Gionalismo: da Professione a Passione
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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI MILANO
Facoltà di Scienze PoliticheCorso di Laurea triennale in Scienze Politiche
GIORNALISMO:DA PROFESSIONE A
PASSIONE
Elaborato finale di:Giulia Laura FERRARI
Relatore:Prof. Adam Erik ARVIDSSON
Anno Accademico 2010-2011
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Indice
Introduzione..................................................................................................3
1 Le professioni, un approccio sociologico ..................................................5
1.1 Le professioni in Weber.................................................................................5
1.2 Le professioni in Parsons...............................................................................9
2 Capitalismo cognitivo: è cambiata la produzione, è cambiato il lavoro...12
2.1 Accumulazione flessibile, lavoro autonomo di seconda generazione.... .....12
2.1 Lavoro autonomo e settore editoriale, l'analisi di Cristina Morini..............17
3 La professione giornalistica in Italia........................................................ 20
3.1 Storia della professione giornalistica in Italia, le istituzioni e le norme.. .. .20
3.2 La professione nei fatti e nei numeri........................................................... 26
4 Caso studio.............................................................................................. 304.1 Premesse metodologiche............................................................................. 30
4.2 Quando e perché hai scelto questa professione?.........................................32
4.3 Cosa hai fatto per intraprendere questo percorso?......................................35
4.4 Quali sono le capacità richieste per svolgere al meglio questo lavoro?......37
4.5 Il lavoro nei fatti e le prospettive.................................................................39
4.6 Ordine e identità professionale, io sono speciale........................................45
Conclusioni................................................................................................. 48
Appendice................................................................................................... 52
Bibliografia................................................................................................. 53
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Introduzione
I professionisti si distinguono dagli imprenditori o da generici lavoratori per
quattro caratteristiche fondamentali: una specifica competenza tecnica di altolivello, un impegno orientato al servizio, un elevato senso di responsabilità e una
buona autonomia economica. Oggi i giovani giornalisti professionisti si
rispecchiano in questo quadro? La definizione tradizionale di giornalismo come
professione in Italia è ancora valida?
Questa analisi deve parte della sua esistenza alla cronaca. Infatti nel dibattito
pubblico, sempre più spesso, si impongono riflessioni sullo stato della professione
giornalistica. Da un lato i giornalisti, la casta, sono accusati di aver abbandonatola ricerca della verità o di essere morbosi ed invadenti, dall'altro sono gli stessi
giornalisti precari a tentare con ogni mezzo di attirare l'attenzione sulle loro
condizioni lavorative e di vita, arrivando fino allo sciopero della fame.
Il giornalismo è cambiato, ciò è evidente: sono cambiati i mezzi, i tempi, gli
ambienti, il contenuto, lo status sociale. Ma non sono cambiate le norme che
regolano l'accesso alla professione, né sono state integrate le condizioni
contrattuali. La domanda sorge spontanea: cosa vuol dire oggi fare delgiornalismo la propria professione? Quando il giornalismo può essere definito
professione? Com'è la professione giornalistica nei fatti?
Per rispondere a queste domande sarà necessario prendere in considerazione
diversi aspetti. Innanzitutto, sarà utile individuare i teoremi su cui si basa la
definizione sociologica di professione intellettuale e di professione in genere.
Queste sono infatti le fondamenta su cui sono stati costruiti gli ordini professionali
in Italia, gli unici custodi e arbitri delle professioni. In seguito sarà necessario
capire come e come mai è cambiato il mondo del lavoro, e in particolare il mondo
dell'editoria. Definiti i contesti teorici, procederemo analizzando direttamente
l'oggetto della nostro esame: la professione giornalistica in Italia, la sua storia, le
norme che la regolano e il lavoro nei fatti.
A questo punto i contrasti tra la definizione classica di professione e le
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caratteristiche del lavoro giornalistico nel capitalismo cognitivo risulteranno
evidenti. Per verificarne gli effetti e comprenderne le sfumature proporremo i
risultati di una ricerca qualitativa svolta su un campione di nove giovani
giornalisti professionisti o aspiranti tali.
Per liberare fin da subito il lettore da ogni pregiudizio è importante chiarire che
questa tesi non vuole decretare la fine di una professione. Il giornalismo come
professione sopravvive mutato nella narrazione dei giornalisti intervistati, ed è
caratterizzato da una nuova e diversa identità professionale, che è l'anima del
lavoro autonomo di seconda generazione.
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1 Le professioni, un approccio sociologico
1.1 Le professioni in Weber
Introducendo questo autore fondamentale, che ispirò le teorie funzionaliste (primo
su tutti Talcott Parsons) e le teorie neoweberiane degli anni ’70, non si può non
evitare una precisazione. Weber non si occupò né esclusivamente né
approfonditamente dello studio delle professioni: le sue elaborazioni sulla
burocrazia “lasciarono nell’ombra” il concetto di professione (Tousijn, 1997).
Concetto che Weber esaminò solo in due occasioni, trattando specificatamente la
professione accademica e la professione politica. Ci stiamo riferendo alle due
conferenze tenutesi rispettivamente nel 1917 e nel 1919 presso l’Università di
Monaco dal titolo Wissenschaft als Beruf , La Scienza come Professione, e Politik
als Beruf , la Politica come Professione. L'analisi svolta in questo lavoro si basa
dunque su questi due testi. Si compirebbe di certo una leggerezza storica
pensando che lo stato d’animo e le riflessioni dell’autore non siano cambiati tra il
1917 e il 1919, anche se le due conferenze sono state originariamente pubblicate
assieme (sia in Germania che in Italia) sotto il comune titolo di Il Lavoro
Intellettuale come Professione. Domande e risposte sul Beruf si rincorrono, e
rimbalzano, tra le due dissertazioni, immerse in fondamentali riflessioni sul
progresso scientifico e sul potere politico.
In entrambe le conferenze Weber descrive le condizioni degli intellettuali di
professione. Chi sceglie la via della scienza come professione sceglie una strada
molto dura, a tal punto che agli studenti che chiedono consigli su come diventare
scienziati Weber suggerisce di rispondere “Lasciate ogni speranza” (Weber 2004:
12). Una strada fatta di continue delusioni, in cui non sempre il talento e
l’applicazione vengono premiati; in cui un professore, ad esempio, viene criticato
dagli studenti esclusivamente per il tono di voce, e non magari per le sue
conoscenze. Una strada lunga e burocratica (almeno in Germania). Anche coloro
che sono convinti della vocazione che li spinge lungo questa via non sono esenti
da “danni interiori”. Due sono le domande centrali di questa lunga riflessione:
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“che cosa significa la scienza come professione per colui che si dedica ad essa?” e
“che cos’è la professione della scienza nella vita complessiva dell’umanità? E
qual è il suo valore? (Weber 2004: 21)
Anche la carriera giornalistica è “una via non per tutti. Tantomeno per i caratteri
deboli, in particolare per uomini che possono conservare il proprio equilibrio
interiore soltanto in una situazione sicura e stabile. Se già la vita del giovane
studioso è esposta al rischio, questi è perlomeno circondato dalle salde
convinzioni di ceto che lo proteggono da ogni sbandamento. La vita del
giornalista è invece in ogni senso un puro azzardo, e si svolge in condizioni che
mettono alla prova la propria sicurezza interiore, come assai raramente accade in
altre situazioni”. (Weber 2004: 77) I giornalisti inoltre subiscono continue critiche
a causa del loro lavoro di “scrittori a pagamento” (Weber 2004: 100), essendo
spesso identificati come persone eticamente squallide, per colpa di coloro i quali
svolgono la professione solo per i propri interessi. “Quali gioie interiori essa è
dunque in grado di offrire e quali attitudini personali presuppone in chi vi si
dedica?”(Weber 2004: 100)
Queste sono le domande che poneva Weber, domande tutt'ora valide dato che,come vedremo in seguito, la condizione lavorativa dei giornalisti è complicata da
un contesto di precarietà e insicurezza tipici dell'attuale modello produttivo.
Le risposte si trovano nelle caratteristiche delle professioni intellettuali che,
organizzando i passaggi centrali di entrambe le conferenze di Monaco, si possono
ridurre a tre fondamentali aspetti. Il primo è la specializzazione, la conoscenza
specifica. Colui che sceglie un lavoro intellettuale come professione deve
conoscere profondamente ciò di cui si occupa, seguire una carriera di studi emettersi alla prova con l’applicazione costante e la ricerca. La specializzazione è
un ingrediente necessario per la produzione di valore nel lavoro intellettuale, in
quanto: “soltanto nel caso di una rigorosa specializzazione l’individuo può
acquisire la sicura coscienza di produrre qualcosa di realmente compiuto in
ambito scientifico” (Weber 2004: 13), qualcosa di innovativo.
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La seconda caratteristica, non di minore importanza, la passione. La passione è
per Weber l’anima della professione, ciò è evidente fin dal titolo. Infatti il termine
tedesco beruf non è esattamente traducibile in Italiano: significa al contempo
“professione” e “vocazione/passione”. La scelta di una professione deve essere
fatta per passione, se ciò non fosse non si produrrebbe alcun valore. “Uno non
possiede la vocazione per la scienza, e farà bene a dedicarsi ad altro. Infatti per
l’uomo in quanto uomo non ha valore alcuno ciò che non può fare con passione”
(Weber 2004: 13). È la passione che attribuisce “personalità”, prestigio e potere ai
professionisti. Uno studioso che sì applicherà alle sue ricerche con passione
diventerà una “personalità” scientifica, un uomo politico mosso dalla passione
avrà autorità e potere carismatico. Ma che cos’è la passione? È lo stesso Weber a
precisarlo, dato che è evidente il rischio di fraintendimenti. “Passione nel senso di
sachlichkeit : dedizione appassionata a una causa”. La passione è dunque la spinta
verso uno scopo, che a sua volta non deve essere confuso con l’interesse
personale. Se l’aspirazione al potere è mossa da vanità, se non vi è “servizio alla
causa” (Weber 2004: 17,103) ma solo autoesaltazione, l’uomo compie un
“peccato contro lo spirito santo della sua professione” (Weber 2004: 102).
Da questa riflessione discende la terza caratteristica del lavoro intellettuale come
professione: la responsabilità. Per responsabilità si intende la costante valutazione
delle proprie scelte (autocritica) e degli effetti delle proprie azioni (lungimiranza),
e la conformità di queste all’ “etica della responsabilità”(Weber 2004: 109). Se da
un lato la responsabilità di uno scienziato è diversa da quella di un politico e,
potremmo aggiungere, la responsabilità di un medico è diversa da quella di un
ingegnere, dall'altro essa deve essere sempre presente: è necessaria all’uomo per
auto-limitarsi in funzione della causa, “la semplice passione, per quanto
autenticamente vissuta, non è ancora sufficiente” (Weber 2004: 101).
A queste tre caratteristiche del lavoro intellettuale come professione si aggiunge
poi una condizione importante e necessaria affinché esso possa essere svolto nel
migliore dei modi: la sicurezza economica. Weber introduce questo tema parlando
di cosa voglia dire scegliere la politica come professione, le risposte sono due: si
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può vivere “per” la politica o “della” politica. Chi vive “per” la politica deve avere
le disponibilità economiche necessarie per non doversi preoccupare del guadagno
derivante dalla propria attività, chi vive “della” politica deve poter guadagnare
sempre a sufficienza per poter svolgere la sua professione come servizio e non
come strumento d’arricchimento personale. Da ciò segue che se non si vuole
limitare l’accesso alla professione solo a coloro i quali vivono di rendita è
necessario garantire a tutti coloro scelgano questa strada “redditi regolari e sicuri”
(Weber 2004: 61).
Riassumendo, colui che sceglie un lavoro intellettuale come professione deve
possedere tre caratteristiche: una conoscenza specifica, la passione e il senso di
responsabilità. Inoltre affinché egli possa proseguire in questa scelta è necessario
che gli sia garantita l'autonomia economica. Saranno queste condizioni a
permettere al giornalista di intraprendere una strada professionale così ardua e
apparentemente priva di soddisfazioni. Sarà in particolare la passione, la
dedizione appassionata alla causa professionale, ad animare e sostenere colui che
sceglie un lavoro il giornalismo come professione.
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1.2 Le professioni in Parsons
Proseguendo nell'indagine teorica del concetto di professione, un'autore
fondamentale è Talcott Parsons, nel suo lavoro infatti ritroviamo le stesse
considerazioni che hanno ispirato la creazione degli ordini professionali italiani
negli venti del '900 (Cfr. cap. 3.1). È giusto premettere che i punti di contatto tra
questa analisi e quella di Weber sono molti, dato che il padre fondatore della
sociologia moderna aveva influito notevolmente sulla formazione di Parsons.
Riprenderemo questo punto dopo aver esposto il concetto di professione nella
teoria funzionalista parsonsiana.
Le professioni sono caratterizzate da alcune caratteristiche peculiari, anche se non
esclusive (Parsons; 1956). Semplificando, in funzione di chiarezza, se ne possono
individuare quattro fondamentali. La prima è “il possesso, da parte dei loro
membri, di una specifica conoscenza tecnica di alto livello”. Conoscenza che è
necessaria per accedere ad una professione regolamentata da un ordine
professionale o, anche quando quest’ultimo non sia istituzionalizzato, per farsi
accettare come professionista dalla comunità. L’istruzione professionale è in
generale universitaria e, in alcuni casi, completata da studi professionali specifici
gestiti dagli stessi ordini professionali.
Ai professionisti, dice Parsons, è richiesta una conoscenza funzionalmente
specifica, razionale e universale. Una conoscenza che fornisca gli strumenti per
scegliere il “modo migliore” o “più efficace” per risolvere un “caso” . Le scelte e
le azioni dei professionisti non devono essere mosse da tradizionalismo o
egoismo, né il rapporto con il paziente/cliente può essere “intimo” o soggettivo.
Da questa prima riflessione deriva la seconda caratteristica fondamentale delle
professioni: l’orientamento al servizio. L’agire dei professionisti non è normato
né da un pensiero egoistico, che viene tradizionalmente associato agli uomini
d’affari, né da un puro slancio altruistico, anche se a prima vista questo movente
sembra più appropriato all’agire professionale. Parsons contesta la semplice
distinzione tra uomini d’affari egoisti e professionisti altruistici, si tratta infatti di
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una divisione accettata per consuetudine ma che non regge in un'ottica funzionale.
Egli sottolinea che lo scopo dell’azione di un imprenditore e di un professionista è
in realtà il medesimo: il successo. Ciò che distingue le due figure sono le
situazioni in cui essi agiscono e quindi il contesto in cui entrambi cercano di
raggiungere il successo. Un mercanete-imprenditore che vorrà raggiungere il
successo si preoccuperà di incrementare le vendite, il guadagno personale e di
conseguenza la sua fama tra i commercianti. Mentre per un professionista
l’orientamento al servizio sarà la corretta direzione per giungere al successo. Sarà
l’orientamento al servizio che permetterà al professionista di aggiudicarsi la stima
del cliente, gli onori e i riconoscimenti dei colleghi.
La terza caratteristica fondamentale delle professioni è quella che Parsons chiama
“responsabilità fiduciaria”. Per responsabilità fiduciaria si intende un senso di
responsabilità che va oltre la difesa degli interessi di questo o quel cliente , un
senso di responsabilità che obbliga a rispondere delle proprie azioni direttamente
alla professione. In particolare, il professionista è responsabile della tutela del
patrimonio culturale che la professione custodisce ed è responsabile degli interessi
pubblici su cui la conservazione e lo sviluppo delle competenze professionali
hanno effetto. Un avvocato che difende un cliente accusato di omicidio è
certamente responsabile verso il proprio cliente, a cui dovrà garantire la miglior
difesa possibile, ma ancor prima è responsabile verso il diritto, che dovrà
rispettare e difendere, e verso gli interessi della società, che sarebbe danneggiata
dalla presenza di un assassino in libertà.
Infine, la quarta caratteristica fondamentale di una professione è la sua relativa
autonomia, che si manifesta nei privilegi economici e nelle libertà attinenti allo
specifico status giuridico del professionista. Questi elementi permettono ai
professionisti di godere di quella sicurezza e indipendenza necessarie per svolgere
i propri compiti senza incorrere nei rischi di corruttibilità economica o
condizionamento politico.
Le quattro caratteristiche peculiari delle professioni appena esposte, competenza
tecnica, orientamento al servizio, responsabilità e autonomia, si ergono sulle
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fondamenta della teoria weberiana. In particolare vi è una corrispondenza quasi
totale tra tre dei punti esaminati: la specializzazione weberiana diventa la più
“industriale” competenza tecnica, la responsabilità permane maggiormente
articolata nella responsabilità fiduciaria e la sicurezza economica è declinata nella
funzionale autonomia dei professionisti. Alcune sottili ma importanti differenze si
trovano nella seconda caratteristica esposta da entrambi gli autori: la passione
come dedizione appassionata alla causa e l'orientamento al servizio in funzione
del successo. Se nei fatti è evidente che si stia parlando quasi della stessa cosa,
nella sua definizione Weber pone maggiormente l'accento sull'individuo e sulla
sua vocazione allo scopo, mentre Parsons declina, coerentemente, il concetto in un
ottica funzionalista. Questa riflessione ci sarà utile successivamente quando, nella
nostra ricerca, ci chiederemo perché un giovane scelga il giornalismo come
professione.
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2 Capitalismo cognitivo: è cambiata la produzione, è cambiato illavoro
2.1 Accumulazione flessibile, lavoro autonomo di seconda generazione
Premesso che sono molti i punti da cui poter osservare e descrivere la società
post-industriale, in questo lavoro ci interessa capire quali siano le peculiarità del
organizzazione e definizione del lavoro nel capitalismo avanzato. Procediamo
dunque ripercorrendo le tappe principali del passaggio dalla produzione taylorista
a quella post-industriale in Italia (per evidenziare le differenze tra i due
paradigmi) e tracciando il profilo del lavoratore/professionista “tipo” che agisce in
questa nuova sfera produttiva, economica, sociale e spaziale scomposta eframmentata (Fumagalli 1997).
Negli anni '70 si assiste ad un calo della produttività industriale e alla saturazione
di alcuni mercati, in particolare per quei beni di consumo che avevano permesso il
boom economico del dopoguerra. Inizia quindi un processo di
deindustrializzazione, inteso come il superamento della rigidità strutturale del
modello fordista (prima fase di flessibilizzazione), che si prolunga fino al 1979 e
che vede il suo epicentro nel triangolo industriale Piemonte-Lombardia-Liguria.
In modo complementare fiorisce una rete di piccole imprese di fornitura e conto-
terzismo, innovative e dinamiche, che acquisiscono un ruolo importante un tempo
oscurato dalla grande industria integrata.
A partire dagli anni '80 inizia la seconda fase di flessibilizzazione dell'industria
italiana. Il sistema viene completamente ripensato: attraverso l'innovazione
tecnologica e l'esternalizzazione di alcuni processi produttivi si punta a progettare
fabbriche “snelle”. L'insieme delle piccole imprese da complementare diviene
elemento strutturale del nuovo processo produttivo industriale. Il nuovo modello
prevede una grande industria che mantiene solo alcune funzioni di controllo,
gestione e assemblaggio da cui si dirama una rete di piccole imprese che svolgono
frammenti di produzione in modo autonomo ma “interdipendenti tra loro lungo un
unico ciclo di produzione” (Fumagalli 1997: 141). Nel giro di pochi anni questa
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struttura tornerà ad essere fondamentalmente oligopolistica, infatti le piccole
imprese perderanno molta autonomia. Ma il sistema è ormai profondamente
cambiato. I lavoratori non appartengono ad una classe specifica ma sono inseriti
in un flusso di individualità lavorative autonome (svolte al di fuori della fabbrica)
o salariate (più tradizionali). Si tratta di un modello produttivo con bassi livelli di
conflittualità, che ruota attorno al paradigma dell'”accumulazione flessibile dal
punto di vista tecnologico, produttivo e organizzativo” (Fumagalli 1997: 137).
Vediamone velocemente i dettagli. Sul piano tecnico, gli strumenti della
“flessibilità tecnologica” (come il CAD nella progettazione) hanno permesso di
coniugare simultaneamente la produzione automatizzata e la differenziazione-
personalizzazione del prodotto. Sul piano produttivo, macroeconomico, si
riscontra innanzitutto l'invalidità del nesso produzione-occupazione, dato che
l'aumento della produzione è dato quasi interamente da innovazioni di processo:
si migliora il “come produrre” non si crea nuova occupazione. In secondo luogo
l'invalidità del nesso salario-produttività, come conseguenza del punto precedente.
Terzo l'ininfluenza della struttura dei consumi nazionali. Il guadagno non dipende
più dalla domanda di beni, ma dalle valutazioni finanziarie, è infatti la quotazione
del marchio che crea valore. Dal punto di vista organizzativo lo Stato (come
agente economico) ha perso ormai tutte le caratteristiche che possedeva nel
sistema fordista: “nel paradigma dell'accumulazione flessibile il welfare state non
ha più alcuna funzione specifica ma rappresenta solo una rigidità, e come tale,
deve essere abolito” (Fumagalli 1997: 139) .
In pratica siamo di fronte ad un sistema industriale costituito da una rete flessibile
di piccole imprese collegate ad una azienda principale (proprietaria del marchio)
che produce valore (finanziario) attraverso l' innovazione continua dei prodotti,
che sono sempre più flessibili e adattabili alle richieste del singolo cliente. È
cambiata la produzione, è cambiato il lavoro.
È innanzitutto evidente che il lavoro non si svolge più solo all'interno della
fabbrica: una parte della forza lavoro esce dalla fabbrica per diventare
indipendente, autonoma. E proprio l'analisi del lavoro autonomo di seconda
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generazione, come lo definisce Sergio Bologna, ci fornisce strumenti necessari
per comprendere la professione giornalistica oggi, che corrisponde sempre più ad
un lavoro freelance.
Sergio Bologna nel 1997 individua 10 variabili che caratterizzano il lavoro
autonomo specificatamente post-fordista.
CONTENUTO Se da un lato il contenuto del lavoro autonomo non è per
definizione diverso dal contenuto del lavoro salariato, dall'altro cambia per
l'assenza di prescrittività, la responsabilità dell'organizzazione è quindi del
lavoratore stesso. Ma ciò che differenzia in maniera sostanziale il lavoro
autonomo da quello salariato è il “contenuto di operazioni relazionali ecomunicative che esso richiede”(Bologna 1997: 15). È proprio questo lavoro
immateriale-relazionale che produce innovazione, reti e valore.
LA PERCEZIONE DELLO SPAZIO Mentre da un lato il lavoro non non è svolto
più solo sul posto di lavoro, dall'altro le attività svolte sul posto di lavoro non sono
esclusivamente lavorative in senso stretto. Sul posto di lavoro si trasferiscono
modi e attività appartenenti alla vita privata e il lavoro stesso si esercita in
contesti privati, apparentemente non lavorativi. In riferimento a ciò Bologna parladi domenstication del luogo di lavoro.
LA PERCEZIONE DEL TEMPO
“Si potrebbe dire che la differenza fondamentale tra lavoro salariato e lavoro
autonomo consiste nella diversa organizzazione del tempo”(Bologna 1997: 21)
Il lavoratore autonomo abbandona turni e cartellino. Inoltre il tempo del lavoro si
allunga e si intensifica a causa del fatto che la retribuzione non è più commisurata
a unità di tempo elementari, ma alla prestazione lavorativa finita entro il termine
di consegna. Inoltre dato che una parte del tempo lavorativo, forse la parte che
produce maggior valore, è dedicata ad attività socio-relazionali diventa sempre più
difficile distinguere il “tempo del lavoro” dal “tempo della vita”. La percezione
del tempo cambia nella valutazione del presente come nella progettazione del
futuro.
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LA FORMA DELLA RETRIBUZIONE Il salario è sostituito dalla fattura. Dato che
il salario garantiva la sussistenza minima al lavoratore, a questo principio
fondamentale si sostituisce un senso di rischio esistenziale.
IDENTITA' PROFESSIONALE
“L'identità professionale è la forma di riconoscimento del lavoro autonomo.
L'identità professionale sembra riassumere l'intero statuto sociale del lavoro
autonomo” (Bologna 1997: 27) .
Con l'affermazione del lavoro autonomo di seconda generazioni viene riaffermata
la professionalità in quanto attributo specifico di una persona, di un individuo. Le
conoscenze, le capacità messe al lavoro sono personali quindi assistiamo a “unaforte riaffermazione del ruolo della persona umana, dell'importanza delle singole
diversità individuali”. (Bologna 1997: 27). Come l'artigiano, il professionista
autonomo, apparentemente escluso dalla fabbrica, acquisisce uno status sociale
definito.
RISORSE NECESSARIE ALL'INGRESSO Le condizioni necessarie per
intraprendere una carriera lavorativa indipendente non sono affatto trascurabili: i.
una rete di conoscenze e relazioni personali, familiari e sociali, ii. il possesso diconoscenze specialistiche, iii. “forza-invenzione”, ossia la creatività e la capacità
di investire sulle proprie attitudini, anche caratteriali. Si tratta evidentemente di un
grosso investimento iniziale non accessibile a tutti.
RISORSE NECESSARIE AL MANTENIMENTO Queste risorse sono più difficili
da identificare e reperire di quelle necessarie all'ingresso. Il lavoratore
indipendente dovrà dedicare molte energie e ingegno per assicurarsi le risorse
necessarie alla continuazione del proprio lavoro, aspetto che non toccaminimamente il lavoratore salariato.
MERCATO Lo stato tipico del lavoratore autonomo è quello della permanenza sul
mercato, situazione a cui il lavoratore salariato si sottrae una volta ottenuto un
contratto di lavoro. Questa condizione è caratterizzata da una costante sensazione
di rischio e di “angoscia del vuoto”.
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ORGANIZZAZIONE E RAPPRESENTANZA DEGLI INTERESSI
I lavoratori autonomi, soli e sparsi nel territorio sono estranei alla rappresentanza
sindacale, né potrebbero mai aggregarsi sulle basi tipiche di quell'associazionismolavorativo, dato che il livello di conflittualità con il committente è, per
definizione, estremamente basso. L'unica forma aggregativa e di condivisione
degli interessi apparentemente possibile è quella delle cooperative o società di
mutuo soccorso.
CITTADINANZA Il lavoratore indipendente sentendosi escluso dalla struttura
sociale del lavoratore salariato si sente escluso dalla cittadinanza (intesa come
amministrazione e garanzia di diritti) e a seguito di ciò si rifugia nel locale(dimensione rassicurante e concreta) o nel globale (prospettiva su cui investire e
fare progetti).
I professionisti decritti da Bologna sono evidentemente diversi dai professionisti
“classici”. Alcune delle modificazioni subite dal lavoro nel capitalismo cognitivo
rischiano di mettere a dura prova le definizioni teoriche di Weber e Parsons. In
particolare la competenza tecnica specifica perde di importanza a fronte delle
capacità relazionali che costituiscono la parte produttiva del lavoro stesso. Lemodificazioni riguardanti l'identità professionale colpiscono una parte della
responsabilità fiduciaria, dato che era il rapporto con la professione e gli altri
professionisti a dettare i limiti consentiti e le norme etiche a cui attenersi. Infine,
ma non di minore importanza, risulta evidente che la perdita di sicurezza data
dall'assenza del salario, gli ingenti investimenti richiesti dalle risorse necessarie
all'ingresso e al mantenimento, e l'instabilità della permanenza sul mercato
condizionano fortemente l'autonomia del professionista, che è costretto adadattarsi di continuo al contesto per assicurarsi la sopravvivenza.
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2.1 Lavoro autonomo e settore editoriale, l'analisi di Cristina Morini
Cristina Morini ha condotto un'importante verifica del concetto di lavoro
autonomo di seconda generazione sul caso studio dell'editoria. Questa analisi parte dall'osservazione dell'andamento del settore stampa italiana. Negli anni '90
si assiste ad una profonda trasformazione dell'editoria italiana, la cui storia è
intrecciata nelle vicende dei maggiori gruppi editoriali del Paese. La direzione in
cui evolve il mercato dell'editoria è segnata da tre fattori: la perdita di fatturazione
a causa della contrazione delle vendite; la destrutturazione del settore in una rete
di micro imprese editoriali, che hanno normalmente vita brevissima e svolgono
attività di service; la concentrazione del valore in pochi grossi gruppi editoriali,internamente organizzati a “scatole cinesi”, ai vertici dei quali si alternano i soliti
nomi noti (dell'editoria e della politica). In pratica anche in questo settore la
flessibilizzazione e l'esternalizzazione delle mansioni hanno prodotto “filiere” che
si mantengono su un groviglio di piccole imprese spesso “costituite da un singolo
lavoratore, diventato imprenditore di se stesso” (Morini 1997: 271).
Il lavoro giornalistico è inevitabilmente cambiato: se da un lato non è possibile
tipizzare il “nuovo giornalista” dato che sul mercato del lavoro convivono casidifferenti (assunti, giornalisti pagati a pezzo, giornalisti pagati a ore, service,
cooperative etc.), dall'altro sono evidenti gli effetti che questo cambiamento ha
prodotto nel lavoro di tutti. Innanzitutto, si è assistito ad una riduzione delle figure
lavorative a favore della concentrazione delle mansioni su pochi addetti che
svolgono segmenti sempre più ampi della produzione giornalistica e non. In
secondo luogo la flessibilizzazione accettata (e subita) dai lavoratori esternalizzati
incide sui lavoratori salariati (interni) che per mantenere la loro posizione devono
dimostrare di possedere un simile livello di produttività e capacità d'adattamento.
In sostanza “lavora di più chi continua a stare all'interno del sistema che si trova a
dover far fronte a nuove mansioni e a una moltiplicazione di richieste, collegata
alla riduzione del numero degli addetti e degli investimenti” e allo stesso tempo
“lavora di più chi si trova all'esterno. Soprattutto per una questione di reddito, per
la necessità di muoversi sulla base dell'imperativo della disponibilità, per la
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rapidità dei tempi di consegna imposti dalla committenza” (Morini 1997: 281).
Non ci troviamo di fronte a una diminuzione della necessità di lavoro ma a una
sua modificazione. Il lavoro è organizzato su un “continuum di urgenza” a causa
del quale si lavora di più e si perde la distinzione completa tra tempo di vita e
tempo di lavoro. La redazione giornalistica, il luogo di confronto, cooperazione,
organizzazione del lavoro, perde sempre più di senso e il lavoro svolto al di fuori
di essa è ormai intrecciato con attività non lavorative quali: la cura degli affetti, il
consumo, il tempo libero etc. A ciò va aggiunto che l'informazione è ormai un
prodotto omologato, generato da poche fonti e rivenduto in diverse salse a più
clienti.
É ormai evidente come nel lavoro giornalistico atipico ciò che fa la differenza, ciò
che crea quel valore aggiunto che giustifica il compenso, sono le capacità
relazionali. Per il giornalista le capacità relazionali permettono di trovare e
mantenere un lavoro, per l'editore le capacità relazionali dei giornalisti
permetterebbero di innovare la produzione e il prodotto.
“Quello che emerge con forza è che un'impresa non è innovativa per il solo
fatto di investire in tecnologie avanzate. L'innovazione che merita di essere
realmente incentivata è quella che sviluppa il capitale cognitivo sociale, mentre,
al contrario, l'industria culturale attuale penalizza gli apporti delle singole
individualità e preferisce spostare una sorta si assurda “collettivizzazione” verso
il basso dei saperi consentita delle tecnologie” (Morini 1997:288).
Una parte consistente della riflessione di Morini si concentra proprio sulla perdita
dell'identità professionale dei lavoratori dell'editoria, in particolare per i lavoratori
della carta stampata. La riflessione su questo aspetto parte dalla registrazione di
una (apparente) contraddizione: in un lavoro strutturato secondo il paradigma
post-fordista come quello del giornalismo negli anni '90, vengono attuati
meccanismi tipicamente fordisti come l'abbattimento dei tempi di produzione, il
contenimento dei prezzi e l'aumento della produzione alle condizioni precedenti.
È evidente quanto queste scelte comportino una riduzione della qualità
dell'informazione e quanto la precarizzazione del lavoro giornalistico porti alla
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“svalorizzazione della professione” (Morini 1997: 291). Per chi ha scelto la strada
del giornalismo come professione gli effetti di questa modificazione sono
sostanziali: il ruolo del collaboratore è “massificato” e lentamente privato
dell'identità professionale a cui aspirava.
“Si genera una sfasatura tra le aspettative del lavoro concreto, che si credeva
direttamente collegato con un alto profilo professionale, con conseguente
riconoscimento del proprio sapere e della propria specializzazione, e la realtà a
cui le forze intellettuali vengono piegate” (Morini 1997: 284).
Questo studio svolto nella seconda metà degli anni novanta, dimostra
l'applicabilità della definizione di lavoro autonomo di seconda generazione al
caso dell'editoria e mette in luce alcune modificazioni del lavoro che, come
abbiamo giò detto (Cfr. cap. 2.1) incidono sull'idea del giornalismo come
professione.
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3 La professione giornalistica in Italia
3.1 Storia della professione giornalistica in Italia, le istituzioni e le norme
La diffusione dei primi giornali in Italia avvenne in sostanziale sincronia con gli
altri Paesi europei, a partire dal 1700 molte delle principali città degli Stati italiani
avevano una gazzetta locale. Inizialmente a svolgere il lavoro giornalistico erano
scrittori, uomini di cultura e scienza, prestati all'informazione e alla divulgazione.
Grazie all’eco della rivoluzione francese e al periodo Napoleonico, si diffuse il
giornalismo politico che affiancò il giornalismo “letterario” dei periodici culturali
o scientifici in circolazione. Dalla metà del 1800, nonostante la diffusione dei
giornali italiani rimanesse indietro rispetto a quella degli altri Stati europei, fiorì il
dibattito sulla funzione educatrice e sociale del giornalismo. (Murialdi 2006)
La vera “svolta” avvenne a fine secolo: nell’Italia unita vennero alla luce i primi
quotidiani moderni (per la maggior parte nati a Milano), aumentò il numero dei
lettori e la distribuzione venne notevolmente migliorata. Il giornalismo diventò
una professione definita e svolta a tempo pieno. Nel primo ‘900 vi erano una
decina di “giornali collettivi” (Murialdi 2006: 93), così definiti perché realizzati
da una nutrita e stabile redazione. Al critico letterario (spesso un collaboratore
esterno) si affiancava un esercito di cronisti cittadini, di “bianca”, “nera” o
giudiziaria, che svolgevano il mestiere strada per strada curando le proprie fonti.
Nel 1908 nacque la Federazione Nazionale della Stampa, associazione che aveva
come obbiettivo la tutela degli interessi della categoria dei giornalisti, che
ereditava l’esperienza di altre realtà di associazionismo locale nate già nei decenni
precedenti (Tartaglia 2008). La FNSI fu il primo organo ufficiale del giornalismo
italiano, per accedervi era necessario dimostrare di essere giornalisti
professionisti, dimostrare cioè l'esclusività dell'esercizio dell'attività giornalistica.
I primi obbiettivi dell’FNSI furono di carattere sindacale e riguardanti la “clausola
di coscienza”. Nel giro di alcuni anni si delineò la figura professionale e
contrattuale del giornalista professionista.
Un cambiamento sostanziale in merito all'organizzazione e svolgimento della
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professione avvenne sotto il regime fascista. Dopo un escalation di minacce più o
meno esplicite da parte del Duce si giunse nel 1925 alla nuova Legge sulla
Stampa che stringeva i giornali in una morsa liberticida. Col primo articolo si
creava la figura del direttore responsabile del giornale (persona facilmente
controllabile dal partito fascista) e all’articolo 7 veniva istituito l’Ordine dei
Giornalisti al quale era necessario essere iscritti per poter esercitare la professione
– in seguito ci si limiterà ad istituire un Albo dei Giornalisti gestito dal sindacato
fascista. Per essere iscritti all’albo era necessario ottenere dal prefetto un
certificato di “buona condotta politica”. L’impianto teorico che sottendeva alla
legge fascistissima era quel “senso altissimo di responsabilità” di cui aveva già
parlato Mussolini alla prima riunione dei giornalisti fascisti, e “la prevalenza della
libertà dello Stato su quella del cittadino” (Murialdi 2006: 136). Nel 1926 venne
chiusa la Federazione Nazionale della Stampa, ma come contropartita venne
aperto l’Inpgi Istituto Nazionale Previdenza dei Giornalisti. Come si è detto
l’Ordine dei Giornalisti, benché istituito, non venne mai reso operativo, al suo
posto nel 1928 fu creato un Albo. D’ora in avanti per poter svolgere la professione
era necessario essere iscritti ad uno dei tre elenchi dell’Albo: giornalisti
professionisti, giornalisti praticanti, giornalisti pubblicisti. L’iscrizione si otteneva
dimostrando di possedere un regolare contratto con un quotidiano
(successivamente con una radio o una televisione).
La resistenza al regime da parte dei giornalisti italiani in esilio, e non solo, fu forte
e fondamentale. Il 26 luglio 1943, il giorno dopo la destituzione di Mussolini dal
Gran Consiglio del fascismo, fu rifondata la Federazione Nazionale della Stampa.
Il programma della nuova associazione verteva su quattro punti fondamentali:
“riunire in un'unica organizzazione tutti i giornalisti italiani «non asserviti al
fascismo», promuovere la «restaurazione della libertà di stampa, che nelle libere
democrazie moderne è fondamento e presidio di ogni libertà e di ogni progresso
civile», ricostituire le associazioni regionali, impedire che i giornalisti coinvolti
con il fascismo «corrotto e corruttore» «cerchino di sopravvivere comunque nei
ranghi dell'autentico ed onorato giornalismo italiano»” (Tartaglia 2008).
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Nel 1946 ci fu il primo congresso della nuova FNSI, in cui si svolse un fertile
dibattito. Nel 1948 la Costituzione della Repubblica Italiana sancì la libertà di
stampa con il fondamentale articolo 21, riguardante la libertà di espressione e la
specifica libertà di stampa.
L' 8 febbraio 1948 fu approvata la legge n. 47 (detta legge fondamentale sulla
stampa) tuttora in vigore, che garantisce libertà ai giornali, che per esistere devono
essere semplicemente registrati presso il tribunale, prescrive l'obbligo del direttore
responsabile, regolamenta il diritto di rettifica e il reato di diffamazione. In
quell'occasione l'assemblea legislativa aveva discusso a lungo anche
dell'opportunità di un Ordine dell'attività professionale, proposta che suscitò
un'iniziale diffidenza per il richiamo al recente passato. Il fascismo era stato
superato nei principi ma, come in molte altre istituzioni del Paese, la sua impronta
burocratica persisteva ormai normalizzata. Si pensava che un Ordine che
regolamentasse l'accesso alla professione fosse l'unico modo per salvaguardare il
lavoro e l'integrità etica e deontologica dei giornalisti.
Alla fine, la legge istitutiva dell'Ordine Nazionale dei Giornalisti fu approvata nel
1963: legge 3 febbraio 1963, n. 169.ART. 1 ORDINE DEI GIORNALISTI
È istituito l'Ordine dei giornalisti. Ad esso appartengono i giornalisti
professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell'Albo. Sono
professionisti coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la
professione di giornalista. Sono pubblicisti coloro che svolgono attività
giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o
impieghi. Le funzioni relative alla tenuta dell'Albo, e quelle relative alla
disciplina degli iscritti, sono esercitate, per ciascuna regione o gruppo di regioni
da determinarsi nel Regolamento, da un Consiglio dell'Ordine, secondo le norme
della presente legge. Tanto gli Ordini regionali e interregionali, quanto l'Ordine
nazionale, ciascuno nei limiti della propria competenza, sono persone giuridiche
di diritto pubblico.
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La legge del '63 fornisce l'unica “definizione ufficiale” di giornalista
professionista: il professionista è colui che svolge l'attività giornalistica in modo
esclusivo e a tempo pieno, deve essere dunque iscritto all'albo dei professionisti. È
inoltre istituito un albo dei pubblicisti ed alcuni albi speciali (tra cui quello dei
praticanti). Per potersi iscrivere all'albo dei professionisti è necessario avere la
cittadinanza italiana, aver compiuto i 21 anni di età, aver superato l'esame
d'idoneità professionale e non avere condanne penali che comportino
l'interdizione dai pubblici uffici. Inoltre per essere ammessi all'esame di idoneità è
necessario aver svolto un periodo di praticantato di 18 mesi presso una redazione
(praticantato contrattualizzato o riconosciuto d'ufficio ex post) o, in alternativa,
aver svolto un corso biennale presso una scuola riconosciuta dall'Ordine (a cui,
oggi, si può accedere dopo aver conseguito un diploma di laurea triennale). Dal
2008 è stata approvata dal Consiglio Nazionale dell'Ordine dei giornalisti una
proposta di riforma della legge 69/1963, che prevedrebbe, tra le altre cose,
“irrigidimento” dell'accesso alla professione attraverso l'indispensabile carriera
universitaria.
Dall'iscrizione all'Ordine derivano per i giornalisti una serie di diritti e doveri (art.
2) come il diritto alla “libertà di informazione e critica” e l'obbligo al “rispetto
della verità sostanziale dei fatti” e l'assoggettamento ai poteri disciplinari
dell'Ordine. Infatti, l'Ordine ha il compito di regolare l'accesso alla professione e
vigilare sul rispetto da parte degli iscritti delle norme di deontologia professionale.
Le norme deontologiche e comportamentali sono raccolte in una serie di
protocolli firmati dall'Ordine: la Carta informazione e pubblicità, la Carta di
Treviso, la Carta dei doveri del giornalista, la Carta informazione e sondaggi, il
Codice deontologico e la Carta dei doveri dell'informazione economica. I
giornalisti che non rispettino le norme professionali incorrono in sanzioni
disciplinari, che vanno dall'avvertimento alla radiazione dall'albo. L'ordine dei
giornalisti funziona quindi come una sorta di “tribunale” a tutela dell'informazione
e dei propri membri.
Al fianco, e storicamente a supporto, dell'Ordine dei Giornalisti vi è la
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Federazione Nazionale della Stampa, che dal '43 ad oggi ha svolto un ruolo
fondamentale nella definizione delle condizioni contrattuali della professione,
difendendone i diritti sindacali di fronte alla Federazione Italiana Editori Giornali
(nata nel 1950 dalla fusione dell'Associazione degli editori dell'alta Italia e
l'Unione Nazionale Editori ). Il Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico è il
più alto risultato di questa attività. L'attuale Contratto Nazionale, firmato a Roma
26 marzo 2009 tra FNSI e FIEG rimarrà in vigore fino al 2013.
Il principi del Contratto Nazionale si trovano nel suo primo articolo e sono
essenziali per delineare i contorni dell'attività giornalistica propriamente detta.
Innanzitutto l'accordo richiama, citandola, la legge n.69/1963. In questo modo
viene espressa la funzione complessiva del Contratto stesso: regolare i rapporti
economici tra giornalisti ed editori al fine di garantire la piena autonomia
professionale e la salvaguardia della libertà d'informazione e critica. In secondo
luogo, l'art. 1 indica tre requisiti (due oggettivi e uno soggettivo) necessari per
l'applicabilità del contratto stesso. Il primo requisito oggettivo è la presenza di
un'attività di tipo giornalistica, che deve avere carattere di continuità e deve essere
svolta sotto il vincolo della dipendenza. Il secondo requisito oggettivo è che il
datore di lavoro sia un editore. Infine il terzo requisito, quest'ultimo soggettivo, è
che il lavoratore sia un giornalista professionista (iscritto all'Albo) e al contempo
subordinato. In sostanza il Contratto Nazionale si applica ai giornalisti
professionisti, iscritti all'Albo, che svolgono un attività giornalistica continuativa
in condizione di subordinazione e alle dipendenze di un editore. È fin da subito
evidente che non tutte le attività giornalistiche quotidianamente svolte da molti
professionisti rientrano in questa definizione. Sono esclusi dalla regolamentazione
del Contratto Nazionale tutti i giornalisti che conducono la professione in modo
autonomo. Il principio di questa esclusione si basa sull'assunto secondo cui chi
sceglie la strada dell'autonomia professionale abbia sufficiente potere contrattuale
per ottenere un trattamento giusto e dignitoso. La stessa FNSI ha riconosciuto
l'irrealtà di questa considerazione e già dal 1995 aveva posto il problema alla
FIEG. Da quel confronto era nato nel 2001 l'Accordo sul lavoro autonomo, che
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dovrebbe tutelare maggiormente questo segmento di mercato vincolando la
remunerazione al principio costituzionale di proporzionalità della retribuzione del
lavoro autonomo (art. 36 Cost.). Nei fatti però l'Accordo non ha funzione
vincolante e non ha quindi prodotto effetti sostanziali (Chiuso&Borali 2010). È
importante ora fare una precisazione: il Contratto Nazionale, all'art.2 sancisce
l'obbligo di applicazione della normativa anche al collaboratore fisso, che
nonostante non abbia vincoli di presenza in redazione e di orario, è comunque a
tutti gli effetti un lavoratore dipendente.
La professione giornalistica descritta attraverso queste norme appare molto simile
a quella descritta da Talcott Parsons nel 1939: per accedervi è richiesta una
competenza specifica che si dovrebbe acquisire nei due anni di praticantato o alla
scuola di giornalismo, il giornalista agire con spirito di servizio nei confronti
dell'informazione e sarà responsabile delle sue azioni di fronte all'Ordine dei
Giornalisti. Infine il Contratto Nazionale assicura ai giornalisti dipendenti la
stabilità economica e le libertà necessarie per svolgere al meglio la propria
professione.
A questo punto però sorge spontanea una domanda: il lavoro giornalistico nei fattirispecchia il ritratto che ne danno norme e accordi?
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3.2 La professione nei fatti e nei numeri
Nonostante l'accesso alla professione sia mediato da norme, condizioni e per i
professionisti anche un test d'idoneità, in Italia attualmente vi sono più di 110.000giornalisti iscritti agli albi professionali, per l'esattezza 23.044 professionisti ,
1.610 praticanti 63.331 pubblicisti (dati forniti dall'Ordine dei Giornalisti, dati
aggiornati al 30/09/2010). Si tratta di una cifra enorme che, considerando il trend
degli ultimi anni, è destinata ad aumentare. Prendendo ad esempio il solo Albo dei
professionisti ogni anno si iscrivono all'esame di Stato mille e più persone e 700-
800 di loro supereranno la prova, mentre sull'altro fronte 300 professionisti
all'anno vanno in pensione (Voltolina 2010). In sostanza, per ogni posto “che silibera” accedono alla professione più di due persone.
Abbiamo già visto quali sono le condizioni necessarie per poter diventare
giornalista professionista: 21 anni, cittadinanza, praticantato, test d'idoneità. Ma
quanto costa intraprendere questa strada? Il contratto di praticantato è ormai un
miraggio per quasi tutti coloro che intraprendono questa carriera, infatti solo il
10% di coloro che accedono all'esame d'idoneità ha svolto un regolare praticantato
presso una redazione. Il 70% degli aspiranti giornalisti accede al test attraverso il praticantato d'ufficio, cioè il praticantato riconosciuto ex post dall'Ordine. La
Repubblica degli Stagisti ha ribattezzato questa possibilità “praticantato di serie
C” in quanto appare evidente che non si è difronte ad un percorso di formazione
strutturato e finalizzato all'inserimento professionale come il concetto originario
di praticantato pretenderebbe. La conoscenza tecnica specifica sarà comunque
garantita? Tornando ai dati, il restante 20% dei candidati accede all'esame dopo
aver frequentato una scuola di giornalismo. È questa l'unica strada possibile per
coloro che non abbiano una rete di relazioni che gli permetta di accedere
direttamente ad una redazione. Attualmente in Italia vi sono 16 scuole di
giornalismo riconosciute dall'Ordine. In tutte il percorso formativo ha durata
biennale a frequenza obbligatoria, vi si accede dopo aver conseguito una laurea di
I livello e superando una selezione. I costi d'iscrizione variano da scuola a scuola,
ma sono paragonabili ad un master universitario. Prendendo il caso delle quattro
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scuole milanesi (Master Biennale in Giornalismo Università Cattolica Sacro
Cuore, Master Biennale della Scuola di Giornalismo dell'Università degli Studi di
Milano, Master Biennale di Giornalismo Università IULM, Master Biennale della
Scuola di Giornalismo Walter Tobagi dell'Università degli Studi di Milano) il
costo medio è di 10.875 euro, a cui si potrebbero aggiungere le spese di
trasferimento per gli studenti che abitano fuori zona. L'accesso tramite scuola di
giornalismo è dunque una strada ad accesso economico ed è evidente che non tutti
possano intraprenderla.
In conclusione chi decide di accedere a questa professione è costretto a fare un
investimento iniziale notevole.
Tornando al numero dei giornalisti in Italia, di per sé l'allargamento degli iscritti
all'Ordine non costituisce né un problema né una stranezza, l'elemento che pone
qualche criticità è lo “stato di salute” della stampa Italiana negli ultimi anni.
Nel 2009 il settore dell'editoria ha affrontato un periodo di fortissima crisi,
caratterizzato da una flessione negativa dei ricavi su quotidiani e periodici intorno
al 14,3%, causata della diminuzione degli introiti pubblicitari (fattore che ha
colpito soprattutto i media più tradizionali) e il calo delle vendite. Nel 2010 per recuperare parte delle perdite una delle strategie di compensazione attuate dagli
editori è stato il contenimento dei costi, primo tra tutti il costo del personale (che
nei quotidiani si è abbassato del 9,5%). Molti gruppi editoriali hanno dichiarato lo
stato di crisi, bloccato le assunzioni e ogni altra forma d'inserimento, compresi gli
stage delle scuole di giornalismo.
L'unico settore che ha osservato un trend positivo è stato quello dell'informazione
on line (per lo più gratuita): il numero degli utenti è cresciuto del 37%.
Riassumendo con le parole usate dalla FIEG nella relazione sulla Stampa in Italia
2008-2010:
I problemi chiave con i quali deve confrontarsi l’editoria giornalistica sono
sostanzialmente legati ad un mercato che non si espande sufficientemente nelle
sue due tradizionali componenti – vendite delle copie e di spazi pubblicitari – ed
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all’esigenza di individuare nuove linee di crescita dei ricavi.
In questo contesto il lavoro autonomo diventa una prospettiva molto conveniente
per gli editori, che non devono applicare le condizioni del Contratto Nazionale evedono nelle esternalizzazioni una strategia di riduzione dei costi, e l'unica via
percorribile per i tanti giornalisti che tentano di sopravvivere in un mercato del
lavoro fortemente bloccato. Come abbiamo già visto non vi sono contratti o
accordi nazionali che regolamentino il lavoro giornalistico autonomo e, allo stesso
modo, non ci sono valori ufficiali sulla dimensione di questo segmento di
mercato.
Quali solo le reali condizioni del lavoro autonomo giornalistico in Italia? Da unostudio dal titolo “Professionisti: a quali condizioni” pubblicato nell'aprile 2011
dall'Istituto Ricerche Economiche e Sociali emergono dei dati interessanti anche
per quanto riguarda la professione giornalistica. Rispetto alla competenza tecnica
e il contenuto del proprio lavoro, il 26,9% degli intervistati dichiara di essere
costretto a svolgere spesso o quasi sempre compiti che non hanno a che vedere
con la propria professione. Inoltre il 63% degli intervistati sostiene di aver scelto
il lavoro autonomo “Perché è l'unico modo di lavorare in questo mercato” e non
per libera scelta. I giornalisti autonomi lavorano una media di 8,4 ore al giorno per
circa 9,5 mesi l'anno, chiaramente alternando lavoro e brevi periodi di
disoccupazione. Il 49,6% degli intervistati fa molta fatica a conciliare i tempi di
lavoro con i carichi famigliari. Il 59,6% dei giornalisti autonomi nel 2009 ha
percepito meno di 15000 euro lordi e il 72,2% dichiara di avere una possibilità
pessima o insufficiente di riuscire a contrattare le proprie condizioni di lavoro. In
sostanza l'autonomia dei giornalisti indietreggia rispetto allo strapotere dei
committenti. Per finire, nonostante siano avvertiti alcuni vantaggi rispetto alle
condizioni dei colleghi dipendenti (più autonomia e orario più flessibile) la
percezione degli svantaggi è molto elevata: i giornalisti autonomi ritengono di avere
minori tutele, un peggiore trattamento economico, più oneri fiscali e un minore
riconoscimento professionale.
A questo punto, confrontando questi dati con il paradigma teorico presentato nel
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primo capitolo, possiamo concludere con sicurezza che i cambiamenti avvenuti nel
lavoro giornalistico hanno fortemente eroso uno dei quattro pilastri su cui si reggeva
la professione: l'autonomia. Inoltre, in base alle tesi sul lavoro autonomo di seconda
generazione (Cfr. Cap. 2.1) è possibile ipotizzare che anche la competenza tecnica e
la responsabilità fiduciaria siano state danneggiate o modificate.
Per verificare queste ipotesi si è condotta la ricerca empirica che sarà esposta nel
prossimo capitolo.
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4 Caso studio
4.1 Premesse metodologiche
La ricerca qualitativa alla base di questo elaborato è stata svolta coinvolgendo
giovani giornalisti professionisti di Milano. Più specificatamente si è deciso di
intervistare 9 persone di età compresa tra i 22 e i 30 anni che avessero scelto il
giornalismo come professione. Per essere sicuri che i soggetti individuati avessero
scelto consciamente questa strada si è ritenuto opportuno limitare il campione a
persone che avessero frequentato (o stessero frequentando) una scuola di
giornalismo riconosciuta dall'Ordine dei Giornalisti: è infatti evidente che questa
via d'accesso alla professione richiede un investimento e una determinazione
sufficienti a dimostrare la volontà di una scelta così importante.
Coerentemente, il limite inferiore della fascia d'età scelta è stato posto in relazione
al fatto che per poter accedere ad una scuola di giornalismo è necessario aver
conseguito almeno una laurea di primo livello, che richiede un periodo di
formazione di 3 anni. Il limite superiore invece, 30 anni, è stato individuato
nell'ottica di creare un campione “generazionale”.
La ricerca è stata svolta a Milano. Gli intervistati sono giovani che hanno
intrapreso la carriera giornalistica tramite l'iscrizione a una della quattro scuole di
giornalismo della città. Individuati limiti del campione si è cercato di garantire
una certa completezza dei risultati prestando attenzione alla distribuzione
all'interno della fascia d'età e cercando di individuare persone con percorsi
lavorativi differenti l'una dall'altra. Due intervistati stanno attualmente
frequentando una scuola di giornalismo, sono dunque praticanti e aspiranti
professionisti, quattro sono giornalisti professionisti da 1-2 anni e tre da più di 3
anni.
Gli intervistati sono stati contattati attingendo inizialmente alle conoscenze
personali e successivamente attraverso i network degli stessi intervistati.
L'indagine si è svolta attraverso interviste semi-strutturate che avevano come
obbiettivo quello di comprendere che cosa significhi oggi scegliere il giornalismo
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come professione. Le interviste, della durata massima di due ore, sono state
condotte seguendo una traccia che ripercorreva la carriera professionale dalle
prime esperienze alle prospettive future di breve termine (Cfr. Appendice 1). Le
interviste sono state fatte nell'arco di due mesi e sicuramente le risposte emerse
nelle prime tre hanno influenzato le tracce sulle quali si sono strutturate le altre. In
sostanza si è ristretto il campo d'indagine a quegli aspetti che si ritenevano più
significativi ed interessanti. Il lavoro di raccolta delle informazioni ha permesso
di acquisire molto materiale da cui emergono infiniti spunti d'approfondimento
che, per ragioni di spazio, non sono stati trattati in questa sede e che
meriterebbero un'analisi più approfondita in futuro.
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4.2 Quando e perché hai scelto questa professione?
Tutte le interviste si sono aperte con la domanda: “ti ricordi quando hai scelto di
fare il giornalista?” Si sono registrate due tipi di risposte. La maggior parte deigiornalisti dichiara di aver vissuto una sorta di “colpo di fulmine” durante
l'adolescenza, leggendo un libro, un articolo di giornale o semplicemente perché
amava scrivere. Qualcun altro invece dichiara di non aver mai compiuto una vera
e propria scelta: la professione è arrivata da sé, spontaneamente, come logica
conseguenza delle inclinazioni personali. Il comune denominatore di queste
risposte è l'idea che la professione giornalistica sia una cosa che “ti senti dentro”,
qualcosa di te che puoi esprimere anche nel lavoro. Tutti ammettono che daragazzi avevano un'idea molto romantica della professione, possedevano la
raffigurazione di un'idea che tratta da film, libri e racconti.
“Ho deciso che nella vita avrei fatto la giornalista quando andavo al liceo con il
giornalino della scuola, verso i 17 anni. Mi piaceva il giornalismo per il fatto di
poter raccontare storie, sai come nei film: le relazioni, la vita caotica… Avevo
un’idea da ragazzina del lavoro da giornalista. Allora pensavo che ad un
giornalista servisse saper scrivere, io adoravo scrivere. Credevo che fare il
giornalista fosse saper scrivere e voler scrivere.” [1]
“La mia professione è venuta naturalmente, ho studiato scienze della
comunicazione e poi ho fatto la scuola di giornalismo. […] Ciò che mi
appassionava della carriera giornalistica era l’idea di scrivere, io ho sempre
pensato di lavorare scrivendo, ma dato che fare lo scrittore mi sembrava una
carriera meno praticabile ho deciso di fare il giornalista. E poi c’era anche
un’idea romantica dietro.” [2]
“La decisione definitiva l'ho presa a 17 anni. Ne avevo un'idea ideale, il
giornalista è uno che va in giro, incontra le persone, racconta.. Il giornalista è
una persona che guarda il mondo e lo racconta a milioni di persone. Quando ho
deciso che avrei fatto questo lavoro ne avevo un'idea idealistica, romantica.” [3]
“Un parente per aiutarmi a superare un grosso periodo di crisi mi ha detto: “ma
ti ricordi che da piccolo scrivevi bene e dicevi che volevi fare il giornalista?
Iscriviti ai test delle scuole di giornalismo!”. L'ho fatto, è stato orribile, pensavo
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di aver fatto schifo... Insomma ho fatto il test senza interesse. […] Se non avessi
passato il test non ho la minima idea di cosa avrei fatto. Ma la sicurezza della
mia strada è arrivata con la prima esperienza lavorativa. Il mio primo stage è
stato prosso un importante quotidiano nazionale. Ed è stato un grande amore,
proprio un grande amore!” [4]
“Ho deciso di fare la giornalista alle elementari! Sì proprio così, ho letto un
libro che parlava della storia di una ragazza che indagava sulle vite delle
persone... e insomma io volevo fare quello e il modo migliore per farlo era fare
la giornalista!” [5]
“Io ho deciso alle medie, leggevo il giornale, ho iniziato a leggere una raccolta
di articoli di Montanelli, e mi è piaciuta l'idea di poter fare questo lavoro. Mi
ispirava il lavoro del giornalista, come quando un dice vorrei far la ballerina, io
volevo fare la giornalista, anche per l'idea romanzata del mestiere.” [6]
“Quando ho scelto questo lavoro, ho fatto anche una scelta valoriale. Io ritenevo
consono al il mio carattere, alle mie inclinazioni. Quindi allineato a tutta una
serie di valori che io avrei seguito con piacere e con una certa inclinazione.” [7]
“Non so se ho fatto una scelta, non mi vedevo in banca, non mi vedevo
ingegnere, non avvocato, non commercialista… io mi vedo giornalista, questo è
quello che amo fare, sono i miei interessi, io mi rifletto nella professione per quello che sono.” [8]
Proseguendo nelle interviste risulta per tutti evidente che la professione nei fatti
non è così romantica come se l'aspettavano, ma la motivazione e l'attaccamento a
quell'idea passionale del giornalismo non sembra diminuire.
Soprattutto tra le femmine c'è chi si da delle scadenze: termini entro cui cercare di
raggiungere e verificare i propri obbiettivi. Ma in generale nessuno ha
concretamente studiato un “piano B” una reale alternativa alla propria professione.
“Posso dirti che la professione giornalistica non è come me la immaginavo, mi
immaginavo di andare in giro, cercare notizie… è molto meno di questo. Però io
voglio sperare che le cose cambino. Da quello che ho capito questa situazione è
così adesso. Io voglio sperare che sia solo un momento di crisi, e che un domani
la professione torni ad essere quello che pensavo che fosse. Io continua a
crederci.”[1]
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“Io adesso voglio fare il giornalista perché è divertente, perché lo so fare, si
adatta bene a quello che sono oggi, e perché si adatta bene alle mie
caratteristiche, soprattutto alimenta la mia curiosità. Non ho motivo per voler
cambiare strada.” [4]
Indagando invece il perché si scelga di fare i giornalisti, quali siano le motivazioni
importanti che portano a impegnarsi in questa professione a tempo pieno e in
modo esclusivo, sono emersi risultati quasi inaspettati. Infatti solo tre persone
hanno dichiarato essere spinte dallo “spirito di servizio” che il diritto
all'informazione richiede, chi ha dato questa risposta svolge il proprio lavoro
credendo nell'importanza dell'informazione e nella funzione sociale e politica del
giornalismo. Le rimanenti sei persone hanno invece addotto motivazioni più
emozionali, più legate all'espressione delle proprie inclinazioni e alla
realizzazione di sé. Nessuno degli intervistati si è soffermato su ragioni di
carattere economico, dato che nessuno immagina di potersi arricchire o avere una
posizione stabile a breve-medio termine.
“La mia scelta è stata da sempre lavorare in una struttura che stimo, dove si
faccia informazione e dove io possa crescere. È importante ciò di cui parlo e,
altrettanto, la testata per cui lavoro. Per me sono più importanti queste coserispetto ai soldi, o almeno lo sono nella maggior parte dei casi.” [7]
“Chiariamo: non ho nessuna capacità filantropica, non faccio giornalismo
perché è una cosa utile, non lo faccio per l'informazione in se. L'ethos del
giornalismo non mi piace, mi sembra ipocrita, non credo che si faccia per gli
altri o per una missione filantropica, credo che dietro a questa passione ci sia in
realtà una grande vanità... e non ammetterlo non va bene.” [4]
Un'importante riflessione conclusiva va fatta sul linguaggio usato dai giovani
giornalisti per parlare della propria professione. Tutti gli intervistati hanno usato
molti vocaboli attinenti alla sfera emozionale, in particolare ricorrono parole
come: amore, sentimento, passione, fiducia, credere, odiare, frustrazione,
consolare, piacere.
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4.3 Cosa hai fatto per intraprendere questo percorso?
Tutti gli intervistati hanno investito molto per poter diventare giornalisti.
Innanzitutto, hanno seguito una carriera di studi precisa, in materie sociali eumanistiche, che si è conclusa con un master biennale in giornalismo riconosciuto
dall'Ordine dei giornalisti. In secondo luogo, otto persone su nove hanno iniziato
le prime esperienze lavorative già durante gli studi. Molti di loro avrebbero
preferito accedere alla professione attraverso un praticantato in redazione, strada
che dopo le prime esperienze è apparsa impercorribile.
“Tutti mi hanno sempre detto che era dura, che la professione era in crisi... ma io
mi sono sempre detta che ero brava. Che avrebbe rinunciato qualcun altro al posto mio. Ho investito tanto in questa scelta. Già a 17 anni ho iniziato a
mandare i curriculum. Poi per caso ho conosciuto un giornalista e tramite lui
sono entrata come collaboratrice in un giornale locale. Poi all'università ho fatto
lo stage in un giornale. Poi da lì ho continuato a lavorare. Pensavo che se volevo
fare la giornalista era necessario iniziare subito. Sapevo che c'era una lunga
gavetta, quindi dovevo iniziare subito. Inoltre io avevo visto fin da subito le
scuole di giornalismo e ho fatto in modo di prepararmi in tutti i 3 anni di
università per poter entrare in una scuola: ho fatto tutti i corsi e seminari sul
giornalismo che c'erano, sono stata all'estero per 9 mesi per l'inglese. Sapevo di
essere la più giovane, volevo cercare di avere comunque qualche carta in
più.”[3]
“Io ho investito molto per diventare una giornalista. In primo luogo si tratta di un
grande compromesso economico. La scuola di giornalismo è una strada ad
accesso economico, nel senso che non possono farla tutti. Inoltre se non sei di
Milano/Roma devi sostenere anche le spese di un trasferimento. Oltretutto nei
due anni della scuola hai la frequenza a tempo pieno e dunque è quasiimpossibile lavorare se non piccole collaborazioni che non ti permettono di certo
di mantenerti. Quindi è un compromesso importante. Certo si può dire: beh è
come fare un master. Vero. Ma bisogna valutarlo. Soprattutto per tutti coloro che
scelgono di fare la scuola di giornalismo come ultima chance prima di mollare
questo lavoro. Un altro compromesso per me è stato dover lasciare la mia terra,
la mia famiglia. E un altro compromesso è sapere che ora per qualche anno non
posso andare via da Milano, perché qui ho le maggiori prospettive ora. E per me
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questo è un grosso compromesso, perché se fosse per me non starei qui, in
questa città. E poi, si è trattato anche di un grosso compromesso in serenità e
salute fisica. Lo sforzo, il lavoro, le poche ore di sonno, questi anni li ho sentiti
pesanti. Però ora per raggiungere il mio obbiettivo so di dover fare questi
compromessi.”[7]
“Per fare il giornalista a tutti gli effetti però ho dovuto fare tantissimo. Mi sono
dovuto riscrivere, totalmente. L'investimento è stato tutto interno, una
riprogrammazione di valori obbiettivi stili di vita. Io prima ero uno che cercava
scorciatoie, che non voleva faticare. Facendo il giornalista ho imparato che è
molto importante amare ciò che fai e dove lo fai.” [4]
Si può concludere quindi che chi sceglie di intraprendere questa carriera professionale deve affrontare un grosso investimento iniziale, non solo economico
economico. Il livello di determinazione in chi decide di diventare giornalista
professionista è dunque molto elevato.
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4.4 Quali sono le capacità richieste per svolgere al meglio questolavoro?
Una delle cose più inaspettate che sono emerse dalle interviste riguarda le capacità
richieste al giornalista professionista. Nonostante tutti gli intervistati abbiano
dedicato molto del loro tempo alla formazione, la scrittura, le lingue straniere, gli
studi sociali, nessuno di loro ha posto le conoscenze specifiche “classiche” del
giornalismo come un elemento essenziale per svolgere questa professione.
Gli intervistati ritengono di aver bisogno di altri tipi di conoscenze.
Per prima cosa, risultano essere fondamentali le capacità personali e caratteriali:
spigliatezza, curiosità, saper ascoltare, fiducia, creatività. Tutti gli intervistati sonocoscienti che con questi “strumenti” si crea il vero valore aggiunto della loro
prestazione. Chi possiede e allena queste doti avrà maggior successo di chi sa
scrivere bene o sa verificare più attentamente le fonti.
In secondo luogo, tutti hanno sottolineato l'importanza di saper padroneggiare i
mezzi tecnici, un tempo strumenti degli operatori, montatori e grafici, come
telecamere, software specifici, strumenti di web editing. Infine è necessario
affinare quelle capacità d'adattamento e disponibilità alla flessibilità proprie delle prime esperienze lavorative, capacità che da tattiche di sopravvivenza potrebbero
diventare utili strategie per trovare e mantenere il lavoro.
“Una delle cose fondamentali per lavorare da giornalista free lance, secondo me
è guadagnarsi la fiducia da parte della redazione, perché se non si fidano di te,
non si fidano del tuo lavoro non ti richiameranno mai. Quindi devi essere, sì in
grado di proporre, ma devi essere anche in grado di guadagnarti la loro
fiducia.”[9]
“Le cose tecniche, la lingua straniera, saper scrivere un pezzo, queste cose
sapevo farle. Ho dovuto sviluppare più caratteristiche relazionali, che secondo
me sono una parte fondamentale del lavoro del giornalista. Giornalista è diverso
da scrivere bene, ma devi mettere in gioco tante caratteristiche personali. Sapersi
relazionale, è fondamentale saper ascoltare, avere senso critico, spigliatezza.
Insomma, solo una piccola parte dell’essere giornalista è la scrittura, anche
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perché se no uno farebbe lo scrittore. Anche il fatto di essere svegli. Cioè se tu
sei sveglio e scrivi un po’ malino non ti preoccupare che fai pezzo di apertura
molto prima magari di uno che scrive da dio e però non coglie magari qual è la
notizia, cos’è la cosa da mettere in apertura, cos’è la cosa che ti può titolare il
pezzo.” [7]
“Io per essere un bravo freelance devo essere iper-flessibile, devo sapere
adattarmi a tutto, ma allo stesso tempo quando mi propongo devo propormi per
competenze specifiche. Devo sapermi rappresentare.” [7]
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4.5 Il lavoro nei fatti e le prospettive
Su nove persone intervistate otto non sono contrattualizzate presso un editore.
L'unica giornalista dipendente ha ottenuto il contratto attraverso il superamento diun concorso pubblico, prima di quest'occasione lavorava come freelance o
stagista. I giornali, le televisioni, le agenzie aggirano i contratti proponendo ai
giornalisti rapporti di lavoro autonomo (freelance), stage a volte non retribuiti o
condizioni di lavoro “abusivo”. In sostanza la quasi totalità degli intervistati non
può godere delle condizioni lavorative assicurate dal Contratto Nazionale, sia per
quanto concerne le mansioni svolte che per la remunerazione.
Ogni giornalista ha un percorso e una storia lavorativa diversa dall'altro, ma nelleinterviste si ritrovano alcune caratteristiche che potremmo definire costanti della
professione giornalistica nel 2011, caratteristiche ormai accettate dagli stessi
giornalisti.
La prima costante del lavoro giornalistico è che si svolgono sempre più compiti
non giornalistici. Sei intervistati hanno svolto o svolgono con continuità lavori
non giornalistici che contribuiscono almeno al 50% delle loro entrate economiche.
Da un lato sono gli stessi lavoratori a valutare la possibilità di svolgere lavoridiversi, cessando quindi di essere giornalisti a tempo pieno, nonostante siano
professionisti iscritti all'Albo. Dall'altro il lavoro giornalistico in sé è cambiato:
include oggi attività nuove come il montaggio video e l'impaginazione, un tempo
affidate ai tecnici e ai grafici. E ancora, è la stessa condizione di lavoratore
autonomo che obbliga i giornalisti a preoccuparsi di aspetti legati
all'amministrazione, l'organizzazione e la pianificazione del lavoro.
“Non escludo di fare anche un secondo lavoro. Non il pizzaiolo, ma altri lavori
come ufficio stampa, copy per la pubblicità. Se avessi l’opportunità credo che
non esiterei a farlo. Non so se posso, parlo delle norme dell’Ordine, se posso
ufficialmente fare anche un secondo lavoro. Ma io lo farei.” [2]
“Io ora non mi sento un giornalista in esclusiva, mi sento un giornalista-
imprenditore. Secondo me questo tipo di lavoro può capitare a chi sceglie di fare
il giornalista. Anche se non è proprio un lavoro giornalistico c'è bisogno di un
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giornalista dietro. Per la flessibilità mentale, la capacità di cogliere... Anche se
l'obbiettivo non è l'informazione è necessario che lo facciano i giornalisti.
Questa è una contraddizione, ma fa parte delle cose.” [4]
“E per il resto abbiamo imparato a fare tutto da noi: amministrazione, buste
paga, turni, commercialista, telefono, contratti, gestione. Noi non siamo più solo
giornalisti abbiamo dovuto mettere in campo tutta una serie di altre cose non
fanno esattamente parte del nostro lavoro, anche se in realtà abbiamo imparato
tante cose importanti.” [7]
“Lì [testata giornalistica di una televisione nazionale] l’attività assegnata agli
stagisti è il sommario, cioè il montaggio del sommario. Lì infatti montano i
giornalisti, senza montatore. Di base facevamo questo.” [1]
La seconda caratteristica comune a tutte le esperienze raccolte è la dilatazione
della giornata lavorativa. La giornata lavorativa oscilla per tutti tra le 10 e le 12
ore e il lavoro può occupare anche il week end, le sere e i giorni festivi.
“Il collaboratore deve essere assolutamente disponibile, anche alle 9 di sera deve
essere in grado di scrivere 5000 battute... deve riuscire a dare meno problemi
possibili alla redazione, perchè la redazione si rivolge e continua a rivolgersi al
collaboratore perché ha fiducia nel fatto che lui porti a termine il lavoro” [9]
“Io lavoro 11-12 ore al giorno. Con una pausa pranzo, poi i turni dipendono
dalle conferenze stampa... Il tuo lavoro teoricamente è continuo, il tuo lavoro
teoricamente può avvenire in qualsiasi momento della tua giornata […] Si
presume che se tu vuoi fare questo lavoro e non hai un contratto il 16 agosto
lavori, lavori il 25 dicembre come freelance, se va bene pagato pochissimo, ma
devi immolarti. Perché si presume che tu ti immoli. Tanto se non ti immoli tu si
immola un altro, quindi meglio che ti immoli tu.” [6]
Inoltre, al tempo dedicato al lavoro non corrisponde una congrua remunerazione.Infatti come freelance si viene pagati per i pezzi effettivamente pubblicati non per
i pezzi prodotti o per il tempo dedicato alla loro realizzazione. In generale si può
dire che il lavoro giornalistico sia attualmente mal pagato, tanto che nessuno degli
intervistati senza contratto riesce a mantenersi solo con quelle entrate.
“I lati negativi della situazione da freelance sono economici, assolutamente
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economici. Io lavoro molto, 12 ore al giorno anche. Lavoro tanto e guadagno
pochissimo. Lavorare così tanto e guadagnare così poco è frustrante.” [2]
“Io vengo pagata anche abbastanza bene 40-50 euro al pezzo lorde, quelli che
vengono pagati oggettivamente molto poco sono i collaboratori che lavorano sul
locale 10-20 euro al pezzo lorde. Nel mio caso anche pubblicandone 8-9-10 al
mese porti a casa 300-350 euro netti con un carico di lavoro che è di 3 giorni a
settimana [produttivi]. Ovviamente avendo altro con cui integrare... se vivi solo
di questo... non puoi vivere solo di questo, è ovvio.” [9]
“Io sono pagata intorno ai 450-500 euro al mese, che non è poco. Cioè è poco,
ma non è poco se ti guardi intorno. Ad esempio, parlavo con una ragazza che ha
un contratto in una grossa emittente tv nazionale, beh lei prendeva 500 euro al
mese, e quella è una struttura assolutamente non paragonabile al giornale di
cronaca locale per cui lavoro io, sia per dimensioni che introiti pubblicitari. Io
direi che nel mio giornale mi pagano una cifra decorosa.” [6]
La quarta caratteristica riscontrabile è una diretta conseguenza delle precedenti:
un forte senso di rischio e insicurezza rispetto al proprio lavoro attuale e futuro.
Spesso questi sentimenti sono apparentemente celati da strategie e obbiettivi
chiari, ma emergono tra le righe di tutte le interviste.
“Mi piacerebbe avere un portafoglio più ampio di collaborazioni, mi piacerebbe
essere meno dipendente da una sola testata. Sai per un freelance è una cosa
importante. Se un giorno, al periodico per cui lavoro non sono più simpatico
diventa un problema, loro mi hanno per le palle. Un giornalista freelance che ha
una sola collaborazione è in una posizione scomoda.” [4]
“Ho finito da poco il mio stage. E sto aspettando una telefonata. Perché loro mi
hanno parlato -spero che mantengano- la promessa di un contratto per una
sostituzione estiva di 3 mesi. Non mi hanno in realtà detto i dettagli. Mi hanno
detto «tieniti libera, riposati ora che poi dovrai lavorare tutta l’estate e dovrai
saltare i giorni di riposo». Io spero mantengano la promessa.” [1]
“Il mio vero problema è questo: io non ho davanti una prospettiva per cui non so
che se collaboro X anni, poi mi fanno il contratto. Potrebbero farmelo come non
farmelo. Potrebbero farmi un contratto a tempo indeterminato domani, come
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andare avanti 10 anni e non avere mai un contratto nemmeno di due mesi su una
collaborazione estiva.. Il problema è proprio questo: tu non lo puoi sapere.” [6]
Come si è detto ogni intervistato ha vissuto esperienze diverse in termini di
contesti, modalità, tempi, occasioni... Ma tenendo presente queste caratteristiche
costanti della professione giornalistica attuale e osservando il modo in cui i
soggetti affrontano e organizzano la loro carriera si possono individuare alcune
tipologie di nuovi giornalisti professionisti.
Innanzitutto, gli intervistati si possono dividere in “freelance per scelta” e
“aspiranti dipendente”. Questa tipologia è evidentemente dedotta delle due strade
percorribili per uscire dalla precarietà stagnante degli stage.Il “freelance per scelta” si auto definisce imprenditore di se stesso, rifiuta l'idea
del giornalista tradizionale in redazione e aspira ad esprimere le proprie capacità
in totale autonomia. Il “freelance per scelta” sa che data la situazione economica
attuale non può aspirare ad un contratto ed intende sfruttare questa occasione a
suo favore. Per i “freelance per scelta” gli aspetti positivi del lavoro autonomo -
autonomia, nessuna gerarchia, tempi flessibili, libertà sui contenuti - sono più
importanti degli aspetti negativi, che si dovrebbero risolvere col tempo.“Da un punto di vista di come vorresti lavorare ti dico: freelance tutta la vita!
Non c’è niente di più bello che essere il capo di te stesso e scrivere da te le tue
storie, da un altro punto di vista il fatto di non avere molte certezze economiche
è un punto negativo. Quello che voglio cercare di fare è trovare un equilibrio tra
le 2 cose. Si tratta di un obbiettivo di medio termine. Lavorare con alcune
certezze e tanta autonomia. Credo nella possibilità di realizzare questo
obbiettivo, se non ci credessi non stare qui. Ma chiariamo, come lavoratore
dipendente mi ci vedo solo per brevi periodi, dipendente-dipendente non mi civedo.” [8]
“Penso che non vorrei mai lavorare in redazione, fisso sempre sugli stessi
argomenti… Io mi auguro di fare il freelance non solo perché sono obbligato a
farlo ma anche perché io voglio farlo! Io non ho un capo, questo è
eccezionale!”[2]
“Non vorrei mai essere assunto dal periodico per cui lavoro come collaboratore,
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è una cosa che non potrei rifiutare ma che mi terrorizza!” [4]
“...cioè magari uno riceve una proposta dall'economia del Sole24ore, sì ok, è un
buon contratto... ma però.. come fai? Dopo che ti sei abituato a lavorare per
conto tu, a poter scegliere, poter dire i sì e poter dire i no, a metterci la tua scelta.
Come fai a ritrovarti in una struttura grossa e gerarchizzata, non è così facile.
Alcuni colleghi che hanno ottenuto dei contratti in Rai addirittura invidiano la
nostra situazione, il nostro modo di lavorare.” [9]
Gli “aspiranti dipendenti” invece sognano di ottenere un contratto di lavoro
classico o comunque sperano di stabilizzarsi in un ambiente lavorativo con delle
certezze. Per gli “aspiranti dipendenti” i contro del lavoro da freelance sono tali da
giustificarne il rifiuto. Però dato che la crisi è evidente, anche loro sanno che nonsarà facile ottenere un contratto di lavoro, tanto che non hanno una strategia
precisa per raggiungere il loro obbiettivo e spesso vivono una situazione di forte
insicurezza.
“Pro e contro dell'essere freelance: non hai orari , che per me però è un contro
perché preferire essere più inquadrata. Un altro contro è che lavori sempre nei
week end, dato che in redazione c'è meno gente e quindi è più facile che si
contattino i collaboratori. Un contro è anche non essere stabilissimo, perchénonostante ci sia un rapporto stabile, basato sulla fiducia, sulla conoscenza, non
c'è niente di contrattualizzato... e può andare come non andare. Se tu avessi un
contratto in cui si stabilisce che tu scrivi minimo 20 articoli al mese, sapresti
che, comunque vada, tu scriverai i tuoi 20 articoli. I pro sono: la maggiore
libertà, la possibilità di poterti proporre ad altre testate e cercare anche altrove.
Però è una cosa che è un pro in linea teorica, in linea pratica effettivamente è
difficile, perché purtroppo il mercato oggi è talmente saturo che è difficile
riuscire a trovare altro.” [9]
“Secondo me come freelance non sarò mai pagata per tutto il mio lavoro. Ne
parlavo una volta con un ragazzo che era da 4 anni e mezzo freelance puro e
ogni anno non riceveva il contratto che si aspettava perché ogni anno lo
facevano ad un altro e non a lui. Onestamente io non so come facesse. Ma anche
altri miei colleghi. Onestamente non so come facciano, io non credo di potercela
fare. […] Nel resto dell'universo mondo un freelance come il giornalista
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freelance non esiste, non c'è questa distorsione totale in altre professioni!” [6]
Un ulteriore riflessione va fatta per il “freelance per scelta”. All'interno di
questa categoria, che conta cinque intervistati, è possibile individuare unsottogruppo di due persone che aspirano ad un futuro lavorativo autonomo
ma inserito all'interno di una rete-cooperativa di persone a cui affidarsi, con
cui aumentare il proprio potere contrattuale e grazie alla quale migliorare la
loro condizione di “freelance puri”.
“Se il lavoro da freelance funzionasse bene sarebbe vantaggioso per me e gli
editori. […] Pian pianino dato il mio numero di collaborazioni dovrei avere
sempre più potere contrattuale, cosa che ora non ho. Ora quando mi propongo
accetto la proposta che arriva dall’editore. Però credo anche che le cose non
cambieranno mai se sarò da solo, da solo cosa posso cambiare gran ché.” [2]
“Io non farei mai il freelance puro, rispetto alla cooperativa intendo. Il lavoro
non sarebbe diverso, ma non hai forza contrattuale e non hai la forza della rete.
Il gruppo è fondamentale. Ho dei colleghi che hanno deciso di fare i freelance
puri ma è dura. Il gruppo è un bel valore aggiunto.” [7]
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4.6 Ordine e identità professionale, io sono speciale
Il lavoro giornalistico è indubbiamente cambiato, nel contenuto, nei modi, nei
tempi, nella sua stessa rappresentazione. Invece non sono cambiate le istituzioni ele norme della professione giornalistica. Nell'ultima parte delle interviste abbiamo
cercato di capire se i giovani giornalisti si identificano ancora con la loro
professione.
Nei confronti dell'Ordine dei Giornalisti vi è un assoluto disinteresse o talvolta
insofferenza. Nonostante gli intervistati abbiano investito energie e risorse per
entrare a pieno titolo nell'Albo dei professionisti ritengono che questa istituzione
sia distante dal loro lavoro. L'Ordine è inutile, vecchio, bloccato e talvolta arrivaad essere un impedimento per i giovani professionisti. La stessa deontologia o
etica del giornalismo ha perso di valore come fattore identificante.
“Essere giornalista professionista, cioè iscritto all'Albo, non mi serve a
nulla, sinceramente non gliene frega niente a nessuno quando mi
propongo.” [2]
“L'Ordine nei miei confronti non ha fatto nulla di buono e nulla di negativo,
ma credo che se si accorgesse di me proverebbe a fermarmi, la miaesperienza professionale è contraria a ciò che l'Ordine tenta di tutelare.” [4]
“Secondo me l'Ordine dovrebbe essere abolito, secondo me l'Ordine è un
retaggio assolutamente fascista e del tutto anacronistico. In un mondo
ideale serve una struttura che sorvegli e disciplini la deontologia della
professione, ma che non sia un organo a fini di lucro e che non campi sulle
spalle di chi ne fa parte. In termini pratici l'Ordine ora non controlla la
deontologia e l'etica della professione e chiude un sacco di occhi su
anomalie di questo mondo che in realtà non dovrebbe tollerare. Quindi iosono per l'abolizione dell'Ordine.” [9]
“Per noi rispetto all'Ordine è più interessante la rete delle cooperative
perché ci offre contatti, network.” [7]
“Secondo me l'Ordine, se volesse essere utile, dovrebbe decidere i minimi
salariali. Magari un sistema ancorato alle lunghezze. E poi dovrebbe verificare
i pagamenti, attualmente alcune testate pagano tra 6 mesi.” [6]
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Risulta difficile identificarsi con i colleghi più anziani e con il posto di lavoro. Nel
primo caso si ritiene che i “giornalisti vecchio stile” non sappiano cosa sia il
lavoro attuale, “il lavoro vero”, e usufruiscano di una serie di immotivati privilegi
ormai inaccessibili ai giovani precari. Nei confronti del posto di lavoro invece i
giovani giornalisti lamentano di non potersi identificare dato che non fanno
ufficialmente parte della redazione: sono solo stagisti o collaboratori esterni.
“Noi non ci identifichiamo del tutto con i giornalisti. Perché diciamo: caspita ma
questi non si rendono conto di cosa vuol dire fare questo lavoro oggi. La
sentiamo la differenza con quelli assunti in redazione. Andare così a cercarsi il
lavoro, i giornalisti classici non sanno cosa voglia dire, anche il fatto di uscire
con la telecamera. Queste cose fanno parte della nuova piega che ha preso la
professione, c'è un varco enorme tra noi e i “vecchi assunti”, e parliamo di soli
10 anni fa.” [7]
“Mi identifico molto di più con la scuole con cui sono contrattualizzata [presso
cui lavoro come educatrice] che con il giornale con cui collaboro. Non perché
non voglia identificarmi ma perché materialmente non posso farlo” [9]
“Non so se posso identificarmi con i giornalisti, con i giornalisti professionisti
come me. Cioè credo che per identificarti tu dovresti essere certo che almeno per
altri 5 anni farai questo lavoro, e io non ne sono sicura. Oltre al fatto che
essendo così precaria la situazione io non posso identificare me stessa col lavoro
che faccio. Se mi identificassi col mio lavoro, e perdessi il mio lavoro.. ed è
possibile, già tra 3 mesi.” [6]
Detto questo però tutti gli intervistati si sentono e si definiscono giornalisti
professionisti, quindi non vi è un totale rifiuto dell'identità professionale ma la
volontà di distinguersi, di affermare la propria diversità, il proprio essere
“speciali”. Ognuno di loro racconta con orgoglio di avere svolto esperienze
diverse dagli altri, di avere inclinazioni personali che lo rendono diverso, e a volte
preferibile, rispetto all'indistinto gruppo dei giornalisti. Se da un lato non vi è
identificazione con le istituzioni o il contesto lavorativo, dall'altro i giovani che
scelgono il giornalismo come professione rivendicano un'identità professionale
del tutto personale, individuale.
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“Mi vedo un po’ diverso dagli altri giovani giornalisti, io sono un vero freelance
e come me siamo rari.” [2]
“Io mi vedo giornalista, questo è quello che amo fare, sono i miei interessi, io mi
rifletto nella professione per quello che sono. Ma allo stesso tempo non mi
identifico molto con gli altri giornalisti, io sono un fotogiornalista mi sento
diverso. Ho fatto un percorso diverso, mio.” [8]
“Io so che il giornalismo è la mia professione... sono un professionista del
giornalismo. Ecco l'espressione professionista del giornalismo mi piace,
giornalista professionista meno.” [4]
“Io credo che le scuole di giornalismo stiano creando una nuova generazione di
giornalisti con una mentalità diversa, che cambierà le cose. Per esempio, per noiè normale la multimedialità...” [1]
Note al capitolo 4
[1] Donna, 27 anni, giornalista professionista, disoccupata.
[2] Uomo, 26 anni, giornalista professionista, freelance con Partita IVA.
[3] Donna, 22 anni, giornalista praticante, studente scuola di giornalismo.
[4] Uomo, 29 anni, giornalista professionista, freelance con Partita IVA e imprenditore.
[5] Donna, 28 anni, giornalista professionista, assunta contratto a tempo determinato.
[6] Donna, 27 anni, giornalista professionista, freelance e tirocinante presso una redazione.
[7] Donna, 27 anni, giornalista professionista, socia di una cooperativa - service giornalistico
[8] Uomo, 25 anni, giornalista praticante, studente scuola di giornalismo, fotografo freelance.
[9] Donna, 25 anni, giornalista professionista, freelance.
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Conclusioni
La ricerca svolta ci ha permesso di verificare la valenza dalla definizione
funzionalista delle professioni data da Parsons, alla luce delle modificazionicausate dal superamento del sistema di produzione taylorista. Questo controllo era
infatti risultato necessario dopo aver esaminato le caratteristiche del lavoro
autonomo di seconda generazione, caratteristiche che apparivano in
contraddizione con la definizione del lavoro giornalistico data dall'ordinamento
professionale, condivisa delle associazioni di rappresentanza e teoricamente
accettata dai giornalisti professionisti.
Innanzitutto la ricerca svolta ci permette di confermare quanto già affermato in precedenza: l'autonomia, fatta di privilegi economici e libertà, non può più essere
assicurata ai giornalisti professionisti, che sono costretti ad accettare rapporti di
collaborazione autonomi con bassi compensi e scarse tutele. Il lavoro giornalistico
è infatti raramente regolarizzato attraverso contratti e, nella maggior parte dei casi
esaminati, i giornalisti non sono in grado di mantenersi autonomamente. L'orario
di lavoro si allunga e la retribuzione rimane insufficiente, la sensazione di
insicurezza è pervasiva. Nelle interviste troviamo conferma alle “tesi” di Bolognariguardanti la percezione dello spazio e del tempo, la scomparsa del salario
mensile e la necessaria disponibilità costante sul mercato del lavoro. Tutti questi
elementi portano i giovani giornalisti a vivere un sentimento di ”angoscia del
vuoto”, al punto che sei di loro svolgono o pensano di svolgere un secondo lavoro
non giornalistico. La mancata autonomia incide anche sulle prospettive future. Gli
“aspiranti dipendenti”, una parte minoritaria degli intervistati, sentono di subire
involontariamente le attuali condizioni di lavoro e auspicano di poter essereregolarizzati con con un contratto tradizionale; al contrario sei “freelance per
scelta” sono coscienti che il lavoro autonomo è la forma lavoro propria della
produzione post-fordista, sono intenzionati a incrementare le loro capacità
imprenditoriali e a sfruttare le possibilità di cooperazione tra lavoratori
indipendenti.
Dalle interviste è emersa una seconda conferma a quanto ipotizzato durante la
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trattazione teorica: la competenza tecnica specifica, caratteristica peculiare dei
professionisti, ha perso d'importanza rispetto alle capacità relazionali. Come
dimostrato anche dallo studio di Cristina Morini, il contenuto della professione
giornalistica è irrimediabilmente cambiato. Da un lato sono stati assorbiti compiti
e mansioni non giornalistiche che non si acquisiscono con la formazione ufficiale
richiesta dall'Ordine dei giornalisti, ma con il lavoro sul campo e l'esperienza
pratica. Dall'altro competenze diffuse e non prettamente lavorative, come la
fiducia, l'ascolto, la curiosità, hanno acquisito un ruolo centrale. Gli intervistati
sono coscienti di questo cambiamento al punto tale che si adoperano per essere
perfettamente in grado di governare e incrementare queste caratteristiche personali
e caratteriali messe costantemente al lavoro.
Infine, è stata confermata la tesi secondo la quale nel lavoro autonomo di seconda
generazione l'identità professionale muta rendendo debole il concetto di
responsabilità fiduciaria. I giornalisti intervistati non si identificano più né con le
istituzioni professionali né con i colleghi “vecchio stampo”. Di conseguenza tende
a scomparire la responsabilità fiduciaria, che basava la sua efficacia sul timore
delle sanzioni dell'Ordine dei giornalisti o la paura di poter danneggiare la
professione nel suo complesso. Sempre in riferimento all'identificazione
professionale, gli intervistati affermano di potersi comunque definire giornalisti,
rivendicando però un identità basata sulla propria individualità. Tanto più il ruolo
del collaboratore giornalistico viene massificato e il prodotto giornalistico
omologato (Morini 1997), tanto più la rivendicazione della propria individualità
diventa indispensabile. I giovani giornalisti si sentono speciali e diversi,
affermano inoltre che alla base della loro professionalità stia proprio questa
individualità messa al lavoro attraverso le proprie competenze relazionali.
Quanto ipotizzato nella discussione teorica è stato dunque confermato:
l'autonomia è stata corrosa da condizioni di lavoro faticose e vincolanti, la
conoscenza tecnica specifica ha perso d'importanza a causa della centralità delle
competenze relazionali e le mutazioni riguardanti l'identità professionale hanno
minato le basi della responsabilità fiduciaria.
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Attraverso la ricerca è emerso inoltre un aspetto non ipotizzato in precedenza:
indagando il perché della scelta della professione giornalistica si è notato che
l'orientamento al servizio è una motivazione ormai minoritaria, a fronte di una più
forte adesione emozionale. L'orientamento al servizio non è più funzionale al
successo di un giornalista professionista, in quanto è stato sostituito dal desiderio
di realizzazione di un percorso personale, dal desiderio di espressione della
propria individualità. Il riconoscimento e la stima altrui si ottengono attraverso la
la manifestazione della propria individualità, attraverso la firma e l'ampiezza delle
reti di conoscenze.
Riassumendo, i quattro pilastri su cui si reggeva la definizione parsonsiana di
professione -la conoscenza funzionale specifica, l'orientamento al servizio, la
responsabilità fiduciaria e l'autonomia- non sono più in grado di definire la
professione giornalistica che è mutata conseguentemente al mutare della
produzione e che ha raggiunto un alto grado di complessità, tipico del lavoro
autonomo di seconda generazione. La definizione istituzionale e legislativa della
professione giornalistica non corrisponde più al lavoro giornalistico nei fatti e con
la definizione data dagli stessi giornalisti.
Ora con l'intento di proporre un punto di partenza da cui tentare di ri-definire il
concetto di giornalismo come professione, potremmo tornare alle domande che
Weber poneva nel 1917. “Che cosa significa la scienza come professione per colui
che si dedica ad essa?”, a cui seguiva la risposta: passione, sachlichkeit , dedizione
appassionata a una causa. Se oggi ci domandassimo “che cosa significa il
giornalismo come professione per colui che si dedica ad esso?”, la risposta
potrebbe essere: passione, espressione della propria individualità attraverso le
proprie emozioni e le proprie capacità relazionali. In questo contesto il concetto
di beruf weberiano, professione-passione, che si era perso nel paradigma
funzionalista riacquisisce valore, anche se in modo evidentemente nuovo.
Nell'esposizione della ricerca abbiamo già avuto modo di sottolineare quanto gli
intervistati siano legati sentimentalmente al proprio lavoro, quanto la componente
emotiva sia determinante nel definire il lavoro giornalistico il proprio lavoro. La
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componente di “passionate-work” (McRobbie) è centrale in tutta l'esperienza
lavorativa indagata: è un elemento determinante nella scelta della professione,
garantisce un buon livello di resistenza di fronte a condizioni economiche
fortemente negative e ispira speranze per il futuro.
Un secondo elemento emerso come costante del giornalismo come professione nel
capitalismo cognitivo è la centralità dell'individuo, che rivendica la propria unicità
facendone un valore spendibile in campo lavorativo. In un contesto scomposto e
frammentato, in una moltitudine, l'individuo rivendica con maggior forza la
propria specificità e ciò accade anche nel lavoro giornalistico. Se da sempre, in
questo ambito, linguaggio e comunicazione sono stati gli strumenti del mestiere,
ora per creare valore è necessario mettere al lavoro se stessi, ridefinire la propria
soggettività in funzione delle reti, dei consumi, della creatività.
Questi due elementi appartengono propriamente al giornalista “freelance per
scelta”, che sembra essere il professionista che più si può adattare alle attuali
condizioni lavorative. Un aspetto che meriterebbe maggiore attenzione e
comprensione sono le strategie attuabili per poter governare questa scelta
lavorativa. Sarebbe necessario capire quali siano i contrappesi necessari alla precarietà e all'instabilità cronica a cui sono sottoposti i giornalisti freelance. Su
questo punto alcuni degli intervistati hanno proposto la via della cooperazione e
della coalizzazione, una via che è immaginata innovativa rispetto agli ordini
professionali, le rappresentanze lavorative sindacali e l'associazionismo classico.
Nei fatti ci sono ancora scarse esperienze in questa direzione. Oggi un giovane
che intende fare del giornalismo la propria professione sa che non potrà godere né
di una struttura professionale a cui appoggiarsi, né di una decente autonomia
economica, potrà “aggrapparsi” solo alla propria passione. La passione nel
giornalismo potrebbe essere sia uno scudo sotto cui sopportare il peso
dell'insicurezza e dell'autosfruttamento sia l'arma vincente per produrre valore dal
proprio lavoro.
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Appendice
Traccia interviste semi-strutturate
a) Fare il giornalista, la scelta, la scuola
– quando hai scelto di voler diventare un giornalista?
– cosa pensavi che fosse?
– Avresti potuto fare un altro lavoro?
– Cosa hai fatto per diventare giornalista? (esperienza della scuola)
– Cosa è rimasto della tua idea del mestiere del giornalista?
b) Il tuo attuale lavoro
– la tua giornata tipo
– sei soddisfatto?
– Le esperienze lavorative o la scuola hanno modificato le tue aspettative?
– Hai mai il dubbio di aver fatto la scelta sbagliata?
– Pro e contro della tua situazione contrattuale
– Secondo te potrai superare la tua condizione di precario? Hai in mente un percorso
per riuscirci?
– Come ti vedi tra cinque anni?
c) Identità professionale e Ordine dei Giornalisti
– Cosa pensi dell'Ordine dei Giornalisti?
– Ti identifichi con l'Ordine?
– Ti identifichi con i tuoi colleghi o il tuo posto di lavoro?
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