ciascuno di questi casi : 1 , 10 ; 3 , 16 ; 8, 1 2.23; 9,32.39; 1 1 ,9- 10 ; 1 2,25 .3 1 -35 .46; 1 3, 1 ; 14, 1 7.3 1 ; 1 6,7- 1 1 ; 1 8,36.

Innanzitutto dobbiamo notare che l ' uso dell 'espressione kosmos (mondo) non è coerente . L' abbiamo messa nel l ' elen­co sopra riportato come una delle espressioni simboliche del polo negativo del dualismo giovanneo. E qualche volta è così .

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Tuttavia, il lettore del Vangelo deve esaminare il contesto in cui questa parola (e altre) viene utilizzata, in quanto può avere diversi significati .

In molti passaggi , questa parola viene utilizzata con un signi­ficato neutro oppure addirittura positivo e affermativo. In questi casi la parola vuole indicare il mondo stesso della creazione, la realtà fisica della terra. Alcuni possibili esempi includono 1 ,9 ; 3 , 16 ; 1 6,2 1 ; 1 7 ,24. Questi c i devono aiutare a comprendere meglio quello che si vuole intendere con l ' uso negati v o del termi­ne. L'autore del Vangelo non ha una visione cupa del mondo fisico in sé: quando utilizza il termine kosmos con il significa­to negativo, nel presentare la visione dualistica, egli non si riferi­sce al mondo fisico nel quale viviamo. Per quanto il kosmos possa apparire sfigurato nel contesto dell ' incredulità, il mondo creato è oggetto dell' amore di Dio (3, 1 6) e costituisce il quadro in cui la luce illumina le persone ( l ,9). A questo proposito alcune interpretazioni cristiane negli anni passati hanno seriamente frainteso il Vangelo, ritenendo che il quarto evangelista stesse disprezzando il mondo fisico e, di conseguenza, che il Vangelo chiamasse i cristiani ad avere soltanto contatti molto remoti con la fisicità di questa terra (per esempio 1 7, 1 8).

Allora, che cosa intende l ' autore, o l ' autrice, quando utiliz­za questo termine in modo negativo? Il mondo, in questi casi , sembra essere un' espressione simbolica che rappresenta il regno dell ' incredulità, l ' area in cui c'è totale rifiuto della verità di Dio rivelata in Cristo. Viene utilizzata in collegamento con il giudizio e con Satana in 9,39; 1 2 ,3 1 e 1 6, 1 1 . Essa è il simbo­lo di quel modo di essere, di quel modo di vivere, che si oppone a Dio e al progetto divino di salvezza per gli esseri umani . Si indica una presa di posizione nella vita che considera il rappor­to con Dio non necessario e non desiderabile. Si tratta di quello che B ultmann chiama «la perversione della creazione » . «L' i llusione che nasce dalla volontà d i autonomia perverte la verità in menzogna, perverte la creazione in "mondo"» (R. BULTMANN, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia, Queriniana, 1 985 , p. 359). La creazione ha bisogno che l ' uomo dipenda da Dio. Il mondo simboleggia la falsa pretesa che l ' esistenza umana possa essere indipendente da Dio. Si tratta di un modo di vivere in cui gli uomini cercano di essere qualcosa che non

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sono, in particolare, esseri indipendenti, che non hanno alcun bisogno dell ' Uno responsabile della loro esistenza.

Se questa è una interpretazione corretta del significato giovanneo, allora ciò implica che la creazione è un modo auten­tico di essere umani . Tuttavia, la creazione può essere distor­ta, come appunto è avvenuto. Il risultato è un modo di conce­pire se stessi non autentico, falso. Nell ' uso negativo dell ' e­spressione dualistica della parola, l ' evangelista ha in mente questa distorsione. La distinzione non è fondamentalmente su un piano morale, fra quelli che vivono «buone vite» e quelli che vi v ono «vite mal v age», piuttosto è fra due modi di compren­dere se stessi in rapporto all ' intera realtà, fra due modi in cui una persona può rispondere alla domanda: chi sono io? Quando il mondo è legato al polo negativo del dualismo evangelico, esso fa riferimento al fraintendimento di ciò che gli esseri umani sono. Allora (e solo allora) il mondo è avvolto dalle tenebre (8, 1 2) e dominato da Satana ( 1 2,3 1 ) .

Dobbiamo ancora confrontarci con l 'uso pienamente duali­stico della parola. In 8,23 e 1 3 , l questo mondo viene contrap­posto a un altro regno. Nei due casi il punto è che la dimora di Gesù non è in questo mondo, ma in un altro. «Voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo» (8,23). «Gesù seppe che era venuta l 'ora di passare da questo mondo al Padre» ( 1 3 , 1 ) . Qui i l mondo è la sfera d eli ' essere distinta dalla sfera del d i vino e sembrerebbe che questa distinzione sia sinonimo di molte altre presenti nel quarto Vangelo: per esempio cielo e terra, alto e basso. Il regno del divino è altro da questo mondo; è altrove. La dimora di Gesù si trova in quell ' altro posto, ed egli viene nella sfera di questo mondo soltanto temporaneamente. La distinzione è fra il mondo inteso come regione umano-natura­le contrapposto al regno non-creato, divino. Il primo è dipen­dente e creato, il secondo è indipendente e increato.

L'uso del mondo come una sfera distinta dal regno celeste, insieme a quello di altre polarità come alto e basso o cielo e terra, suggeriscono un concetto importante . Sembrerebbe che il quarto evangelista accetti un dualismo cosmico di due mondi . Molte pagine del Nuovo Testamento sembrano muoversi in una specie di universo a tre piani : Dio e gli angeli occupano il piano più elevato, Satana e i demoni quello più basso, con gli

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esseri umani e la natura posti fra i due . In nessun ' altra pagina i l dualismo cosmico è così evidente come nel quarto Vangelo. Alcuni studiosi hanno suggerito che qui i l dualismo storico del pensiero cristiano primitivo (la dimensione orizzontale dello schema 5) sia stato completamente trasformato in un dualismo cosmico (la dimensione verticale dello schema 5) . Si afferma ciò in parte perché si ha l ' impressione che molti riferimenti all ' escatologia storica siano assenti dal Vangelo di Giovanni. Vale a dire, allusioni alla fine dell' età presente e l ' inizio dell ' età futura (di durata infinita) sono vistosamente assenti . Al loro posto si pone un dualismo cosmico radicale. Se le cose stanno così , allora il quarto evangelista ha detemporalizzato il duali­smo storico del cristianesimo primi ti v o e ha elaborato un duali­smo cosmico (per un'ulteriore analisi di questa possibilità, vedi il cap. 4).

Tuttavia, ci troviamo in presenza di alcune difficoltà. Accettiamo che ci sia una qualche verità nell ' ipotesi che il dualismo temporale sia stato trasformato in dualismo (comun­que, si possono ancora rintracciare alcuni resti della conce­zione dualistica temporale). Qual è allora il rapporto di questo dualismo cosmico con quello dell ' autocomprensione umana che abbiamo incontrato in precedenza? Noi osserviamo la divisione delle persone fra quelle che vivono autenticamente come creature di Dio e quelle che vivono come se fossero indipendenti da Dio. Questo dualismo è forse diverso da quello cosmico, del mondo visto in alto e in basso che abbiamo appena incontrato? Oppure, per porre la domanda in modo diverso, il quarto evangelista e la comunità giovannea hanno abbraccia­to così letteralmente questo dualismo cosmico? Essi credeva­no veramente in due mondi diversi?

Ci sono due possibilità. Una è che nel quarto Vangelo si abbiano due tipi di dualismo, entrambi rappresentati dalla parola «mondo»: uno umano (due modi di autocomprensione) e uno cosmico (due regni di essere) . In questo caso saremmo porta­ti a leggere il dualismo cosmico piuttosto letteralmente. Si potrebbe avanzare l ' idea che, con questo tipo di comprensio­ne del Vangelo di Giovanni, il dualismo cosmico sia quasi un tipo di divisione platonica della realtà. L' altra possibilità è che rappresenti una forma diversa per indicare il dualismo umano.

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Vale a dire, i due mondi differenti, il mondo degli umani e quello del divino, sono linguaggi raffigurativi per dire che le persone possono (e devono) scegliere di comprendere se stesse come indipendenti da Dio oppure come creature dipendenti . In questo caso il quarto evangelista non vorrebbe dire che ci sono due diversi regni all ' interno di questo cosmo. Piuttosto, questi due regni sono un modo poetico per esprimere la convin­zione che gli esseri umani devono scegliere di vivere sotto la sovranità di Dio oppure sfuggire a questa. Il cosmo a due piani del Vangelo di Giovanni sarebbe allora una metafora per indica­re due stili di vita umani .

Qui ci troviamo in presenza di un argomento estremamen­te arduo, in quanto la scelta fra queste due interpretazioni del dualismo cosmico richiede una comprensione approfondita di come l ' evangelista ha utilizzato le espressioni simboliche. Siamo legati ad una distinzione fra descrizione letterale e poeti­ca. La scienza moderna in tutte le discipline (nella storia come nella biologia, per esempio) ci ha aiutati nel cercare di tenere separati i momenti in cui vogliamo descrivere una realtà ogget­ti va e quelli in cui vogliamo descrivere una realtà soggettiva. Parliamo da una parte di «fatti)) e dall ' altra di poesia e di immaginazione (esperienza o comprensione soggetti va). Teniamo questi due ambiti ben separati . Non vogliamo che i biologi ci dicano come si s_entono di fronte a quella piccola creatura che stanno analizzando, ma che ci descrivano quella particolare forma di vita con la maggiore esattezza possibile. Ma quando ci mettiamo a leggere una poesia o un romanzo non ci aspet­tiamo che quelle analisi siano scientifiche.

Questa distinzione, in verità, è un concetto del tutto moder­no. Si tratta di qualcosa che il nostro evangelista non conosce­va. I cristiani del primo secolo non dividevano così attentamente la descrizione storica dall ' interpretazione del significato degli avvenimenti. Gli scrittori del Nuovo Testamento potevano muover­si liberamente, dalla presentazione del fatto al suo significato soggetti v o, per poi tornare nuovamente al fatto in sé se�za alcuno stacco e senza alcuna preoccupazione di far risaltare la diffe­renza. Quindi nella letteratura cristiana antica il mito e la verità oggettiva sono mescolati ; il linguaggio per immagini e quello descrittivo si trovano all ' interno di una stessa frase.

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Tutto questo significa che il nostro evangelista non poteva aver distinto, così come noi cerchiamo di fare, a proposito dell ' interpretazione delle espressioni simboliche del dualismo che ritroviamo nel Vangelo. Vogliono forse descrivere il cosmo? Oppure vogliono presentare il modo in cui le persone devono decidere su come comprendere se stesse? I cristiani giovannei probabilmente non pensavano in questo modo. Se il dualismo cosmico è veramente un linguaggio per immagini che riguar­da l' autocomprensione umana, i primi lettori del Vangelo proba­bilmente non lo concepivano consapevolmente. Questo non vuoi dire che essi, o il Vangelo, fossero culturalmente meno sofisticati di quanto lo siamo noi, soltanto che vivevano in un periodo prescientifico e non erano costretti a rimanere nei limiti delle distinzioni che si impongono ora. Non ci dobbiamo aspet­tare che il Vangelo utilizzi con cura i differenti generi di linguag­gio nel modo in cui facciamo noi .

Sono portato a pensare che il dualismo umano giovanneo si ponga in continuità con il suo dualismo cosmico. Il Vangelo in primo luogo fa il punto sul fatto che gli esseri umani si trova­no di fronte a due possibilità ineludibili e questo dualismo cosmico entra nel suo linguaggio per due motivi. Il primo riguarda il fatto che rafforza l ' importanza del dualismo umano. Sostengo ancora che il riferimento al diverso regno divino (come in cristologia) sia un segnale dell ' importanza esisten­ziale dell' argomento che aveva per l ' evangelista e per i cristia­ni giovannei in generale. In secondo luogo il Vangelo intro­duce il dualismo cosmico per legare la bipolarità della vita alla cristologia. Cristo viene dal regno dell' autocomprensione orien­tata divinamente : questo mondo (kosmos) continua a rappre­sentare l ' altro falso genere di autocomprensione umana. Dopo aver detto questo, non voglio negare che i cristiani giovannei credessero in un tipo di cosmo a due volti . Potevano proprio crederlo. Quello che penso essi avrebbero detto, tuttavia, è che credere in una struttura del cosmo non è la cosa importante. Il nodo vitale è se accetti te stesso come creatura di Dio con tutto quello che implica, oppure se cerchi di pretendere di poter vivere indipendentemente da Dio come se la propria vita fosse opera di ciascuno di noi .

Il Vangelo di Giovanni narra un racconto nel quale il regno

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storico, temporale, è intrecciato nell ' altro regno, cosmico, trans­storico o trans-temporale. Il mistero della trascendenza è intrec­ciato con la materialità. Il protagonista della storia è nello stesso tempo una persona storica e un essere del regno trascendente . La risposta umana nei suoi confronti è tanto un avvenimento storico quanto un avvenimento che ha valore trascendente. Tutto ciò non è diverso dal come un semplice gesto fisico (un abbraccio o un bacio) è nello stesso tempo sia un avvenimen­to storico e temporale sia un'espressione della realtà d' amo­re, una realtà che trascende il singolo avvenimento. Di conse­guenza, una delle caratteristiche aggiuntive del Vangelo di Giovanni e della sua storia è che il tempo è contemporanea­mente storico e oltre la storia. Così , per esempio, la sequenza temporale di crocifissione, risurrezione e ascensione che noi conosciamo così bene dagli altri Vangeli (in particolare da Luca) nel quarto Vangelo è sfumata. Gesù parla della sua risali­ta (20, 1 7), ma il lettore non è mai così sicuro che questo avveni­mento accada proprio. Il tempo è compenetrato e permeato dal regno divino, che è oltre il tempo. Il risultato è che la sequen­za temporale viene offuscata. Per lo più in egual misura il duali­smo umano e cosmico sono intrecciati .

Letture preparatorie: si leggano alcuni testi in cui si uti l izzano o sono implicite altre coppie di opposti e si provi a capire quale significato sembrano avere : 1 ,4-5 ; 3 , 1 -2 1 .3 1 -36; 8 ,2 1 -26; 9 ,5 ; 1 3 ,27-30.

Ora abbiamo la chiave per schiudere i misteri delle altre espressioni simboliche del dualismo giovanneo. Esiste un polo negati v o che descrive la situazione della vita umana mal indiriz­zata e confusa. Questa situazione viene descritta in vari modi con termini quali «tenebre», «menzogna», «carne», «morte» , «regno di Satana» e «basso». Anche l 'uso della parola «notte» da parte dell ' evangelista potrebbe suggerire che le tenebre caratterizzano un ' errata autocomprensione umana ( 1 3 ,30; 3,2). Il polo positivo è indirizzato da espressioni simboliche del tipo: «luce», «verità» , «spirito», «vita » e «vita eterna» , «regno di Dio» e «alto». Ancora una volta abbiamo un doppio dualismo, una divisione cosmica di ogni realtà in due regni, quello creato e quello divino (in particolare 8,23) e una divisione fra modi di essere umani, forse meglio espressi dal dualismo verità/menzo-

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gna. Le varie espressioni simboliche hanno tutte lo stesso signi­ficato. Non esiste una differenza sostanziale fra il dualismo di luce/tenebre e la scissione fra alto/basso. Il polo positivo della scissione rappresenta un unico concetto: la rivelazione di Dio in Cristo permette alle persone di diventare quello che veramen­te sono. «Verità» indica ciò che sal va gli esseri umani da un'esi­stenza malvissuta e distorta. L'amore di Dio motiva la rivela­zione della vera identità umana. Se un bambino, per una qualsia­si ragione, ritiene di essere un cucciolo di cane, i genitori preoc­cupati fanno tutto quello che possono per correggerne l ' iden­tità equivocata e distorta. Dio non sta facendo niente altro, nello sforzo di dimostrare agli esseri umani che essi sono creatu­re e dipendono dal Creatore per la loro esistenza.

Il dualismo giovanneo dei due mondi differenti ci indica pertanto il modo in cui l ' evangelista comprende il bisogno umano di salvezza e la natura di questa. Si tratta di un modo per dire che tutto il male del mondo è radicato in un' auto­comprensione errata. Le tenebre e la menzogna di questo mondo emergono perché le persone cercano di essere di v erse da quello che sono. Suona sorprendentemente semplice, ma sembra che questa sia la visione giovannea della situazione. Perché c 'è il male? Perché gli esseri umani sono confusi sulla propria identità. Come si sconfigge il male? Mediante la correzione della falsa comprensione umana. I due mondi di Giovanni costituiscono due diverse identità !

Possiamo sintetizzare questa impostazione del dualismo giovanneo mediante un semplice schema (vedi schema 7). La sua forma vuole suggerire che il dualismo umano dell' evan­gelista confluisce in un dualismo cosmico e che quest' ultimo, in ultima analisi, è veramente un'espressione del precedente.

Nello schema 7 si fa riferimento a Satana, ma non abbia­mo detto nulla su questa figura. Come certamente ricordere­te, l ' Introduzione ha evidenziato il fatto che il quarto Vangelo è stranamente silenzioso a proposito dei demoni . Esso ha poco da dire sul loro capo oltre al fatto che, per fare un'analogia col mondo aziendale, sia il «direttore esecutivo» . Il titolo «Satana» ricorre nel quarto Vangelo soltanto in un' occasione e viene utilizzato per spiegare il motivo del vile tradimento di Giuda ( 1 3 ,27, in massima parte segue la stessa linea del Vangelo di

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Dualismo

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Schema 7

Luca in 22,3) . Più frequente nel Vangelo di Giovanni si ritro­va l 'espressione «principe di questo mondo» ( 1 2,3 1 ; 1 4,30; 16, I l ). Riallacciandoci alla comprensione giovannea del mondo (kosmos) inteso come il regno del male e dell ' incredulità, la personificazione del male è presentata come colui che eserci­ta autorità sul mondo. La figura del male è collegata esclusi-

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v amen te alla crocifissione di Gesù . Il Vangelo ha poco interes­se n eli ' immagine di una figura cosmica responsabile del male e in questa mancanza di interesse si distacca in modo signifi­cativo da molte altre pagine del Nuovo Testamento. È più interessato al modo in cui l ' esistenza umana è deformata dalla falsa comprensione e sembra quasi del tutto intento ad evita­re la tentazione di sminuire la responsabilità di questa defor­mazione gettando la colpa su una qualche personificazione cosmica del male.

Il dualismo del quarto Vangelo è complicato da altri due argomenti che si pongono al centro di questo problema dell ' au­tocomprensione umana. Il primo è lo strano (e pericoloso) uso del l ' espressione «i giudei» . L' altro è lo spinoso problema di chiedersi se le persone siano o meno spinte da Dio nell 'ab­bracciare l ' una o l ' altra forma di autocomprensione.

l «GIUDEI» NEL QUARTO VANGELO

Letture preparatorie: si legga rapidamente il Vangelo e si segnino tutte le occorrenze del l ' espressione «i giudei» . Si cerchi di capire se essa viene util izzata in forma neutra per indicare un gruppo etnico di perso­ne, oppure se viene utilizzata con senso negativo. Si paragoni l ' uso che ne viene fatto nei capitoli 1 1 e 12 con quello del capitolo 8.

Una delle stranezze di questo Vangelo è che, mentre ciascu­no dei Vangeli sinottici fa riferimento ai giudei solo cinque o sei volte, il quarto evangelista vi si riferisce per oltre settanta volte, mentre la comune distinzione dei Sinottici fra scribi , farisei e sadducei si trova meno frequentemente. Il modo in cui il quarto Vangelo parla dei giudei ha avuto una serie di tragiche conseguenze; è stato più e più volte utilizzato come base dell ' antisemitismo cristiano. Nessun altro Vangelo sembra presentare i giudei in modo così avverso ai cristiani , nei panni dei loro nemici. Per questo motivo, chi cercava capri espiato­ri per la propria ostilità si è rifatto ali ' evidente antigiudaismo del Vangelo e lo ha utilizzato come base logica per una conce­zione della collera divina contro i giudei . I cristiani interessa-

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ti a cancellare ogni traccia di antisemitismo si trovano imbaraz­zati dal quarto Vangelo. L'uso del l 'espressione «i giudei» non ha avuto soltanto importanti ramificazioni sociali, ma è impor­tante per la comprensione generale del pensiero teologico di questo Vangelo. Ci sono due importanti motivi per esaminare il modo in cui l 'evangelista si serve di questa espressione .

Innanzitutto dobbiamo notare, ancora una volta, che l ' uso giovanneo di tale espressione non è coerente ; spero che nella lettura che è stata fatta si sia rilevata l ' ambiguità del termine, nel senso che esso sembra essere utilizzato con un significato qua e con un altro là. Affrontiamo prima quello più facile. Talvolta l'espressione viene utilizzata semplicemente per identi­ficare un gruppo di persone, dal punto di vista nazionale, etnico e religioso. In 1 1 ,45 , per esempio, appare semplicemente come identificazione di un gruppo dal quale sono emersi alcuni credenti in Cristo. In 4,22 Gesù dice (parlando egli stesso come un giudeo) che la salvezza viene dai giudei . Questo viene integrato dal fatto che le grandi figure del giudaismo passato sono riconosciute come importanti predecessori del rivelato­re (5 ,46; 8 ,39). Tutto ciò non comporta problemi . Ci presenta i giudei come preparatori dell ' apparizione del Cristo giovan­neo e ipotizza una continuità fra giudaismo e cristianesimo primitivo.

Il problema spinoso emerge quando incontriamo l' uso di tale espressione con sapore polemico. Nella gran parte dei casi i giudei sono i malvagi del Vangelo. Essi perseguitano Gesù (5 , 1 6) , lo fraintendono (8,22), cercano di lapidario (8,59), sono responsabili del suo arresto e della crocifissione ( 1 8 , 1 2 ; 19 , 1 2) . I I più delle volte l i caratterizza il fatto che sono coloro che rifiutano di credere in lui ( 1 0,3 1 -39).

Raymond E. Brown presenta un argomento forte del perché non possiamo leggere questi testi come se si riferissero in generale all ' intero popolo giudaico. Innanzitutto, l ' espressio­ne «i giudei» spesso non ha nulla a che fare con considerazioni di natura religiosa, nazionale o etnica. I genitori del cieco fin dalla nascita del capitolo 9 hanno paura dei «giudei», ma essi stessi sono certamente dei giudei ! Inoltre, l 'espressione viene spesso utilizzata in modo interscambiabile con i capi religio­si del popolo (si confronti 1 8,3 con 1 8, 1 2 e 8 , 1 3 con 8,22).

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Infine, quando si confronta il quarto Vangelo con i Sinottici, «i giudei» svolgono quelle funzioni che in questi ultimi sono attribuite al Sinedrio ( 1 8,28-3 1 ; cfr. Mc. 1 5 , l ). La tesi di Brown è che «i giudei» sia un'espressione utilizzata per indicare soltan­to le autorità religiose del giudaismo che si oppongono a Cristo (vedi R.E. BROWN, Giovanni cit. , p. 82).

Io suggerisco un significato più ampio: «l giudei» si riferi­sce spesso alle autorità religiose, questo è certo, ma l' espres­sione include anche una più vasta classe di oppositori. I giudei costituiscono lo stereotipo di coloro che rifiutano Cristo e questo uso linguistico chiarisce questa strana categoria. La caratteristica specificamente etnica nel quarto Vangelo spari­sce. L'espressione non indica più un corpo di persone catalo­gato religiosamente, in quanto l ' evangelista l ' avrebbe utiliz­zata per indicare una figura tipica, non persone in particolare.

Permettetemi di proporre un' analogia. In tutti i romanzi d'avventura e nei gialli che parlano di investigatori privati , la polizia ufficiale gioca un ruolo molto importante. Essa è sempre piuttosto ottusa, lenta, impantanata nella burocrazia e solita­mente segue una falsa pista. Funge da contrasto mediante il quale l ' autore dimostra la bravura e l ' intelligenza dell ' inve­stigatore privato, il protagonista del romanzo. Possiamo dire che in questi romanzi la polizia è diventata uno stereotipo, senza personalità distintiva. L'autore è interessato a loro per un solo motivo, vale a dire in qualità di figure di contrasto con il protagonista. In questo genere letterario e mediatico c 'è una massiccia generalizzazione.

Questa analogia ci aiuta a comprendere quello che il quarto evangelista ha fatto con i giudei. Non c 'è alcun interesse per loro come persone. Spesso non ci sono distinzioni significati­ve fra essi (eccetto occasionalmente, quando alcuni sembrano credere in Gesù) . L' interesse nei loro confronti è limitato al ruolo che rivestono come stereotipi di incredulità.

Ci può aiutare a comprendere questa strana caratterizza­zione dei giudei il proporre due cause supplementari del perché i giudei sono presentati in questo modo nel quarto Vangelo. La prima è letteraria: i giudei costituiscono il contrasto letterario nei confronti del protagonista della storia, il rivelatore divino. Ogni racconto ha bisogno di un antagonista con il quale rappor-

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tare il protagonista del racconto. Nel nostro Vangelo i giudei hanno la sola funzione di dare all ' evangelista l 'occasione di dire certe cose su Cristo. Non dobbiamo concludere che l ' auto­re, o l ' autrice, avesse in mente una motivazione antisemita; non diciamo infatti che l ' autore di un romanzo giallo che tratta di un investigatore privato sia un rivoluzionario anti-istituzio­nale e contro la polizia. Non possiamo neppure accusare l' evan­gelista di essere antisemita: la presentazione dei personaggi è una strategia per raccontare una storia.

Ma perché sono stati scelti in particolare i giudei per questo ruolo sconveniente? Perché l ' autore non ha utilizzato qualche gruppo interno al giudaismo, come i farisei (come nel caso dei Vangeli sinottici)? La mia seconda motivazione è di tipo stori­co. Dobbiamo ricordarci alcuni accenni fatti nell ' Introduzione. Si ricordi che l ' evangelista sta scrivendo nel bel mezzo di una feroce disputa con la sinagoga, una di quelle che potevano anche aver generato episodi di violenza ogni tanto. Il proble­ma immediato per la comunità giovannea è l ' accusa solleva­ta contro di loro da quelli che prima erano fratelli e sorelle della sinagoga. Per questo motivo, il quarto evangelista sceglie l ' antagonista della storia proprio tra quelli presenti nel conte­sto originale dei lettori e presenta i giudei come stereotipi d' incredulità. È stata la pressiòne della situazione storica concre­ta che ha motivato questa scelta. Possiamo anche pensare che lo scrittore del Vangelo abbia antenati giudaici , o almeno che un gran numero (forse anche la maggioranza) di quelli che componevano la comunità cristiana fossero giudei. Il Vangelo non sta pronunciando un giudizio sul popolo giudaico nel suo insieme, ma implica che gli oppositori giudaici della chiesa in quel tempo e in quel luogo fossero esempi tipici del fallimen­to umano di accettare Cristo. Il Vangelo presenta questo genere di rifiuto con l 'espressione simbolica «i giudei», per quanto poco felice questo possa essere stato e sia per le generazioni future di lettori del Vangelo. Possiamo concludere che la presen­tazione dei giudei come simbolo di incredulità è stato un inciden­te della storia e anche uno dei più tragici in quanto tale !

Ne consegue che dobbiamo cogliere il significato religio­so dell' espressione «i giudei}} . Questa espressione simbolica è una parte del più vasto dualismo giovanneo. Le persone che

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non riescono a capire che in Cristo è presente l ' adempimento dell 'eredità della Bibbia ebraica, che si attaccano al proprio orgoglio, che non possono accettare l' autocomprensione presen­tata nella rivelazione di Dio in Cristo, sono quelle rappresen­tate nell 'espressione simbolica «i giudei» . Esse si pongono nel polo negativo dello schema dualistico come esempi tipici dell ' incredulità umana. L'espressione non indica un gruppo etnico, geografico, nazionale oppure religioso per quanto attie­ne allo stereotipo della reiezione. Ogni persona che rifiuta di accettare l 'identità umana presentata da Cristo nel Vangelo è per l 'evangelista un «giudeo» . Può essere che il polo positivo della coppia dualistica in questo caso sia «israelita)) . Un israe­lita è colui che accetta la rivelazione ( 1 ,3 1 ) .

Ma, allora, perché il Vangelo non è coerente nell 'uso dell 'e­spressione «i giudei))? Se si tratta di un'espressione stereoti­pata, utilizzata quando si voleva fare riferimento ai giudei, come possiamo spiegare i testi citati nella prima parte di questa sezione in cui la stessa espressione non viene utilizzata con questa accezione negativa? Questa domanda, in ultima anali­si, potrebbe non avere risposta, ma ci sono alcune possibilità. Una è che l 'evangelista non fosse uno scrittore così coerente come avremmo gradito. Ci sono dei lapsus nell 'uso stilistico dell ' espressione, dovuti forse alla mancanza di accuratezza proprio da parte dell ' autore. In questi casi lui, o lei, utilizza l ' espressione col solito significato descrittivo.

Una spiegazione migliore (e complementare alla prece­dente) è che questa mancanza di coerenza sia il risultato dell ' u­so di materiale tradizionale a disposizione dell' evangelista. La chiesa giovannea attingeva a narrazioni e detti che erano stati coltivati nella comunità precedente la separazione dalla sinago­ga. Nei giorni ormai passati , quando i cristiani erano ancora partecipanti ben accetti nella sinagoga, le narrazioni e i detti che riportavano l 'espressione «i giudei)) nel suo significato normale e positivo (per esempio 4,22) erano conservati e svilup­pati . Soltanto quando l ' evangelista mise insieme i materiali tradizionali e scrisse la prima stesura del Vangelo ricorse all ' u­so del simbolo stilistico «i giudei)) . Questo avvenne soltanto dopo che i cristiani erano stati espulsi dalla sinagoga e quando furono impegnati in una disputa molto accesa. Come abbiamo

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suggerito in precedenza, il metodo ordinario dell 'evangelista era quello di conservare i materiali tradizionali, spesso, forse, anche nella loro forma originale. Le narrazioni e i detti più antichi non fur!JnO sempre riveduti per renderli coerenti con la prospettiva generale del Vangelo e in particolare per quanto riguarda l ' utilizzo dell ' espressione «i giudei» . Piuttosto, il precedente significato dell 'espressione fu lasciato inalterato in alcuni punti. Ne risulta che l 'espressione è stata utilizzata in modo incoerente. Da un punto di vista moderno, il lavoro redazionale del nostro evangelista lascia molto a desiderare, mentre come «conservatore}} della tradizione della comunità non c ' era niente di meglio da fare .

Si deve pur dire, infine, che tutto questo non disinnesca definitivamente il pericoloso tono antisemita del Vangelo. Possiamo comprendere la raffigurazione dei giudei a partire da prospettive sia letterarie sia storiche, ma questo non mitiga il tono del Vangelo quando lo si legge oggi . I cristiani interes­sati al miglioramento dei rapporti con i loro fratelli e sorelle in fede ebrei devono rifiutare in modo definitivo il Vangelo di Giovanni su questo punto specifico. Essi devono confessare che questa caratteristica del Vangelo non rappresenta un atteg­giamento normativa divinamente ispirato. Il nostro Vangelo indomabile ha le sue debolezze insieme ai suoi molti punti di forza (per maggiori dettagli, vedi R. KYSAR, Anti-Semitism in the Gospel of John, in Fai t h and Polemic, a cura di Craig Evans e Donald Hagner, Minneapolis, Fortress Press, 1 993).

IL DETERMINISMO GIOVANNEO

Letture preparatorie: i seguenti testi sono fra quel l i in cui si dice qualcosa riguardante il passaggio dal l ' incredul ità al la fede. Si legga­

no con attenzione e ciascuno decida se il Vangelo insegni o meno una forma di determinismo. Questi testi ipotizzano che l ' evangel ista

pensasse che soltanto quel l i scelti da Dio potessero passare dal la vita

non autentica ad una esistenza autentica? Si faccia un elenco delle

caratteri stiche che sembrano sottolineare una forma di determinismo

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e di quelle che sembrano ipotizzare la libertà umana nei seguenti testi: 3 , 1 8 .2 1 . 33-36; 5 ,24; 6,35-40.44-47.65 ; 8 ,47; 10,3-5. 14.25-26; l l ,25-

26; 1 2,39-48; 1 7,2.9. 1 2.24; 1 8,37.

Come avviene il passaggio dal regno delle tenebre, dal • mondo e dai giudei al regno della verità, della luce, dell 'alto?

Come si passa da un'esistenza non autentica, basata sul presup­posto che le persone sono autonome e indipendenti, ad un'esi­stenza autentica, che riconosce la creaturalità e la dipendenza da Dio? Oppure, per porre il problema nel contesto di questo capitolo, come si sconfigge il male? Se esso è radicato in una falsa identità umana, come si può modificare tale identità? Che cosa controlla il passaggio fra i due diversi mondi del pensie­ro giovanneo?

Queste domande ci portano al concetto di fede espresso del quarto Vangelo e questo argomento sarà affrontato direttamente nel capitolo 3 . Per ora dobbiamo esaminare se è vero o meno che è principalmente la predeterminazione di Dio ad incidere sul destino delle persone, oppure il libero arbitrio dei singoli . È soltanto il libero arbitrio che provoca il male, oppure esso è in parte opera di Dio? Ancora una volta il quarto Vangelo non ci fornisce una risposta chiara. Ci sono dei testi che sembrano favorire la libertà umana e altri che suggeriscono la volontà dominante di Dio. Il nostro compito sarà quello di presentare i dati e quindi formulare alcune possibili conclusioni .

Nel Vangelo ci sono frequenti accenni a quello che assomi­glia ad un determinismo. Gesù nel quarto Vangelo parla spesso come se la volontà di Dio avesse determinato quelli che rispon­deranno alla rivelazione divina in Cristo. Dio dona a Cristo quelli che crederanno (6,39; 1 7 ,2.6.9. 1 2.24). Questo signifi­cherebbe che il primo passo nel movimento dal polo negativo a quello positivo del dualismo giovanneo è opera di Dio. Egli dona a Cristo quelli che sono scelti per credere. Talvolta Gesù dice che uno deve essere «attirato» da Dio perché creda (6,44). Forse che Dio attiri alcuni e non altri? Secondo 6,55, non è possibile credere a meno che non gli sia stato dato. Credere in Cristo e appropriarsi della vera identità umana non sono sempli­ci opere della volontà individuale. Alcune persone sono figlie di Dio e altre no. Quelli che ascoltano la verità e la abbrac-

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ciano sono quelli che «sono da Dio» (8,47) . Lo stesso concet­to viene espresso con una metafora: alcune sono pecore del buon Pastore e conoscono la sua voce, altre no (l 0,3 .26). Sembra addirittura che Dio renda impossibile il credere per alcune persone ( 1 2,37-40) . Alcuni sono resi sordi alla verità e ciechi alla falsità del loro modo di vivere (8,37).

Questo tipo di linguaggio è chiaramente messo a confron­to con una implicita libertà di credere o meno. Non abbiamo necessità di insistere troppo su questo tema, in quanto sembra evidente. In molti testi il credere sembra essere lasciato alla volontà del singolo. Per esempio, ci sono casi riguardanti l ' uso dei pronomi «tutti» , «chiunque» e «ogni» in rapporto al crede­re, che potrebbero suggerire un invito appunto a credere (3, 1 6.20-2 1 .33 .36; 4, 1 3 ; 6,45.47.67-69; 1 2,32 e forse anche 3,8) . In alcuni passaggi la fede è richiesta ( l :Ì,36; 1 4, 1 1 ). I commenti dell ' autore del racconto, così come alcune affermazioni di Gesù, sembrano suggerire la libertà di credere o meno ( 1 9,35 ; 20, 3 1 ) . L' invito, l 'ordine di credere e la testimonianza di altri incaricati di chiamare alla fede, tutto questo implica che ciascu­no è responsabile per la sua fede o per la sua incredulità. Come si può accettare, come si può obbedire, o come si può porre fede nella rivelazione a meno che non si abbia per natura la capacità di scegliere liberamente? Un insegnante non offrirà ad una classe di studenti la possibilità di scegliere fra lo svolge­re una piccola ricerca o una serie di resoconti di libri se ha già deciso che a tutti gli studenti maschi viene richiesta una ricer­ca e a tutte le studentesse il resoconto di un libro. La realtà della libertà umana sembra chiaramente fare da sfondo a gran parte del Vangelo.

Abbiamo qui una delle più sorprendenti contraddizioni di questo enigmatico Vangelo. Come la risolveremo? Ancora una volta, esaminiamo le varie possibilità.

Innanzi tutto, si potrebbe ritenere che una serie di testi debba essere letta alla luce degli altri, oppure i testi che evidenziano la libertà devono esseri presi come insegnamento dominante del Vangelo e limitati soltanto da quelli di tipo deterministico, o viceversa. Così , il concetto espresso dal Vangelo potrebbe essere che tutte le persone sono scelte da Dio per giungere alla fede. Tutte sono date al Figlio, tutte sono attirate da Dio, a tutte

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viene data la capacità di credere. Allora diventa un problema di libertà individuale se scegliere di accettare o rifiutare la facoltà donata da Dio di credere. Questo è un modo popolare e possibile di comprendere il Vangelo. L'approccio opposto sostiene che i testi concernenti il determinismo costituiscano il motivo dominante della concezione d eli ' evangelista: soltan­to a coloro che sono scelti da Dio viene data la capacità di credere. Gli altri sono messi da parte per decisione divina. Per quanto questa decisione sia meno popolare, è sostenibile.

Il gusto giovanneo spesso sembra suggerire che tutte le persone siano divise in due gruppi : alcune di queste hanno origine e destino celeste, altre no (per esempio vedi le espres­sioni che alcuni non sono «da Dio» come in 8,47). Percorrendo questa via, i cristiani gnostici del II secolo hanno utilizzato il quarto Vangelo per fondare la loro visione: soltanto pochi eletti hanno il dono di udire e rispondere alla rivelazione della verità.

Per quel che riguarda la seconda possibilità, forse il Vangelo presenta deliberatamente una contraddizione a questo propo­sito. Probabilmente intende dire che esiste una dimensione paradossale che appartiene alla fede religiosa. Mentre la scelta umana sembra avere un ruolo nell ' accogliere la verità, l ' argo­mento non è poi semplice come sembra. Dio ha un ruolo n eli' o­rigine della fede religiosa; una persona non arriva a credere se questo dono non gli viene elargito divinamente. Il quarto evange­lista, ammesso che questa sia la sua (di lui o di lei) posizione, non cerca di risolvere il rapporto fra queste due affermazioni. L'autore non è, come potrebbe esserlo un teologo moderno, alla ricerca di un'esposizione logica sul come siano intreccia­ti il determinismo divino e la libertà umana per produrre la fede. Le due affermazioni sono lasciate l 'una accanto all ' altra nel Vangelo, senza alcuna spiegazione (alimentando la frustra­zione degli interpreti posteriori, come noi). L'evangelista potreb­be voler dire che esiste un mistero sull'origine della fede: il motivo per cui alcune persone giungono alla fede e altre no è sfuggente.

Gli psicologi della religione analizzano questo enigma e offrono le loro teorie, ma il mistero rimane. Forse voi avete conosciuto una famiglia in cui alcuni dei figli hanno sviluppa­to una genuina fede religiosa, seguendo l 'esempio dei loro

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genitori , mentre un altro si è rifiutato di credere. Questi è, dal punto di vista religioso, un estraneo alla famiglia. Perché? Forse i dati psicologici e sociologici, fors' anche fisiologici , possono aiutare a capire una tale situazione, ma nessuna teoria sembra convincente o sicura. Il quarto evangelista potrebbe aver conosciu­to proprio una situazione di questo genere nella chiesa giovan­nea. Quello che intende esprimere con il contraddittorio linguag­gio deterministico e decisionale è che vi è un mistero nella capacità umana di giungere alla fede. Se questa è allora la spiega­zione della sconcertante presenza dei motivi contrapposti nel documento evangelico, allora dobbiamo dar credito all' evan­gelista di essere sensibile ad un mistero specificamente religio­so e di essere sufficientemente onesto da non pretendere di fornire una compiaciuta risposta al problema.

Questa ambiguità ci costringe a prendere in considerazio­ne una terza possibili tà, impopolare e non attraente per la maggioranza dei lettori . Si tratta del fatto che il documento potrebbe essere il prodotto di una persona che più semplice­mente non era abbastanza preparata dal punto di vista teolo­gico da notare le contraddizioni nella sua opera. Non c 'era consapevolezza che le due serie di testi ponevano un proble­ma logico, ma soltanto un' ingenua mancanza di sensibilità sulle loro implicazioni . Se le cose stessero così , l ' autore avreb­be prodotto qualcosa come una tesi di ricerca in cui il profes­sore individua un' evidente contraddizione che ha completa­mente messo fuori strada lo studente. Fra questa possibilità per la comprensione del Vangelo e la seconda presentata, siamo nuovamente al bivio: o il quarto evangelista era un teologo molto profondo oppure molto ingenuo !

Infine, ci rifacciamo a uno dei terni favoriti in questo volume: il fatto che il Vangelo riporta, l 'una accanto all' altra, sia le convinzioni proprie dell ' autore, sia quelle della tradizione della comunità giovannea. Ancora una volta la posizione dell ' auto­re e il materiale proveniente dalla tradizione non sono stati amalgamati. Le tradizioni sono state onorate per quanto riguar­da il loro punto di vista, ma in modo tale da veicolare le posizio­ni dell 'evangelista che le aveva conservate. C'è ora il pericolo che questo genere di distinzione fra tradizione e pensiero proprio dell' evangelista possa diventare una soluzione troppo facile da

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proporre per ogni contraddizione che incontriamo nel corso del Vangelo. Dobbiamo stare attenti a non utilizzare questa soluzio­ne ad ogni difficoltà. Eppure, se l ' orientamento della nostra sintesi del pensiero giovanneo fosse corretta, tale risposta rimar­rebbe solo una possibilità. Voglio )asciarla così : come una sempli­ce eventualità. Questo perché non sono pronto a sostenere fino in fondo la possibilità che una serie di testi che abbiamo incon­trato siano il risultato di materiale tradizionale e che un' altra costituisca il punto di vista dell 'evangelista.

Vorrei però portare ali ' attenzione del lettore una domanda. Non potrebbe essere che il materiale tradizionale che l 'evan­gelista ha utilizzato abbia avuto origine in un periodo in cui i cristiani erano molto ottimisti circa la possibilità di convertire le persone alla loro fede? Se le cose stessero così , questo materia­le non potrebbe aver sottolineato il concetto che tutto quello che si deve fare è decidere di prendere la via per la fede? Al tempo in cui l ' evangelista scriveva, il lavoro missionario della chiesa aveva incontrato giorni difficili : c ' erano sempre meno persone desiderose di accettare gli insegnamenti della chiesa. In particolare fra i giudei, là dove gli sforzi missionari dei cristia­ni avevano avuto i migliori risultati all ' epoca in cui il materia­le tradizionale aveva visto la luce, c 'erano inesorabilmente sempre meno convertiti . Così, i cristiani giovannei erano diven­tati un po' più titubanti . La loro esperienza li aveva portati a pensare che occorresse più di un atto di volontà affinché una persona giungesse alla fede: occorreva uno specifico dono divino, ovvero serviva che la persona fosse «attirata)) a Cristo. Il nostro evangelista non è così audace da tentare una spiega­zione del rapporto fra l ' attrazione divina e la libertà umana. L'autore, lui o lei, sta semplicemente sostenendo che sembra essere coinvolto molto più delle reminiscenze dei «bei tempi andati)) dei nostri padri e delle nostre madri quando vi fu una rapida espansione della chiesa. Non è così semplice come dire : «Credi, se vuoi b) . C'è un significato nel fatto che qualcuno non crederà mai e Dio deve aver qualcosa da dire su questo.

Se quest'ultima prospettiva fosse quella giusta (e noi vedia­mo che ha molte affinità con alcuni elementi delle altre alter­native), l ' evangelista sarebbe del tutto comprensibile. Possiamo immaginare che nella situazione della chiesa si fosse verifica-

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to questo tipo di cambiamento. Inoltre, è facile per noi compren­dere come i cristiani della comunità giovannea possano aver risposto a ciò nel modo in cui lo hanno fatto. Negli anni Sessanta, fra le proteste contro la guerra nel Vietnam, in America è avvenu­to un cambiamento simile fra coloro che protestavano contro il conflitto. Ali ' inizio c'era l ' idea che ogni persona sana, se solo ci avesse pensato un momento, avrebbe visto l ' insensatezza e l ' immoralità della guerra. Poi, con il passare degli anni e con i capi della protesta che diventavano più anziani, gli oppositori persero l 'ottimismo. Si resero conto che per molte persone, nella loro decisione pro o contro la guerra, c ' era molto di più in gioco. Fattori economici, caratteristiche psicologiche e affilia­zioni sociali influivano sulla decisione di voler sostenere od opporsi all ' impegno militare degli Stati Uniti in Vietnam. Gli oppositori divennero meno ottimisti sul numero di sostenitori che la loro causa avrebbe convinto, ma nello stesso tempo diven­nero più realistici e più astuti nella loro analisi degli esseri umani. Questo potrebbe essere stato il caso della comunità giovannea. Anch' essi divennero meno ottimisti sulla libertà delle persone di credere nella rivelazione che essi avevano trova­to in Cristo, ma divennero anche più profondi nella loro compren­sione della psicologia dell' esperienza religiosa e, naturalmen­te, la loro sola spiegazione fu di parlare de li' esitazione nel crede­re nei termini dell ' azione di Dio fra le persone.

Quale che sia l 'origine dell' insegnamento del Vangelo, ci lascia con una visione paradossale sull ' origine della fede. Da una parte insiste sul fatto che nessuno può vantarsi di essere giunto alla fede. Non ci si può vantare dicendo «ho deciso di avere fede», perché la fede è sempre, almeno in larga parte, un dono di Dio. Dali ' altra, il Vangelo ribadisce di ritenere gli uomini responsabili della loro incredulità. Non ci si può gloriare della propria fede, ma non si può neanche essere scusati per la propria mancanza di fede; siamo lasciati a valutare il paradosso !

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CONCLUSIONE

Può sembrare che siamo andati fuori strada rispetto all ' o­biettivo originale che riguardava la spiegazione del male e del dualismo giovanneo, ma le cose non stanno così . Abbiamo preso le mosse dal problema iniziale della causa del male fino alla sua soluzione giovannea nel dualismo umano, poi siamo passati al problema della libertà contrapposta al determinismo. Una tale apertura di problemi è necessaria per tracciare le linee fondamentali del pensiero del quarto Vangelo. A partire dali ' in­sistenza della comunità su due differenti mondi di autocom­prensione umana, essi devono essere stati condotti , così come lo siamo stati noi, al problema di come si viene portati ad abban­donare lo stile di vita che produce il male e scegliere la posizio­ne opposta. Non potevano accettare a lungo il loro dualismo senza chiedersi se fosse superabile. Se è possibile muoversi dal polo negativo verso quello positivo, come può avvenire questo cambiamento? Soltanto per una decisione umana oppure mediante un' azione persuasiva di Dio?

Ho sostenuto che per il quarto evangelista il male ha radici negli esseri umani. Più in particolare, esso è radicato in uno specifico aspetto della vita umana, ovvero, l ' identità. Quando le persone pensano a se stesse come a esseri che non dipen­dono da un creatore per la loro esistenza, l ' intera esistenza è sbilanciata. A motivo di questa errata costruzione del sé, l ' inte­ra creazione è distorta, con il risultato che il male è dominan­te . Ci sono due strade di fronte alle persone : la via del male con la sua pretesa di indipendenza, oppure la via della verità con il riconoscimento della dipendenza da Dio. Queste sono polarità contrapposte e costituiscono due mondi completa­mente differenti . Vengono descritti nel Vangelo sia in termini di dualismo umano sia di dualismo cosmico ma l ' ultimo, proba­bilmente, è soltanto un modo di sottolineare la grande portata del precedente. ll quarto evangelista utilizza una vasta gamma di simboli per descrivere questi due mondi. Tuttavia, ritiene che il passaggio da uno ali ' altro non sia un semplice proces­so che dipende esclusivamente dalla scelta umana.

Qui un'osservazione di natura sociologica è appropriata. La risposta dualistica alla realtà del male insegnata dal quarto

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Vangelo ha le sue radici nella situazione sociale della comunità giovannea. La chiesa ha vissuto una dislocazione sociale. Questi cristiani sono stati espulsi dalla loro casa d' origine, dalla sinago­ga a fianco dei loro compagni giudei e questa situazione è stata vissuta come un trauma sociale. Le loro radici sono state taglia­te, sono stati buttati fuori nel mondo, spogliati del loro rappor­to sociale con i giudei. All ' improvviso essi non hanno più né casa né identità, sono alieni nella città in cui sono abituati a vi vere come membri della sinagoga. Subiscono un trauma simile a quello patito dai rifugiati dei nostri giorni che vengono nei paesi del Primo mondo per sfuggire alle condizioni insoppor­tabili della loro patria. Il loro intero orientamento sociale è distrutto. Il risultato nella comunità giovannea è forse quella tendenza naturale a rinchiudersi in se stessi: hanno costruito la loro comunità e l ' identità di gruppo, hanno sviluppato un sotto­gruppo che guarda agli altri con sospetto come ad un estraneo. Hanno agito così sia come sforzo per ricostruirsi una identità sociale, creare una nuova casa per se stessi nella loro città, sia per difendersi contro l ' assalto violento dei loro oppositori . Un gruppo attaccato dali' esterno tende sempre a rinchiudersi in se stesso e cementare la sua unità per trovare la propria identità (vedi il provocante saggio di W. MEEKS, The Manfrom Haeven in Johannine Sectarianism, in The Interpretation of fohn, a cura di John Ashton, Filadelfia, Fortress Press, 1 986, pp. 1 4 1 - 1 73).

Uno dei risultati di questo nuovo orientamento sociale è che si sviluppò una visione dualistica del mondo. La separa­zione fra «noi» e «loro» viene naturale. Insieme a questa nasce anche una tendenza a pensare se stessi come nati dall ' alto, come la verità, come la luce in un mondo di tenebre e cose simili. Similmente, essi ritengono che gli altri, oppositori loro e della loro fede, siano come dal basso, siano il mondo, siano le tenebre, siano «i giudei» . Il pensiero dualistico soddisfa sia una necessità teologica, sia una necessità sociologica. Quelli che non stanno dalla nostra parte non sono soltanto confusi nei riguardi della la vita, sono ciechi alla verità. Essi non crede­ranno, come invece facciamo noi , anche perché non hanno sperimentato l ' attrazione divina che invece a noi è stata data.

Esiste una tendenza immediata a giudicare un tale svilup­po del pensiero in maniera autogiustificante. Niente fa ammat-

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tire più di un gruppo di persone che crede di possedere la verità e che quelli al di fuori del gruppo siano perduti, senza speran­za. Tuttavia, con un piccolo sforzo possiamo comprendere perché la comunità giovannea ragioni in questo modo. Possiamo immaginare che noi avremmo fatto le stesse cose se ci fossi­mo trovati nei loro panni: minacciati dagli oppositori , social­mente distrutti e ancora sulla via della maturazione teologica, è comprensibile che abbiano trovato attraente una distinzione dualistica fra «noi» e «loro». Il quarto Vangelo offre alla comunità qualcosa per comprendere quanto sta loro avvenen­do. I suoi simboli offrono sollievo e nuovo orientamento. Il suo insegnamento mette loro a disposizione uno schema per una nuova e più chiara identità. La sua visione del male raffor­za i cristiani offrendo loro un modo per interpretare la loro condizione. Che cosa ha mai fatto di più una fede religiosa?

Ancora un concetto finale riguardante la presentazione sociologica del pensiero del quarto evangelista: la teologia (o il pensiero religioso) non è mai semplicemente un esercizio mentale. Essa è sempre radicata nella situazione sociale dei credenti . Noi siamo animali sociali ; quando la nostra situa­zione cambia radicalmente, di solito modifichiamo nello stesso senso la nostra prospetti va religiosa. Il quarto evangelista e la comunità giovannea non fanno eccezione a questa regola: i l dualismo presente nel Vangelo è il risultato di riflessioni teolo­giche alle prese con crisi di tipo sociale e religioso.

La spiegazione della realtà del male accettata dal quarto evangelista può essere o meno adeguata. Ci può colpire come sommamente utile nel trattare con gli aspetti indesiderabili della vita, oppure può apparire come una tesi interessante di un'epoca ormai passata e che non è più rilevante. Dovrebbe essere evidente a tutti , però, che l 'evangelista ha affrontato un grande argomento e che la tesi riguardante il male è soltanto una parte della più completa comprensione del significato di Cristo da parte dell ' autore. È utile ricordare che comunque si affronti l ' argomento, può rappresentare per noi il contesto della tragedia e delle perplessità della vita in cui ascoltiamo la testi­monianza della Bibbia a Cristo. I due di versi mondi del Vangelo di Giovanni sono un ardito sforzo per comprendere un antico problema che continua a sconvolgerei.

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Abbiamo riscontrato che il dualismo giovanneo sfocia in un altro argomento di pari importanza: la natura e l 'origine della fede religiosa. È a questo argomento che dobbiamo rivol­gerei, ed è giusto, in quanto la risposta religiosa alla realtà del male ruota sempre attorno al dato di fede. Qualunque cosa una religione insegni sul come affrontare il problema del male, essa ci ricorda sempre che il suo insegnamento dipende da una prospettiva di fede. A ciascuno di noi viene richiesto di crede­re che il male sia un' illusione, o di credere che sia radicato in un essere cosmico opposto a Dio, oppure di credere che appar­tenga semplicemente al ritmo della natura, ma ci viene sempre richiesto di credere. Come si arriva a credere? Che cosa dà origine alla fede? E che cosa significa, dopo tutto, la fede?

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VEDERE È CREDERE: LA CONCEZIONE GIOVANNEA DELLA FEDE

Il vecchio slogan «vedere è credere» porta in sé un' idea realistica: la nostra fede deve avere una qualche base nell ' e­sperienza. Normalmente crediamo sulla base di alcune esperien­ze che danno ragione e motivazioni alla fede. Se qualcuno afferma un punto di vista che sembra essere discutibile, noi naturalmente chiediamo alcune motivazioni per credere che si tratti di qualcosa di vero anziché di falso.

Talvolta sembra che le affermazioni suscettibili di indagi­ne scientifica siano più facilmente analizzabili . Quando le persone del l ' ambito scientifico proclamano che le loro idee sono vere, presentano i risultati degli esperimenti che si suppo­ne dimostrino la veridicità della loro pretesa. Analogamente, avendo a che fare con bisogni quotidiani, spesso esigiamo alcune prove tangibili prima di credere : «La sedia ti sosterrà. Guarda. Mi ci siederò sopra» . La nostra esperienza ci mette in grado di credere, o ce lo impedisce. Guardo in televisione la pubblicità che annuncia che una nuova macchina percorre molti chilometri con un litro di benzina, ma l ' automobile che ho appena comprato non ottiene affatto quei risultati . La mia esperienza mi rende impossibile accettare l ' annuncio fatto dalla pubblicità.

In modo simile, le affermazioni teologiche richiedono una base nell ' esperienza. Le religioni tradizionalmente rivolgono il loro appello alla fede con l ' annuncio che l ' esperienza offre prove di un qualche tipo a loro supporto. L'esperienza di cui si parla, naturalmente, è considerata ben di versa da quella che normalmente si osserva o si misura nelle procedure scientifi­che. Le religioni ritengono che un'esperienza personale, sogget­ti va, confermi le loro idee ed argomenti . Avete ascoltato le

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testimonianze che le varie religioni propongono. Pace della mente, soddisfazione, serenità e arricchimento sono spesso considerate le basi della fede. U buddista zen parla della grande pace e dell ' intuizione che riesce a penetrare nell 'esperienza come risultato dell ' illuminazione (satori) . Christian Science testimonia di una gioiosa serenità e liberazione da sofferenze fisiche e mentali come risultato dell' adesione agli insegna­menti di Mary Baker Eddy. I confuciani presentano il loro punto di vista in base al modo in cui la totalità della vita acqui­sta significato supremo come risultato della pratica della loro etica. Alcune forme più primitive di religione parlano di esperien­ze piene di successo nella coltivazione, d eli ' assenza di tempo­rali e della presenza benedetta di figli nelle loro famiglie come prova del fatto che le cerimonie religiose sono state efficaci. Nei secoli precedenti i calvinisti , così si dice talvolta, ritene­vano che la verità delle loro dottrine potesse essere confermata dal fatto che i cosiddetti eletti vivevano nella prosperità e nella ricchezza. Di quale tipo di esperienza più persuasiva si ha bisogno per abbracciare la fede? Di recente, in alcuni circoli, le posizioni cristiane sono state presentate come valide in quanto portano ali ' esperienza del successo. In questi ultimi tempi sentiamo dire che il cristianesimo porta serenità di mente, successo negli affari e nei rapporti sociali e familiari .

Le conversioni sono spesso il risultato di alcune esperien­ze emotive profonde. John Wesley, il «fondatore}} della chiesa metodista nel XVIII secolo, parlava della sua esperienza di avere il cuore «stranamente riscaldato». Oggi sentiamo posizio­ni che ritengono di avere la «prova}} sperimentale del fatto che preghiera e fede guariscono. Come risultato delle loro creden­ze, essi dicono, le loro vite sono più ricche, piene di signifi­cato e i loro rapporti umani più profondi .

In generale, allora, le religioni affermano che esiste un rapporto positivo tra fede ed esperienza. La fede nasce da un'esperienza o dalla ricerca di questa. Il consolidamento dipen­de dal l 'esperienza attuale di vivere la vita da una particolare prospetti va. Il famoso e intrigante romanzo di Hermann H esse, Siddharta, è la storia di un uomo alla ricerca di una fede che fosse sostenuta dalla sua esperienza personale. Una religione non può, di solito, avanzare alcuna pretesa sul fatto che la sua

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posizione sia provata o verificata scientificamente, ciò nonostan­te può affermare che l ' esperienza porta in una direzione tale da indicare la validità della sua proposta.

Il rapporto tra fede ed esperienza nella religione è però spesso piuttosto complesso. Di frequente si è osservato che viene richiesta fede prima che troviamo nella nostra esperien­za gli elementi che la sostengano. In altre parole, la fede è resa credibile dall ' esperienza, ma prima che possiamo compren­dere la nostra esperienza in modo che essa sostenga la fede, dobbiamo averne. Si potrebbe dire che la natura propria della fede sia la volontà di fidarsi di certe affermazioni sulla verità, in attesa che l' esperienza le verifichi. Per dirlo in altre parole, le persone devono avere sufficiente fede da pregare almeno una volta prima che abbiano quell ' esperienza che le assicuri del fatto che la loro fede è ben fondata. Potremmo allora dire che in ambito religioso esiste una fede che precede e una che si fonda sull ' esperienza: una anticipa l ' esperienza della confer­ma e una deriva da essa. Il rapporto tra fede ed esperienza in ogni religione, specialmente nel cristianesimo, è difficile da definire.

Questa difficoltà di definizione non si perde nel Nuovo Testamento. In ogni sua pagina ci imbattiamo nella ricerca del rapporto fra questi due termini. Le lettere di Paolo riflettono le sue esperienze personali e il loro rapporto con la sua fede sempre più matura. In nessun altro punto del Nuovo Testamento, credo, troviamo un' analisi attenta e complessa del rapporto fra fede e esperienza come quella presente nel quarto Vangelo. Questo documento evangelico sembra particolarmente interes­sato al problema di come si sia in grado di confessare Cristo senza esperienza e quale sia appropriata per una fedele accet­tazione della rivelazione. Nel capitolo 2 abbiamo visto che l 'evangelista ha analizzato la complessità del rapporto fra libera scelta e azione divina nella nascita della fede. Questa audacia nel prendere di petto problemi di grande rilevanza ha seguito nel quarto Vangelo, in quanto siamo testimoni del fatto che l ' evangelista si impegna nell ' argomento fede e conoscenza. I l compito è reso arduo dalla situazione condi vi sa con la maggior parte degli altri scrittori del N uovo Testamento: la prima genera­zione cristiana aveva chiaramente un' esperienza immediata o

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molto ravvicinata di Gesù di Nazareth. I primi cristiani erano convinti dall 'esperienza che nei Vangeli viene rappresentata come l ' apparizione del Gesù risorto. Questo va tutto molto bene, ma che fare con le generazioni successive? Quale esperien­za le avrebbe portate alla fede? Non è forse il caso di dire che le prime generazioni cristiane siano state in una posizione di privilegio e nessuno dei loro successori abbia speranza di una fede basata su tale esperienza? I cristiani, dopo questo primo gruppo, non sono forse condannati a edificare la loro fede su di un'esperienza di seconda mano? Nel contesto di tali doman­de l ' evangelista affronta questo tema. Scrivendo forse una cinquantina d' anni dopo la fine del ministero terreno di Gesù, l ' autore del Vangelo di Giovanni deve cercare di comprende­re come siano correlate l 'esperienza e la fede.

La nostra presentazione tratterà una serie di temi collate­rali :

l . i «segni» come provocatori di fede;

2. vedere e ascoltare come percezione di fede;

3 . conoscere e credere;

4. sintesi sui modi di vedere la fede nel quarto Vangelo.

l «SEGNI» COME PROVOCATORI DI FEDE

Letture preparatorie: si studino i testi sotto elencati e si cerchi di rispondere alle domande: che cosa intende il quarto Vangelo con la parola «segno»? Qual è il ruolo dei segni nel dare inizio e nel far maturare la fede in Cristo? 2, 1 - 1 1 . 1 8-25 ; 4,46-54; 5 , 1 -9 ; 6, 1 -28; 9, 1 -

1 2; 1 1 , 1 -46; 1 2,37-4 1 ; 20,30-3 1 ; 2 1 , 1 - 14. Si legga anche il raccon­to riguardante Tommaso in 20,24-29.

«Segno» ( semeion) è la parola che il quarto Vangelo utiliz­za per indicare i miracoli di Gesù (vedi l ' Introduzione). Per chi è abituato ai Vangeli sinottici, si tratta di un uso sorpren­dente di tale parola. Quando questi Vangeli la utilizzano in rapporto alle azioni straordinarie di Gesù, si tratta spesso di

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un'espressione con connotazioni negative. A Gesù viene richie­sto di fare un segno per convincere i dubbiosi della sua identità ed egli li rimprovera per la richiesta (Mt. 1 6, 1 -4; Mc. 8, 1 1 - 1 3 ; 1 2,38-42; Le. 1 1 , 1 6- 1 7.29-32). L' interesse nel vedere u n segno come base per la fede viene condannata come un'espressione di sfiducia e di sospetto. È strano, allora, che il nostro Vangelo la utilizzi in tennini positivi. Gli Atti degli apostoli, tuttavia, forniscono un parallelo neotestamentario per l ' uso giovanneo del tennine. Atti ci ricorda che Pietro parlava di «opere poten­ti , prodigi e segni» di Gesù (A t. 2,22) e che gli apostoli opera­vano «grandi prodigi e segni}} (At. 6,8) che incutevano sacro timore ai presenti . Il segno nel Vangelo di Giovanni, però, ha un significato più specifico. Possiamo definire in via provvi­soria il significato giovanneo del segno come un 'azione di Gesù che mette a disposizione della testimonianza un 'oppor­tunità per comprendere la sua vera identità. In realtà, questa definizione è una forte semplificazione del significato della parola in questo Vangelo e del suo rapporto con la fede.

Quelli che il quarto Vangelo chiama i segni compiuti da Gesù sembra svolgano un ruolo ambiguo in rapporto al crede­re nella rivelazione offerta da Cristo. Come per quasi tutti i temi affrontati nella nostra analisi, questo Vangelo non propo­ne risposte facili. La situazione non è diversa nel caso del rapporto tra l 'esperienza dei segni e la fede in Cristo.

Questi sono opere di Dio, azioni meravigliose o espressio­ni di potenza che producono fede. Questo è vero per ciascuno dei sette o otto segni principali operati da Cristo nel Vangelo:

l. trasfonnazione dell ' acqua in vino (2, 1 - 1 1 ) ;

2 . guarigione del figlio di u n ufficiale reale ( 4,46-54 ) ;

3 . guarigione dell 'uomo paralizzato da trentotto anni (5 , 1 -9);

4. moltiplicazione dei pani ( 6, 1 - 1 4 ) ;

5 . Gesù cammina sul mare (6, 1 5-25) ;

6. guarigione del cieco nato (9, 1 -8) ;

7. risurrezione di Lazzaro ( 1 1 , 1 -46) ;

8. la pesca miracolosa (2 1 , 1 - 1 4 ) .

Questi avvenimenti sono narrati in modo tale da far pensa-

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re che conducano alla fede. Della trasformazione dell' acqua in vino viene detto: «Gesù fece questo primo dei suoi segni miraco­losi in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria, e i suoi disce­poli credettero in lui}} (2, 1 1 ) . I segni producono una diffusa fede in Cristo, così ci viene detto in 2,23. Inoltre, l 'evangelista confes­sa in 20,30-3 1 che egli ha narrato soltanto alcuni dei molti segni che Gesù fece così da chiamare alla fede i lettori.

L' implicazione di ciò è che questi segni sono presentati come prova del fatto che Gesù è realmente il Messia (per esempio 2, 1 8) . Costituiscono le sue credenziali , appunto, e legittimano la sua pretesa. È una situazione simile a quella di una persona che aspira al dottorato, alla quale viene richiesto di legittimare il proprio status, la propria pretesa, con una dissertazione scientifica. Così anche al Messia viene richiesto di dimostrare la sua identità facendo segni miracolosi . Questa era, naturalmente, un'attesa giudaica comune nel corso del primo secolo.

Tuttavia, l ' evangelista sembra tracciare una linea tra la fede in Gesù dovuta alle azioni miracolose e al «vedere i segni}} . Che cosa ne facciamo di 6,26? Dopo aver fatto mangiare la folla, Gesù la incontra di nuovo e dice: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni miracolosi, ma perché avete mangia­to dei pani e siete stati saziati}} (il corsivo è mio). Sembra che l ' evangelista voglia dire che andare alla ricerca di Gesù nella speranza di ricavare qualcosa da mangiare, o di approfittarne in qualche modo fisico o materiale, non è come seguirlo poiché si sono visti i segni che ha operato. Seguire Gesù semplice­mente in funzione dei suoi doni o benefici non è sufficiente (assomiglia molto al seguire un milionario e aspettarsi di riceve­re un biglietto da cinque dollari). Fare ciò non è indicativo dell ' aver colto veramente l ' identità di Cristo che si esprime nel segno. «Vedere il segno}} coinvolge qualcosa di più del ricavare un beneficio da parte di chi può soddisfare i vostri bisogni.

Che cosa si intende allora con «vedere i segnh}? Questa domanda ci porta all ' inizio della nostra storia. Per ora sembra che il vedere le azioni miracolose di Gesù sia molto più che avere una percezione visiva di quello che egli opera e del benefi­ciare di tale azione. Si tratta di un' intuizione sull ' identità di

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colui che opera il segno, che fa comprendere che questa perso­na è molto più di un operatore di miracoli . Egli è il Cristo, il rivelatore celeste, il Figlio unico del Padre. Quindi l ' evange­lista ha proposto due livelli di sperimentazione dei segni : una comprensione di Gesù come colui che soddisfa i bisogni fisici umani e un'altra che lo identifica come il rivelatore divino.

In tutti questi casi i segni sono trattati in modo molto positi­vo. Anche nell ' ultimo citato, in cui si esprime una riserva sul seguire Gesù semplicemente per trarre dei benefici dalla sua azione miracolosa, i segni sono comunque considerati come mezzi positivi per far nascere la fede nelle persone. Altrove il quarto Vangelo ha molte riserve più serie sull ' efficacia dei segni nel produrre una fede genuina. Li presenta in modo positi­vo nei testi che abbiamo appena esaminato, ma negativamen­te in altri . Innanzitutto il Vangelo riconosce che i segni non fanno sempre sorgere la fede. Sembrano non avere il potere di far scaturire la fede in alcuni che pure ne fanno esperienza ( 1 2,37) .

Questo non è il problema principale, il Vangelo continua. Presenta Gesù che parla in modo tale da gettare dubbi su ogni fede basata sull 'esperienza dei segni . Si rilegga ancora una volta l ' episodio della guarigione del figlio del l 'ufficiale reale (4,46-53) . Gesù ha operato la guarigione, ma soltanto dopo essersi lamentato di una fede basata sui segni o su azioni miraco­lose. Il versetto 48 di questo episodio è forse un dolce rabbuffo all ' eccessiva dipendenza dai segni pensati come base per la propria fede? Oppure è il rifiuto totale di ogni fede fondata sui segni? Gesù sta forse dicendo che se è basata su azioni miraco­lose la fede non ha alcun valore? Oppure ancora (ed ecco la terza alternativa) da queste parole siamo chiamati a conclude­re che la fede basata sui segni è inferiore a quella che non li richiede? Questo è un versetto chiave nella nostra analisi del rapporto tra fede ed esperienza per quanto riguarda i segni . Molto di ciò che può essere detto su questo argomento dipen­de dalla nostra comprensione delle parole del versetto 48.

Ci sono alcune posizioni che possono essere e sono state prese. La prima dice che la fede basata sui segni è legittima, matura, nella misura in cui non si limita ad essere soddisfa­zione di autoricerca (come si evince da 6,26) . Il testo di 4,48

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non è altro che una prova della fede dell 'ufficiale reale. Questi esprime la sua continua fiducia in Gesù nel versetto 49. È simile all ' episodio della guarigione della figlia della donna cananea in Matteo 1 5 ,2 1 -28. Là Gesù rimprovera la donna in risposta alla sua richiesta di guarigione; la replica di quest'ultima mette in evidenza una fede profonda a tal punto che Gesù opera immediatamente la guarigione. Il rimprovero non significa disprezzo della richiesta dell ' azione miracolosa, ma costitui­sce una prova dell ' intensità della fede con cui la richiesta è fatta.

Le altre alternative sono di diverso genere. Ritengono che questa prima opzione non tenga conto del fatto che nel Vangelo si accenna ad una riserva ancor maggiore sul ruolo dei segni . I tre modi di leggere il Vangelo che seguono suggeriscono che il quarto evangelista volesse rivedere un'impostazione non corretta della comprensione dei segni.

Vediamo la prima: alcuni dicono che il quarto evangelista volesse rifiutare del tutto la fede basata sui segni. La fonte che potrebbe aver utilizzato nella composizione del suo Vangelo (per questo vedi l ' Introduzione), questa è la proposta, conte­neva una teologia molto semplice sul rapporto tra segni e fede. Secondo questa fonte scritta, i segni sono azioni miracolose che provocano una fede genuina e adeguata. L'evangelista utilizza tale fonte, ma cerca di correggerla in corso d'opera. Una fede basata sui segni non è affatto tale, ritiene il Vangelo: si tratta di soddisfazione di auto ricerca. Quindi 6,26 costituisce il commen­to dell 'evangelista su questa pseudofede costruita sui segni e 4,48 costituisce il rifiuto totale di tale ricerca di segni. Se le cose stessero così, ci troveremmo ancora una volta nella situa­zione in cui l 'evangelista si riallaccia alla tradizione della comunità (in questo caso alla cosiddetta fonte dei segni) ma ha cercato di correggerla. Il suo punto di vista sembrerebbe quello indicato in 20,29, dove il testo raccomanda il tipo di fede che si sviluppa senza dipendere dall'esperienza dei segni.

Vediamo ora la seconda posizione: quella appena indicata è un po' radicale, infatti cerca di ricavare una grande conclu­sione dai pochi dati presenti nel Vangelo. Arriva però più vicino alla verità della posizione che non vede nel Vangelo alcuna riserva sulla fede basata sui segni. Una posizione più modera-

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ta è quella secondo la quale l 'evangelista riconosce che la fede basata sui segni sia una specie di primo livello, un inizio, ma vuole anche dire che essa deve crescere, diventare qualcosa di più. La fede può iniziare basandosi sui segni, ma deve uscire dalla dipendenza da essi finché raggiunge ciò di cui si parla in 20,29. Questa impostazione ritiene anche che il quarto evange­lista utilizzi una fonte scritta che presenta una visione più semplice della fede. Quella basata sui segni non viene rifiuta­ta, ma solo qualificata più solidamente. In verità, è cosa buona costruire la propria fede sull 'esperienza di azioni miracolose, all ' inizio, ma si deve poi superare il bisogno di tali esperien­ze. È la stessa situazione in cui i genitori, all ' inizio, aggiun­gono due ruote più piccole alla prima bicicletta del loro bambi­no. È bene che il bambino dipenda da queste due piccole ruote supplementari per tenere in equilibrio la bicicletta per un certo periodo di tempo, ma deve infine abbandonare questo aiuto e imparare a mantenere l 'equilibrio indipendentemente da esse. Altrimenti, una volta adulto, correrà a comprare le ruotine per la nuova bicicletta a dieci rapporti di velocità ! Si lasci che la fede dipenda dalle azioni miracolose di Gesù per un po' di tempo ! Ma che essa si sviluppi finché queste azioni non siano più necessarie alla fede cristiana.

Infine la terza posizione, che è leggennente diversa. II quarto evangelista non riterrebbe che la fede in risposta ai segni sia vera fede, ma che costituisca soltanto una fase preparatoria. Quelli che rispondono positivamente ai segni di Gesù non credono ancora, ma hanno una lodevole apertura alla fede . Percependo le azioni miracolose di Cristo, queste persone sono veramente pronte a «vedere», vale a dire, a percepire ciò che quella persona è nonché ad accettare la sua rivendicazione. Le riserve sulla fede basata sui segni presenti nel quarto Vangelo sono, ancora una volta, il prodotto della revisione compiuta dali ' evangelista sulla fonte dei segni . Queste riserve sono semplici: la fede basata sui segni non è fede, è piuttosto un valido primo passo nel processo che a essa conduce. Pedalare su una bicicletta con le ruote supplementari non è propriamente quello che si intende con «andare in bicicletta», ma è un passo necessario ad alcuni per imparare bene ad andarci.

Il quarto Vangelo sta cercando di dire alcune cose sui segni

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e sul loro ruolo nel far scaturire la fede. La prima indica che è importante notare come il Vangelo riconosca l ' ambiguità dei segni. Le azioni miracolose non garantiscono che il risultato sia fede. Non c 'è fondamento certo, sperimentale per la fede in Cristo: questo ci sta dicendo il Vangelo. Non conta quali radici nell' esperienza abbia la fede religiosa; l ' esperienza non è mai prova certa di fede. Le cose stanno così , come l 'evangelista evidentemente ben sa, perché l 'esperienza è sempre ambigua, è sempre passibile di interpretazioni diverse. Quello che una persona chiama profonda esperienza religiosa di Dio, un' altra la comprende come il risultato di certi precondizionamenti psico­logici . Il nostro evangelista non è un filosofo della religione, ma lui, o lei che sia, esprime tutto ciò abbastanza chiaramen­te. Anche le azioni più miracolose di Gesù non sono garanzia di fede: possono essere comprese come atti di una persona di ver­sa dal rivelatore. Così il quarto Vangelo riprende la testimo­nianza sinottica secondo la quale alcuni rispondono a Gesù e ai suoi segni sostenendo che egli non fosse il Cristo, ma che fosse posseduto da un demonio (8,48). I segni di Gesù schiu­dono semplicemente le possibilità: o Gesù è una persona alla quale Dio ha concesso potere in modo speciale, oppure egli ottiene potere da altre fonti , più verosimilmente di tipo demonia­co. In questo modo il quarto evangelista perpetra una visione biblica delle azioni miracolose, in particolare, chiarendo che esse non costituiscono prove assolute, ma sempre ambigue.

Il secondo concetto che l 'evangelista sta cercando di comuni­care è che, affinché i segni contribuiscano,positivamente alla nascita e alla crescita delle fede religiosa, essi devono essere percepiti in un certo modo. Devono essere inquadrati nella prospettiva della possibilità del coinvolgimento attivo di Dio nella storia umana. Quindi, affinché i segni producano fede essi devono essere sperimentati da una prospettiva che già la presuppone, almeno a un livello minimo. «Vedere i segni» allora, nel senso più profondo, significa sperimentare le azioni di Gesù e comprenderle correttamente. Significa vedere attra­verso di loro, come appunto avviene, fino alla vera identità del loro autore. Nella misura in cui noi chiamiamo «fede» un' aper­tura alla possibilità della realtà e dell ' azione di Dio, i segni richiedono e provocano fede. Esiste un' analogia a portata di

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mano: la valutazione dell' arte. Vedere oggetti d'arte fa matura­re il proprio apprezzamento dell 'arte stessa. Ammirare un bel dipinto produce un nuovo apprezzamento del l ' espressione artistica. Ma per «vedere>> un dipinto si devono già possedere alcuni standard soggettivi. Se un osservatore non ha una propria consapevolezza di che cosa sia la bellezza, un Picasso è spreca­to. Questa conoscenza previa non deve essere necessariamen­te raffinata o matura. Potrebbe essere soltanto un' inclinazio­ne, un vago senso del fatto che quel quadro è più piacevole da guardare rispetto ad un altro, e così via. Ma ci deve essere una qualche sensibilità fondamentale per la bellezza. Così , sembra che l 'evangelista stia dicendo che ci deve essere una predi­sposizione per sperimentare un segno in modo tale che induca alla fede. Che noi consideriamo questo vera fede o soltanto un primo passo verso di essa è irrilevante: quel che è importante è che cogliamo quanto sta dicendo l ' evangelista. Vedere i segni prima di aver fede è impossibile: sarebbe come aspettarsi fiori dai semi prima ancora di averli seminati .

La nostra piccola metafora molto semplice sul seme ci porta al terzo punto. Vedere i segni con questa «fede iniziale» mette in moto un processo che evolve fino al punto che i segni stessi perdono via via importanza e ciò che conta veramente è la prospettiva di fede. Subito al di sotto della superficie dei dati del Vangelo che abbiamo analizzato schematicamente, credo che possiamo riconoscere una profonda concezione di fede dinamica. L'esperienza di cogliere le azioni di Gesù in modo significativo richiede una specie di fede embrionale. Nel Vangelo non tutti coloro che sono testimoni delle azioni di Gesù le considerano segni ( 1 2,37) . Questa fede embrionale si nutre con l ' esperienza dei segni . L'evangelista sostiene che le azioni miracolose di Gesù costituiscano esperienze positive per la fede (2,23) ma ritiene che questa non maturi del tutto fin quando non ha più bisogno di una continua presenza dei segni. Diventa una fede che crede senza vedere (20,29). Sono molto esitante nel semplificare questo processo complicato che l 'evangelista sta cercando di farci comprendere. Ciò nonostante, mi avven­turo nel proporre un diagramma.

Sostengo che il quarto Vangelo non disprezzi alcuni di questi livelli nella maturazione della fede, ma spinga a farla cresce-

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Apertura alla fede o fede embrionale

• SEGNO

Fede basata sui segni

• SEGNO

Schema 8

Fede matura

re oltre i primi due. Come uno psicologo dell ' età evolutiva, l ' evangelista apprezza ciascun passo della maturazione, ma aborre la fermata in qualunque punto preliminare.

Mi sembra probabile che l 'evangelista utilizzi una fonte dei segni che potrebbe non aver contenuto il primo o il terzo livello del nostro schema 8. Questa fonte non riesce a coglie­re in pieno i motivi per cui le persone non rispondono, come dovrebbero, alle azioni miracolose di Gesù, né descrive adegua­tamente il come la fede debba maturare spingendosi oltre la sua dipendenza dai segni . La fonte di questi è senza dubbio una raccolta molto antica di episodi che aveva a che fare con le azioni miracolose di Gesù, l 'uomo divino. Il quarto evange­lista vuole basare la sua costruzione su questa comprensione. Lo fa mettendo in evidenza l ' ambiguità dei segni e presen­tando una visione della fede matura che non li necessiti . Egli opera questa revisione della fonte cui attinge in quanto la generazione contemporanea di cristiani è arrivata a compren­dere quanto possano essere poco convincenti i racconti dei miracoli di Gesù. Tali narrazioni non spingono più a credere come un tempo, forse, avevano fatto. Inoltre, fra i cristiani stessi quelle gloriose opere non sono più così numerose come

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pare fossero una volta. Quindi il quarto Vangelo sottolinea che la sua generazione di credenti non deve dipendere dai segni, né dalla loro narrazione, ma deve essere in grado di credere senza vedere.

Uno studioso, Robert T. Fortna, ritiene che l 'evangelista abbia fatto un'altra revisione nella fonte dei segni (vedi la sua opera, The Gospel ofSigns, Cambridge, Cambridge University Press, 1 970). Fortna individua due livelli nelle narrazioni dei principali segni: in uno Gesù risponde ai bisogni fisici delle persone, come ad esempio la salute e il cibo. N eli ' altro i bisogni fisici sembrano una specie di simbolo delle necessità spirituali più profonde. Così , mentre Gesù guarisce l ' uomo cieco dalla nascita, la vittoria sulla cecità è molto di più di una semplice guarigione fisica. Nel contesto del simbolismo giovanneo, la cecità indica tenebre e la guarigione indica luce, pertanto i ri sultati fisici sono simboli di benefici spirituali più profondi che Cristo offre ai credenti . Fortna è convinto che la fonte che l ' evangelista utilizza sottolinei il fatto che Gesù risponde a questi bisogni fisici fondamentali. L'evangelista riprende la narrazione dalla fonte originale ma vuole che i lettori apprez­zino il significato simbolico di tali fatti . Così la distinzione fra il seguire Gesù in virtù dei benefici materiali e il vedere i suoi segni (6,26) è il segnale dell 'evangelista che queste azioni di Gesù hanno importanti significati spirituali . Una tale propo­sta è molto sensata e corrisponde benissimo al modo in cui sembra che l 'evangelista abbia pensato. La comunità giovan­nea è meno interessata ai semplici benefici materiali che Gesù può aver dato ai suoi seguaci, quanto piuttosto ai benefici pretta­mente spirituali .

C 'è qui una profonda comprensione della fede religiosa e della sua crescita. Essa non ha alcun fondamento di assoluta certezza. Anche l ' esperienza di essere stati testimoni del Gesù storico non offre una prova sicura per la fede. Essa è invece la capacità di vedere l ' esperienza a partire da una prospettiva particolare; si tratta di essere aperti alla rivelazione di Dio nella storia, anche se la nostra esperienza è sempre ambigua. Inoltre, la fede è un processo continuo di riequilibrio e di crescita. Ma non ci possiamo fermare qui : il Vangelo ha molto più da dire su questo argomento.

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VEDERE, UDIRE E CREDERE NEL QUARTO VANGELO

La comprensione della fede che abbiamo portato alla luce nella sezione precedente è emersa ed è stata successivamente elaborata dali' evangelista mediante l 'uso di tre parole: «vedere», «Udire» e «conoscere». Esamineremo le prime due in questa sezione e lasceremo la terza per la prossima.

Letture preparatorie: date uno sguardo al modo in cui sono usate le parole che significano «vedere» nel corso di tutto i l Vangelo. Cercate di cogliere alcuni schemi fissi nell ' uso di queste da parte del l 'evan­gelista: 1 , 14.50-5 1 ; 3 , 1 1 .32; 5 , 1 9; 6,40; 9,39; 14,7; 1 7,24; 1 9,35-37; 20,8.25 .29 .

Le parole greche utilizzate nel quarto Vangelo per indica­re l ' azione del vedere sono interscambiabili per indicare una percezione sensibile o una di fede. Esempi della differenza fra questi due tipi sono dati da 1 ,47 e 1 4,8 . Nel primo testo si dichiara semplicemente che «Gesù vide Natanaele». Qui il verbo vuoi indicare l ' azione sensibile del percepire mediante gli occhi. Ma in 1 4,8 Filippo chiede a Gesù di fargli vedere il Padre. Gesù replica: «Chiunque ha visto me, ha visto il Padre)). Il vedere di cui parla Gesù è evidentemente qualcosa di più del semplice atto della percezione sensibile. Vedere il Padre in Gesù indica sicuramente una qualche forma di percezione spiri­tuale o di fede. Significa ravvisare nella persona di Gesù la natura della realtà ultima. Un tale discernimento va ben al di là delle sensazioni fisiche percettive. Potrebbe essere parago­nabile all ' atto con il quale l ' esperto in una galleria d'arte vede un dipinto di Picasso ma vede anche qualcosa di più. Egli vede bellezza, forma, vita, alla quale è stata data espressione. Forse la distinzione fra percezione fisica e discernimento pieno di apprezzamento nella galleria d' arte costituisce un parallelo con la distinzione che l 'evangelista sembra proporre fra una visio­ne materialistica e una visione di fede.

Il Vangelo di Giovanni ha una profonda comprensione del rapporto fra questi due tipi di percezione. Ciò appare eviden­te dal modo in cui i due modi di vedere sono collegati e inter­dipendenti . Buoni esempi di questo stretto legame sono dati da 6,40; 1 1 ,45 e forse 1 2,45 . In ciascuno di questi testi , l ' atto

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di credere segue strettamente la percezione. Vedere sembra essere una parte integrante del processo di credere. Più in parti­colare, il concetto espresso è che l ' azione di vedere per fede si basa sull 'esperienza della visione sensoriale. Percepire la verità a disposizione degli esseri umani è il risultato della perce­zione di qualcosa del tutto materiale e fisico; in questo caso, l ' uomo Gesù. Quindi la fede è radicata nell ' esperienza senso­riale, ma va al di là di tale esperienza per affermare più di quanto i semplici dati osservabili potrebbero di per sé conva­lidare.

La fede non fiorisce interamente dall ' io interiore. Il quarto evangelista afferma un aspetto fondamentale della tradizione giudeo-cristiana. La fede religiosa non è il risultato di pura meditazione nella quale ci si ritira dal contatto sensibile con il mondo per entrare in contatto soltanto con il proprio corpo. Questo genere di processo meditativo potrebbe essere valido e molto utile, ma il Vangelo di Giovanni, insieme alla tradi­zione biblica in generale, afferma che la fede ha origine dal contatto con un oggetto percettibile ai sensi . Potremmo sugge­rire una grossolana analogia. Un giovane sostiene con buona fiducia che una ragazza sia interessata a lui per il modo in cui l 'ha baciato. La percezione dell ' interesse della ragazza si basa su quella, fisica, del bacio e noi potremmo anche dire che questa comprensione ha bisogno di quel bacio come mezzo di comuni­cazione. Ma la sua affermazione dell ' interesse della ragazza nei suoi confronti va molto al di là della percezione fisica in quanto tale . «Oh, si tratta soltanto di un bacio», lo rimbecca­no gli amici. Ma egli insiste fortemente che quel bacio signi­fica qualcosa di più per lui . Il Cristo, dice Giovanni, afferma la verità della rivelazione sulla base dell ' azione fisica di vedere Gesù, ma tale affermazione va ben al di là delle percezioni sensoriali in quanto tali . L' osservazione fisica o visiva, con la sua interpretazione comune dei dati , è necessaria, ma si tratta soltanto di un fondamento per affermazioni ulteriori .

La comprensione che ha l 'evangelista del come l 'esperienza favorisca la fede si riflette anche negli altri modi in cui egli, o ella, utilizza il verbo «vedere». L' evidente uso metaforico di 9,39 ora acquista senso. Sicuramente, la missione di Gesù consiste nel compiere alcune guarigioni, come la reintegra-

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zione delle capacità visive e uditive, ma l 'evangelista intende esprimere qualcosa di più. Gesù concede il dono di percepire la verità per quanto riguarda la vita e l ' esistenza. Egli dona la possibilità di vedere e udire affinché si possa correggere la propria malfondata autocomprensione. La percezione di fede a cui si allude con la parola «vedere» è evidente anche nell ' af­fermazione che Gesù vede il Padre (5 , 1 9) . Nella misura in cui i l Figlio vede il Padre, così il credente vede (nel senso della percezione di fede) il Figlio.

Questo è in gran parte vero anche quando ci rivolgiamo all ' uso, fatto dall'evangelista, delle parole che hanno li signi­ficato di «udire» o «ascoltare».

Letture preparatorie: si leggano ora alcuni testi in cui viene uti liz­

zato il verbo greco che significa «udire» o «ascoltare». Che cosa vuoi intendere l 'evangelista? 3,32; 5 ,24-26.30.37; 6,45 .60; 8,26.40-43.45-

47; 10,3 .8 .26-27 ; 1 2,45-47 ; 1 5 , 1 5 ; 1 8,37.

Udire può essere un semplice atto sensoriale, come in 6,60, dove le parole di Gesù sono udite ma non c 'è alcuna perce­zione intima del loro significato. Potrebbe anche trattarsi dell' e­sperienza da cui nasce la fede (5 ,24). In quest 'ultimo caso, un discernimento della vera identità di Gesù inizia con un norma­le «ascolto» ma va al di là di questo. La mancanza di fede è radicata nella mancanza di un ascolto coinvolgente e del ricono­scimento della voce di Dio nel Figlio. «l giudei» non possono credere, in quanto essi non ascoltano correttamente (8,43).

Così l ' ascolto mediante fede, se si vuole, è un' azione di discernimento della presenza della realtà ultima nella voce dell 'uomo Gesù. Proprio come per la vista, l ' ascolto di fede coinvolge percezione fisica e comprensione del significato basato sul credere. Si tratta di trovare una dimensione del signi­ficato ultimo nell 'esperienza di ascolto. Similmente, esiste lo stesso parallelo fra l' ascolto del Figlio da parte dei discepoli e l ' ascolto del Padre da parte del Figlio (8,26). Ancora una volta, abbiamo motivo per ritenere che il quarto evangelista vedesse l 'origine della fede religiosa nel particolare discerni­mento di una esperienza fisica, sensoriale : vedere e ascoltare.

Allora, nel Vangelo di Giovanni abbiamo un'esperienza a due livelli che costituisce il fondamento della fede. La base di

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quest'esperienza è un'azione sensoriale consistente nel vedere le azioni di Gesù e nell ' ascoltare le sue parole (vedi schema 9).

IL PADRE

Il H gli o vede il Padre� D F;giio ascoltaii Padre

GLI ATTI DI GESÙ LE PAROLE DI GESÙ

Vede il Padre FEDE: Ascolta il Padre

Vede Gesù SENSORIALE: Ascolta Gesù

Schema 9

Spero che si colga la somiglianza nella distinzione fra vedere e ascoltare mediante i sensi e la percezione di fede, e quella fra la percezione delle opere miracolose di Gesù e il «vedere i segni» . Nei due casi il Vangelo ci propone un profondo rappor­to tra esperienza e fede. Quest' ultima emerge da un' esperien­za colta in maniera particolare. Per questo evangelista, allora, la fede religiosa è almeno in parte il risultato di una compren­sione del dato sensoriale. Si cerca di cQgliere il significato di quanto accade: quello che si vede, si ascolta, si sperimenta. La fede è la tendenza, posteriore a questa fase, a comprendere l ' esperienza in un certo modo: vedere e ascoltare il Padre nelle opere e nelle parole di Gesù.

Ci troviamo in un circolo vizioso e siamo riportati alla nostra precedente discussione su determinismo e libertà. L'autore riconosce che il vedere e l ' ascoltare che producono fede ne richiedono già in una certa misura: serve la volontà di discer­nere un livello più profondo nella realtà presentataci dal l 'e­sperienza. Se non si possiede questa volontà, l 'esperienza non

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può dare origine alla fede. Così , l ' evangelista è riportato alla dimensione misteriosa di questo processo. Alcuni sono porta­ti a scandagliare quella realtà più profonda, altri no. Questo discernimento sembra essere un dono di Dio che precede ogni fede. L'evangelista non voleva eliminare questo aspetto di mistero o di perplessità dal processo che dali ' esperienza porta alla fede. La mancanza di volontà di dare una spiegazione più accurata potrebbe dispiacere a qualcuno. Però è degno di nota che per molti di noi costituisca meraviglia il fatto che alcune persone comprendano la loro esperienza in modo così profon­do da essere portati alla fede religiosa, mentre altri no.

Dobbiamo parlare di un altro aspetto del pensiero giovan­neo connesso a ciò. Questo ci porterà molto avanti nella nostra storia ed ora è il momento appropriato per farlo. Tale compren­sione del rapporto fra esperienza e fede espressa nel tratta­mento giovanneo dei segni e verbi «vedere» e «ascoltare)) è di tipo sacramentale nel suo significato più profondo. Con questo

· intendo dire che il quarto Vangelo esprime un profondo apprez­zamento per il modo in cui le esperienze sensoriali portano una persona alla fede. Il mondo fisico, il sensoriale, la materialità sono i mezzi tramite i quali nasce la fede. La dottrina cristia­na nel corso dei secoli ha ritenuto che questo avvenisse in funzione di particolari esperienze sensoriali . L'acqua nel batte­simo, il pane e il vino nella Cena del Signore, questi sono elementi fisici che accrescono la fede e mediante i quali si manifesta il divino. Nel capitolo 4 mostreremo che il Vangelo ha soltanto un limitato interesse per i sacramenti cristiani . Voglio mostrare, nello stesso tempo, che la comprensione giovannea della fede e dell 'esperienza coincide fondamental­mente con quello che i cristiani intendono con la concezione sacramentale.

L'affermazione del Vangelo è audace quando viene vista così come abbiamo fatto nelle pagine precedenti . La realtà ultima d eli ' universo, ovvero Dio, si deve sperimentare median­te gli eventi sensoriali della vita (si veda 1 , 1 4) ! Questa è una concezione sorprendente, in particolar modo quando viene vista nel contesto delle altre tradizioni religiose del mondo. Vedere e ascoltare sono i necessari prerequisiti per credere. Non dobbiamo minimizzare la posizione del Vangelo su questo

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argomento presumendo che intenda inquadrare la questione del vedere e dell ' ascoltare soltanto nel contesto di una parti­colare persona storica, Gesù. Vale a dire, il quarto evangelista non vuoi dire che la fede è nata nei primi discepoli per le azioni sensoriali del vedere e ascoltare Gesù di Nazareth, ma che successivamente, nel periodo dell ' assenza di Gesù, non fosse più così . Penso che il Vangelo sia maggiormente interessato ai suoi lettori degli anni 70 e 80 del primo secolo piuttosto che a quelli precedenti . Sta dicendo che i primi discepoli videro e udirono il Gesù storico e che la loro fede emerse da esperien­ze fisiche di quel tipo. Vuole però anche dire che la fede di ogni credente nasce da esperienze sensoriali di vista e ascol­to. Il Cristo della fede deve essere ancora visto e ascoltato nella comunità dei credenti . Dall ' ascolto della predicazione, della testimonianza cristiana e dal vedere le azioni fatte sotto l' impul­so dell ' amore cristiano, la fede nasce continuamente. La teolo­gia sensoriale è adatta ali ' epoca in cui venne scritto il Vangelo, non solo per il periodo della vita di Gesù di Nazareth.

La soluzione di Giovanni al problema dell 'esperienza e della fede è interessante e anche audace . Ma c 'è un altro argomento che ha attirato la nostra attenzione: il rapporto fra conoscere e credere .

CONOSCERE E CREDERE NEL QUARTO VANGELO

La presentazione del rapporto tra fede e conoscenza è un argomento classico nei circoli cristiani. Gli studiosi hanno lotta­to per secoli sulle sottigliezze di questo rapporto. C 'è forse una conoscenza previa che si deve avere prima della fede? Oppure questa è il fondamento della conoscenza? La storia di tale discussione non ci riguarda in questo momento, né vogliamo porre la presentazione giovannea di questi temi necessaria­mente in risposta ai problemi dei teologi. Vogliamo notare, tuttavia, che già nel corso del primo secolo del movimento cristiano c 'erano alcuni che avevano un modo di pensare che includeva il rapporto tra fede e conoscenza.

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Letture preparatorie: la lettura necessaria per la nostra breve presen­tazione di questo argomento sarà soddisfatta dai seguenti testi : 6,69; 8,3 1 -32; 1 7,7-8.2 1 -23. Quando si leggono questi tre testi, ci si doman­di quale delle due azioni è venuta prima nello schema giovanneo: conoscere o credere? L' una è più importante del l ' altra? Sono forse sinonimi?

Le persone, come risultato del credere, conoscono forse qualcosa che prima non conoscevano? Più semplicemente : esiste una conoscenza che ha origine dalla fede? Oppure, si deve avere una certa conoscenza prima di credere? Si ascolti il quarto evangelista: in 8,3 1 sembra che coloro che credono in Cristo conoscano di conseguenza qualcosa ( l 0,3 1 pare dire la stessa cosa). Ma attenzione : 1 7 ,8 dice esattamente l' oppo­sto ! I discepoli vengono a conoscenza del fatto che Cristo è venuto dal Padre e quindi (o dovremmo evitare di inserire questo «quindi}} fra le due frasi) essi credono (vedi anche 1 6,30, dove si può ritrovare la stessa relazione).

Nel primo caso:

fede � conoscenza

Nel secondo caso:

conoscenza ---J�� fede

Tuttavia, una contraddizione semplice come questa non è certo abbastanza per il nostro enigmatico Vangelo: c ' è ancora un ulteriore elemento di confusione. In alcuni testi pare che le parole greche utilizzate per rendere «conoscere» e «credere» siano usate come sinonimi. «Noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto» confessa Pietro (6,69). In 1 4,7 e 1 7,3 possiamo sostituire la parola «conoscere» con «credere» ed avere esatta­mente lo stesso significato. In questi casi allora:

fede = conoscere

Ci sono studiosi che vorrebbero farci fare delle sottili distin­zioni fra credere e conoscere nel quarto Vangelo. Essi trova­no un significato più intellettuale in quei testi dove «conosce­re» viene utilizzato in forma più volitiva di come sia utilizza­to «credere>} . Bultmann ci vuoi far pensare che «conoscere» nel quarto Vangelo si riferisca alla qualità «strutturale» del

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credere (Teologia del Nuovo Testamento, Brescia, Queriniana, 1 985, pp. 40 1 -422) . Mi sembra, però, che tali argomenti siano infondati. Cercano di immettere distinzioni di tipo filosofico in un testo che non ne presenta. La visione giovannea è più semplice di tutto questo !

Il motivo per cui il Vangelo di Giovanni può utilizzare fede e conoscenza in modo interscambiabile è che sono veramen­te sinonimi per la chiesa giovannea. Quello che il Vangelo vuoi indicare con «Conoscere» non è affatto diverso da quello che si vuole indicare con «credere>> . La chiave del rapporto fra queste due espressioni si trova in quei testi in cui percepiamo di poter sostituire le espressioni l ' una con l ' altra senza che il significato venga distorto. Questo non vuoi dire che l ' equiva­lenza delle due espressioni sia stabilita senza criterio.

Il Vangelo può utilizzare «conoscere/conoscenza» come sinonimi di «credere/fede», credo, perché utilizza le prime espressioni nell ' accezione ebraica. Anche se il Vangelo è scrit­to in greco e i suoi lettori originali lo comprendevano, sembra che il loro bagaglio cultural-religioso fosse, per la maggior parte di loro, giudaico. Questo fatto portava i cristiani giovan­nei a pensare al concetto di conoscenza con mentalità ebraica. Nella Bibbia ebraica la parola usata per «conoscere» aveva una connotazione cognitiva o intellettuale meno marcata di quanto non l ' avesse invece il relativo verbo in lingua greca. Nella maggior parte dei casi presenti nella Bibbia ebraica, «Conoscere» si riferisce ad un rapporto personale. Non si tratta di una conoscenza distaccata di un oggetto. Quando oggi dicia­mo di conoscere qualcosa, come per esempio di conoscere un libro, vuoi dire che l ' abbiamo esaminato e studiato. Possiamo descriverlo come un oggetto.

Possiamo rimanere sconcertati , allora, quando la Bibbia ebraica ci dice che tizio venne e «conobbe» sua moglie e lei concepì un figlio. Che cosa significa allora che quell' uomo ha conosciuto la donna? Ovviamente significa qualcosa di ben diverso da un'osservazione oggettiva e distaccata. La parola ebraica yada ', che noi molto rapidamente traduciamo con «conoscere», significa entrare in un rapporto personale, intimo. Riguarda due soggetti (o persone) che si trovano in un rappor­to di reciproco coinvolgimento. Quello che si conosce non è

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un oggetto, staccato dal conoscente, ma è esso stesso un sogget­to che è in comunione spirituale con il conoscente. Questa espressione viene utilizzata per indicare il rapporto sessuale quasi nello stesso modo in cui potremmo dire che una coppia ha «rapporti» : due soggetti in rapporto di scambio pieno di fiducia e aspettativa. Similmente, quando il profeta Osea dice che il popolo soffre per mancanza di conoscenza di Dio (Os. 4,6 ss.) egli non si sta lamentando del fatto che la loro teolo­gia è difettosa, piuttosto sta dicendo che il loro rapporto perso­nale con Dio è morto.

Quando il Vangelo di Giovanni utilizza la parola greca gnoskein, questa viene utilizzata nel significato ebraico di yada ' . Come soggetto, si è entrati in un rapporto personale pieno di fiducia con un altro soggetto. Il Vangelo può allora utilizzare «conoscenza>> come sinonimo di «fede», perché conoscere sugge­risce lo stesso tipo di rapporto che esiste nel rapporto di fede. Quindi , non c'è alcun costrutto nel suggerire un maggior grado di contenuto o scambio intellettuale quando si utilizza il verbo «conoscere» anziché «credere». Tutti e due implicano un coinvol­gimento fra due persone. Entrambi indicano un rapporto intimo, da soggetto a soggetto e non fra soggetto e oggetto. Nel signi­ficato giovanneo di «conoscere» non c 'è distacco fra due sogget­ti , ma proprio il contrario, un reciproco coinvolgimento.

Se il quarto Vangelo vuoi far intendere quello che inten­diamo quando utilizziamo il verbo conoscere e se può utiliz­zare questa parola come sinonimo di «Credere», allora un aspe t­to di quello che vuoi indicare con «fede» inizia a chiarirsi. La fede è un rapporto personale di fiducia fra due soggetti . Si tratta di un interscambio al livello più intimo. Credere non deve semplicemente voler dire accettazione intellettuale di una dottri­na (per quanto questo sia un elemento presente nel quarto Vangelo, come vedremo), ma deve implicare quella fede che coinvolge l ' intera persona, mente, corpo, emozioni e tutto il resto, in un rapporto personale.

Si racconta la storia di un uomo che doveva camminare su di una fune sospesa sulle cascate del Niagara spingendo una cariala davanti a sé. Quel giorno si radunò una grande folla per assistere ali ' impresa piena di rischi . I l vento soffiava abbastanza forte e faceva ondeggiare la fune avanti e indietro.

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Quando si avvicinò l 'orario fissato per la prova, la gente comin­ciò a gridare: «Fermati ! Non ce la farai mai ! » . In quel momen­to una persona si staccò dalla folla e si avvicinò all ' impavido. Gli disse : «Va avanti ! Fa' la tua camminata. Puoi farcela ! Ho fede in te>> . A questo incoraggiamento, il tale che doveva cammi­nare sulla fune rispose con un invito: <<Va bene, se hai una fede così forte in me, salta dentro la cariala e vieni con me» .

La fede giovannea non è una distaccata fiducia intellettua­le. Si tratta di coinvolgimento e di fiducia personale che legano assieme il credente e l 'oggetto di quella fede, in una specie di unità. Il rapporto di fede era tale che il nostro evangelista ha potuto descriverlo nel significato ebraico di «conoscere» . Tuttavia questa indicazione è ancora una specie di generaliz­zazione: possiamo puntualizzare ulteriormente ciò che abbia­mo detto sul concetto di fede nel quarto Vangelo in molti e importanti aspetti .

VISIONE SINTETICA DELLA FEDE NEL QUARTO VANGELO

Letture preparatorie: si scorra velocemente il Vangelo e si faccia un elenco del le risposte che esso propone per le domande : qual è l' ogget­to della fede (cioè, in che cosa viene richiesto di credere alla gente)? Qual è la natura del la fede così come viene indicata nel Vangelo?

Il Vangelo utilizza novantotto volte il verbo «credere» (pisteuein). Credere ! Ma che cosa mi viene chiesto di crede­re? Per il quarto Vangelo ci sono almeno tre diversi oggetti della fede. Vale a dire, cambia ciò che o in cui ci viene richie­sto di credere .

Nella maggior parte dei casi sembra trattarsi di una fiducia in Gesù, una relazione personale con lui. Questo accade per esempio in 4,39. La costruzione sintattica più comune è l ' uso del verbo «Credere» con la preposizione «eis» (in) e l 'oggetto della preposizione è per lo più Gesù stesso. Questa costruzio­ne fa ritenere che le nostre proposte sulla natura della fede, esposte a conclusione della precedente sezione, siano estre­mamente rilevanti nel quarto Vangelo.

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Talvolta l ' oggetto del credere non è una persona, ma una dichiarazione che viene fatta. «Credettero alla parola che Gesù aveva detto» (2,22). Questo non è sostanzialmente diverso dal primo oggetto della fede, Gesù stesso, se non che qui la fede consiste nel credere in una dichiarazione del rive latore anziché nella sua persona. L'una implica l ' altra. Se si ripone fede in Gesù in quanto rivelazione di Dio, si crede che quello che dice sia vero.

Qualcosa di diverso, invece, viene suggerito dal terzo ogget­to della fede . Si tratta di fede in dichiarazioni su Gesù. Al letto­re non viene chiesto di credere nella sua persona nel senso di un rapporto di fiducia personale, né viene richiesto di accet­tare come vero quello che dice. Al lettore, invece, viene richie­sto di credere che Gesù è i l rivelatore, il Messia, il Figlio del Padre (per esempio 1 1 ,27) . Questo uso del verbo credere ha spostato il significato della fede da un rapporto personale ad un' accettazione intellettuale. La mia è fede in un Credo, in questo caso, non in una persona.

Il quarto evangelista ci ha così presentato due diversi tipi di fede in Cristo. Il primo è quello che riguarda il coinvolgi­mento personale di lealtà con e verso Gesù, che comporta fiducia e intimità. Il secondo tipo presenta una comprensione della fede come accettazione di una formula di fede, o almeno di una affermazione di fede riguardante Cristo. Il primo è il più antico tipo di fede cristiana. La concezione paolina di fede è sostanzialmente di questo genere. Il secondo è il genere di fede che vediamo emergere soltanto più tardi, nel periodo del Nuovo Testamento, ed è simile all 'uso della parola «fede» in alcuni testi molto tardivi degli scritti neotestamentari . In questo caso la fede è stata trasformata in un credo o in un corpo di dottrine. «La fede» non è una relazione personale, dinamica, fra i cristiani e Cristo, ma una serie di dichiarazioni dottrinali su Cristo (vedi E br. 1 1 ; Giac . 2, 1 7 ; I Giov. 5, l; III Giov. 4- 1 1 ; Giuda 3) . Il cambiamento è estremamente rilevante perché trasforma completamente la natura del credere e la sposta in un' area che può essere ridotta a semplice dato intellettuale. Il primo significato della fede aveva una dimensione ben più personale e richiedeva l ' intero essere del credente . Sarebbe come amare prima una persona e arrivare poi ad amare le affer-

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mazioni che potete fare su quella persona. Amare l ' afferma­zione «lei è una persona estremamente amabile» è radical­

mente diverso dall ' amare la persona stessa. L'evangelista sembra essere parzialmente responsabile del

graduale spostamento verso una comprensione della fede come confessione avvenuto nella chiesa primitiva. Il quarto Vangelo è probabilmente fra i primi scritti nei quali possiamo ritrova­re espressioni che utilizzano il verbo «credere» con una sfuma­tura confessionale (in italiano si tratta della formula «credo che . . . » al posto di quella più pregnante e più antica «credo in . . . »). Il quarto evangelista forse non era consapevole di questo spostamento di significato nell ' uso di tale formula. II senso fondamentale della fede per l ' autore è quello di un rapporto personale . Tuttavia, la comunità giovannea è sottoposta ad attacchi : sta soffrendo per una dislocazione sociale e si trova in mezzo ad una crisi d ' identità. Quello che chiaramente la distingue dai suoi oppositori è che essa può fare alcune affer­mazioni su Cristo che danno struttura ad un senso di identità e solidarietà di gruppo. «Noi siamo quelli che possono affer­mare che Gesù è il Messia» . Questa confessione traccia le frontiere fra la comunità giovannea e il mondo che la circon­da. Questo valore funzionale del Credo seduce l ' evangelista e lo porta ad utilizzarlo. L' autore, lui o lei , non vede ciò come una violazione dell ' altra fondamentale concezione della fede : un rapporto personale con Cristo. Naturalmente, nel Vangelo non c 'è ancora alcun pericolo di sopraffazione del carattere personale e dinamico della fede a causa della formula confes­sionale. I cristiani giovannei credono senza dubbio che un rapporto personale con Cristo porti naturalmente e logicamente a dichiarazioni di fede sul chi è Cristo. In altre parole, il moti v o del sorgere della concezione confessionale della fede è il deside­rio di parlare onestamente e chiaramente sulla persona di Cristo. Senza tener conto delle motivazioni, dobbiamo attribuire (o incolpare) al quarto evangelista una primitiva riduzione della fede a confessione. Se questo sia stato uno spostamento tragi­co o soltanto la conclusione logica della visione della fede come rapporto personale, lo lascio al vostro giudizio.

Dobbiamo chiudere questa sezione con una nota positiva, avendo conservato il meglio per la fine. C'è ancora un' altra

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caratteristica della concezione giovannea che non abbiamo ancora indicato. Prende l ' avvio da un' annotazione grammati­cale. Il quarto evangelista non utilizza mai il sostantivo «fede» , o «credenza», ma sempre e soltanto i l verbo «credere» (il greco ha soltanto una parola che noi possiamo tradurre o con «crede­re» con «fidarsi») . Che significato ha questa osservazione? L' autore preferiva i verbi ai sostantivi? Naturalmente signifi­ca che per i l quarto evangelista la fede è sempre una materia atti va, dinamica, non è una disposizione interiore, non è qualco­sa che si possiede. La fede è qualcosa che si fa o che viene fatta per noi, non è uno stato dell 'essere, ma un di venire dinami­co. Se la fede è sempre un verbo, questo implica certamente che non è qualcosa che si fa una volta per tutte. Piuttosto, che la fede sia espressa da un verbo significa che il credere è una decisione presa una voi ta soltanto perché sia ripresa volta dopo volta, oppure un dono ricevuto non in una sola occasione, ma un poco alla volta. La fede è una dinamica continua, non uno stato dell ' essere.

Questa comprensione della fede implicita n eli' uso del verbo in luogo del sostantivo indica che la concezione fondamenta­le che ne ha l ' evangelista è quella di un rapporto personale. Mentre il Vangelo usa i l verbo «credere» in collegamento con formulazioni di fede, quest' uso non è la sua visione specifica. Si tratta piuttosto di una digressione, una scorrettezza, molto importante per di più. Fondamentalmente, il quarto Vangelo afferma che dali ' esperienza sorge un rapporto di fiducia con un essere personificato.

CONCLUSIONE

Il Vangelo di Giovanni non è un saggio filosofico. La sua esposizione del rapporto tra fede ed esperienza viene fatta ali ' in­terno del contesto di un vangelo, che non è un trattato di natura filosofica, né teologica. È piuttosto un documento che ha lo scopo di preservare il materiale tradizionale e rivolgerlo in forma nuova e rilevante a quegli argomenti sui quali dibatte la comunità

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dì fede. La preoccupazione del quarto evangelista è dì far cresce­re la fede religiosa in mezzo a severe prove e difficoltà. È quindi irragionevole aspettarsi da questo lavoro un' esposizione coeren­te e completa del problema del rapporto tra fede ed esperien­za. Il filosofo non legge trattati di protesta sociale per la sua spiegazione dei problemi filosofici. Tuttavia, in una protesta sociale sono implicite alcune posizioni : valori fondamentali, elementi per la comprensione della società, delle persone e della libertà. Così neanche noi dobbiamo leggere questo Vangelo aspettandoci di trovare una dissertazione filosofica su argomen­ti come fede ed esperienza. Esso propone una visione del rappor­to tra fede ed esperienza per una e una sola ragione : affinché la fede del lettore possa crescere.

Quello che poi troviamo nel quarto Vangelo è una visione piuttosto approfondita del modo in cui la fede religiosa è radica­ta n eli ' esperienza. Sì tratta di una visione re lati v amen te ardita dell ' argomento, in quanto sostiene il ruolo positivo dell 'espe­rienza sensoriale ali ' origine della fede. Assegna un posto dì primo piano alla percezione dei segni e all 'esperienza fonda­mentale della percezione sensoriale quale il vedere e l ' udire, però sostiene che al di là dell ' uso dei sensi deve intervenire un discernimento più profondo che vada oltre. Se si coglie questo livello più profondo, allora dall ' esperienza può sorgere un rapporto personale di fiducia con la persona divina. Questo può essere descritto in vari modi come fede o conoscenza (nel suo significato ebraico) . A partire da questo rapporto fonda­mentale, la fede può spesso essere compresa come l ' accetta­zione di dichiarazioni su dì essa.

Quando andiamo ad analizzare quello che il Vangelo inten­de con la fede intesa come percezione delle parole e delle azioni dì Gesù, scopriamo un mistero irrìsolto. Ci lascia senza alcuna spiegazione chiara di questa iniziale apertura ad un più profon­do discernimento che dà origine al processo di fede. Una fede dinamica che deve crescere e maturare inizia nel mistero. Quindi, forse dobbiamo accusare l ' autore di averci presenta­to un ' argomentazione incompleta o, forse, di essere caduto in un circolo vizioso: la fede è richiesta per l ' esperienza che la fa nascere ! Anzi, siamo lasciati con la sensazione che la parte­cipazione divina alla propria vita inizi nello sforzo di compren-

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dere e cogliere l ' esperienza dalla prospettiva della fede. Non potrebbe essere, allora, che questa spieghi in modo più adegua­to la tensione paradossale presente nel quarto Vangelo fra le affermazioni del fatto che essa nasce da un' azione di Dio ed è generata dalla decisione umana? La fede iniziale è l ' opera di Dio, l ' attrazione divina, il dare i singoli individui a Cristo. Questo dono iniziale di fede apre gli occhi, così che la fede come percezione sia resa possibile. Oltre a questa iniziale sensi­bilizzazione all ' esperienza della presenza divina, l ' uomo è allora responsabile per il credere e maturare nella fede. Le persone non possono mai vantarsi della loro fede, in quanto essa ha origine in un' azione di Dio nella loro vita, né gli uomini possono abdicare le loro responsabilità per la maturazione di essa. Se questo costituisca o meno il pieno significato dell ' in­segnamento del Vangelo lo si può scoprire soltanto mediante un attento studio, ma ci può fornire un punto dal quale inizia­re la ricerca.

Il nostro Vangelo non ha risolto una volta per tutte il proble­ma dell 'esperienza e della fede. Il suo contributo può sembra­re insignificante nel contesto delle tradizioni religiose del mondo, in quanto si tratta di uno fra molti , ma ritengo che la posizione sostenuta da questo documento sia per lo meno una delle risposte più creative che si possano trovare così preco­cemente in una tradizione religiosa. Pur senza il beneficio di secoli di discussioni e di sottigliezze filosofiche, l ' interpreta­zione giovannea è nello stesso tempo responsabile e persona­le. Merita certamente il nostro studio e la nostra critica alla luce della continua riflessione della tradizione ecclesiastica sul significato della fede.

Così l ' evangelista analizza il significato della fede e della sua origine nell 'esperienza con considerevole capacità. Essa rappresenta il modo in cui il singolo individuo passa da un polo all ' altro del dualismo umano. Essa è il mezzo di passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla menzogna alla verità. Ma qual è il carattere di questa luce, di questa vita e di questa verità? Qual è il compimento della fede? Che cosa si guadagna per aver creduto? Questo ci porta all 'ultimo e più importante capitolo della nostra analisi del pensiero giovan­neo: la sua concezione della vita del credente.

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L' ETERNITÀ È ORA : L' ESCATOLOGIA GIOVANNEA

Nel periodo della presidenza di Richard Nixon apparve una vignetta che proponeva il tema di questo capitolo. La scena si svolge di fronte alla Casa Bianca. Una persona con la barba e dalle forme piuttosto bizzarre con indosso un vestito lungo sta portando un cartello che dice: «La fine è vicina !» . Questa perso­na sta fissando con stupore un altro uomo, di cui si possono vedere soltanto le spalle. Questa seconda persona, riconosci­bile come l ' allora residente della Casa Bianca, porta a sua volta un cartello che dice : «Ancora quattro anni ! » . Questa miscela di motivi religiosi e politici propone la tensione fra presente e futuro; sintetizza nell ' ambito religioso quelli che credono che il presente sia tempo di compimento e nell ' ambito politico quelli che guardano con speranza al futuro per il loro compi­mento.

Il tema della tensione tra futuro e presente come tempo del compimento è un altro classico argomento religioso. Ogni religione insegna, in una forma o nell ' altra, la speranza che il compimento e la soddisfazione umane siano disponibili . Questo insegnamento viene spesso espresso con il concetto di salvez­za, dichiarando che gli esseri umani possono raggiungere ciò a cui furono destinati al tempo della loro creazione, che le più profonde aspettative dell' anima umana possono essere realiz­zate, le fondamentali necessità possono essere esaudite e le speranze saranno adempiute. Una tale promessa di salvezza, però, può avvenire in un futuro distante, oppure potrebbe avveni­re nel corso della vita del credente. In alcune tradizioni religio­se, il compimento della salvezza viene promesso soltanto nel fu turo (per esempio, una dimora celeste dopo la morte). Arriverà un momento, insegnano queste religioni, in cui l 'umanità sarà

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resa perfetta, ma questo tempo è ancora nel futuro. Il cristia­nesimo e il giudaismo sembrano rientrare in questa categoria. In altre tradizioni religiose, i l compimento della salvezza promessa è disponibile immediatamente. Il maestro buddista zen spera di condurre con abilità i suoi adepti a questa esperien­za di i lluminazione che è la realizzazione di quella serenità per cui gli esseri umani sono stati creati .

Naturalmente la distinzione non è mai così netta. Per quanto la tradizione cristiana insegni generalmente un compimento futuro, si trovano spesso delle dichiarazioni sul l ' anticipazio­ne di questa realizzazione futura nel presente del fedele. L' esperienza dello Spirito santo viene spesso intesa in questo modo. Anzi, l ' apostolo Paolo parlava dello Spirito come una sorte di caparra della promessa di Dio. L'esperienza dello Spirito è la garanzia che ci sarà un compimento della salvezza (per esempio Rom. 8 ,23 ). Fra quei cristiani dall ' impostazione misti­ca, si trova l ' affermazione che il cristiano, in questa vita, è in grado di sperimentare la quasi pienezza della salvezza promes­sa da Dio. Similmente nelle religioni orientali , lo scopo promes­so è spesso l ' unità con Dio nello stato del Brahman o del Nirvana che a quelli più fedeli spetta al momento della morte e chiude il ciclo di una vita senza fine (specialmente nell ' hin­duismo ) . Ancora, si sperimenta qualcosa in questa vita riguar­dante lo stato finale come risultato della meditazione. È eviden­te che le religioni «miscelano» le idee del compimento presen­te e futuro della promessa di salvezza.

In questa stessa linea si pone l ' argomento trattato da questo capitolo. La sal vezza promessa al credente è soltanto una passi­bilità futura? Oppure la si può ritrovare nell ' esperienza attua­le del credente? Ancora, il presente è in qualche modo un compi­mento parziale che anticipa quello finale, nel futuro? Per quanto le generalizzazioni non reggano sempre, c 'è del vero nell ' af­fermazione secondo la quale alcuni insegnamenti religiosi sulla salvezza sono orientati al futuro, altri al presente. Nel primo caso la speranza per il compimento futuro del progetto di Dio gioca un ruolo di primo piano. Nel caso di quelle religioni che sono orientate al presente, c ' è uno spostamento dell ' attenzio­ne : la speranza può essere realizzata ora. Si sta realizzando. Vivila ora ! Connesso con questo aspetto c 'è un conflitto di

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base nelle religioni per risolvere l ' esperienza presente del credente e la sua speranza futura.

Il cristianesimo è nato probabilmente n eli' ambi t o di una concezione per cui la sal vezza dell ' umanità era posta nel futuro e quel futuro era molto vicino. I primi cristiani crebbero in mezzo alle forti speranze del giudaismo di un ' apparizione immediata del Messia e dell 'età che egli avrebbe inaugurato. Il cristianesimo, sotto questo aspetto, non era troppo diverso dalla prospettiva religiosa di quei giudei responsabili degli scritti dei Rotoli del Mar Morto. Nella loro comunità a Qumran, sul Mar Morto, questi fanatici giudei si preparavano per un' im­minente apparizione del Messia e per la grande guerra con il male che ne sarebbe derivata. Il cristianesimo nascente si nutri­va di questo genere di visione apocalittica giudaica. Alcuni scritti primitivi da parte del movimento cristiano sottolineano proprio questo aspetto (per esempio I Tess . ; apocalittico è il nome dato a un particolare modo di pensare e di scrivere sul compimento delle promesse di Dio nel futuro. Si distingue per almeno due caratteristiche specifiche: per la discontinuità radicale fra la storia e il compimento futuro e per l ' utilizzo elaborato di simboli per descrivere quest'ultimo) .

I cristiani giunsero presto a credere di poter sperimentare il compimento divino nel presente . Il credente sperimentava la presenza del Cristo vivente e gli venivano dati i doni che erano anticipazioni di quello finale della pienezza della salvez­za. Paolo, per esempio, parla della salvezza sia come esperien­za presente sia come speranza futura. Questo è molto chiaro dalla sua dichiarazione in Romani 8,24: «Poiché siamo stati salvati in speranza». Molti critici del Nuovo Testamento sosten­gono che i primi cristiani dovessero combattere con la delusio­ne derivante dal ritardo del ritorno di Cristo. All ' inizio si crede­va che Cristo sarebbe tornato subito (parusia è la parola spesso utilizzata nel Nuovo Testamento per questa riapparizione). In quella occasione, egli avrebbe portato la pienezza della sal vez­za di Dio. Ma essa non si concretizzò, almeno non nel modo in cui era attesa. Quando questo non accadde e la speranza dell ' apparizione di Cristo in gloria fu rimandata ad un futuro più lontano, ci si focalizzò con maggiore attenzione sul modo in cui la salvezza era già presente nella vita dei credenti .

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Il quarto Vangelo si inserisce nel dramma dello sviluppo della fede cristiana primitiva, la cui collocazione nella lotta fra speranza nel futuro e realizzazione presente è significativa. In poche altre pagine neotestamentarie è più evidente la tensio­ne fra le dimensioni presente e futura della salvezza. Il dibat­tito degli studiosi si sofferma sulla posizione del quarto evange­lista su questo problema, ma tutti concordano che nel Vangelo viene posto l ' accento sulla presenza della salvezza nella vita del credente. Forse nessun altro documento neotestamentario evidenzia più del quarto Vangelo la speranza realizzata dei cristiani . Il motivo della presenza della salvezza viene propo­sto in vari modi . In primo luogo, naturalmente, lo si trova nel modo in cui l ' evangelista tratta i terni escatologici (l' escato­logia è semplicemente una parola utile per sintetizzare le creden­ze in ciò che accadrà nell ' «ultimo giorno», alla fine della storia, secondo il pensiero cristiano). Ma la presenza della salvezza è anche affermata dal modo in cui l ' evangelista tratta alcuni altri argomenti , in parti colar modo lo Spirito, la chiesa e i sacra­menti . Ciò che lega i temi che andremo ad analizzare in questo capitolo è la semplice concezione che l ' evangelista sostene­va: la salvezza è già accessibile al credente in questo tempo. Oppure, per sintetizzare la concezione in termini meno prosai­ci: l ' eternità è ora !

Nelle pagine seguenti tratteremo in ordine questi argomenti :

l. la concezione del Vangelo sul compimento delle promes­se legate alla fine della storia (vale a dire, l ' escatologia) ;

2. la sua concezione sulla presenza dello Spirito fra i creden­ti (pneumatologia) ;

3 . la sua concezione della comunità dei cristiani confessanti (la chiesa o ecclesiologia) ;

4. la sua concezione dei sacramenti (sacramentologia) .

Mediante ciascuno di questi temi, dice l 'evangelista, la salvezza promessa è già disponibile, adempiuta nella vita dei credenti . Quindi le concezioni dello Spirito, della chiesa e dei sacramenti sono legate alla comprensione dell ' escatologia.

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L'ESCATOLOGIA GIOVANNEA

Ho già detto che i critici del quarto Vangelo sono divisi sul problema del rapporto fra l ' esperienza presente e la speranza nella salvezza futura. Questo perché i dati del Vangelo non sono univoci. Il nostro primo compito in questa sezione è ricer­care i testi più rilevanti . In alcuni di essi il Vangelo sembra affermare che la pienezza della salvezza del singolo è posta in un giorno futuro, in altri sembra dichiarare che queste speran­ze sono già realtà nell ' esperienza attuale del credente .

Letture preparatorie: qui sono indicati i testi più importanti che tratta­no del la speranza escatologica. Si leggano con attenzione 3, 1 8- 19.36; 5,2 1 -29; 6,39-54; 9,39; 1 1 ,23-25 ; 1 2,25 .3 1 .48 ; 14,2-3 . 1 8 .28; 17, 1 -2 6 e s i cerchi di determinare s e l 'evangelista stia parlando del compi­mento di queste speranze nel futuro o nel presente. Si leggano i capito­li 1 5 e 16 e si noti quanto viene detto riguardo alle tribolazioni che i credenti dovranno affrontare o stanno affrontando.

Fino a questo punto il lettore è stato abituato alle contraddi­zioni presenti nel Vangelo, così ora non sarà sorpreso nel trova­re dichiarazioni contrastanti su questo argomento. Ma qui le contraddizioni sembrano più pronunciate. Proponiamo lo schema l O come breve sommario del problema dell'escatologia giovan­nea. Voi potete mettere in discussione alcune di queste citazioni o aggiungerne altre alla luce delle vostre letture dei dati biblici .

Realtà presenti Realtà future

Giudizio (3, 1 8 ; 9,39) Giudizio ( 1 2,48)

Vita eterna (3,36; 5 ,24) Vita eterna ( 1 2,25)

Risurrezione (5 ,2 1 ; 24,26) Risurrezione ( 6,39-40.54)

Parusia ( 1 4,3 ; 1 8,28)

Tribolazioni che segnano l ' avvento del Messia (capp . 15 - 1 6)

Sconfitta del «principe di questo mondo» ( 1 2,3 1 )

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È comprensibile se qualche volta rimaniamo sconcertati nello studio dei dati biblici, in quanto sembra che ci siano non meno di tre tipi di escatologia nel quarto Vangelo. La prima la chiame­remo escatologia futuristica, poiché sembra dire che la salvez­za promessa è nel futuro. Il giudizio verrà nell 'ultimo giorno della storia ( 1 2,48). Ci sarà una risurrezione dei morti in quel giorno decisivo (6,39-40.54). La risurrezione finale e il giudi­zio sono collegati l 'una con l ' altro (5,28). A questo si aggiunge un accenno ad una nuova venuta di Cristo nel futuro (cap. 1 4). Si possono trovare nei capitoli 15 e 1 6 dati supplementari relati­vi alle tribolazioni che saranno sperimentate dai cristiani . Una concezione riguardo ali' escatologia futuristica, comune al cristia­nesimo primitivo e al giudaismo del primo secolo, riteneva che le tribolazioni si sarebbero verificate man mano che l 'ultimo giorno si avvicinava. Proprio prima dell ' apparizione del Messia (nel pensiero giudaico) o della seconda venuta di Cristo (nel pensiero cristiano) il male sarebbe abbondato e i credenti sareb­bero stati perseguitati duramente. I riferimenti alla sofferenza presenti nei capitoli 1 5 e 1 6 del quarto Vangelo sembrano rifar­si a quelle «tribolazioni messianiche» . Sembra che i cristiani giovannei accettassero l ' idea che poco prima che le cose volges­sero tutte al meglio, sarebbe stato ancor peggio.

Ora, queste attese futuristiche combaciano con la visione escatologica tradizionale protocristiana. Esse esprimono l ' idea che la storia sia condotta verso un gran finale. Questa volta Cristo riapparirà in forma trionfante. Il male sarà sconfitto e il dominio di Satana terminerà. Ci sarà una risurrezione genera­le dei morti seguita dal giudizio. Alcuni riceveranno la vita eterna. Niente di tutto questo coglie di sorpresa gli sperimen­tati studenti del Nuovo Testamento che abbiano avuto l' occa­sione di esaminare la cultura del primo secolo cristiano. Queste concezioni hanno radici nell ' adattamento protocristiano del pensiero apocalittico giudaico. Ritroviamo concezioni simili non solo in altri scritti neotestamentari , ma anche negli scrit­ti giudaici dei due secoli precedenti l' èra cristiana, così come nel primo secolo d.C. Questi testi prevedono un dualismo stori­co: l ' èra presente è governata da Satana e giungerà a termine, seguita da un' altra, però eterna, governata soltanto da Dio.

Esiste un secondo tipo di escatologia nel Vangelo che chiame-

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remo escatologia attuale (del presente). Questa si rintraccia in quei testi in cui il Vangelo di Giovanni sembra dire che le attese future dei cristiani sono già realizzate, ora, nel loro rapporto con Cristo. Si è già giudicati dalla risposta che si dà a Cristo (per esempio 3 , 1 8). La risurrezione è l ' esperienza di essere portato ad una nuova comprensione di se stessi mediante la fede in Cristo. Si è portati dalla morte alla vita nell ' immedia­to presente mediante la fede (per esempio 5 ,24) . Il racconto della risurrezione di Lazzaro è, per i l nostro caso, molto istrut­tivo. Maria incontra Gesù, finalmente giunto al villaggio in cui è morto il suo amico Lazzaro. Egli dice a Maria: «Tuo fratel­lo risusciterà» . Maria risponde come se stesse recitando le parole giuste della fede cristiana tradizionale : «Lo so che resusciterà, nella risurrezione, nell'Ultimo giorno» ( 1 1 ,23-24). Le parole hanno un timbro impersonale o retorico. Maria le dice, ma non ne è convinta; non sembrano aiutarla molto di fronte alla morte del fratello. Gesù allora replica con uno dei famosi detti «io sono» : «lo sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai» ( 1 1 ,25-26). Poi Gesù procede nel reinte­grare Lazzaro alla vita. Il concetto espresso dal capitolo sembra essere questo : un rapporto di fede con Cristo significa risur­rezione. Non è una qualche vaga speranza che si avvererà chissà quando in un fumoso futuro. È un' esperienza nel presente quando Cristo è presente.

Un'escatologia più marcatamente rivolta al presente viene espressa nelle affermazioni sulla vita eterna. Vi vere con la fede in Cristo è già vivere la vita eterna (5,24 ) . Quest' ultima espres­sione è, naturalmente, parte di quel dualismo giovanneo che abbiamo presentato. Sembra voler indicare la qualità dell ' esi­stenza del credente. Non è una speranza per il futuro (ma non dimentichiamoci di 1 2,25) . Si tratta di una realtà del presente derivante dalla fede in Cristo. Si tratta, se si vuole, della nuova autocomprensione che risulta dalla rivelazione di Dio in Cristo. Di certo, può avere qualcosa a che vedere con la sopravvivenza dalla morte fisica (come afferma il cap. 1 1 ) , ma si tratta princi­palmente di qualità di vita, che, potremmo dire, deriva da una corretta autocomprensione in Cristo che non può essere distrut­ta dalla morte .

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Questo tipo di escatologia è nuova, almeno nella sua radica­lità. Ha delle affinità con alcuni fatti espressi da Paolo riguar­danti la presenza della salvezza nell 'esperienza del credente. Il quarto Vangelo prende quelle esperienze connesse con l 'ulti­mo giorno nella tradizionale escatologia cristiana e dice : «Esse sono presenti ora nella vita del credente !» . Egli rovescia la direzione de li' attesa cristiana, almeno in alcuni testi, sottraen­do l ' attenzione dal futuro e concentrandola sul presente. Prima di esaminare più a fondo questo aspetto, dobbiamo dare un' oc­chiata al terzo tipo di escatologia e poi cercare di riconciliare i vari tipi .

Alcuni degli ultimi capitoli del Vangelo possono esprime­re un' escatologia celeste. Questa è sempre una visione futuri­stica, ma è ben diversa da quella tradizionale del pensiero prato­cristiano. Esiste una dimora celeste che aspetta i cristiani : Cristo li condurrà là con sé ( 1 4,2-3). In questa dimora ci sarà il perfe­zionamento del rapporto fra cristiani e tra essi e Dio. Arriveranno ad una perfetta unicità ( 1 7,23 ) . Ora questa escatologia celeste non viene esplicitamente collegata con quella futuristica. Vale a dire, non viene dichiarato che, in seguito alla risurrezione e al giudizio, i cristiani saranno portati alla loro dimora celeste e resi perfetti . Sembra, invece, che ci sia qualcosa che accade dopo la morte del singolo credente e questo perfezionamento celeste è in parallelo alla continuazione della storia del mondo. Se le cose stanno così (e ci sono molte ragioni di incertezza su questo), allora abbiamo ancora un' altra visione radicalmente diversa della promessa di salvezza. Questa non è parte di un dualismo storico come sembra essere il caso dell 'escatologia futuristica del quarto Vangelo. Piuttosto, questa ipotizza un dualismo cosmico. Esistono due regni nel cosmo: il mondo e il cielo. Nel regno celeste i cristiani hanno una dimora e là viene loro promessa la perfezione (E. KASEMANN è un inter­prete che ritrova questa escatologia celeste nel Vangelo. Si veda i l suo L 'enigma del quarto Vangelo. Giovanni: una comunità in conflitto con il cattolicesimo nascente ?, Torino, Claudiana, 1 977) .

Quale posizione dobbiamo assumere alla presenza di questi tre diversi tipi di pensiero escatologico nello stesso Vangelo? Siamo stati testimoni di molti casi in cui gli insegnamenti

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sembravano contraddittori . Ora nelle posizioni escatologiche un' altra contraddizione richiede una risposta risoluti va. Ancora una volta, permettetemi di suggerire alcune possibili alterna­tive prima di presentare la mia risposta per la soluzione del conflitto.

l . La risposta sia-sia è la prima ad imporsi. Essa afferma semplicemente che il Vangelo di Giovanni sostiene tutto quello che dice. L'escatologia celeste non deve essere dissociata da quella futuristica. Si tratta di una parte di ciò che il credente può sperare nella futura consumazione del progetto di Dio. L'evangelista trascura semplicemente di rendere esplicito questo collegamento. Non esiste dualismo cosmico nell 'escatologia celeste . Il cielo è semplicemente la nuova èra che si avvicina con il completamento dell ' opera di Dio in Cristo. Così gli avvenimenti dell ' escatologia celeste devono essere compresi come un'ulteriore sequenza storica degli avvenimenti escato­logici futuristici . Inoltre, la distanza tra l ' escatologia futuri­stica e presente non dev 'essere esagerata. Come Paolo, tutto quello che l ' evangelista vuole indicare è che le future benedi­zioni dei credenti stanno già diventando disponibili mediante il loro rapporto in Cristo. A vere vita eterna e risurrezione ora vuoi semplicemente dire averne la promessa. Il compimento di queste benedizioni rimane ancora nel futuro. Il presente manifesta il sapore del futuro. Si tratta del! ' anticipo e il futuro costituirà il saldo del pagamento. L' antipasto consente a chi sta pranzando di assaporare il gusto delle portate che fra poco arriveranno. Così , l 'escatologia del presente proposta dal quarto evangelista vuoi farci intendere che queste esperienze sono un' anticipazione di ciò che verrà.

Questa visione del l 'escatologia del Vangelo rende l' evan­gelista piuttosto ortodosso. Forse sottolinea il presente un po' più del futuro, ma non fino ali ' eliminazione della speranza nel futuro. Questa alternativa ci porterebbe a prendere qualsiasi cosa dica l ' evangelista con pari serietà e notare che collega il tutto in una forma tradizionale .

2. L' alternativa della revisione redazionale è ben diversa. Alcuni (il più inflessibile è Bultmann) ritengono che il quarto evangelista abbia scritto soltanto i testi che presentano un'esca­tologia presente. L'evangelista rifiuta completamente l ' esca-

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tologia futuristica e crede soltanto nel compimento delle promes­se nel presente. Bultmann, quindi, ritiene che l ' evangelista in verità demitologizzi l 'escatologia futuristica. Vale a dire, l ' auto­re ha interpretato tutto il simbolismo sulla risurrezione nell ' ul­timo giorno, il giudizio e argomenti simili, in termini di possi­bilità del rapporto presente con Dio. Quando l 'evangelista ha terminato il Vangelo, non c ' era nessuna traccia di escatologia futuristica nelle sue pagine.

Allora son sorti i «redattori» . Cristiani credenti piuttosto ortodossi hanno preso nelle loro mani il Vangelo e si sono senti­ti insoddisfatti di quello che vi leggevano, così si sono presi il compito di «rivedere» il documento e renderlo più congeniale alle loro impostazioni. Fra le altre cose, hanno fornito al Vangelo un'escatologia futuristica. Sono stati loro che hanno scritto i testi che sottolineano come le promesse siano ancora da compier­si. Bultmann sostiene che questi redattori ecclesiastici del Vangelo abbiano lasciato traccia del loro lavoro. Quindi, il loro inter­vento sul testo si può separare mediante l ' analisi esegetica di stile e di contenuto, così come si può rintracciare il modo in cui i l loro intervento produce delle cadute nel corso della narra­zione (Bultmann in verità parla di un solo redattore di questo tipo, ma ritengo che possa essere coinvolto un gruppo di cristia­ni. Per le posizioni di Bultmann sia veda sia il suo Commentario, sia la sua Teologia del Nuovo Testamento, § 4 1 -50).

L' alternativa della revisione redazionale può anche giusti­ficare l ' escatologia celeste in molti modi di versi . Innanzi tutto, alcuni sostengono che si tratti di una parte dell 'escatologia presente tipica dell ' evangelista. I credenti sono nella dimora del Padre nella comunità dei credenti . Quivi essi sono resi perfetti nel l ' unità. Quindi , l 'escatologia celeste è ridotta ad una parte dell 'escatologia presente dell ' evangelista. Poi , Bultmann sostiene che l ' evangelista affermi che la qualità dell ' esisten­za presente del credente sopravviverà al sepolcro. L'evangelista crede in una vita oltre la morte, che continuerà l 'esistenza di fede iniziata in questa vita. In questo modo l 'escatologia celeste viene armonizzata con l 'escatologia come parte dell 'opera dell ' evangelista. Soltanto quella futuristica è opera dei reviso­ri del Vangelo, i quali in effetti hanno ridotto l ' armonia della posizione del Vangelo sull ' argomento.

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3 . L'alternativa della conservazione è diversa soltanto per un elemento. Bultmann è nel giusto quando dice che con l 'esca­tologia presente l 'evangelista sta reinterpretando (demitolo­gizzando) quella futuristica. Ma questa alternativa propone che i testi futuristici siano pervenuti all 'evangelista nella tradizio­ne e siano conservati nel Vangelo. Piuttosto che sostenere che un «redattore» abbia aggiunto l 'escatologia futuristica, questa soluzione propone che quella visione dell'escatologia sia presen­te in quanto risultato dell ' interesse dell ' evangelista a conser­vare il materiale tradizionale. Come per altri aspetti dell' ere­dità della comunità, l 'evangelista ha incorporato impostazio­ni escatologiche tradizionali anche se contraddicevano la sua (di lui o di lei) impostazione teologica. Questo autore ha rispet­tato la tradizione e ha onorato il suo posto fra i membri della comunità, ma ha anche aggiunto altre dimensioni alla prece­dente impostazione, vale a dire, i temi dell 'escatologia presen­te e di quella celeste, così da rispondere ai bisogni attuali della comunità.

In un certo senso, quello che il quarto evangelista stava cercando di fare era di prendere i simboli della precedente escatologia futuristica ed esprimerne il significato per i cristia­ni appartenenti al periodo in cui fu scritto il Vangelo. Che l ' autore abbia fatto questo è provato della vicinanza recipro­ca nel corso del Vangelo di testi in cui si parla di escatologia futuristica e presente. Forse si è notato quanto spesso l ' esca­tologia presente e quella futura si ritrovino nello stesso capito­lo, per esempio, 5,24-26 e 5 ,27-30 (si veda anche 6,39-58). Spesso (ma non sempre) l ' autore riprende i simboli tradizio­nali dell 'escatologia futuristica più vicini ali ' argomento di cui viene espressa la nuova interpretazione in quella presente. Le posizioni contraddittorie del Vangelo sono il risultato del conti­nuo sforzo dell ' autore per essere fedele «conservatore» e nello stesso tempo interprete della tradizione della comunità.

Questa alternativa accorderebbe con la posizione di Bultmann, secondo la quale l ' evangelista ha esposto una escatologia celeste che era coerente con quella presente. Oppure si potrebbe soste­nere che l 'escatologia celeste venga intesa soltanto come un' espressione simbolica della presente. Potrebbe darsi che il dualismo cosmico dell 'escatologia celeste significhi soltanto

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che la vita presente del credente è il punto d' incontro dei regni divino e umano. Abbiamo ipotizzato nel capitolo 2, sul tema del dualismo giovanneo, che il dualismo cosmico dell' evan­gelista potrebbe essere un'articolazione simbolica di una polarità umana. Si potrebbe sostenere anche che l 'escatologia celeste sia una forma più poetica di esprimere quelle credenze che hanno a che fare con l 'escatologia presente. Oppure ancora potrebbe essere che l 'escatologia celeste si fosse sviluppata nella comunità come supplemento all ' altra forma. Vale a dire, in presenza della morte di alcuni credenti giovannei , può essere che la comunità cominciasse a chiedersi: che cosa accade dopo la morte a quelli che in questa vita hanno già la vita eterna? La conclusione fu che essi, al momento della loro morte fisica, andavano ad occupare una dimora celeste .

Crediamo che la soluzione dei conservatori per risolvere le contraddizioni presenti nell ' escatologia giovannea sia la più promettente fra le alternative. La nostra ricerca ha ritrovato continuamente il fatto che l ' evangelista ha conservato materia­le tradizionale anche quando contraddiceva la sua posizione sull' argomento. Abbiamo anche visto che spesso l ' autore ha tentato un' interpretazione del materiale ereditato per adattar­la ai credenti suoi contemporanei, così come si è visto per la comprensione della fede nella fonte dei segni . Quindi sembra del tutto possibile che quanto abbiamo riscontrato riguardo all 'escatologia giovannea si muova lungo quelle stesse linee. L'evangelista ritiene che l' escatologia futuristica tradizionale non sia più significativa.

Erano già quasi cinquant' anni che i primi cristiani aveva­no iniziato ad anticipare la parusia. Essi avevano pensato che l ' evento fosse ormai imminente ma non avveniva nulla. Ogni successivo gruppo di credenti era stato deluso, Cristo non era tornato. «Basta con questa linea ! )) dice l'evangelista. «Finiamola di concentrare la nostra attenzione sul futuro e rendiamoci conto che il presente porta il compimento di quelle promes­se ! )) Utilizziamo per un momento la nostra immaginazione: l ' evangelista potrebbe essere cresciuto in una casa di cristiani che avevano atteso, pieni di aspettative, l ' imminente ritorno di Cristo. I suoi genitori erano morti, delusi dal non aver vissu­to abbastanza per essere testimoni del compimento delle attese

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escatologiche. Disillusi, l ' evangelista e altri cristiani hanno intrapreso l 'esame di queste stesse promesse. Hanno pensato che l ' esperienza presente dei credenti è piena di quella realtà che si aspettavano nel futuro. Così essi iniziarono ad insegna­re che il presente è il tempo del compimento delle promesse di Dio. Il credente vive già nel l ' ultimo giorno. L'eternità è ora !

Questa è una delle più forti revisioni del pensiero cristia­no tradizionale che il Vangelo proponga. Sostiene che i cristia­ni non hanno bisogno di vivere soltanto in speranza, ma nella realtà delle benedizioni della loro vita presente. L'orientamento futuristico dei primi cristiani li aveva privati della benedizio­ne del presente . Il Vangelo espande la loro teologia sensoria­le con un'escatologia dell ' esperienza. La fede non nasce soltan­to dalle esperienze sensibil i , ma le benedizioni del futuro sono già qui per essere sperimentate ora. Questo è un orientamen­to radicalmente rivolto al presente, un orientamento sull ' im­mediato.

Si potrebbe trovare un' analogia nelle reazioni di molte persone al programma spaziale americano; essi non vogliono che sia senza controllo. L'esplorazione dello spazio è una ricer­ca legittima e promettente, ma si preoccupano per il denaro impiegato nell'esplorazione dello spazio esterno mentre i proble­mi della vita qui ed ora, in questo mondo, aumentano. Essi dicono: «Spendiamo di più in denaro e in energia per il miglio­ramento della vita di questo pianeta prima di impegnarci maggiormente su11e frontiere dello spazio aperto» . Il quarto evangelista sta dicendo che troppe energie sono state spese nell ' attesa del futuro. Ci si deve concentrare di più sul presen­te e sulla qualità della vita cristiana qui ed ora.

Il quarto evangelista ha capito che il presente è gravido di possibilità e vorrebbe che i lettori fossero sensibili a queste possibilità e le realizzassero. La vita eterna? È già vostra, ora, quando vi ve te un nuovo tipo di esistenza sulla base della rivela­zione di Dio in Cristo. La risurrezione? Essere nati ad una nuova vita come risultato della fede in Cristo significa vivere la risurrezione. State giudicando voi stessi dal tipo di risposta che date alla proclamazione dell 'evangelo cristiano. La parusia? Cristo viene di nuovo quando voi credete in lui .

Noi possiamo aver sottolineato troppo l ' impatto dell 'esca-

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tologia presente che troviamo nel Vangelo. La verità è che il testo contiene promesse sia per i l presente sia per i l futuro. Le attese sono state riviste e riqualificate con le affermazioni sull 'e­scatologia presente. Ma esse non sono state eliminate ! Stanno là, nel testo, accanto alle dichiarazioni sull 'esperienza presen­te dei cristiani . Questo deve voler dire che il Vangelo insegna sia una acuta attenzione al modo in cui il presente compie le promesse di Dio sia la portata di queste promesse, che devono ancora essere adempiute. Così , in modo reale, la soluzione «sia . . . sia» al problema escatologico è corretta. L'evangelista non solo conserva l ' escatologia futuristica tradizionale, ma l ' afferma anche nel conservarla. Questa visione delle promes­se di Dio è corretta ! Merita ancora la nostra fiducia !

Il risultato è che il Vangelo di Giovanni ci si presenta con quella che abbiamo chiamato escatologia dialettica. Questo significa che la verità non si trova nell ' una o nell ' altra posizio­ne, ma soltanto in un dinamico interscambio fra l ' una e l ' altra. La vera escatologia cristiana, insiste il Vangelo, non consiste in un nostro orientamento esclusivamente futuristico o presen­te. Piuttosto, si trova nel tenersi strettamente collegati alle due posizioni, che abbracciano sia il già, sia il non ancora. In un certo senso, Dio ha già compiuto le promesse divine nella nostra vita presente . Inoltre, Dio deve ancora portare a compi­mento quest' opera nel futuro. Le due posizioni devono andare insieme, come dice una vecchia canzone dei tempi della «frontie­ra» , riguardante l ' amore e il matrimonio, il cavallo e il carro.

Ricordiamo il titolo di questo libro: «Giovanni, il Vangelo indomabile» . Nella sua dialettica escatologica il quarto Vangelo è proprio un indomabile fra gli scritti del cristianesimo primi­tivo. Corre libero e senza briglie, scevro dal vincolo di aderi­re semplicemente alle visioni tradizionali . Ma diversamente da molti indomabili , rispetta e onora il passato. Conserva ciò che viene dalla tradizione mentre cerca di fargli prendere una nuova direzione, sposa quello che si è perso con alcuni indoma­bili elementi culturali americani. Sa che un cambiamento effica­ce nel pensiero e nella pratica non deve mettere totalmente da parte il passato, ma conservarlo e reinterpretarlo. Questo è appunto quello che il Vangelo fa con la sua complessa escato­logia.

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LA VISIONE GIOVANNEA DELLO SPIRITO

Dobbiamo ora iniziare a prendere in considerazione il perché il quarto Vangelo potesse avere una così grande stima per le possibilità della vita presente del credente cristiano. La sua escatologia è certamente il risultato di convinzioni che la comunità giovannea condi vide va sulla qualità del l ' esperienza cristiana. Una di queste convinzioni prevede la presenza dello Spirito fra i credenti . Poiché i credenti giovannei tenevano in gran conto la presenza dello Spirito nell ' e sperienza della comunità cristiana, potevano dichiarare che le benedizioni future sono già realtà presenti . La loro visione dello Spirito è un altro dei grandi contributi che questo Vangelo ha dato al pensiero cristiano.

Letture preparatorie: si legga velocemente i l Vangelo, facendo atten­zione al l ' uso del la parola «Spirito>> . Si cerchi poi di determinare il significato di questa parola nel Vangelo.

Iniziamo il nostro esame della visione dello Spirito nel Vangelo di Giovanni notando il modo in cui viene utilizzata la parola grecapneuma. Ricorre approssimativamente ventiquattro volte, nella maggior parte dei casi in riferimento allo Spirito di Dio, ma occasionalmente allo spirito umano. Giovanni 1 1 ,33 e 1 3 ,2 1 sono esempi di quest 'ultimo uso. Tuttavia, è l ' uso dello Spirito per far riferimento alla presenza di Dio che ci interes­sa in particolare. In questi casi sembra che i l Vangelo parli dello Spirito in quattro modi diversi ma correlati .

Nel primo, indica semplicemente la potenza e il carattere di Dio dato all ' uomo Gesù. Questo sembra essere il caso di l ,32 e 33 . Giovanni il Battista rende testimonianza della disce­sa dello Spirito su Gesù. Il concetto viene confermato in 3 ,34: il Padre ha dato al Figlio lo Spirito senza limiti . Il quarto Vangelo condivide questa visione con i Sinottici (si veda in particola­re il Vangelo di Luca) .

Nel secondo modo d' uso, la parola «Spirito>> è più speci­fica, sta ad indicare «la vita spirituale» . Sembra collegata con la presenza divina che produce la nuova vita del credente. È mediante Cristo che questa presenza viene trasmessa ai crede n-

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ti (7 ,39; 20,22) : il commento del redattore in 1 9,30 è ambiguo. La normale traduzione dice: «E [Gesù] chinato il capo, rese il suo spirito)) . Evidentemente in questo caso il traduttore prende la parola «spirito)) per indicare lo spirito della vita propria di Gesù . Però, anche i traduttori sono, inevitabilmente, degli inter­preti ! Il greco letteralmente dice semplicemente: «rese lo spiri­to)) . Quindi i l riferimento potrebbe essere, ancora una volta, all' azione di Gesù del donare lo Spirito divino ai credenti .

Nel capitolo 4 del Vangelo si trovano alcune indicazioni sul come la presenza di Dio nello Spirito produca un nuovo genere di vita. Il versetto 23 parla della trasformazione del culto dei credenti e il versetto 24 rende esplicito il fatto che lo Spirito è la presenza stessa di Dio. Questo secondo versetto non è tanto una definizione di Dio, quanto piuttosto un' affer­mazione del fatto che Dio è conosciuto dal credente nello Spirito. «Spirito)) viene utilizzato in tutti questi testi per indica­re una presenza divina che modifica la vita dei credenti . In questo modo, esso è collegato con la rivelazione di Dio in Cristo. La rivelazione rende possibile un nuovo senso della presenza di Dio, che a sua volta trasforma l ' esistenza umana.

Il terzo tema si sviluppa dal secondo nella concezione giovannea dello Spirito. Il passaggio a questa nuova vita accor­data dallo Spirito è presentato come una nascita. La vita spiri­tuale emerge da una «nascita spirituale)) , Il credente nasce da acqua e da spirito (3,5) e questa nuova venuta al mondo è diver­sa da quella fisica poiché la sua origine è opera di Dio, non a causa di un' azione umana (3,6; 6,63) . Pertanto è misteriosa, come il soffio del vento (3 ,8 ; si ricordi che pneuma vuol dire sia spirito sia vento). Questa idea della nascita per Spirito è una metafora per suggerire come la vita del credente emerga dal i ' essere circondati dalla presenza di Dio. Il Vangelo di Giovanni non si propone di dirci esattamente come avvenga questa nascita spirituale ma, quasi all ' opposto, suggerisce che si tratta di qualcosa di imprevedibile e misterioso, come le folate di vento in un pomeriggio di marzo. Il Vangelo afferma chiaramente che lo Spirito riordina radicalmente la vita umana.

Infine, troviamo lo Spirito utilizzato in collegamento con un' espressione tipicamente giovannea: l ' «Avvocato)) o i l «Consolatore)) . Avremo bisogno di esaminare questa conce-

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zione più a fondo tra un momento. Per ora si noti che il quarto evangelista mette sullo stesso piano lo Spirito divino e il Consolatore. Quest'ultimo è chiamato «Spirito di Verità» in 14, 1 7 ; 1 5 ,26 e 1 6, 1 3 . Se la mia impressione è corretta, Verità nel Vangelo di Giovanni significa la rivelazione di Dio in Cristo. Quindi , lo Spirito di Verità è colui che comunica questa rivela­zione di Dio. In 1 4,26 il Consolatore è chiamato lo «Spirito santo», un 'espressione tradizionale utilizzata quando si parla­va della misteriosa presenza di Dio fra i cristiani .

Poche, veloci conclusioni : il Vangelo afferma che lo Spirito è stato dato a Gesù (l ,32), così che egli, a sua volta, potesse darlo ai credenti (20,22). Il conferimento dello Spirito ai creden­ti è strettamente collegato alla crocifissione e alla risurrezio­ne di Gesù ( 1 9,30; 20,22) . Sembra, allora, che il quarto Vangelo prenda alcune affermazioni cristiane tradizionali sullo Spirito e le rielabori . Questo processo determina due sottolineature: Gesù stesso dona lo Spirito ai credenti e questo dono della presenza divina comporta una vita radicalmente nuova. Però il contributo più creati v o dato dal Vangelo di Giovanni al pensie­ro cristiano sullo Spirito dobbiamo ancora esaminarlo.

Letture preparatorie: si leggano i seguenti testi in cui Gesù parla del Consolatore: 14, 1 5 - 17 .25-26; 1 5,26-27; 1 6,7- 1 5 . Si prendano in consi­derazione queste domande: chi è questo Consolatore? In che modo

è in rapporto a Cristo e al Padre? Che cosa fa il Consolatore, a chi e per chi? Qual i sono le affermazioni più importanti su di esso fatte in questi testi?

Il passo successivo che dobbiamo compiere nel nostro esame della pneumatologia (vale a dire, quello che si crede e si insegna sullo Spirito) nel quarto Vangelo è esaminare la parola parti­colare che a volte utilizza per parlare dello Spirito. Questa è Paracleto (parakletos). Il quarto Vangelo è l ' unico documen­to neotestamentario che utilizza questo termine per indicare lo Spirito. Il suo significato è un po' difficile da definire con esattezza. In verità, ci sono almeno quattro sfumature di signi­ficato e quindi quattro traduzioni della parola greca. Le prime due hanno in comune il fatto che provengono dal linguaggio tipico dei tribunali del tempo. Paracleto può voler dire «uno che è chiamato a fianco di un altro per aiutarlo». Si tratta di qualcuno che è chiamato ad assistere un cliente in un caso

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giudiziario davanti alla corte. Quindi la traduzione «Avvocato» viene utilizzata per la parola greca originale in alcune versio­ni moderne della Bibbia. Il secondo significato è simile : il Paracleto è «uno che intercede, implora o rivolge appello per un altro». Ancora una volta il contesto è quello di un proces­so legale. Il Paracleto è l ' avvocato difensore (una specie di figura alla Perry Mason, se si vuole), che parla per il suo assisti­to. Quindi, la traduzione «lntercessore}} si trova talvolta nei testi che sono stati indicati per la lettura.

I prossimi due possibili significati della parola grecaparak­letos non hanno accezioni legali né sono legati a vicende foren­si. Il primo è «colui che conforta e consola un altro}} . Questo significato ha dato origine alla traduzione «Consolatore}> . Come se questa schiera non fosse ancora sufficiente, ci imbattiamo nel fatto che questa affascinante parola greca è stata utilizza­ta anche per indicare colui che «proclama o esorta}> . Così può anche essere tradotta correttamente con «Proclamatore}} .

Evidentemente era un vocabolo molto ricco di significati al tempo del nostro evangelista. Era una parola dai molteplici e vari s ignificati : Avvocato, Intercessore, Consolatore e Proclamatore . Il quarto evangelista sembra collegare i signi­ficati in un modo originale per creare un nuovo concetto. Sappiamo anche che la parola era utilizzata in alcuni circoli giudaici in riferimento alle funzioni degli angeli. Il Vangelo di Giovanni ha preso questa parola densa di significati e l 'ha applicata allo Spirito di Dio. Il risultato è una stupefacente teologia dello Spirito. Questo non ci deve sorprendere: abbia­mo visto nel capitolo l come il Vangelo faccia esattamente lo stesso con la parola Logos, che pure aveva significati dispa­rati . Riferendola a Cristo, questo Vangelo ne suggerisce una visione profonda e penetrante. Lo stesso è vero per quanto riguarda lo Spirito. Con la parola parakletos il Vangelo cattu­ra l ' immaginazione di un' ampia gamma di persone e apre numerose possibilità di significato per lo Spirito. È certamen­te giusto dire che il quarto evangelista avesse dimestichezza con le parole . Gran parte del genio di questo Vangelo è radica­to n eli ' uso «provocatorio}} della parola. Su questo piano, l ' auto­re ha tanto in comune con un buon poeta quanto con un buon teologo.

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Sicuramente l ' applicazione della parola parakletos per indicare lo Spirito significa qualcosa di più. Vuoi dire che, per qualche ragione, la comunità giovannea non era completa­mente soddisfatta del semplice titolo di Spirito. Naturalmente il Vangelo utilizza questa espressione senza alcuna riserva apparente, come abbiamo visto, ma quando si arriva alla spiega­zione della funzione dello Spirito santo nei capitoli da 14 a 1 6, inizia ad utilizzare la parola parakletos. Forse l ' evangelista aveva alcune obiezioni verso una concezione comune fra i giudei, secondo la quale c 'era un angelo speciale che agiva come parakletos. Forse i testi osano attribuire alla concezio­ne cristiana dello Spirito di Dio una denominazione partico­lare, così da affermare che soltanto Cristo dona lo Spirito e che soltanto egli è il parakletos. Avendo a che fare con i respon­sabili della sinagoga giudaica, i cristiani giovannei avevano bisogno di parlare della presenza di Dio in mezzo a loro in modo da distinguersi . Quale che possa essere la ragione, i l Vangelo di Giovanni collega questo titolo allo Spirito e con ciò provoca un gran movimento di pensiero.

Dobbiamo cercare di sintetizzare la natura e la funzione del parakletos così come le descrive il Vangelo di Giovanni (in questo caso, come altrove, sono in debito con l ' eccellente Appendice del Commentario di R .E. B ROWN , Giovanni, Commento al Vangelo spirituale, Assisi, Cittadella editrice, 1 979). Sulla natura del parakletos possiamo dire due cose:

l . il parakletos viene da ed è legato sia al Padre sia al Figlio:

a) viene soltanto se Gesù se ne va ( 1 5 ,26; 1 6,7 .8 . 1 3) ;

b ) viene dal Padre ( 1 5 ,26);

c) il Padre lo dona in risposta alla richiesta di Gesù ( 14, 16);

d) viene inviato nel nome di Gesù ( 1 4,26);

e) Gesù invia il parakletos dal Padre ( 1 5 ,26; 1 6,7);

2. il parakletos viene identificato in modi diversi :

a) «Un altro Consolatore», con l ' implicazione che Gesù è il primo ( 1 4, 1 6) ;

b) lo «Spirito di verità» ( 14, 1 7 ; 1 5 ,26; 1 6, 1 3) ;

c) l o «Spirito santo» ( 14,26).

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Riassumendo questi dati , possiamo dire che il parakletos è la continuazione di Cristo, anzi , il suo alter ego. Quello che viene detto sui rapporti del Figlio con il Padre nel corso del Vangelo vale anche per buona parte del rapporto del parakle­tos con il Padre. Ma questo essere misterioso dipende dal ministero di Gesù. Il parakletos è, com'era, iì «secondo atto», che non può iniziare finché il «primo atto» (il ministero di Gesù) non è terminato.

Possiamo parlare delle funzioni del parakletos sotto due punti di vista separati :

l . il rapporto del parakletos con i discepoli :

a) è facilmente riconoscibile dai discepoli ( 14, 1 7) ;

b ) è in loro e continua a rimanere con loro ( 1 4 , 1 6- 1 7) ;

c) è il loro maestro ( 1 6, 1 3 ) ;

d) annuncia loro le cose che accadranno in futuro ( 1 6, 1 3) ;

e ) indica ciò che viene o che non viene da Cristo ( 1 6, 1 4) ;

f) glorifica Cristo ( 1 6, 1 4 ) ;

g ) rende testimonianza a Cristo ( 1 5,25) ;

h) ricorda ai discepoli tut>o quello che Gesù ha detto ( 14,26) ;

i) parla solo di ciò che ha udito ( 1 6, 1 3) .

2 . il rapporto del parakletos con il mondo. Il mondo:

a) non può accettare il parakletos ( 14, 1 7) ;

b) non può vedere o riconoscere il parakletos ( 14, 1 7) ;

c) rifiuta il parakletos ( 1 5 ,26) ;

d) questo rifiuto non impedisce al parakletos di rendere testimonianza a Cristo ( 1 5 ,26) ;

e) è condannato, trovato mancante e giudicato colpevole di peccato dal parakletos ( 1 6,8- 1 1 ; questo testo è molto diffi­cile sia da tradurre sia da comprendere, ma questa sinte­si ne coglie almeno il suo significato fondamentale) .

Evidentemente, secondo il quarto Vangelo, il parakletos ha una doppia funzione: comunicare Cristo ai credenti, mettere il mondo sotto giudizio e riconoscer! o colpevole secondo l ' accu­sa rivolta.

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II quarto evangelista sta sciogliendo due problemi fonda­mentali con questa concezione del parakletos. II primo viene affrontato da gran parte delle pagine neotestamentarie, vale a dire, il ritardo della parusia. Cristo non è ritornato così come si aspettava che facesse, ma, dice l ' evangelista, è riapparso sotto forma del parakletos. Egli è presente anche se sembra che la parusia non sia mai avvenuta. Il parakletos e Cristo sono strettamente correlati nei testi che abbiamo appena esaminato cosicché questo concetto ha potuto essere stabilito. Il parak­letos è Cristo in mezzo a noi, proclama l ' evangelista ! Egli sta indicando ai suoi lettori che la vecchia attesa cristiana del ritor­no di Cristo si rivolgeva nella direzione sbagliata. Non guarda­te al futuro per il suo ritorno. Guardate, piuttosto, ali ' espe­rienza presente della comunità. Provare in maniera cristiana lo Spirito è la loro esperienza del Cristo riapparso. La parusia è avvenuta ma non nei termini piuttosto grossolani in cui era attesa. Quindi, la concezione del parakletos nel Vangelo è parte dell 'escatologia del libro . Si tratta di una branca del l 'escato­logia del presente insegnata dali ' evangelista e costituisce parte della convinzione dello scrittore che l 'esperienza presente del credente sia gravida di possibilità.

Il Vangelo di Giovanni rispondeva anche ad una domanda ben più grande con la sua dottrina del parakletos. Il ritardo della parusia costituiva un problema prettamente cristiano in un determinato momento della storia di questa religione. L' altro problema combattuto dal l ' evangelista ha una portata univer­sale . Si tratta della distanza storica dal tempo della rivelazio­ne. Se una religione insegna che la realtà ultima è stata rivela­ta in un particolare momento della storia, si pone immediata­mente un dilemma: come possono le persone avvalersi di questa rivelazione se esse vivono in un momento successivo della storia? Il cristianesimo riuscì più tardi a risolvere questo proble­ma con la creazione del canone. Avrebbe detto che la rivela­zione storica di Dio è conservata in questi particolari testi, che costituiranno la Bibbia e si può avere accesso a questa rivela­zione mediante la lettura della Bibbia. Ma i cristiani giovan­nei vivevano in un periodo precedente alla formazione di un canone cristiano. La risposta del Vangelo al problema di annul­lare il lasso di tempo necessario per collegarsi con il tempo

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della rivelazione storica è risolto mediante la persona e l ' ope­ra del parakletos.

Questi prende la rì velazìone resa da Dio nella persona dì Gesù e fa da tramite per le persone dì tempi successivi . Quindi, il Vangelo sottolinea che il parakletos non insegna cose nuove, ma riprende soltanto quello che Cristo ha insegnato (per esempio 1 4,26). Il Vangelo sostiene nello stesso tempo che il parakle­tos è il testimone della rivelazione di Dio in Cristo ( 1 5 ,26). In verità è il mediatore della rivelazione divina, il messaggero divino della rivelazione.

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Possiamo comprendere perché il problema della rivelazio­ne fosse un argomento al quale l ' evangelista doveva necessa­riamente rispondere . I cristiani giovannei vivevano in un perio­do in cui i testimoni oculari del Gesù storico stavano moren­do. C 'erano cristiani della seconda e della terza generazione che si chiedevano come avrebbero potuto avere accesso diret­to a quanto era accaduto quasi cinquant' anni prima. Il Vangelo di Giovanni fornisce loro la risposta. In virtù dell 'opera del parakletos, essi avevano accesso diretto a quella rivelazione, così come l ' avevano avuto i discepoli originali (del Gesù stori­co) . Essi non sono cristiani di seconda mano: la loro verità proviene da un inviato che è niente meno che l 'alter ego di Cristo stesso.

Esiste un altro modo di porre questo problema che costi­tuisce forse una forma maggiormente positiva per esprimere la stessa preoccupazione. Come può avvenire che i cristiani continuino a sperimentare la presenza di Cristo anche dopo

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tutti questi anni? Perché la rivelazione di Dio in Cristo conti­nua ad afferrare la vita delle persone e a trasformarle? Come spieghiamo la realtà della presenza di Cristo per i credenti? La risposta che l ' evangelista propone è contenuta nella sua conce­zione del parakletos . L'esperienza dei cristiani può essere spiegata soltanto in base alla presenza divina. È il parakletos che costituisce la presenza vivente di Cristo ed è l ' opera dello Spirito che rende facilmente disponibile a tutti la rivelazione di Dio in Cristo.

Il concetto del parakletos è allora un lampo di genio ! Espande arditamente il più antico concetto dello Spirito di Dio utiliz­zando un nuovo termine in forma originale. Ha dato ai cristia­ni un modo specifico di pensare alla presenza di Dio, ha rispo­sto alla domanda critica sul ritardo della parusia e ha risolto il problema della crescente distanza temporale dalla rivelazione storica. In qualche circostanza, un grande pensatore perviene ad un ' idea che in modo quasi perfetto «parla» alla sua genera­zione. Possiamo dire che Platone, Tommaso d' Aquino, Hegel, Freud e molti altri erano pensatori di questo calibro. Credo che anche il quarto evangelista appartenga a questa categoria, almeno per quanto riguarda la concezione del parakletos.

Con tale concetto il quarto Vangelo ha riaffermato la ricchez­za dell 'esperienza presente dei cristiani , dichiara che in questo tempo, ora, adesso, è presente Cristo. La pienezza della rivela­zione di Dio nella storia è a portata di mano del singolo nel l 'o­pera del parakletos. L'eternità e la storia si sono intrecciate in passato nel l ' incarnazione di Dio in Cristo e possono ancora intrecciarsi in futuro, quando Dio condurrà la storia all 'epilo­go. Ma esse sono correlate nel presente del credente. L'eternità è ora.

LA CONCEZIONE GIOVANNEA DELLA CHIESA

La ricchezza del presente dei credenti viene affermata ancor di più in quello che il Vangelo ha da dire sulla comunità cristia­na. È stato detto che la concezione della chiesa svolge un ruolo

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minore nel quarto Vangelo e perfino che esso non contiene una concezione della chiesa. Questo viene affermato in base al fatto che non utilizza mai la parola «chiesa)) . Un tale giudizio è però prematuro. Pur senza mai utilizzare questa parola, il Vangelo esprime una forma di comprensione della comunità cristiana molto importante. Articola una visione della chiesa senza mai ricorrere all 'uso di questa parola.

Letture preparatorie: due discorsi metaforici di Gesù sono ri levanti per la nostra analisi della vi sione del Vangelo sulla comunità cristia­na: il Buon pastore e la Porta ( 1 0, 1 - 1 8) e la vera vite ( 1 5 , 1 - 1 0) . S i leggano questi due testi e poi si continui a leggere i capitoli 1 5, 1 6, 1 7 e 20. Il cuore della concezione della comunità cristiana si trova in quel che vien fatto dire a Gesù in questi testi sui rapporti fra i credenti cristiani e fra loro e Cristo. Si veda se è possibile preparare una l ista delle caratteristiche di questi rapporti .

La concezione della comunità cristiana nel quarto Vangelo è molto diversa da quelle che si trovano altrove nel Nuovo Testamento. Ciò è particolarmente vero se ci interroghiamo sulla concezione della chiesa formulata nei testi del Nuovo Testamento scritti dopo il 70 d.C. Da quel momento in poi nella storia del movimento cristiano primitivo si è manifestato un interesse preminente per la comprensione della chiesa e, in particolare, un interesse nella crescita di materie istituzionali e in problemi riguardanti la sua specifica autorità. Si confrontino, per esempio, i testi che sono stati appena letti con il Vangelo di Matteo. In quest'ultimo, la natura e la struttura della chiesa sono estrema­mente rilevanti . Le famose (e controverse) parole di Gesù dette a Pietro dopo la confessione di Cesarea di Filippo costituisco­no il modo in cui il Vangelo di Matteo comprende il fondamento della chiesa sull' autorità apostolica (M t. 1 6, 1 3-20). L'interesse centrale del primo Vangelo per questo argomento si può vedere quando confrontiamo il suo modo di raccontare l 'episodio con quelli dei Vangeli di Marco e Luca (Mc. 8,27-33 ; Le. 9, 1 8-22) .

Questo interesse non è preminente in Giovanni. L' intero passaggio presente nel Vangelo di Matteo riguardante la confes­sione a Cesarea di Filippo è del tutto assente nel quarto Vangelo. Il nostro evangelista non sembra essere interessato alla strut­tura istituzionale della chiesa. La sua (di lui o di lei) compren­sione della comunità cristiana non si focalizza sull ' autorità

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della chiesa o dei suoi responsabili , né condivide l ' insistenza del primo evangelista sul fondamento apostolico della chiesa. Perché? Dirò più avanti che il quarto evangelista non si doveva ancora confrontare con quegli argomenti che hanno originato un interesse per i problemi istituzionali. La chiesa giovannea si sta ancora confrontando con una seria minaccia che provie­ne dali ' esterno della comunità dei credenti . Per questo motivo la concezione della chiesa nel nostro Vangelo è strutturata su questo aspetto. Soltanto più tardi, quando la comunità giovan­nea verrà minacciata dall ' interno da concezioni che potevano minare la comunità, si manifesterà una preoccupazione per l ' autorità e la struttura istituzionali . Non assistiamo a questo sviluppo nel Vangelo di Giovanni, ma nelle lettere giovannee. Quando fu scritto i l Vangelo, il problema dell ' istituzionaliz­zazione semplicemente non era per nulla rilevante. Tale proces­so si rivolge a problemi interni, non esterni, e i cristiani giovan­nei erano interamente assorti dai problemi esterni quando il nostro evangelista scrisse i l suo testo. Ma il quarto Vangelo non è in verità anti-istituzionale. L'evangelista e i primi letto­ri semplicemente non erano ancora presi dal problema delle strutture istituzionali della chiesa (vedi l 'Appendice A, «Le epistole giovannee e il Vangelo di Giovanni>)) .

Che cosa ha da dire il quarto evangelista sulla comunità cristiana? Presentiamo cinque generalizzazioni sulla comunità dei credenti presentata dal quarto Vangelo. Si tratta, in effetti, di forti generalizzazioni , ma colgono l ' essenza della conce­zione giovannea.

In primo luogo, la comunità dei credenti è una a motivo della sua unità con Cristo. Questo punto viene sintetizzato in 1 7,23 come parte della preghiera di Gesù : «lo in loro e tu in me affinché siano perfetti nell ' unità)). La comunità dei creden­ti è una in Cristo ed egli è uno con il Padre. I membri della comunità sono uno. Qui la concezione giovannea della comunità dei credenti è ricavata dalla sua comprensione di Cristo. Come esiste identità e individualità fra il Padre e il Figlio, così avvie­ne nella comunità. L'unità di cui si parla nel rapporto fra i credenti cristiani gli uni con gli altri e con Cristo è modellata sul rapporto esistente fra Cristo e Dio. I membri sono uniti a Cristo, tuttavia questo non significa che essi siano assorbiti

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nella sua persona. Questa non è una concezione mistica della comunità. L' identità distintiva viene conservata nell 'unità con Cristo, così come l ' individualità di Cristo è conservata nella sua unità con il Padre.

Se è vero che il rapporto del Padre con il Figlio è il model­lo che viene utilizzato, ne consegue ancora qualche altra cosa. L' unità dei credenti non è tale da abolire la loro individualità. Essi sono uno, ma sono uniti in quanto individui singoli . La specificità è mantenuta all ' interno della loro comunione in quanto membri della comunità. Abbiamo allora lo stesso tipo di tensione fra l ' individualità e l ' identità che abbiamo incon­trato nel capitolo l quando abbiamo trattato la cristologia giovannea. I legami all ' interno della comunità dei credenti potrebbero essere analoghi alla comprensione moderna del matrimonio. Si tratta di un' unione di due persone: «Saranno una sola carne» (Gen. 2,24). Ma l ' individualità degli sposi è mantenuta. L' unione è reale e nel contempo preserva la sacra­lità della distinzione delle persone. Il rapporto potrebbe essere rappresentato nella conformazione del numero «8». Se la si guarda da una prospettiva, si tratta di una linea continua nella sua unità. Vista da un' altra, si tratta di due cerchi . Ciascuno dei due è indipendente dal i ' altro . Tuttavia i due si toccano in un punto. Quindi, esiste unità ma anche individualità distinti­va. Si pensi, volendo, a una serie di numeri «8» tutti compo­sti da una l inea continua, ma che formano una serie di cerchi singoli disposti l ' uno accanto ali ' altro. Una tale figura immagi­naria potrebbe rappresentare la concezione giovannea della comunità cristiana: l ' unità nella diversità.

In secondo luogo, la comunità è una nell 'amore. Questo tema viene espresso nel modo migliore in 1 5 , 1 4- 1 7 . Il coman­damento sotto cui vive la comunità cri stiana è semplice : «Amatevi gli uni gli altri» ( 1 5 , 1 7) . Ancora una volta, il model­lo è cristologico. Dio ama il Figlio e i l Figlio ama il Padre. Il Figlio a sua volta ama i credenti ed essi devono amarsi gli uni gli altri . La qualità del rapporto fra i l Padre e i l Figlio e fra il Padre e i l mondo {3 , 1 6) costituisce il tipo di rapporto al quale la comunità viene chiamata. Si tratta di amore reciproco. La comunità dei credenti deve esemplificare quel genere di amore che esiste tra Dio e il suo unico Figlio.

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La terza generalizzazione ci porta al cuore della concezio­ne giovannea della chiesa: la comunità è il luogo della manife­stazione di Dio. Questo concetto si coglie in 1 7,22-23, ma esso coinvolge una logica piuttosto complessa. Innanzi tutto, si deve intendere che l ' espressione «gloria» qui venga utilizzata nel significato fondamentale ebraico della parola kabod. Questa parola ebraica viene util izzata nelle Scritture ebraiche per indicare la manifestazione di Dio. Egli si rivela, si fa presen­te nella storia mediante opere potenti . La sua presenza è gloria! La logica della concezione giovannea presuppone questo fonda­mento presente nel Primo Testamento, e nel capitolo 1 7 si muo­ve secondo queste linee di tipo sillogistico:

la gloria viene data a Gesù ( 1 7,22.24);

Gesù dona questa gloria ai credenti ( 1 7,22) ;

quindi i credenti manifestano la gloria di Dio ( 1 7,23) .

Questo significa che la manifestazione di Dio in Cristo è stata ora trasferita alla comunità dei credenti . Ora è in mezzo a loro che Dio si fa conoscere come una volta si faceva conosce­re con le opere potenti nella Bibbia ebraica e poi nella perso­na e n el i ' opera di Cristo.

Questa è una concezione sorprendente ! Sostiene che la rivelazione di Dio è presente nella comunità dei credenti cristia­ni . Questo significa che la comunità è oggi quello che le opere potenti di Dio nella storia e in Gesù erano per il mondo. Se il luogo della rivelazione era una volta in Gesù, ora si colloca nella comunità dei credenti e per loro mezzo. Se si vuole, la comunità svolge il ruolo di un ' incarnazione continua. Il parak­letos è attivo fra i credenti ed è fra di loro che va ricercata la presenza di Dio.

Qui c'è un ulteriore motivo per il quarto Vangelo di sotto­lineare l ' esperienza presente dei cristiani . La loro comunità è il luogo della rivelazione di Dio, della presenza divina. Quindi, Dio è disponibile per il credente nel proprio tempo mediante i lparakletos. Essi sono invitati dal quarto evangelista a guarda­re alla loro esperienza presente nella comunità per riconoscervi la rivelazione di Dio. L' eternità tocca la storia nella comunità dei credenti cristiani, così dice arditamente l ' evangelista. In questo modo, per loro, l ' eternità è ora.

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Possiamo sintetizzare queste prime tre generalizzazioni sulla concezione giovannea della comunità dei credenti . Questi tre punti sono in verità uno solo, come dimostra lo schema 1 2 .

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PADRE

l amore - gloria - unità

t amore - gloria - unità

t CREDENTI

interrelazione =

amore - gloria - unità

Schema 1 2

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La comprensione della comunità cristiana prende forma sulla base del rapporto fra il Padre e il Figlio. Come il Padre ama il Figlio, così i credenti devono amarsi gli uni gli altri . Così come essi sono uniti come singoli individui, così è unita la comunità dei credenti. Come il Padre si rivela mediante il Figlio, così il Padre si rivela nella comunità e mediante essa. Ritengo che questa sia una concezione della chiesa molto signi­ficativa. Si tratta di una visione che dà il massimo rilievo al ruolo della comunità dei credenti, forse un posto anche troppo alto ! Considera la comunità come il luogo dell ' azione conti­nua di ciò che è stato così decisivo nella rivelazione storica di Dio in Cristo.

La quarta generalizzazione sulla concezione giovannea della chiesa è di un genere diverso: il quarto evangelista «democra­ticizza» l 'ordinamento ecclesiastico (qui mi collego esplicita­mente a E. KASEMANN, L'enigma delquarto Vangelo. Giovanni: una comunità in conflitto con il cattolicesimo nascente?, Torino, Claudiana, 1 977. In tutta questa sezione sulla chiesa, in verità, le tesi di Kasemann sono state una fonte di riferimento fonda­mentale). Egli ha scritto probabilmente in un tempo in cui l ' orga­nizzazione della chiesa si stava sviluppando rapidamente . Tuttavia, il Vangelo dimostra un interesse estremamente ridot­to verso questo argomento. Nel momento in cui si sviluppa un maggior interesse nella chiesa primitiva per lo sviluppo di responsabili particolari nell'organizzazione della chiesa, il nostro evangelista sembra muoversi nella direzione opposta. La cosa più sorprendente circa la presentazione giovannea della comunità dei credenti è che non si fanno distinzioni di sorta fra di essi che possano costituire una base per responsabilità ecclesiasti­che ufficiali . Non si ha alcuna distinzione fra il ruolo degli apostoli (i dodici discepoli originali) e gli altri credenti . Il Vangelo, e questo è un dato di fatto, non utilizza mai l' espres­sione «apostolo». Utilizza la parola «discepolo>> dove ci aspet­teremo di trovare «i Dodici». Il Vangelo, quando usa la parola «discepolo», sembra indicare ogni credente. Per esempio, l ' auto­rità di rimettere i peccati e il dono dello Spirito sono dati ai discepoli in generale e non esclusivamente ai Dodici (20,2 1 -23). Questo fatto ha portato Kasemann a dire che i l quarto Vangelo ha democraticizzato l 'ordinamento ecclesiastico. Ha

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fortemente ridotto l ' accentuazione dell ' autorità dei seguaci originari di Gesù e sostiene che tutti i credenti abbiano pari autorità e pari doni. Questo avviene, e lo si ritrova facilmente, in virtù della presenza dello Spirito-parakletos fra i credenti .

Siamo spinti , allora, a sollevare la difficile questione del ruolo di Pietro nel quarto Vangelo. Con questa domanda emerge anche il ruolo dell ' enigmatico «discepolo che Gesù amava>> e del misterioso «altro discepolo». Non si tratta soltanto di far fronte al problema di «due al prezzo di uno», ma addirittura di «tre al prezzo di uno» ! Non possiamo risolvere tutti i proble­mi connessi con queste tre domande intrecciate: qual è il ruolo di Pietro? Chi è i l discepolo prediletto e qual è il suo (di lui o di lei) ruolo? Chi è l ' «altro discepolo» e qual è il ruolo di questa persona? Non possiamo neanche prenderei il tempo di sinte­tizzare adeguatamente la complessità delle domande e la loro interdipendenza. Quanto segue dovrà essere sufficiente.

Letture preparatorie : qui di seguito sono elencati i testi in cui si parla del «discepolo che Gesù amava». Segue anche un elenco dei testi in cui s i parla dell ' «altro discepolo» . Man mano che vengono letti , si potrebbe cominciare a riflettere su alcune domande che riguardano direttamente l ' argomento: chi era il discepolo prediletto? Chi è l ' altro discepolo? È un 'espressione sinonimica per il discepolo predi letto? Questi vi sembra essere una persona storica oppure una figura simbo­lica? Qual è il rapporto intercorrente fra il discepolo prediletto o l ' altro discepolo e Pietro in quei testi in cui sono presenti entrambi? 1 ,37-42; 1 3 ,23-26; 1 8 , 1 5- 1 6; 1 9,25-27; 20,2-20; 2 1 ,7.20-24.

Per cominciare, poche parole per presentare il ruolo di Pietro nel quarto Vangelo. Qui è meno preminente di quanto sia nei Sinottici. Pietro non emerge come il capo del gruppo origina­le dei Dodici nel modo che avviene negli altri Vangeli . Né egli funge come una sorta di discepolo modello che siamo soliti trovare nelle pagine dei Sinottici . L' indicazione della missio­ne specifica di Pietro a Cesarea di Filippo nei testi citati in precedenza manca del tutto nel quarto Vangelo (per quanto 6,67-69 possa costituirne il parallelo giovanneo) . Il racconto che lo sostituisce, centrato su Pietro nel capitolo 2 1 , da molti studiosi non è ritenuto parte originale del Vangelo. Il capitolo 2 1 è considerato quasi universalmente come una appendice, aggiunta posteriormente da un altro autore.

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In secondo luogo, accanto a questa diminuzione del ruolo di Pietro emerge il discepolo prediletto («il discepolo che Gesù amava») . Questo discepolo sembra quasi prendere, a volte, il ruolo di Pietro. È lui, o lei , che è più vicino a Gesù (per esempio 1 3 ,23). Pietro sembra affidarsi a lui, o a lei, per comprendere il significato delle parole di Gesù. Quando Pietro e il disce­polo prediletto corrono al sepolcro dopo aver udito che era vuoto, è quest 'ultimo che arriva per primo (20,4) . È lui, o lei , che viene accreditato di aver creduto per primo che Cristo è risorto dai morti (20,8) .

Questo vuoi forse dire che il quarto evangelista disprezza il ruolo di Pietro e sottolinea le preminenza del discepolo predi­letto? Alcuni hanno sostenuto che le cose stessero appunto in questo modo. Essi dicono che l ' evangelista sta reagendo contro l ' importanza assegnata a Pietro nella nascente organizzazio­ne dell ' autorità ecclesiastica. Il quarto evangelista si sta ribel­lando, così dicono questi studiosi , contro l ' autorità di Pietro e vuole sottolineare che un altro discepolo era più vicino a Gesù di quanto non fosse Pietro. Molti studiosi sostengono che questo discepolo prediletto e senza nome non fosse altri che Giovanni, I ' apostolo, il figlio di Zebedeo, sulle cui memorie si basa i l quarto Vangelo.

Una tale ipotesi ha del vero. Il quarto Vangelo sembra sminuire la preminenza di Pietro in favore del discepolo predi­letto e senza nome. Ritengo che non dobbiamo giungere tutti alle stesse conclusioni come vorrebbero alcuni. Non è neces­sario credere che il Vangelo sia caduto nella trappola dell ' in­fantile gioco di discutere su chi sia il discepolo più importan­te . Il quarto evangelista non sta dicendo alle altre comunità cristiane qualcosa come: «Mio padre è più importante

'del

vostro !» . È più probabile, penso, che la tradizione ricevuta dal quarto evangelista non desse a Pietro la stessa rilevanza di quella ripresa dai Vangeli s inottici . Tuttavia, la tradizione giovannea conosceva qualcosa su di un discepolo anonimo che veniva messo in primo piano nei racconti del ministero di Gesù . L'evangelista sta elaborando questa tradizione, senza cercare coscientemente di sminuire un discepolo per valorizzarne un altro. Detto in altre parole, se esiste un motivo antipetrino (o anti Pietro) nel quarto Vangelo, non è un tema deliberato .

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Ritengo che il quarto evangelista non fosse consapevole della crescente autorità di Pietro in alcune altre comunità cristiane. Non aveva ancora letto l ' ultimo best seller, il Vangelo di Matteo !

Chi è il misterioso e anonimo discepolo prediletto? Ci sono almeno quattro risposte a questa domanda: potrebbe essere (lui o lei) il tradizionale apostolo Giovanni che ha dato origine alla tradizione riportata dal quarto evangelista; potrebbe essere stato Lazzaro, di cui si dice che era molto amato da Gesù ( 1 1 ,5) , infatti il discepolo prediletto appare per la prima volta nella narrazione del Vangelo nel capitolo 1 3, dopo che Gesù ha richiamato Lazzaro dalla tomba ( 1 1 , 1 -44 ) . Potrebbe anche impersonare un discepolo ideale, vale a dire che forse non esiste alcuna persona storica rappresentata in tale figura, ma soltanto un simbolo di quello che comporta il vero discepola­lo cristiano. Forse si trattava di un uomo o una donna che era considerato un discepolo modello anche se non era stato un testimone oculare del Gesù storico. Era un discepolo modello nello stesso senso in cui si pensa che Abramo Lincoln sia parte dello spirito americano, anche se la sua presidenza è avvenu­ta quasi un secolo dopo la fondazione della nazione america­na. A causa della radicale natura democratica della comunità giovannea, non possiamo escludere la possibilità che questi fosse una donna (vedi l ' Appendice B, «Le donne nel Vangelo di Giovanni»).

Preferiremmo lasciare irrisolto il mistero del discepolo prediletto, in parte perché, in fondo, non importa granché ! Forse la cosa migliore è pensare che egli o ella sia una perso­na del tutto anonima. Penso che la teoria che questi possa essere l ' apostolo Giovanni, il figlio di Zebedeo, sia difficile da soste­nere ulteriormente. Forse è anche inappropriato negare a questa figura la possibilità di un'esistenza storica concreta, renden­dola così un personaggio puramente simbolico. Tuttavia, questa persona nel Vangelo svolge le funzioni di un ideale simboli­co. Vale a dire, è del tutto irrilevante che questa sia stata o meno una persona storica. Mediante il discepolo prediletto, l ' evangelista dipinge un discepolato esemplare. Con ciò il Vangelo invita il lettore a identificarsi e a emulare tale perso­naggio.

Talvolta in un romanzo ci si domanda se il protagonista

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della narrazione si basi su di una persona realmente esistita. Domande di questo tipo aprono la strada a interessanti specu­lazioni. Ma quel che conta, alla fine, è il messaggio che il narra­tore vuole comunicare mediante il protagonista del racconto. Il problema della sua esistenza storica diventa irrilevante. Questo avviene anche con il discepolo prediletto. O l ' evange­lista non vuole rendere noto il nome di questo personaggio, oppure presume che tutti lo conoscano già. Così ci presenta il tipo di uomo di fede che il credente è chiamato ad essere. Inoltre, per quanto riguarda la responsabilità di governo della chiesa, l ' evangelista non pretende di attribuire una particola­re autorità a questo discepolo anonimo. La sua autorità non è ufficiale, né istituzionale, deriva semplicemente dal fatto che ha amato Gesù e sia stato, a sua volta, amato. Questo tipo di autorità, suggerisce l ' evangelista, è a disposizione di ogni credente .

Se questa visione del discepolo anonimo è corretta, abbia­mo ulteriori prove del fatto che il quarto evangelista sostenga una concezione molto democratica della struttura e dell ' auto­rità della chiesa. Tutti i credenti sono chiamati a rifarsi allo stereotipo del discepolo prediletto. Tramite il parakletos tutti sono abilitati allo stesso modo ad ottenere autorevole accesso alla rivelazione di Dio in Cristo. La visione del Vangelo rappre­senta un' indomabile forma di cristianesimo primitivo, in quanto non ha un apparente interesse nel delegare autorità specifica a persone particolari nella comunità. Tutti i credenti sono disce­poli e possono usufruire di quel tipo di rapporto con Cristo che viene esemplificato nel discepolo prediletto.

La concezione democratica giovannea dell ' autorità della chiesa non ci porta così troppo fuori dal tema centrale di questo capitolo, come invece potrebbe sembrare. La ragione, penso, per cui i cristiani giovannei possano sostenere una tale conce­zione della comunità dei credenti è la loro fiducia nel fatto che la rivelazione sia disponibile senza mediazioni nella chiesa. Tutte le persone hanno accesso alla presenza di Dio con la loro esperienza immediata. Quindi , tutti hanno pari autorità. Poiché l ' eternità è presente nell 'esperienza attuale della comunità, non c ' è alcun bisogno di struttura né di autorità ecclesiastica.

Forse questa concezione della chiesa e della sua struttura

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è ingenua. Forse si tratta del punto di vista di quelli che non hanno ancora visto tutti i problemi a cui la chiesa deve far fronte nel mondo. L' idea che la comunità sia il luogo della presenza di Dio e che il governo radicalmente democratico possa e debba prevalere sono, forse, posizioni troppo ideali­stiche. I cristiani giovannei hanno forse dimenticato il pecca­to e lo stato di rovina umana? Hanno tenuto conto del fatto che la comunità non può essere perfettamente una, al contrario di come pensavano? Hanno forse sottovalutato l ' inevitabilità delle divisioni e delle differenze? Non hanno forse previsto che la comunità avrebbe alla fine accettato anche coloro che soste­nevano concezioni radicalmente diverse e che queste doveva­no essere controllate da un' autorità ecclesiastica forte? La loro concezione della comunità dei credenti è ingenua, oppure è espressione di come deve essere veramente? Forse è meno ingenua di quanto pensiamo. Forse la convinzione giovannea riguarda il come deve impegnarsi ad essere la chiesa, senza tener conto delle situazioni storiche a cui deve fare fronte.

Arriviamo finalmente alla quinta e ultima generalizzazio­ne sulla concezione giovannea della chiesa: la comunità è invia­ta nel mondo. Nel capitolo 20 del Vangelo, quello culminan­te, il Cristo risorto appare inaspettatamente ai discepoli barri­cati per la paura dietro porte ben serrate (20, 1 9) . Cristo saluta i suoi seguaci, mostra loro le sue ferite causate dalla crocifis­sione, poi dice loro parole piene di significato. Il nostro interes­se si concentra su quelle attribuite al Cristo risorto presenti nel versetto 2 1 : «Pace a voi ! Come il Padre mi ha mandato, anch ' io mando voi» . L' invio dei discepoli in verità completa una serie di altri invii nell ' arco dell ' intero Vangelo. Ricordiamo che Giovanni il Battista era stato inviato ( l ,6) e non possiamo evita­re tutte le affermazioni sul fatto che Gesù era stato inviato da Dio (le più notevoli 3, 1 6- 1 7, ma presenti in tutto il Vangelo, per esempio 5 ,24 ) . Poi leggiamo come sarebbe stato inviato lo Spirito santo dopo la «partenza» di Gesù ( 1 4,26; 1 5 ,26; 1 6,7) . Ora sono gli stessi discepoli ad essere inviati .

L' impressione che si ricava dal Vangelo è quella di un «Dio che invia» . Dio ha un programma che include la salvezza del mondo dalla sua condizione di difficoltà (vedi in particolare 3, 1 6- 1 7) . Per questo egli manda suoi inviati nel mondo a servi-

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zio del programma d' azione di vino. Il progetto di Dio compren­de una serie di invii, ciascuno dei quali ha uno specifico ruolo da svolgere nello schema generale. Giovanni il Battista, come preparazione per Cristo, questi come rivelazione suprema di Dio per il mondo e lo Spirito santo come permanente presen­za di Dio con i credenti . Ora i discepoli prendono i l loro posto tra gli invii centrali di questo schema generale. Troviamo il preludio di ciò che è narrato da 20,2 1 in 4,38, dove i discepo­li sono inviati come un gruppo di mietitori nei campi.

La risposta sul dove o a chi i discepoli siano inviati dal Cristo risorto è conservata in 1 7, 1 8 : «Come tu hai mandato me nel mondo, anch' io ho mandato loro nel mondo». Ad una prima lettura, questo ci colpisce per la sua stranezza. Nel quarto Vangelo il mondo viene caratterizzato come il reame dell ' in­credulità e del male: il polo contrapposto alla comunità dei credenti (si veda la presentazione dei simboli dualistici del Vangelo nel cap. 2). Gesù dice senza possibilità di equivoco che i credenti non appartengono al mondo più di quanto egli stesso non vi appartenga (per esempio 1 7, 1 6) . Uno si aspette­rebbe di trovare i discepoli messi al riparo dal mondo, isolati in una torre d' avorio chiusa ermeticamente . Ma non è così ; essi sono inviati nel mondo, in quanto il programma d' azione divino comporta il recupero della creazione distorta. Il loro posto, allora, è nel mondo in qualità di inviati di Cristo.

Tutto questo è reso ancor più chiaro da una caratteristica di estrema ri levanza presente nell 'ordine di missione dei disce­poli . L' invio dei discepoli da parte di Cristo viene paragonato sia in 20,2 1 sia in 1 7 , 1 8 all ' invio di Cristo da parte di Dio. Il parallelo è sorprendente, dal momento che l ' assoluta unicità di Cristo metterebbe fuori gioco qualunque invio di persone umane. Che cosa potrebbe voler dire, per la comunità giovan­nea, comprendere la sua missione in modo analogo alla missio­ne unica di Cristo? L' invio di questi era motivato dall ' amore di Dio e dalla sua determinazione a salvare il mondo (3, 1 6-1 7) . Quindi , come Cristo era il punto cruciale del progetto redento di Dio per il mondo, i discepoli costituiscono la conti­nuazione di quel piano concepito dall ' amore divino.

Le prove sono inattaccabili. La comunità giovannea compren­deva se stessa come un gruppo inviato in missione, mandato

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nel mondo per portare a termine il progetto divino di Dio che aveva avuto origine da Cristo. Una tale autocomprensione è molto forte. Essi sono gli inviati mandati nello stesso modo e per gli stessi motivi del loro Signore ! Ci sono molti elementi nel Vangelo di Giovanni che tradiscono l ' immagine di un gruppo quasi settario di persone, che lottano per respingere gli attac­chi degli oppositori . Finora ci siamo limitati a vedere una dicotomia tra interni/esterni in gran parte della documenta­zione, una lotta settaria fra «noi» e «loro» . Con questa menta­lità settaria si determina anche un propensione a separarsi dal mondo. Ma ora la nostra immagine deve essere ridisegnata. È vero, la vita interna della comunità presentata dal Vangelo è molto forte. Similmente forte è la consapevolezza missiona­ria: in questa presentazione schematica ci sono linee scure che si muovono in due versi opposti, ma nella stessa direzione. Uno è rivolto all ' interno, che presta attenzione alla solidarietà del gruppo e all ' amore reciproco vissuto all ' interno della comunità. L' altro è rivolto all 'esterno, che si dirige all ' opera della chiesa nel mondo circostante. Eppure queste due linee che si muovono in versi contrapposti sono concepite come se, per i credenti , puntassero nella stessa direzione. Anche l 'unità della chiesa (una caratteristica interna) viene compresa come parte della missione nel mondo più ampio, perché questo, così indica la preghiera di Gesù, porterà il mondo a credere ( 1 7,2 1 ) .

Paragonata ad altre tradizioni religiose del mondo, l ' auto­comprensione giovannea la pone fra i modelli che noi chiamia­mo «evangelicali» . Convinto della missione divina, il cristia­nesimo giovanneo sa di dover essere impegnato in collabora­zione con il suo Dio nella salvezza del mondo.

Armati dell ' aver compreso la dimensione missionaria della chiesa giovannea, si fanno più chiari alcuni aspetti della narra­zione del Vangelo. Siamo in grado di capire come l ' evangeli­sta volesse far trovare ai lettori , nei personaggi del Vangelo, dei modelli per la loro missione nel mondo. Possiamo capire come e perché, in questo Vangelo, la testimonianza sia impor­tante. Tra i tanti modelli per la testimonianza cristiana nel mondo, il Vangelo ne presenta tre in particolare. Il primo è sicuramente Giovanni il Battista, il cui insistente scopo di far convergere l ' attenzione su Cristo più che su se stesso (l, 1 9-

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34) è presentato così vividamente insieme al suo disconosci­mento, che egli non era altri che un testimone per Cristo ( 1 ,6-8). Il secondo è la donna samaritana nel capitolo 4. Ella serve da modello per far capire il modo in cui un incontro con Cristo suscita la testimonianza verso altri , e i l racconto è la dimostra­zione del potente effetto di una tale testimonianza (4,39-42). Il terzo modello è Maria Maddalena. Prima degli altri disce­poli , Maria viene inviata in missione dal Cristo risorto per condividere le notizie della sua risurrezione (20, 1 7- 1 8 ; non è un caso che due di questi tre modell i s iano donne. Vedi l ' Appendice B , «Le donne nel Vangelo di Giovanni»).

In sintesi, la concezione giovannea della chiesa include il senso di unità della comunità, l ' amore reciproco dell ' uno per l ' altro, la convinzione che Dio continua a manifestarsi in mezzo alla comunità, la vita democratica comune, di uguali e la missio­ne nel mondo. Come una gigantesca ragnatela, questa corren­te di pensiero nel Vangelo viene intercalata ad altre . La conce­zione della chiesa è sostenuta dal fatto che le benedizioni escato­logiche dell ' ultimo giorno sono già presenti nella comunità. La concezione giovannea della comunità si interseca con quella dello Spirito . Il parakletos nella comunità di fede produce un ambiente in cui i credenti sono resi forti per vivere insieme e per la loro missione esterna.

l SACRAMENTI NEL QUARTO VANGELO

Qui la nostra tesi riguardante l ' importanza del l ' esperienza presente dei credenti si scontra con un muro di pietra ! Ci aspet­teremmo che una posizione cristiana come quella che abbia­mo schematizzato in questo capitolo desse importanza ai sacra­menti , che sono di solito considerati come i mezzi mediante i quali il cristiano può sperimentare immediatamente la presen­za di Dio. Quindi , data la propensione del quarto evangelista per una teologia dell 'esperienza dei sensi, sicuramente i sacra­menti giocheranno un ruolo importante nel Vangelo. Purtroppo le cose non stanno così ! Almeno, questo in apparenza non

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sembra essere il caso. Dobbiamo chiederci quale posizione assuma il Vangelo in rapporto ai sacramenti.

Letture preparatorie: due gruppi di testi sono importanti per la discus­sione che segue: si legga 1 ,29-39. Perché Giovanni i l Batti sta non battezza Gesù? Si confronti 3,22 con 4,2. Si legga 1 3 , 1 -20. Questo è il momento del racconto in cui ci si aspetterebbe (seguendo lo schema sinottico) di trovare l ' istituzione del la Cena del S ignore. Forse che il racconto del la lavanda dei piedi dei discepoli funzioni da sosti­tuto del sacramento del la Cena? Si tratta poi di un sacramento?

Questi sono i testi del quarto Vangelo che di solito si fanno riferire ai sacramenti della Cena del Signore e del battesimo. Si leggano e si valuti personalmente se sono intesi in riferi­mento ai sacramenti : 2, 1 - 1 1 ; 3 ,5 ; 6, 1 - 1 3 .5 1 -59 ; 1 3 , 1 - 1 7 ; 1 5 , 1 -6 e 1 9,34.

Quando si pone il problema dei sacramenti nel Vangelo di Giovanni, la prima cosa che colpisce è un fatto molto sempli­ce: manca l ' istituzione dei sacramenti ! Gesù stesso non viene battezzato. Il suo battesimo ha costituito la tradizionale autoriz­zazione per il rito del battesimo nella pratica cristiana. Inoltre, dal quarto Vangelo non possiamo neanche discernere chiara­mente se Gesù abbia mai battezzato ! In un punto si dice che egli battezzava, in un altro lo si nega (3 ,22 e 4,2), né Gesù ha istitui­to la Cena del Signore o eucaristia! Omissioni così eclatanti pongono interrogativi sulla sacramentalità nel quarto Vangelo. È come chiedere se i fratelli Wright credessero nei viaggi spazia­li ! Manca semplicemente una qualsiasi esplicita menzione dell' au­torizzazione per i due riti del battesimo e della Cena del Signore.

Tuttavia, alcuni studiosi trovano riferimenti espliciti ai sacra­menti in altri punti del Vangelo. Essi sostengono che la trasfor­mazione del l ' acqua in vino nel racconto delle nozze di Cana alluda al vino dell 'eucaristia. L' affermazione di Gesù che si deve essere nati «d'acqua e di Spirito» in 3 ,5 è, così dicono alcuni, un' allusione diretta al battesimo. Inoltre, la moltiplica­zione dei pani nel capitolo 6 viene intesa da molti come l ' i sti­tuzione giovannea della Cena del Signore. Nel versetto 1 1 , Gesù rende grazie e distribuisce il pane e i pesci. Il verbo greco tradot­to con «rendere grazie» è eucharistesas. Questa parola deriva dalla radice della stessa parola da cui deriva la nostra espres­sione «eucaristia» importata linguisticamente. Il significato

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eucaristico del racconto della moltiplicazione dei pani è reso esplicito, dicono questi interpreti, nel discorso di Gesù che segue immediatamente (6,5 1 -58). Qui si presenta Gesù che dice: «Se non mangiate la carne del Figlio dell' uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi» (v. 53) . Altri interpreti ritengo­no che la lavanda dei piedi dei discepoli da parte di Gesù, nel capitolo 1 3 , costituisca una rappresentazione simbolica del significato dell ' eucaristia. Forse l ' allegoria della vite ( 1 5 , 1 -6) è intesa come un'allusione al vino eucaristico. Infine, 1 9,34 parla del sangue e dell' acqua che sgorgano dal costato di Gesù. Il sangue può rappresentare la coppa eucaristica e l ' acqua il battesimo, sempre secondo alcuni interpreti .

Di conseguenza, nonostante l ' assenza dell ' istituzione dei sacramenti , alcuni studiosi sostengono che il quarto Vangelo li apprezzi moltissimo. Il punto è , così ritengono, che il Vangelo considera come sicura la conoscenza del l ' istituzione dei sacra­menti da parte del lettore. Quindi , esso mette a fuoco il loro significato, in particolare nei capitoli 6 e 1 3 . Questo modo di comprendere il Vangelo richiede che il quarto evangelista fosse un sacramentarista di altissimo livello. In questo caso, il silen­zio viene inteso come profondo apprezzamento anziché come rifiuto. Il poeta che vuole ricordare la nostra eredità naziona­le in una sua opera non ripete la storia della fondazione degli Stati Uniti . Piuttosto, allude forse sottilmente alle profondità di significato dello spirito di questi avvenimenti fondanti. Così , sostengono alcuni , si è mosso anche il quarto evangelista nell 'e­saltare il significato della Cena del Signore e del battesimo.

Ci sono coloro che vogliono proporre un' alternativa drasti­ca. Bultmann e altri hanno sostenuto che il quarto Vangelo sia antisacramentale. La loro argomentazione si sviluppa più o meno lungo queste linee : il quarto evangelista conosce i sacra­menti , ma è disgustato dal loro abuso nella chiesa del tempo. Così , questo autore li ignora deliberatamente nel Vangelo. Il silenzio grida una solenne protesta contro i sacramenti ! L' acqua del battesimo e il pane e il vino dell ' eucaristia sono arri v ati a prendere il posto di Cristo stesso, pensa l 'evangelista. Alla fine, però, il Vangelo viene rivisto da un cristiano dalla concezione piuttosto tradizionalista. Questa persona non ama l ' omissione di qualunque riferimento ai sacramenti, così questo scano-

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sciuto redattore aggiunge i testi sacramentali in punti specifi­ci , come 3 ,5 (con l ' inserimento delle parole «d'acqua e») e in 6,5 1 -58 (questa concezione è parte della teoria della revisio­ne redazionale, descritta nella prima sezione di questo capito­lo) . Il risultato è che questi testi si innalzano come segnalato­ri irritanti , secondo Bultmann.

Una terza concezione interpreta il quarto Vangelo come revisio­ni sta. Vale a dire, egli non è contrario ai sacramenti (come Bultrnann vorrebbe farci credere), né li sostiene (come ritengono i propo­nenti la prima alternativa). Piuttosto, il Vangelo cerca di sotto­porre a revisione la comprensione dei lettori. Così, il discorso sul pane di vita (cap. 6) e la scena della lavanda dei piedi (cap. 1 3) sono ambedue interpretazioni del significato della Cena del Signore. Il battesimo viene reinterpretato come una rinascita significativa soltanto mediante il dono dello Spirito (3,5).

C'è anche una quarta alternativa per comprendere i sacra­menti in questo Vangelo, che si muove secondo queste linee: la chiesa giovannea non intende ignorare i sacramenti nel suo Vangelo. Piuttosto, li lascia ad un livello implicito, anziché esplicito. Gradualmente apporta piccole variazioni che cerca­no di rendere sempre più espliciti i riferimenti sacramentali. Il battesimo era certamente implicito nella discussione del capito­lo 3, così un amabile revisore ha aggiunto le parole «d' acqua e» per rendere più chiaro il significato del testo. Questa conce­zione si differenzia dalla teoria della revisione redazionale di Bultmann e dei suoi seguaci per un aspetto importante. I reviso­ri che sono responsabili dell ' inserimento di molti dei testi sacra­mentali sono d' accordo, anziché in contrapposizione, con la concezione originale del Vangelo. Essi aiutano il Vangelo a dire con più chiarezza quello che erano certi che intendesse origi­nariamente dire.

Infine, c ' è un' ultima alternativa ardita: la chiesa giovan­nea non conosce la tradizione dei sacramenti. Questi credenti non hanno accesso ai racconti della loro origine e non li osser­vano. Questo è possibile perché la chiesa giovannea è al di fuori della corrente principale di sviluppo del cristianesimo primitivo (vale a dire, lo sviluppo a noi noto tramite le episto­le paoline e i Vangeli sinottici) . Non è né sacramentale, né antisacramentale, quanto piuttosto asacramentale, intendendo

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con questo che i cristiani giovannei ignoravano i sacramenti e le tradizioni che li riguardano. Una tale concezione è possibi­le soltanto se si prende sul serio qualche presupposto. In primo luogo, la comunità giovannea non è collegata strettamente alle altre comunità cristiane del tempo. Se essa non conosceva i Vangeli sinottici e le epistole di Paolo, allora era una chiesa cristiana relativamente isolata. Inoltre, il loro i solamento è dovuto in parte al fatto che sono stati per anni una comunità cristiana all ' interno della sinagoga. Hanno vissuto, come infat­ti è stato, ali ' interno dei confini di una comunità giudaica e per questo motivo erano non sacramentali . Il risultato è, come abbiamo visto più volte, un cristianesimo indomabile. Inoltre, la concezione del quarto Vangelo come asacramentale richie­de che si prenda in considerazione la possibilità che i sacra­menti non fossero parte della prassi di tutti i cristiani del primo secolo. Vuoi dire considerare il primo movimento cristiano molto diversificato al suo interno, anche in materie così vitali come il battesimo e l ' eucaristia.

Se si prende per buona l ' ultima alternativa, allora i riferi­menti, che spesso sono stati considerati sacramentali , devono essere letti in modo diverso. Le espressioni «rendere grazie» e «mangiare la carne» non sono eucaristici . Ogni volta che il Vangelo menziona il vino o l ' acqua non allude ai sacramenti (succede lo stesso fenomeno con la musica moderna: dato che il tempo sincopato è tipico della musica popolare rock, questo non significa che dovunque si incontra una sincope, lì c ' è musica rock, anzi , è vero il contrario!) . Quindi , senza voler alludere al significato sacramentale, il Vangelo può ben utiliz­zare parole che altrove, nel movimento cristiano, sono colle­gate ai sacramenti , senza per questo pensare di suggerire un significato sacramentale. Forse anche alcuni testi che hanno sapore sacramentale sono addizioni posteriori . Dopo che il Vangelo era in circolazione nella comunità cristiana più larga, forse parole e frasi vennero aggiunte per far riferimento ai sacramenti . Questo è certamente il caso in 3,5, dove si può sostenere facilmente che le parole «d' acqua e» non fossero presenti nel testo originale. Tali addizioni non sono in conflit­to con la concezione dell ' evangelista, né sono revisioni amabi­li per rendere esplicito quello che l ' evangelista aveva espres-

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so in modo implicito. Esse sono state aggiunte nei punti in cui l 'evangelista si manteneva neutrale.

Il problema sfugge ad una soluzione ! Eppure, credo che sia possibile un' altra alternativa. Gran parte del Vangelo sembra non riflettere alcun interesse per i sacramenti . In quei punti della narrazione in cui la tradizione parlava di essi, questi sono lascia­ti cadere. Però la prova costituita da 3,5 e 6,5 1 -58 è difficile da mettere da parte come revisione tardiva e ostile. Se colleghia­mo la quarta e l 'ultima alternativa, emerge ancora una piccola differenza. Quindi ritengo che nel periodo in cui vi ve vano ali ' in­temo della sinagoga, i cristiani giovannei non utilizzassero i sacramenti, almeno non come elementi centrali nella loro vita. È per questo che la loro tradizione non riporta né il battesimo, né l ' eucaristia, ma dopo l 'espulsione dalla sinagoga e la loro ricerca di una nuova identità cristiana, i due sacramenti arriva­rono a svolgere un ruolo sempre più significativo nella vita della comunità. Il battesimo fu sempre più apprezzato come segno della loro identità. La Cena del Signore fu valorizzata molto come fonte di sostegno nelle lotte con il mondo circostante. Giovanni 3 ,5 e 6,5 1 -58 possono ben essere ritenute interpreta­zioni posteriori delle più antiche tradizioni giovannee. Penso che queste furono incorporate in una delle primissime revisio­ni del Vangelo, non nei decenni successivi . Si tratta di inter­pretazioni che fanno parte dell ' intera riformulazione della tradi­zione giovannea da parte del quarto evangelista. Anche così , questa alternativa è vulnerabile quanto le altre.

Tuttavia, dobbiamo ancora mettere a fuoco un' altra dimen­sione del problema della visione giovannea dei sacramenti . Quale che sia la concezione del battesimo e dell 'eucaristia del Vangelo, esiste una fondamentale sacramentalità concernente la teologia giovannea, come ho indicato nel capitolo 3 . La teologia del Vangelo è di tipo sensoriale. L' ipotesi che la fede nasca da esperienze fisiche quotidiane è proprio quello che i sacramenti rappresentano nel pensiero cristiano. Quando il Vangelo dice che vedere e udire costituiscono l ' inizio della nascita della fede propone una forma di sacramentalità, in quanto i sacramenti sono esperienze sensoriali che sintetizza­no la presenza di Dio nella realtà ordinaria. Pane, vino e acqua diventano le esperienze sensoriali mediante le quali la realtà

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ultima viene comunicata ai credenti nella loro situazione presen­te . Così , la concezione giovannea del rapporto tra fede ed esperienza è fondamentalmente una concezione sacramenta­le. Ha un senso dire che, se i sacramenti non fossero stati conosciuti o così largamente praticati nella comunità, essi sareb­b�ro emersi comunque in primo piano. Nel contesto della teolo­gia del Vangelo, battesimo ed eucaristia potevano facilmente diventare azioni che racchiudevano l ' intera esperienza di vita dei cristiani . Anche se può essere difficile accertare gli insegna­menti del Vangelo sui sacramenti , paradossalmente, la sua concezione della normale esperienza quotidiana è sostanzial­mente sacramentale !

Riallacciandomi alla concezione del Vangelo sul rapporto tra fede ed esperienza, penso che possiamo vedere sempre più chiaramente quanto egli sottolinei il fatto che l ' esperienza attua­le dei cristiani è piena di attualizzazione della salvezza di Dio. Il Vangelo rende onore al presente come tempo della salvezza. L'eternità tocca la storia nell ' esperienza attuale del credente .

CONCLUSIONE

Se la presentazione appena terminata è del tutto in linea con il Vangelo, abbiamo un quadro notevolmente coerente. L'esperienza del parakletos, la comprensione della chiesa e la concezione che ha l ' evangelista del rapporto tra esperienza e fede, tutto si integra perfettamente. Questi elementi costituiscono il fonda­mento sul quale il quarto Vangelo afferma la sua radicale escato­logia del presente. Essi costituiscono gli assiomi del suo siste­ma, portano tutti ad una conclusione: Dio è conosciuto ora. I doni di Dio della salvezza sono immediatamente disponibili . Tutti questi elementi confluiscono nella convinzione che il presente è il tempo della salvezza. Ciascuno di essi guida il lettore verso una radicale escatologia del presente e ben lonta­no da una focalizzazione sul futuro (vedi schema 1 3).

Questo approccio costituisce un' ardita soluzione al proble­ma religioso posto ali ' inizio di questo capitolo. I benefici della

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Presenza di Dio nella comunità

Parousia rimandata nel futuro

ETERNITÀ È

ADESSO

t Teologia dei sensi

Schema 1 3

..., Parakletos

salvezza religiosa sono disponibili nell 'esperienza presente dei credenti o soltanto nel futuro? Il quarto Vangelo afferma con piena fiducia che i credenti li conoscono già ora. Esso avanza questa posizione in base ali ' esperienza della comunità giovan­nea. Il Vangelo non nega il futuro e la speranza per quello che porterà, ma insegna che il futuro non riserva sorprese per i cristiani , in quanto essi già lo sperimentano nel loro presente . I benefici di Dio per l ' umanità non sono confinati in un benedet­to passato, né sono soltanto pie illusioni. Questo è il tempo per ricevere quei doni che tutta l 'umanità attende.

La concezione del Vangelo, nel modo in cui l ' abbiamo esposta, ha un buon grado di affidabilità. Fondamentalmente, c ' è coerenza fra l ' esperienza della comunità e le conclusioni del Vangelo. Questo è ammirevole . Accertare se la concezio­ne giovannea dell ' argomento sia universalmente vera o meno è un compito molto più difficile. La comunità giovannea ha

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compreso in modo corretto la sua esperienza? Oppure si è ingannata? Hanno forse posto eccessivamente l ' accento sul presente? Stavano forse esagerando nella loro reazione all ' e­scatologia cristiana futuristica (come un adolescente potrebbe esagerare reagendo alle concezioni dei suoi genitori su un parti­colare problema)? Queste sono domande che lascio valutare e discutere al lettore .

Rimane da dire soltanto che il Vangelo struttura una visio­ne che deriva dali ' esperienza di una comunità religiosa di secoli fa. Questo è tutto quello che gli esseri umani devono fare meglio che possono : stabilire il significato della loro esperienza e ricavare le loro credenze religiose (quali che possano essere) sulla base di quella determinazione. Se il quarto Vangelo si sbaglia nelle conclusioni sulla presenza d eli ' eternità nel presen­te, è almeno un esempio del modo in cui deve essere svolto il compito di formulare una posizione religiosa.

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CONCLUSIONE

GIOVANNI: IL VANGELO UNIVERSALE

Qualche decennio fa in America si è svolta una grande discussione sul salto generazionale e sulla ribellione dei giova­ni . Quello che poco alla volta è venuto alla nostra attenzione è il fatto che quasi ogni periodo storico dell ' umanità ha speri­mentato in qualche modo la stessa cosa. I giovani si diversifi­cano dai loro genitori per una diversa concezione del mondo, per differenti priorità, opinioni e obiettivi . La comunicazione fra genitori e figli giovani diventa tesa e problematica. Abbiamo imparato che una tale situazione non costituisce una peculia­rità del l ' America del XX secolo, la si può ritrovare anche molto addietro nel passato, al tempo dell ' antica Grecia. I ribelli in età giovanile sono per molti versi un fenomeno universale .

Vorrei portare a conclusione la nostra presentazione del pensiero e del simbolismo del quarto Vangelo con questa propo­sta: esso è per molti aspetti un brano indomabile della lettera­tura cristiana del primo secolo: un ribelle. Ci conduce prepo­tentemente in una direzione del tutto diversa da quella degli altri scritti del Nuovo Testamento. Nello stesso tempo, sotto i temi fondamentali del Vangelo che abbiamo presentato, si ritro­vano problemi religiosi universali . Quelli di cui tratta il Vangelo di Giovanni non sono confinati alla cristianità del primo secolo. Sono domande che molte tradizioni religiose hanno valutato e continuano a soppesare . Il quarto Vangelo visto in un deter­minato contesto è indomabile, un ribelle. Tuttavia, se visto in uno più ampio, si tratta di un Vangelo universale. Concludiamo la nostra breve presentazione prendendo in considerazione queste due di v erse concezioni dell 'opera: un Vangelo indoma­bile e un Vangelo universale.

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IL PENSIERO E IL SIMBOLISMO GIOVANNEI NEL CRISTIA­

NESIMO PRIMITIVO

Abbiamo sostenuto fin dall ' inizio che il quarto Vangelo rappresenti una forma peculiare di pensiero cristiano del primo secolo. Questa concezione è pericolosa, in quanto potrebbe essere fatta in riferimento a tutti gli scritti neotestamentari . S i potrebbe dire , per esempio, che il Vangelo d i Luca e il libro degli Atti degli apostoli siano forme di pensiero cristiano ben diverse dai Vangeli di Marco e di Matteo e che siano chiara­mente differenziate rispetto al cristianesimo paolina. Una simile affermazione si potrebbe fare per altre sezioni del Nuovo Testamento. Tuttavia, la tesi di questa introduzione al quarto Vangelo è che con il cristianesimo giovanneo si ha a che fare con un' unicità di fondo. I Vangeli di Matteo e di Luca erano ambedue dipendenti da quello di Marco e forse dall ' ipotetica fonte di detti chiamata «Q». Mentre gli Atti degli apostoli potrebbe aver frainteso Paolo, quest'opera sostiene di rappre­sentare accuratamente l ' antico apostolo. Il Vangelo di Giovanni non fa alcuna rivendicazione di collegamento con altre forme di cristianesimo primitivo e ci sono molte prove del fatto che le cose stessero proprio così.

Possiamo parlare dell 'unicità del cristianesimo giovanneo sotto molti punti di vista. Il primo è la specificità della tradi­zione ripresa nel Vangelo. Come abbiamo suggerito nell ' In­troduzione, questa era una corrente indipendente del pensiero cristiano. Doveva essere radicata in una tradizione orale che alla fine dette origine a quelle sinottiche. Ma è distinta da queste sia nella forma sia nel contenuto. Il quarto Vangelo conserva fedelmente quelle tradizioni, condi vi se dalla comunità giovan­nea e per questo ci ha colpito ogni volta nel corso del nostro studio. Il fatto che le conservi pone il Vangelo di Giovanni in una condizione unica fra gli altri scritti cristiani antichi, in base alla considerazione che l ' eredità giovannea era unica. Per quanto possiamo conoscere, infatti , soltanto il quarto Vangelo ci informa dell ' esistenza di questa tradizione non sinottica e non paolina.

Per quanto riguarda il secondo punto di vista, possiamo

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parlare dell 'unicità della situazione giovannea. Mentre tutto il cristianesimo primitivo può essere ricondotto a radici ebrai­che, il quarto Vangelo è diverso. I primi cristiani erano tutti di origine ebraica, erano legati ali ' eredità ebraica e nello stesso tempo aderenti alla nuova fede cristiana. Ma molto presto si separarono dal giudaismo. Già negli scritti dell ' apostolo Paolo questa divisione è ormai in via di definizione. Egli trova ascol­tatori più promettenti per la fede cristiana non fra i suoi concit­tadini ebrei, ma fra i pagani . La divi sione fra cristiani di origi­ne pagana e quelli di origine ebraica fu promossa dal cosid­detto Concilio di Gerusalemme, verso i l 49 d.C. L' indipendenza del cristianesimo dal giudaismo fu completata verso i primi anni Sessanta e certamente al tempo della distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C.

Tuttavia, nel Vangelo di Giovanni troviamo il dato che la separazione dalla sinagoga rappresenta un fenomeno più tardi­v o. Tutto quello che abbiamo incontrato nei capitoli precedenti ha indicato che il quarto evangelista ha a che fare con una comunità recentemente espulsa dalla sinagoga ed impegnata in una seria disputa con le autorità giudaiche. Si è quasi tenta­ti di dire che la chiesa giovannea ha atteso troppo a lungo prima uscire dal grembo del giudaismo ! Ha vissuto pacificamente fra gli ebrei più a lungo di qualsiasi altra comunità cristiana. Possiamo osare dire che in confronto alle altre comunità cristia­ne questa è stata più lenta nel suo sviluppo? La comunità giovan­nea è forse come quei giovani che continuano a vivere con i genitori fino ali ' età di trentacinque anni e soltanto allora sono mandati fuori di casa? Questa analogia ha i suoi limiti . È vero che la comunità giovannea è rimasta più a lungo al sicuro nella cerchia della sinagoga giudaica, ma non sembra che questa sicurezza abbia ritardato il suo sviluppo, in quanto la tradi­zione conservata nel quarto Vangelo indica che essa ha avuto una lunga storia ed è stata fatta crescere con molta cura. Certamente non possiamo dire che il quarto evangelista fosse un cri stiano meno maturo degl i altri scrittori del Nuovo Testamento !

Comunque sia, la comunità giovannea si ritrovò cacciata dalla sinagoga. Ne risulta, come abbiamo detto, una disloca­zione sociale profonda e traumatica. La crisi incide sull' iden-

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tità dei cristiani di questa comunità. Chi sono essi se non ebrei che hanno abbracciato Cristo? Che cosa è il loro cristianesi­mo se non un tipo di giudaismo raffinato e sofisticato? Come i figli ormai maturi spinti fuori casa dai genitori, la comunità giovannea si trova a vivere una crisi di identità. Questa situa­zione è resa ancor più dura dal conflitto permanente con la sinagoga ebraica e contribuisce significativamente alla forma­zione del carattere distintivo del Vangelo di Giovanni e del suo pensiero.

Possiamo parlare di questo in riferimento alla sua tradi­zione e alla sua situazione. Infine, possiamo darne una lettura in riferimento al suo pensiero e simbolismo. L'unicità di tali elementi è in parte il risultato dei primi due punti di vista. Le tradizioni utilizzate nel quarto Vangelo rendono uniche le conce­zioni e il simbolismo del documento. La situazione in cui e per cui il Vangelo è stato scritto contribuisce parimenti a questa caratterizzazione di pensiero e di linguaggio. Tuttavia, il genio dell 'evangelista ha svolto chiaramente un ruolo importante nella forma di cristianesimo specifica articolata nel Vangelo. I capitoli precedenti hanno dimostrato come la mentalità del l 'e­vangelista si muovesse in modo del tutto peculiare. Per citare solo un esempio, si ricordi la passione profusa nel riformula­re parole con significato pregnante (come logos e parakletos) per utilizzarle nel Vangelo. Questo autore ha ripreso termini carichi di significato e li ha plasmati per utilizzarli con un nuovo significato cristiano.

Non ci resta che rivedere soltanto brevemente e in via generale alcune delle peculiarità del pensiero e del simboli­smo del quarto Vangelo. La concezione di Cristo come Figlio del Padre assume un ruolo di primo piano. In nessuna altra pagina del Nuovo Testamento troviamo una cristologia strut­turata in modo simile a questa. L'evangelista ha cercato di conservare sullo stesso piano l 'unità e l ' individualità del Padre e del Figlio. I detti «io sono . . . » contribuiscono alla cristolo­gia del Vangelo e servono a distinguere la concezione giovan­nea di Cristo dalle altre presenti nel Nuovo Testamento.

Inoltre, il dualismo è più pronunciato di quello che possia­mo ritrovare in qualsiasi altro brano di letteratura cristiana antica. La miscela di dualismo umano e dualismo cosmico è

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diversa. Differente è anche l ' uso di una gran varietà di parole per esprimere i poli del dualismo. Nello stesso modo, vorrei sostenere che nessuno scritto del Nuovo Testamento combat­te così consapevolmente con il problema del determinismo divino e della libertà umana come fa il Vangelo di Giovanni, però concordo sul fatto che Paolo si classifichi ad un buon secondo posto, a breve distanza !

Ancora, la teologia dell ' esperienza presentata dal Vangelo emerge con prepotenza. In nessun altro luogo del Nuovo Testamento possiamo trovare una concezione del rapporto tra fede ed esperienza elaborata così finemente. In nessun altro luogo la base sensoriale della fede è sottolineata come in questo testo. Similmente distintiva è l ' insistenza nell ' affermare che l ' obiettivo del credente è la fede senza l ' ausilio della vista. Fede e conoscenza sono spiegate in modo diverso da quello di altri pensatori cristiani.

La sottolineatura posta sulla presenza della salvezza nell 'e­sperienza del credente si scosta in modo significativo dai temi comuni della restante letteratura neotestamentaria. Mentre lo sforzo di risolvere il problema del ritardo della parusia può essere celato in alcuni scritti del N uovo Testamento, la soluzio­ne che questi offrono non è così radicale come quella del quarto evangelista. La profonda valorizzazione del presente del creden­te è senza pari nel Nuovo Testamento. Potremmo continuare nell ' accennare alla concezione peculiare dello Spirito parak­letos, della chiesa e del modo in cui sono trattati i sacramenti ma riteniamo che questo sia sufficiente per far sobbalzare la memoria del lettore .

Il carattere distintivo del pensiero e del simbolismo giovan­neo è chiaro, almeno così spero, però non deve essere troppo enfatizzato. Forse questo è il pericolo che la nostra presenta­zione ha favorito. Si può scendere nel dettaglio per definire gli aspetti in cui due gemelli sono radicalmente diversi . Essi abbrac­ciano due diversi stili di vita. Non hanno neanche una «rasso­miglianza nei caratteri generali della famiglia» . Hanno diver­si talenti e diverse capacità. Ci si interroga su quali basi siano legati , eppure lo sono. Quando l ' analisi è sufficientemente approfondita, l ' eredità familiare è evidente. Per quanto siano diversi, sono genericamente simili . Hanno in comune gli stessi

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genitori . Così , la nostra analisi dell ' individualità del quarto Vangelo deve riconoscere che esso condivide la stessa strut­tura genetica delle altre forme di cristianesimo del primo secolo. Ha la stessa parentela degli altri scritti del Nuovo Testamento . Anch'esso è radicato nella testimonianza resa all 'uomo Gesù di Nazareth e alla prima comunità di credenti raccolta attorno a lui. Forse il carattere distintivo gli deriva dall' ambiente che l 'ha strutturato dopo il suo sorgere, così come la diversità fra due gemelli potrebbe essere identificata nei loro rispettivi ambienti di vita.

Come caratterizzeremo, allora, la collocazione del pensie­ro e del simbolismo giovannei nel cristianesimo primitivo? Abbiamo utilizzato l ' espressione « Vangelo indomabile» . Questa sembra la più adatta, in quanto il pensiero e il simbolismo che presenta non sembrano andare alla ricerca della coerenza con qualsiasi altra forma di pensiero protocristiano. Piuttosto, esso va liberamente per la sua strada ed esplora nuove forme di espressione. È un cristianesimo che ama le avventure, che non fluisce nell ' alveo centrale del pensiero neotestamentario, ma deve comunque essere evidenziato che si tratta di pensiero cristiano. Condivide con il resto degli scritti canonici un profon­do impegno nel credere che Dio ha operato in modo decisivo nella persona di Cristo per la salvezza dell ' umanità.

È i struttivo guardare avanti nella storia del cristianesimo neotestamentario, oltre il momento in cui fu scritto il Vangelo stesso. Le tre epistole, nel canone, che portano il nome di Giovanni, ci aiutano a comprendere la collocazione del quarto Vangelo in rapporto al cristianesimo primitivo. Sembra che queste epistole giovannee siano tutte state scritte in un perio­do di tempo posteriore al Vangelo. Furono composte dopo che il cristianesimo giovanneo si era collegato più strettamente con la corrente principale del pensiero cristiano primitivo. Sono state scritte, almeno in parte, per arginare la tendenza di un movimento deviante all ' interno della chiesa giovannea. Sembra che questo movimento si basasse sullo stesso quarto Vangelo ! C'erano alcuni nella chiesa giovannea posteriore che guarda­vano seriamente ad esso, forse troppo. Come risultato, si trova­rono a marciare fuori passo rispetto agli altri membri della loro chiesa. Gli autori delle tre epistole hanno cercato di identifi-

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care gli errori di questo gruppo ribelle. Si sono rivolti e hanno scritto a comunità cristiane che discendevano teologicamente dal quarto Vangelo, ma a quelle che da quel momento si sono armonizzate con la corrente cristiana principale (vedi l 'Appendice A, «Le epistole giovannee e il Vangelo di Giovanni))) .

Si noti quali siano gli aspetti che le epistole giovannee si preoccupano di correggere in questi eretici . L' escatologia della I Giovanni sottolinea la vicinanza della parusia (2, 1 8-25 ; 2,28-3 ,2). Ci si sofferma a fondo sul l 'umanità di Gesù contro una cristologia che non prende affatto sul serio l ' incarnazione come invece dovrebbe fare (I Giov. 2,22 ; 4,2 ; II Giov. 7). Sottolinea il peccato umano perché i ribelli non erano sufficientemente consapevoli del loro peccato (I Giov. l , 1 8 ss .) . Le epistole sono state scritte da coloro che ritenevano che il cristianesimo giovan­neo fosse completamente omogeneo alla corrente principale del cristianesimo ortodosso. Volevano correggere questi pensa­tori radicali . Come dice J .L. Houlden, le epistole giovannee «sono tutte parte di una campagna per porre un freno a quelli che volevano "gnosticizzare" la tradizione giovannea dell ' in­segnamento cristiano)) (The Johannine Epistles, New York, Harper & Row, 1 973 . Nel suo Commentario, Houlden compie un ottimo lavoro di collegamento fra il Vangelo e le epistole).

Molto probabilmente, il quarto Vangelo era un documen­to che costituiva la base di ispirazione per un movimento indipendente e di sfida. Non stiamo sostenendo che i l gruppo attaccato dalle epistole giovannee interpretasse correttamente il Vangelo. Normalmente si sostiene proprio il contrario. Tuttavia, il fatto che tale movimento sorgesse dalla comunità giovan­nea sulla base del quarto Vangelo è della massima importan­za. II movimento gnostico del II secolo ali ' interno della chiesa cristiana trovò il Vangelo di Giovanni congeniale alle sue idee. Questo accadde, così ritengo, perché esso non era un documen­to per cristiani standard, era diverso. In molti dei suoi temi dava spazio alla possibilità di interpretazioni eretiche: il suo dualismo, il suo determinismo e la sua cristologia. Questo dato di fatto storico, che il quarto Vangelo fosse suscettibile di inter­pretazioni eretiche, rende chiara la nostra osservazione. Si tratta di un testo insolito della letteratura cristiana del primo secolo. Ernst Kasemann ha definito la teologia del quarto evangelista

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come uno «gnosticismo ingenuo». Non penso che sia del tutto corretto, ma è anche vero che egli scrive con un ingenuo disin­teresse per come le concezioni e i simboli possano inserirsi perfettamente all' interno dello schema emergente del pensie­ro cristiano primitivo. I l Vangelo non è marchiato, è un indoma­bile. Il suo autore non si preoccupa di «inserirsi» all ' interno del pensiero dominante. Questo evangelista, uomo o donna che sia, parla come pensa, preserva le tradizioni giovannee e si rivolge con il maggior effetto possibile ai primi lettori. C 'è qualcosa d i rinfrescante e d i eccitante in questo. È ciò che rende così intrigante lo studio del quarto Vangelo.

IL PENSIERO E IL SIMBOLISMO GIOVANNEI COME ESEMPI

DELLA RICERCA DI FEDE

Come possiamo allora intitolare questa conclusione del nostro studio, «Giovanni. Il Vangelo indomabile»? Il suo rappor­to con altre concezioni cristiane primitive sembra portare alla conclusione che si tratti di un Vangelo molto particolare, pensa­to e scritto a partire da una situazione del tutto specifica. È difficile che possa essere uni versate !

Eppure, l ' altro tema del nostro studio è stato il mostrare come il quarto Vangelo, nel suo modo specifico, tratti con alcuni temi fondamentali della ricerca di fede delle persone. Abbiamo cercato di collegare i maggiori temi del pensiero giovanneo alle principali domande che si ritrovano in gran parte delle religioni. Abbiamo dimostrato che temi di caratte­re generale, quasi universali , sono stati affrontati nel Vangelo indomabile. Rivediamo quelli evidenziati nel corso del nostro studio.

Vi è la questione della natura del fondatore del movimen­to religioso. Ogni religione deve pervenire a qualche defini­zione della natura e dell ' opera del suo fondatore. Ogni tradi­zione religiosa si trova a elaborare questo problema, identifi­cando alla fine una prospettiva teologica basata su qualche dichiarazione sul suo fondatore. Nella sua cristologia, il quarto

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Vangelo cerca, con un sforzo audace, di fare esattamente questo con Gesù di Nazareth. Nella sua affermazione che egli era il Figlio del Padre, il Vangelo di Giovanni riflette sulla natura e sull 'opera del fondatore del movimento cristiano.

Qual è la natura e la fonte del male, che si oppone e vuoi rendere vana la volontà di Dio? Ancora una volta, questa è una domanda di tipo uni versate nell ' ambito delle religioni . Ognuna propone una risposta, alcune più chiare delle altre, alcune con più insistenza delle altre. Ma quasi sempre un sistema religio­so prende in considerazione la realtà degli aspetti indesidera­bili della vita. Il Vangelo di Giovanni (forse inconsapevol­mente) lo fa con il suo dualismo provocatorio. Quale che sia

. il problema nella comprensione della natura di questo duali­smo, si tratta di una risposta alla realtà del male. Questa divisio­ne dualistica fra le persone è proprio quello che la volontà divina cerca di sconfiggere e il polo negativo di questo duali­smo esprime la realtà della resistenza alla fede.

Il rapporto fra fede ed esperienza ossessiona ogni pensa­tore religioso. Come si deve inquadrare l 'esperienza in rappor­to alla fede religiosa? La fede si basa sull ' esperienza? Se è così , come? Tali domande non sono limitate al pensiero cristia­no e neppure alla mentalità religiosa occidentale. Sono interes­si religiosi universali . Il nostro Vangelo analizza a fondo e mette alla prova queste domande. Il risultato è che, celata in questo documento, rimane una concezione molto profonda del rapporto tra fede ed esperienza.

Le religioni promettono una qualche salvezza, alcuni benefi­ci per gli esseri umani . Il problema è se questi benefici venga­no accordati nel corso del l 'esistenza umana del credente o promessi per una qualche età futura. Il problema religioso del rapporto del presente e del futuro nella promessa di salvezza è forse espressione di una domanda filosofica più ampia. Forse la domanda religiosa esprime l ' interesse filosofico per la tripli­ce ripartizione del tempo in passato, presente e futuro. Senza distinzione, la preoccupazione per la fruizione presente o futura del beneficio della fede cova in quasi tutte le tradizioni religio­se. Nel suo enorme sforzo di mettere in primo piano il presen­te come il tempo della salvezza, il quarto Vangelo offre una soluzione a questo interesse religioso universale. A partire

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dal l 'esperienza della sua comunità, il Vangelo osa annunciare che per i cristiani l ' eternità è ora.

Il fatto che il nostro Vangelo tratti di queste quattro temati­che religiose universali costituisce il motivo per sostenere che si tratti di un Vangelo universale. Non intendiamo necessaria­mente dire che offra un sistema religioso di pensiero e di prassi che, in ogni età, ogni persona può abbracciare completamen­te. Certamente, ci potrebbe essere una buona base per una ri ven­dicazione di questo tipo, ma ora non siamo interessati a questo genere di cose. Il punto è che questo documento ci mostra come combatte una comunità religiosa, almeno contro quattro (e senza dubbio anche di più) problemi che riguardano ogni perso­na, quasi in ogni età. In questo senso il nostro è un Vangelo universale.

Un esempio tratto da un' altra area della letteratura cristia­na primitiva potrebbe aiutarci. Il libro dell ' Apocalisse e gli scritti di Karl Marx hanno molto in comune. S ia l ' autore dell 'Apocalisse (Giovanni di Patmos) sia Marx trattano di un problema religioso universale. Qual è il significato della storia? Ciascuno di loro ne propone una concezione e cerca il suo significato. Tutti e due tentano di provocare la fede dei loro lettori sul fatto che la loro concezione della storia sia quella corretta. Essi hanno a che fare con una domanda umana fonda­mentale, che tutte le persone pensanti rivolgono a se stesse. Che cosa è la storia? Si tratta soltanto di una sequenza infor­me di avvenimenti che non portano in nessun luogo? Esiste uno schema per gli eventi della storia? Il corso della storia è determinato soltanto dagli esseri umani? Oppure, esiste una qualche forza esterna che determina, o almeno indirizza, il senso generale della storia? Giovanni da Patmos e Marx danno risposte radicalmente diverse a queste domande, ma entram­bi propongono delle soluzioni . Tutti e due rispondono ad un desiderio universale della mente umana di comprendere la storia. Il quarto Vangelo è universale in quanto si rivolge ad alcuni problemi di questo genere. Esso si estende al di fuori della sua ristretta cerchia parrocchiale per abbracciare esigen­ze universali che sorgono dagli esseri umani in cerca di una comprensione basata sulla fede.

Può darsi che il nostro concetto possa essere espresso in

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questo modo: quel che è universale, nel pensiero del Vangelo, non è il contenuto, ma il metodo. Si tratta del modo in cui affronta tali argomenti . Lo sforzo di risolvere i problemi osses­sionando le persone religiose è la sua caratteristica universa­le. Quel che lo rende tale non è la soluzione che offre, ma i dilemmi che affronta. Le soluzioni sono forse meno rilevanti della volontà di porre interrogativi . Le sue risposte possono essere meno appropriate delle sue stesse domande !

Talvolta un insegnante viene ricordato da un suo alunno per anni. Spesso non è ciò che ha insegnato, ma il come lo ha insegnato a lasciare un' impressione così durevole . Il quarto evangelista è forse un pensatore universale non in virtù di quello che insegna, ma per come lo ha insegnato. In questo modo l ' autore, uomo o donna che sia, si pone come esempio per ogni persona religiosa e rappresenta la necessità di affrontare certi argomenti direttamente e con onestà.

Alcuni vorrebbero evidenziare altri elementi per sostene­re l ' universalità del Vangelo. Non voglio negare la loro richie­sta e ho fatto io stesso tali richieste . Ma, al momento, vorrei che diventassimo consapevoli del primo livello di universali­smo presente nel Vangelo : il livello delle domande che vengo­no poste .

Infine, il quarto Vangelo è un indomabile, irriducibile, nel contesto del cristianesimo primitivo. Però tratta aspetti impor­tanti della vita delle persone di fede dalle convinzioni molto differenti in molti secoli diversi . Esso rappresenta la varietà del pensiero cristiano primitivo e l 'universalità delle domande fondamentali collegate ali ' essere persone di fede. Quindi è nello stesso tempo un Vangelo indomabile e un Vangelo universale.

È mia convinzione che per anni , dopo la prima esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven, il brano corale alla fine di quest'opera sia stato al centro di forti polemiche fra i critici . Essi dibattevano accoratamente il drastico allontanamento di Beethoven dalla tradizionale forma sinfonica classica. Il tema del movimento finale veniva considerato o un completo falli­mento, oppure veniva salutato come un colpo di genio. I criti­ci erano fortemente divisi su questo problema. Era chiaro che qualcuno era convinto del fallimento artistico del l ' ultimo movimento, mentre altri della sua genialità senza precedenti .

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Spesso è difficile distinguere fra genialità e completo falli­mento. Sovente le persone geniali nel loro tempo sono consi­derate degli idioti e la storia fornisce la prova che alcuni di quelli che sono stati acclamati come geni sono invece degli idioti . Così avviene con il quarto Vangelo. Dobbiamo dire che la sua opera o è geniale, un vero colpo di genio, oppure è uno spiacevole errore nel pensiero cristiano primitivo. Sembra che ci sia poco spazio per le valutazioni intermedie. Il problema, così penso io, può essere risolto soltanto da ciascun lettore alla luce delle sue convinzioni. Eppure, su questo dato possiamo concordare pienamente: il quarto Vangelo rappresenta un testo intrigante e provocatorio di letteratura religiosa. Si tratta di un testo che è degno del nostro studio volta dopo volta. Che sia l ' opera di un genio o di un pasticcione, i l Vangelo di Giovanni ci invita ad analizzarlo e stuzzica la nostra mente con le sue idee e con il suo linguaggio pieno di immagini: ha avuto questi effetti sui cristiani per quasi venti secoli e continuerà a farlo senza dubbio nei secoli a venire.

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APPENDICE A

LE LETTERE GIOVANNEE E IL VANGELO DI GIOVANNI

(con una nota sul libro d eli ' Apocalisse)

Gli aderenti ad una tradizione religiosa talvolta considera­no i libri sacri della propria religione come un'espressione singolare, armonica e stati ca della verità. Mentre la storia dell 'o­ri gine di una religione può interessare gli studiosi, essa spesso sembra (e forse lo è) irrilevante per i credenti stessi . La vita è già troppo complicata anche senza le complessità del cambia­mento e dello sviluppo storico presenti nella propria religio­ne. Dopo tutto, noi vogliamo che la nostra religione abbia un' unica dimensione immutabile nell ' ambito di un'esistenza piena fino al colmo di cambiamenti senza fine. Eppure la verità è che, quasi in ogni caso, uno studio critico e attento dei libri sacri fa emergere la diversità e i cambiamenti alle origini di una religione. La mentalità giudaica popolare ha voluto ritene­re che il giudaismo risalisse indietro fino ad Abramo, con coerenza immutabile. Ma gli studiosi delle origini giudaiche dimostrano ondate di marea di cambiamento per tutti gli anni cruciali in cui si è consolidato il giudaismo normativo.

Le cose non stanno diversamente per il cristianesimo. In verità, questo libro è stato scritto sulla premessa che il cristia­nesimo giovanneo fosse considerevolmente diverso dalle altre espressioni di fede cristiana presenti nel primo secolo della nostra èra. Le indicazioni sulla fede e sulla vita che ricaviamo attraverso gli spioncini del Vangelo di Giovanni ci indicano cambiamenti anche ali ' interno di un'unica corrente del cristia­nesimo primitivo. Se poi noi siamo così fortunati da poter dare un'occhiata supplementare a quello che potrebbe essere stata la stessa corrente del cristianesimo primitivo, si rimane senza

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respiro per quello che si trova. Il primo mezzo secolo di esisten­za del cristianesimo giovanneo costituisce un caso paradig­matico dei mutamenti di una religione. Alcuni di questi cambia­menti sono l ' argomento di questa aggiunta alla nostra visita al quarto Vangelo.

Un qualsiasi studio di esso solleva inevitabilmente una serie di domande riguardanti altri tre scritti presenti nel Nuovo Testamento, ai quali la tradizione ha collegato il nome di Giovanni. Qual è i l rapporto fra la l, la II e la III lettera di Giovanni e il quarto Vangelo? Sono anch' esse opera del quarto evangelista? Sono state scritte prima o dopo il Vangelo? Una brevç occhiata a questi scritti più brevi, conosciuti con il nome di Epistole giovannee, fa da supplemento al nostro studio.

Cerchiamo prima di sintetizzare alcune informazioni impor­tanti su questi tre scritti prima di porre la domanda sul loro rapporto con il Vangelo di Giovanni.

LE LETTERE GIOVANNEE

Letture preparatorie: si leggano le tre lettere di Giovanni, cercando di ricavarne le indicazioni centrali .

Una breve introduzione alle lettere giovannee richiede che esaminiamo l ' autore, la forma, l ' ambiente e il messaggio di ciascuna delle tre .

L' autore delle tre lettere è stato considerato «Giovanni», sulla base delle evidenti somiglianze fra queste lettere e il Vangelo a lui attribuito. Prenderemo in esame queste somiglian­ze nella prossima sezione. Per il momento è necessario dire soltanto che questi tre scritti non gettano maggior luce sui loro rispettivi autori più di quanto non faccia il quarto Vangelo sull ' identità del quarto evangelista. Nella II e III lettera l ' auto­re chiama se stesso l' «anziano» (nel versetto iniziale di ciascu­na lettera), ma la I lettera di Giovanni non ci fornisce in nessun luogo un'indicazione sul l ' identità del suo autore (suppongo che l ' anziano della II e della III lettera di Giovanni fosse un uomo, dal momento che la parola ho presbyteros in greco è un

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maschile, mentre in Tito 2,3 troviamo un esempio della forma al femminile) .

In conclusione, sull ' autore della prima lettera di Giovanni possiamo dire poco più che egli era una persona con una qualche autorità nella chiesa (o nelle chiese), in quanto lui, o lei, ritie­ne di dare indicazioni alla/e comunità in materia di fede e di vita. Possiamo pensare anche che questo autore avesse il dono di una considerevole capacità letteraria e acume teologico. Possiamo dire poco di più della persona che si identifica con il nome di «anziano». Evidentemente, il titolo indica una certa autorevolezza. Tuttavia, l 'espressione «anziano» potrebbe anche non riferirsi ad un ufficio stabilito. Potrebbe invece collegar­si ad uno stadio iniziale dello sviluppo di quella che successi­vamente è stata ovunque riconosciuta come una posizione di governo ecclesiastico. È anche possibile che il titolo si riferi­sca semplicemente ad una persona avanti negli anni , la quale, in virtù dell ' età e dell 'esperienza, è rispettata dalla comunità. Con prove così scarse non è allora un caso che la chiesa abbia impiegato quasi tre secoli per mettere insieme questi tre scrit­ti e attribuirli allo stesso autore, il quarto evangelista.

La forma della prima lettera è notevolmente diversa da quella delle altre due di Giovanni. Queste ultime sono eviden­temente lettere, scritte nella forma standard presente nella lette­ratura epistolare del mondo greco-romano. In quanto lettere, iniziano normalmente con una formula che identifica il mitten­te e il destinatario: «L' anziano alla signora eletta e ai suoi figli>> (Il Giov. l); e «l ' anziano al carissimo Gaio» (III Giov. 1 ) . Nel classico stile epistolare, questo primo elemento è seguito dai saluti che troviamo in II Giovanni 3 e in III Giovanni 2. Seguono poi alcune delle formalità che spesso si ritrovano nelle lettere contemporanee: «Come stai? Io sto bene» (vedi II Giov. 4 e III Giov. 3-4 ) . Poi l ' autore entra nel merito dell ' argomento per cui scrive, per poi concludere con saluti e parole di pace (Il Giov. 1 2- 1 3 e III Giov. 1 3 - 1 5) .

Determinare la forma della II e III lettera di Giovanni è facile ! Il vero problema viene quando ci interroghiamo sulla I Giovanni . Come dobbiamo intenderla? Una lettera circolare, un sermone, un trattato argomentati v o o qualcosa d ' altro? Non presenta nessuna delle caratteristiche di una lettera. Gli studio-

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si hanno suggerito tante forme diverse quanti sono gli studio­si stessi ! Così siamo lasciati con alcune indicazioni generali . Il documento sembra essere costituito da una serie di ammoni­zioni e di parole di consolazione, collegate l 'una all ' altra in modo molto vago, ciascuna scritta in quello che possiamo considerare uno stile piuttosto sconnesso e quasi monologan­te. È difficile formulare uno schema della prima lettera di Giovanni, in quanto è quasi impossibile cogliere gli stacchi logici nel flusso dell ' argomentazione. La presentazione, tutta­via, alla fine si concentra in alcuni temi, sui quali ci soffer­miamo un momento. Sembra che la prima lettera di Giovanni sia una specie di antologia di frammenti che si collegano fra di loro per temi, per quanto indeterminati . I frammenti potreb­bero essere spunti di sermoni, estratti dalla loro collocazione originaria e messi insieme in forma scritta. Questa antologia è stata scritta, questa è la mia proposta, con lo scopo di farla circolare fra alcune chiese. Una tale impostazione è soltanto uno spunto nell 'oscurità della struttura della prima lettera di Giovanni , ma potrebbe essere un punto d' inizio.

Quel che è più chiaro è una serie di indizi sulla situazione storica nella quale fu scritta e alla quale era diretta la lettera. Presentiamo una veloce sintesi di questi indizi: un gruppo, una volta interno alla chiesa (o alle chiese) si è volontariamente allontanato e i suoi membri, secondo la visione dell ' autore giovanneo, non ne sono stati mai pienamente partecipi, né sono stati autentici cristiani (2,9). Secondo l ' autore, queste perso­ne appartenenti al gruppo separatista:

• non praticano l ' amore, almeno in rapporto ai lettori della prima lettera di Giovanni (2,9- 1 1 ; 4,20-2 1 ) ;

• negano l ' umanità di Cristo (2,22; 4,2-3 ; 5 ,5-6) ; • sono alleati con forze in lotta con la fede della chiesa (2, 1 5-

1 6; 4,5-6) ; • sono strumenti del male (3,8) e anche gli anticristi degli

ultimi giorni (2, 1 8-23), in quanto non si riconoscono negli insegnamenti presenti nella generalità delle chiese (4,6);

• pretendono di conoscere e amare Dio e di mettere in prati­ca la loro fede, ma in verità non lo fanno ( l ,6; 2 ,9);

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• sono quindi colpevoli di un «peccato mortale», anche se essi pretendono di essere liberi dal peccato ( l ,6- 1 O; 3 ,3-6);

• vivono senza limiti morali (3 ,4- 1 0).

L' autore scrive senza dubbio in base a pregiudizio nella presentazione di questi ribelli e il lettore non ne ricava nulla che si avvicini ad una descrizione oggettiva e corretta di costo­ro né della loro fede. Gli sforzi per identificare il gruppo di dissidenti generalmente si spingono nel II secolo per arrivare a cristiani di impostazione gnostica. Questo gruppo negava l ' umanità di Cristo in favore di un essere puramente divino ed erano propensi a credere che la loro fede cristiana li liberasse da qualsiasi legge morale. Tentativi di questo genere per identi­ficare i ribelli descritti nella prima lettera di Giovanni hanno un valore molto relativo. Ci poniamo su di un terreno più solido se diciamo soltanto che i «separatisti» della I e II lettera di Giovanni erano probabilmente i precursori dei cristiani gnosti­ci del periodo successivo. Ma certamente la prima lettera di Giovanni fu scritta per affrontare una situazione determinata­si da uno scisma in una comunità o in una serie di comunità. Inoltre, la diversità fra l ' autore della prima lettera di Giovanni e i suoi (di lui o di lei) oppositori aveva il suo centro nella concezione più corretta di Cristo, del peccato e della morale.

Il documento, allora, è stato scritto per rafforzare la fiducia delle chiese originali. La prima lettera di Giovanni alterna assicurazioni (per esempio 3 , 1 9-24) ed esortazioni (per esempio 2, 1 5- 1 7) . L'autore vuole cementare i lettori attorno ad un'uni­ca comprensione della vita e della fede cristiana. Egli aveva anche sufficiente spirito pastorale per sapere che i lettori erano stati scossi da questo trauma nella (o fra le) comunità. La separa­zione da precedenti fratelli e sorelle nella fede aveva causato dubbi e incertezze : «Forse i dissenzienti sono nel giusto e noi nel torto !» . Così, essi hanno bisogno di essere riassicurati del fatto che la loro comprensione del cristianesimo sia vera. Questo autore ha l 'obiettivo di placare un disagio nella/e comunità, di prevenire altre divisioni fra i suoi membri e di proporre l ' iden­tità fondante della comunità così da purificare il corpo da una malattia mortale. Questo sembra essere un probabile contesto e un possibile scopo per la stesura della prima lettera di Giovanni.

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Il contesto della II lettera può essere parallelo a quello proposto per la prima. La seconda sollecita i lettori a vivere una vita morale, forse in contrasto con altri (vv. 5-6). Anche questa propone una concezione di Cristo come essere umano, contro «ingannatori» che insegnano altrimenti (v. 7). A simili falsi cristiani, si sostiene, si deve negare ospitalità quando vengono nel paese in cui abitano i destinatari della lettera (v. l 0). Non è difficile immaginare che qualcosa di simile al conte­sto proposto per la prima lettera di Giovanni si nasconda nelle oscurità storiche che si celano dietro la seconda. I dissenzien­ti stanno propagando i loro punti di vista nei paesi vicini e l ' «anziano» cerca di smorzare la loro influenza.

È più difficile collegare la terza lettera di Giovanni al conte­sto di uno scisma. Un certo Diotrefe si è dimostrato egli stesso un perturbatore della pace nella comunità di cui Gaio (al quale è inviata la lettera) è il responsabile. Questo distruttore viene accusato di pretendere più autorità di quanto non meriti (v. 9). Egli rifiuta di riconoscere l ' autorità dell ' anziano e alimenta chiacchiere sul responsabile della comunità. Ha anche caccia­to quelli che non la pensano come lui (v. l 0). Più serio, forse, è il fatto che non riceve i cristiani in visita (v. 1 0) . In questo caso l ' anziano cerca di guadagnarsi la lealtà di Gaio e con questa rafforzare l ' influenza dell ' autore della lettera all ' inter­no della comunità.

Tutto questo è abbastanza chiaro. Lo è meno il fatto che la situazione evidenziata dalla terza lettera di Giovanni sia colle­gata a quella che si coglie nella prima e nella seconda. Forse la terza si collega alla seconda soltanto mediante il titolo dell ' au­tore («l ' anziano») e in origine non aveva alcun rapporto con le comunità alle quali sono rivolte le due prime lettere giovan­nee. Ma è anche possibile che Diotrefe abbia reagito alla confu­sione determinatasi dalla divisione nelle chiese ricercando una posizione di isolamento. Confuso dalla disputa creatasi fra il settore centrale della chiesa e quelli che si erano separati da esso, egli in verità dice: «Sono tutti e due una piaga. Noi non avremo più nulla a che fare né con i cosiddetti "dissenzienti", né con l ' anziano ! » . Un a connessione di questo genere, in verità, richiede molta immaginazione, comunque è plausibile. In ogni caso, nella terza lettera di Giovanni assistiamo ad una lotta di

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potere fra coloro che pretendono di esercitare autorità all ' in­terno di una comunità.

Il messaggio della prima epistola di Giovanni (condiviso in parte dalla seconda) è di gran lunga il più importante dei tre . Per quanto la struttura rimanga oscura, i terni dello scritto si possono facilmente raggruppare attorno a cinque punti . Il primo è la natura umana di Cristo (per esempio l Giov. 4,2; vedi anche II Giov. 7) . Il secondo è l ' opera salvi fica di Cristo (per esempio I Giov. 1 ,7b.9; 2,2; 3 ,5 ; 4, 1 0) . La comprensione della natura del peccato costituisce il terzo tema (l Giov. 1 ,8 . 10 ; 3 ,4 .8 .9 ; 5 , 1 6- 1 7) . Quarto, tutte e tre le lettere sottolineano l ' importan­za di una vita morale per il cristiano (per esempio I Giov. l , 7 ; 2,3 .4.6.24; 3,7. 14 ; 4,5 .7 . 16; II Giov. 5-6; III Giov. 1 1 ) . I l coman­damento «amatevi gli uni gli altri» è presente non meno di cinque volte in queste lettere (l Giov. 3 , 1 1 .23 ; 4,7. 1 1 - 1 2 ; II Giov. 5) . Infine, il tema dell ' «ultimo giorno» occupa un posto importante nella prima e nella seconda (l Giov. 2, 1 8 .28; 3 ,2 ; 4, 1 7 . 1 8 ; II Giov. 7-8) .

Questi documenti sono importanti per il Nuovo Testamento e per la nostra comprensione della storia del cristianesimo primitivo, in quanto ci permettono di avere un ' istantanea della lotta della chiesa primitiva per mantenere la sua unità e integrità. Ci portano dietro le quinte per farci vedere qualche panno sporco del cristianesimo primi ti v o. La chiesa non è, dopo tutto, una grande famiglia felice. Ci sono divisioni, dispute, accuse, condanne e lotte per il potere. Tuttavia, queste lettere sono più che una semplice presentazione di un lato oscuro della storia del cristianesimo primitivo. Dimostrano la sfida di fronte alla quale si sono trovati i primissimi cristiani per definire la loro identità. Che cosa è di importanza cruciale per la fede cristia­na? Si può credere qualunque cosa su Cristo, oppure esiste una concezione vera che rende false tutte le altre? In altre parole, le lettere giovannee ci presentano la lotta per determinare un' unica, vera teologia: l 'ortodossia. Esse ci permettono di dare una sbirci atina nella lotta per la purezza dottrinale ed etica da una parte e la tolleranza dali ' altra. Inoltre, ci permettono di guardare attraverso il buco (determinato dalla caduta del nodo di una tavola di legno) di un muro vecchio di quasi duemila anni, da cui osservare la lotta per il potere che è in pieno svolgi-

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mento. Qual è l ' autorità dei capi della chiesa? Fin dove si esten­de?

Questi due argomenti gemelli dell ' ortodossia (nella fede e nella prassi) e dell ' autorità sono di somma importanza per l 'emergere della chiesa. Le lettere giovannee ci permettono di bloccare l ' azione in un luogo e in un tempo specifici, così da essere testimoni della lotta su questi argomenti . Ancor più importante è il fatto che esse ci mettono in grado di rivedere questi argomenti in carne e sangue, vedendoli rivivere negli occhi combattenti e nei cuori feriti di alcuni dei partecipanti e di poter assistere al trauma del processo di maturazione della chiesa avvenuto verso la fine del primo secolo.

ILRAPPORfO FRA LE LEITERE E IL VANGELO DI GIOVANNI

Letture preparatorie: si rileggano ancora una volta le tre lettere di Giovanni, questa volta ricercandone i paralleli e i contrasti con i l Vangelo di Giovanni .

Ora abbiamo almeno una qualche idea sulle preoccupa­zioni centrali delle lettere giovannee. Siamo quindi pronti a domandarci come si rapportano al Vangelo indomabile. Le domande vitali sono queste : le lettere sono state scritte dal quarto evangelista? Dove e in quali situazioni sono state scrit­te rispetto al Vangelo di Giovanni? In che cosa si differen­ziano dal quarto Vangelo nella loro comprensione della fede e della vita cristiane?

Il problema dell 'autore è intriso di difficoltà. L'identificazione tradizionale con il quarto evangelista è stata oggetto di indagi­ne critica e questa tesi non è più sostenuta così largamente come in passato. Però, quando si leggono le lettere giovannee, si rimane colpiti da quanto spesso si ritrovi un'atmosfera familia­re per quanto riguarda il linguaggio e lo stile. Le lettere conten­gono un impressionante numero di somiglianze con il Vangelo. Sono più frequenti nella prima lettera di Giovanni . Pochi esempi sono sufficienti : l ' uso di parole e di espressioni come «vita»

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(3,5) , «Vita eterna» (5, 1 1 ) , «verità» (5,6), «Padre»l«figlio» (4, 1 4) e <<nuovo comandamento» (2,7-8). Inoltre, quando si legge la prima lettera, è inevitabile un confronto con alcuni discorsi di Gesù presenti nel quarto Vangelo. Lo stile è lo stesso, lo sviluppo a spirale, con associazione di parole utilizzate per collegare frasi e argomenti . Diventano meno frequenti nella seconda lettera: «verità» (vv. 1 .2.3 .4), «dimorare in» (vv. 2.9), «Padre/Figlio>> (vv. 3 .9) e «nuovo comandamento» (v. 5) . Nella terza l ' affinità di vocabolario è rintracciabile soltanto nell ' u­so della parola «verità» (vv. 1 .3 .4.8 . e 1 2) . Tuttavia, dal momen­to che la seconda e la terza lettera di Giovanni sono così brevi e sono, dal punto di vista letterario, delle lettere (un genere ben diverso dal vangelo), non ci dobbiamo aspettare di trovare la stessa impressionante sequenza di paralleli.

Eppure si possono anche evidenziare le differenze, special­mente di tipo tematico, fra il Vangelo e le lettere giovannee. Nella prima, per esempio, il lettore è colpito dall ' accento che viene posto sull 'escatologia futuristica (per esempio 2, 1 8) , con poca, se non alcuna, evidenza del presente, sull 'escatologia realizzata che siamo giunti a conoscere nel quarto Vangelo. La parola «dottrina» (didache) in II Giovanni 9, 1 0 ha una diversa connotazione di quella presente nel quarto Vangelo (cfr. Giov. 7, 1 6. 1 7 ; 1 8 , 1 9) . L'espressione «signora eletta» di II Giovanni l è estranea al lettore del Vangelo. Il particolare rilievo dato all'ospitalità verso gli stranieri nella III Giovanni (vedi 5-8), così come l 'uso della parola «chiesa» (ekklesia) nel versetto 9, sono, nel migliore dei casi , addizioni al vocabolario giovanneo.

Questa breve presentazione dei rapporti fra il Vangelo e le lettere di Giovanni è sufficiente per indicare che ci troviamo dinnanzi ad un problema. Come possiamo spiegare, da una parte, le somiglianze di vocabolario e, dall ' altra, le differen­ze? Se permettiamo alla nostra mente di elaborare liberamen­te questo problema, emergono due possibilità. Potremmo conclu­dere che lo stesso autore abbia scritto il Vangelo e le lettere di Giovanni, ma in un di verso periodo di tempo e in due conte­sti differenti . Questa ipotesi renderebbe ragione delle somiglian­ze e nello stesso tempo delle differenze. Oppure, diversi autori potrebbero essere stati sufficientemente influenzati dal Vangelo di Giovanni da indurii ad imitarne il vocabolario, senza essere

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necessariamente del tutto coerenti con il suo pensiero. Si pensi per esempio al modo in cui un romanziere potrebbe essere influenzato dalle opere di un autore precedente. Infine, possia­mo combinare le due ipotesi e completarle in modo da prende­re in considerazione uno scenario diverso. Si supponga che questo autore (o questi autori) fosse parte della comunità giovan­nea già da molto tempo, oppure da poco, rispetto al momento in cui fu scritto il Vangelo. Il vocabolario giovanneo sarebbe naturale, anche quando le circostanze esterne fossero diverse.

Almeno per quanto mi riguarda, questa terza possibilità si fa preferire. Non potrebbe forse essere il caso che le lettere giovannee (o almeno la prima e la seconda) siano state scritte dalla e per la comunità giovannea in un momento in cui la sua situazione era fortemente diversa da quella in cui fu scritto il Vangelo? Questa proposta spiegherebbe le somiglianze senza pretendere che l ' autore (o gli autori) sia del tutto coerente con il Vangelo. Ci consente di non essere obbligati a spiegare le cause delle differenze di pensiero di un singolo autore fra un documento e l ' altro. Inoltre, questa proposta apre la possibi­lità che ciascuna delle tre lettere possa provenire da una mano diversa. Sicuramente, la seconda e la terza lettera vengono dallo stesso autore, l ' «anziano» . Ma la prima potrebbe benis­simo essere stata scritta da un altro capo della comunità. Questa proposta richiede che riflettiamo bene sul quando e in quali condizioni furono scritte le tre lettere.

Il problema della datazione si scioglie più facilmente se si concorda con l ' ipotesi che le lettere siano state scritte da autori diversi dal quarto evangelista, ma provenienti dalla sua stessa comunità. Il problema allora si modifica e consiste nello stabi­lire se le lettere siano state scritte dopo il Vangelo o prima. La natura dei problemi con i quali la comunità sta lottando nelle lettere giovannee costituisce la chiave del nostro rompicapo. Questi sembrano riflettere un momento posteriore della chiesa cristiana, certamente successivo a quello che ha dato origine al Vangelo di Giovanni . In particolare, l ' interesse mostrato per una fede e una prassi cristiana corretta e per l ' autorità eccle­siastica fanno propendere per un tempo posteriore.

La comunità giovannea al tempo della redazione del Vangelo era preoccupata per la disputa con la sinagoga. Il suo obietti-

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vo vitale era definire la propria identità differenziandola bene rispetto al giudaismo. Il suo interessamento per una dottrina corretta si riferisce soltanto alla confessione di fede messiani­ca: Gesù è il Cristo, nonostante quello che dice la sinagoga. Sembra esserci ben poco interesse, se non alcuno, per le diver­se concezioni di Cristo all ' interno della comunità cristiana stessa. Inoltre, la chiesa vista attraverso le lenti del quarto Vangelo ha ben poco interesse per l ' autorità dei suoi capi. Anzi, la chiesa giovannea del tempo in cui fu scritto il Vangelo ritene­va di essere governata dall ' autorità dello Spirito (vedi nel cap. 4, le sezioni sullo Spirito e sulla chiesa). Una comunità religio­sa molto sensibile alla guida immediata dello Spirito divino non ha bisogno di capi ufficiali umani. Le sue figure princi­pali emergevano in forma non ufficiale (in modo carismatico, diremmo oggi) e costituivano la dimostrazione convincente della guida dello Spirito.

Al tempo in cui furono scritte le lettere, la comunità giovan­nea si era occupata dei problemi interni. L' attenzione era scivo­lata dall ' antagonista presente ali ' esterno della chiesa verso quello interno. Quale tipo di confessione messianica è più corretta e vera? Il rapporto con la sinagoga non è più rilevan­te, ma i rapporti fra i diversi gruppi cristiani sono ormai al primo posto. Inoltre, la guida dello Spirito ora viene intesa come mediata dalle persone che rivestono un incarico ufficia­le nella chiesa. Il senso di immediatezza della guida dello Spirito, che pensiamo di vedere nel Vangelo di Giovanni , ha lasciato il suo posto ad una guida mediata. I mediatori sono coloro che sono stati eletti dalla comunità tramite un qualche procedimento ufficiale. Questa prassi non è ancora universal­mente accettata, così sembrerebbe, dal momento che la III Giovanni suppone che ci siano cristiani che si sentono liberi di sfidare l ' autorità dell ' «anziano» .

È possibile che il Vangelo di Giovanni sia stato scritto prima, e le lettere giovannee più tardi . Se dobbiamo indicare delle date per questi scritti , potremmo indkarle così . Il Vangelo è stato scritto forse nel decennio successivo alla distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C. , vedi la discussione sulla datazione del Vangelo nell ' Introduzione). Almeno un altro decennio passa dal momento della sua composizione prima

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che le lettere siano stilate. Quindi , il Vangelo è stato scritto fra i l 75 e 1 ' 85 e le lettere fra il 90 e il 95 d.C. Naturalmente queste sono approssimazioni e il risultato di alcune supposizioni . Tuttavia, c ' è ancora molto da fare sulla strada del confronto fra i gemelli letterari giovannei.

Si deve affrontare ora il problema della prospettiva cristia­na. Molte prove mettono in evidenza il fatto che, al tempo in cui sono state scritte le lettere, la comunità giovannea avesse compiuto alcuni importanti scostamenti dalla tradizione presen­tata nel Vangelo. Per quanto si tenesse ancora strettamente legata a quella tradizione, la comunità era stata influenzata da altre correnti di pçnsiero cristiano. Se guardiamo le cose da un punto di vista positivo, la tradizione giovannea è stata «arric­chita» da altre tradizioni ed è stata allineata al risultato delle altre prospettive cristiane.

Alcuni esempi di tali mutamenti di prospetti va sono eviden­ti . Abbiamo già parlato del fatto che l ' escatologia futuristica delle lettere sembra aver spinto in un angolo l 'escatologia del presente proposta dal Vangelo. Il delicato equilibrio fra presen­te e futuro, così efficacemente raggiunto nel testo del quarto evangelista, si è sbilanciato verso il futuro. Inoltre, la compren­sione d eli ' opera sal vi fica di Cristo presente nella prima lette­ra di Giovanni è considerevolmente diversa (dovremmo dire più matura?) di quella del Vangelo. La morte di Gesù è un «sacrificio espiatorio» (hilasmòs, I Giov. 2,2; 4, 10) che purifi­ca (kathariziJ) i peccati mediante lo spargimento del sangue. Gesù è ora il parakletos «che toglie il peccato» (2, 1 ), un uso molto diverso della stessa parola utilizzata nel Vangelo (vedi nel cap. 4 la sezione sullo Spirito) . Anche la soteriologia è coinvolta nella «unzione» (chrisma, una parola estranea al vocabolario del quarto evangelista) di cui si parla in 2,20 e 27. Mentre il Vangelo ha poco da dire nel settore dell' insegna­mento etico, la prima lettera di Giovanni parla del pericolo di «assenza di legge» nel campo della morale (3 ,4) . Mentre per il quarto evangelista il peccato è semplicemente mancanza di fede, l ' autore della prima lettera sente la necessità di distin­guere fra «peccato che conduce a morte» e «peccato che non conduce a morte» (l Giov. 5, 1 6- 1 7) .

Queste differenze non costituiscono contraddizioni eclatan-

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ti , ma semplici cambiamenti . Ogni punto di contrasto può essere spiegato a partire dalle sue radici nel Vangelo, ma qualcosa di nuovo è stato aggiunto o qualcosa è stato sottratto. Non potreb­be forse essere che la comunità giovannea abbia imparato e si trovi in un processo di adattamento ad altre forme (forse predo­minanti) di pensiero cristiano? Molte differenze, ma non tutte, della prospettiva cristiana del Vangelo e delle lettere possono essere spiegate sulla base di questa premessa. La comunità in cui fu scritto il Vangelo, così ho sostenuto fin dal principio, era una comunità relativamente isolata dalle altre correnti di pensiero cristiano, come quella paolina. Tuttavia, la comunità dalla quale sono emerse le lettere giovannee tradisce la prova di aver avuto alcuni rapporti con queste altre tradizioni (per esempio, un'escatologia che propende per l ' attesa futura e una comprensione della morte di Gesù espressa con la metafora ripresa dal culto sacrificale giudaico). Ne risulta un nuovo filone di cristianesimo giovanneo molto più compatibile con altre chiese cristiane. Però la proposta di una tale origine delle innovazioni nelle lettere non sminuisce il fatto che l ' autore (o gli autori) e la comunità furono creativi (per esempio, il concet­to della «unzione» di cui si è parlato qui sopra, non ha un esatto corrispondente in nessun altro testo del Nuovo Testamento).

Uno schema può aiutarci a vedere più chiaramente la storia della comunità giovannea nel suo rapporto con le altre comunità cristiane del primo secolo. Lo schema 1 4 ipotizza che ci fosse uno scambio fra tradizioni cristiane prima ancora che fossero scritti sia i Sinottici sia il Vangelo di Giovanni (vedi la presen­tazione de l i ' argomento dei rapporti fra i Sinottici e il Vangelo di Giovanni nell ' Introduzione), ma che l ' influenza degli altri gruppi cristiani sulla chiesa giovannea fu minima nel periodo in cui questa rimase in rapporti con la sinagoga. Dopo l ' espul­sione dalla sinagoga, però, si stabilirono frequentazioni con le altre chiese che ebbero un forte impatto sulla comprensione giovannea del cristianesimo. Forse le linee di influenza agiro­no anche in senso inverso, vale a dire, può darsi che la comunità giovannea abbia influenzato le altre chiese.

Il Vangelo indomabile sta per essere addomesticato !

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Cristiani nella sinagoga rulsione

Cristiani giovannei ----

Chiesa giovannea

delle epistole

Influenza t Altre chiese cristiane _______ ....... ______ _

Schema 14

NOTA SUL LIBRO DELL' APOCALISSE

Poiché l ' autore dell ' Apocalisse si presenta con il nome di «Giovanni» ( 1 , 1 .4.9; 22,8), l 'ultimo libro del Nuovo Testamento viene spesso messo sullo stesso piano del Vangelo e delle tre lettere di Giovanni . In particolare, dal momento che l ' autorità e il valore dell ' Apocalisse furono messe in dubbio per un certo periodo nella chiesa primitiva, la sua attribuzione al quarto evangelista è stata un modo per rendere autentico il suo inseri­mento nel canone cristiano. Quindi il problema del rapporto dell �pocalisse con il Vangelo di Giovanni merita almeno una nota.

Alcuni studiosi dell 'Apocalisse hanno notato somiglianze fra questo libro e il quarto Vangelo. Due tipi di affinità vengo­no messe in evidenza, molto diverse fra di loro, e ci permet­tono di cogliere il dato in base al quale molti ritengono che vi sia un rapporto fra i due documenti . Il primo è l ' associazione di vocabolario, in particolare per quanto riguarda l 'uso del

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titolo «Agnello» per indicare ·cristo. Il Vangelo di Giovanni utilizza esplicitamente questo titolo soltanto due volte ( l ,29.36). Tuttavia, la datazione della crocifissione riportata dal Vangelo, che corrisponde al giorno in cui si immolavano gli agnelli per la festa di Pasqua, può implicare il titolo (vedi n eli ' Introduzione la sezione sul rapporto fra i Sinottici e il Vangelo di Giovanni) . Nell ' apocalisse, «Agnello» è il titolo utilizzato più frequente­mente per Cristo (per esempio 5,6.8 ; 1 2, 1 1 ; 1 3,8 ; 1 7, 14; 2 1 ,9). Una seconda somiglianza esemplare viene spesso colta nello stile dell 'Apocalisse e del quarto Vangelo. Entrambi sono poeti­ci e talora sfociano in vera poesia (per esempio Giov. 1 , 1 -8 ; Apoc. 1 8,2 1 -24; 1 9, 1 -3) . I testi innici , inoltre, appartengono al genere che potrebbe aver avuto origine ed essere utilizzato nel culto cristiano primitivo (per un' analisi completa di questo argomento si può vedere l ' introduzione del classico commen­tario al libro dell 'Apocalisse di R.H. Charles).

Sotto le apparenti somiglianze, però, esiste una differenza sostanziale. L' Apocalisse è un genere letterario specifico, conosciuto come apocalittico (si riveda la presentazione intro­duttiva al cap. 4). Quindi l ' intera sua prospettiva invita il letto­re a proiettare la promesse di Dio nel futuro. Il Vangelo di Giovanni, come abbiamo visto, è molto attento nel completa­re questa con una forte attenzione al presente. Può anche essere letto come un consiglio contro i pericoli di una mentalità apoca­littica. Tuttavia, esprimere le diversità in questo modo potreb­be essere superficiale. L'apocalisse di Giovanni ha il chiaro scopo di modificare la percezione del presente del lettore, dimostrandone il suo rapporto con il futuro. Poiché Dio ha promesso ai cristiani la vittoria definitiva sui loro oppressori, l ' esperienza di oppressione è radicalmente trasformata. Non possiamo accantonare con troppa facilità l ' Apocalisse, consi­derandolo orientato completamente al futuro. In realtà, si potreb­be sostenere che l ' escatologia apocalittica cerchi di raggiun­gere in modi diversi lo stesso obiettivo che il Vangelo di Giovanni vuole centrare con la sua attenta articolazione dell ' escatolo­gia del presente e del futuro. Il genere letterario dei due testi è radicalmente diverso: uno è di tipo apocalittico, l ' altro è un vangelo. Quindi ciascuno tratta i ' argomento del futuro in modo diverso.

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Tuttavia, date le somiglianze e la natura attenuata delle differenze più importanti, l 'argomento è ancora pieno di diffi­coltà. Il linguaggio e lo stile dei due documenti sono radical­mente diversi, così come pure le rispettive teologie (cfr. le rispettive teologie della croce) . Anche una lettura casuale dei due libri, l 'uno dopo l ' altro, rende difficile credere che siano opera dello stesso autore.

Supponiamo, però, che il libro dell'Apocalisse abbia avuto origine nella comunità giovannea e forse anche dalla mano del quarto evangelista. Quale rapporto esiste fra i due testi nell' am­bito della storia della comunità? Sono ipotizzabili due schemi molto di versi. Il primo vedrebbe l ' origine dell 'Apocalisse molto presto nella storia della comunità, prima ancora della redazio­ne del Vangelo di Giovanni (e dell ' espulsione dei cristiani giovannei dalla sinagoga) e prima delle lettere giovannee. L'attento equilibrio fra escatologia presente e futura presente nel Vangelo, allora, si deve comprendere come un modo diver­so di esprimere le promesse di Dio presentate nell ' Apocalisse. Una tale ipotesi richiede che la datazione dell 'Apocalisse sia molto anticipata. Dal momento che molti ritengono che tale libro sia stato scritto in un periodo in cui i cristiani erano in serio conflitto con l ' Impero romano, farlo risalire agli anni 60 sarebbe l 'unica possibilità.

L' altro schema rovescia completamente l ' ordine. Prima furono scritti il Vangelo e poi le lettere, seguiti dall' Apocalisse. In questo caso la traiettoria indicherebbe una sempre maggior attenzione all 'escatologia futuristica. Il Vangelo manteneva un equilibrio fra presente e futuro. La prima lettera di Giovanni sottolineava ancor più fermamente la dimensione futura delle promesse di Dio. Il libro dell' Apocalisse sarebbe stato scritto subito dopo le lettere, nel tempo in cui i cristiani pativano le persecuzioni per ordine dell ' imperatore Domiziano (oppure per il fatto che Giovanni preannuncia questa persecuzione) nell 'ultimo decennio del primo secolo.

Per quanto queste speculazioni siano interessantissime, sembra molto meglio non forzare l ' Apocalisse nella costru­zione già di per sé speculativa della storia della comunità giovannea. I due schemi storici sopra abbozzati danno l' impres­sione di forzare l ' Apocalisse in una strettoia inizialmente non

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prevista. Certamente c'erano molti «Giovanni>> nella chiesa cristiana primi ti va. Che l ' autore del libro dell'Apocalisse chiami se stesso Giovanni e che la tradizione abbia chiamato l ' auto­re del quarto Vangelo con il nome di Giovanni ben difficil­mente può costituire la base per attribuire i due scritti ad uno stesso autore. La mia ipotesi, quindi, è che il libro dell 'Apocalisse sia considerato sulla base dei propri meriti , senza ricorrere alla cosiddetta letteratura giovannea nel tentativo di penetrarne i suoi misteri.

L'Apocalisse è un testo indomabile nel suo genere, nell ' am­bito della letteratura neotestamentaria. Corre libero, così come abbiamo detto per il Vangelo di Giovanni . È molto meglio lasciare che ciascuno di questi cavalli in domabili sia se stesso, anziché cercare di sostenere che sono figli diversi degli stessi genitori .

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APPENDICE B

LE DONNE NEL VANGELO DI GIOVANNI

Non è insolito per una religione formulare norme per la vita comunitaria e per i ruoli specifici di gruppi all ' interno della comunità. Esempi di tali sforzi si trovano in quei testi del Nuovo Testamento noti con l ' espressione «codici domestici» (per esempio E f. 5,2 1 -6.9). Nella cultura islamica degli anni Novanta il ruolo delle donne, dettato dal Corano, ha attirato l' attenzio­ne del mondo occidentale quando alcune donne islamiche hanno protestato contro la proibizione di guidare un'automobile. Come il cristianesimo, anche l ' islam combatte una vecchia posizio­ne delle donne fra crescenti pressioni della vita moderna per aggiornarsi. Anzi, il posto e il ruolo delle donne è uno degli elementi cruciali che tutte le principali religioni del mondo devono affrontare.

Per essere un documento del primo secolo, il nostro affasci­nante Vangelo indomabile ci presenta una concezione unica su di esse, per quanto non sia insolito trovare donne presenti nelle narrazioni dei Vangeli sinottici. Anzi, esse svolgono un ruolo preminente in tutti i Vangeli presenti nel Nuovo Testamento. Occorre solo richiamare la solida fede della donna cananea in Matteo 1 5 ,2 1 -28 (vedi anche Mc. 7,24-30). Gesù stesso si meraviglia del grado di fede presente nella donna. Oppure, basta richiamare alla mente la donna che aveva sofferto per dodici anni di perdite di sangue e sgusciò fra la folla per tocca­re il lembo del mantello di Gesù (Mc. 5,25-34; vedi anche M t. 9, 1 8-22 e Le. 8,43-48) . Gesù le dice che la sua fede l 'ha guari­ta. Queste sono soltanto due delle molte donne presenti nei Vangeli sinottici poste come esempio di fede. Le donne sono ben lungi dall ' essere cittadini di seconda classe nei racconti sinottici di Gesù.

Il Vangelo di Giovanni è degno di nota per la sua presen-

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tazione intenzionale delle donne come modelli di fede. Possiamo facilmente cogliere questa straordinaria qualità esaminando, prima di tutto, il ruolo delle donne nella struttura generale del Vangelo, avvicinandoci poi a ciascuno dei personaggi femmi­nili che incontrano Gesù ed infine traendo qualche conclusio­ne da questa mini panoramica.

LE DONNE NELLA STRU1TURA DEL VANGELO DI GIOVANNI

Questo evangelista è scaltro e intelligente nella presenta­zione delle donne. L' intera struttura narrativa sembra costrui­ta in modo tale da far insinuare alcuni messaggi sottil i nella mente dei lettori . Come i messaggi subliminali, l ' autore del Vangelo lancia messaggi fra le righe, oppure, come in questo caso, fra le diverse scene della narrazione. Una delle tecniche letterarie utilizzate è l ' insinuarsi furtivamente dietro l ' inso­spettabile lettore e impiantarvi una suggestione di cui lo stesso lettore non è del tutto consapevole in un primo momento. Solo dopo che l ' evangelista ha fatto ciò abilmente più volte, il letto­re comincia a coglierne il messaggio. Questo è quanto accade con il tema delle donne.

Quando ci chiediamo dove, nel corso del racconto giovan­neo, l ' autore presenti personaggi femminili in azione, scopria­mo che spuntano in tutte le scene cruciali . Se i l lettore ha fatto le letture preparatorie indicate, non sarà sorpreso nel consta­tare che le donne compaiono nei capitoli 2; 4; 1 1 ; 1 2 ; 1 9 e 20. Quanto sono importanti questi capitoli ! Le donne sono presen­ti molto presto nella narrazione del ministero di Gesù, inizian­do con il ruolo di sua madre nel primo miracolo in pubblico (2, l - 1 1 ) . Segue da vicino la donna samaritana del capitolo 4. Poi per sei capitoli il racconto è dominato dagli uomini. Ma al momento cruciale della risurrezione di Lazzaro, Maria e Marta compaiono in primo piano. Marta assume il ruolo di guida femminile nel capitolo l l e Maria nel capitolo 1 2. Questi costi­tuiscono il punto di svolta centrale della narrazione giovannea (si veda nell ' Introduzione, la sezione sulla struttura letteraria

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del Vangelo). L'azione miracolosa di Gesù del capitolo 1 1 fa scattare il complotto mortale contro di lui ( 1 1 ,45-54) che verrà messo in atto nel capitolo 1 8 . L'unzione di Gesù da parte di Maria ( 1 2, 1 -8) lo prepara per la morte e apre il capitolo che costituisce l ' ultima apparizione pubblica di Gesù prima della passione. Al culmine di tale fase, un gruppo di donne è presen­te ai piedi della croce, compresa sua madre, Maria di Magdala e altre ( 1 9,25) . La loro presenza è sottolineata dalla vistosa assenza di tutti i seguaci maschili , tranne uno (il discepolo prediletto, se questo personaggio era un maschio). Infine, i l punto culminante dell ' intero Vangelo si trova nei racconti delle apparizioni del Risorto, e chi potrebbe essere i l primo a scopri­re la tomba vuota e a incontrare il Cristo risorto se non una donna: Maria di Magdala !

Le donne sono coinvolte all ' inizio, al centro e alla conclu­sione della narrazione giovannea, come indica lo schema 15 .

Donne ai piedi della croce

Maria

Marta

Donna samaritana 4

Madre di Gesù 2

Schema 1 5

Qual è i l messaggio subliminale di questo progetto? Innanzitutto, le donne erano fra i discepoli di Gesù: su questo fatto il quarto Vangelo non ammette alcun dubbio. Esse sono uguali ai discepoli maschi. Inoltre il loro discepolato è fonda­mentale per la storia di Gesù. Senza di loro sarebbe difficile

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raccontare la versione giovannea del ministero di Gesù. Infine, il lettore viene indirizzato verso personaggi femminili (come anche maschili) in quanto testimoni di modelli di fede. Questa conclusione, tuttavia, richiede che esaminiamo brevemente ciascuna delle principali donne presenti nel quarto Vangelo.

PERSONAGGI FEMMINILI NEL VANGELO DI GIOVANNI

Letture preparatorie: si leggano i racconti del le seguenti donne: la madre di Gesù (2, 1 - 1 1 ; 1 9,25-27), la donna samaritana (4, 1 -42), Maria e Marta ( 1 1 , 1 - 1 2,8) e Maria di Magdala ( 1 9,25-27; 20, 1 - 1 8) .

Prima di iniziare l ' esame di ciascuna delle donne presenti nel Vangelo di Giovanni, è necessario fare qualche generica osservazione sull 'uso dei personaggi da parte dell ' evangeli­sta. Prima di tutto, nessun personaggio è pienamente svilup­pato e tutti svolgono un ruolo di supporto. La loro collocazio­ne nella narrazione è sempre in rapporto al personaggio princi­pale, Gesù. Essi rimangono non sviluppati così da mantenere l ' attenzione concentrata su di lui . Inoltre svolgono tutti la medesima funzione: ciascuno rappresenta un tipo di risposta dinanzi a Gesù. Alcuni sono presentati come esempi di reazio­ne negativa, come l ' uomo paralitico del capitolo 5, che viene guarito da Gesù, e forse Ponzio Pilato. Altri danno una rispo­sta positiva, di fede, e altri ancora ne danno una ambigua (per esempio Nicodemo). Quelli ai quali è stato assegnato un ruolo positivo rappresentano invariabilmente un certo livello o una certa dimensione di fede, come vedremo nella presentazione che segue. In altre parole, i personaggi del Vangelo sono utiliz­zati per provocare una risposta di fede da parte del lettore. Es�i sono strumenti nelle mani di un bravo chirurgo, il quale aspor­ta il tessuto dell ' incredulità. Infine, osserviamo che ciascuno dei personaggi femminili della narrazione viene presentato in un ruolo positivo, mai ambiguo o negativo. Ciascuna di esse esemplifica una misura o una caratteristica della fede.

La madre di Gesù appare soltanto due volte in questo Vangelo: una durante la prima apparizione pubblica di Gesù,

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l ' altra nella scena della crocifissione. Molto è stato detto a proposito del ruolo simbolico che essa può ricoprire nel Vangelo, ma noi ci occupiamo di argomenti più pratici. La incontriamo per la prima volta ad un pranzo di nozze, quando essa infor­ma Gesù di un' imbarazzante mancanza delle riserve di vino. Quando Gesù replica che questo non è un problema che la riguardi , lei molto tranquillamente dice ai servi : «Fate quel che vi dirà» (2,5) . La sua parte sembra essere di minor importan­za nel contesto del primo miracolo di Gesù, ma essa dimostra una calma fiducia nel figlio. Si tratta di sicurezza che lascia presagire fede. Il primo personaggio femminile nel dramma è un esempio del modo in cui la fede viene all ' inizio sperimen­tata ed espressa.

Più significativa, forse, è la presenza della madre di Gesù al momento della sua crocifissione. Qui , con altre donne, ella condivide la misteriosa esaltazione di Cristo, ed è anche benefi­ciaria di un onore specifico: le parole di Gesù fanno di lei la madre del discepolo prediletto e quest'ultimo diventa suo figlio. Così, dal piccolo gruppo raccolto ai piedi della croce si forma una nuova comunità, con la madre di Gesù come sua matriar­ca. Su questo episodio Alan Culpepper ha scritto: «L' impatto di questa scena è stato tremendo. Sono presenti l 'uomo e la "donna", il discepolo ideale e la madre che egli è chiamato ad accogliere, sotto la croce del donatore di vita. Questo è l ' ini­zio di una nuova famiglia per i figli di Dio» (Anatomy of the Fourth Gospel, p. 1 34).

Come aveva promesso il Prologo, quelli che credono nella Parola fatta carne ricevono il diritto di diventare figlioli di Dio ( 1 , 1 2), creando una nuova famiglia. Questa prende come suoi genitori terreni soltanto coloro il cui nome deriva dall ' amore di Gesù per lui e dalla stessa madre di Gesù. La chiesa compren­de indistintamente uomini e donne di fede che rendono testi­�onianza alla croce.

La donna samaritana è un personaggio diverso. Un membro samaritano, anti-istituzionale, nonconformista e per di più donna, impegna Gesù in una discussione sulla tradizione religio­sa e sulla legge ( 4, 1 2 .20.25) . Nel dibattito lei sostiene la propria posizione egregiamente. In verità, fraintende in forma umori­stica Gesù, non coglie il significato dell 'espressione «acqua

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viva» di cui parla (4, 1 5), ciò nonostante l ' evangelista ben diffi­cilmente si fa beffe di lei (si ricordi , anche i discepoli maschi si muovono con incertezza nello sforzo di comprendere Gesù , come per esempio in 1 6,29-33), né la descrive necessariamente come una donna immorale. Non ci viene mai detto il perché lei abbia avuto cinque mariti e ora viva con un uomo che non è suo marito, inoltre Gesù non mostra alcuna intenzione di darle una piccola lezione di moralità. Al contrario, lei è una donna perspicace e vi v ace, che vede nella conoscenza che Gesù ha di lei l ' indicazione che egli è un profeta ( 4, 1 9) . Inoltre, si dimostra fiduciosa nella rivelazione di Gesù della sua vera identità ( 4,25-29). Difficilmente ci aspetteremmo che questa semplice donna samaritana arrivi a comprendere ciò che costi­tuiva un rompicapo per Nicodemo (3 , 1 - 14), ma lei crede. Il contrasto è evidente : Nicodemo è parte dell ' istituzione religio­sa, ma non può credere in Gesù (almeno pubblicamente); d' altra parte la donna samaritana è esclusa, rifiutata e odiata dalla religione costituita, ma riesce a credere. Ella rappresenta il modo in cui Cristo viene accettato fra gli emarginati e i disprez­zati , anche quando egli viene rifiutato dalle persone colte e oneste. Quando la donna samaritana viene accostata all 'uffi­ciale pagano incontrato alla fine del capitolo 4 (vv. 46-54) , il lettore incontra due diversi emarginati che credono: una povera donna samaritana e un ricco uomo pagano. .

Ma il ruolo di questa donna è ancora più importante . Non soltanto arriva a credere, ma testimonia la sua fede. Dimenticando il secchi o per prendere l 'acqua nel pozzo, torna in paese per condividere con i suoi concittadini la fede appena trovata. Con gioioso entusiasmo invita i suoi vicini : «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto» e poi li solle­cita con una domanda che, lei sa bene, stuzzicherà la loro curio­sità: «Non potrebbe essere lui il Cristo?» ( 4,29). La sua testi­monianza ci ricorda subito l ' invito di Gesù ai primi discepoli di «venire a vedere» e il loro rivolto ad altri ( 1 ,39 .46). Il primo testimone di Cristo nel quarto Vangelo è Giovanni il Battista (l ,29-34). La donna samaritana è la controparte femminile del Battista. Che efficace testimone dimostra di essere ! La sua fede e il suo entusiasmo promettente hanno indotto la fede in molti del suo villaggio ( 4,39). Sulla base della sua testimonianza i

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credenti del paese proclamano Gesù il «Salvatore del mondo» ( 4,42): una dichiarazione che coglie l ' essenza di 3, 1 6. Questo Cristo è la salvezza del mondo, inclusi gli emarginati e i dimen­ticati .

Nella narrazione del Vangelo la donna samaritana è la prima persona fra gli emarginati che crede. Diventa l 'esempio di come l ' incontro con la parola di Gesù susciti la fede e questa traboc­chi in testimonianza. A causa sua, il lettore del Vangelo viene a sapere che la rivelazione di Dio in Cristo è proprio per lui, non importa chi egli sia né la classe sociale a cui appartenga !

Maria e Marta appaiono improvvisamente in due scene e poi spariscono. Ci viene detto che condividono con Gesù un particolare affetto per loro fratello, Lazzaro, ( I l ,3 .2 1 ; 1 2, 1 -2). Marta interviene nella prima scena: la veglia per Lazzaro. La sua fiducia in Gesù è evidente fin dalle prime parole che gli rivolge: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sareb­be morto; e anche adesso so che tutto quello che chiederai a Dio, Dio te lo darà» ( 1 1 ,2 1 -22). Marta non riesce a cogliere quel che le è riservato, quindi segue una breve conversazione sulla speranza per la risurrezione di Lazzaro. Ripete obbedien­temente il credo, memorizzato senza dubbio nella classe di catechismo: «Lo so che risusciterà, nella risurrezione, nel l 'ul­timo giorno» ( 1 1 ,24 ) . Ella dunque apprende che Gesù stesso è la risurrezione e la sua presenza corrisponde all'ultimo giorno.

Marta è la rappresentazione provocatoria della punta crescen­te della fede che matura e scopre il pieno significato di colui che è l 'oggetto di questa. Lei è i l mezzo usato dall 'evangeli­sta per proclamare che la fede non può mai essere stagnante, ma sarà sempre spinta oltre i suoi limiti .

Maria svolge un ruolo diverso. Con l ' unzione dei piedi di Gesù lo prepara per la sepoltura ( 1 2, 1 -7). Il suo è un sempli­ce atto d' amore e di gratitudine per colui che ha riscattato suo fratello dalle fauci della tomba. Ella dimostra che la fede è radicata nel grato riconoscimento del donatore di vita. Ma la sua azione è più di un'espressione di ringraziamento, è infat­ti profetica, dice più di quanto conosce, per cui anticipa la grande glorificazione di Gesù.

Questa coppia femminile delinea le caratteristiche della fede. Fondata sulla fiducia e l ' affidabilità, estesa dalla matura-

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zione e sagomata dalla gratitudine e dali ' amore, la loro fede è un mezzo mediante il quale Dio compie il suo progetto divino nel mondo.

Maria di Magdala è l ' ultima donna a presentarsi sulla scena giovannea e il meglio viene appunto riservato per la fine. Se il lettore non ha ancora colto il quadro, l 'evangelista glielo dipinge a tinte forti in questo paradigma femminile della fede. In Maria sono presenti tutte le caratteristiche dei fedeli creden­ti . Mentre ricopre un ruolo di supporto nella prima scena culmi­nante, Maria di Magdala è la protagonista del ruolo più impor­tante assegnato ad una donna nel l ' intera narrazione. Ella arri va alla tomba che crede conservi il corpo di Gesù per esprimer­gli il suo affetto ma, scoprendola vuota, non può trattenere le lacrime. La sua devozione e il suo amore ci fanno pensare a Maria di Betania; quando il Cristo risorto le appare, lo riceve con gioia, richiamandoci la ricettività di Marta. Il suo ruolo è valorizzato ancor più quando Gesù le chiede di andare e dare l ' annuncio della sua risurrezione agli altri discepoli. Maria immediatamente va e adempie esattamente quanto le è stato chiesto, riportandoci alla mente l ' immagine della testimonianza della donna samaritana. Devozione, amore, ricettività e testi­monianza: queste sono le caratteristiche del discepolato, tutte presenti in una singola figura femminile.

Maria di Magdala è la personificazione di tutto quello che significa essere un discepolo. Ma è anche qualcosa di più : ricopre un ruolo preminente in quanto prima testimone della tomba vuota, prima testimone del Cristo risorto e prima ad annunciare l ' evangelo della risurrezione. Come Raymond E. Brown ha indicato, Maria di Magdala è la prima donna aposto­lo, infatti rende testimonianza al Cristo risorto e viene inviata per annunciare la sua risurrezione : è un apostolo inviato agli apostoli, («apostola degli apostoli» , R. E. BROWN, La comunità del discepolo prediletto, Assisi, Cittadella editrice, 1 982, p. 225) .

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CONCLUSIONI

Che cosa pensare della preminenza delle donne nel Vangelo di Giovanni? Si presentano due drastiche alternative: la prima è che il quarto evangelista ritenga necessario riaffermare il posto e il ruolo delle donne nel ministero di Gesù perché la chiesa del suo tempo correva i l pericolo di dimenticare questi dati vitali. Possiamo immaginare la possibilità che la chiesa dell ' evangelista sia caduta nel dominio maschile, una vittima della propensione maschilista di affermare la propria superio­rità sulle donne. Allarmato da questa serie di avvenimenti, l ' evangelista scrive un messaggio correttivo per richiamare la chiesa alla sua ispirazione originaria, ovvero che in Cristo «non c 'è più né maschio, né femmina» (Gal. 3 ,28).

Tuttavia, non si coglie nulla di polemico nella presenta­zione delle donne nel Vangelo. Non c 'è alcun cenno a sprona­re il lettore a liberarsi dalle catene del sessismo. La presenta­zione, per dire la verità, è molto più casuale e naturale. Il messaggio centrale rimane Cristo, non il linguaggio inclusivo del genere. Certamente, sembra esserci un sottile contrasto tra Nicodemo e la donna samaritana. Forse, anche la presenta­zione di Maria di Magdala vuole indurre un confronto con Pietro e il discepolo prediletto. Ma questi contrasti non costi­tuiscono una polemica.

La seconda alternativa è di supporre, allora, che nella comunità dalla quale e per la quale l ' autore scrive è data per scontata l ' uguaglianza del posto e del ruolo delle donne e degli uomini. Si tratta di una comunità paritaria, nella quale i due sessi occupano posizioni preminenti e nella quale i doni di entrambi sono altamente considerati. Il racconto che parla della fede dei samaritani indica che la comunità giovannea è consa­pevole del fatto che i rifiutati e gli emarginati dalla società partecipano parimenti ai benefici di Cristo e sono in comunio­ne gli uni con gli altri . Questa inclusività può anche costitui­re lo sfondo per la presentazione delle donne nel Vangelo. I l quarto evangelista non conosce altra tradizione, né altro modo di narrare la storia di Gesù, se non nel contesto di uguaglian­za fra donne e uomini in Cristo.

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Possiamo allora osare porre un'altra domanda che deriva da questa discussione? N o n potrebbe darsi che il quarto evange­lista sia una donna? L' importante ruolo delle donne nel Vangelo spinge certamente verso questa possibilità. Nulla lo impedi­sce nel Vangelo. Tuttavia, questo importante ruolo delle donne permette anche di prospettare un autore maschile sensibile che apprezza le sue sorelle nella fede. L' accentuazione dei rappor­ti fraterni è un 'altra caratteristica da prendere in considera­zione. Tutta la discussione dei rapporti tra Padre e Figlio, tra Padre e credenti , tra Figlio e credenti e tra credenti stessi (vedi il cap. 1 7) potrebbe far ipotizzare una consapevolezza femmi­nile. Ma, ahimè, temo che una tale ipotesi derivi più dalla nostra mentalità del XX secolo, piuttosto che da quella del primo secolo, e potrebbe essere soltanto un altro stereotipo dei generi . In fondo l 'obietti v o di risalire al sesso di un autore senza nome è impossibile da raggiungere, non esistono criteri semplici e validi per poterlo dedurre dalla sola opera letteraria (ancor meno dal tipo teologico). L'argomento diventa costantemen­te sessista proprio a causa delle generalizzazioni che assume.

Tuttavia, un elemento di vitale importanza ci si presenta dinnanzi quando ipotizziamo che il quarto evangelista potreb­be essere una donna: si tratta della predominanza di immagi­ni maschili di Dio presenti nel quarto Vangelo, in particolare a cominciare dal comune nome di «Padre». Non possiamo parlare di Dio come Padre nella nostra cultura senza solleva­re il problema del linguaggio sessista. L' immagine di Dio come padre evoca associazioni maschili e le attribuisce alla realtà ultima. Dobbiamo allora concludere che il Vangelo di Giovanni, nell ' ambito degli scritti del Nuovo Testamento, sia i l più sessi­sta nella sua immagine di Dio? È proprio impossibile per una femminista, o per un uomo sensibile all 'argomento, concor­dare con questa presentazione estremamente maschile? È forse impossibile, allora, credere che una donna sia responsabile del il linguaggio usato per Dio nel Vangelo?

Penso di no. Il titolo parentale per Dio sembra essere radica­to nella tradizione nel cui ambito Gesù ha parlato di Dio come «Abba, Padre» (Mc. 1 4,36; vedi anche Rom. 8, 1 5 e Gal . 4,6). Di conseguenza, siamo costretti a porre domande sul contesto e la motivazione di tale tradizione. La spiegazione più convin-

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cente, credo, è quella fornita da Elisabeth Schltisser Fiorenza: ella sostiene che Gesù non si riferisce a Dio come Padre inten­dendo che sia un maschio. Egli non vuole, innanzi tutto, insegna­re che il discepolo cristiano debba immaginarsi un Dio maschi­le e quindi attribuirgli tutte le caratteristiche che conseguono. Piuttosto, dice Schtissler Fiorenza, le cose stanno proprio al contrario: i l fatto che Gesù chiami Dio con il titolo di Padre deriva dal tentativo di allentare l' impatto con la superiorità maschile e l ' autorità su donne e bambini . Esiste una sola autorità e questa è Dio; esiste un solo padre che pretende obbedienza assoluta e questi è Dio. Allora: «Non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli» (Mt. 23,9). Immaginando Dio come Padre, l ' autorità dei maschi è sovvertita. Il dominio maschile sulle donne e sui bambini nella struttura familiare del tempo è azzera­to (vedi Elisabeth SCHOSSLER FIORENZA, In memoria di lei ­Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Torino, Claudiana, 1 990, pp. 1 67- 1 78).

Se è corretta questa ipotesi sull'origine della tradizione in cui Gesù chiamava Dio Padre, ne conseguono alcune conclu­sioni sulla preminenza del titolo Padre nel Vangelo di Giovanni . Fra tutti gli scritti del Nuovo Testamento, questo Vangelo concentra radicalmente l' autorità al di fuori delle strutture della società. Il quarto evangelista sviluppa la tradizione primitiva del linguaggio di Gesù su Dio ancora più, concentrando il linguaggio per parlare di Dio nella raffigurazione parentale. Ben l ungi dali ' imporre la supremazia e l' autorità maschile sulle donne e sui bambini, sfilaccia del tutto la corda. Di conse­guenza, credo che il carattere ugualitario della comunità giovan­nea si estendesse fin dentro i rapporti familiari . Qui esso contri­buiva a mitigare e democraticizzare il ruolo dell 'uomo. Per questo moti v o l ' abbondante uso dell ' immagine maschile di Dio come Padre non indebolisce necessariamente la prospet­tiva che il Vangelo di Giovanni abbia come autore una donna. Piuttosto, potrebbe essere il contrario, poiché il Vangelo è impostato su di una prospettiva femminista e all ' interno di una comunità ugualitaria. Il linguaggio per parlare di Dio potreb­be essere un 'ulteriore prova della dissoluzione dell ' autorità patriarcale, insieme a tutta l ' altra autorità umana.

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Questo è quanto possiamo concludere e forse non possia­mo andare oltre : non esiste prova convincente che ci costrin­ga a rifiutare la possibilità che il quarto evangelista fosse in effetti una donna. Ella potrebbe essere stata un eminente capo nella comunità giovannea, che (se le fosse stata negata l 'oppor­tunità di imparare a scrivere) avrebbe potuto dettare il Vangelo ad uno scriba. Se le nostre conclusioni sulla natura ugualita­ria della comunità giovannea sono valide (vedi nel cap. 4 la sezione sulla chiesa), ne consegue che una donna potrebbe essere stata tenuta in così alta considerazione e potrebbe aver assunto una tale preminenza da essere ispirata a scrivere per la sua comunità cristiana. Si tratta soltanto di una possibilità, ma i dati del Vangelo ci spingono a mantenerla aperta.

Comunque stiano le cose, il nostro Vangelo indomabile va per la sua strada senza riguardo per i costumi sociali del suo tempo. Esso onora i personaggi femminili attribuendo loro i ruoli più significativi della narrazione e per loro tramite stuzzi­ca il lettore con una varietà di modelli di vera fede. C'è una crescente prova che le donne fossero in primo piano nel ministe­ro di Gesù e nella guida delle chiese più ;mtiche ; la testimo­nianza del Vangelo di Giovanni è molto significativa a questo proposito. La tragedia è che questo Vangelo indomabile diven­ne addomesticato a tempo debito, vittima dei ruoli culturali dominati dagli uomini. Nella nostra continua ricerca per uno schema di società più autentica rispetto a quella legata ai ruoli di sesso, il Vangelo di Giovanni annuncia una parola chiara e autorevole.

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BIBLIOGRAFIA

Le opere sono state scelte per due ragioni : primo, sono quelle su cui ho principalmente basato il mio studio. Secondo, sono lavori che possono permettere a chi Io desideri di approfondire temi affrontati in questo l ibro.

Commentari:

BARRETI C.K., The Gospel According to St. John, Filadelfia, Westminster Press, 1 9782.

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FIORENZA ScHOSSLER Elisabeth, In Memory of Her: A Feminist Theological Reconstruction of Christian Origins, New York, Crossroad, 1 984 (tr. i t . : In memoria di Lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Torino, Claudiana, 1 990) .

FORTNA Robert T., The Gospel ofSigns, Society for New Testament Studies Monograph Series, n . 1 1 , Cambridge, Cambridge Uni versity Press, 1 970.

FORTNA Robert T. , The Fourth Gospel and Its Predecessor, Fi ladelfia, Fortress Press, 1988. In questi due volumi l ' auto­re tenta di costruire e difendere una teoria del le fonti del Vangelo.

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FULLER Reginald H. , The Foundations of the New Testament Christology, New York, Charles Scribner's Sons, 1 965.

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THOMPSON Mari an ne Meye, The Humanity of Jesus in the F ourth Gospel, Filadelfia, Fortress Press, 1 988. Una risposta a Kiise­mann.

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HOULDEN J.L. , The Johannine Epistles, Harper's New Testament Commentary, New York, Harper & Row, 1 973.

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L 'Apocalisse:

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FIORENZA SCHOSSLER EUSABETH, Revelation: Vision of a Just World, Proclamation Commentaries, Minneapolis , Fortress Press, 199 1 . Un esempio significativo dei più recenti studi sul l ' Apocal isse.

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242

Page 244: Giovanni

BIBLIOGRAFIA ITALIANA SUL VANGELO DI GIOVANNI

(a cura di Bruno Corsani)

Chi avesse necessità di una bibliografia internazionale potrà consultare questi due repertori :

MALATESTA E., St. fohn s Gospel 1920-1965 (Analecta Biblica) Roma, Pont. l st. Biblico 1967.

VAN BELLE G., Johannine Bibliography 1966-1985, Lovanio, Peeters, 1 988.

Inoltre i commentari più importanti offrono indicazioni bibl io­grafiche nel le principali l ingue europee. Qui segnaleremo pubbli­cazioni in l ingua italiana sul quarto vangelo.

BARRETT C.K. , Il vangelo di Giovanni fra simbolismo e storia, Torino, Claudiana, 1 983.

BARRETT C.K., Il vangelo di Giovanni e il giudaismo, Brescia, Paideia, 1 980.

BLINZLER J., Giovanni e i Sinottici, Brescia, Paideia, 1 969.

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CrLIA L., La morte di Gesù e l 'unità degli uomini, Bologna, EDB, 1 992.

COLOMBO G., La critica testuale di fronte alla pericope dell 'a­dultera, "Rivista Biblica" 42, 1 994, 8 1 - 1 02.

CORSANI B., l miracoli di Gesù nel quarto vangelo, Brescia, Paideia, 1 983.

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CULLMANN o , , l sacramenti nel vangelo giovanneo, in : CULLMANN,

La fede e il culto della chiesa primitiva, Roma, AVE, 1 974, pp. 1 8 1 -295 .

CULLMANN 0., L'opposizione contro il Tempio, motivo comune della teologia giovannea e dell 'ambiente, i n : CULLMANN,

Dalle fonti dell 'Evangelo alla teologia cristiana, Roma, AVE, 197 1 , pp. 29-5 1 .

CULLMANN 0., La Samaria e le origini della missione cristiana, lbid. , pp. 53-62.

CULLMANN 0., Eiden kai episteusen. La vita di Gesù oggetto della «vista» e della <ifede» secondo Giovanni, lbid., pp. 97- 108.

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CULLMANN 0., Origine e ambiente dell 'evangelo secondo Gio­vanni, Torino, Marietti , 1 976.

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DALBESIO A., La comunione fraterna, dimensione essenziale della vita cristiana secondo il quarto vangelo e la prima lettera di Giovanni, "Laurentianum" 36, 1 995, 1 9-33.

DESTRO A., PESCE M., Dialettica di riti e costruzione del movimen­to di Gesù nel Vangelo di Giovanni, "Augustinianum" 35, 1 995, 77- 1 09.

Dono C.H., L'interpretazione del quarto vangelo, Brescia, Paideia, 1 974.

Dono C.H., La tradizione storica nel quarto vangelo, Brescia, Paideia, 1983.

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GHIBERTI G., l racconti pasquali del cap. 20 di Giovanni, Brescia, Paideia, 1972.

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JAUBERT A., Come leggere il vangelo di Giovanni, Torino, Gribaudi, 1978.

KASEMANN E., L'enigma del quarto vangelo, Torino, Claudiana, 1 977.

MANNUCCI V., Giovanni il vangelo narrante. Introduzione ali ' ar­te narrativa del quarto vangelo, Bologna, EDB , 1 993 .

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SEGALLA G., La preghiera di Gesù al Padre (Giov. 1 7), Brescia, Paideia, 1 983.

SMITH D.M., La teologia del vangelo di Giovanni, Brescia, Paideia, 1998.

STEMBERGER G., La simbolica del bene e del male in San Giovanni, Milano, Ed. Paol ine, 1 972.

VIGNOLO R., Personaggi del quarto vangelo. Figure della fede in San Giovanni, Milano, Glossa, 1 994.

Principali commentari disponibili in lingua italiana:

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A. WIKENHAUSER, L 'evangelo secondo Giovanni, Brescia, Mor­cel l iana, 1 962;

R. E. BROWN (due vol umi), Giovanni: commento al Vangelo spiri­tuale, Assisi , Cittadella, 1979;

H. VAN DEN BUSSCHE, Giovanni, Assisi , Cittadella, 1 970;

G. MIEGGE e A. COMBA, in : Nuovo Testamento Annotato, vol . II, Torino, Claudiana, 1 968;

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R. SCHNACKENBURG (quattro volumi), Il Vangelo di Giovanni, Brescia, Paideia, 1965- 1 984;

S .A. PANIMOLLE, Lettura pastorale del Vangelo di Giovanni, Bologna, EDB, 1 98 1 - 1 984;

R. FABRIS, Giovanni, Roma, Boria, 1992.

Page 248: Giovanni

I N D I C E

Prefazione 7

Introduzione 1 1

Il rapporto tra il quarto Vangelo e i Sinottici 14

La struttura letteraria del quarto Vangelo 30

Scopo, destinazione, contesto storico e datazione del quarto Vangelo 37

l . Il Figlio del Padre: la cristologia giovannea 49

La cristologia del Logos 5 1

I titoli cristologici in l , 1 9-5 1 6 1

Il Figlio dell'uomo e il rapporto Padre-Figlio 68

Il significato cristologico dei detti «io sono» 76

L'opera di Cristo compiuta con la sua morte 8 1

Conclusione 89

2. Due mondi diversi : il dualismo giovanneo 93

Le espressioni simboliche del dualismo nel quarto Vangelo 96

I «giudei>) nel quarto Vangelo 1 06

247

Page 249: Giovanni

Il determinismo giovanneo 1 1 1

Conclusione 1 1 8

3 . Vedere è credere: la concezione giovannea della fede 1 23

I «segni» come provocatori di fede 1 26

Vedere, udire e credere nel quarto Vangelo 1 3 6

Conoscere e credere nel quarto Vangelo 1 4 1

Visione sintetica della fede nel quarto Vangelo 145

Conclusione 1 48

4. L' eternità è ora: l ' escatologia giovannea 1 5 1

L' escatologia giovannea 1 55

La visione giovannea dello Spirito 1 65

La concezione giovannea della chiesa 1 7 3

I sacramenti nel quarto Vangelo 1 87

Conclusione 1 93

Conclusione Giovanni : il Vangelo universale 1 97

Il pensiero e il simbolismo giovannei nel cristianesimo primitivo 1 98

Il pensiero e il simbolismo giovannei come

248

esempi della ricerca di fede 204

Page 250: Giovanni

Appendice A Le lettere giovannee e il Vangelo di Giovanni (con una nota sul libro dell ' Apocalisse)

Le lettere giovannee

Il rapporto fra le lettere e il Vangelo di Giovanni

Nota sul libro dell ' Apocalisse

Appendice B Le donne nel Vangelo di Giovanni

Le donne nella struttura del Vangelo di Giovanni

Personaggi femminili nel Vangelo di Giovanni

Conclusioni

Bibliografia

Bibliografia italiana

209

2 1 0

2 1 6

222

226

227

229

234

239

243

Finito di stampare il 29 febbraio 2000 - Stampatre, Torino

249

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