Gionalismo: da Professione a Passione

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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI MILANO Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea triennale in Scienze Politiche GIORNALISMO: DA PROFESSIONE A PASSIONE Elaborato finale di: Giulia Laura FERRARI  Relatore: Prof. Adam Erik ARVIDSSON Anno Accademico 2010-20 11 1

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Il giornalismo è cambiato, ciò è evidente: sono cambiati i mezzi, i tempi, gli ambienti, il contenuto, lo status sociale. Ma non sono cambiate le norme che regolano l'accesso alla professione, né sono state integrate le condizionicontrattuali. La domanda sorge spontanea: cosa vuol dire oggi fare del giornalismo la propria professione? Quando il giornalismo può essere definito professione? Com'è la professione giornalistica nei fatti?

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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Scienze PoliticheCorso di Laurea triennale in Scienze Politiche

GIORNALISMO:DA PROFESSIONE A

PASSIONE

Elaborato finale di:Giulia Laura FERRARI 

Relatore:Prof. Adam Erik ARVIDSSON

Anno Accademico 2010-2011

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Indice

Introduzione..................................................................................................3

1 Le professioni, un approccio sociologico ..................................................5

1.1 Le professioni in Weber.................................................................................5

1.2 Le professioni in Parsons...............................................................................9

2 Capitalismo cognitivo: è cambiata la produzione, è cambiato il lavoro...12

2.1 Accumulazione flessibile, lavoro autonomo di seconda generazione.... .....12

2.1 Lavoro autonomo e settore editoriale, l'analisi di Cristina Morini..............17

3 La professione giornalistica in Italia........................................................ 20

3.1 Storia della professione giornalistica in Italia, le istituzioni e le norme.. .. .20

3.2 La professione nei fatti e nei numeri........................................................... 26

4 Caso studio.............................................................................................. 304.1 Premesse metodologiche............................................................................. 30

4.2 Quando e perché hai scelto questa professione?.........................................32

4.3 Cosa hai fatto per intraprendere questo percorso?......................................35

4.4 Quali sono le capacità richieste per svolgere al meglio questo lavoro?......37

4.5 Il lavoro nei fatti e le prospettive.................................................................39

4.6 Ordine e identità professionale, io sono speciale........................................45

Conclusioni................................................................................................. 48

Appendice................................................................................................... 52

Bibliografia................................................................................................. 53

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Introduzione

I professionisti si distinguono dagli imprenditori o da generici lavoratori per 

quattro caratteristiche fondamentali: una specifica competenza tecnica di altolivello, un impegno orientato al servizio, un elevato senso di responsabilità e una

  buona autonomia economica. Oggi i giovani giornalisti professionisti si

rispecchiano in questo quadro? La definizione tradizionale di giornalismo come

 professione in Italia è ancora valida?

Questa analisi deve parte della sua esistenza alla cronaca. Infatti nel dibattito

 pubblico, sempre più spesso, si impongono riflessioni sullo stato della professione

giornalistica. Da un lato i giornalisti, la casta, sono accusati di aver abbandonatola ricerca della verità o di essere morbosi ed invadenti, dall'altro sono gli stessi

giornalisti precari a tentare con ogni mezzo di attirare l'attenzione sulle loro

condizioni lavorative e di vita, arrivando fino allo sciopero della fame.

Il giornalismo è cambiato, ciò è evidente: sono cambiati i mezzi, i tempi, gli

ambienti, il contenuto, lo status sociale. Ma non sono cambiate le norme che

regolano l'accesso alla professione, né sono state integrate le condizioni

contrattuali. La domanda sorge spontanea: cosa vuol dire oggi fare delgiornalismo la propria professione? Quando il giornalismo può essere definito

 professione? Com'è la professione giornalistica nei fatti?

Per rispondere a queste domande sarà necessario prendere in considerazione

diversi aspetti. Innanzitutto, sarà utile individuare i teoremi su cui si basa la

definizione sociologica di professione intellettuale e di professione in genere.

Queste sono infatti le fondamenta su cui sono stati costruiti gli ordini professionali

in Italia, gli unici custodi e arbitri delle professioni. In seguito sarà necessario

capire come e come mai è cambiato il mondo del lavoro, e in particolare il mondo

dell'editoria. Definiti i contesti teorici, procederemo analizzando direttamente

l'oggetto della nostro esame: la professione giornalistica in Italia, la sua storia, le

norme che la regolano e il lavoro nei fatti.

A questo punto i contrasti tra la definizione classica di professione e le

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caratteristiche del lavoro giornalistico nel capitalismo cognitivo risulteranno

evidenti. Per verificarne gli effetti e comprenderne le sfumature proporremo i

risultati di una ricerca qualitativa svolta su un campione di nove giovani

giornalisti professionisti o aspiranti tali.

Per liberare fin da subito il lettore da ogni pregiudizio è importante chiarire che

questa tesi non vuole decretare la fine di una professione. Il giornalismo come

  professione sopravvive mutato nella narrazione dei giornalisti intervistati, ed è

caratterizzato da una nuova e diversa identità professionale, che è l'anima del

lavoro autonomo di seconda generazione.

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1 Le professioni, un approccio sociologico

1.1 Le professioni in Weber

Introducendo questo autore fondamentale, che ispirò le teorie funzionaliste (primo

su tutti Talcott Parsons) e le teorie neoweberiane degli anni ’70, non si può non

evitare una precisazione. Weber non si occupò né esclusivamente né

approfonditamente dello studio delle professioni: le sue elaborazioni sulla

 burocrazia “lasciarono nell’ombra” il concetto di professione (Tousijn, 1997).

Concetto che Weber esaminò solo in due occasioni, trattando specificatamente la

 professione accademica e la professione politica. Ci stiamo riferendo alle due

conferenze tenutesi rispettivamente nel 1917 e nel 1919 presso l’Università di

Monaco dal titolo Wissenschaft als Beruf , La Scienza come Professione, e  Politik 

als Beruf , la Politica come Professione. L'analisi svolta in questo lavoro si basa

dunque su questi due testi. Si compirebbe di certo una leggerezza storica

 pensando che lo stato d’animo e le riflessioni dell’autore non siano cambiati tra il

1917 e il 1919, anche se le due conferenze sono state originariamente pubblicate

assieme (sia in Germania che in Italia) sotto il comune titolo di Il Lavoro

Intellettuale come Professione. Domande e risposte sul  Beruf  si rincorrono, e

rimbalzano, tra le due dissertazioni, immerse in fondamentali riflessioni sul

 progresso scientifico e sul potere politico.

In entrambe le conferenze Weber descrive le condizioni degli intellettuali di

 professione. Chi sceglie la via della scienza come professione sceglie una strada

molto dura, a tal punto che agli studenti che chiedono consigli su come diventare

scienziati Weber suggerisce di rispondere “Lasciate ogni speranza” (Weber 2004:

12). Una strada fatta di continue delusioni, in cui non sempre il talento e

l’applicazione vengono premiati; in cui un professore, ad esempio, viene criticato

dagli studenti esclusivamente per il tono di voce, e non magari per le sue

conoscenze. Una strada lunga e burocratica (almeno in Germania). Anche coloro

che sono convinti della vocazione che li spinge lungo questa via non sono esenti

da “danni interiori”. Due sono le domande centrali di questa lunga riflessione:

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“che cosa significa la scienza come professione per colui che si dedica ad essa?” e

“che cos’è la professione della scienza nella vita complessiva dell’umanità? E

qual è il suo valore? (Weber 2004: 21)

Anche la carriera giornalistica è “una via non per tutti. Tantomeno per i caratteri

deboli, in particolare per uomini che possono conservare il proprio equilibrio

interiore soltanto in una situazione sicura e stabile. Se già la vita del giovane

studioso è esposta al rischio, questi è perlomeno circondato dalle salde

convinzioni di ceto che lo proteggono da ogni sbandamento. La vita del

giornalista è invece in ogni senso un puro azzardo, e si svolge in condizioni che

mettono alla prova la propria sicurezza interiore, come assai raramente accade in

altre situazioni”. (Weber 2004: 77) I giornalisti inoltre subiscono continue critiche

a causa del loro lavoro di “scrittori a pagamento” (Weber 2004: 100), essendo

spesso identificati come persone eticamente squallide, per colpa di coloro i quali

svolgono la professione solo per i propri interessi. “Quali gioie interiori essa è

dunque in grado di offrire e quali attitudini personali presuppone in chi vi si

dedica?”(Weber 2004: 100)

Queste sono le domande che poneva Weber, domande tutt'ora valide dato che,come vedremo in seguito, la condizione lavorativa dei giornalisti è complicata da

un contesto di precarietà e insicurezza tipici dell'attuale modello produttivo.

Le risposte si trovano nelle caratteristiche delle professioni intellettuali che,

organizzando i passaggi centrali di entrambe le conferenze di Monaco, si possono

ridurre a tre fondamentali aspetti. Il primo è la specializzazione, la conoscenza

specifica. Colui che sceglie un lavoro intellettuale come professione deve

conoscere profondamente ciò di cui si occupa, seguire una carriera di studi emettersi alla prova con l’applicazione costante e la ricerca. La specializzazione è

un ingrediente necessario per la produzione di valore nel lavoro intellettuale, in

quanto: “soltanto nel caso di una rigorosa specializzazione l’individuo può

acquisire la sicura coscienza di produrre qualcosa di realmente compiuto in

ambito scientifico” (Weber 2004: 13), qualcosa di innovativo.

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La seconda caratteristica, non di minore importanza, la passione. La passione è

 per Weber l’anima della professione, ciò è evidente fin dal titolo. Infatti il termine

tedesco beruf  non è esattamente traducibile in Italiano: significa al contempo

“professione” e “vocazione/passione”. La scelta di una professione deve essere

fatta per passione, se ciò non fosse non si produrrebbe alcun valore. “Uno non

 possiede la vocazione per la scienza, e farà bene a dedicarsi ad altro. Infatti per 

l’uomo in quanto uomo non ha valore alcuno ciò che non può fare con passione”

(Weber 2004: 13). È la passione che attribuisce “personalità”, prestigio e potere ai

  professionisti. Uno studioso che sì applicherà alle sue ricerche con passione

diventerà una “personalità” scientifica, un uomo politico mosso dalla passione

avrà autorità e potere carismatico. Ma che cos’è la passione? È lo stesso Weber a

 precisarlo, dato che è evidente il rischio di fraintendimenti. “Passione nel senso di

 sachlichkeit : dedizione appassionata a una causa”. La passione è dunque la spinta

verso uno scopo, che a sua volta non deve essere confuso con l’interesse

 personale. Se l’aspirazione al potere è mossa da vanità, se non vi è “servizio alla

causa” (Weber 2004: 17,103) ma solo autoesaltazione, l’uomo compie un

“peccato contro lo spirito santo della sua professione” (Weber 2004: 102).

Da questa riflessione discende la terza caratteristica del lavoro intellettuale come

 professione: la responsabilità. Per responsabilità si intende la costante valutazione

delle proprie scelte (autocritica) e degli effetti delle proprie azioni (lungimiranza),

e la conformità di queste all’ “etica della responsabilità”(Weber 2004: 109). Se da

un lato la responsabilità di uno scienziato è diversa da quella di un politico e,

 potremmo aggiungere, la responsabilità di un medico è diversa da quella di un

ingegnere, dall'altro essa deve essere sempre presente: è necessaria all’uomo per 

auto-limitarsi in funzione della causa, “la semplice passione, per quanto

autenticamente vissuta, non è ancora sufficiente” (Weber 2004: 101).

A queste tre caratteristiche del lavoro intellettuale come professione si aggiunge

 poi una condizione importante e necessaria affinché esso possa essere svolto nel

migliore dei modi: la sicurezza economica. Weber introduce questo tema parlando

di cosa voglia dire scegliere la politica come professione, le risposte sono due: si

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 può vivere “per” la politica o “della” politica. Chi vive “per” la politica deve avere

le disponibilità economiche necessarie per non doversi preoccupare del guadagno

derivante dalla propria attività, chi vive “della” politica deve poter guadagnare

sempre a sufficienza per poter svolgere la sua professione come servizio e non

come strumento d’arricchimento personale. Da ciò segue che se non si vuole

limitare l’accesso alla professione solo a coloro i quali vivono di rendita è

necessario garantire a tutti coloro scelgano questa strada “redditi regolari e sicuri”

(Weber 2004: 61).

Riassumendo, colui che sceglie un lavoro intellettuale come professione deve

 possedere tre caratteristiche: una conoscenza specifica, la passione e il senso di

responsabilità. Inoltre affinché egli possa proseguire in questa scelta è necessario

che gli sia garantita l'autonomia economica. Saranno queste condizioni a

 permettere al giornalista di intraprendere una strada professionale così ardua e

apparentemente priva di soddisfazioni. Sarà in particolare la passione, la

dedizione appassionata alla causa professionale, ad animare e sostenere colui che

sceglie un lavoro il giornalismo come professione.

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1.2 Le professioni in Parsons

Proseguendo nell'indagine teorica del concetto di professione, un'autore

fondamentale è Talcott Parsons, nel suo lavoro infatti ritroviamo le stesse

considerazioni che hanno ispirato la creazione degli ordini professionali italiani

negli venti del '900 (Cfr. cap. 3.1). È giusto premettere che i punti di contatto tra

questa analisi e quella di Weber sono molti, dato che il padre fondatore della

sociologia moderna aveva influito notevolmente sulla formazione di Parsons.

Riprenderemo questo punto dopo aver esposto il concetto di professione nella

teoria funzionalista parsonsiana.

Le professioni sono caratterizzate da alcune caratteristiche peculiari, anche se non

esclusive (Parsons; 1956). Semplificando, in funzione di chiarezza, se ne possono

individuare quattro fondamentali. La prima è “il possesso, da parte dei loro

membri, di una specifica conoscenza tecnica di alto livello”. Conoscenza che è

necessaria per accedere ad una professione regolamentata da un ordine

 professionale o, anche quando quest’ultimo non sia istituzionalizzato, per farsi

accettare come professionista dalla comunità. L’istruzione professionale è in

generale universitaria e, in alcuni casi, completata da studi professionali specifici

gestiti dagli stessi ordini professionali.

Ai professionisti, dice Parsons, è richiesta una conoscenza funzionalmente

specifica, razionale e universale. Una conoscenza che fornisca gli strumenti per 

scegliere il “modo migliore” o “più efficace” per risolvere un “caso” . Le scelte e

le azioni dei professionisti non devono essere mosse da tradizionalismo o

egoismo, né il rapporto con il paziente/cliente può essere “intimo” o soggettivo.

Da questa prima riflessione deriva la seconda caratteristica fondamentale delle

 professioni: l’orientamento al servizio. L’agire dei professionisti non è normato

né da un pensiero egoistico, che viene tradizionalmente associato agli uomini

d’affari, né da un puro slancio altruistico, anche se a prima vista questo movente

sembra più appropriato all’agire professionale. Parsons contesta la semplice

distinzione tra uomini d’affari egoisti e professionisti altruistici, si tratta infatti di

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una divisione accettata per consuetudine ma che non regge in un'ottica funzionale.

Egli sottolinea che lo scopo dell’azione di un imprenditore e di un professionista è

in realtà il medesimo: il successo. Ciò che distingue le due figure sono le

situazioni in cui essi agiscono e quindi il contesto in cui entrambi cercano di

raggiungere il successo. Un mercanete-imprenditore che vorrà raggiungere il

successo si preoccuperà di incrementare le vendite, il guadagno personale e di

conseguenza la sua fama tra i commercianti. Mentre per un professionista

l’orientamento al servizio sarà la corretta direzione per giungere al successo. Sarà

l’orientamento al servizio che permetterà al professionista di aggiudicarsi la stima

del cliente, gli onori e i riconoscimenti dei colleghi.

La terza caratteristica fondamentale delle professioni è quella che Parsons chiama

“responsabilità fiduciaria”. Per responsabilità fiduciaria si intende un senso di

responsabilità che va oltre la difesa degli interessi di questo o quel cliente , un

senso di responsabilità che obbliga a rispondere delle proprie azioni direttamente

alla professione. In particolare, il professionista è responsabile della tutela del

 patrimonio culturale che la professione custodisce ed è responsabile degli interessi

 pubblici su cui la conservazione e lo sviluppo delle competenze professionali

hanno effetto. Un avvocato che difende un cliente accusato di omicidio è

certamente responsabile verso il proprio cliente, a cui dovrà garantire la miglior 

difesa possibile, ma ancor prima è responsabile verso il diritto, che dovrà

rispettare e difendere, e verso gli interessi della società, che sarebbe danneggiata

dalla presenza di un assassino in libertà.

Infine, la quarta caratteristica fondamentale di una professione è la sua relativa

autonomia, che si manifesta nei privilegi economici e nelle libertà attinenti allo

specifico status giuridico del professionista. Questi elementi permettono ai

 professionisti di godere di quella sicurezza e indipendenza necessarie per svolgere

i propri compiti senza incorrere nei rischi di corruttibilità economica o

condizionamento politico.

Le quattro caratteristiche peculiari delle professioni appena esposte, competenza

tecnica, orientamento al servizio, responsabilità e autonomia, si ergono sulle

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fondamenta della teoria weberiana. In particolare vi è una corrispondenza quasi

totale tra tre dei punti esaminati: la specializzazione weberiana diventa la più

“industriale” competenza tecnica, la responsabilità permane maggiormente

articolata nella responsabilità fiduciaria e la sicurezza economica è declinata nella

funzionale autonomia dei professionisti. Alcune sottili ma importanti differenze si

trovano nella seconda caratteristica esposta da entrambi gli autori: la passione

come dedizione appassionata alla causa e l'orientamento al servizio in funzione

del successo. Se nei fatti è evidente che si stia parlando quasi della stessa cosa,

nella sua definizione Weber pone maggiormente l'accento sull'individuo e sulla

sua vocazione allo scopo, mentre Parsons declina, coerentemente, il concetto in un

ottica funzionalista. Questa riflessione ci sarà utile successivamente quando, nella

nostra ricerca, ci chiederemo perché un giovane scelga il giornalismo come

 professione.

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2 Capitalismo cognitivo: è cambiata la produzione, è cambiato illavoro

2.1 Accumulazione flessibile, lavoro autonomo di seconda generazione

Premesso che sono molti i punti da cui poter osservare e descrivere la società

 post-industriale, in questo lavoro ci interessa capire quali siano le peculiarità del

organizzazione e definizione del lavoro nel capitalismo avanzato. Procediamo

dunque ripercorrendo le tappe principali del passaggio dalla produzione taylorista

a quella post-industriale in Italia (per evidenziare le differenze tra i due

 paradigmi) e tracciando il profilo del lavoratore/professionista “tipo” che agisce in

questa nuova sfera produttiva, economica, sociale e spaziale scomposta eframmentata (Fumagalli 1997).

 Negli anni '70 si assiste ad un calo della produttività industriale e alla saturazione

di alcuni mercati, in particolare per quei beni di consumo che avevano permesso il

  boom economico del dopoguerra. Inizia quindi un processo di

deindustrializzazione, inteso come il superamento della rigidità strutturale del

modello fordista (prima fase di flessibilizzazione), che si prolunga fino al 1979 e

che vede il suo epicentro nel triangolo industriale Piemonte-Lombardia-Liguria.

In modo complementare fiorisce una rete di piccole imprese di fornitura e conto-

terzismo, innovative e dinamiche, che acquisiscono un ruolo importante un tempo

oscurato dalla grande industria integrata.

A partire dagli anni '80 inizia la seconda fase di flessibilizzazione dell'industria

italiana. Il sistema viene completamente ripensato: attraverso l'innovazione

tecnologica e l'esternalizzazione di alcuni processi produttivi si punta a progettare

fabbriche “snelle”. L'insieme delle piccole imprese da complementare diviene

elemento strutturale del nuovo processo produttivo industriale. Il nuovo modello

 prevede una grande industria che mantiene solo alcune funzioni di controllo,

gestione e assemblaggio da cui si dirama una rete di piccole imprese che svolgono

frammenti di produzione in modo autonomo ma “interdipendenti tra loro lungo un

unico ciclo di produzione” (Fumagalli 1997: 141). Nel giro di pochi anni questa

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struttura tornerà ad essere fondamentalmente oligopolistica, infatti le piccole

imprese perderanno molta autonomia. Ma il sistema è ormai profondamente

cambiato. I lavoratori non appartengono ad una classe specifica ma sono inseriti

in un flusso di individualità lavorative autonome (svolte al di fuori della fabbrica)

o salariate (più tradizionali). Si tratta di un modello produttivo con bassi livelli di

conflittualità, che ruota attorno al paradigma dell'”accumulazione flessibile dal

 punto di vista tecnologico, produttivo e organizzativo” (Fumagalli 1997: 137).

Vediamone velocemente i dettagli. Sul piano tecnico, gli strumenti della

“flessibilità tecnologica” (come il CAD nella progettazione) hanno permesso di

coniugare simultaneamente la produzione automatizzata e la differenziazione-

  personalizzazione del prodotto. Sul piano produttivo, macroeconomico, si

riscontra innanzitutto l'invalidità del nesso produzione-occupazione, dato che

l'aumento della produzione è dato quasi interamente da innovazioni di processo:

si migliora il “come produrre” non si crea nuova occupazione. In secondo luogo

l'invalidità del nesso salario-produttività, come conseguenza del punto precedente.

Terzo l'ininfluenza della struttura dei consumi nazionali. Il guadagno non dipende

 più dalla domanda di beni, ma dalle valutazioni finanziarie, è infatti la quotazione

del marchio che crea valore. Dal punto di vista organizzativo lo Stato (come

agente economico) ha perso ormai tutte le caratteristiche che possedeva nel

sistema fordista: “nel paradigma dell'accumulazione flessibile il welfare state non

ha più alcuna funzione specifica ma rappresenta solo una rigidità, e come tale,

deve essere abolito” (Fumagalli 1997: 139) .

In pratica siamo di fronte ad un sistema industriale costituito da una rete flessibile

di piccole imprese collegate ad una azienda principale (proprietaria del marchio)

che produce valore (finanziario) attraverso l' innovazione continua dei prodotti,

che sono sempre più flessibili e adattabili alle richieste del singolo cliente. È

cambiata la produzione, è cambiato il lavoro.

È innanzitutto evidente che il lavoro non si svolge più solo all'interno della

fabbrica: una parte della forza lavoro esce dalla fabbrica per diventare

indipendente, autonoma. E proprio l'analisi del lavoro autonomo di seconda

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generazione, come lo definisce Sergio Bologna, ci fornisce strumenti necessari

 per comprendere la professione giornalistica oggi, che corrisponde sempre più ad

un lavoro freelance.

Sergio Bologna nel 1997 individua 10 variabili che caratterizzano il lavoro

autonomo specificatamente post-fordista.

CONTENUTO Se da un lato il contenuto del lavoro autonomo non è per 

definizione diverso dal contenuto del lavoro salariato, dall'altro cambia per 

l'assenza di prescrittività, la responsabilità dell'organizzazione è quindi del

lavoratore stesso. Ma ciò che differenzia in maniera sostanziale il lavoro

autonomo da quello salariato è il “contenuto di operazioni relazionali ecomunicative che esso richiede”(Bologna 1997: 15). È proprio questo lavoro

immateriale-relazionale che produce innovazione, reti e valore.

 LA PERCEZIONE DELLO SPAZIO Mentre da un lato il lavoro non non è svolto

 più solo sul posto di lavoro, dall'altro le attività svolte sul posto di lavoro non sono

esclusivamente lavorative in senso stretto. Sul posto di lavoro si trasferiscono

modi e attività appartenenti alla vita privata e il lavoro stesso si esercita in

contesti privati, apparentemente non lavorativi. In riferimento a ciò Bologna parladi domenstication del luogo di lavoro.

 LA PERCEZIONE DEL TEMPO

“Si potrebbe dire che la differenza fondamentale tra lavoro salariato e lavoro

autonomo consiste nella diversa organizzazione del tempo”(Bologna 1997: 21)

Il lavoratore autonomo abbandona turni e cartellino. Inoltre il tempo del lavoro si

allunga e si intensifica a causa del fatto che la retribuzione non è più commisurata

a unità di tempo elementari, ma alla prestazione lavorativa finita entro il termine

di consegna. Inoltre dato che una parte del tempo lavorativo, forse la parte che

 produce maggior valore, è dedicata ad attività socio-relazionali diventa sempre più

difficile distinguere il “tempo del lavoro” dal “tempo della vita”. La percezione

del tempo cambia nella valutazione del presente come nella progettazione del

futuro.

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 LA FORMA DELLA RETRIBUZIONE Il salario è sostituito dalla fattura. Dato che

il salario garantiva la sussistenza minima al lavoratore, a questo principio

fondamentale si sostituisce un senso di rischio esistenziale.

 IDENTITA' PROFESSIONALE 

“L'identità professionale è la forma di riconoscimento del lavoro autonomo.

L'identità professionale sembra riassumere l'intero statuto sociale del lavoro

autonomo” (Bologna 1997: 27) .

Con l'affermazione del lavoro autonomo di seconda generazioni viene riaffermata

la professionalità in quanto attributo specifico di una persona, di un individuo. Le

conoscenze, le capacità messe al lavoro sono personali quindi assistiamo a “unaforte riaffermazione del ruolo della persona umana, dell'importanza delle singole

diversità individuali”. (Bologna 1997: 27). Come l'artigiano, il professionista

autonomo, apparentemente escluso dalla fabbrica, acquisisce uno status sociale

definito.

  RISORSE NECESSARIE ALL'INGRESSO Le condizioni necessarie per 

intraprendere una carriera lavorativa indipendente non sono affatto trascurabili: i.

una rete di conoscenze e relazioni personali, familiari e sociali, ii. il possesso diconoscenze specialistiche, iii. “forza-invenzione”, ossia la creatività e la capacità

di investire sulle proprie attitudini, anche caratteriali. Si tratta evidentemente di un

grosso investimento iniziale non accessibile a tutti.

 RISORSE NECESSARIE AL MANTENIMENTO Queste risorse sono più difficili

da identificare e reperire di quelle necessarie all'ingresso. Il lavoratore

indipendente dovrà dedicare molte energie e ingegno per assicurarsi le risorse

necessarie alla continuazione del proprio lavoro, aspetto che non toccaminimamente il lavoratore salariato.

MERCATO Lo stato tipico del lavoratore autonomo è quello della permanenza sul

mercato, situazione a cui il lavoratore salariato si sottrae una volta ottenuto un

contratto di lavoro. Questa condizione è caratterizzata da una costante sensazione

di rischio e di “angoscia del vuoto”.

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ORGANIZZAZIONE E RAPPRESENTANZA DEGLI INTERESSI 

I lavoratori autonomi, soli e sparsi nel territorio sono estranei alla rappresentanza

sindacale, né potrebbero mai aggregarsi sulle basi tipiche di quell'associazionismolavorativo, dato che il livello di conflittualità con il committente è, per 

definizione, estremamente basso. L'unica forma aggregativa e di condivisione

degli interessi apparentemente possibile è quella delle cooperative o società di

mutuo soccorso.

CITTADINANZA  Il lavoratore indipendente sentendosi escluso dalla struttura

sociale del lavoratore salariato si sente escluso dalla cittadinanza (intesa come

amministrazione e garanzia di diritti) e a seguito di ciò si rifugia nel locale(dimensione rassicurante e concreta) o nel globale (prospettiva su cui investire e

fare progetti).

I professionisti decritti da Bologna sono evidentemente diversi dai professionisti

“classici”. Alcune delle modificazioni subite dal lavoro nel capitalismo cognitivo

rischiano di mettere a dura prova le definizioni teoriche di Weber e Parsons. In

 particolare la competenza tecnica specifica perde di importanza a fronte delle

capacità relazionali che costituiscono la parte produttiva del lavoro stesso. Lemodificazioni riguardanti l'identità professionale colpiscono una parte della

responsabilità fiduciaria, dato che era il rapporto con la professione e gli altri

 professionisti a dettare i limiti consentiti e le norme etiche a cui attenersi. Infine,

ma non di minore importanza, risulta evidente che la perdita di sicurezza data

dall'assenza del salario, gli ingenti investimenti richiesti dalle risorse necessarie

all'ingresso e al mantenimento, e l'instabilità della permanenza sul mercato

condizionano fortemente l'autonomia del professionista, che è costretto adadattarsi di continuo al contesto per assicurarsi la sopravvivenza.

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2.1 Lavoro autonomo e settore editoriale, l'analisi di Cristina Morini

Cristina Morini ha condotto un'importante verifica del concetto di lavoro

autonomo di seconda generazione sul caso studio dell'editoria. Questa analisi parte dall'osservazione dell'andamento del settore stampa italiana. Negli anni '90

si assiste ad una profonda trasformazione dell'editoria italiana, la cui storia è

intrecciata nelle vicende dei maggiori gruppi editoriali del Paese. La direzione in

cui evolve il mercato dell'editoria è segnata da tre fattori: la perdita di fatturazione

a causa della contrazione delle vendite; la destrutturazione del settore in una rete

di micro imprese editoriali, che hanno normalmente vita brevissima e svolgono

attività di service; la concentrazione del valore in pochi grossi gruppi editoriali,internamente organizzati a “scatole cinesi”, ai vertici dei quali si alternano i soliti

nomi noti (dell'editoria e della politica). In pratica anche in questo settore la

flessibilizzazione e l'esternalizzazione delle mansioni hanno prodotto “filiere” che

si mantengono su un groviglio di piccole imprese spesso “costituite da un singolo

lavoratore, diventato imprenditore di se stesso” (Morini 1997: 271).

Il lavoro giornalistico è inevitabilmente cambiato: se da un lato non è possibile

tipizzare il “nuovo giornalista” dato che sul mercato del lavoro convivono casidifferenti (assunti, giornalisti pagati a pezzo, giornalisti pagati a ore, service,

cooperative etc.), dall'altro sono evidenti gli effetti che questo cambiamento ha

 prodotto nel lavoro di tutti. Innanzitutto, si è assistito ad una riduzione delle figure

lavorative a favore della concentrazione delle mansioni su pochi addetti che

svolgono segmenti sempre più ampi della produzione giornalistica e non. In

secondo luogo la flessibilizzazione accettata (e subita) dai lavoratori esternalizzati

incide sui lavoratori salariati (interni) che per mantenere la loro posizione devono

dimostrare di possedere un simile livello di produttività e capacità d'adattamento.

In sostanza “lavora di più chi continua a stare all'interno del sistema che si trova a

dover far fronte a nuove mansioni e a una moltiplicazione di richieste, collegata

alla riduzione del numero degli addetti e degli investimenti” e allo stesso tempo

“lavora di più chi si trova all'esterno. Soprattutto per una questione di reddito, per 

la necessità di muoversi sulla base dell'imperativo della disponibilità, per la

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rapidità dei tempi di consegna imposti dalla committenza” (Morini 1997: 281).

 Non ci troviamo di fronte a una diminuzione della necessità di lavoro ma a una

sua modificazione. Il lavoro è organizzato su un “continuum di urgenza” a causa

del quale si lavora di più e si perde la distinzione completa tra tempo di vita e

tempo di lavoro. La redazione giornalistica, il luogo di confronto, cooperazione,

organizzazione del lavoro, perde sempre più di senso e il lavoro svolto al di fuori

di essa è ormai intrecciato con attività non lavorative quali: la cura degli affetti, il

consumo, il tempo libero etc. A ciò va aggiunto che l'informazione è ormai un

 prodotto omologato, generato da poche fonti e rivenduto in diverse salse a più

clienti.

É ormai evidente come nel lavoro giornalistico atipico ciò che fa la differenza, ciò

che crea quel valore aggiunto che giustifica il compenso, sono le capacità

relazionali. Per il giornalista le capacità relazionali permettono di trovare e

mantenere un lavoro, per l'editore le capacità relazionali dei giornalisti

 permetterebbero di innovare la produzione e il prodotto.

“Quello che emerge con forza è che un'impresa non è innovativa per il solo

fatto di investire in tecnologie avanzate. L'innovazione che merita di essere

realmente incentivata è quella che sviluppa il capitale cognitivo sociale, mentre,

al contrario, l'industria culturale attuale penalizza gli apporti delle singole

individualità e preferisce spostare una sorta si assurda “collettivizzazione” verso

il basso dei saperi consentita delle tecnologie” (Morini 1997:288). 

Una parte consistente della riflessione di Morini si concentra proprio sulla perdita

dell'identità professionale dei lavoratori dell'editoria, in particolare per i lavoratori

della carta stampata. La riflessione su questo aspetto parte dalla registrazione di

una (apparente) contraddizione: in un lavoro strutturato secondo il paradigma

  post-fordista come quello del giornalismo negli anni '90, vengono attuati

meccanismi tipicamente fordisti come l'abbattimento dei tempi di produzione, il

contenimento dei prezzi e l'aumento della produzione alle condizioni precedenti.

È evidente quanto queste scelte comportino una riduzione della qualità

dell'informazione e quanto la precarizzazione del lavoro giornalistico porti alla

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“svalorizzazione della professione” (Morini 1997: 291). Per chi ha scelto la strada

del giornalismo come professione gli effetti di questa modificazione sono

sostanziali: il ruolo del collaboratore è “massificato” e lentamente privato

dell'identità professionale a cui aspirava.

“Si genera una sfasatura tra le aspettative del lavoro concreto, che si credeva

direttamente collegato con un alto profilo professionale, con conseguente

riconoscimento del proprio sapere e della propria specializzazione, e la realtà a

cui le forze intellettuali vengono piegate” (Morini 1997: 284).

Questo studio svolto nella seconda metà degli anni novanta, dimostra

l'applicabilità della definizione di lavoro autonomo di seconda generazione al

caso dell'editoria e mette in luce alcune modificazioni del lavoro che, come

abbiamo giò detto (Cfr. cap. 2.1) incidono sull'idea del giornalismo come

 professione.

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3 La professione giornalistica in Italia

3.1 Storia della professione giornalistica in Italia, le istituzioni e le norme

La diffusione dei primi giornali in Italia avvenne in sostanziale sincronia con gli

altri Paesi europei, a partire dal 1700 molte delle principali città degli Stati italiani

avevano una gazzetta locale. Inizialmente a svolgere il lavoro giornalistico erano

scrittori, uomini di cultura e scienza, prestati all'informazione e alla divulgazione.

Grazie all’eco della rivoluzione francese e al periodo Napoleonico, si diffuse il

giornalismo politico che affiancò il giornalismo “letterario” dei periodici culturali

o scientifici in circolazione. Dalla metà del 1800, nonostante la diffusione dei

giornali italiani rimanesse indietro rispetto a quella degli altri Stati europei, fiorì il

dibattito sulla funzione educatrice e sociale del giornalismo. (Murialdi 2006)

La vera “svolta” avvenne a fine secolo: nell’Italia unita vennero alla luce i primi

quotidiani moderni (per la maggior parte nati a Milano), aumentò il numero dei

lettori e la distribuzione venne notevolmente migliorata. Il giornalismo diventò

una professione definita e svolta a tempo pieno. Nel primo ‘900 vi erano una

decina di “giornali collettivi” (Murialdi 2006: 93), così definiti perché realizzati

da una nutrita e stabile redazione. Al critico letterario (spesso un collaboratore

esterno) si affiancava un esercito di cronisti cittadini, di “bianca”, “nera” o

giudiziaria, che svolgevano il mestiere strada per strada curando le proprie fonti.

 Nel 1908 nacque la Federazione Nazionale della Stampa, associazione che aveva

come obbiettivo la tutela degli interessi della categoria dei giornalisti, che

ereditava l’esperienza di altre realtà di associazionismo locale nate già nei decenni

 precedenti (Tartaglia 2008). La FNSI fu il primo organo ufficiale del giornalismo

italiano, per accedervi era necessario dimostrare di essere giornalisti

 professionisti, dimostrare cioè l'esclusività dell'esercizio dell'attività giornalistica.

I primi obbiettivi dell’FNSI furono di carattere sindacale e riguardanti la “clausola

di coscienza”. Nel giro di alcuni anni si delineò la figura professionale e

contrattuale del giornalista professionista.

Un cambiamento sostanziale in merito all'organizzazione e svolgimento della

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 professione avvenne sotto il regime fascista. Dopo un escalation di minacce più o

meno esplicite da parte del Duce si giunse nel 1925 alla nuova Legge sulla

Stampa che stringeva i giornali in una morsa liberticida. Col primo articolo si

creava la figura del direttore responsabile del giornale (persona facilmente

controllabile dal partito fascista) e all’articolo 7 veniva istituito l’Ordine dei

Giornalisti al quale era necessario essere iscritti per poter esercitare la professione

 – in seguito ci si limiterà ad istituire un Albo dei Giornalisti gestito dal sindacato

fascista. Per essere iscritti all’albo era necessario ottenere dal prefetto un

certificato di “buona condotta politica”. L’impianto teorico che sottendeva alla

legge fascistissima era quel “senso altissimo di responsabilità” di cui aveva già

 parlato Mussolini alla prima riunione dei giornalisti fascisti, e “la prevalenza della

libertà dello Stato su quella del cittadino” (Murialdi 2006: 136). Nel 1926 venne

chiusa la Federazione Nazionale della Stampa, ma come contropartita venne

aperto l’Inpgi Istituto Nazionale Previdenza dei Giornalisti. Come si è detto

l’Ordine dei Giornalisti, benché istituito, non venne mai reso operativo, al suo

 posto nel 1928 fu creato un Albo. D’ora in avanti per poter svolgere la professione

era necessario essere iscritti ad uno dei tre elenchi dell’Albo: giornalisti

 professionisti, giornalisti praticanti, giornalisti pubblicisti. L’iscrizione si otteneva

dimostrando di possedere un regolare contratto con un quotidiano

(successivamente con una radio o una televisione).

La resistenza al regime da parte dei giornalisti italiani in esilio, e non solo, fu forte

e fondamentale. Il 26 luglio 1943, il giorno dopo la destituzione di Mussolini dal

Gran Consiglio del fascismo, fu rifondata la Federazione Nazionale della Stampa.

Il programma della nuova associazione verteva su quattro punti fondamentali:

“riunire in un'unica organizzazione tutti i giornalisti italiani «non asserviti al

fascismo», promuovere la «restaurazione della libertà di stampa, che nelle libere

democrazie moderne è fondamento e presidio di ogni libertà e di ogni progresso

civile», ricostituire le associazioni regionali, impedire che i giornalisti coinvolti

con il fascismo «corrotto e corruttore» «cerchino di sopravvivere comunque nei

ranghi dell'autentico ed onorato giornalismo italiano»” (Tartaglia 2008). 

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 Nel 1946 ci fu il primo congresso della nuova FNSI, in cui si svolse un fertile

dibattito. Nel 1948 la Costituzione della Repubblica Italiana sancì la libertà di

stampa con il fondamentale articolo 21, riguardante la libertà di espressione e la

specifica libertà di stampa.

L' 8 febbraio 1948 fu approvata la legge n. 47 (detta legge fondamentale sulla

stampa) tuttora in vigore, che garantisce libertà ai giornali, che per esistere devono

essere semplicemente registrati presso il tribunale, prescrive l'obbligo del direttore

responsabile, regolamenta il diritto di rettifica e il reato di diffamazione. In

quell'occasione l'assemblea legislativa aveva discusso a lungo anche

dell'opportunità di un Ordine dell'attività professionale, proposta che suscitò

un'iniziale diffidenza per il richiamo al recente passato. Il fascismo era stato

superato nei principi ma, come in molte altre istituzioni del Paese, la sua impronta

  burocratica persisteva ormai normalizzata. Si pensava che un Ordine che

regolamentasse l'accesso alla professione fosse l'unico modo per salvaguardare il

lavoro e l'integrità etica e deontologica dei giornalisti.

Alla fine, la legge istitutiva dell'Ordine Nazionale dei Giornalisti fu approvata nel

1963: legge 3 febbraio 1963, n. 169.ART. 1 ORDINE DEI GIORNALISTI

È istituito l'Ordine dei giornalisti. Ad esso appartengono i giornalisti

  professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell'Albo. Sono

  professionisti coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la

  professione di giornalista. Sono pubblicisti coloro che svolgono attività

giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o

impieghi. Le funzioni relative alla tenuta dell'Albo, e quelle relative alla

disciplina degli iscritti, sono esercitate, per ciascuna regione o gruppo di regioni

da determinarsi nel Regolamento, da un Consiglio dell'Ordine, secondo le norme

della presente legge. Tanto gli Ordini regionali e interregionali, quanto l'Ordine

nazionale, ciascuno nei limiti della propria competenza, sono persone giuridiche

di diritto pubblico.

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La legge del '63 fornisce l'unica “definizione ufficiale” di giornalista

 professionista: il professionista è colui che svolge l'attività giornalistica in modo

esclusivo e a tempo pieno, deve essere dunque iscritto all'albo dei professionisti. È

inoltre istituito un albo dei pubblicisti ed alcuni albi speciali (tra cui quello dei

  praticanti). Per potersi iscrivere all'albo dei professionisti è necessario avere la

cittadinanza italiana, aver compiuto i 21 anni di età, aver superato l'esame

d'idoneità professionale e non avere condanne penali che comportino

l'interdizione dai pubblici uffici. Inoltre per essere ammessi all'esame di idoneità è

necessario aver svolto un periodo di praticantato di 18 mesi presso una redazione

(praticantato contrattualizzato o riconosciuto d'ufficio ex post) o, in alternativa,

aver svolto un corso biennale presso una scuola riconosciuta dall'Ordine (a cui,

oggi, si può accedere dopo aver conseguito un diploma di laurea triennale). Dal

2008 è stata approvata dal Consiglio Nazionale dell'Ordine dei giornalisti una

  proposta di riforma della legge 69/1963, che prevedrebbe, tra le altre cose,

“irrigidimento” dell'accesso alla professione attraverso l'indispensabile carriera

universitaria.

Dall'iscrizione all'Ordine derivano per i giornalisti una serie di diritti e doveri (art.

2) come il diritto alla “libertà di informazione e critica” e l'obbligo al “rispetto

della verità sostanziale dei fatti” e l'assoggettamento ai poteri disciplinari

dell'Ordine. Infatti, l'Ordine ha il compito di regolare l'accesso alla professione e

vigilare sul rispetto da parte degli iscritti delle norme di deontologia professionale.

Le norme deontologiche e comportamentali sono raccolte in una serie di

  protocolli firmati dall'Ordine: la Carta informazione e pubblicità, la Carta di

Treviso, la Carta dei doveri del giornalista, la Carta informazione e sondaggi, il

Codice deontologico e la Carta dei doveri dell'informazione economica. I

giornalisti che non rispettino le norme professionali incorrono in sanzioni

disciplinari, che vanno dall'avvertimento alla radiazione dall'albo. L'ordine dei

giornalisti funziona quindi come una sorta di “tribunale” a tutela dell'informazione

e dei propri membri.

Al fianco, e storicamente a supporto, dell'Ordine dei Giornalisti vi è la

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Federazione Nazionale della Stampa, che dal '43 ad oggi ha svolto un ruolo

fondamentale nella definizione delle condizioni contrattuali della professione,

difendendone i diritti sindacali di fronte alla Federazione Italiana Editori Giornali

(nata nel 1950 dalla fusione dell'Associazione degli editori dell'alta Italia e

l'Unione Nazionale Editori ). Il Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico è il

 più alto risultato di questa attività. L'attuale Contratto Nazionale, firmato a Roma

26 marzo 2009 tra FNSI e FIEG rimarrà in vigore fino al 2013.

Il principi del Contratto Nazionale si trovano nel suo primo articolo e sono

essenziali per delineare i contorni dell'attività giornalistica propriamente detta.

Innanzitutto l'accordo richiama, citandola, la legge n.69/1963. In questo modo

viene espressa la funzione complessiva del Contratto stesso: regolare i rapporti

economici tra giornalisti ed editori al fine di garantire la piena autonomia

 professionale e la salvaguardia della libertà d'informazione e critica. In secondo

luogo, l'art. 1 indica tre requisiti (due oggettivi e uno soggettivo) necessari per 

l'applicabilità del contratto stesso. Il primo requisito oggettivo è la presenza di

un'attività di tipo giornalistica, che deve avere carattere di continuità e deve essere

svolta sotto il vincolo della dipendenza. Il secondo requisito oggettivo è che il

datore di lavoro sia un editore. Infine il terzo requisito, quest'ultimo soggettivo, è

che il lavoratore sia un giornalista professionista (iscritto all'Albo) e al contempo

subordinato. In sostanza il Contratto Nazionale si applica ai giornalisti

 professionisti, iscritti all'Albo, che svolgono un attività giornalistica continuativa

in condizione di subordinazione e alle dipendenze di un editore. È fin da subito

evidente che non tutte le attività giornalistiche quotidianamente svolte da molti

 professionisti rientrano in questa definizione. Sono esclusi dalla regolamentazione

del Contratto Nazionale tutti i giornalisti che conducono la professione in modo

autonomo. Il principio di questa esclusione si basa sull'assunto secondo cui chi

sceglie la strada dell'autonomia professionale abbia sufficiente potere contrattuale

 per ottenere un trattamento giusto e dignitoso. La stessa FNSI ha riconosciuto

l'irrealtà di questa considerazione e già dal 1995 aveva posto il problema alla

FIEG. Da quel confronto era nato nel 2001 l'Accordo sul lavoro autonomo, che

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dovrebbe tutelare maggiormente questo segmento di mercato vincolando la

remunerazione al principio costituzionale di proporzionalità della retribuzione del

lavoro autonomo (art. 36 Cost.). Nei fatti però l'Accordo non ha funzione

vincolante e non ha quindi prodotto effetti sostanziali (Chiuso&Borali 2010). È

importante ora fare una precisazione: il Contratto Nazionale, all'art.2 sancisce

l'obbligo di applicazione della normativa anche al collaboratore fisso, che

nonostante non abbia vincoli di presenza in redazione e di orario, è comunque a

tutti gli effetti un lavoratore dipendente.

La professione giornalistica descritta attraverso queste norme appare molto simile

a quella descritta da Talcott Parsons nel 1939: per accedervi è richiesta una

competenza specifica che si dovrebbe acquisire nei due anni di praticantato o alla

scuola di giornalismo, il giornalista agire con spirito di servizio nei confronti

dell'informazione e sarà responsabile delle sue azioni di fronte all'Ordine dei

Giornalisti. Infine il Contratto Nazionale assicura ai giornalisti dipendenti la

stabilità economica e le libertà necessarie per svolgere al meglio la propria

 professione.

A questo punto però sorge spontanea una domanda: il lavoro giornalistico nei fattirispecchia il ritratto che ne danno norme e accordi?

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3.2 La professione nei fatti e nei numeri

 Nonostante l'accesso alla professione sia mediato da norme, condizioni e per i

 professionisti anche un test d'idoneità, in Italia attualmente vi sono più di 110.000giornalisti iscritti agli albi professionali, per l'esattezza 23.044 professionisti ,

1.610 praticanti 63.331 pubblicisti (dati forniti dall'Ordine dei Giornalisti, dati

aggiornati al 30/09/2010). Si tratta di una cifra enorme che, considerando il trend

degli ultimi anni, è destinata ad aumentare. Prendendo ad esempio il solo Albo dei

 professionisti ogni anno si iscrivono all'esame di Stato mille e più persone e 700-

800 di loro supereranno la prova, mentre sull'altro fronte 300 professionisti

all'anno vanno in pensione (Voltolina 2010). In sostanza, per ogni posto “che silibera” accedono alla professione più di due persone.

Abbiamo già visto quali sono le condizioni necessarie per poter diventare

giornalista professionista: 21 anni, cittadinanza, praticantato, test d'idoneità. Ma

quanto costa intraprendere questa strada? Il contratto di praticantato è ormai un

miraggio per quasi tutti coloro che intraprendono questa carriera, infatti solo il

10% di coloro che accedono all'esame d'idoneità ha svolto un regolare praticantato

 presso una redazione. Il 70% degli aspiranti giornalisti accede al test attraverso il  praticantato d'ufficio, cioè il praticantato riconosciuto ex post  dall'Ordine.  La

 Repubblica degli Stagisti ha ribattezzato questa possibilità “praticantato di serie

C” in quanto appare evidente che non si è difronte ad un percorso di formazione

strutturato e finalizzato all'inserimento professionale come il concetto originario

di praticantato pretenderebbe. La conoscenza tecnica specifica sarà comunque

garantita? Tornando ai dati, il restante 20% dei candidati accede all'esame dopo

aver frequentato una scuola di giornalismo. È questa l'unica strada possibile per 

coloro che non abbiano una rete di relazioni che gli permetta di accedere

direttamente ad una redazione. Attualmente in Italia vi sono 16 scuole di

giornalismo riconosciute dall'Ordine. In tutte il percorso formativo ha durata

 biennale a frequenza obbligatoria, vi si accede dopo aver conseguito una laurea di

I livello e superando una selezione. I costi d'iscrizione variano da scuola a scuola,

ma sono paragonabili ad un master universitario. Prendendo il caso delle quattro

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scuole milanesi (Master Biennale in Giornalismo Università Cattolica Sacro

Cuore, Master Biennale della Scuola di Giornalismo dell'Università degli Studi di

Milano, Master Biennale di Giornalismo Università IULM, Master Biennale della

Scuola di Giornalismo Walter Tobagi dell'Università degli Studi di Milano) il

costo medio è di 10.875 euro, a cui si potrebbero aggiungere le spese di

trasferimento per gli studenti che abitano fuori zona. L'accesso tramite scuola di

giornalismo è dunque una strada ad accesso economico ed è evidente che non tutti

 possano intraprenderla.

In conclusione chi decide di accedere a questa professione è costretto a fare un

investimento iniziale notevole.

Tornando al numero dei giornalisti in Italia, di per sé l'allargamento degli iscritti

all'Ordine non costituisce né un problema né una stranezza, l'elemento che pone

qualche criticità è lo “stato di salute” della stampa Italiana negli ultimi anni.

 Nel 2009 il settore dell'editoria ha affrontato un periodo di fortissima crisi,

caratterizzato da una flessione negativa dei ricavi su quotidiani e periodici intorno

al 14,3%, causata della diminuzione degli introiti pubblicitari (fattore che ha

colpito soprattutto i media più tradizionali) e il calo delle vendite. Nel 2010 per recuperare parte delle perdite una delle strategie di compensazione attuate dagli

editori è stato il contenimento dei costi, primo tra tutti il costo del personale (che

nei quotidiani si è abbassato del 9,5%). Molti gruppi editoriali hanno dichiarato lo

stato di crisi, bloccato le assunzioni e ogni altra forma d'inserimento, compresi gli

stage delle scuole di giornalismo.

L'unico settore che ha osservato un trend positivo è stato quello dell'informazione

on line (per lo più gratuita): il numero degli utenti è cresciuto del 37%.

Riassumendo con le parole usate dalla FIEG nella relazione sulla Stampa in Italia

2008-2010:

I problemi chiave con i quali deve confrontarsi l’editoria giornalistica sono

sostanzialmente legati ad un mercato che non si espande sufficientemente nelle

sue due tradizionali componenti – vendite delle copie e di spazi pubblicitari – ed

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all’esigenza di individuare nuove linee di crescita dei ricavi.

In questo contesto il lavoro autonomo diventa una prospettiva molto conveniente

 per gli editori, che non devono applicare le condizioni del Contratto Nazionale evedono nelle esternalizzazioni una strategia di riduzione dei costi, e l'unica via

 percorribile per i tanti giornalisti che tentano di sopravvivere in un mercato del

lavoro fortemente bloccato. Come abbiamo già visto non vi sono contratti o

accordi nazionali che regolamentino il lavoro giornalistico autonomo e, allo stesso

modo, non ci sono valori ufficiali sulla dimensione di questo segmento di

mercato.

Quali solo le reali condizioni del lavoro autonomo giornalistico in Italia? Da unostudio dal titolo “Professionisti: a quali condizioni” pubblicato nell'aprile 2011

dall'Istituto Ricerche Economiche e Sociali emergono dei dati interessanti anche

 per quanto riguarda la professione giornalistica. Rispetto alla competenza tecnica

e il contenuto del proprio lavoro, il 26,9% degli intervistati dichiara di essere

costretto a svolgere spesso o quasi sempre compiti che non hanno a che vedere

con la propria professione. Inoltre il 63% degli intervistati sostiene di aver scelto

il lavoro autonomo “Perché è l'unico modo di lavorare in questo mercato” e non

 per libera scelta. I giornalisti autonomi lavorano una media di 8,4 ore al giorno per 

circa 9,5 mesi l'anno, chiaramente alternando lavoro e brevi periodi di

disoccupazione. Il 49,6% degli intervistati fa molta fatica a conciliare i tempi di

lavoro con i carichi famigliari. Il 59,6% dei giornalisti autonomi nel 2009 ha

 percepito meno di 15000 euro lordi e il 72,2% dichiara di avere una possibilità

 pessima o insufficiente di riuscire a contrattare le proprie condizioni di lavoro. In

sostanza l'autonomia dei giornalisti indietreggia rispetto allo strapotere dei

committenti. Per finire, nonostante siano avvertiti alcuni vantaggi rispetto alle

condizioni dei colleghi dipendenti (più autonomia e orario più flessibile) la

 percezione degli svantaggi è molto elevata: i giornalisti autonomi ritengono di avere

minori tutele, un peggiore trattamento economico, più oneri fiscali e un minore

riconoscimento professionale.

A questo punto, confrontando questi dati con il paradigma teorico presentato nel

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 primo capitolo, possiamo concludere con sicurezza che i cambiamenti avvenuti nel

lavoro giornalistico hanno fortemente eroso uno dei quattro pilastri su cui si reggeva

la professione: l'autonomia. Inoltre, in base alle tesi sul lavoro autonomo di seconda

generazione (Cfr. Cap. 2.1) è possibile ipotizzare che anche la competenza tecnica e

la responsabilità fiduciaria siano state danneggiate o modificate.

Per verificare queste ipotesi si è condotta la ricerca empirica che sarà esposta nel

 prossimo capitolo.

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4 Caso studio

4.1 Premesse metodologiche

La ricerca qualitativa alla base di questo elaborato è stata svolta coinvolgendo

giovani giornalisti professionisti di Milano. Più specificatamente si è deciso di

intervistare 9 persone di età compresa tra i 22 e i 30 anni che avessero scelto il

giornalismo come professione. Per essere sicuri che i soggetti individuati avessero

scelto consciamente questa strada si è ritenuto opportuno limitare il campione a

  persone che avessero frequentato (o stessero frequentando) una scuola di

giornalismo riconosciuta dall'Ordine dei Giornalisti: è infatti evidente che questa

via d'accesso alla professione richiede un investimento e una determinazione

sufficienti a dimostrare la volontà di una scelta così importante.

Coerentemente, il limite inferiore della fascia d'età scelta è stato posto in relazione

al fatto che per poter accedere ad una scuola di giornalismo è necessario aver 

conseguito almeno una laurea di primo livello, che richiede un periodo di

formazione di 3 anni. Il limite superiore invece, 30 anni, è stato individuato

nell'ottica di creare un campione “generazionale”.

La ricerca è stata svolta a Milano. Gli intervistati sono giovani che hanno

intrapreso la carriera giornalistica tramite l'iscrizione a una della quattro scuole di

giornalismo della città. Individuati limiti del campione si è cercato di garantire

una certa completezza dei risultati prestando attenzione alla distribuzione

all'interno della fascia d'età e cercando di individuare persone con percorsi

lavorativi differenti l'una dall'altra. Due intervistati stanno attualmente

frequentando una scuola di giornalismo, sono dunque praticanti e aspiranti

 professionisti, quattro sono giornalisti professionisti da 1-2 anni e tre da più di 3

anni.

Gli intervistati sono stati contattati attingendo inizialmente alle conoscenze

  personali e successivamente attraverso i network degli stessi intervistati.

L'indagine si è svolta attraverso interviste semi-strutturate che avevano come

obbiettivo quello di comprendere che cosa significhi oggi scegliere il giornalismo

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come professione. Le interviste, della durata massima di due ore, sono state

condotte seguendo una traccia che ripercorreva la carriera professionale dalle

 prime esperienze alle prospettive future di breve termine (Cfr. Appendice 1). Le

interviste sono state fatte nell'arco di due mesi e sicuramente le risposte emerse

nelle prime tre hanno influenzato le tracce sulle quali si sono strutturate le altre. In

sostanza si è ristretto il campo d'indagine a quegli aspetti che si ritenevano più

significativi ed interessanti. Il lavoro di raccolta delle informazioni ha permesso

di acquisire molto materiale da cui emergono infiniti spunti d'approfondimento

che, per ragioni di spazio, non sono stati trattati in questa sede e che

meriterebbero un'analisi più approfondita in futuro.

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4.2 Quando e perché hai scelto questa professione?

Tutte le interviste si sono aperte con la domanda: “ti ricordi quando hai scelto di

fare il giornalista?” Si sono registrate due tipi di risposte. La maggior parte deigiornalisti dichiara di aver vissuto una sorta di “colpo di fulmine” durante

l'adolescenza, leggendo un libro, un articolo di giornale o semplicemente perché

amava scrivere. Qualcun altro invece dichiara di non aver mai compiuto una vera

e propria scelta: la professione è arrivata da sé, spontaneamente, come logica

conseguenza delle inclinazioni personali. Il comune denominatore di queste

risposte è l'idea che la professione giornalistica sia una cosa che “ti senti dentro”,

qualcosa di te che puoi esprimere anche nel lavoro. Tutti ammettono che daragazzi avevano un'idea molto romantica della professione, possedevano la

raffigurazione di un'idea che tratta da film, libri e racconti.

“Ho deciso che nella vita avrei fatto la giornalista quando andavo al liceo con il

giornalino della scuola, verso i 17 anni. Mi piaceva il giornalismo per il fatto di

 poter raccontare storie, sai come nei film: le relazioni, la vita caotica… Avevo

un’idea da ragazzina del lavoro da giornalista. Allora pensavo che ad un

giornalista servisse saper scrivere, io adoravo scrivere. Credevo che fare il

giornalista fosse saper scrivere e voler scrivere.” [1]

“La mia professione è venuta naturalmente, ho studiato scienze della

comunicazione e poi ho fatto la scuola di giornalismo. […] Ciò che mi

appassionava della carriera giornalistica era l’idea di scrivere, io ho sempre

 pensato di lavorare scrivendo, ma dato che fare lo scrittore mi sembrava una

carriera meno praticabile ho deciso di fare il giornalista. E poi c’era anche

un’idea romantica dietro.” [2]

“La decisione definitiva l'ho presa a 17 anni. Ne avevo un'idea ideale, il

giornalista è uno che va in giro, incontra le persone, racconta.. Il giornalista è

una persona che guarda il mondo e lo racconta a milioni di persone. Quando ho

deciso che avrei fatto questo lavoro ne avevo un'idea idealistica, romantica.” [3]

“Un parente per aiutarmi a superare un grosso periodo di crisi mi ha detto: “ma

ti ricordi che da piccolo scrivevi bene e dicevi che volevi fare il giornalista?

Iscriviti ai test delle scuole di giornalismo!”. L'ho fatto, è stato orribile, pensavo

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di aver fatto schifo... Insomma ho fatto il test senza interesse. […] Se non avessi

 passato il test non ho la minima idea di cosa avrei fatto. Ma la sicurezza della

mia strada è arrivata con la prima esperienza lavorativa. Il mio primo stage è

stato prosso un importante quotidiano nazionale. Ed è stato un grande amore,

 proprio un grande amore!” [4]

“Ho deciso di fare la giornalista alle elementari! Sì proprio così, ho letto un

libro che parlava della storia di una ragazza che indagava sulle vite delle

 persone... e insomma io volevo fare quello e il modo migliore per farlo era fare

la giornalista!” [5]

“Io ho deciso alle medie, leggevo il giornale, ho iniziato a leggere una raccolta

di articoli di Montanelli, e mi è piaciuta l'idea di poter fare questo lavoro. Mi

ispirava il lavoro del giornalista, come quando un dice vorrei far la ballerina, io

volevo fare la giornalista, anche per l'idea romanzata del mestiere.” [6]

“Quando ho scelto questo lavoro, ho fatto anche una scelta valoriale. Io ritenevo

consono al il mio carattere, alle mie inclinazioni. Quindi allineato a tutta una

serie di valori che io avrei seguito con piacere e con una certa inclinazione.” [7]

“Non so se ho fatto una scelta, non mi vedevo in banca, non mi vedevo

ingegnere, non avvocato, non commercialista… io mi vedo giornalista, questo è

quello che amo fare, sono i miei interessi, io mi rifletto nella professione per quello che sono.” [8]

Proseguendo nelle interviste risulta per tutti evidente che la professione nei fatti

non è così romantica come se l'aspettavano, ma la motivazione e l'attaccamento a

quell'idea passionale del giornalismo non sembra diminuire.

Soprattutto tra le femmine c'è chi si da delle scadenze: termini entro cui cercare di

raggiungere e verificare i propri obbiettivi. Ma in generale nessuno ha

concretamente studiato un “piano B” una reale alternativa alla propria professione.

“Posso dirti che la professione giornalistica non è come me la immaginavo, mi

immaginavo di andare in giro, cercare notizie… è molto meno di questo. Però io

voglio sperare che le cose cambino. Da quello che ho capito questa situazione è

così adesso. Io voglio sperare che sia solo un momento di crisi, e che un domani

la professione torni ad essere quello che pensavo che fosse. Io continua a

crederci.”[1]

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“Io adesso voglio fare il giornalista perché è divertente, perché lo so fare, si

adatta bene a quello che sono oggi, e perché si adatta bene alle mie

caratteristiche, soprattutto alimenta la mia curiosità. Non ho motivo per voler 

cambiare strada.” [4]

Indagando invece il perché si scelga di fare i giornalisti, quali siano le motivazioni

importanti che portano a impegnarsi in questa professione a tempo pieno e in

modo esclusivo, sono emersi risultati quasi inaspettati. Infatti solo tre persone

hanno dichiarato essere spinte dallo “spirito di servizio” che il diritto

all'informazione richiede, chi ha dato questa risposta svolge il proprio lavoro

credendo nell'importanza dell'informazione e nella funzione sociale e politica del

giornalismo. Le rimanenti sei persone hanno invece addotto motivazioni più

emozionali, più legate all'espressione delle proprie inclinazioni e alla

realizzazione di sé. Nessuno degli intervistati si è soffermato su ragioni di

carattere economico, dato che nessuno immagina di potersi arricchire o avere una

 posizione stabile a breve-medio termine.

“La mia scelta è stata da sempre lavorare in una struttura che stimo, dove si

faccia informazione e dove io possa crescere. È importante ciò di cui parlo e,

altrettanto, la testata per cui lavoro. Per me sono più importanti queste coserispetto ai soldi, o almeno lo sono nella maggior parte dei casi.” [7]

“Chiariamo: non ho nessuna capacità filantropica, non faccio giornalismo

 perché è una cosa utile, non lo faccio per l'informazione in se. L'ethos del

giornalismo non mi piace, mi sembra ipocrita, non credo che si faccia per gli

altri o per una missione filantropica, credo che dietro a questa passione ci sia in

realtà una grande vanità... e non ammetterlo non va bene.” [4]

Un'importante riflessione conclusiva va fatta sul linguaggio usato dai giovani

giornalisti per parlare della propria professione. Tutti gli intervistati hanno usato

molti vocaboli attinenti alla sfera emozionale, in particolare ricorrono parole

come: amore, sentimento, passione, fiducia, credere, odiare, frustrazione,

consolare, piacere.

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4.3 Cosa hai fatto per intraprendere questo percorso?

Tutti gli intervistati hanno investito molto per poter diventare giornalisti.

Innanzitutto, hanno seguito una carriera di studi precisa, in materie sociali eumanistiche, che si è conclusa con un master biennale in giornalismo riconosciuto

dall'Ordine dei giornalisti. In secondo luogo, otto persone su nove hanno iniziato

le prime esperienze lavorative già durante gli studi. Molti di loro avrebbero

 preferito accedere alla professione attraverso un praticantato in redazione, strada

che dopo le prime esperienze è apparsa impercorribile.

“Tutti mi hanno sempre detto che era dura, che la professione era in crisi... ma io

mi sono sempre detta che ero brava. Che avrebbe rinunciato qualcun altro al  posto mio. Ho investito tanto in questa scelta. Già a 17 anni ho iniziato a

mandare i curriculum. Poi per caso ho conosciuto un giornalista e tramite lui

sono entrata come collaboratrice in un giornale locale. Poi all'università ho fatto

lo stage in un giornale. Poi da lì ho continuato a lavorare. Pensavo che se volevo

fare la giornalista era necessario iniziare subito. Sapevo che c'era una lunga

gavetta, quindi dovevo iniziare subito. Inoltre io avevo visto fin da subito le

scuole di giornalismo e ho fatto in modo di prepararmi in tutti i 3 anni di

università per poter entrare in una scuola: ho fatto tutti i corsi e seminari sul

giornalismo che c'erano, sono stata all'estero per 9 mesi per l'inglese. Sapevo di

essere la più giovane, volevo cercare di avere comunque qualche carta in

 più.”[3]

“Io ho investito molto per diventare una giornalista. In primo luogo si tratta di un

grande compromesso economico. La scuola di giornalismo è una strada ad

accesso economico, nel senso che non possono farla tutti. Inoltre se non sei di

Milano/Roma devi sostenere anche le spese di un trasferimento. Oltretutto nei

due anni della scuola hai la frequenza a tempo pieno e dunque è quasiimpossibile lavorare se non piccole collaborazioni che non ti permettono di certo

di mantenerti. Quindi è un compromesso importante. Certo si può dire: beh è

come fare un master. Vero. Ma bisogna valutarlo. Soprattutto per tutti coloro che

scelgono di fare la scuola di giornalismo come ultima chance prima di mollare

questo lavoro. Un altro compromesso per me è stato dover lasciare la mia terra,

la mia famiglia. E un altro compromesso è sapere che ora per qualche anno non

 posso andare via da Milano, perché qui ho le maggiori prospettive ora. E per me

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questo è un grosso compromesso, perché se fosse per me non starei qui, in

questa città. E poi, si è trattato anche di un grosso compromesso in serenità e

salute fisica. Lo sforzo, il lavoro, le poche ore di sonno, questi anni li ho sentiti

 pesanti. Però ora per raggiungere il mio obbiettivo so di dover fare questi

compromessi.”[7]

“Per fare il giornalista a tutti gli effetti però ho dovuto fare tantissimo. Mi sono

dovuto riscrivere, totalmente. L'investimento è stato tutto interno, una

riprogrammazione di valori obbiettivi stili di vita. Io prima ero uno che cercava

scorciatoie, che non voleva faticare. Facendo il giornalista ho imparato che è

molto importante amare ciò che fai e dove lo fai.” [4]

Si può concludere quindi che chi sceglie di intraprendere questa carriera professionale deve affrontare un grosso investimento iniziale, non solo economico

economico. Il livello di determinazione in chi decide di diventare giornalista

 professionista è dunque molto elevato.

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4.4 Quali sono le capacità richieste per svolgere al meglio questolavoro?

Una delle cose più inaspettate che sono emerse dalle interviste riguarda le capacità

richieste al giornalista professionista. Nonostante tutti gli intervistati abbiano

dedicato molto del loro tempo alla formazione, la scrittura, le lingue straniere, gli

studi sociali, nessuno di loro ha posto le conoscenze specifiche “classiche” del

giornalismo come un elemento essenziale per svolgere questa professione.

Gli intervistati ritengono di aver bisogno di altri tipi di conoscenze.

Per prima cosa, risultano essere fondamentali le capacità personali e caratteriali:

spigliatezza, curiosità, saper ascoltare, fiducia, creatività. Tutti gli intervistati sonocoscienti che con questi “strumenti” si crea il vero valore aggiunto della loro

 prestazione. Chi possiede e allena queste doti avrà maggior successo di chi sa

scrivere bene o sa verificare più attentamente le fonti.

In secondo luogo, tutti hanno sottolineato l'importanza di saper padroneggiare i

mezzi tecnici, un tempo strumenti degli operatori, montatori e grafici, come

telecamere, software specifici, strumenti di web editing. Infine è necessario

affinare quelle capacità d'adattamento e disponibilità alla flessibilità proprie delle prime esperienze lavorative, capacità che da tattiche di sopravvivenza potrebbero

diventare utili strategie per trovare e mantenere il lavoro.

“Una delle cose fondamentali per lavorare da giornalista free lance, secondo me

è guadagnarsi la fiducia da parte della redazione, perché se non si fidano di te,

non si fidano del tuo lavoro non ti richiameranno mai. Quindi devi essere, sì in

grado di proporre, ma devi essere anche in grado di guadagnarti la loro

fiducia.”[9]

“Le cose tecniche, la lingua straniera, saper scrivere un pezzo, queste cose

sapevo farle. Ho dovuto sviluppare più caratteristiche relazionali, che secondo

me sono una parte fondamentale del lavoro del giornalista. Giornalista è diverso

da scrivere bene, ma devi mettere in gioco tante caratteristiche personali. Sapersi

relazionale, è fondamentale saper ascoltare, avere senso critico, spigliatezza.

Insomma, solo una piccola parte dell’essere giornalista è la scrittura, anche

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 perché se no uno farebbe lo scrittore. Anche il fatto di essere svegli. Cioè se tu

sei sveglio e scrivi un po’ malino non ti preoccupare che fai pezzo di apertura

molto prima magari di uno che scrive da dio e però non coglie magari qual è la

notizia, cos’è la cosa da mettere in apertura, cos’è la cosa che ti può titolare il

 pezzo.” [7]

“Io per essere un bravo freelance devo essere iper-flessibile, devo sapere

adattarmi a tutto, ma allo stesso tempo quando mi propongo devo propormi per 

competenze specifiche. Devo sapermi rappresentare.” [7]

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4.5 Il lavoro nei fatti e le prospettive

Su nove persone intervistate otto non sono contrattualizzate presso un editore.

L'unica giornalista dipendente ha ottenuto il contratto attraverso il superamento diun concorso pubblico, prima di quest'occasione lavorava come freelance o

stagista. I giornali, le televisioni, le agenzie aggirano i contratti proponendo ai

giornalisti rapporti di lavoro autonomo (freelance), stage a volte non retribuiti o

condizioni di lavoro “abusivo”. In sostanza la quasi totalità degli intervistati non

 può godere delle condizioni lavorative assicurate dal Contratto Nazionale, sia per 

quanto concerne le mansioni svolte che per la remunerazione.

Ogni giornalista ha un percorso e una storia lavorativa diversa dall'altro, ma nelleinterviste si ritrovano alcune caratteristiche che potremmo definire costanti della

  professione giornalistica nel 2011, caratteristiche ormai accettate dagli stessi

giornalisti.

La prima costante del lavoro giornalistico è che si svolgono sempre più compiti

non giornalistici. Sei intervistati hanno svolto o svolgono con continuità lavori

non giornalistici che contribuiscono almeno al 50% delle loro entrate economiche.

Da un lato sono gli stessi lavoratori a valutare la possibilità di svolgere lavoridiversi, cessando quindi di essere giornalisti a tempo pieno, nonostante siano

 professionisti iscritti all'Albo. Dall'altro il lavoro giornalistico in sé è cambiato:

include oggi attività nuove come il montaggio video e l'impaginazione, un tempo

affidate ai tecnici e ai grafici. E ancora, è la stessa condizione di lavoratore

autonomo che obbliga i giornalisti a preoccuparsi di aspetti legati

all'amministrazione, l'organizzazione e la pianificazione del lavoro.

“Non escludo di fare anche un secondo lavoro. Non il pizzaiolo, ma altri lavori

come ufficio stampa, copy per la pubblicità. Se avessi l’opportunità credo che

non esiterei a farlo. Non so se posso, parlo delle norme dell’Ordine, se posso

ufficialmente fare anche un secondo lavoro. Ma io lo farei.” [2]

“Io ora non mi sento un giornalista in esclusiva, mi sento un giornalista-

imprenditore. Secondo me questo tipo di lavoro può capitare a chi sceglie di fare

il giornalista. Anche se non è proprio un lavoro giornalistico c'è bisogno di un

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giornalista dietro. Per la flessibilità mentale, la capacità di cogliere... Anche se

l'obbiettivo non è l'informazione è necessario che lo facciano i giornalisti.

Questa è una contraddizione, ma fa parte delle cose.” [4]

“E per il resto abbiamo imparato a fare tutto da noi: amministrazione, buste

 paga, turni, commercialista, telefono, contratti, gestione. Noi non siamo più solo

giornalisti abbiamo dovuto mettere in campo tutta una serie di altre cose non

fanno esattamente parte del nostro lavoro, anche se in realtà abbiamo imparato

tante cose importanti.” [7]

“Lì [testata giornalistica di una televisione nazionale] l’attività assegnata agli

stagisti è il sommario, cioè il montaggio del sommario. Lì infatti montano i

giornalisti, senza montatore. Di base facevamo questo.” [1]

La seconda caratteristica comune a tutte le esperienze raccolte è la dilatazione

della giornata lavorativa. La giornata lavorativa oscilla per tutti tra le 10 e le 12

ore e il lavoro può occupare anche il week end, le sere e i giorni festivi.

“Il collaboratore deve essere assolutamente disponibile, anche alle 9 di sera deve

essere in grado di scrivere 5000 battute... deve riuscire a dare meno problemi

 possibili alla redazione, perchè la redazione si rivolge e continua a rivolgersi al

collaboratore perché ha fiducia nel fatto che lui porti a termine il lavoro” [9]

“Io lavoro 11-12 ore al giorno. Con una pausa pranzo, poi i turni dipendono

dalle conferenze stampa... Il tuo lavoro teoricamente è continuo, il tuo lavoro

teoricamente può avvenire in qualsiasi momento della tua giornata […] Si

 presume che se tu vuoi fare questo lavoro e non hai un contratto il 16 agosto

lavori, lavori il 25 dicembre come freelance, se va bene pagato pochissimo, ma

devi immolarti. Perché si presume che tu ti immoli. Tanto se non ti immoli tu si

immola un altro, quindi meglio che ti immoli tu.” [6]

Inoltre, al tempo dedicato al lavoro non corrisponde una congrua remunerazione.Infatti come freelance si viene pagati per i pezzi effettivamente pubblicati non per 

i pezzi prodotti o per il tempo dedicato alla loro realizzazione. In generale si può

dire che il lavoro giornalistico sia attualmente mal pagato, tanto che nessuno degli

intervistati senza contratto riesce a mantenersi solo con quelle entrate.

“I lati negativi della situazione da freelance sono economici, assolutamente

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economici. Io lavoro molto, 12 ore al giorno anche. Lavoro tanto e guadagno

 pochissimo. Lavorare così tanto e guadagnare così poco è frustrante.” [2]

“Io vengo pagata anche abbastanza bene 40-50 euro al pezzo lorde, quelli che

vengono pagati oggettivamente molto poco sono i collaboratori che lavorano sul

locale 10-20 euro al pezzo lorde. Nel mio caso anche pubblicandone 8-9-10 al

mese porti a casa 300-350 euro netti con un carico di lavoro che è di 3 giorni a

settimana [produttivi]. Ovviamente avendo altro con cui integrare... se vivi solo

di questo... non puoi vivere solo di questo, è ovvio.” [9]

“Io sono pagata intorno ai 450-500 euro al mese, che non è poco. Cioè è poco,

ma non è poco se ti guardi intorno. Ad esempio, parlavo con una ragazza che ha

un contratto in una grossa emittente tv nazionale, beh lei prendeva 500 euro al

mese, e quella è una struttura assolutamente non paragonabile al giornale di

cronaca locale per cui lavoro io, sia per dimensioni che introiti pubblicitari. Io

direi che nel mio giornale mi pagano una cifra decorosa.” [6]

La quarta caratteristica riscontrabile è una diretta conseguenza delle precedenti:

un forte senso di rischio e insicurezza rispetto al proprio lavoro attuale e futuro.

Spesso questi sentimenti sono apparentemente celati da strategie e obbiettivi

chiari, ma emergono tra le righe di tutte le interviste.

“Mi piacerebbe avere un portafoglio più ampio di collaborazioni, mi piacerebbe

essere meno dipendente da una sola testata. Sai per un freelance è una cosa

importante. Se un giorno, al periodico per cui lavoro non sono più simpatico

diventa un problema, loro mi hanno per le palle. Un giornalista freelance che ha

una sola collaborazione è in una posizione scomoda.” [4]

“Ho finito da poco il mio stage. E sto aspettando una telefonata. Perché loro mi

hanno parlato -spero che mantengano- la promessa di un contratto per una

sostituzione estiva di 3 mesi. Non mi hanno in realtà detto i dettagli. Mi hanno

detto «tieniti libera, riposati ora che poi dovrai lavorare tutta l’estate e dovrai

saltare i giorni di riposo». Io spero mantengano la promessa.” [1]

“Il mio vero problema è questo: io non ho davanti una prospettiva per cui non so

che se collaboro X anni, poi mi fanno il contratto. Potrebbero farmelo come non

farmelo. Potrebbero farmi un contratto a tempo indeterminato domani, come

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andare avanti 10 anni e non avere mai un contratto nemmeno di due mesi su una

collaborazione estiva.. Il problema è proprio questo: tu non lo puoi sapere.” [6]

Come si è detto ogni intervistato ha vissuto esperienze diverse in termini di

contesti, modalità, tempi, occasioni... Ma tenendo presente queste caratteristiche

costanti della professione giornalistica attuale e osservando il modo in cui i

soggetti affrontano e organizzano la loro carriera si possono individuare alcune

tipologie di nuovi giornalisti professionisti.

Innanzitutto, gli intervistati si possono dividere in “freelance per scelta” e

“aspiranti dipendente”. Questa tipologia è evidentemente dedotta delle due strade

 percorribili per uscire dalla precarietà stagnante degli stage.Il “freelance per scelta” si auto definisce imprenditore di se stesso, rifiuta l'idea

del giornalista tradizionale in redazione e aspira ad esprimere le proprie capacità

in totale autonomia. Il “freelance per scelta” sa che data la situazione economica

attuale non può aspirare ad un contratto ed intende sfruttare questa occasione a

suo favore. Per i “freelance per scelta” gli aspetti positivi del lavoro autonomo -

autonomia, nessuna gerarchia, tempi flessibili, libertà sui contenuti - sono più

importanti degli aspetti negativi, che si dovrebbero risolvere col tempo.“Da un punto di vista di come vorresti lavorare ti dico: freelance tutta la vita!

 Non c’è niente di più bello che essere il capo di te stesso e scrivere da te le tue

storie, da un altro punto di vista il fatto di non avere molte certezze economiche

è un punto negativo. Quello che voglio cercare di fare è trovare un equilibrio tra

le 2 cose. Si tratta di un obbiettivo di medio termine. Lavorare con alcune

certezze e tanta autonomia. Credo nella possibilità di realizzare questo

obbiettivo, se non ci credessi non stare qui. Ma chiariamo, come lavoratore

dipendente mi ci vedo solo per brevi periodi, dipendente-dipendente non mi civedo.” [8]

“Penso che non vorrei mai lavorare in redazione, fisso sempre sugli stessi

argomenti… Io mi auguro di fare il freelance non solo perché sono obbligato a

farlo ma anche perché io voglio farlo! Io non ho un capo, questo è

eccezionale!”[2]

“Non vorrei mai essere assunto dal periodico per cui lavoro come collaboratore,

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è una cosa che non potrei rifiutare ma che mi terrorizza!” [4]

“...cioè magari uno riceve una proposta dall'economia del Sole24ore, sì ok, è un

 buon contratto... ma però.. come fai? Dopo che ti sei abituato a lavorare per 

conto tu, a poter scegliere, poter dire i sì e poter dire i no, a metterci la tua scelta.

Come fai a ritrovarti in una struttura grossa e gerarchizzata, non è così facile.

Alcuni colleghi che hanno ottenuto dei contratti in Rai addirittura invidiano la

nostra situazione, il nostro modo di lavorare.” [9]

Gli “aspiranti dipendenti” invece sognano di ottenere un contratto di lavoro

classico o comunque sperano di stabilizzarsi in un ambiente lavorativo con delle

certezze. Per gli “aspiranti dipendenti” i contro del lavoro da freelance sono tali da

giustificarne il rifiuto. Però dato che la crisi è evidente, anche loro sanno che nonsarà facile ottenere un contratto di lavoro, tanto che non hanno una strategia

 precisa per raggiungere il loro obbiettivo e spesso vivono una situazione di forte

insicurezza.

“Pro e contro dell'essere freelance: non hai orari , che per me però è un contro

 perché preferire essere più inquadrata. Un altro contro è che lavori sempre nei

week end, dato che in redazione c'è meno gente e quindi è più facile che si

contattino i collaboratori. Un contro è anche non essere stabilissimo, perchénonostante ci sia un rapporto stabile, basato sulla fiducia, sulla conoscenza, non

c'è niente di contrattualizzato... e può andare come non andare. Se tu avessi un

contratto in cui si stabilisce che tu scrivi minimo 20 articoli al mese, sapresti

che, comunque vada, tu scriverai i tuoi 20 articoli. I pro sono: la maggiore

libertà, la possibilità di poterti proporre ad altre testate e cercare anche altrove.

Però è una cosa che è un pro in linea teorica, in linea pratica effettivamente è

difficile, perché purtroppo il mercato oggi è talmente saturo che è difficile

riuscire a trovare altro.” [9]

“Secondo me come freelance non sarò mai pagata per tutto il mio lavoro. Ne

 parlavo una volta con un ragazzo che era da 4 anni e mezzo freelance puro e

ogni anno non riceveva il contratto che si aspettava perché ogni anno lo

facevano ad un altro e non a lui. Onestamente io non so come facesse. Ma anche

altri miei colleghi. Onestamente non so come facciano, io non credo di potercela

fare. […] Nel resto dell'universo mondo un freelance come il giornalista

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freelance non esiste, non c'è questa distorsione totale in altre professioni!” [6]

Un ulteriore riflessione va fatta per il “freelance per scelta”. All'interno di

questa categoria, che conta cinque intervistati, è possibile individuare unsottogruppo di due persone che aspirano ad un futuro lavorativo autonomo

ma inserito all'interno di una rete-cooperativa di persone a cui affidarsi, con

cui aumentare il proprio potere contrattuale e grazie alla quale migliorare la

loro condizione di “freelance puri”.

“Se il lavoro da freelance funzionasse bene sarebbe vantaggioso per me e gli

editori. […] Pian pianino dato il mio numero di collaborazioni dovrei avere

sempre più potere contrattuale, cosa che ora non ho. Ora quando mi propongo

accetto la proposta che arriva dall’editore. Però credo anche che le cose non

cambieranno mai se sarò da solo, da solo cosa posso cambiare gran ché.” [2]

“Io non farei mai il freelance puro, rispetto alla cooperativa intendo. Il lavoro

non sarebbe diverso, ma non hai forza contrattuale e non hai la forza della rete.

Il gruppo è fondamentale. Ho dei colleghi che hanno deciso di fare i freelance

 puri ma è dura. Il gruppo è un bel valore aggiunto.” [7]

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4.6 Ordine e identità professionale, io sono speciale

Il lavoro giornalistico è indubbiamente cambiato, nel contenuto, nei modi, nei

tempi, nella sua stessa rappresentazione. Invece non sono cambiate le istituzioni ele norme della professione giornalistica. Nell'ultima parte delle interviste abbiamo

cercato di capire se i giovani giornalisti si identificano ancora con la loro

 professione.

 Nei confronti dell'Ordine dei Giornalisti vi è un assoluto disinteresse o talvolta

insofferenza. Nonostante gli intervistati abbiano investito energie e risorse per 

entrare a pieno titolo nell'Albo dei professionisti ritengono che questa istituzione

sia distante dal loro lavoro. L'Ordine è inutile, vecchio, bloccato e talvolta arrivaad essere un impedimento per i giovani professionisti. La stessa deontologia o

etica del giornalismo ha perso di valore come fattore identificante.

“Essere giornalista professionista, cioè iscritto all'Albo, non mi serve a

nulla, sinceramente non gliene frega niente a nessuno quando mi

  propongo.” [2]

“L'Ordine nei miei confronti non ha fatto nulla di buono e nulla di negativo,

ma credo che se si accorgesse di me proverebbe a fermarmi, la miaesperienza professionale è contraria a ciò che l'Ordine tenta di tutelare.” [4]

“Secondo me l'Ordine dovrebbe essere abolito, secondo me l'Ordine è un

retaggio assolutamente fascista e del tutto anacronistico. In un mondo

ideale serve una struttura che sorvegli e disciplini la deontologia della

 professione, ma che non sia un organo a fini di lucro e che non campi sulle

spalle di chi ne fa parte. In termini pratici l'Ordine ora non controlla la

deontologia e l'etica della professione e chiude un sacco di occhi su

anomalie di questo mondo che in realtà non dovrebbe tollerare. Quindi iosono per l'abolizione dell'Ordine.” [9]

“Per noi rispetto all'Ordine è più interessante la rete delle cooperative

 perché ci offre contatti, network.” [7]

“Secondo me l'Ordine, se volesse essere utile, dovrebbe decidere i minimi

salariali. Magari un sistema ancorato alle lunghezze. E poi dovrebbe verificare

i pagamenti, attualmente alcune testate pagano tra 6 mesi.” [6]

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Risulta difficile identificarsi con i colleghi più anziani e con il posto di lavoro. Nel

 primo caso si ritiene che i “giornalisti vecchio stile” non sappiano cosa sia il

lavoro attuale, “il lavoro vero”, e usufruiscano di una serie di immotivati privilegi

ormai inaccessibili ai giovani precari. Nei confronti del posto di lavoro invece i

giovani giornalisti lamentano di non potersi identificare dato che non fanno

ufficialmente parte della redazione: sono solo stagisti o collaboratori esterni.

“Noi non ci identifichiamo del tutto con i giornalisti. Perché diciamo: caspita ma

questi non si rendono conto di cosa vuol dire fare questo lavoro oggi. La

sentiamo la differenza con quelli assunti in redazione. Andare così a cercarsi il

lavoro, i giornalisti classici non sanno cosa voglia dire, anche il fatto di uscire

con la telecamera. Queste cose fanno parte della nuova piega che ha preso la

 professione, c'è un varco enorme tra noi e i “vecchi assunti”, e parliamo di soli

10 anni fa.” [7]

“Mi identifico molto di più con la scuole con cui sono contrattualizzata [presso

cui lavoro come educatrice] che con il giornale con cui collaboro. Non perché

non voglia identificarmi ma perché materialmente non posso farlo” [9]

“Non so se posso identificarmi con i giornalisti, con i giornalisti professionisti

come me. Cioè credo che per identificarti tu dovresti essere certo che almeno per 

altri 5 anni farai questo lavoro, e io non ne sono sicura. Oltre al fatto che

essendo così precaria la situazione io non posso identificare me stessa col lavoro

che faccio. Se mi identificassi col mio lavoro, e perdessi il mio lavoro.. ed è

 possibile, già tra 3 mesi.” [6]

Detto questo però tutti gli intervistati si sentono e si definiscono giornalisti

 professionisti, quindi non vi è un totale rifiuto dell'identità professionale ma la

volontà di distinguersi, di affermare la propria diversità, il proprio essere

“speciali”. Ognuno di loro racconta con orgoglio di avere svolto esperienze

diverse dagli altri, di avere inclinazioni personali che lo rendono diverso, e a volte

 preferibile, rispetto all'indistinto gruppo dei giornalisti. Se da un lato non vi è

identificazione con le istituzioni o il contesto lavorativo, dall'altro i giovani che

scelgono il giornalismo come professione rivendicano un'identità professionale

del tutto personale, individuale.

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“Mi vedo un po’ diverso dagli altri giovani giornalisti, io sono un vero freelance

e come me siamo rari.” [2]

“Io mi vedo giornalista, questo è quello che amo fare, sono i miei interessi, io mi

rifletto nella professione per quello che sono. Ma allo stesso tempo non mi

identifico molto con gli altri giornalisti, io sono un fotogiornalista mi sento

diverso. Ho fatto un percorso diverso, mio.” [8]

“Io so che il giornalismo è la mia professione... sono un professionista del

giornalismo. Ecco l'espressione professionista del giornalismo mi piace,

giornalista professionista meno.” [4]

“Io credo che le scuole di giornalismo stiano creando una nuova generazione di

giornalisti con una mentalità diversa, che cambierà le cose. Per esempio, per noiè normale la multimedialità...” [1]

Note al capitolo 4

[1] Donna, 27 anni, giornalista professionista, disoccupata.

[2] Uomo, 26 anni, giornalista professionista, freelance con Partita IVA.

[3] Donna, 22 anni, giornalista praticante, studente scuola di giornalismo.

[4] Uomo, 29 anni, giornalista professionista, freelance con Partita IVA e imprenditore.

[5] Donna, 28 anni, giornalista professionista, assunta contratto a tempo determinato.

[6] Donna, 27 anni, giornalista professionista, freelance e tirocinante presso una redazione.

[7] Donna, 27 anni, giornalista professionista, socia di una cooperativa - service giornalistico

[8] Uomo, 25 anni, giornalista praticante, studente scuola di giornalismo, fotografo freelance.

[9] Donna, 25 anni, giornalista professionista, freelance.

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Conclusioni

La ricerca svolta ci ha permesso di verificare la valenza dalla definizione

funzionalista delle professioni data da Parsons, alla luce delle modificazionicausate dal superamento del sistema di produzione taylorista. Questo controllo era

infatti risultato necessario dopo aver esaminato le caratteristiche del lavoro

autonomo di seconda generazione, caratteristiche che apparivano in

contraddizione con la definizione del lavoro giornalistico data dall'ordinamento

  professionale, condivisa delle associazioni di rappresentanza e teoricamente

accettata dai giornalisti professionisti.

Innanzitutto la ricerca svolta ci permette di confermare quanto già affermato in precedenza: l'autonomia, fatta di privilegi economici e libertà, non può più essere

assicurata ai giornalisti professionisti, che sono costretti ad accettare rapporti di

collaborazione autonomi con bassi compensi e scarse tutele. Il lavoro giornalistico

è infatti raramente regolarizzato attraverso contratti e, nella maggior parte dei casi

esaminati, i giornalisti non sono in grado di mantenersi autonomamente. L'orario

di lavoro si allunga e la retribuzione rimane insufficiente, la sensazione di

insicurezza è pervasiva. Nelle interviste troviamo conferma alle “tesi” di Bolognariguardanti la percezione dello spazio e del tempo, la scomparsa del salario

mensile e la necessaria disponibilità costante sul mercato del lavoro. Tutti questi

elementi portano i giovani giornalisti a vivere un sentimento di ”angoscia del

vuoto”, al punto che sei di loro svolgono o pensano di svolgere un secondo lavoro

non giornalistico. La mancata autonomia incide anche sulle prospettive future. Gli

“aspiranti dipendenti”, una parte minoritaria degli intervistati, sentono di subire

involontariamente le attuali condizioni di lavoro e auspicano di poter essereregolarizzati con con un contratto tradizionale; al contrario sei “freelance per 

scelta” sono coscienti che il lavoro autonomo è la forma lavoro propria della

  produzione post-fordista, sono intenzionati a incrementare le loro capacità

imprenditoriali e a sfruttare le possibilità di cooperazione tra lavoratori

indipendenti.

Dalle interviste è emersa una seconda conferma a quanto ipotizzato durante la

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trattazione teorica: la competenza tecnica specifica, caratteristica peculiare dei

  professionisti, ha perso d'importanza rispetto alle capacità relazionali. Come

dimostrato anche dallo studio di Cristina Morini, il contenuto della professione

giornalistica è irrimediabilmente cambiato. Da un lato sono stati assorbiti compiti

e mansioni non giornalistiche che non si acquisiscono con la formazione ufficiale

richiesta dall'Ordine dei giornalisti, ma con il lavoro sul campo e l'esperienza

  pratica. Dall'altro competenze diffuse e non prettamente lavorative, come la

fiducia, l'ascolto, la curiosità, hanno acquisito un ruolo centrale. Gli intervistati

sono coscienti di questo cambiamento al punto tale che si adoperano per essere

 perfettamente in grado di governare e incrementare queste caratteristiche personali

e caratteriali messe costantemente al lavoro.

Infine, è stata confermata la tesi secondo la quale nel lavoro autonomo di seconda

generazione l'identità professionale muta rendendo debole il concetto di

responsabilità fiduciaria. I giornalisti intervistati non si identificano più né con le

istituzioni professionali né con i colleghi “vecchio stampo”. Di conseguenza tende

a scomparire la responsabilità fiduciaria, che basava la sua efficacia sul timore

delle sanzioni dell'Ordine dei giornalisti o la paura di poter danneggiare la

  professione nel suo complesso. Sempre in riferimento all'identificazione

 professionale, gli intervistati affermano di potersi comunque definire giornalisti,

rivendicando però un identità basata sulla propria individualità. Tanto più il ruolo

del collaboratore giornalistico viene massificato e il prodotto giornalistico

omologato (Morini 1997), tanto più la rivendicazione della propria individualità

diventa indispensabile. I giovani giornalisti si sentono speciali e diversi,

affermano inoltre che alla base della loro professionalità stia proprio questa

individualità messa al lavoro attraverso le proprie competenze relazionali.

Quanto ipotizzato nella discussione teorica è stato dunque confermato:

l'autonomia è stata corrosa da condizioni di lavoro faticose e vincolanti, la

conoscenza tecnica specifica ha perso d'importanza a causa della centralità delle

competenze relazionali e le mutazioni riguardanti l'identità professionale hanno

minato le basi della responsabilità fiduciaria.

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Attraverso la ricerca è emerso inoltre un aspetto non ipotizzato in precedenza:

indagando il perché della scelta della professione giornalistica si è notato che

l'orientamento al servizio è una motivazione ormai minoritaria, a fronte di una più

forte adesione emozionale. L'orientamento al servizio non è più funzionale al

successo di un giornalista professionista, in quanto è stato sostituito dal desiderio

di realizzazione di un percorso personale, dal desiderio di espressione della

 propria individualità. Il riconoscimento e la stima altrui si ottengono attraverso la

la manifestazione della propria individualità, attraverso la firma e l'ampiezza delle

reti di conoscenze.

Riassumendo, i quattro pilastri su cui si reggeva la definizione parsonsiana di

 professione -la conoscenza funzionale specifica, l'orientamento al servizio, la

responsabilità fiduciaria e l'autonomia- non sono più in grado di definire la

  professione giornalistica che è mutata conseguentemente al mutare della

 produzione e che ha raggiunto un alto grado di complessità, tipico del lavoro

autonomo di seconda generazione. La definizione istituzionale e legislativa della

 professione giornalistica non corrisponde più al lavoro giornalistico nei fatti e con

la definizione data dagli stessi giornalisti.

Ora con l'intento di proporre un punto di partenza da cui tentare di ri-definire il

concetto di giornalismo come professione, potremmo tornare alle domande che

Weber poneva nel 1917. “Che cosa significa la scienza come professione per colui

che si dedica ad essa?”, a cui seguiva la risposta: passione, sachlichkeit , dedizione

appassionata a una causa. Se oggi ci domandassimo “che cosa significa il

giornalismo come professione per colui che si dedica ad esso?”, la risposta

 potrebbe essere: passione, espressione della propria individualità attraverso le

 proprie emozioni e le proprie capacità relazionali. In questo contesto il concetto

di beruf weberiano, professione-passione, che si era perso nel paradigma

funzionalista riacquisisce valore, anche se in modo evidentemente nuovo.

 Nell'esposizione della ricerca abbiamo già avuto modo di sottolineare quanto gli

intervistati siano legati sentimentalmente al proprio lavoro, quanto la componente

emotiva sia determinante nel definire il lavoro giornalistico il proprio lavoro. La

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componente di “passionate-work” (McRobbie) è centrale in tutta l'esperienza

lavorativa indagata: è un elemento determinante nella scelta della professione,

garantisce un buon livello di resistenza di fronte a condizioni economiche

fortemente negative e ispira speranze per il futuro.

Un secondo elemento emerso come costante del giornalismo come professione nel

capitalismo cognitivo è la centralità dell'individuo, che rivendica la propria unicità

facendone un valore spendibile in campo lavorativo. In un contesto scomposto e

frammentato, in una moltitudine, l'individuo rivendica con maggior forza la

 propria specificità e ciò accade anche nel lavoro giornalistico. Se da sempre, in

questo ambito, linguaggio e comunicazione sono stati gli strumenti del mestiere,

ora per creare valore è necessario mettere al lavoro se stessi, ridefinire la propria

soggettività in funzione delle reti, dei consumi, della creatività.

Questi due elementi appartengono propriamente al giornalista “freelance per 

scelta”, che sembra essere il professionista che più si può adattare alle attuali

condizioni lavorative. Un aspetto che meriterebbe maggiore attenzione e

comprensione sono le strategie attuabili per poter governare questa scelta

lavorativa. Sarebbe necessario capire quali siano i contrappesi necessari alla precarietà e all'instabilità cronica a cui sono sottoposti i giornalisti freelance. Su

questo punto alcuni degli intervistati hanno proposto la via della cooperazione e

della coalizzazione, una via che è immaginata innovativa rispetto agli ordini

 professionali, le rappresentanze lavorative sindacali e l'associazionismo classico.

 Nei fatti ci sono ancora scarse esperienze in questa direzione. Oggi un giovane

che intende fare del giornalismo la propria professione sa che non potrà godere né

di una struttura professionale a cui appoggiarsi, né di una decente autonomia

economica, potrà “aggrapparsi” solo alla propria passione. La passione nel

giornalismo potrebbe essere sia uno scudo sotto cui sopportare il peso

dell'insicurezza e dell'autosfruttamento sia l'arma vincente per produrre valore dal

 proprio lavoro.

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Appendice

Traccia interviste semi-strutturate

a) Fare il giornalista, la scelta, la scuola

– quando hai scelto di voler diventare un giornalista?

– cosa pensavi che fosse?

– Avresti potuto fare un altro lavoro?

– Cosa hai fatto per diventare giornalista? (esperienza della scuola)

– Cosa è rimasto della tua idea del mestiere del giornalista?

 b) Il tuo attuale lavoro

– la tua giornata tipo

– sei soddisfatto?

– Le esperienze lavorative o la scuola hanno modificato le tue aspettative?

– Hai mai il dubbio di aver fatto la scelta sbagliata?

– Pro e contro della tua situazione contrattuale

– Secondo te potrai superare la tua condizione di precario? Hai in mente un percorso

 per riuscirci?

– Come ti vedi tra cinque anni?

c) Identità professionale e Ordine dei Giornalisti

– Cosa pensi dell'Ordine dei Giornalisti?

– Ti identifichi con l'Ordine?

– Ti identifichi con i tuoi colleghi o il tuo posto di lavoro?

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