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GIANCARLO BUONOFIGLIO GIOACCHINO BRUNO PERCORSI ONTOSTORICI *** 2012 ***

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GIANCARLO BUONOFIGLIO

GIOACCHINO BRUNO

PERCORSI ONTOSTORICI

*** 2012 ***

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Ma in che cosa consiste l'umanità dell'uomo? M. Heidegger

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ARCHEONTOLOGIA

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PREMESSA

Una prefazione non è mai semplice. A volte può essere più

complessa del libro stesso; a volte il libro stesso può anche

lasciarle il posto. Cercare di giustificare in poche righe il

senso della propria fatica è un'impresa che non rende

giustizia e il più delle volte è destinata al fallimento. Prima

che interessare il lettore e annunciare oscure verità, una nota

introduttiva deve perciò soddisfare due sole condizioni:

sintetizzare i contenuti e giustificarne l'uso.

Per quanto riguarda la prima questione è presto detto. E' mia

intenzione focalizzare l'interesse degli studiosi nell'opera di

Gioacchino Bruno, non solo per le inappuntabili competenze

sviluppate in ambito etnoantropologico (confermate dai

numerosi incarichi anche istituzionali e della gestione del

museo storico etnoantropologico di Floridia, nella provincia

di Siracusa) ma anche e soprattutto per la poliedricità del suo

lavoro creativo, che spazia dalla fotografia alla scultura, dal

disegno alla scrittura all'incisione della materia, tutto teso

come vedremo alla ricerca dell'assoluto e dell'essere, che è

poi il sacro di ogni civiltà. E' questa infatti la ragione del

titolo data alla presente monografia percorsi ontostorici, e

del neologismo pensato per delucidarne l'opera e il lavoro di

ricercatore a tutto tondo, archeontologia. Avuto in mano i

suoi documenti di camminatore/raccoglitore instancabile di

memorie antiche, il problema ontologico mi si è infatti

presentato assolutamente dominante in tutte le discipline che

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ha maneggiato. Ancora una volta presente in questo

straordinario ritaglio geografico, l'essere non ha mancato di

fare sentire la propria voce nei percosi epocali di una parola,

di un gesto, di un segno: come desiderio di verità, apertura,

dis/corso che spinge al di là delle limitazioni del tempo e

dell'esistenza, nello spazio del nulla dove avviene la

rivelazione delle cose, la conversione dello sguardo.

Attraverso un onto/scavo nel sacro della cultura, libero

finalmente dalle variabili indipendenti col quale di volta in

volta viene nominato (dio, materialismo, libertà, sostanza,

Logos).

La giustificazione dei contenuti è invece per natura più

complessa e articolata; si tratta non solo di dare un senso al

proprio lavoro ma di motivarne la divulgazione. Nello

specifico di questo studio sull'opera di Gioacchino Bruno,

l'intenzione nient'affatto secondaria e a partire proprio dalla

significazione delle cose propria dell'archeologia, è quella di

avvertire il lettore di una possibile risemantizzazione del

mondo, un decentramento antropologico -già in parte

avvenuto, grazie anche alle nuove teconologie di massa e ai

mercati globali- da compiersi nella sintassi di una rinascita

storica, attraverso lo scavo archeontologico nella

sedimentazione dei significati ancestrali. Niente di diverso

dalle profezie nietzscheane, con la differenza che l'alito della

nuova epoca già si sente. E sembra davvero non esserci

scampo o possibilità di salvezza.

II-2012, G. Buonofiglio

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NOTA INTRODUTTIVA

La prima volta che ho incontrato Giocchino Bruno mi ha

chiesto di camminare assieme per i sentieri di Pantalica.

Declinai cordialmente l'invito, spiegando che tra i miei

orizzonti culturali non mi vedevo a sfacchinare tra rovine,

steppaglie e sassi pur meravigliosi come quelli del territorio

Ibleo; i paesaggi e la storia di quesi luoghi me li portavo

dentro nei miei anni di studi e interminabili letture. Credo di

avere perduto un'opportunità unica, vittima dell'arroganza

della cultura e del pensiero. Solo più tardi compresi il valore

di quell'invito, ed oggi quasi arrossisco alla mia protervia di

scrittore sedentario tronfio di ricerche cieche vissute nelle

ombre dei libri e muffe da biblioteche. Ci sono uomini che

camminano e che nel loro cammino incontrano molto piu'

del pensiero, il mondo e la vita stessa. Grazie anche

all'amicizia di Gioacchino ho infatti imparato ad amare e a

rispettare questa strordinaria terra ed ho compreso la vera

natura del pensiero e della filosofia, che non per niente è

nata nella scenografia di questi sentieri, tra i profumi degli

aranceti, la luce del sole, la storia che trasuda dalle rovine, i

chiaroscuri del paesaggio, la bonarietà della gente. Con

imperdonabile ritardo mi sono venute in mente le parole di

Nietzsche sulle orme tracciate dal viandante, al seguito non

tanto di un astratto pensiero teoretico ma della verità stessa,

nell'aperto assolato in cui ogni cosa assume un senso e un

significato. E a proposito dell'andare incontro, ancora di più

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forse la lezione di Heidegger che concepiva il pensiero, la

ricerca dei fondamenti e del vero come un cammino,

nient'affatto ideale ma concreto, vissuto, tonale. Il pensiero e

una visione del mondo nascono proprio da questo

avvicinarsi alle cose, dal muoversi tra radure spesse volte

impervie, alla ricerca in fondo dell'essere che è poi il nulla

nella sua ultima trasmutazione. Io, e lo scrivo con infinita

malinconia, mi sono fermato a metà strada, guardando dal

mio comodo empireo di idee lo scorrere delle cose, senza

avere assaporato la freschezza del pensiero mattutino, sentito

la brina delle idee depositarsi sul volto, o sfiorare come

Nietzsche-Zarathustra i venti della verità. Gioacchino è

invece uno di quegli uomini -ancora e nonostante tutto- in

perenne movimento. E' possibile vederlo nelle ore più

impensate a scarpinare per i monti, o scalare gli altopiani

della Val di Noto, lo potete trovare in posti quasi inumani e

invivibili teso a raccogliere con la macchina fotografica e

più spesso con le mani lo scorrere del tempo, a eternare in

qualche modo la poesia, l'arte e la bellezza di un panorama

che solo un occhio attento e vigile può assorbire. Ci sono

uomini che camminano e camminando fanno il pensiero,

incontrano la vita e la storia, che ragionano con le mani e

con le mani ap/prendono (Gettando il progetto-gettato crea

l'apertura storica in cui l'uomo entra in rapporto con gli

enti, li ordina e li fa apparire nella presenza. Heidegger) in

fondo la vita stessa. I sentieri nei quali si muove e vive

Gioacchino Bruno prima che fisici e limitatamente locali e

geografici sono come delle linee tese tra finito e infinito; e

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questo desiderio inappagato di assoluto -più o meno

dominante in ogni uomo- si sente in tutta la sua opera,

perennemente alla ricerca di un equilibrio tra presente e

passato, il niente e il tutto, deietto in un mondo (a dire il vero

felicemente imprigionato) che è poi il destino dell'esserci.

Gioacchino mi ha raccontato di quando i contadini che lo

incontravano nel suo girovagare nella campagne lo

rimproveravano ironizzando: c'è la semina, il raccolto, le

olive (u travagghiu), e lui rispondeva che il reperto accanto

al tramezzino che aveva appena rac/colto era effettivamente

oro, il nulla certo ma pure il tutto (Il nulla non è un

oggetto... né un ente... il nulla è la condizione di possibilità

di rivelare l'ente come tale... il nulla non è solo il concetto

opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente

all'essenza dell'essere stesso. Heidegger). Il tesoro è la

roccia, cercava di spiegare, una casa rupestre è un patri-

monio, e che sotto quei buchi c'era una città dimenticata (la

Sortino Medievale, o Sortino Diruta come la chiama). E così

credo sia sempre stata sempre la sua vita, dall'alba fino

all'oscurità, quando nella profondità della parola e del

silenzio si finisce nell'ultima trascendenza del linguaggio e

della visione (La parola nomina la regione aperta dove

abita l'uomo. L'apertura del suo soggiorno lascia apparire

ciò che viene incontro all'essenza dell'uomo e, così

avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno

dell'uomo contiene e custodisce l'avvento... e secondo la

parola di Eraclito questo è δαιμον, il dio... l'uomo in quanto

parla abita nella vicinanaza del dio. Heidegger). Perché

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pure l'ombra ha un suo fascino e una dignità estetica

(L'ombra è la luce, mi ha detto sbalordendomi con un

ossimoro paradossale degno di Heidegger). Altro non fa un

archeontologo, se non lasciare che come il vento che sibila

sulla pelle, sia l'essere stesso a venirgli incontro nella luce

ombreggiata, portandolo verso le cose stesse (zu den sachen

selbst!). Gioacchino Bruno custo/disce nella casa-museo di

Floridia reperti unici e di sicuro interesse (ne ha catalogati

assieme e per merito del padre Nunzio, oltre 9000), e il suo

lavoro di custode/bibliotecario consiste non solo nella

memoria dei resti ma nel dare voce al passato di questa terra.

Non è padrone di ni/ente, Gioacchino, incurante degli idola

del possesso e soddisfatto da una vecchia casa padronale (La

Casa dell'Artigianato in Sortino) che ha trasformato in un

non/luogo abitando però il quale (fuori di sé, tra gli enti,

nelle cose) una volta tanto anche l'uomo più umile ha una

possibilità di ricerca, di verità; dove si e-siste in

un'atmosfera magica e ricca di cultura che è poi il

raccogliere ascoltando che rende cosa la cosa. Un sasso delle

rovine di Pantalica è solo un sasso, ma se te lo racconta

Gioacchino, in quel sasso senti millenni di storia, la vita,

quasi echeggiare le urla di dolore che ha assorbito nei secoli.

E questo muoversi atavico del com/prendere, il camminare

tra le cose, ha il nome antico di libertà; e la libertà in quanto

tale espone strutturalmente al destino come l'essenza stessa

della verità. Non è una dimensione culturale questa dello

stare fuori, ma uno spazio vivo, un'atmosfera, una caverna

infinita che rovescia in maniera radicale il rapporto tra l'ente

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e l'essere, l'uomo e la sua storia. In essa ci si trova, si respira,

si vive e qualche volta pure si muore. Annulla in una parola

la differenza ontologica tra l'Io e il mondo, l'uomo e il dio. E

questo è un atto nascostamente politico: Chi ha scorto

l'universo non può pensare ad un uomo... Anche se

quell'uomo è lui. Quell'uomo è stato lui. E ora non gli

importa la sorte di quell'altro... Perché egli ora è nessuno;

come scrive Borges a proposito di quell'altro raccoglitore di

tracce che è il bibliotecario, ricettacolo di passato, custode di

una mitologia. Gioacchino ha vissuto e vive da uomo libero

(come il padre, stimatissimo esponente della cultura siciliana

e il nonno rimpianto artista locale), nel sacro dei contenuti e

dei simboli della sua gente, appagato dalla storia e dalla

memoria che conserva. Camminando all'aperto tra l'essere e

l'ente -come fa Gioacchino Bruno con un metodo quasi

monacale che è etica nella sostanza- alla fine ci si abitua alla

luce, a vedere con occhio attento (La luce è tutto per me, si

deve modellare, è l'inchiostro di china, la macchina

fotografica è la penna) significando e a sua volta

significandosi, perché l'aperto è qualcosa che dà senso ma

che non ha senso; è un accecamento, un limite strutturale che

però espone nella vita e nelle cose (analitica trascendentale:

scioglie il conoscere negli elementi sostanziali cercando in

esso i concetti puri a priori, in una dimensione della

coscienza che non è lineare ma circolare). Oltre non si può

andare nella chiarìta di questo crepuscolo ontologico

(L'essere, aprendosi nella radura, viene al linguaggio. Esso

è sempre in cammino verso il linguaggio.... Il linguaggio si

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eleva a sua volta nella radura dell'essere. Solo il linguaggio

è in quel mondo misterioso che pur sempre ci domina.

Heidegger) e l'unica lilbertà concessa è di accettare l'essere

come destino, superando anzi pure forse questa fragilità al

punto che Gioacchino ha cercato di vincere le naturali

limitazioni del corpo imparando, grazie alla lezione del

nonno paterno, ad usare la mano babba, sforzandosi di non

perdere le potenzialità della mano sinistra. Tra un bicchiere

di rosso e un altro (altra meraviglia di questa terra, che

Bachelard avrebbe apprezzato) una sera mi ha sbalordito

dicendo che il materiale, la vita la calpestiamo, la viviamo

ma non la capiamo, che in fondo siamo ciechi che vivono in

un mondo che non conoscono. Mi spiegava, ed era in fondo

una metafora del suo lavoro e dell'esistenza che quando

scavi e trovi una moneta sembra un sasso; sta alla cultura e

alla passione dell'uomo di averne cura, com/prenderlo,

ripulirlo e liberare la moneta come a scavare in significati

misteriosi e sconosciuti. E solo allora ti accorgi che quella

pietra era oro. Maneggiandola da tutti i lati, rivivendola

proprio come un fenomenologo alle prese con la variazione

eidetica, cercando di darle un senso.

Ma è venuto il momento di lasciare la parola all'opera di

Gioacchino Bruno. In questa onto/monografia a lui dedicata

proverò non solo a metterne in luce il lavoro di archeologo

diplomato sul campo, ma quello di artista/ricercatore

completo, dedicando una sezione del libro alla fotografia,

una alla scultura della pietra, una al modellamento

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dell'argilla e del disegno, sulla base di seminari tematici

tenuti proprio da Bruno presso associazioni culturali. Con la

speranza di portare in luce aspetti ancora sconosciuti della

sua scienza e di interessare gli studiosi più attenti. Ho

coniato un neologismo per raccontare la figura di questo

straordinario personaggio poliedrico, attribuendogli il

mestiere paradossale di archeontologo, e credo che sia

davvero appropriato. Il lavoro di Gioacchino non è solo da

archeologo e appassionato di museografia e museologia, è

davvero più complesso e articolato. Si tratta di un ricercatore

eclettico, fotografo, scultore, modellatore, grafico,

disegnatore, pittore, scrittore e chissà che altro, la cui opera è

giusto che abbia a suscitare interesse presso anche le più

austere accademie. Credo sinceramente che ne valga la pena.

E' però ora di andare. Il sole si alza e il cielo si colora dei

toni del giorno. Come sempre Gioacchino sarà da qualche

parte a camminare -è l'unica regola che credo abbia mai

seguito- di mattina presto (alle cinque e mezza!) a fare un

passo in piu' tra passato e futuro, nelle cose e nel tempo, nel

non senso di una giornata il cui segreto fondamentale (come

ha spiegato raccontandomi dei mali della sua epoca) sembra

essere di non dormire mai, nel bisogno inarrestabile di

calarsi nel mondo come parte di una storia che trascende la

stessa individualità. Non esiste altra via per testimoniare

l'essere e annunciare la verità.

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Carta storico/topografica della Sicilia secondo le "ultime" osservazioni, come è scritto nella

mappa datata 1754. Sono delineate le tre valli (Val di Noto, Val Demone, Val di Mazzara)

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ANTROPONTOLOGIA

Techne e po/etica in Gioacchino Bruno

Gli antropologi lavorano nel tempo, cercando di salvare

dalle macerie della storia significati profondi delle civiltà;

gli antropontologi i significanti, inserendosi nella catena

semiotica alla ricerca del segno che crea e cristallizza nelle

epoche il mito. L'antropontologia non è metafisica, l'essere è

sì un universale ma concreto/immanente nel suo costante

ripresentarsi in ogni segno rilevante delle attività umane;

anch'essa può essere una scienza di studio empirico, ma a

condizione di riconoscere nell'essere non un'entità

sovraumana, ma nelle diverse civiltà i caratteri eterni e

immutabili che definiscono il sacro. (E con la parola sacro

dobbiamo intendere quanto c'è di immutabile nelle cose

rendendole quello che sono, e in quanto tale oggetto di

rispetto e venerazione.) L'essere è ciò che con/segna i

significanti in una significatività globale che dà loro un

senso e un significato, e l'apporto dell'uomo non è comunque

marginale. Proprio come il contadino che decide di vangare

il suo campo, e confida nell'aiuto di dio. Ma non per questo

lascia a dio il compito di lavorargli la terra... Sa che il suo

lavoro non basta, che tante e tante altre cose occorrono

perché esso vada a buon fine; ma sa anche che il suo lavoro

è insostituibile (E. Severino). Qualcosa di simile

all'antropologia culturale (mutuata da Durkheim e Mauss) di

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Lévi-Strauss, che cercava le costanti universali nelle diverse

società umane (strutture dello spirito), ma individuandole

non in quello che le molteplici forme di vita hanno in

comune, quanto nel carattere sistematico delle relazioni. Le

costanti non sono insomma per gli antropontologi generiche

somiglianze, ma consistono nell'invarianza nascosta delle

relazioni che intercorrono tra le variabili. Come si è detto il

segno nella suo significare però l'essere nelle cose.

L'antropontologia concentra la sua attenzione proprio in

queste costanti, cercando nelle strutture mitologiche dello

spirito umano il fondamento di una comunità che ha il nome

del sacro. E nella sacralità l'essere immutabile che è nei

frammenti della memoria a significarli, rinvenibile negli

esercizi essenziali dei manufatti culturali al di là delle

geografie e del tempo.

*******

Naturalmente in questo processo di ricognizione

grammaticale non secondari sono gli strumenti e l'apparato

scientifico culturale del ricercatore. Prima tra tutte l'abilità di

com/prendere con un colpo d'occhio non tanto la storia di un

sito archeologico ma l'unità d'insieme del paesaggio.

Gioacchino Bruno nel suo approccio anche estetico, che è

nella sostanza sintesi (così scrive nei diari: Volgendo lo

sguardo verso il bacino idrografico dell'Anapo noto che il

territorio di Sortino ne è al centro... fornendo acqua perenne

alle varie industrie umane), non per niente è stato uno dei

maggiori promotori (nonché scopritore di siti sconosciuti)

della rivalutazione del suo territorio, che nel tempo avrebbe

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portato la necropoli di Pantalica ad essere inserita

dall'UNESCO tra i patrimoni dell'umanità. Lo strumento

principe col quale lavora Bruno è l'occhio, naturalmente

addestrato dalla cultura e coadiuvato dalle strumentazioni.

Disegna, fotografa, prende appunti e sintetizza con lo

sguardo il progetto di lavoro che metterà nero su bianco

nella carta archeologica, che ritiene essere lo strumento

essenziale per ritrovare i segni della memoria storica e per

tutelare l'equilibrio e l'armonia del paesaggio. Nello

specifico della carta geografica, il suo metodo di studio si

avvale (quando è possibile) di foto aeree, utili per trarre

indicazioni importanti sull'assetto dell'ambiente del passato e

delle infrastrutture (strade, necropoli, villaggi rupestri,

sistemi di drenaggio) più antiche che hanno lasciato tracce

significative sulle superfici del terreno. Non secondaria è la

ricognizione degli archivi alla ricerca di vecchi documenti e

di cartografie che documentino il passato, come pure la

ricognizione sul campo. Quest'ultima in particolare risulta

essere assolutamente determinante, per la ricchezza di

frammenti -i cocci- reperibili che sono poi i segni tangibili

delle civiltà: ho esaminato cave, cozzi, ruderi, grotte alla

ricerca di prove e indizi che consentissero di ipotizzare la

presenza di insediamenti e attività umane scomparse. Quasi

un calarsi nel passato per poter meglio cercare, vivendo a

volte come un primitivo anche per mesi (come gli è capitato

di fare nel corso degli scavi della Diruta Medievale,

dormendo nelle grotte, all'interno di una bottega artigiana

delle concerie e riscaldandosi col fuoco), ma con

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l'eccitazione e il conforto di dare un contributo di rilievo alla

sua terra. E tale contributo è stato essenziale tanto dall'avere

ridisegnato con maggiore precisione la carta geografico-

storica di Sortino (rieleborando più matrici topografiche

I.G.M. che riunivano le quattro vecchie carte indipendenti e

adiacenti, comprensive di un censimento dei crolli geologici

-la Sortino Diruta- e urbanistici -l'ubicazione della chiesa

Madre, della chiesa Sant'Agata e del Castello e la sua torre-,

degli immobili privati, delle discariche abusive), allargando

e stimolando il turismo che si muove verso la Sicilia sud-

orientale, impegnandosi (su richiesta dei dirigenti della

Provincia) nell'elaborazione di un testo unico dei beni

artistici, monumentali, storici e etnoantropologici di tutto il

comprensorio della Val d'Anapo, nonché l'idea progettuale

del museo dell'Antiquarium sortinese presso l'ex convento

dei frati Carmelitani in Sortino e la bonifica della zona

Cugno del Muro.

Plastico antica rete viaria del sud est della Sicilia

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Si diceva dell'antropontologia, è bene puntualizzare ancora.

Il tempo non è un accessorio tra gli altri ma il significante

ultimo e fondamentale dell'essere umano (Sein und Zeit).

Gettato nell'attualità come semplice presenza, cosa tra le

cose e preso nel ciclo delle nascite l'uomo, l'esserci (l'essere

nell' umano) si muove nello iato tra vita e morte, dove tutto

corre inarrestabile. Ma l'esserci (l'uomo) non è

semplicemente nel tempo ma è tempo, il suo essere è

temporale; la dimensione storica è strutturalmente umana e

non delle cose che non hanno una dignità propriamente

ontologica (perché il mondo ha la finalità nell'essere umano,

pur decentrato, esiste come insieme di enti utilizzabili per la

progettualità dell'esserci), nel senso dell'avere in sé la causa

della propria esistenza. L'esserci è una causa prima (in

quanto progetto/aprente nella parola/segno lo spazio di

significatività in cui sedimenta il senso delle cose), ma anche

un causato (come fondamento senza fondamento), un

paradosso ontologico che muove dalla dinamica della parola

a quella della morte, dalla possibilità alla necessità. Il

linguaggio (il segno) apre al mondo i significati e organizza

il senso di quella rimandatività simbolica che è il tessuto

culturale di una comunità, mentre il tempo (il verbo) esprime

propriamente l'azione (il fare, la poiesis) che ordina

strutturandolo il dinamismo interno della mondanità. Nella

nostra struttura linguistica la totalità delle predicazioni

presenta gli oggetti come il prodotto ontico del tempo

(dell'essere inteso alla maniera tomista come l'atto che fa di

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un ente non solo un ente logico ma reale), operando il

passaggio dal piano dal linguaggio a quello delle cose che le

determina per quelle che sono. Facciamo un esempio: in

ebraico verbo si scrive po'-al' e significa azione, agire,

operare; la radice pe + 'ayin + làmed si trova anche in pòel

che vuol dire operaio. Come dire: prodotto e produttore,

opera e operaio non sono solo uniti da un legame

causa/effetto, ma essendo riconducibili ad uno stesso

principio poietico (il tempo, il verbo essere che li preserva

nell'esistenza) sembrano confluire in un unico significato

(una cosa e/siste, significa, solo in rapporto ad un ente

capace di utilizzarla, di aprire la significatività in cui si

colloca il senso dei significati). E se questa è la natura del

fenomeno (chiamato in questo contesto antropontologico

segno, sedimentazione noumenica dell'assoluto) nella sua

rimandatività temporale, dobbiamo allora dedurre che nulla

esista oltre la manifestazione fenomenica della cosa? Il

fenomeno (il segno/frammento) non ha il significato

squalificato di antitesi alla cosa in sé; significa piuttosto

manifestazione, fulgore, ri/velazione; non è opposto

all'essere ma è l'esistenza nella sua mitogia concettuale, il ci

dell'essere (una forma).

*******

Naturalmente il fenomeno come segno/frammento

dell'essere riesce in qualche modo a confluire nella materia

utilizzando i linguaggi propri della tradizione locale,

con/segnando alla modernità non il passato della storia ma

attualizzando nel presente il senso sempre attuale delle cose,

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l'ottica assolutizzante di un vissuto mitologico che proietta

nel contesto moderno la verità dell'essere. Come uno spazio

in cui si apre lo scenario del mondo all'interno di un gioco

simbolico di segni/parole/colori che sono una panoramica

perspicua della realtà. Proprio questa deve essere stata la

ragione che ha portato non solo Gioacchino Bruno (all'epoca

segretario della Pro-Loco Pantalica di Sortino), ma artisti e

conoscitori del territorio come Sebastiano Pane e Alessandro

Rapisarda, alla realizzazione di un monumentale murale nel

giardino pubblico della zona Piano del Castello nel territorio

sortinese, raffigurante scorci di vita quotidiana ambientati

nella Sortino Diruta. Oltreché naturalmente il sostegno

dell'amministrazione nella persona del sindaco, Orazio

Mezzio e dell'assessore prof. Franco Giuliano, come pure il

contributo di artisti (di talento, ad esempio Mario Matera) e

concittadini. Il lavoro fu davvero incredibile per l'estensione,

si presentava in una lunghezza di 41m, 3m in altezza, per

una superficie complessiva di 123mq. Villa delle Rose è un

Scena che raffigura il Castello

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sito importante per la posizione geografica che ricopre; era

l'antico Piano del Castello nella Sortino Diruta, posto nel

cocuzzolo di uno sperone roccioso delimitato a sud e a nord

da profondi dirupi. Il luogo fortificato con un fossato e mura

alte aveva un portale d'ingresso e la sua piazza d'armi. Il

nome moderno (bellissimo e suggestivo), prima denominato

Cimitero Vecchio (in quanto fu trasformato in cimitero dopo

il terremoto e sulla base della legge che imponeva ai comuni

di costruire i camposanti ad una certa distanza dai centri

abitati) fu dato da una scolaresca d'asilo che aveva le aule

presso il monastero di Montevergine, e piantò sul terreno un

campo di rose. Anticamente era la pozza/piazzale, ed il

murale fu anche perciò denominato Piazzale del Castello,

per secoli di proprietà della famiglia feudataria dei Gaetani.

Negli anni i resti funebri furono trasportati nel cimitero

nuovo e il portale (che sembra avesse la forma ad arco e

dotato di un cancello in ferro; ma tale informazione arriva

dai racconti degli anziani di Sortino e non è stata

documentata) fu abbattuto. Quando il sindaco di allora (con

delibera della giunta n. 138 del I Marzo 1999) ha bonificato

l'area (che l'incuria aveva trasformato in una discarica

abusiva) intonacando il vecchio muro a nord con un grande

pannello bianco, fu naturale pensare di dipingerlo. Il primo

progetto che Gioacchino Bruno presentò venne rifiutato

dall'amministrazione per mancanza di fondi e solo dopo anni

rinacque l'interesse. I sei paesaggi (Concerie, Castello del

feudo, quartiere Curditta, abitazioni del ceto medio-alto del

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S.Sofia Fuori le Mura

Curditta situato all'epoca nella parte superiore del centro

abitato, chiesa di Santa Maria del Soccorso, uscita indenne

dal terremoto e successivamente adibita a deposito agricolo)

Scena che raffigura le botteghe artigiane delle concerie

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vennero dipinti a base di idropittura al plastico e inseriti in

una cornice litica e si dispiegava in sei sezioni raffiguranti la

vita dell'epoca. L'opera, che cominciò nel Maggio del 1999,

durò sei mesi e fu pure imbrattata col ducotone con un atto

vandalico. Ma ancora oggi il piazzale viene visitato da

turisti, considerando anche la bellezza del panorama, e

utilizzato nel corso delle cerimonie pubbliche. E così

nonostante tutto oggi l'antica Sortino rivive grazie anche a

Giocchino Bruno in un eterno presente, davvero al di là delle

scelleratezze dell'epoca moderna, come un monumento

all'attualità di una storia da non dimenticare. Sembra

insomma che Salvo Sequenzia abbia affondato la penna nella

maniera più giusta e acuta quando scrive di Gioacchino che

Abitazioni rupestri esplorate nel 1998

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Chiesa rupestre di S. Maria del Riposo

all'ansia descrittiva dell'occhio analitico sostituisce lo

sguardo sbigottito dell'artista, che sottomette la rigidità

della visione alla spumeggiante ventata di una fantasia che

sfuma i contorni dell'immagine originaria per coglierne il

senso riposto; armando un impulso di curiosità, di

conoscenza totale, e quasi spreme volontà di colloquio con

l'oscurità dei millenni, in un disperato bisogno di fermare il

transito dell'effimero nel riverbero della visione, dove la

forma si sfrangia, e il muto silenzio della Grande Madre,

minaccioso e terribile, si trasforma in smagante richiamo di

Eros, energia rigenatrice del mondo, invito sensuoso

dell'Amante Universale, richiamo di una Grazia fatua e

ineffabile che, dal fondo di ere remote, chiede la comunione

di senso, di sensi, nella stupefazione dell'uomo che si

arrende all'irrazionale panico, a un'inattesa aura che salva.

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Quartiere Curditta

*******

Una tensione analogico/ontologica della materia (dall'essere

all'esserci, all'essere-qui-ora) che significa solo nell'orizzonte

umano come chiamata nella deiezione, un richiamo oltre il

getto della coscienza pro-gettuale della temporalità scaduta.

Il tempo che per l'uomo è linerare nelle cose dell'arte

(ovvero quei di/segni, prodotti estetici che segnano

l'indefinito nelle specifiche manifestazioni dell'essere) è

invece ciclico. Sottratti alla dimensione strettamente

esistenziale nascita, putrefazione e morte sono nel segno

poetico condensati in un unico pres/ente (presso l'ente, la

cosa), senza spazio né tempo. Ancora una volta è il tempo a

intervenire annullandosi nel processo poetico: il segno

(incisione nel divenire, graffio e memoria nella storia) è

appetito, desiderio di esistenza, di fermare il proprio essere

nell'immobile e sempre uguale, nell'attimo impossibile

dell'eternità. Superando la storicità degli eventi ma anche il

linguaggio scaduto nella chiacchera, la lingua poetica dura e

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si conserva; è la qualità che ha il prodotto di superare la

natura limitata del produttore, di usarlo, annullarlo e

nell'ultima delle alienazioni trascenderlo. E questo è il valore

del segno nel rapportarsi all'uomo (Solo l'opera fa

dell'artista un maestro d'arte. L'artista è l'origine dell'opera.

L'opera è l'origine dell'artista. Heidegger) e nel mondo, in

cui apre e fonda l'orizzonte mitologico in cui ogni ente

appare. Il suo senso non può allora trovarsi nel contenuto

(che è ciò che una comunità/forma di vita, sulla base di una

rete di credenze e convinzioni condivise e concordate,

riconosce come valori, una forma), né tanto meno nel

significato inteso quale rappresentazione contingente di un

fenomeno storicamente determinato, ma deve piuttosto

consistere nel significante, nella parola/segno vuota dei

riferimenti ontici (ripulita dalla colonizzazione culturale

operata dall'idea sul linguaggio) e libera da ogni

sedimentazione semantica. Dalle interessate connotazioni

mondane. Nella tecnica (τέχνη, uno dei modi della ά-

λητεύειν, di rendere manifesto l'ente) propriamente, che è

ciò che permette alle cose di assumere un significato.

Contenuto del segno poetico è l'abilità di dominare una

tecnica che nello scorrere delle epoche e delle idee si

afferma oltre le contigenze storiche configurandosi come

verità dell'essere. Il produrre, il fare, la poiesis non sono

tanto un bisogno e-sistenziale di comprendere e costruire un

mondo, ma la pulsione erotico/biologica di dilatarsi oltre il

finito e la temporalità (annullando la differenza welt-erde,

mondo-terra) dando voce all'essere che s-vela i significanti

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in una diversa semantizzazione. La techne, il fare, la

manualità produttiva è attività che unisce l'uomo e l'essere

(la parola e la cosa, in quanto è il nome/segno a rendere cosa

la cosa) in un unico destino, annullando e appropriandosi in

una storia di reciproca appartenenza. Travolto dal segno

dell'essere (Che il ci, l'illuminazione come verità dell'essere,

accada questo è decreto dell'essere stesso. Heidegger), il

poeta (nel senso del fare con una connotazione ontologica) è

costituito dalla poesia (nella catena significante dei

significati che aprono al senso) in quanto è la poesia a porlo

nella propria apertura storica. Il segno poetico è un risalire

rischiarante/occultante, un custo/dire e ri/velare ciò che

viene alla luce dal fondo dell'essere, dalla cristallizzazione

della materia; un cammino a ritroso (Zeit und Sein) nel quale

l'uomo è appropriato all'essere e l'essere consegnato

all'uomo, una condivisa appropriazione/espropriazione in cui

è l'uomo a scomparire, a mortificarsi e annullarsi. Il

produttore di segni è nessuno, uno strumento (nel senso che

l'essere si serve dell'uomo per l'accadere che è l'essere

stesso) dell'essere che vuole e non vuole annunciarsi. La

testimonianza di una verità che annulla i significati e s/fonda

in nessi logico/temporali; in cui segno e significato si

separano per ricostruire una nuova unità lessicale.

Combinando e ricombinando, distruggendo e ricostruendo il

linguaggio fino a sedimentare la consistenza di una pietra.

*******

Salvare le cose dalla degradazione temporale e dall'usura

della memoria. Non solo però; per un antropontologo si

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tratta non di portare alla luce patrimoni sommersi delle

civiltà ma di far rivivere quei luoghi risignificandoli nel

tempo presente. Come sarebbe dovuto accadere nel desiderio

di Gioacchino Bruno per la Sortino Medievale, attualizzando

la storia e storicizzando il presente. La storia della scoperta

di questa città sotterranea ha qualcosa di magico, e una parte

del merito va riconosciuta al nonno paterno (pittore

dotatissimo) che veniva incaricato dai sacerdoti di realizzare

opere da esporre nelle parrocchie e del restauro dei beni. Gli

capitò infatti un giorno di imbattersi (così leggo nei diari di

Gioacchino Bruno) in un quadro tutto nero rappresentante

un paese dipinto con in alto la dicitura "Sortino antica

destrutta nell'anno 1693 per vementissimi terremoti. A 9 e

11 Gennaro". Capì subito che si trattava di qualcosa di

Tela che rappresenta l'antico sito di Sortino precedente il terremoto. L'opera è conservata

presso la chiesa di S.Sofia

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eccezionale. Chiese e ottenne al parroco don Campagna di

poterlo pulire, e con stupore comparve oltre i fumi che lo

ricoprivano l'antico abitato con chiese e monumenti. Con

l'intervento del vescovo di Siracusa, al quale avevo

comunicato l'importanza del quadro, e con il contributo di

una ditta di Priolo cominciò il restauro vero e proprio. Il

quadro è stato un compaggio di viaggio, uno stimolo

straordinario che mi muoveva, aiutato dal manoscritto del

Gurciullo (studiando con minuzia tale i caratteri calligrafici

da arrivare a riprodurne in un manoscritto la grafia come gli

amanuensi dell'epoca), alla ricerca dei resti rappresentati (il

dipinto come si usava a quel tempo è dotato di un dettagliato

glossario della mappa). Cominciai a perlustrare il territorio

alla ricerca della vecchia Sortino. Ogni giorno aggiungevo

Legenda del quadro storico con l'indicazione di strade, chiese, ponti e piazze

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nuovi tasselli, leggevo e disegnavo mappe sempre più

dettagliate. La prima fu quasi ricalcata dal quadro e venne

inserita nel volume "Chiese, conventi e palazzi di Sortino"

ad opera del parroco Giuseppe Salonia, e inserita dalla

dott.ssa Beatrice Basile, funzionario e ricercatrice della

Sovrintendenza di Siracusa, nei documenti ufficiali. E in un

altro passo dei suoi taccuini si può anche leggere: Avevo

scoperto Sortino antica attraverso un quadro... fui

folgorato! C'era la legenda indicante i nomi di chiese e

strade, i ponti, le sorgenti, i quartieri. Mi misi subito alla

ricerca dei resti; accumulai foto, disegni, mi misi a leggere

il manoscritto del parroco Gurciullo (edito nel 1749).

Accrescevo le mie conoscenze dei luoghi. Nel 1993, nella

ricorrenza dei trecento anni della distruzione ad opera del

terremoto, assieme a Luigi Ingaliso cominciai la stesura di

un libro "Ricognizione topografica, tra storia e leggenda".

Lo stampai a mie spese e con l'aiuto di alcuni negozianti e

di liberi cittadini. Il libro, che è anche un diario dei lavori, è

stato investito di riconscimenti autorevoli, ed è giunto in più

occasioni all'attenzione della stampa non solo locale

(Giornale di Sicilia, Diario, Agorà, Zomerkavantiespecial).

Quando si scava nel tempo capita a volte di trovare tesori, e

così raccogli i cocci, cataloghi i reperti, di/segni le mappe,

segni gli oggetti. Metti ogni cosa insieme e cerchi di

ricostruire la storia, le vite di quell'antico abitato. Vorresti

sentire le voci delle persone che le hanno adoperate, vedere

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le mani che le hanno afferrate e gli occhi per le quali hanno

pianto o sorriso; e così ripercorri la storia di una, cento,

mille vite. E faresti di tutto per dare loro una voce, un'altra

opportunità; perché la morte e la fine delle cose non riesce

ad accettarla un antropontologo, il suo compito è di dare

nuova vita, nominando e risignificando gli oggetti trovati.

Estrarre il pres/ente che è in ogni cosa, con/segnarlo alla

luce affinché racconti non il passato ma il futuro, come una

Prima mappa topografica eleborata sulla base del quadro e delle cartine altimetriche IGM,

pubblicata nell'opuscolo Sortino Diruta

traccia poetica da seguire nei sentieri sempre impervi

dell'esistenza. Il lavoro di Gioacchino Bruno, e in particolare

proprio negli scavi della Sortino Medievale ha proprio

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questa caratteristica. Nei disegni ci senti i cadaveri

insanguinati, schiacciati dalle mura crollate (come scrive lo

storico Sebastiano Pisano Baudo) nel terremoto del 9-11

Gennaio 1693, ci vedi i corpi affondati nella melma,

seminudi terrorizzati e assiderati. E allora Gioacchino scava

con le mani e col piccone senza fermarsi perché c'è sempre

una possibilità di salvezza, anche dopo centinaia d'anni. Si è

detto del tempo e della tecnica nella ricognizione

antropontologica; è impressionante davvero vedere non solo

la passione del raccoglitore metodico, ma la quantità della

mole del lavoro prodotto (dai diari ai progetti di recupero,

dalle conferenze ai disegni della città, dallo scavo sul campo

al plastico minuzioso della Diruta, in scala 1:250).

Gioacchino ha ricostruito Sortino Vecchia in ogni modo,

vincendo le naturali erosioni della memoria e sfidando non il

tempo aulico della storia, ma il suo; prima con lo scavo, poi

con disegni e fotografie, poi con un plastico e con la

compilazione dettagliata di diari, infine con la parola.

Facendo in qualche modo rivere gli antichi quartieri

Curditta, Mandrazzu, Carcarone, Cunserie e Cava. Ed è

interessante notare la povertà dei mezzi con cui ha lavorato

Gioacchino (per lo più solo, ma a volte con amici e volontari

dell'associazione SiciliaAntica da lui fondata) nell'estrarre la

vita dalle macerie, proprio come se si trovasse nel mezzo del

sisma, tra i rantoli di disperazione della sua gente, scavando

con le mani e con oggetti di fortuna presi sul luogo:

piccozze, triangoli, secchi, zappe, cariole, manicole, picconi,

rastrelli, pale, livellatori, scope in ferro, rotoli di lenza. Ma

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nulla è improvvisato, perché il metodo (la tecnica)

scientifico di ricerca -come quando in un cataclisma si

organizzano i soccorsi non facendosi prendere dal panico ma

seguendo regole consolidate- è sempre presente. Come si

vede nei documenti autografi che riguardano ad esempio

l'insediamento Bassomedievale, in contrada Costa Sortino a

150 metri dalla cappella di S. Francesco di Paola.

Anticamente era denominato Quartiere Curditta (il quartiere

più ricco e nobile, situato sotto il Piano del Castello, e così

chiamato in quanto era la prima fonte d'acqua che

Plastico di Pantalica

s'incontrava nella parte alta e che in estate diventava un

rigagnolo defluendo come una fontanella, una cordicella, la

curditta), nei pressi del monastero di S. Benedetto, nel ciglio

del precipizio denominato anticamente Barriera.

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Individuabile sulla Carta d'Italia I:25.000, foglio 274,

quadrante IV, orientamento: S.O. Monte Pancali. Particella

120, foglio 39. Dietro permesso dei proprietari e con

l'autorizzazione della Sovrintendenza di Siracusa, nella

primavera del 1998 ho iniziato una complessa opera di

pulizia di due abitazioni rupestri. Il sito s'inquadra in un

paesaggio a gradoni, in declivio verso sud; si può

raggiungere mediante una trazzera privata imboccando la

strada per S. Francesco di Paola; dove termina la trazzera,

sulla sinistra si sviluppa l'insediamento indagato. Sembra

insomma che per quanto il cuore ci metta il suo, la testa

debba comunque fare la sua parte, e nulla sia lasciato al

caso. Ma il cuore si sente nella ricognizione dello sguardo

-assolutamente dominante- che abbraccia il tutto, e tale

visione è marginalmente attuale perché sfonda le macerie del

tempo e rac/coglie come in una fotografia antica la vita

dell'epoca. Non è un occhio che storicizza o surcodifica, è

un vedere libero dal presente, immerso e realmente partecipe

del passato. Il cuore lo senti nella luce delle fotografie, nel

segno che incide la carta, nella caparbietà della riproduzione

minuziosa dei reperti; lo senti nelle mani che afferrano gli

oggetti, quando li porta alla luce e li pulisce. Mentre con le

dita toglie non detriti di terra ma significati e incrostazioni

semantiche e culturali.

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Mappa turistica dell'area archeologica di Pantalica elaborata sulle cartine topografiche

dell'IGM, in previsione dell'apertura del punto informazione

*******

Se il fenomeno poetico consiste pertanto nella

concentrazione (l'apertura in cui si annuncia l'essere)

dell'essere nel tempo, il produttore di segni/manufatti agendo

con la sua tecnica nel ricettacolo fenomenico (segno) non

solo imita l'inimitabile processo della creazione, ma opera

nella natura del sacro. E non c'è differenza alcuna tra un

nome e l'altro perché nello spazio dell'essere che annulla le

differenze e sopprime la molteplicità, il fare poetico è il

prodotto di un'unica grande opera. I poeti hanno composto

una sola parola, i musici il medesimo suono, gli scrittori lo

stesso libro (I pensatori essenziali dicono sempre la stessa

cosa... questo non vuol dire che dicano cose eguali... essi

dicono questo solo a chi è disposto a seguirli nel pensare...

Rifugiarsi nell'eguale non è pericoloso. Heidegger). Dando

voce nella sintesi storica al libro/museo infinito e universale

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Plastico della Sicilia antica con i nomi di tutte le località maggiori

che più dall'individualità dell'ente, viene alla luce dal nulla

dell'essere fondando i mondi storici (mitologici e simbolici)

entro cui gli enti si rapportano. E gli uomini che nulla sono

paragonati all'eternità, incapaci di conservare il proprio

essere nel tempo e di continuarsi oltre i limiti

dell'individualità spaziale, nelle mani di una natura che non

manca di fare sentire il suo peso, appaiono davvero come

l'ombra grottesca di una predicazione poetica che li

trascende infinitamente.

Le origini del mito

ontopoiesi della verità o teatro ideologico?

A questo punto della nostra discussione sull'antropontologia

è bene dilungarsi su una questione di primaria importanza

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nel lavoro di un archeologo, il mito e le mitologie delle

civiltà. L'argomento è essenziale in quanto il mito è

l'orizzonte di senso in cui il materiale raccolto non solo

viene catalogato e inserito in un contesto culturale, ma senza

il quale i reperti è impossibile che vengano alla luce. Il mito

va oltre lo scavo perché è già nello scavo stesso, nelle mani e

nella testa dello storico, nella cultura e negli occhi del

cercatore a muoverne il piccone. E in ogni colpo lo senti

echeggiare, come un urlo e un grido quasi di liberazione.

Macerie presso l'ingrottato basso del nucleo Grotte Cannata

Si è detto che la poetica fonde e custodisce un mondo, e la

costruzione di un mondo (una forma) è un atto politico e

mitologico (una metafisica dei costumi). Il mito

colonizzatore/colonizzato dei modi dell'essere è la

correlazione totale che unisce i termini della relazione

dell'essere-nel-mondo (significante-segno-significato; come

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un trionfo bacchico... in cui non c'è membro che non sia

ebbro. Hegel), una percezione globale fondante le istituzioni

di un popolo, un sistema particolare che edifica sulla base

di una catena semiotica preesistente (R. Barthes). Fornisce

cioè un'immagine naturale del reale, costituendosi attraverso

la dissoluzione dei caratteri storici delle cose, dove le cose

perdono il ricordo della loro fabbricazione a significare

l'insignificanza umana, l'assenza. La mitologia partecipa

attivamente al fare del mondo, è un accordo col mondo non

quale esso è ma quale vuol diventare. E' portatrice di verità:

capace nel suo metalinguaggio di ripensare l'alienzazione dai

contenuti fondamentali a cui la cultura globale

surrettiziamente espone, e la sua rivelazione è un atto etico e

di libertà. Il mito è lo spazio del sacro, ombra delle

espressioni culturali e quadratura del pensiero significante.

Non però un agire sui simulacri di una forma di vita, alla

maniera di Schopenhauer -in quanto principio di causa che

ordina le rappresentazioni condizionate dalle forme apriori

della coscienza (tempo, spazio, causalità) secondo la

necessità fisica, logica, matematica e morale- ma lo sfondo

tramandato nel quale si può distinguere il vero dal falso e il

giudizio costruire una visione ordinata delle cose.

E' con Vico che nasce la scienza moderna del mito, inteso

non come rivelazione di verità ancestrali, ma espressione

della genuina visione del mondo dei primitivi. Il diffondersi

dello studio scientifico e su base antropologica comincia

però coi viaggiatori e studiosi del XVIII (Ch. De Brosses, A.

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F. Lafitau) e J.J. Rousseau, per arrivare a Creuzer

(Simbolismo e mitologia dei popoli antichi, 1810-12) il quale

Aratura primordiale; inchiostro su cartoncino

vedeva nel mito l'immagine raffigurata dei simboli originari

che racchiudono le immutate verità delle cose. Per J.J.

Bachofen incarnava la lingua primordiale, mentre U. Von

Wilamowitz-Moellendorf e M.P. Nilsson (autori criticati

dalle allucinazioni mistiche filologiche di R. Guénon)

cercavano nei miti i segni storici del materiale mitologico.

Cassirer (Filosofia delle forme simboliche, 1923-29;

Simbolo, mito e cultura, postumo 1979) arrivò a concepire

l'autonomia semantica del simbolismo, portatore di una

verità mitopoietica (il linguaggio dimenticato), rinvenibile

nelle somiglianze e analogie che si trovano nei racconti sacri

di popolazioni diverse in tempo e spazio (A. Bastian, Th.

Achelis, F. Boas). Secondo Malinowski il mito come

sviluppo drammatico del dogma (in Sesso, cultura e mito,

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1962) era una fantasia narrata per indurre condotte e

comportamenti morali e religiosi, mentre per R. Otto e la

Scuola Fenomenologica una categoria del sacro nella sua

rivelazione storica. Van der Leeuw lo assimilò alla parola

stessa, come la forma che crea la realtà in un proprio tempo

che è un non tempo (Fenomenologia della religione, 1933),

ravvisando in esso dei riti messi in atto, un modello

archetipico del profondo o mandala vissuti sul piano

razionale (Eliade). Frobenius propendeva per concezione

autonoma, forma compiuta analoga a quella musicale

(Introduzione all'essenza della mitologia, 1940-41) nella

quale i mitologemi espongono il materiale originario che la

fantasia mitopoietica elabora con regole affatto evolutive,

perché svolge una funzione simbolica che consiste nel

fondare collocando l'uomo nel suo contesto, dandogli un

senso e assumendone a sua volta uno.

Studio della pavimentazione lastricata a mosaico antistante la chiesa Madre, vista dall'alto;

china su carta

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Più moderna e interessante per comprendere il lavoro di

Gioacchino Bruno è l'Antropologia Culturale di Lévi-

Strauss, che dava al pensiero mitico il compito di procedere

alla presa di coscienza dei paradossi della lingua, fornendo

una sintesi e un modello logico per risolvere le

contraddizioni semantiche; cercava destrutturandole nelle

unità costitutive del mito gli elementi essenziali di un

linguaggio (Il crudo e il cotto, 1964). I mitemi,

China su carta; suino

propriamente, gli elementi di un discorso nella loro

apparizione storica, dal sottosuolo originario archetipico che

danno loro una regolarità logica capace di evitare la

dispersione dei segni nella formazione sistematica degli

oggetti che vanno a costituire. Archiviando informazioni e

contenuti (Ma l'archivio è anche ciò che fa si che tutte

queste cose non si ammucchino all'infinito in una

moltitudine amorfa... e non scompaiano per casuali

accidentalita' eterne; ma che si raggruppino in figure

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distinte, si compongano le une con le altre secondo

molteplici rapporti... -che- come stelle vicine ci vengano in

realtà da molto lontano. M. Foucault) sono nella sostanza

una riscrittura nella forma più comprensibile di cose

Stemmi per la lapide UNESCO in occasione della nomina a Patrimonio dell'Umanità di

Siracusa e Pantalica. La scultura si trova nella facciata del Municipio Vecchio di Sortino.

Eseguita in pietra di Comiso, 2x1,70m circa

inenunciabili. Guénon, su questo punto, era già stato molto

chiaro: Mutea era la dea del silenzio, sposa di Ermes

(l'apritore di porte/significati da cui la parola ermeneutica:

theorein -τεωρός vuol dire custo-dire- divide la radice

-εορέιν- con ermeneus -έρμηνεύς interprete, da Ερμής

messaggero-. Parola che assorbe la dicotomia: ειρη vuol dire

assemblea e allude al parlare in pubblico; 'ερημια significa

solitario, deserto da cui έρημίας solitudine che rinvia al

rientro circolare in sé, mentre ειών rimanda al parlare

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dissimulato, chiaroscurato, alla finzione dell'ironia) e padre

di Sileno; allundendo ad un'assonanza tra mito e muto

portatrice di un ontologico divieto della parola all'accesso

della verità (mito significa silenzio, muthos viene da mu,

muto e indica la bocca chiusa; il verbo muein rinvia alla

chiusura della bocca, al tacersi. Se da muô è poi derivato il

verbo muêo -che significa iniziare ai misteri, istruire senza

parole-, allora mustêrion -mistero- è ciò che si deve cogliere

in silenzio, non nel linguaggio ma nel suo rovescio).

Vengono davvero in mente le parole di Heidegger: La

chiamata non racconta storie e chiama tacitamente. Essa

chiama nel modo spaesato del tacere; e ciò perché la voce

della chiamata non giunge al richiamo assieme alle

chiacchere pubbliche del sì, ma lo trae fuori da esse

richiamandolo al silenzio del poter-essere esistente. La

radice della parola mito rimanda insomma alla sospensione

Pulizia concerie con l'aiuto di volontari, inizio anni '90

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della parola e richiama all'idea dell'annullamento del

linguaggio codificato; sembra invitare il raccoglitore di

segni/parole a scavare oltre la sedimentazione culturale

operata sugli enti/manufatti del mondo, di strato in strato

nella materia fino all'originario e silenzioso dire (die sage)

inaccessibile al linguaggio quotidiano. Ora più che mai,

nell'epoca globale della colonizzazione semantica, operata

attraverso l'imposizione di significanti dispotici che ha

portato alla spiritualizzazione dei fatti umani in un campo

sovraumano surcodificante formando sistemi metafisici

alienanti -teatri ideologici (Deleuze)-, è forse necessario

dissolvere non solo l'Io e la catena dei significanti che lo ha

costruito (dall'essere del ci a ci dell'essere) ma le

parole/segni assordanti della comunicazione di massa nel

paradosso del silenzio poetico. In uno spazio di pre/senso

che rovescia la storia dell'uomo (L'uomo storico viene

preparato alla prossimità della verità dell'essere. Non

soltanto ogni antropologia e soggettività si trova qui

abbandonata... e viene ricercata la verità dell'essere come

fondamento di una nuova posizione storica, ma si

esperimenta e prova in quella svolta del rapporto all'essere.

Heidegger), per dare una nuova possibilità all'essere e in

definitiva alla verità. Il mito è esattamente ciò che regola

questi processi di semantizzazione del mondo, come la

grammatica che delimita i confini del linguaggio. Fissa

l'orizzonte possibile degli enti denominandoli (Il

denominare/raffigurare è simile ad attaccare ad una cosa il

cartellino con il nome. Wittngenstein), attraverso l'uso di

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regole/giochi linguistici e abitudini arbitrarie (Seguire una

regola è analogo ad ubbidire a un comando. Wittngenstein)

ma consolidate nella forma di vita di appartenenza. Ed è

proprio contro le grammatiche del quotidiano che

Wittngenstein invitava a scavare, nella vita vissuta e

maneggiata che sola insegna a giudicare, ad imporsi come

fondamento dei giudizi. E il giudizio può darsi solo

collocandosi in queste credenze, che sono lo sfondo nel

quale si collocano il vero e il falso; nel mito tali credenze

calcificano e diventano senso comune, di/segni assoluti,

l'aperto in cui è possibile una wetltanschauung, una visione

del mondo.

Scultura preistorica risalente al periodio che precede l'insediamento dei siculi

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*******

Il valore del mito è naturalmente presente anche

nell'attualizzazione dell'antico operata da Gioacchino Bruno,

servendosi delle mitologie del suo tempo per indurre il

proseguimento degli scavi e ottenere quel minimo di

collaborazioni senza le quali il passato rimane tale e il

presente inesorabilmente povero. Organizzò allora proprio in

una delle grotte che erano oggetto di scavo, in occasione

della ricorrenza natalizia, un presepe vivente (mito moderno

contestualizzante), che gli consentì di perseverare nella

ripulitura della grotta (Ero stato pochi giorni prima a

fotografarne il degrado, non potevo guardare quello schifo,

dovevo fare qualcosa... Con Andrea Murè iniziai a tagliare

Pulizia Grotta Fezza, ingresso di Sortino Antica sotto il piano del Castello

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le piante dei fichi d'india; il proprietario del terreno ci

prestò una gossa ascia per frantumare la vecchia auto

bruciata che vi era stata abbandonata. Cominciai a pulire

vicino a un tramezzo, mi misi a togliere pietre, trovai

qualche reperto con l'ausilio di una piccozza; nel giro di un

mese comparve il pavimento... il proprietario mi disse che

era meglio coprire il buco con le pietre che avevo raccolto.

Aiutato da Salvatore Marchese e Sergio Terranovo continuai

a togliere terra nella parte alta, e anche là venne alla luce

un pavimento in calce. Oggi la grotta ha il nome "Fezza", è

pulita e visitabile) e di concentrare l'interesse della

Grotta Fezza, allestimento tipico in occasione del presepe vivente

cittadinanza partecipandola nella storia di Sortino. Con tutta

probabilità, senza l'artficio (che poi artificio non è) del mito

della natalità il lavoro non sarebbe continuato. Così racconta

Gioacchino gli eventi: L'idea nacque per portare le persone

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a vedere la grotta che avevo ripulito. In quel tempo ero

segretario della Pro-loco sortinese... nel giro di poche

settimane realizzai scritti e disegni. Andai a pulire e il 5

Gennaio portai dentro il materiale d'arredo nella grotta più

alta, la mattina del 6 mi accorsi che avevano rubato tutto.

Non mi arresi e il presepe si fece ugualmente. La

manifestazione fu un successo ma la grotta risultò piccola

per contenere l'affluenza, così l'anno dopo per l'allestimento

scelsi la "Fezza". Durante i lavori di preparazione della

grotta andavo a perlustrare le zone vicine, portavo con me i

ragazzi e indicavo loro le testimonianze storico-

archeologiche. Lavoravo alacremente. Un giorno mi misi a

scavare accanto al muro della grotta superiore e

comparvero reperti; li esposi in loco il giorno del presepe

attaccando sulle pareti disegni e fotografie inerenti lo scavo.

Il presepe era una scusa, avevo infatti raggiunto il mio

scopo che era di mostrare l'opera di rivalutazione dell'area.

Se avessi organizzato una mostra senza la Madonna e San

Giuseppe non sarebbe venuto nessuno... La manifestazione

si tenne, non sempre organizzata da me, fino al 2003. Fu

l'ultimo anno, i soldi erano finiti. Ecco un esempio di come

il mito raccoglie inter/esse anche nelle persone culturalmente

meno preparate, predisponendo un teatro di significati in cui

l'eterogeneità dei singoli confluisce e in qualche modo

concorda parole/segni/cose in uno spazio estetico condiviso

di valori/simboli che dà un senso raccogliendo in una

medesima forma di vita. E' una specie di magia in cui

davvero si viene avvolti in un'atmosfera sacra che

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com/muove e libera il sentimento. E il sacro non è nella

pantomima ideologica della rappresentazione, ma nel

condividere in maniera viscerale un linguaggio simbolico

che trascende il tempo e la stessa individualità.

Grotta Fezza, ingresso, pulizia e studio durante i lavori di allestimento

*******

I miti sono qualcosa di simile all'imperativo di Kant e al

formalismo etico dietro il quale non rimane che l'abisso

(Come criterio di giudizio impieghiamo altri giudizi.

Wittgenstein), lo spazio in cui si apre lo scenario del mondo,

il senso e la possibilità di una comprensione. Una tonalità,

un museo dello spirito nel quale si dispiegano le questioni

essenziali. Il senso di vero/falso può darsi solo all'interno di

questo gioco di lingua/segni, piuttosto che in un codice

astrattamente normativo, in un contesto di regole stabilite

che sono una panoramica perspicua della realtà, nel quale si

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annulla il confine tra la grammatica e l'esperienza, Io e

mondo ed è impossibile accedere al significante primo (E'

così difficile trovare l'inizio, l'arché, e non tentare di andare

più indietro. Wittgenstein).

*******

Nello specifico del mito che riguarda il territorio sortinese,

viene alla luce nel suo significato di raccogliere le credenze

calcificate in un contesto che le sintetizza in un senso

comune, dando una dignità etnica e dunque una storia

aggregante alla popolazione. Un immaginario fondante -un

Totem- nel quale il senso di appartenza ad una comunità

Figura fittile, San Sebastiano, trovata nella bonifica di Cugno del Muro

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confluisce in un gioco linguistico fantastico piuttosto che in

un codice astrattamente normativo. Si è visto infatti, che

proprio sulla base del mito, all'alba del disastro del 1693, gli

abitanti di Sortino sopravvissuti al sisma non ricostruirono la

cittadina nel vecchio sito ma sul monte Aita (più in alto) e

non solo per le maggiori garanzie di reggere a un nuovo

terremoto che la terra di quel posto assicurava. Sembra

piuttosto che le credenze sulla maledizione di Xuto -che la

leggenda vuole come fondatore di Xutinum- figlio di Eolo

siano state determinanti. Racconta la storia che Xuto alla

guida di una popolazione sicula, arrivò ad Erbesso ai

marigini del torrente Ciccio (oggi Guccione) stabilendosi

stanzialmente in quel posto. La tradizione vuole che Xuto

nel visitare il tempio di Proserpina vi trovò un tesoro e

pensando che la dea, moglie di Plutone, non ne avesse

bisogno, depredò il luogo di culto. A causa del sacrilegio,

Xuto non fu punito subito ma scese sulla città la maledizione

della dea, la quale predisse un'enorme catastrofe su Xutinum

tale da inghiottirla nella terra. L'immaginario popolare ci ha

poi messo il suo nei secoli, tanto che le cronache raccontano

(Samuele Cultrera ad esempio) di un certo padre

Michelangelo che si era presentato prima del cataclisma al

convento dei Cappuccini, avvertendo dell'imminenza del

terremoto; fu imprigionato nelle mura e a nulla valsero gli

strali di avvertimento che lanciava dalle grate. Padre Andrea

Gurciullo (nelle Notizie della chiesa di Sortino) scrive

invece di suor Cesaria Celona del monastero di

Montevergine, la quale predisse che la tragedia si sarebbe

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verificata un anno esatto dopo la sua morte; la suora morì il

9 Gennaio 1693 e la coincidenza rimane indelebile nelle

pagine del Gurciullo. Un evento che viene forzatamente fatto

coincidere a posteriori con lo scorrere delle cose, e che

dunque si radica nella simbologia mitologica dell'epoca,

significando e inserendo anche lo straordinario in un codice

di comprensione da parte della comunità.

*******

E' per questo che Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche

ripete che la metafisica non è vera ma ha comunque un senso

e il suo senso consiste nell'uso dei termini che le sono

propri; come pure che com/prendere significa padroneggiare

una tecnica, seguire una regola. Il processo

epistemologico/cognitivo è il frutto di comportamento e

addestramento, un'abitudine che dipende dalla natura

dell'uomo che applica quelle regole, e tali regole devono

comunque essere conforme alla sua natura. Tenendo a mente

che una comunità abbia concordato nell'assumere una regola

non è un compromesso a tavolino, ma una prassi che si

colloca in quella specifica forma di vita che è l'essere

nell'umano, nelle diverse geografie e culture in cui si

dispiega. Col linguaggio, anche e soprattutto con quello

proprio dell'antropologia, non solo conosciamo il mito ma lo

costruiamo attivamentre con giochi linguistici che sono

relazioni pre/linguistiche soggette a loro volta a regole. Tali

regole sono per Wittgenstein somiglianze e famiglia (in un

museo schedature tematiche), estensioni di un concetto a una

classe di oggetti. Comp/prendere è allora padroneggiare una

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tecnica, e si esplica come un'abilità manifesta ottenuta nel

darsi e nel seguire una regola, ponendola a principio

normativo del tutto, come paradigma di correttezza per le

ulteriori applicazioni della regola stessa. Seguire una regola

non significa interpretare, perché ogni interpretazione

rimanda ad un'altra all'infinito, ma si pone come problema di

Fase di lavorazione tecnica del plastico in gesso

natura ontologica (Interpretare significa solo sostituire un

segno con un altro segno. Wittgenstein). Questa

applicazione è frutto di un'abitudine, di un addestramento (e

l'influenza dell'abitudine non basta da sola a spiegare

l'applicazione di una regola, perché essa ci deve sembrare

naturale, inserita nella forma di vita di appartenenza, nel

fondo mitologico aggregante di una comunità). Se

l'applicazione paradigmatica è soggetta a regole

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grammaticali, allora è possibile intendere e prevedere il

senso di una parola prima che venga enunciata (ovvero se si

trova in un orizzonte mitologico di senso) semplicemente

seguendo le regole grammaticali (e dunque ontologiche) a

cui tale termine è soggetto (metodo essenzialmente

antropontologico). L'accordo nell'applicazione

paradigmatica di regole deve essere concepito come una

coincidenza nelle relazioni simboliche prodotte

spontaneamente da un popolo, che concepisce al di là dei

tempi e dei luoghi somiglianze (vedere qualcosa come

qualcos'altro è percepire somiglianze interne all'oggetto con

altri oggetti). Dove ogni cosa può assumere un senso.

Sempre per Wittgenstein il senso consiste (nelle Ricerche

Filosofiche) nell'uso di quel termine e la verità è un luogo

linguistico di segni in cui gli uomini concordano, sulla base

della forma di vita che condividono, ciò che è vero e ciò che

è falso. Seguire una regola è pertanto un vero e proprio salto

nel buio (posizione osteggiata da Russel, Frege e il

platonismo matematico), un'originaria interpretazione

indimostrabile (come gli anapodittici di Aristotele e

l'imperativo in Kant) dotata però di senso; laddove il senso è

qualcosa che è dato dall'esterno, un porre la regola come

paradigma di correttezza e universalità. Seguire una regola

in termini antropologici è un agire che caratterizza il modo

dell'essere nell'umano; una regola si segue ciecamente, è un

addestramento avvenuto nel linguaggio ad opera di

un'abitudine che deve sembrare naturale (si deve radicare nei

comportamenti simbolici di una comunità). Una regola deve

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essere seguita più volte in più circostanze e da un insieme di

persone per essere considerata valida, e così dare forma ai

costumi etico/estetici di un popolo. La concor/danza

nell'applicazione paradigmatica di regole è concepita come

un convenire degli individui nelle relazioni simboliche;

questo convenire è una concordanza da cui solo può

generarsi ciò che è vero o falso; è il riconoscersi in un Totem

comune, è un'induzione normativa (argomento rilevante

nell'epistemologia popperiana) che fa sì che una regola o una

parola/segno assuma un valore paradigmatico, quando cioè

viene accettata pubblicamente e condivisa da una pluralità di

regole così divenendo paradigmatica. E' una decisione (puro

formalismo simile a quello kantiano), un'abitudine, un

addestramento a reagire in un certo modo a certi segni;

l'addestramento non può calare dall'alto, ma si deve

innestare naturalmente nel nostro sistema di vita: ci deve

sembrare naturale (deve inserirsi nella nostra mitologia, nel

nostro essere simbolico prelinguistico), deve essere

concepita come una coincidenza nelle relazioni simboliche

spontaneamentre prodotte dai membri di un gruppo sociale.

E' il luogo in cui gli uomini concordano ciò che è vero o

falso sulla base di quella specifica forma che condividono.

L'antropontologo scava e estrae dalle pietre del tempo i

reperti. Mette i cocci del passato in una situazione storica e li

raccoglie otticamente/semanticamente in uno spazio di senso

costituito dalle relazioni simboliche che si muovono in una

comunità. A tale contenitore normativo e significante

(archivio mitologico: nel senso di un ambiente in cui si

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concorda il vero e il falso di una narrazione) diamo il nome

di museo. Il museo, nel raccogliere ontologie, è un lasciar

Selezione di collari ovini per l'esposizione permanente del museo

essere nell'apertura dell'essere rendendo libero per la verità

l'esserci (in quanto già sempre gettato nell'apertura storica)

che entra in questo modo in rapporto con gli altri enti

(Heidegger, dell'Essenza della verità, V cap.); ciò che

originariamente permette ad un'umanità di rapportarsi con la

totalità dell'ente degli enti. E' uno spazio che non ha ma che

dà senso (agli enti allamano-sottomano/oggetti uso-per),

come in un raccogliere teleologico pragmatico

cielo/terra/mortali/divini che procede alla

distruzione/costruzione semantica di una cultura e di una

civiltà, in cui si aprono i significati secondo un'opportunità

(bewandtnis), che è la generale corrispondenza tra le cose in

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un fine che tutte le raccoglie, secondo una cospirazione

pragmatica. Nel mito propriamente in cui ogni oggetto può

essere codificato e significato, abitando il quale l'uomo ek-

siste proteggendo la verità. Salvo Sequenzia, a proposito di

Gioacchino Bruno, così scrive in una pagina illuminata:

L'occhio indagatore di G. B., spirito inquieto di ricercatore

archeologo e di artista tentato dalla fascinazione di

linguaggi diversi e di plurime cifrature espressive, percorre

ignoti orizzonti temporali, indugia su residui di epoche e di

miti, si nabissa per lente spirali nel segreto del creato, sino

a riportare alla luce, fissandoli con abile capacità

illustrativa ed evocativa, idoli di civiltà scomparse che si

rivelano in reperti di immemorabile tempo, in sinistre,

enigmatiche figurazioni che schiudono una percepibilità

mitica e fantastica del mondo. Sono queste le parole da cui

partire per comprendere le pulsioni culturali (e l'iter

burocratico) che avrebbero condotto il 7 Maggio del 2001

all'istituzione del museo etnoantropologico di Floridia,

dedicato al padre di Gioacchino, Nunzio Bruno artista,

fotografo, conoscitore raffinato della storia del territorio e

ricercatore di spessore (nonché raccoglitore instancabile ed

esteta che ha trasformato la villa di Floridia in una vera e

propria casa/museo archeologica che ancora -grazie anche

alla madre di Gioacchino, signora 'Nzina- protegge

dall'incuria valorizzandole le migliaia di reperti della

collezione di famiglia) scomparso nel 2009. Il museo di

Floridia è situato nell'ex caserma/carcere dei carabinieri

adiacente la chiesa Madre riadattata secondo -e nel rispetto

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della pianta originale- i disegni di Giocacchino Bruno, che

prevedevano l'unificazione dei vani al fine di realizzare un

ampio locale in cui ospitare la carretteria (il locale più

Selezione di punte di trapano

importante); tali vani saranno poi messi in comunicazione

con l'ex carcere per mezzo di un'apertura. Niente è lasciato

al caso; Bruno nella ricognizione dell'ambiente e con

l'occhio teso a sviluppare il percorso visivo così ha disposto

gli spazi sulla base di un'idea evolutiva del lavoro: 1) sala

accoglienza; 2) ambiente scienze rurali e ambiente della

civiltà contadina (oggetti che riguardano il lavoro in

campagna: aratro a chiodo ibleo, falci, zappe, forche, pale...;

materiale che riguarda l'agricoltura e la caseifazione: caldaia,

fiscelle, collari incampanati...; uno spazio è poi dedicato

all'apicultura: arnia, marchiatori, smielatori...); 3) galleria

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degli studiosi; 4) ambiente delle materie prime (maestro

d'ascia, fabbro, cavapietre... mestieri che hanno portato alla

realizzazione di manufatti indispensabili al sostentamento);

5) cortile; 6) ambiente domestico (destinato ad accogliere il

Prima esposizione riguardante il ciclo del grano, 2005

telaio e il silos cannizzu); 7) stanza del carretto siciliano

(impreziosita da un tornio per la lavorazione del legno del

XIX sec., appartenuto al mastru fa carretta don Salvatore

Rizza); 8) angolo delle collezioni. Guardando i progetti e gli

schizzi di Gioacchino colpisce non tanto il rigore sitematico

dell'impianto, quanto la disposizione concettuale e

l'itinerario culturale degli oggetti esposti. Leggo tra i suoi

appunti: Un museo è innegabilmente sede della vicenda

storica degli oggetti che esibisce, ma anche della storia di

sé stesso, delle ragioni culturali e artistiche che lo fecero

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nascere, dalle decisioni che vi riunirono le cose, del modo

col quale vennero raccolte, assommate, esposte e spiegate.

Nel termine stesso di raccogliere è implicita la volontà di

scegliere qualcosa da un tutto e classificarlo ordinatamente

accanto ad altre cose selezionate con analogo criterio, sia

esso estetico, scientifico, etnografico o quant'altro. Proprio

questo è il punto: il museo è anche la storia di sé stesso. E'

Pannello con punteruoli, scalpelli e contenitori vari, 2005

uno spazio in cui si apre lo scenario di un mondo, il senso,

la possibilità di una comprensione e dunque dove si

dispiegano le questioni fondamentali. Nell'apertura

mitologica in cui è possibile il giudizio e dove le credenze

diventano senso comune, una visione del mondo;

raccogliendo secondo un'ottica prospettica il materiale

repertato ed organizzato semanticamente seguendo quelli

che sono giochi di lingua, denominando gli oggetti ed

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inserendoli nello specifico di una forma di vita (Il

denominare/raffigurare è simile ad attaccare ad una cosa il

cartellino con il nome; Wittegentein). Ed è proprio in questo

raccogliere denominante che si rivela l'attività

dell'antropontologo, con un agire nient'affatto arbitrario

Tornio XIX sec., esposizione 2005

perché si fonda nella natura stessa degli uomini che

concordano in un medesimo gioco di regole il vero e il falso

sulla base della cultura di appartenenza. Il museo è allora

propriamente uno spazio artificiale e mitologico, la

spiritualizzazione in un campo sovraumano dei

surcodificanti primari che fondano simbolicamente i sistemi

metafisici (i concetti, i valori, i costumi), un raccogliere

teleologico di significanti e quasi un addestrare l'occhio: A

tal riguardo emerge con tutto il peso della sua

responsabilità, il ruolo fondamentale di colui che deve

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organizzare gli oggetti in un sistema espositivo significante

di tutto ciò. Selezionare e ordinare un'esposizione per

decodificare i significati e per recuperare nella loro

definizione storica i tratti salienti di un percorso, cioè

l'itinerario di visita che induce a incontrare gli oggetti

nell'ordine stabilito dal curatore (G. Bruno).

L'antropontologo istituisce allora nel suo percorso museale

Ricostruzione camera da letto del massaro, 2005

le regole paradigmatiche, quali risultato di un accordo nelle

relazioni simboliche di una comunità e come concor/danza

nella verità storica. Concepito come una grammatica

dell'essere che è nelle cose/reperti, il museo fissa l'orizzonte

possibile di un termine/segno (la verità, lo spazio

ontologico) delineando i limiti di sensatezza della

denominazione degli oggetti nel relazionarli (passaggio dalle

parole alle cose) alla realtà. Quando Gioacchino appunta che

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emerge con tutto il peso della sua responsabilità il ruolo

fondamentale di colui che deve organizzare gli oggetti in un

sistema operativo, allude proprio al ruolo ontologico della

grammatica del vedere, nel fatto che essa non si fonda più

nella struttura della realtà (ma è semmai tale grammatica a

fissarne la struttura), non però come qualcosa di arbitrario

perché si attiene alla natura di chi se ne serve, ai

comportamenti di chi nello specifico di un linguaggio (nel

nostro caso etnoantropologico) si conforma alle regole

grammaticali. E difatti sottolinea sempre Gioacchino che la

prima difficoltà da risolvere consiste nell'individuazione del

percorso, in base al racconto che evince dalla collezione.

Gli obiettivi che bisogna focalizzare sono le linearità del

racconto e le singolarità di alcuni oggetti. Da una

collezione generica e eterogenea bisogna far emergere un

tema o un racconto che crei armonia e faciliti la

comprensione degli oggetti, dove il fattore umano costituisce

il motivo della loro preziosità. Alludendo al fatto che posti

gli oggetti un uno spazio comune, saranno poi quegli stessi

reperti (sulla base di un significante condiviso) a

riorganizzarsi secondo regole autonome, che vanno al di là

di una semantica brutalmente sedimentata in significati che

regolano in maniera essenziale il rapporto nome/cosa (e

dunque surrettiziamente il passaggio dalla parola alla cosa),

come una relazione deterministica e induttiva, che è poi

l'ottica e la cultura con cui ordiniamo le cose, una credenza.

E allora definito il filo narratore, che unifica la quantità

degli oggetti, fra essi emergeranno alcuni (di solito i più

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ricchi di qualità estetiche e storiche), che svolgeranno un

ruolo cardine nell'articolazione del percorso (G. Bruno).

Carretteria, esposizione 2005

Come infatti l'occhio che percepisce ha regole proprie che

prescindono dal fatto cognitivo (è esperienza di tutti che,

nonostante la coscienza dell'integrità del legno, posto un

bastone in acqua questo è comunque percepito dall'occhio

come spezzato), così i reperti (l'essere nell'ente/reperto) pur

contestualizzati in un'ottica culturale (inventario) atta a

costruire un codice di lettura (e in esso un'assiomatica

sociale, una metafisica dei costumi che imprigiona l'essere

nell'umano in identificazioni immaginarie asservite in ultima

analisi alla produzione capitalistica) apre a flussi

decodificanti distruttivi che superano gli sbarramenti dei

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codici linguistici (Deleuze). Certamente il museo è un teatro

ideologico/mitologico, ma gli oggetti predispongono

aperture che rompono il monolite significante/significato e

offrono nuove possibilità di lettura all'interpretazione. Oltre

la dispotica mitologia surcodificante, liberando come in uno

scavo ontologico il segno per mostrarlo in ogni angolo,

quelli finora inaccessibili alla lettura metafisica delle cose a

cui l'irrigidimento semantico ci ha abituati. E allora il

problema rilevante messo in luce da Gioacchino Bruno,

come si devono esporre gli oggetti?, ripercorre in qualche

modo i sentieri della domanda fondamentale perché l'ente e

non piuttosto il nulla? Libera l'essere dalle catene e conduce

su sentieri inesplorati al seguito delle tracce della storia.

Angolo dedicato al mestiere del calzolaio

*******

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Compito dell'antropontologia è la distruzione di tali miti e

credenze, di smascherare le confusioni concettuali operate

col linguaggio nel suo reperimento fazioso di termini che

intendono spiegare la causalità dei fenomeni, il passaggio

dalle parole alla realtà (Hume). E allora Wittgenstein parla

legittimamente di ruolo ontologico della grammatica, quello

che fissa l'orizzonte possibile di un termine (la verità, lo

spazio ontologico), i confini della sensatezza dei

segni/parole. Se dunque la grammatica non si fonda più nella

struttura della realtà, non è comunque qualcosa di arbitrario:

la grammatica (la lingua museale delle cose) si attiene alla

natura di chi se ne serve, ai comportamenti di chi nel

linguaggio segue le regole grammaticali. Non si possono

insegnare i giochi linguistici se il referente non condivide la

nostra mitologia, che è l'abisso pre/linguistico e simbolico di

un gruppo sociale (un Totem), come pure non c'è una

relazione magico/causale tra segno e l'oggetto significato (e

tra la parola e la cosa denotata). Questo si verifica solo nello

spazio (archivio) pre/culturale del mito (inventario), dove

significante e significato si uniscono a fondare le istituzioni

(schedatura), il sacro di una civiltà (L'uomo storico viene

preparato alla prossimità della verità dell'essere. Non

soltanto ogni antropologia e soggettività si trova qui

abbandonata... e viene ricercata la veità dell'essere come

fondamento di una nuova posizione storica, ma si

esperimenta e prova in quella svolta del rapporto all'essere.

Heidegger).

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Il circolo ermeneutico

antropontologia come ermeneutica dell'essere nell'uomo

Il mondo è un tessuto di enti (um-welt), un contesto di

rimandi che trova nel chi dell'esserci la propria

giustificazione e il proprio senso (Heidegger). E' nell'uomo

che il mondo ha il principio di ragione e fondamento

(grund), inteso come causa finale dei rimandi, quello che

non trova più opportunità in qualcos'altro; l'a-che-fare

primario privo di fondamenti (ab-grund). E' vero che il

mondo si regge sull'esserci, ma l'esserci non si regge su ni-

ente (è sospeso nel nulla), nemmeno su se stesso. Il principio

di ragione è certamente sufficiente, ma la ragione non è mai

sufficiente a se stessa: dietro ogni morale e alle forme di vita

che la presuppongono (anche solo come giudizio sintetico a

priori) si muove il vuoto dell'assenza, un salto nel buio

legittimato però dalla forma di vita di appartenenza. La

mondanità (che è la contestualizzazione del mondo) rinvia

dunque, attraverso la struttura generale dell'opportunità,

all'esserci come causa finale, nel senso che i rimandi è là che

si orientano come principio (in-grazia-di -cui) e fine (in-

vista-di-cui) rivelando l'uomo nella dinamica ambigua di

apertura/chiusura, luce/ombra, avanti/indietro, senso/non

senso. Se qua ci fermassimo da Protagora non ci saremmo

però mossi gran che. Secondo Heidegger tuttavia l'uomo non

è solo la misura di tutte le cose perché il rapporto col mondo

prima che ontologico è ermeneutico, ed ha una natura

semantica. Tradotto in termini generali questo significa che

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tra interprete e cosa interpretata si apre uno spazio di

accordo mitologico che è un orizonte di senso. L'apertura ha

Plastico in costruzione

un'esistenza propria e là si giunge ad opera del linguaggio e

della visione per mezzo dei quali è possibile incontrare il

mondo; considerando che la visione (sicht) non è altro che

un allargamento ontologico della parola. Perciò linguaggio e

interpretazione, ascolto (Chi vuol comprendere deve essere

pronto a lasciarsi dire qualcosa. Heidegger). L'interprete

parla all'ascolto dell'essere e l'essere si appropria

dell'interprete in uno spazio di gioco che mortifica l'uomo

nel suo desiderio trascendente di verità. L'essere non è infatti

una conquista positiva, ma si presenta come avere da essere,

fallimento pro-gettuale; toglie il respiro e la parola. Perché

nell'ascolto del silenzio nulla v'è più da dire e niente si può

enunciare, come nella verità di quella voce che è detto/non

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detto, il vero/non vero, il senso/non senso. Il mondo va

vissuto piuttosto che pensato o contemplato; nel mondo ci si

trova (befindlichkeit) storicamente a vivere, da sempre

Plastico su committenza, 50x70cm

gettati in un ci affettivo e tonale. L'uomo non è affatto dentro

un contenitore ma fuori, in una relazione esistenziale (erotica

come in-essere) nell'aperto tra gli enti (Questa familiarità

col mondo non pretende necessariamente una perspicuità

teoretica delle relazioni che costituiscono il mondo stesso.

Heidegger), nel trovarsi concreto che non è più l'apriori

kantiano ma un esistenziale, una struttura dell'esserci;

nell'essere gettati nella situazione di un pro- (pre, vor) getto

che condiziona anticipandole comprensione e

interpretazione. Anche la comprensione (e quindi la visione)

si rivela quindi fortemente tonalizzata, come un trovarsi a

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comprendere in una pre-comprensione da sempre familiare,

un versthen che è in una stimmung, in un'atmosfera.

*******

Tra gli scritti di Gioacchino Bruno a proposito dell'idea della

realizzazione del plastico che raffigura la Sciuttinu vecchia,

trovo appuntato: L'idea nasce dal bisogno. Mi serviva

vedere a tre dimensioni la Costa Sortino (così si chiama

attualmente la contrada dove si trovano i resti del sito

archeologico); in questa costa a grandi gradoni prospicienti

il fiume Guccione si scorgono qua e là innumerevoli

testimonianze architettoniche intagliate nella roccia: grotte

grandi e piccole, grotte naturali e artificiali, anfratti

perfezionati, nicchie ed archi portanti, tramezzi e pavimenti,

tanti modelli di canalette per l'acqua, scale costruite e

intagliate, gradoni e gradini, testimonianze dell'antico

villaggio rupestre (diventato Borgo e poi Comune). Dopo

averla perlustrata diverse volte nella totalità, mi sono

dedicato a porzioni di essa, per studiarla fino in fondo.

Successiva alla ricognizione dei testi e documenti e quella

sul campo, viene insomma il momento della ricostruzione,

attraverso un'archeoermeneutica dei linguaggi del passato

che si sono assorbiti attraverso una consuetudine che ha reso

familiari quei codici estetici. Sopra si è sottolineato come

Gioacchino abbia talvolta vissuto nello scavo e nelle grotte,

quasi a calarsi anche con le emozioni nella vita dell'epoca.

Da questa che Heidegger chiama familiarità (essere-in) col

mondo è potuta svilupparsi agevolmente la ricostruzione del

sito, con una naturalezza che va al di là della comprensione

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intellettuale delle cose. Una visione globale che è derivata a

Bruno nell'essere-già nel mondo antico, in quella relazione

di familiarità che è un trovarsi (befindlichkeit) in una

situazione. Condizione necessaria per ogni possibile

Primo plastico in argilla, 40x30cm

successiva comprensione delle cose, essendo il comprendere

sempre prederminato da una precomprensione, da una

relazione precedente familiare con l'oggetto affatto

intellettuale. Se allora partiamo dalle parole di Heidegger:

Ciò in cui l'esserci in questo modo si è già sempre compreso,

o di volta in volta si comprende, è ciò con cui esso è

originariamente familiare, viene facile pensare alla

naturalezza con la quale G. Bruno abbia potuto sviluppare il

plastico Come un puzzle -nella memoria- che si deve

comporre. Il luogo lo porti a casa con le fotografie...

traformi tutto in tratto, disegno, mappa, sezione pianta,

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cartina, plastico, sculture per vedere quello che non cìè più

nella sua totale integrità. Lo fai rivivere, realizzi qualcosa

che non c'era -questo fu lo stimolo, io volevo vederlo-.

Condizione necessaria all'antropontologo nella sua

archeoricostruzione è insomma il trovarsi in una situazione

immerso in una dimensione globale preintellettuale, come

una lingua o un vestito che si porta addosso dalla nascita, da

cui sola può nascere un'interpretazione. Simile ad un circolo

(ontologico prima che ermeneutico) che avvita la

conoscenza intellettuale in quella prefamiliare. Proprio

questo è il senso con cui accostarsi alla più corretta lettura di

questo illuminante passo di Gioacchino: L'archeologo vuole

scendere verso scale sempre più dettagliate per capire

l'aspetto locale, individuale e concreto del singolo contesto,

che spesso conferma ma più spesso ancora smentisce le

certezze delle grandi sintesi... esse appaiono agli occhi degli

esperti (dall'archeologo al topografo allo stratigrafico) in

modo assai più netto, vivace e drammatico che non nelle

fonti letterarie. Intuizione che delinea non solo una

precondizione intellettuale di una ricognizione archeostorica,

ma una precisa intenzionalità tonale/estetica pure nella

successiva ricostruzione globale. Lavorando al plastico

concepito come un puzzle da assemblare, sembra insomma

essere stata assolutamente determinante la condizione

ontologica dell'essere-nel-mondo da parte del

progettista/scultore. Riordinando in una relazione di senso

gli enti che vengono ambientati non in un contesto fisico o

spaziale, ma primariamente familiare/affettivo, in

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un'atmosfera semantica che si organizza attorno all'uomo e

alla sua storia. Una vita scandita ogni giorno dal lavoro e

dalla fatica, fatta di case finalizzate al recupero delle energie

e di attrezzi che -tutti nessuno escluso, pure quelli ludici nel

significato di indurre uno svago rigenerante- avvolgevano

l'essere nell'umano negli esercizi di sostentamento del

quotidiano. L'in-grazia-di-cui di cui parla Heidegger, in

quanto senso di tutti gli enti che gravitano intorno all'uomo

con un'intenzionalità pratica (come enti/attrezzi/utensili

allamano/sottomano), entrano perciò in relazione non tanto

con l'uomo inteso come essenza biologica o metafisica, ma

nell'essere nell'umano che nello specifico del mondo rurale,

era il lavoro. Significante primo sostantivante l'essenza

stessa dell'uomo in ogni epoca (ed oggi nell'era globale di

una surcodificazione strumentale agli interessi capitalistici di

una ristretta elité che controlla i sistemi primari della lingua

attraverso l'informazione di massa, scomparso tale

significante dal senso comune delle cose, si sono amplificati

malesseri sociali a detrimento dei diritti fondamentali).

Come in puzzle Gioacchino ha proceduto nella costruzione

del plastico, ed ogni tessera è portatrice di uno specifico

lavoro, di una singola attività: Così facendo blocco dopo

blocco fino alla fine. Mentre intagliavo i gradini facevo pure

le case, i muretti a secco delle strade; intagliavo e coloravo,

tracciavo e scavo. Man mano che realizzavo mi davo tante

spiegazioni di tutto quello che avevo letto in merito al paese

distrutto. Assemblando, riunendo, unificando in un senso

comune gli oggetti che è l'utilizzabilità delle cose. Una sedia

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è in una stanza in modo molto particolare; non sta in

qualsiasi punto ma in un posto preciso, e dunque è stata

programmata per stare vicino al tavolo, secondo un

orientamento di senso. Le cose, tutte e nessuna esclusa, sono

sistemate seguendo un ordine e se qualcosa è fuori posto

nella stanza l'abitante/proprietario si accorge subito che

questo qualcosa è stato spostato, in quanto l'ha collocato in

quel posto perché là deve stare, è stato concepita per stare là

Primo plastico completato

e non altrove. Come le cose non sono dentro la stanza come

semplice-presenza, così nella ricostruzione a posteriori di

uno spazio non geometrico ma ontologico e esistenziale i

reperti vengono sistemati l'uno presso l'altro secondo una

profonda familiarità. L'in essere delle cose definisce

propriamente le forme e le strutture del ci, cioè le forme

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della presenza dell'esserci, che sono indirizzate alla prassi

del quotidiano negli esercizi del lavoro. Il plastico si

configura allora non come un restringimento dell'originaria

conformazione storica, ma in quanto bisogno (l'idea nasce

dal bisogno) di allargare la prassi come a dilatare la

familiarità con le cose: Le carte sono importanti, ma non

tutti hanno la competenza per trasformare linee, punti,

stelle, cerchi e forme di una carta topografica in cose.

Facendo il plastico per me l'ho fatto per tutti (G. Bruno).

*******

Nel mondo, aperto come maglia di enti (enti che hanno

nell'esserci il referente), la totalità dei rimandi si organizza

in quell'opportunità (bewandtnis) che è il cospirare delle

cose, il loro organizzarsi per un fine comune. Il

comprendere, nascendo da questa opportunità (presente

come un'incognita) genera la significatività (bedeutsamkeit)

come condizione di possibilità dell'interpretare (e del

comprendere). Questa significatività è non altro che la

totalità di opportunità come viene concepita dalla

comprensione, l'in-vista-di-cui, ciò per cui si apre un mondo,

il luogo ontologico che dischiude i significati (Nella

comprensione dell'in grazia di cui è contenuta anche la

significatività che in essa si fonda... La significatività è ciò

in vista di cui viene schiudendosi il mondo in quanto tale. In

grazia di cui e significatività sono dischiusi nell'esserci.

Heidegger). Ogni senso possibile ricade sull'uomo perché il

suo senso è un non senso, il suo fondamento (grund) una

mancanza di fondamento (ab-grund), il suo essere il nulla

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(Lo sfondo è accessibile solo come senso, anche se fosse

l'abisso stesso della mancanza di senso. Heidegger). In

quanto l'essere non è una sostanza trascendente ma la

presenza immanente di un'assenza surcodificante nelle cose.

Quando Heidegger annuncia l'esserci come pro-getto,

rivelandolo nella dinamica chiaroscurale dell'avanti/indietro,

del detto/non detto, visto/non visto (di un pro- che ricade su

di sé, di un comprendere che ritorna circolare al suo trovarsi:

L'esserci significa se stesso... il proprio essere e il proprio

poter essere. Heidegger) allude al circolo (ontologico prima

che ermeneutico) ineliminabile che configura l'uomo come

desiderio di realizzare e realizzarsi, attuare e attuarsi (pro-

gettualità). L'ente che nel richiamo avverte il peso

dell'essere, si delinea allora come una possibilità gettata e

deietta, l'esserci prigioniero del suo ci.

Centro del paese della Sortino Medievale, dal libro di Gioacchino Bruno

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Tra le carte di Gioacchino Bruno è venuto alla luce un passo

che chiarisce bene, nel suo ricostruire plasticamente un

mondo, come l'organizzazione dello spazio fisico abbia

disposto una causa finale attorno a cui gli enti

oggetti/attrezzi/utensili cospirano a significarsi; e l'uomo

-come una calamita che li attrae ordinandoli in un

significato- in quanto ciò in vista di cui si apre il senso delle

cose: Lo sviluppo degli oggetti esposti deve seguire, per

quanto possibile, l'evoluzione dell'uomo... gli

utensili/attrezzi/macchine che deteniamo alloscopo di

tutelarli e renderli fruibili, sono stati concepiti e prodotti

dall'uomo, dopo una serie di esperienze di vita vissuta a

contatto con la natura, conoscenze delle materie prime che

risalgono a milioni di anni. Il legno, la terracotta, il ferro

hanno permesso all'uomo di agevolare

l'approvvigionamento alimentare. La pietra, il vetro, il

rame, lo stagno... hanno contribuito a facilitare la "vita". La

vita appunto; dura come a volte sa essere, sempre faticosa,

scandita dai cicli sfiancanti dell'aratura o del raccolto, tra le

puzze delle stalle e con la schiena rotta. Facilitata

dall'ingegno dei maestri artigiani, dall'intagliatore di pietra al

maestro d'ascia, al fabbro, dal ceramista al carrettiere e

addolcita dai sapori che la terra sa dare. Il miele degli

apicoltori (diffussimo e di qualità nel territorio sortinese), i

dolci (sanfurricchi ottenuti dalla lavorazione del miele, e la

'nfigghiulata a base di fichi secchi o più raramente all'epoca

di salsicce), i formaggi (ovini, di mucca o d'asino), il pane, il

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vino. Abbellita dai canti e dalla musica agropastorale (ad

esempio col friscalettu, flauto artigianale che accompagnava

i pastori nelle trasumanze), meravigliosa, profonda, vera. E

in tutto questo ci sentivi la vita, le mani che ogni giorno

aravano e impastavano sapori e odori, e gustavi ogni cosa, te

Particolare del plastico, parte centrale del paese

la tenevi stretta, perché la miseria, la fame erano in agguato

e la morte la respiravi ineffabile ogni gorno. L'essere-alla-

morte avvolgeva il paesaggio come una nube di placida

rassegnazione, e il tempo era un'attesa che liberava dalla

malattia e dal peso dell'esistenza. Nel plastico di Gioacchino,

ricercatissimo e minuzioso in ogni parte ci senti davvero

l'assoluto dei valori estetici e esistenziali del mondo antico,

la desolazione dell'uomo di fronte alla ineluttabilità della

fine, ma pure una calma inumana, non certo di

rassegnazione, quanto di tacita consapevolezza di essere

parte del ciclo vitale, come quando all'imbrunire si torna a

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casa a riposare e capita di non svegliarsi. Nella scultura ci

vedi l'angoscia chiaroscurata di certi quadri di Hopper, ma

pure la calma serenità di un paesaggio desolato di Carrà in

cui è l'essere nell'umano che incombe a renderlo quasi

inumano nei silenzi, o le città senz'anima con urla che non si

sentono ma che avverti come in un brivido di Sironi.

*******

Il comprendere è ciò per cui l'esserci progetta il proprio

essere su delle possibilità che ricadono su se stesse,

prigioniero di una pre-comprensione che lo tiene legato nella

sua situazione, nei pre-giudizi e nei pre-concetti. La mente

non è una tabula rasa ma plena; il comprendere un

movimento che si rigetta su di sé, in un pro- che limita il

bisogno di infinito. E questa non è in fondo la dinamica

hegeliana dell'idea? Secondo Hegel è infatti il movimento è

il cuore della dialettica e il motore della realtà: l'essere non è

una sostanza più o meno irrigidita, ma uno streben, il dover

essere nel richiamo imperativo alla coscienza, autoprocesso

e automovimento; lo spirito un'autogenerazione che crea la

propria determinazione per superarla chiaramente in una

circolarità che fonde il finito e l'infinito, il principio e la fine,

il particolare e l'universale. Il reale ha per Hegel una

venatura malinconica, è un processo che si autocrea

distruggendosi (da operari sequitur esse, a esse sequitur

operari) nel riflettersi in se stesso. Come nel percorso che

porta dal seme all'uomo, anche nello spirito è sempre la

stessa realtà (idea) che va attuandosi (come essere in sé,

fuori di sé, in sé e per sé); e questo significa che si passa

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dialetticamente dai limiti dell'intelletto (tesi) alla ragione, la

quale smuovendone la rigidità rovescia (antitesi) quanto era

là venuto in luce, fino all'infinito dove s'incontra lo

speculativo (aufheben) che è il momento dell'incesto

Reperto trovato durante la bonifica di Cugno del Muro, 2009

filosofale e dell'unità dei contrari (sintesi), la riaffermazione

del positivo mediante la negazione del negativo propria delle

antitesi dialettiche (Il mistico che toglie e conserva, che è

come un trionfo bacchico in cui non c'è membro che non sia

ebbro. Hegel). Di questa struttura risentono ovviamente

anche le proposizioni filosofiche, per le quali è l'essere

stesso (l'è, la copula) ad esprimere assumendolo il

movimento dialettico in cui il soggetto passa nel predicato a

costruire un'identità dinamica (togliendo e superando la

differenza di entrambi). Più che altrove è forse in questo

delirio che viene alla luce la circolarità di senso che unisce

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l'uomo al mondo (come senso e finalità), all'essere e alla

verità. Il senso è un cerchio chiuso/aperto sostanziale

all'uomo, non ha senso ma dà senso proprio come

l'interpretazione che si muove nel pre- e deve avere già

Reperti provenienti dalla pulizia dello smontaggio macerie all'interno del nucleo Cannata

compreso quello che desidera interpretare. In questa

meccanica Io/mondo/Io dell'avanti/indietro, evidente

nell'identificazione circolare di comprensione e

autocomprensione (e che muove dal comprendere

all'opportunità e dall'opportunità al comprendere), emerge la

significatività che gravita attorno al senso dell'uomo, e che

fa dell'esserci la condizione della possibilità ontica della

svelabilità dell'ente, quasi il motore immobile (mobile)

dell'universo aristotelico/tolemaico. Gettato nella tonalità

emotiva (stimmung) ognuno avverte l'essere come un peso

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(come aver da essere), una possibilità da attuare, trovandosi

in una comprensione articolata come visione (sicht, spectio)

e che risente inevitabilmente di quella familiarità col mondo

che oscilla tra l'in-grazia-di-cui (pre, pro, vor) e in-vista-di-

cui (in quanto, als) tra il dentro e il fuori, il chiuso e l'aperto.

Per essere chiari: il comprendere si articola in una sicht che è

il comprendere nella forma progettuale, mentre la

significatività si rivela come pro-spettiva, visione del

mondo. Sfondo mitologico-culturale.

*******

E' forse proprio questa la chiave di lettura per spiegare

l'enorme quantità del lavoro di Gioacchino Bruno e la mole

Miscellanea reperti della Sortino Antica

degli scritti (appunti, diari, note, taccuini, schizzi, fotografie,

sculture) che fanno parte dell'archivio di famiglia. Il peso

dell'essere, la vita nella sua insostenibile pesantezza: Io sono

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un creativo, devo fare qualcosa, di comuntinuo, che riempia

il tempo, che produca curiosità, che aiuti a comprendere le

attività dell'uomo. Devo fare qualcosa che sia utile, che

serva, che abbia uno scopo concreto. Si parte dall'uomo e si

torna all'uomo, non esiste un'archeolettura senza questo

fondamentale presupposto, non può darsi alcuna

interpretazione: Selezionare e ordinare... per decodificare i

significati e per recuperare la loro definizione storica...

l'itinerario che induce a incontrare gli oggetti nell'ordine

stabilito dal curatore/archeologo. All'interno di un circolo di

apprendi/mento che muove dall'Io alle cose in un'unità di

senso che unisce l'uomo e il mondo. L'interpretazione di

un'epoca deve avere in qualche modo già compreso ciò che

va a interpretare, e l'occhio per quanto dilatato dall'obiettivo

della ricerca e dalla sensibilità estetica a fatica riesce ad

aprire spiragli, come a calarsi in una storia a cui da sempre

appartiene e a cui è possibile la confidenza delle domande

(E' ben noto quanto l'interpretazione di gran parte della

storia economica e sociale antica si giochi sul significato da

attribuire a questi piccoli siti. G. Bruno). E lo fa con le mani

intagliando e incidendo la materia, perché per Gioacchino

Bruno ragionare è scavare (Non si tratta di fare una

scommessa, quanto di fissare sul terreno l'esito di un

ragionamento. G. Bruno), interrogare la pietra, impastare

l'argilla, incidere il gesso cercando di estrarne una lingua

profonda sedimentata nei terricci, quella che nei secoli ha

raccolto i segni fondamentali dell'esistenza. E solo allora è

possibile lo studio di un sito archeologico, la sua scoperta,

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fino all'ultima elaborazione concettuale del plastico. Per

prima cosa feci un miniplastico in argilla della montagna

con su scolpite delle piccolissime case. Preparai pio le carte

per fare i modelli. Come materiale scelsi dei pannelli di

gesso (50x70x8), quelli che si utilizzavano per le

tramezzature di ambienti. Partendo dalla base, cioè la parte

alta del fiume Guccione, iniziai a intagliare i blocchi

rispettando le linee della quota altimetrica. Feci una specie

di scalinata, calcolai che successivamente dovevo intagliare

le case... La posizione del Castello, dominante su tutto, con

al suo fianco la torre, adesso si poteva ammirare in 3D...

Per la parte manuale ho impiegato 12 mesi, mentre il

progetto nella sua totalità è stato sviluppato nel corso di

cinque anni. E' stato acquistato dal Gal Val d'Anapo per

esporlo nell'Antiquarium sortinese, presso il convento del

Carmine di Sortino. Per la parte pittorica mi sono avvalso

dell'aiuto dell'artista Vincenzo Pane. Attualmente è

posteggiato accanto all'ufficio tecnico del comune di Sortino

(G. Bruno).

*******

E dunque: la conoscenza nasce dalla sicht, ma la visione è

solo un particolare modo di vedere e il vedere a sua volta del

comprendere. La più importante forma della sicht è la

umsicht (vista, sguardo orientato, visione pragmatica) del

besorgen (circospezione del pro-curare), che corrisponde alla

pratica col mondo ed è in termini ottici l'esplorazione

dell'ambiente per fini pratici, la visione globale panoramica

di una situazione, l'uso della visione globale e panoramica

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per prendersene cura. Questo per dire che anche una scienza

come quella filosofica, che privilegia il primato della visione

(come contemplazione e teoria, la speculazione), può avere

origine nel vissuto concreto e situazionale, storico (con ciò

intendendo che è solo dalla visione pragmatica che può

emergere una visione particolare come quella teoretica).

Perché così è la natura dell'uomo: se vuole il cielo deve

cercare in terra, se desidera l'essere nel nulla, se cerca la

teoria deve sprofondare nella prassi. Allora: l'esserci è un

progetto gettato, una possibilità mai attuata; la visione ha

una vocazione al ritaglio e il linguaggio la pulsione a

Grotte Cannata con rilievo del terreno all'ingresso

autocensurarsi. Alcuni derivati della sicht (hinsicht, ansicht,

aussicht) manifestano questa inedeguatezza della prassi

visiva a cogliere l'insieme e la totalità dell'ente; l'aspetto è

propriamente la percezione del particolare, quella che lascia

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venire incontro lo specifico del mondo che già ci appartiene

e conosciamo. Esiste naturalmente anche un vedere libero

dalla rimandatività (l'ispezione, hinsicht o inspectio), ma è

comunque un comprendere privo di finalità pratica (pro-

curante) e di intenzionalità. Come dire: cerchi l'essere? E'

nella forma di vita umana che devi guardare, nella sua

mitologia e istituzioni; vuoi comprendere il senso di qualche

cosa? Ebbene il senso è un esistenziale ed è perciò

nell'esserci che devi sprofondare; guardi il cielo alla ricerca

della verità e non ti accorgi che è nella terra che devi

scavare. Ma questo già Kant (e ancora prima Socrate) lo

aveva anticipato quando rinveniva nell'essere umano (e

quindi nella sfera pratica) la causa noumenica inaccessibile

teoreticamente. Torniamo però all'aspetto; questa struttura ha

due fondamentali articolazioni, l'in quanto (als, per il quale

qualche cosa è percepita per un uso particolare e pragmatico,

ed appartiene quindi alla umsicht) e il pre- (vor-). Da parte

sua il comprendere è il modo (come in quanto) con cui

l'esserci progetta il proprio essere su delle possibilità (Il

comprendere nel suo carattere progettuale costituisce quella

che chiamano spectio dell'esserci. Heidegger), ma l'in

quanto risolto nell'ottica del comprendere (nella sicht)

diventa pro-spectio (vorsicht), prospettiva, getta cioè la sua

ombra sul futuro guardando al passato e così

determinandolo. La vosicht è il modo di estrarre da un

contesto un ente allamano assumendolo come in quanto, per

un uso pragmatico (qualcosa in quanto qualcos'altro, che è la

struttura della rimandatività). L'interpretazione si muove

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nell'in quanto come la comprensione nel pre-

(Nell'interpretazione il comprendere si appropria del

compreso; l'in quanto è la struttura del compreso.

Heidegger), ed è un modo di vedere secondo un'ottica, un

interesse e una passione. Ma è proprio in questa polarità tra

Pulizia Grotta Fezza, 6 Gennaio 1994: "Allora mi misi a togliere la terra nella parte più

alta, anche qui trovai il pavimento in calce"

attività e passività (pre- e in quanto) che viene alla luce il

pro-getto, il procedere statico all'interno di una sicht (pro-)

che ha nell'esserci concreto e fattuale (-getto) il suo senso e

il suo non senso; perché il senso (lo spazio ontologico inteso

come condizione di possibilità) gravita attorno all'uomo

(l'essere, la verità, la libertà) come l'in vista di cui che rende

possibile la comprensione di qualche cosa (Senso è l'in vista

di cui che si struttura in pre-possesso, pro-spezione, pre-

concetto di quel progetto a partire dal quale qualcosa

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diventa comprensibile in quanto qualcos'altro. Heidegger). E

questo qualcosa in quanto qualcosa, che è il perimetro entro

cui si muove l'interpretazione pragmatica, trova nell'esserci

il senso e la finalità e nella umsicht il fondamento (l'in

quanto ermeneutico che si articola in vorhabe pre-possesso o

trovarsi, vorsicht pro-spezione o comprensione, vor-griff

pre-concetto o parlare). Tradotto in termini più generali ciò

significa che quello che cerchiamo dobbiamo in qualche

modo averlo già compreso, bisogna sapere quello che si

cerca per poterlo trovare, nel senso dell'apriori in base al

quale delle cose conosciamo unicamente ciò che in esse vi

mettiamo.

*******

Nello specifico del plastico di Sortino Diruta si sente

davvero tutta la storia di questa terra nel suo ciclo naturale e

dello scorrere archeovisivo del panorama nelle diverse

epoche, dagli albori dei primi insediamenti, fino quasi ai

gorni nostri. E il circolo uomo/mondo lo vedi negli intagli e

nei colpi di pennello, nella cura dei manufatti in cui la mano

dell'autore si percepisce come un segno che incide i

significati, e nella minuziosità di un paesaggio in cui avverti

quasi i mutamenti geologici, l'acqua che scorre, le crepe

aperte nella terra. Così Gioacchino Bruno descrive la

mutazione socioantropologica avvenuta: Il processo

evolutivo dell'uomo abitante l'isola di Sicilia ha seguito il

processo di conoscenza che è progredito nell'intero bacino

mediterraneo. Basandoci sulle ricerche scientifico-

archeologiche si può affermare che più di 20.000 anni fa

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l'uomo abitava le grotte, era un raccoglitore ed un

allevatore; nonché cacciatore, ossia si nutriva di frutti e

bacche, frequentava i litorali costieri per raccogliere frutti

del mare e crostacei. Conosceva la trasformazione del latte

(caseificazione) e aveva negli ovini una bastevole riserva di

proteine e vitamine derivante dal consumo delle carni.

Sfruttava le pelli per ripararsi dal freddo, ed utilizzava le

ossa per produrre utensili vari. Diversi autori antichi

riferiscono che durante le prime colonizzazioni fatte dai

Fenici e dai Micenei, un certo Jolao portò in Sicilia la

cultura della coltivazione della terra, che i Sicani ed i Siculi

fecero propria. Con l'agricoltura arrivò in Sicilia pure la

tecnica di come costruire le capanne. Queste quattro

esperienze hanno innescato un processo che permetteva agli

abitanti di una certa area di stabilirsi stanzialmente in un

luogo.Premettendo che il posto scelto doveva avere almeno

due caratteristiche fondamentali: 1) l'acqua potabile nelle

strette vicinanze; 2) una modesta area vegetativa che

permetteva la sussistenza. Il fuoco, l'argilla e la scoperta di

metalli sempre più duri permisero all'uomo di progredire

nelle tecniche descritte. I vari popoli che hanno colonizzato

la nostra isola hanno portato usanze che i siciliani nel

tempo hanno poi assorbito. Il Medioevo è stato l'anticamera

della cultura materiale siceliota. Il feudalesimo, i Baroni, la

religione ed il popolo siciliano hanno radicato determinate

usanze, praticandole fino alla II guerra mondiale. Da quel

periodo è iniziato, in Sicilia come nel resto d'Europa, un

processo nuovo, "l'industrializzazione", che ha comportato

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la modifica delle pratiche di vita quotidiana consolidate da

secoli. -Il mio scopo è proprio quello di far conoscere tale

iter socio-etno-antropologico (documentato con cartine

geografico/storiche i diversi passaggi delle civiltà).-

L'allevamento del bestiame è stato il primo passo che

l'uomo ha fatto per usufruire del mondo animale e vegetale

che lo circondava, e conservare riserve alimentari per i

momenti di carestia. Di conseguenza il formaggio e la

ricotta possono dirsi alimenti primordiali. A seguire,

partendo dal Medio Oriente (Mezzaluna Fertile), la

coltivazione della terra fece in modo da rendere stanziali gli

insediamenti umani; a cominciare dai primi stazionamenti

preistorici, i Villaggi. Il progresso delle attività collaterali a

questi stanziamenti ha portato a intrecci di varie tecniche e

l'uso di svariati materiali reperiti sul posto. L'intreccio è ad

esempio un'arte antichissima, come pure i primi vasi di

terracotta che sono stati eseguiti facendo il calco su canestri

di materiale vegetale aggrovigliato; la corda che veniva

usata dai siculi per calarsi nelle ripide pareti a strapiombo

e scavare le celle funeraie. L'intreccio di verghe per formare

un contenitore ad olio e vino, che sono pure essi prodotti di

una tradizione antichissima. E a seguire il telaio, il bottaio,

lo stagnino. Per favorire lo scambio di merci e prod9otti tra

le varie comunità, fu fondamentale la realizzazione di un

mezzo di trasporto, il carretto, coi tre maggiori artigiani che

concorrevano alla sua realizzazione: il carradore, il fabbro

e il maestro d'ascia.

*******

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L'esserci non è però un soggetto trascendentale e statico, ma

circolare, dinamico e vivo; nella sua parte si trova il tutto,

nel presente il passato e nel passato il futuro. Tale continuo

rincorrersi e fuggirsi è in definitiva la meccanica

Piattino in latta di epoca Medievale, rinvenuto nella pulizia di Grotta Fezza

dell'ermeneutica: l'interprete oscillando nel cerchio tra

chiuso e aperto, tra finito e infinito, si muove ambiguo di

qua e di là verso il polo dell'in vista di cui (ritrovandosi ad

ogni momento come finalità) e quello dell'in grazia di cui

(per amore di), con un movimento proiettato nel mondo

come apertura. Nell'intreccio di questi due anelli che apre lo

spazio di senso, nulla è affidato al caso ma ogni cosa trova

una giustificazione e una ragione, compreso lo spazio di

gioco in cui si colloca l'uomo scavando in sé alla ricerca

dell'essere; in quanto l'essere è presente da sempre

nell'esserci come enigma e problema, mentre l'interpretare è

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un ricordare e il ricordare un ricordarsi (Bisogna farsi

coraggio e cercare ciò che attualmente non sappiamo, il che

vuol dire che ciò di cui abbiamo perso il ricordo dobbiamo

sforzarci di ridestare nella memoria. Platone). Perché la

domanda è prima di ogni altra cosa desiderio, anelito,

bisogno, e il peso dell'essere si manifesta come necessità di

superarsi e vincersi. L'interpretazione portando sempre

nuove aperture conduce l'uomo tra gli enti, nel mondo come

pure nel nulla, in un processo di rinascita che ek-

staticamente ritorna in-sistente in sé, annulla l'essere e a

volte pure uccide.

*******

Come in un circolo l'antropontologo nella ricostruzione di un

ambiente, di una storia, di un popolo interpreta i reperti il

paesaggio, le carte, li interroga, fa domande, pone questioni.

Apre un varco all'essere lasciando venire incontro le cose per

quello che sono. Costruisce uno spazio mitologico in cui

mette in relazione pensieri e oggetti, e la relazione è la mano

o il pensiero del repertante che afferra i cocci e li sistema

contestualizzandoli in un ambiente (um-welt, in un mondo),

che è poi la sua casa, il chi dell'esserci. Dove per una volta

non si sente la mano dell'uomo se non come allocazione

delle cose; e allora l'essere lo senti come differenza,

problema, nulla, mancanza, silenzio, angoscia. Ma forse

ancora di più avverti la desolazione dell'assenza (e

guardando il lavoro di Gioacchino è impressionante davvero

trovarsi davanti ad una ricognizione di paesaggi in cui

manca quasi sempre la figura umana), tutto gli ruota attorno

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ma solo in quanto significante e il peso della domanda

fondamentale sembra non riuscire a portarlo. Così costruisce

chiese (e anche nella Diruta se ne contano dodici più due

monasteri), progetta altari, innalza crocifissi, rincorre U

Nummu Ru Gesu (processione sortinese nella quale nella

notte del venerdì santo si porta in spalle per la cittadina il

crocifisso scampato al terremoto del 1693). La processione,

appunto. Al seguito di un dio sfuggente e impalbabile, che

non si sente e non c'è; lo disegni, lo scolpisci, lo intagli ed

hai la sensazione che sia là con te. Poi però torni a casa e la

vita ha di nuovo il sopravvento. Senti che tutto ti si

attorciglia addosso, e sai che il peso non puoi reggerlo,

cerchi un senso alle cose e ti accorgi che quel senso sei tu; e

vorresti urlare la tua disperazione, liberarti dalle catene di

questo maledetto circolo, dal tuo destino. Ma sai che non

puoi; ti metti a lavorare con maggior fatica, costruisci, scavi,

intagli, progetti, zappi, raccogli, semini, mungi, studi, cerchi,

ami. Sulle tracce di un'assenza, il cui fascino si dispiega tutto

nella presenza di qualcosa che manca, un significante vuoto

che pur essendo nulla muove ogni cosa dandole un senso. Là

dove in fondo senti di poter trovare pure il tuo.

E' attaccatu, ca corda, a 'na culonna, commu 'nna casa ri

Ponziu Pilatu, e 'ntantu, tutta a genti s'inculonna rarreri a

statua ri Gesù attaccatu (G. Briganti).

Non diversamente Gioacchino Bruno fa la sua processione

di progetti che si susseguono, e il mistico e il religioso lo

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vedi però non nella devozione da cui si sente libero ma nella

cura meticolosa dell'artigiano, nell'ostinazione di salvare la

sua storia e la sua gente, di dare una voce a chi non ne ha

mai avuta, una possibilità non di redenzione da spirito libero

qual è ma di semplice sopravvivenza. E così, non contento

del plastico ricostruisce ancora: Adesso vorrei farne uno in

legno, rappresentando la realtà di oggi, ruderi e sentieri

attuali. Utilizzando la stessa scala, 1:250, di quello

precedente in gesso, che mostra come era il paese nel XVI

sec., con le case e le chiese. Sarebbe un'ottima base per

avviare campagne di ricerche, per rintracciare le spoglie

nascoste da terra e pietre. Proiettando nuovamente l'ombra

del passato sul futuro, liberando per una volta dai catenacci

una visione imbrigliata nei limiti imposti dalla cultura della

relazione tra segno e significato, il suo occhio di

scopritore/apritore archeoermeneuta di piccole verità (Ed è

ben noto quanto l'interpretazione di gran parte della storia

economica e sociale antica si giochi sul significato da

attribuire ai piccoli siti. G. Bruno). Perché la verità, che è

poi l'essere nella sua fenomenologia, è fatta di inezie, spesso

di cose o oggetti trascurabili, nel niente in fondo che

significano. Ma è là, nel nulla appunto senza tempo del

sacro, che bisogna scavare; dove è la vita a segnare i confini

degli oggetti, non più la cultura o una lingua incapace di

sprofondare al di là delle abitudini semantiche. Solo allora

l'interpretazione è autentica, e tutto assume finalmente una

ragione e un senso.

*******

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La dinamica dell'esserci muove allora dal dentro al fuori e

dal fuori al dentro; dall'esserci bisogna uscire perché è un

circolo chiuso (legato alla struttura del pre-: come vorsicht

che è un vedere libero da in quanto e che avendo già visto

proietta l'ombra sul futuro de-terminandolo, come vorgriff

nel senso che essendo gettati nella totalità di opportunità

possediamo da sempre una serie di possibilità da

concettualizzare, e come vorhabe che è l'avere già in

potenza), ma anche rientrare perché è un circolo aperto

(come articolazione dell'in quanto e possibilità di aprire il

mondo ai suoi significati, l'ipostasi del singolo nell'unità

circospettiva e pratica del tutto). Il rapporto con l'essere non

è mai chiaro e lineare, ha piuttosto una zona d'ombra

mediata dall'ermeneutica; il senso si dà e non si dà, dice e

non dice con parole che non sono parole. Il circolo non è

quindi assolutamente vizioso, dal cerchio si può anche uscire

Grotte Cannata, Bassomedioevo, quartiere Curditta in Sortino Diruta

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portandosi fuori nel nulla, là dove niente ha più senso (Ciò

che è decisivo non è uscire dal circolo, starci dentro alla

maniera giusta. Heidegger; con una libera adesione al gioco

del destino e della necessità). L'essere umano è un cerchio

che non è un cerchio, la possibilità dell'impossibilità, può

superare e superarsi, liberare e liberarsi (Tuttavia bisognerà

assolutamente evitare di indicare ontologicamente con

questo fenomeno qualcosa come l'esserci. Heidegger); e

questo è il non senso di una libertà che si sottrae

accettandola ad ogni forma di necessità, che schiaccia il

destino e umilia in definitiva ogni possibile metafisica. E' tra

necessità e libertà che si chiudono allora i confini del senso;

l'ermeneutica si è rivelata come una continua tensione di

possibilità, la chiave per rompere il circolo: il suo compito

non è quello di chiuderlo, ma di aprire all'essere quando e

nei modi ad esso piacerà di manifestarsi.

Anche per l'antropontologo si ripropone insomma lo stesso

problema che a suo tempo Platone evidenziò: se è vero che

l'anima è gravida di significati, chi vi ha depositato il seme

della verità? Ma questo, com'è noto, è il passaggio storico

dalla maieutica all'anamnesi (all'innatismo). Sembra

comunque più accettabile il luogo socratico del lasciar

aperto il problema. Platone lo chiude (alla domanda

fondamentale risponde: perché l'ente è un bene!), non lo

risolve. L'apertura garantisce per lo meno la possibilità

(all'enigma, all'essere) di s/velarsi (quando vorrà) da sé.

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Interpretare nel linguaggio di Gioacchino Bruno vuol dire

scavare, togliere i corpi dalle macerie, dare una sepoltura e

un nome a chi è morto così, schiacciato non dal terremoto

ma dall'oblio della memoria. E quella ricostruita nel plastico

sembra davvero una città dei morti; come nella necropoli di

Pantalica dove il silenzio tombale si avverte in ogni parte

come un vuoto che ti assorbe l'anima sepellendo pure quella.

La vita la senti solo nello scavo artificiale, unico segno

dell'uomo che rimane; l'avverti vibrare nel segno artigiano

che ha scolpito, nella mano poetica che ha intagliato, nella

tensione dei colore. Oltre l'occhio e il cuore davvero non

possono andare. Si potrebbe proseguire oltre, ma è forse ora

di lasciare spazio all'opera di Bruno, con le dettagliate

ricostruzioni storiche e le fotografie degli esercizi dell'arte.

Termina allora qua la prima parte del testo dedicata alla

presentazione archeontologica del suo lavoro; e non trovo

altro modo per chiuderla se non con le annotazioni

dell'illustre Sebastiano Pisano Baudo, storico sensibile e

profondo conoscitore della storia siciliana. Quelle che

seguono sono infatti parole che echeggiano nei manufatti del

nostro ricercatore; le senti ovunque come un sibilo che soffia

pungente nella notte. Nel contemplare le rovine delle città

vetuste, il pensiero corre per la sua lunga serie dei secoli,

che batterono le ali su quelle reliquie e dal sermone dei

sassi attinge la visione, che gli fa rivivere davanti la folla

degli scavatori delle rocce prima, di tanti popoli poi, che in

epoche diverse vi soggiornarono con determinati interessi,

gare, contrasti, costumanze, leggi, istituzioni, e delle

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generazioni che vi lasciarono i cadaveri e dei profanatori

infine che vi passarono fra mezzo, ed aiutarono nella loro

febbre devastatrice, l'opera lenta del tempo e dell'oblio

(Storia di Sortino e dintorni, ed. S. Scolari).

Delucidazione sul significato dell'essere in antropontologia

Due parole per chiarire il senso della terminologia applicata

nel presente studio in ambito antropologico sono necessarie;

rimandiamo in altro luogo una discussione più estesa, che ci

porterebbe fuori dai limiti della presente ricerca. E' una

scienza paradossale l'antropontologia, ma solo da un punto

di vista formale, dall'ottica del principio di ragione. La

ragione è però ideologia e la morale una violenza alla natura,

un'ostacolo a ciò che ha anche solo il profumo della verità.

Figura antropomorfa intagliata nella mensola di un carretto siciliano

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Non si può scindere il destino dell'uomo da quello

dell'essere, l'essere ritorna sempre anche quando gli vuoi

mettere le catene, se lo crocifiggi. La sua indagine è

assolutamente necessaria e un archeologo ne deve tenere

conto. Si è detto infatti che l'antropontologo è alla ricerca del

sacro che è nelle cose e abbiamo dato a tale presenza il nome

di essere. L'antropontologia non è una scienza metafisica

perché in quanto l'essere che da senso e preserva

nell'esistenza non coincide con il dio storico della tradizione,

ma con un significante immanente nell'esistenza degli enti

del mondo che le significa (senza tuttavia avere significato

alcuno) nominandole per quelle che sono. Come presenza di

un'assenza nel tessuto della mondanità. Essere e ente (esserci

in quanto essere nell'umano) sono uniti inscidibilmente in

medesimo spazio ontologico che coinvole l'uomo e la storia

Figura intagliata nella mensola di un carretto siciliano

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come necessità per il suo accadere. Aristotele ha così scritto

nel Περι ερμενιας: In se stessi... e detti di per sé i verbi sono

nomi e significano qualcosa... ma non significano ancora se

è o non è. Ché l'essere o il non essere non è un segno della

cosa, neppure se si dica ente senza aggiungere altro. Infatti

per se stesso non è nulla ma in più significa una certa

congiunzione (3-19,25). All'interno della più articolata teoria

dell'enunciazione e in virtù di una supposta corrispondenza

tra piano delle cose e piano del linguaggio, l'essere prima di

prendere altra collocazione è per Aristotele un verbo.

Assunta questa fondamentale acquisizione, va però oltre e

dice che il verbo: a) significa qualcosa; b) il significato che

assume consiste nell'appartenenza a qualcos'altro; c) è

collocato nel tempo. Disinteressandoci del punto a) che ci

porterebbe lontani dai limiti preposti, dobbiamo invece

concentrare l'attenzione sui punti b) e c). Nel primo b)

Aristotele precisa che il verbo di per sé non attesta

l'esistenza di ciò che significa, ma che solo dall'unione col

nome dà luogo ad un'asserzione che rimanda alla realtà delle

cose. Ora, poiché ogni verbo acquista significato nel

contesto di una proposizione, e se ogni proposizione è

formata da soggetto-verbo-predicato (o soggetto-verbo

laddove il predicato viene sottinteso), si delinea il secondo

punto c) per il quale l'essere non è nulla di per sé (op.cit. 16-

b-24) ma significa solo in una congiunzione di termini. Il

verbo `όν, che la tradizione ha caricato di tensioni teoretiche,

stando alle parole di Aristotele, non è nulla di rilevante,

assolutamente privo di determinazioni, sotto l'aspetto logico-

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semantico non ha alcun significato oltre quello di specificare

la funzione di copula, sotto quello ontologico non equivale

alla proposizione τό `όν `έστιν. Il verbo è certo un nome, ma

quel tipo particolare di nome che temporalizza ciò che

significa (E' ciò che in più significa il tempo). Dire che

l'essere è collocato nel tempo, significa affermare che è il

tempo stesso da intervenire (quando si consideri il verbo

come segno della predicazione intesa come struttura della

cosa) nella semanticità del verbo sostanziandosi. Si è così

raggiunta una fondamentale equazione tra essere e tempo.

Scheletro di un carretto abbandonato in contrada Mascalucia

Per ricondurre il discorso in ambito antropontologico, è bene

sottolineare il valore ontico del verbo essere, spostando

l'attenzione direttamente nelle cose. Nella proposizione (ad

esempio) io sono uomo, io e uomo si identificano, sono

convertibili. Questo significa che affinché l'Io/soggetto possa

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entrare nel mondo (assumendo una specifica collocazione

esistenziale) ed esistere, determinandosi storicamente come

uomo (predicato), deve parteciparsi dell'essere e delle sue

aperture ontologiche (le categorie, e nello specifico il

genere). L'è perciò non è solo copula, ma nell'accezione

propriamente ontologica specifica l'essere come esistenza

(L'essere è l'atto grazie al quale una cosa non è solo logica

ma reale. Tommaso d'Aquino), di modo che quando diciamo

Socrate è musico dobbiamo pure intendere esiste Socrate

musico. L'Io soggetto è infatti sempre qualcosa di

determinato e non un universale astratto (è questo uomo,

questo musico), ed il modo che ha di rapportarsi con il

predicato è del tutto accidentale (non è necessario che sia un

uomo o un musico). L'essere allora è nelle cose e le

mantiene in un eterno presente, nello spazio aperto del senso

e dei significati. E' un non/significante di per sé vuoto ma

capace di connotazione ontologica. Quando si scava in

antropologia e si trova un reperto in quel reperto la sostanza

che lo ha preservato per millenni è ciò che fa in modo che

ancora e-sista (ek-sista nel mondo), presente come ai tempi

della sua produzione, appunto l'essere nel suo significare

preservandola la cosa, nominandola per quella che è.

Propriamente la presenza di un'assenza, il ni-ente, il nulla

(iato mitologico tra il segno e il signifcato) che precede la

struttura culturale (ordinandola nella catena segno-

significante-significato) di un oggetto (Non è un oggetto, né

un ente... il nulla è la condizione che fa possibile la

rivelazione dell'ente come tale per l'essere esistenziale

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dell'uomo. Il nulla non è soltanto il concetto opposto a

quello di ente, ma appartiene originariamente all'essenza

dell'essere stesso. Heidegger). Che è poi uno dei nomi con

cui la tradizione ha identificato il dio (belimah, nulla, è una

parola che compare una sola volta nella Bibbia, Gb. 26, 7:

Egli distende il settentrione sul vuoto e tiene sospesa la

terra sul nulla; la radice beli+mah significa senza alcunché,

ciò che non ha qualità, ovvero l'inafferrabile e

l'indeterminato proprio di una divinità). Essere e (è) nulla

dunque, in quanto limite critico di ogni possibile linguaggio,

il luogo poetico nel quale le parole perdono i significati

sedimentati per rivivere in una nuova decodificazione

lessicale. Il nulla è uno spazio concreto e storico nella sua

astoricità, la radura di ogni lingua dove la parola e la cosa

Chiodi rinvenuti durante la bonifica di Cugno di Muro, epoca Medievale

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trovano il modo di conciliarsi. Come un ponte che supera lo

iato semantico e ontologico col mondo e apre uno spazio

comune di senso, l'aperto mitologico che lascia venire

incontro le cose nominandole/di-segnandole. Un terreno di

significatività (contestualizzazione pragmatica di una totalità

di opportunità) e verità (concor/danza in una forma di vita)

in cui è sempre la parola poetica a condurre i giochi (di

lingua). Nell'ultima trascendenza del linguaggio che è un

Raccogliersi nel raccoglimento in ciò che, in quel che è

detto, rimane non detto (Heidegger). Al di là della

colonizzazione semantica e dell'irrigidimento di un senso (il

Logos che tutto raccoglie in un uni-verso che umilia

l'originaria ambivalenza delle parole e imprigiona nei

significati già codificati dalla tradizione, da una

visione/ritaglio ottico del mondo) che estrae dall'orizzonte

della verità le originarie paradossali ambivalenze

ontologiche in un uni-verso concepito come teatro

metafisico per gli esercizi in fondo del potere.

Glossario minimo

(per una corretta comprensione del testo)

Essere: è ciò che è immanente nelle cose e le preserva nel

tempo per quello che sono. E' la vita nella sua profondità,

quanto di significativo c'è negli enti/oggetti e che li specifica

singolarmente come quegli oggetti e non altri. E' ciò che

rende qualcosa immortale, che la segna al di là delle

stratificazioni culturali, che fa attraversare alla cosa i limiti

del tempo in un eterno presente (è il nome della permanenza

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nella cosa che la rende tale, confermata dalla sua

ripetizione). L'essere come differenza, come vuoto, non

pienezza e non sostanza che il linguaggio ripercorre

seguendo tracce impercorribili e non trovando cose.

Esserci: al di là dell'articolata terminologia heideggeriana, è

da intendersi nel presente testo come l'uomo privato della

significazione operata dalla metafisica, è un modo per

nominarlo al di là della sua storia culturale, della catena di

significanti che lo ha cristallizzato ideologicamente come è

oggi. In quanto essere nell'umano, come sostanza dell'uomo;

appunto essere e tempo.

Ente: gli enti sono gli oggetti del mondo. Anche l'uomo è un

ente, ma significato/sostanziato dal suo ci, dal suo essere qua

ora non come semplice presenza, ma in quanto finalità,

senso e misura delle cose.

Segno: è una traccia dell'essere in tutto ciò che esiste, l'eco

lontano delle cose, portatore della memoria di un oggetto e

di una cultura, di una visione del mondo. All'origine di ogni

linguaggio non c'è la parola parlata ma un'archeoscrittura

primaria; e dunque alla metafisica si sostituisce la

grammatica (grammatologia), ed essa sola accede all'essere

come differenza (Derrida).

Significante: se il segno è pieno il significante è vuoto. E'

come una voce, un'assenza, una materia informe che apre ai

significati senza averne alcuno. E' il significato svuotato del

referente ontologico, la parola senza la cosa, pura

predisposizione alla significazione di un oggetto. Possibilità,

apertura, luce, originaria ambivalenza. Il pensiero

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occidentale non ha mai sopportato tale vuoto della

significazione, in quanto non/luogo, non/valore, cercando

un'identità tra il codice e la struttura sintattica.

Significato: è un'ideologia, la cosa nominata secondo

un'ottica culturale, privazione di altre possibilità di senso,

principio di realtà imposto nella catena semantica,

decodificazione autoritaria dei segni nel ritaglio del Logos

(che risolve gli ossimori dell'essere nell'equivalenza di un

uni-verso), significante dispotico nella lingua e nel pensiero,

è il risultato di un addestramento/addomesticamento ottenuto

attraverso il linguaggio.

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GIOACCHINO BRUNO

RICERCHE ARCHEONTOLOGICHE NEL

TERRITORIO SIRACUSANO

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SORTINO DIRUTA

TRA LEGGENDA E REALTA'

(stralci dal libro di G. Bruno e L. Ingaliso)

Il testo -stampato e oggetto di attenzione da parte della

Sovrintendenza- si presenta come un diario di lavoro

seguente le analisi del quadro (commissionato dal parroco

Gurciullo nel 1749 ad un pastore, per conservare una

ricostruzione grafica del paese antecedente il terremoto)

ritrovato e ripulito della Sortino Medievale, per divulgare la

ricostruzione storico-topografica operata sul campo, nonché

con l'ausilio degli antichi autori come Gurciullo (le

Memorie), della città vecchia ai tempi del massimo fulgore

economico che ebbe tra il XII e il XIV sec. Vengono qui

forniti alcuni stralci del libro utili alla comprensione del

metodo di lavoro di Gioacchino Bruno inserite nelle pagine

seguenti. Il lettore è comunque invitato alla lettura integrale

dell'opera. Dalle indagini di Bruno e Ingaliso sono venuti

alla luce l'antica divisione dei quartieri (Collina, Curditta,

Mandrazza, Carcarone), i quattro ponti (uno dei quali

collegava Sortino a Serramezana, il ponte Nuovo; gli altri

erano ponte dei Mulini, ponte Guccione, ponte dei Canali),

le dodici chiese e le strade principali. Le abitazioni, scavate

nella roccia del colle, erano di circa 75 mq; i muri esterni

erano in pietra o in calce e i pilastri in tufo; il tetto sostenuto

da travi inserite nel muro con fori praticati nella roccia;

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sopra le travi si mettavano filari di canne con una

sovrapposizione in calce, e il tutto veniva ricoperto da tegole

collegate alla roccia con uno scavo in cui erano inserite

mattonelle di tufo. Nel complesso Sortino viene alla luce

come un centro di benessere economico, all'avanguardia

anche per quel che concerne la pulizia e l'igiene con largo

uso del sapone, e ricercato soprattutto per la produzione del

miele, ma anche per l'olio e la vite.

Presumibilmente il sito dove sorgeva Sortino "vecchia" era

già abitato da molti secoli, cioè prima dell'effetiva nascita

del paese. Fra l'Ottocento e il Mille d.C. i Siculi della vicina

Erbesso si trasferirono nella valle del fiume Guccione, oggi

chiamato fiume Ciccio, ubicata a nord dell'antica cittadina

iblea.

"Era l'antica Xuthia situata sulle coste d'un monte appiè d'un'alta, ed aspera rupe...", Andrea

Gurciullo

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Col passare del tempo il paese si estese prima verso il

centro della valle e poi verso ovest dando così origine ai sei

quartieri di Sortino. Intorno al 900 d.C. i Saraceni

costruirono nella sommità del paese un castello e una torre

alta circa 15 metri, adiacente lo stesso.

Scacciati i Saraceni, il castello e il feudo di Sortino furono

affidati nel 1282 dal re Pietro al barone Perrello di Modica.

Nel 1477 Sortino e il suo feudo furono comprati da Guidone

Gaetani. Il nucleo originario del paese era situato ai piedi

del Piano del Castello (l'attuale Cimitero Vecchio o Villa

delle Rose).

La torre e il Castello dei Gaetani - lato est

Le difficoltà d'accesso a questo quartiere -Curditta- quando

Sortino si estese, obbligarono il marchese Guidone Gaetani

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a far costruire la "Scala Nova".

Importantissima era la "Via del Corso", che iniziando dalla

chiesa di S. Antonio conduceva sino alle mura orientali del

paese dove vi era la porta del "Mprimmo" che apriva la

strada per Siracusa.

L'altra via principale del quartiere (Cunsarie) era

conosciuta come "Strada del Piano del Guastella" che

divideva lo stesso quartiere soprastante della "Collina" e

collegava anche il centro del paese con la parte periferica

di esso.

La devozione nei confronti della Santa (Santa Suffia) era

tale, che la prima chiesa costruita a Sortino fu proprio

quella dedicata alla Santa Patrona.

Quartiere Mandrazza, porta del "Mprimmo". Si vedono a sinistra la Chiesa e l'Ospedale, a

destra il Convento di S. Francesco

Nella seconda metà del XVI secolo si crearono a Sortino

molti ordini religiosi, fra cui i più importanti costruirono

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conventi e monasteri.

L'ordine religioso dei frati Cappuccini costruì al di sopra

del quartiere della Collina un convento iniziato nel 1550 e

ultimato nel 1556.

L'altro convento importante, all'interno del paese, era quello

dei Carmelitani, posto nel quartiere delle Concerie.

Resti delle fondamenta del Castello e della Torre

Nel paese oltre ad essere presenti congregazioni maschili ve

ne erano anche di femminili, che erano raggruppate nei due

monasteri del paese: quello di S. Benedetto, sito nel

quartiere "Curditta", al limite del confine orientale di

Sortino, e quello di S. Bernardo, detto di Montevergine,

posto più in alto del castello nel quartiere "Cava".

Il giorno 9 Gennaio del 1693, prima della mezzanotte,

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Sortino tremò. Cadde la torre e parte del castello... crollò il

campanile della chiesa madre, il ponte dei Canali e il ponte

del Guccione, la chiesa di S. Sebastiano fu schiacciata da

un enorme masso, i danni più gravi li subirono gli abitanti

della parte più alta del paese.

Chiesa di Santa Maria del Soccorso

La domenica giorno 11, intorno alle 17 replicò la scossa,

ma fu breve e leggera; quando non erano trascorse le ore

21, accompagnato da un ruggito spaventevole di vento, e da

terribile fragore, una scossa violentissima durata 4 minuti

fece traballare la terra, e in poci istanti gran parte della

città fu distrutta.

Al monastero di S. Benedetto, la comunità numerosa,

radunata per i ringraziamenti al Signore per averli salvati,

passò in un momento dalla vita alla morte schiacciata da un

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enorme masso ruzzolato dalla rupe soprastante.

Dalla città si sollevò un nuvolone di polvere che ben presto

si mischiò alla copiosa pioggia, e tutta Sortino fu avvolta

sotto il manto della morte e solo qualche fulmine faceva

intravedere con la sua agghiacciante luce, l'orrore e la

totale distruzione che stringeva il paese.

Successivamente si decise di costruire la nuona Sortino alla

sommità del colle Aita "dietro e sopra la selva e luoco dei

padri Cappuccini e sotto e sopra collaterale al venerabile

monastero di Montevergine...".

Concerie

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Particolare della costruzione del tetto delle case della Sortino Vecchia

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GIORNALE DI SCAVO

Soprintendenza ai BB. CC. e AA. di Siracusa-Siciliantica.

Comune di Sortino- Cava del Marchese

Adiacenze con le antiche fondamenta della Torre del Castello

Si inserisce il giornale completo di scavo tenuto da

Gioacchino Bruno per tutta la durata dei lavori. Il taccuino è

estremamente interessante in quanto documenta in maniera

completa con mappe, disegni, fotografie, appunti,

l'allocazione e la struttura del Castello della Sortino Diruta

-costruito intorno al X sec. dai Saraceni e munito di una

torre adiacente- e dell'area circostante. Importante anch'essa

perché per costruire la rocca i Saraceni cacciarono dalla

parte alta gli abitanti, che andarono a stanziare sotto il

costone del convento dei Cappuccini, fondando il quartiere

della "Collina". Proprio sotto il Piano del Castello si

estendeva il quartiere più ricco e nobile del paese, il

"Curditta" che aveva all'interno la "Piazzitella", un centro di

ritrovo per i nobili e notabili. Fondamentale fu anche la

scalinata "Nova" (trecento scalini e poiché era stancante

percorrerla d'un fiato fu scavata circa a metà del tragitto

nella roccia una nicchia/riparo dedicata a S. Maria del

Riposo) che Guidone Gaetani, il marchese, fece erigere per

collegare agilmente il quartiere con il resto del paese. Ma

soprattutto tale documentazione è interessante per

comprendere la tecnica archeovisiva in tutte le fasi, dalla

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scoperta alla fissazione delle idee nel cartaceo. Il terreno che

è di un privato cittadino, fu messo a disposizione per gli

studi con la massima disponibilità dal proprietario. A questo

scavo, com'era nei progetti di Bruno, ne sarebbe seguito un

altro nella parte inferiore del sito bonificando la zona in

contrada Costa Sortino.

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COSTA SORTINO PROPRIETA' CANNATA

Rilievo abitazioni rupestri Bassomedioevo Sortino Diruta

Quartiere Curditta – adiacente Monastero San. Benedetto

1998-1999

I lavori di scavo e di bonifica interessarono l'area territoriale

di Sortino Diruta, in C.da Costa Sortino, che si estende a sud

dell'odierna città, per un perimetro ancora godibile di circa

3,14 km alle coordinate geografiche Lat.37° 09' 09' N –

Long. 15° 01' 51'' E, mirando alla fruizione dell'antico sito

della Sortino medievale. Come si legge dalla relazione

presentata da Gioacchino Bruno, nelle vesti di presidente-

responsabile archeologico, il sito venne abbandonato dopo i

terremoti del 9 e 11 Gennaio del 1693 che rasero al suolo i

paesi della Val di Noto. Nei secoli a venire la zona ebbe uno

sfruttamento soprattutto agricolo, vista l'abbondanza di acque

fornita dal fiume Guccione, affluente dell'Anapo e dalle sue

sorgenti. Nonostante la mano dell'uomo abbia inciso nelle

modifiche geoarchitettoniche alcune cellule si sono

preservate e costituiscono dunque un'occasione di studio

rilevante della Sortino Diruta nella sua struttura tipica di

borgo medievale rupestre degli Iblei. Una di queste cellule è

proprio l'area denominata "Grotte Cannata", registrata al

foglio 39, particella 120. L'area costituiva il quartiere più

ricco e antico e conserva i ruderi di abitazioni medievali

contigue ricavate nella roccia, nonché le vie d'accesso con

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viottoli e scale scolpite nella roccia. Dagli scavi è venuto

fuori che le abitazioni poggiavano infatti direttamemente

sulla roccia, mentre le pareti venivano fabbricate con pietre e

calce. Alcune si estendevano su due piani e per questo

venivano chiamate "Domus Palaciate" (Case a Palazzata). La

pianta delle abitazioni e i ruderi sono ancora evidenti e

disegnano molto bene il tessuto urbano medievale. Oltre ad

una rilevanza archeologica, storica e paesaggistica quest'area

presenta un valore naturalistico di primo piano. Bonificare

questo sito è stato molto importante per il territorio sortinese

in quanto è da considerarsi come l'anello storico e

archeologico mancante tra Pantalica e Sortino. Il lavoro,

svolto come sempre con professionalità e sotto l'egida della

Sovrintendenza nella persona della dott.ssa Basile, si è

avvalso dell'apporto di intelligenze come il prof. Mangiameli

per quel che riguarda l'inquadramento geologico strutturale, e

dell'occhio supervisore della dott.ssa Beatrice Giaccotto,

l'avv. Sebastiano Papa, il sindaco dott. Orazio Mezzio, sig.

Nuzzo Mosca.

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Il lavoro su questo ritaglio di terra è stato imponente. La

documentazione è molto articolata e dettagliata ma non è

stato possibile introdurla in questo studio. Meriterebbe una

pubblicazione a parte.

Naturalmente l'interesse etnoantropologico di Gioacchino

Bruno l'ha spinto sempre più nel territorio. Tra i suoi

interventi si ricordano anche: Bonifica Sortino Diruta sotto il

Castello; Bonifica della zona Cugno di Muro; Pulizia e

ripristino del sentiero sotto il convento dei Cappuccini.

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SEGNI ONTOPOIETICI

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Si inseriscono in queste pagine fotografie realizzate da

Gioacchino Bruno di rocce, pietre, scorci di panorama,

piante, acqua, alberi, fiori. Sono immagini che ha raccolto

con una sensibilità attenta e poetica. Non sempre la scultura

è stata eseguita dalla sua mano, ma nell'estetica moderna

(come ad esempio accade nell'Arte Concettuale, dove

l'oggetto è assente) il dato oggettivo, la cosa, l'opera nella

sua fisicità è stata sostituita da un'immagine senza corpo

riproducibile, e non si sa oramai se in questa immagine

artefatta ci sia davvero la perdita dell'aura o semmai un

arricchimento dovuto proprio alla risemantizzazione della

cosa percepita, possibile proprio perche' inesistente come

riferimento cultuale, eterea senza profondità o spessore. La

tecnica, e in particolare quella fotografica (come bene

appunta Walter Benjamin) ha reso fattibile il superamento

dell'oggetto artistico inteso semplice presenza, in quanto

l'unicità non è più fondamentale ai fini della godibilità della

percezione, ma forse addirittura un ostacolo alla sua

diffusione e fruizione (cosa che i fotografi delle modelle

delle riviste patinate conoscono bene quando creano

un'immagine di donna elaborata ad un punto tale da non

avere più nessuna relazione con il corpo originario; o nel

cinema digitale in cui gli attori spesse volte non esistono ma

sono elaborati dal software). Come quando si riproduce la

Gioconda e la si rielabora moltplicandola (Warol), o quando

il museo perde le mura e diventa non virtuale, ma fluttuante

al di là dello spazio e del tempo. Essenziale è piuttosto

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l'occhio dell'artista e la sua capacità di incorniciare, di

sedimentare materialmente le forme e i colori nello spazio

fisico di un riquadro fotografico, dove la cornice è offerta

dal rettangolo e dalla carta su cui viene impressa l'immagine.

Mentre l'oggetto, l'opera vive nel ritaglio ottico del

fotografo, nella rivalutazione estetica di quello spacifico del

mondo colto e fermato dall'obiettivo. E allora anche il sasso

fotografato è una scultura, scavato dall'occhio, rivalutato

dalla cultura, colto dalla sensibilità dello scatto. Si è superato

insomma ampiamente il concetto mistico di aura dell'opera,

tanto che oggi il senso del prodotto artistico si trova proprio

nella riproducibilità e nella massificazione delle immagini

che spaziano anche negli strati poveri della popolazione.

Nella perdita dell'aura si assiste come alla perdita della

metafisica dell'oggetto, la sua idea e solo allora quelle forme

poetiche riescono finalmente a vivere nella vita reale

ampliandola di contenuti. Meglio che nella fisicità dell'opera

è forse proprio nelle istantanee fotografiche che l'essere

riesce a fluttuare coi suoi codici linguistici e attraversare lo

spazio e il tempo (Nella fotografia il valore di esponibilità

comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. W.

Benjamin). Paradossalmente oggi il valore estetico della

Gioconda del Louvre è de/limitato dalla corporeità e

co/stretto nelle stanze del museo, potrebbe anche scomparire

e conservare comunque una possibilità di significazione. La

guardiamo in fotografie e in quelle fotografie c'è molta più

verità dell'opera che nell'opera stessa (Privando l'arte del

suo fondamento cultuale, l'epoca della sua riproducibilità

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tecnica estinse anche e per sempre l'apparenza della sua

autonomia. W. Benjamin). E' un paradosso, certo. Ma

l'essere ama i paradossi e quando interviene scompagina i

codici di lettura, ridefinisce il senso, presenta le cose in

un'altra ottica. E può anche accadere talvolta che annulli le

cose, rendendo possibile nella vacuità impalbabile

dell'oggetto una diversa e più ampia espressione.

________________________________________________Le tre sezioni che seguono (scultura della pietra, manipolazione dell'argilla, fotografia) derivano da un ciclo di lezioni che Gioacchino Bruno ha tenuto dal 2010 al 2011 in Sortino presso l'associazione culturale PiuSicilia. Le dispense ai corsi si aprivano con una mia presentazione, riproposta nel presente testo. Le fotografie pubblicate a seguire (bellissime ed epressive) andrebbero viste nel colore originale, purtroppo le esigenze di stampa non hanno permesso che il bianco/nero.

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ASPETTI PSICO-ANTROPOLOGICI NELLA MANIPOLAZIONE DELLA PIETRA

PiùSicilia è un'associazione nuova nel nostro territorio, ma

già si è distinta per manifestazioni a carattere culturale e

sociale di rilievo. I dirigenti mi hanno coinvolto

chiedendomi una presentazione a questo corso di scultura,

e da subito ho accettato con entusiasmo. In primo luogo

perché ritengo che sia un'iniziativa seria e di qualità, ma

soprattutto un'opportunità per molti giovani; in secondo

luogo perché la preparazione tecnica (e storica), nonché il

talento riconosciuto da incarichi di prestigio, di Gioacchino

Bruno a cui è affidata la responsabilità delle lezioni, sono

una garanzia di successo. Non mi addentro in questioni

complesse in merito alla pietra, alla sua lavorazione e ai

suoi significati; mi limito invece, e con piacere, a

puntualizzare alcuni aspetti strettamente culturali inerenti

alla manualità e alla manipolazione di oggetti, cose e

attrezzi che hanno una storia millenaria. Siciliana certo, per

sua naturale conformazione geologica e per l'antico legame

che unisce gli isolani alla loro terra, ma non solo etnica

locale; perché la manualità, il fare inteso come istinto

arcaico e quasi mitologico (l'a-che-fare primario

heideggeriano), attività semantico/ordinativa dell'Io e del

mondo è il nucleo costitutivo non solo della vita psichica

di un individuo, ma la grammatica stessa di una comunità.

Se da una parte la crescita evolutiva di una persona

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(emotiva ma anche brutalmente neurologica) matura e si

forma nel padroneggiare una tecnica già dalle primissime

ore di vita, dall'altra sedimenta nelle strutture simboliche e

sociali di un popolo, espandendosi amplificata nell'etica e

nei costumi. Anche in quelli religiosi. Non per niente

etologi di fama hanno rilevato che la maturazione

neuronale dei primati (scimmie, gorilla, macachi fermi ad

uno stato primordiale) è stata mutilata proprio dai limiti

della gestualità che l'assenza del pollice impone loro;

mancanza che non ha fatto sviluppare le aree intellettuali

dell'encefalo ed ha impedito alla psiche di dilatarsi nelle

forme più alte della vita culturale e sociale. Di vincere

come l'uomo in qualche modo il braccio di ferro con la

morte (angoscia primaria), manipolando -già dalla sua

prima comparsa sulla terra- la durata e la solidità della

pietra nella sublimazione simbolica che esorcizza la

precarietà della vita nell'eterno. Tutti sanno che i bambini

imparano giocando con le mani (e nel gioco costruiscono

relazioni e metodo, quasi un rito a cui ubbidiscono con una

serietà grave e imperativa; proprio come lucidamente

sintetizza Wittgenstein laddove chiarisce che seguire una

regola è ubbidire ad un comando) come pure gli animali, e

che la conoscenza prima che un fatto intellettuale è sempre

arcaicamente gestuale. La parola precede infatti

condizionandola la visione, così come la manualità precede

formandolo il pensiero e le sue strutture. Sfugge spesso

tuttavia che la formazione dell'Io non è un processo

unicamente cognitivo; perché attraverso il fare

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-l'apprendere- non solo cresce e si costruisce l'integrità

della persona, ma si scava frantumandola nella

sedimentazione della sintassi del quotidiano, incidendo

davvero come uno scultore o un maestro artigiano nella

stratificazione delle cose e nel modo abitudinario di

interpretarle (processo invero analogo alla variazione

eidetica husserliana). Manipolazione

linguistico/semantico/ermeneutica che colpo dopo colpo,

incisione dopo incisione affonda nel taglio luce/ombra fino

alla verità delle cose. Proprio come scrive Platone nel

Fedro: Allorché un uomo, vedendo la bellezza di quaggiù e

rammentandosi la vera bellezza, metta le ali e desideri,

così alato di levarsi in volo... allora si ristora e riscalda e,

cessando di soffrire, si sente lieto e felice. Perché anche in

una pietra è racchiusa e conservata una storia, ma

soprattutto un'opportunità: come possibilità gestuale di

uscire dai limiti antropocentrici dell'Io e dal suo gravame

metafisico, per la produzione di un mondo. Costruendo nei

riti apotropaici del travaglio quotidiano (tessuti di gesti

intesi come processi di autoregolazione sprituale che

portano nell'arte -e meglio ancora nella tecnica- significati

epocali) un Totem comune in cui si concentra l'ethos e si

attuano le relazioni simboliche di una comunità.

Nell'elaborazione artistica o artigianale (e nella sua lingua

archetipica quale distruzione fenomenologica di

incrostazioni culturali millenarie) si trova perciò sempre il

linguaggio primitivo di una civiltà, in cui risuona colpo

dopo colpo l'eco di epoche lontane; segni/graffi/erosioni

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(naturali o artefatti) che stratificano la storia mitologica e

simbolica di un popolo, cristallizzata -proprio come in una

pietra- in un inconscio collettivo (Jung). Scavando e

scalpellando, graffio dopo graffio, incisione dopo incisione

per Portare alla luce... il sistema degli assiomi e dei

postulati che definiscono il miglior codice possibile,

capace di dare una significazione comune a elaborazioni

inconsce che ineriscono a spiriti, società e culture scelti

tra quelli maggiormente lontani luno dall'altro (Lévi-

Strauss). Perché anche nel chiaroscuro di un comune sasso

da sempre è in fondo la vita stessa che si presenta all'uomo

come problema e peso, qualcosa che deve essere realizzato,

progettato/manipolato. E si può scolpirlo liberando l'Io

verso l'autocoscienza dai pregiudizi della sua storia e della

sua cultura. Proprio come il nostro essere-nel-mondo.

Analogamente ad una pietra immune alla lacerazione del

tempo, sgranata tuttavia dai venti, corrosa dall'acqua,

maneggiata dall'uomo; sempre (tutto sommato) uguale a se

stessa, al di là delle epoche, davvero oltre l'ineluttabilità

della morte. Con l'illusione ma anche la certezza di estrarre

dalla terra e dai suoi frutti -lavorandola e travagghiandola-

il senso delle cose; sfiancati da una fatica che però in

qualche modo eterna l'Io.

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Balconata intagliata da G. Bruno

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Insegna scolpita a mano da G. Bruno, posta nella facciata del Municipio di Sortino

Angolo di Sortino

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Posa della pietra monumentale davanti al Municipio Nuovo

Pietra rocciosa

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DALLA CRETA ALLA PIETRATRA MITO E CREAZIONE ARTISTICA

Altrove e sempre in relazione alle ottime lezioni d'arte di

Gioacchino Bruno, si è sottolineato (a dire il vero con

qualche enfasi) che l'artista è l'arteficie di una nuova

mitologia, il demiurgo di una rigenerata epoca storica. Nel

presente ciclo didattico sulla lavorazione della creta, il

binomio arte/creazione non potrà scindersi dall'identità che

sussiste tra la materia e la coscienza, la filosofia e l'arte. Non

esiste altra disciplina creativa, antica e davvero primitiva

come la lavorazione della terra, in cui l'unione di reale e

ideale confluiscano nell'anima del mondo (Schelling) in

assoluta sinergia e per la messa in opera della verità. Un

pensiero manuale di una materia e una forma che sono dentro

come fuori di noi, in un impasto che perde fisicità e scioglie

dissolvendosi nella fattualità del tempo; un tempo che

nell'arte è ciclico, come l'anello che muove dalla nascita alla

putrefazione e dalla putrefazione alla ri/nascita attraverso il

solve et coagula (processo fisico e mentale che porta la

materia ad assumere finalmente una forma) della produzione

creativa. L'artista operando nella creta, non tanto per

in/formarla quanto per coinvolgerla nella propria amalgama

vitale, interviene nell'elementarità della sua chimica fino a

farle raggiungere quasi la perfezione della pietra e del

cerchio filosofale. Perché le forme che la terra assume sono

comunque il prodotto di uno scavo archetipico (mentale e

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fisico) di riconduzione all'unico simbolico che ribolle in

fondo nella profondità dell'essere. Lavorando l'argilla per

dominarla nella sua brutalità accade che l'infinita energia e

l'infinito movimento in essa contenuti possano trovare il

momento della immobilità, che permette di cristallizzare

l'attimo impossibile, irripetibile e paradossale dell'eterno. La

forma propriamente, che sedimenta dalla distruzione delle

forme e irrigidisce nella instabilità di una materia che soffoca

nell'equilibrio e nella stasi. Si può -è vero- anche imporre

culturalmente una forma nei processi creativi, ma solo per

fare della rigidità una disarmonia caotica, e in essa una

radicale trasformazione interiore. Anche le severe costruzioni

geometriche non sono solo la sintesi di una spazialità che

ritorna all'originario eidetico, ma una stabilità molecolare, il

convergere sincronico di segni che hanno come i mandala

primariamente una connotazione temporale/rituale. Sono

tempo e non spazio, il tentativo o la tentazione di sottrarre il

tempo alla gretta esistenzialità: fuori accelerando al

parossismo, dentro (nella condensazione sferica delle

trasformazioni interiori) rallentando fino alla fissità della

forma. Una danza interiore che induce all'annullamento del

tempo, in quella condizione mitologica preintellettuale che

genera l'eterno ritorno. Realizzare la pietra dal fango

significa allora nell'opera d'arte raggiungere l'equilibrio delle

tensioni primigenie (La nostra Opera è la conversione e il

cangiamento di un essere in un altro essere, come di una

cosa in un'altra cosa, della debolezza in forza... della

corporeità in spiritualità. N. Flamel), lo stato nel quale il

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mutamento del Sé opera per il mutamento del mondo; dove

la coscienza perde il carattere del particolare egocentrico e

assume quello universale (l'unum ego sum et multi in me di

B. Valentino). Isomorficamente nelle asperità proprie della

terra e nell'interiorità dell'operatore alla realizzazione di una

trasformazione alchemica demiurgica della materia prima.

L'oro, la pietra filosofale, è allora anche il simbolo della

ricchezza spi/rituale, un estrarre dall'ombra alla luce e dal

piombo all'oro che coinvolge nell'unico destino l'opera e la

vita, l'uomo e la sua storia. Ripetendo nell'arte i processi

della creazione, per trasformare poieticamente il mondo.

Travagliata riduzione fisica della materia, dall'informe alla

forma e dalla forma all'informe in un circolo presemantico

che porta alla liberazione poetica, alla triangolatura del

circolo. In una conflittualità perenne tra apertura e

occultamento, visto e non visto, detto non detto, tra vero e

falso (come nel frammento 53 di Eraclito: Conflitto/di tutte

cose padre/di tutte cose re/alcuni foggiò dèi/uomini

altri/servi alcuni/altri liberi/fece). Propriamente l'opera d'arte

è un portare alla luce scavando dal pozzo dell'essere, nei

manufatti di quella téchne (la cui funzione secondo

Heidegger è di ri-velare e custo-dire) che estrae dalla terra i

significati pre/formati nel fondo chiaroscurato dell'esistenza.

Un pensiero manuale che incide archeologicamente la

materia per liberarne l'infinità dei significati; separando,

solvendo e sublimando la coscienza fino alla sua

dissoluzione nella primordiale pietra filosofale.

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Operazione prima dell'amalgama terra/acqua è la

separazione. La separazione è il momento della morte,

dell'odio e della distruzione, del travaglio che conduce al

bianco della rinascita, alla ricomposizione (del nero e del

bianco, del bene e del male), del molteplice nell'uno.

Separare significa estrarre il mercurio dal corpo, rompere le

barriere, passare dallo stato non individuato alla forma

prima. Con una circolare eccitazione dei sensi che muove la

pulsione creativa nello spazio fondamentale della libertà. Il

nero è il momento nel quale il seme deve morire nella terra

per fruttificare, l'oscurità dei sensi, la cecità dell'intelletto;

tossico aceto filosofale che percuote, tramortisce e in qualche

modo uccide. Si comincia allora modellando dalla nigredo, il

colore più nero del nero, dalla putrefazione o mortificazione

ermetica, dalla putrefactio del Sé (o melanosi) e dal mondo

(o materia al nero). Dalla terra, all'acqua, all'aria, al fuoco la

materia si smaterializza fino a raggiungere la consistenza

filosofale. Quattro sono le fasi dell'opera (nigredo, albedo,

rubedo, citrinitas), come quattro sono le stagioni e le età

dell'uomo; in una ciclicità continua e perpetua che porta ogni

istante a redimersi nel suo opposto: dalla morte alla nuova

rinascita, dal nero al bianco. Si determina un nuovo solve e

s'impone un nuovo coagula dell'Io, passando per la

distruzione, il caos, il nulla, fino all'essere nella sua essenza.

L'artista modella l'impasto cercando di trasformare e fermare

il tempo, per superarlo e tuttavia al culmine del processo

annulla lo spazio e scopre che ogni cosa è tempo. Passando

dalla dissoluzione alla resurrezione ogni cosa si redime dalla

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materialità, e la creta modellata perde e recupera l'ombra

rigenerandosi finalmente nell'arte e nella poesia. Mentre

dalla maturazione psichica che nella trasformazione

mitologica assume il nome di libertà, la materia si scopre con

un instabile e quasi violento equilibrio: concentrazione del

tempo nel non tempo, dove l'umanità si annulla nella

spazialità individuale e si fonde col tutto. Cambiare se stessi

per ricreare il mondo, per ek-sistere (e l'essere coincide

-ereignet- con il suo accadere storico) pietrificati nel tempo e

nella storia, scultori/scopritori della verità (La verità, come

illuminazione e nascondimento del'ente, accade in quanto

poetata. Heidegger). Perché il linguaggio artistico/poetico è

autonomo e indipendente dagli uomini e dalla loro storia e

l'artista è arteficie e artefatto, solo l'ente che

appropriandosi/espropriandosi della parola poetata si trova a

parlare e a creare come una necessità epocale per l'accadere

storico dell'essere.

Accade così che l'amalgama della terra attraverso i manufatti

della cultura manipolati nella fanghiglia mitologica

pre/formale e preintellettuale porti alla luce l'essere, e

nell'essere l'origine archetipica e trascendentale della vita

stessa.

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Sortino, Chiesa Madre

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Autoritratto

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LUCE SPAZIO VERITA'

Ancora una volta Gioacchino Bruno ha colto nel segno. Da

artista sensibile e interessato alle problematiche in primo

luogo tecniche della fotografia, legate alla visione e alla

percezione, mi ha chiesto un intervento teoretico in merito

alla luce e al suo significato, focalizzando il suo obiettivo

pratico su una questione di primaria importanza nella nostra

cultura e civiltà. Perché -e non si può davvero dargli torto-

anche la visione e la percezione hanno una storia e una

cultura, e la comprensione dei fenomeni che portano alla

formazione di un'immagine aiuta comunque alla maturazione

del linguaggio estetico. Certamente accresce la

consapevolezza tecnica e forgia in qualche modo il gusto. E

allora, come Gioacchino insegnerà con la consolidata

passione agli allievi a dare dignità estetica ad un oggetto

attraverso l'uso consapevole e ragionato della luce, così

proverò a chiarire agli iscritti di questo corso il senso dei

fenomeni visivi che andranno a interessarli. In relazione

naturalmente alla luce che dà loro un senso e un significato,

la ragione stessa di esistere. Una statura ontologica. La

nostra ottica, il nostro mondo percepito è, nondimeno delle

altre esperienze sensoriali, vittima dei pregiudizi di una

cultura secolare che da Platone in poi ha svalutato e svilito il

fenomeno e nel fenomeno la vita stessa. La comprensione di

tale primario ritaglio semantico della visione credo aiuti ad

una maggiore consapevolezza anche del mezzo strettamente

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tecnico fotografico. Il percepito (l'oggetto colto con lo

sguardo) non è kantianamente un'allucinazione mera ombra

della cosa in sé, apparenza condizionata da parte delle

intuizioni intellettuali che sole aprono al misterioso mondo

noumenico, ma è uno spazio di vita concreto vissuto e tonale

(stimmung) che nei chiaroscuri della visione apre alla non-

ascostità, all'essere e alla verità nella sua essenza. L'occhio

non inganna, è piuttosto il ponte verso l'essenza vera delle

cose, il reale nella sua manifestazione empirica. Una verità

non più concepita intellettualmente come un'idea, pallido

contenuto di pensiero, ma controllata dalla saggezza della

percezione. Propriamente la luce è ciò che rende possibile la

presenza di ogni cosa (la forma, i volumi, le espressioni, i

caratteri), la condizione di possibilità di tutto ciò che anela

all'essere; alle volte anche drammaticamente, perché quella

del portare alla luce può anche essere un'esperienza

terrificante come la folgorazione avvenuta sulla via di

Damasco, sempre comunque ambigua nella sua impalpabile

sfuggente contraddittorietà. Non è un ente o un'idea, la luce,

ma piuttosto una necessità cooriginaria all'essere (di un

oggetto) nel suo apparire, nell'apparenza capace di velarsi e

nascondersi, di essere e in qualche modo non essere. Come la

verità, che Heidegger non per niente traduce nelle sue

allucinazioni filologiche come s-velamento, chiaroscuro,

paradossale gioco di luce-ombra. Perché (ed è questa

un'esperienza banale comune a tutti) la luce è un abbaglio

che pur permettendo la visione non è a sua volta fruibile

dalla vista; lascia vedere ma a sua volta acceca e quasi

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disturba l'occhio. Proprio quel che accade per l'errore che è

parte della verità, e la deformità nondimeno costitutiva

dell'ordine e dell'armonia. E' (anche) in questo che consiste il

mestiere della fotografia: nel fermare l'inafferrabile, cogliere

nelle vibrazioni dei chiaroscuri della vita l'eterno stesso nella

sua impossibile assurda attualità. Sub specie aeternitates (in

quel in-der-welt-sein che nello scoperto illumina il ci

dell'esser-ci, direbbe Heidegger). Come la luce è ciò che

lascia essere nell'apertura dell'essere rendendo libero per la

verità l'esserci (l'uomo in quanto già da sempre gettato nella

sua dimensione storica), così l'esistenza stessa è di per sé uno

stare-fuori nella verità dell'essere, come ciò che

originariamente permette ad un'umanità di rapportarsi con la

totalità delle cose (L'essenza della verità, vista alla luce di

quella della verità, si mostra come un ek-sporsi all'ente nel

suo dis-velarsi. Heidegger). Naturalmente l'esistenza non è

luce o ombra; è piuttosto una specie di chiaroscuro (in cui

oscilla la primaria tensione libertà/verità) nel quale l'apertura

-la luce appunto- si configura come ciò che lascia-essere

l'ente, lo spazio ontologico nel quale ogni valore ed ogni

significato assumono un senso (una forma, un volume, un

carattere). Uno spazio però privo di fondamento e che dà

tuttavia uno scopo alle cose, una possibilità di esistenza, ai

significati di significarsi secondo quella comune dimensione

estetica e simbolica che è il contenuto della nostra storia e

della nostra cultura. Mentre l'uomo (l'esserci), il soggetto

percettivo, non è tanto l'ente privilegiato che entra in uno

strutturale rapporto con la totalità, ma là gettato nel mondo

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dall'essere in modo che possa ek-sistendo proteggere la

verità. In una dimensione appunto luminosa. Nella chiarìta

come possibilità di esistenza delle cose, condizione della

svelabilità del vero; custodendo la verità dell'essere a cui da

sempre appartiene. Con la possibilità reale, negli esercizi

della visione (primo tra tutti la tecnica fotografica) di

risignificare l'esistenza del mondo, risemantizzando gli

oggetti culturalizzati e incrostati nella sedimentazione dei

significati, per sottrarli alla dittatura del segno, alla nevrosi

semantica dell'Io. Ma anche col pericolo reale di esporsi alla

sua vendetta.

In quanto già-sempre-presenti interessati al mondo, immersi

nel trovarsi tonalizzato, in un'atmosfera familiare

pre/teoretica abbiamo una precisa percezione della

significatività globale prima ancora di comprendere i singoli

significati, mentre i singoli significati è solo collocandosi

nella dimensione preintellettuale di un ente capace di

significarli interpretandoli, che assumono una dignità

ontologica, un senso; nel trovarsi immerso in una dimensione

che trascende la storia individuale. E dunque la visione,

intesa come luogo della comprensione, è sempre

condizionata e predeterminata dalla familiarità di una

pre/comprensione che la precede orientandola, facendo

venire incontro quegli enti che sono propri dello specifico di

un interesse; condizionata da un ottica angolare, da un

ritaglio semantico. La visione vede unicamente degli aspetti

della realtà e ordina il veduto secondo una pro-spettiva che è

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la costruzione teoretica di un mondo. La prassi visiva non

vede il tutto, ha una vocazione alla selezione percettiva, e la

visione non è mai assoluta, ma sempre inserita in un contesto

vissuto e tonale. In un circolo vizioso nel quale il problema

non è uscire fuori dal circolo, ma starci dentro alla maniera

giusta: orientati, e-sposti pro-gettualmente, liberamente

collocati (l'essenza della verità come libertà intesa come

lasciar essere) nell'aperto di un non/senso o di un pre/senso,

che chiama all'evocazione e all'ascolto di una luce mitologica

che precede anticipandola, per poi finalmente chiuderla, la

storia dell'uomo. Dimensione estetica dell'apparire che salva

l'uomo dalla tentazione apostatica del dissolvimento nel

nulla: dove la vita è sottratta all'immobilità della morte e la

verità recupera la sua ombra, l'errore.

Per concludere: la luce è uno spazio che lascia venire

incontro (begegnen lassen) dalla radura (lichtung, chiarìta)

dell'essere gli enti; seppure chiaroscurata (lichtenden

bergens) in una circolarità scaduta la percezione fenomenica

tende però nella sua dilatazione preintellettuale a conciliare

soggetto e predicato, ad annullare la differenza ontologica tra

l'uomo e il dio (Hegel). La libertà si delinea come il

momento estetico più alto, nel quale si aprono le origini

teogoniche dell'umanità. Noi in quanto enti che avvertono il

peso dell'essere (pro-getto deietto) come possibilità di un

problema da progettare (Il nulla, innanzi a cui l'angoscia

porta, svela la nullità che definisce l'esserci, in quel

fondamento che esso è in quanto essere gettato nella morte.

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Heidegger) sfidiamo da sempre il destino, per ritornare alla

dimora preegoica del linguaggio, alla ricerca di quella terra

che custodisce il senso del mondo. Perennemente in attesa

della sua storica e materialistica aurora (L'uomo storico

viene preparato alla prossimità della verità dell'essere...

ogni specie di antropologia e di soggettività si trova qui

abbandonata... e viene ricercata la verità dell'essere come

fondamento di una nuova posizione storica. Heidegger).

Anche in un'istantanea fotografica echeggia allora la

possibilità di risignificare un'antropologia paralizzata dalla

sua storia metafisica; attraverso un uso sapiente della luce

che proietta la visione verso le cose stesse ed espone nel

chiarore di quella libertà che è in fondo l'essenza stessa

dell'assoluto. Operando creativamente per la messa in opera

della verità (La verità, come illuminazione e nascondimento

dell'ente, accade in quanto poetata. Heidegger) e comunque

memori sempre del fatto che l'artista è l'origine dell'opera,

l'opera è l'origine dell'artista.

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IL CORPO IN ANTROPONTOLOGIA

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SEMIOTICA ARCHEOANATOMICA

Ascoltate, fratelli, la voce del corpo. Esso parla del senso della terra. F. Nietzsche

Se gli antropologi hanno guardato con interesse ai modi del

sostentamento umano nei risvolti sociali ed economici

all'interno di una comunità, con un occhio pure attento alle

strumentazioni, per l'antropontologia il corpo segnato dal

significante del lavoro, piegato e trasformato dagli oggetti

culturizzati dalla funzione, modificato dagli utensili risulta

essere di primaria importanza nella ricognizione ontologica.

Nello specifico di questo studio che si articola nella vita del

siracusano, si cercherà di mettere in luce proprio le

corrispondenze tra i segni anatomici e quelli prodotti dall'uso

quotidiano degli oggetti. La Sicilia sud-orientale è emersa

dal Terziario; a sud dell'Etna, in particolare nei Monti Iblei

che culminano nel monte Lauro (m.955) sono affiorati

terreni di natura calcarea, com'è chiaro dalle numerose

caverne, grotte cave presenti nell'area. Appunta Gioacchino

Bruno che i primi uomini utilizzavano pietre,

preferibilmente dure come ossidiane e selci, scheggiate a

forma di raschiatoi, accette, coltelli, lancie e punte per le

frecce. Accanto a questa prima rudimentale attrezzatura, si

delineò anche la necessità di effettuare scambi di merci con

le tribù vicine, dato che non in tutte le località della Sicilia

orientale abbondavano quelle pietre. Nacquero allora i primi

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commerci facilitati dalla scoperta della ruota; regolati dagli

albori, cosa fondamentale, non dalla mediazione di un valore

simbolico come la moneta o l'oro, ma dallo scambio delle

materie prime in particolare. L'uomo preistorico, abitatore

inizialmente di caverne e grotte, tenderà successivamente a

scendere a valle verso la costa, seguendo il corso dei fiumi e

così disporre in ogni momento dell'acqua. Lungo le piane

costiere costruì capanne e frasche rinforzate poi con

palizzate; inalzò quindi in paludi e laghi palafitte. Il fuoco,

scoperto forse anche in seguito alle frequenti eruzioni

vulcaniche, facilitò la vita e riscaldò gli inverni. La vita di

relazione fu quindi arricchita dal linguaggio verbale e non

più gestuale, sempre più articolato e utile alle funzioni

diversificate dei bisogni della comunità. E' chiaro da questa

prima analisi la precarietà dell'uomo e gli sforzi compiuti per

vincere le asperità del quotidiano e in sostanza esorcizzare la

morte. Essendo ogni oggetto e lo spazio circostante un luogo

marchiato da una disperazione ontologica nella precarietà

del vivere, da manipolare per la sopravvivenza, si

eleborarono tecniche prima che per il sostentamento per la

coservazione del corpo in ogni circostanza. La vanga, la

zappa, la falce messoria (utile a mietere i cereali falciandoli

dalla terra), il falciolo, la falce fienaia, il rastrello, la forca o

tridente (che serviva a spandere, rivoltare e ammucchiare

l'erba falciata), il falciolo, la scure, la roncola, la sega. Il

corpo veniva svuotato dai significati imposti dai bisogni

primari, e prima ancora dagli attrezzi/utensili e dalla loro

specificazione produttiva. Ed era un corpo quindi

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strumentalizzato, surcodificato, ridotto all'essenza nel lavoro

come capitale sociale, portatore di un significato che

trascende la carne e appesantito dalla metafisica. Corpo

come macchina ri/poduttiva, sfiancato dalle maternità,

sformato, intossicato dall'idea, sepolto dall'ideologia; un

corpo irrigidito nei significati, corpo organico votato alla

riproduzione o alla fatica, carico dei segni della specie, e

dunque dell'essere nell'umano nella sua pensantezza, con

l'insostenibile presenza del dio assente.

Ascia; porta quagghiu, contenitore ligneo per la confezione della ricotta

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Scaldino in rame; bilanciere

Il corpo senza organi, sver/gognato dalla carne, è quello che

nelle mani produce comunque l'essere, come un teatro

ideologico, di/segnato dal significato di una colpa che non

ha, piegato dalla malattia, alienato, sconfitto dalla divinità,

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schiacciato dal peccato, ricettacolo di un'anima che non c'è,

di uno spirito che lo umilia e abbrutisce, che lo rende

schiavo. Un corpo con le catene, immolato sul legno di una

virtù che trascende e paralizza la vita, che la disprezza, che è

anatomizzato e svilito ad organo dalla scienza, ridotto a

simulacro da una croce che intossica nel sangue come un

veleno che scorre nelle vene; il corpo come merce, accumulo

di sudore, fatto da mani che impastano la vita come una

richiesta di salvezza, lingua che gusta, occhi che godono,

orecchie che ascoltano. Il corpo come ricettacolo,

anestetizzato, imprigionato, il corpo decentrato e mortificato,

sfiancato, decodificato, semantizzato, il corpo/funzione,

avulso dal piacere, ospedalizzato, patologizzato come

organismo da sanare, forza/lavoro da sfruttare, carne da

redimere, inconscio da liberare. Il corpo piegato da una

sacralità simbolica, santuario ideologico da ricodificare.

Abitando il mondo il corpo assorbe abitudini e forme, attrae

oggetti che si significano nelle mani, trascendendosi

nell'oggettività di pure cose per ricomporsi semanticamente

in oggetti uso-per, dove ogni gesto ha una precisa funzione e

assume un senso, e dunque il corpo come funzione nelle

dis/funzioni. Marchiato dalle malattie, che lo segnano come

una traccia indelebile nella carne, scolpito nell'infermità dalla

memoria e dal passato. Le società arcaiche iniziavano alla

vita sociale con la tortura, des/signando il corpo come

portatore dei segni della comunità, e dunque nelle

deformazioni con/segnavano l'uomo al gruppo. E questo

fluttuare del simbolo nei corpi produceva comunque una

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circolazione di senso, divenendo il mondo e non più il corpo

atomizzato in un altare ideologico il significante

determinante dell'essere nell'umano. Quando Gioacchino

Bruno ad esempio a proposito delle suppellettili, scrive che

erano modeste, che mancavano armadi e rare erano le sedie,

dilungandosi poi in un dettagliato inventario degli oggetti del

passato (il letto era posto su due cavalletti e alcune tavole; la

pentola più comune era in terracotta e poggiava sul fuoco,

alzata da una catena; piatti, scodelle, caraffe, contenitori per

l'acqua e il vino, bicchieri, bottiglie e cucchiai erano in legno

o terracotta, raramente in vetro; per l'illuminazione si

adoperavano lumini ad olio, mentre le candele in cera erano

un lusso; rari erano gli attrezzi in ferro), mette in evidenza il

corpo, in quanto essere in un mondo che lo circonda

significandosi negli esercizi della sua anatomia animale,

come trascendenza di significati, sblocco e uso delle cose. E

dunque il corpo primitivo pre/industriale si manifestava

come fuori di sé, nell'apertura o relazione tra l'Io e il mondo,

ottenuta non da una comunanza intellettuale ma con l'uso

delle mani, nella presa che rende l'oggetto accessibile

all'ispezione, significandolo e significandosi, e dunque la

cosa, l'oggetto/utensile come già carica di significati

antropologici. Nell'afferrare un oggetto l'uomo cercava e

cerca ancora una possibilità di salvezza o redenzione, la

vittoria sulla morte, manipolandolo per riempire lo iato

angoscioso che separa l'Io e il mondo. Le mani afferrano,

analizzano, compongono e scompongono con una sequenza

di gesti che abituano non solo alla cosa/oggetto ma al mondo

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stesso; e così nascono abitudini che fanno riconoscere le cose

come enti per l'esserci e creano autocoscienza, indicando al

corpo i limiti ma anche le possibilità dell'Io. Perché il senso

delle mani non sta nello scheletro o nei muscoli, nei tendini o

nei neuroni, ma negli oggetti che può afferrare, e le cose

prima che nello spazio e nel tempo si dispongono secondo

l'orientamento dato dal corpo nei suoi esercizi produttivi.

L'abitudine è un sapere che nasce ed è già nelle mani nel

prendersi cura delle cose, come uno spazio culturale

orientato e caricato di sedimentazioni simboliche. Secondo

un'apertura mitologica, ordinatrice delle cose e custude di un

senso, dato da un campo in cui il corpo può muoversi

pre/sente con una progettualità finalizzata in ultima analisi

alla conservazione della vita, pur nelle aberrazioni

ipercodificanti dell'ideologia (Gli strumenti, già all'epoca

paleolitica, possono essere considerati come concetti di

pietra, essi collegavano i bisogni e i pensieri degli uomini a

livello di realtà delle cose. A. Gehlen, Le origini dell'uomo e

la tarda cultura, 1975).

Pentola in rame, XIX sec.

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Rubinetto in rame; quarara, caldaia per la lavorazione della ricotta

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Botte; chiave di carro intagliata

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E questo essere parte di un sistema simbolico che coinvolge

l'anatomia umana modificandola, si vede bene dalle analisi di

Gioacchino Bruno che dedica all'aratro e all'aratura, nella più

estrema forse delle esperienze del corpo sfiancato dal lavoro,

che è il peso del giogo (diviso a seconda dellla specie

animale in giogo da corna, fissato dietro le corna con una

cinghia in cuoio lunga 3-4 metri e larga 1,5-2 centimetri, o da

nuca). Dopo una circospezione del terreno/campo che

divideva la terra in lèggia (non troppo fertile), pisanti (dura

da lavorare), ranni, il lavoro di aratura iniziava con la

rumpitina (si rompevano i timpuna di terra), e generalmente

si arava a ventaglio da destra verso sinistra trasversalmente,

mentre si seminava in senso inverso. Si arava con l'aratro a

du', che era fatto in legno con vomere in ferro, trainato da

due bestie. Gli animali erano tenuti insieme dallo iochu,

giogo, asta in legno lunga 1,5 metri. L'attrezzo veniva

appoggiato ai panneddi (cuscinetti allungati in cuoio o

olona), riempiti di paglia e cuciti intorno ai maniuna, pezzi di

legno piegati ad arco. Per legare direttamente il giogo

all'animale si usavano i paiari (cinghie che partivano dalle

estremità dei paneddi, passavano sotto il collo) che si

collegavano al centro del giogo, dove c'era un anello in ferro

o legno duro (cuddaru) che serviva per trattenere la pèrcia,

l'asta dell'aratro lunga 4 metri circa. Nella parte superiore

della pèrcia c'erano dei buchi in cui andava infilato chiodo

che, insieme alla tavuletta e al cugnu, serviva a regolare

l'angolatura dell'aratro. A seconda dell'angolatura, un aratro

poteva essere puntìu o chianu, appuntito o piano. La punta

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inferiore della pèrcia era intagliata in modo da incastrarsi in

una fessura a metà circa dell'aratro, costituita dalla

vòmmaria, il vomere, la parte metallica appuntita destinata a

smuovere le zolle. Questa era la parte più importante

dell'attrezzo. Per guidare i muli, e più raramente i buoi, il

contadino si serviva di due corde che terminavano al capistru

dell'animale da tiro, ed erano collegate alla manuzza (manico

o impugnatura dell'aratro). Per la pulizia dell'aratro si

utilizzava il varbùscia, un bastone in legno con paletta in

ferro ad un'estremità e un pezzo di corda all'altra, che serviva

anche per spronare gli animali. Un tipo di aratro più recente è

quello a sulu, più leggero e maneggevole, costruito quasi

esclusivamente in ferro e tenuto insieme da saldature e

bulloni. Per condurlo bastava un solo animale collegato a un

bilanciere, tramite un gancio al centro incastrato in un anello

posto nella parte anteriore dell'aratro.

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Già da questa ricognizione fenomenologica si vede come

l'essere nell'umano si dilati in un campo che circonda il

corpo e che il corpo può utilizzare come una sua funzione,

come un organo sog/giogato. In tale spazio esistenziale le

cose non sono più semplici cose, ma cose/utensili, oggetti

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d'uso per i bisogni del corpo, senso dei rimandi che

collegano culturalmente gli oggetti. Avvicinandoli come ciò

che è allamano (zu hand), e trascendendosi come ordine di

senso delle cose, la coscienza si forma proprio maneggiando

gli oggetti che si offrono alla manualità, a cui si applica

l'intenzionalità del bisogno. La mano esplora il mondo, nutre

il corpo, lo accarezza e nella possibilità dell'afferrare le cose

dà modo di svilupparsi alle attività cerebrali superiori. Il

gesto mosso dalla mano è un segno significante, progetto,

etica; è il veicolo delle intenzioni che tendono a ordinare le

cose, a creare una relazione col mondo. Il mondo/ambiente è

allora proprio una rete di significati già costituiti, retaggio di

altri che prima di noi lo hanno abitato lasciando tracce del

loro essere vissuti. Venire al mondo significa venire in un

certo mondo già popolato di significati; e noi siamo liberi in

quanto donatori di senso, da cui deriva che l'attribuizione di

un significato non è un'operazione puramente intellettuale

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ma dipende prima di tutto dal corpo nel suo essere nel

mondo intenzionalmente, progettualmente, con una finalità

pratica.

Coltello/forchetta; trapano a mano, XIX sec.

Il mondo è il luogo in cui afferriamo gli oggetti per la nostra

salvezza, è uno spazio vivo ma sovrastrutturato da una

metafisica delle idee, marchiato da una disperazione antica

che cerca nell'elaborazione di tecniche sempre più raffinate

di sfuggire alla morte (magari pure alzando al cielo il Totem

del capitale come segno della benevolenza divina). Uno

spazio allora dominato prima che dalle idee dal desiderio,

dalla sessualità che è in fondo una visione e un modo di stare

nel mondo; dalla carne che ha il potere di trasformare le idee

in cose. Il corpo portatore di una memoria, come superficie

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di scrittura che assorbe le leggi della comunità tatuandolo

(cicatrici, deformità, vaccinazioni, battesimi). Incarnando un

significato dispotico che annulla l'ambivalenza, la sua

disponibilità ad altre aperture di senso, il corpo non dice più

nulla di sé, ma del significante che l'ha di/segnato (e infatti il

potere si mantiene fino a quando si fanno funzionare i corpi

secondo un regime di segni, come nel segno della croce).

Compito del significante

Rasula, raschiatoio per la zappa; cucchiaio in legno

tiranno è quello di svuotare di senso tutti gli altri segni del

corpo (se il corpo è una scena di questo significante, o/sceno

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è ciò che scopre le tracce rimosse dalla nostra storia

simbolica). E così nel segno che annulla l'ambivalenza

simbolica la riproduzione sessuale diventa riproduzione

sociale, il corpo femminile valore di scambio, in quanto

corpo/merce dispensatore di piacere garantisce la

circolazione dei beni e le relazioni sociali, mentre la

differenza sessuale trascende il significato biologico e

diventa esercizio per il potere. Il corpo soddisfa i suoi

bisogni nell'uso delle cose, e negli oggetti non c'è alcuna

metafisica ma una trascendenza di significati che

sedimentano in quello principale preminente del lavoro (A

prima vista una merce sembra una cosa triviale, ovvia.

Dalla sua analisi risulta invece che è una cosa

imbrigliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e di

capricci teologici. Marx). Il feticismo della merce nasce

proprio col valore di scambio, ossia con l'ingresso della

merce nel mercato, dove i rapporti sociali si mascherano

sotto forma di qualità e si deteriorano nell'egoismo del

possesso.

Coltellino per l'incisione del legno

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Arcolaio, scorcio; macchina per affilare i coltelli

Aratro

semiotica fenomenologica di un significante

Il corpo porta i segni della rappresentazione sociale, come un

marchio nel quale si contraggono abitudini e la grammatica

del lavoro quale timbro da codificare in tutti gli esercizi della

vita umana. Esiste una mistica del quotidiano, soprattutto

nell'essere il corpo una funzione per la produzione (Il corpo

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è un carniere di segni, il segno è un corpo disincarnato. J.

Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, 1976), che

vuol dire mani che hanno cura della terra e dei suoi frutti,

che hanno assorbito a livello cultuale il significante

Collare bovino intagliato con scene rituali antropomorfe

determinante della fatica. Mani che pregano, che si

detergono la fronte, mani che nutrono e a/mano, che

proteggono, ma sempre comunque dolenti e stanche. Le mani

afferrano le cose e in esse la vita come a fare una domanda,

immerse nel mondo, in un mondo che non solo circonda

l'uomo ma si partecipa della vita stessa; raccolgono la terra,

il chi (dell'esserci, senza volto o risposta), dove la vita si

dissolve come in granelli che scivolano dalle dita e la

domanda rimane sospesa nel nulla, nel silenzio. E allora le

mani afferrano oggetti e nell'afferrare vanno al di là del

segno surcodificato nelle cose allamano/sottomano,

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interpretano come un richiamo e un'esortazione a uscire dalle

catene dei significati già codificati. Perché è la vita a

chiamare, ad ordinare il vissuto, a orientare, a dare una

Disegno in sezione di un collare incampanato ovino

speranza di salvezza e redenzione. E la salvezza non la trovi

nelle idee o nella fede, ma nelle mani che cercano scavando

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nella terra, nella prassi e nella totalità dell'esistenza, come un

occhio che raccoglie il tessuto di relazione tra gli oggetti, il

contesto dei rimandi in cui vive il senso autentico delle cose

e dunque dell'uomo. E questo senso del sacro lo avverti nella

domanda, nel chi, nel nulla (il problema dell'essere posto

nell'esserci come interrogativo), nelle dita che afferrano gli

oggetti ipercodificandoli a loro volta, com/prendono il

mistero che è nelle cose, uccidono il significante e gli

mettono un nome sulla tomba. Gesti quotidiani ripetitivi,

dovuti più alla natura dell'attrezzo che all'anatomia del corpo,

gesti simbolici che delimitano il confine dei significanti, che

tolgono l'ambivalenza e delimitano un confine, stabiliscono

un dominio di trascendenza dell'oggetto, facendone valore e

visione del mondo. Mani che parlano della vita, che magari

si alzano disperate al cielo, ma che ogni giorno portano le

cicatrici della fatica, che implorano il dio assente della

salvezza mentre sepelliscono gli affetti. Mani che conoscono

la morte, ma che in qualche modo vincono sull'ineluttabilità

della fine; così che quando la fatica ti spezza la schiena e il

sudore scorre copioso sulla fronte capisci che il tuo posto è la

terra, e allora la rispetti perché è là che riposa la tua verità

Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete

a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze (F.

Nietzsche).

L'aratro è stato lo strumento principale per ridurre la fatica

nei campi e dunque la condanna nell'esistenza, come un

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insieme di tecniche e un raccoglitore di significati che si

muove nel mondo, afferrato dalle mani, segnate dai calli che

le ripercorrono come una grammatica dell'esserci, il ci

dell'uomo, quello in cui sedimenta una coscienza e dove una

coscienza prima che tecnica diventa linguaggio ed

espressione (Cassirer). Come una finalità sulle cose inserita

nel bisogno della conservazione, costituendo relazioni

culturali (mani, terra, erba, frutti, animali,

cielo/terra/mortali/divini), dove si toglie il di più dal suolo, si

scava, si semina la comprensione e si raccoglie l'essere come

un progetto in cui l'esserci trasforma il corpo, lo nutre, lo

mantiene in vita e delle volte lo ammala e lo uccide. L'aratro

lo si controlla stando dietro (scrive Gioacchino Bruno nella

sua analisi fenomenologica dell'attrezzo). Ve ne sono di due

tipi; il più antico, che si può considerare come un'evoluzione

della zappa, era l'aratro a chiodo (derivato dall'Oriente del IV

millennio). Quello più tardo, più pesante, fornito di un

vomere modellato per rivoltare il solco, compare dal I sec. ed

era più adatto per i suoli di alto spessore. Interessante era

l'uso dello strumento in relazione al corpo, nelle

modificazione che la struttura anatomica veniva ad assumere.

Nel processo di produzione del frumento le prime fasi della

lavorazione della terra restavano affidate alla forza degli

animali da tiro, buoi o muli, aggiocati all'aratro di legno. I

bovini erano preferibilmente impiegati sui terreni pesanti o

incolti (gerbi), in quanto col loro passo lento e poderoso e la

loro struttura robusta permettevano di vangare e sollevare

(ammassari) una maggiore quantità di zolle. Gli animali si

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legavano al giogo (iocu) per mezzo di due strisce intessute di

cordicella ricavata dall'intreccio della foglia di palma nana.

Queste giunture che si facevano passare sotto il collo dei

buoi erano dettere paiuli. L'aratro ibleo, era a chiodo (aratru a

chiovu), trainato da una coppia di buoi (paricchia), ed aveva

una struttura interamente in legno composta dal giogo, la

bure e il ceppo a cui era attaccato il vomere di ferro. Al

centro dell'asta del giogo (che assolveva la duplice funzione

di congiungere gli animali da tiro tra loro con il timone; e

dunque il giogo era il punto di integrazione con l'animale ed

era posto alla base delle due naturali gibbosità delle bestie),

in un'apposita scanalatura, si applicava una correggia in

cuoio (cunseri) che tratteneva un anello in ferro di forma

ellittica (maniuni o mariuni), all'interno della quale si

introduceva un'estremità della pertica fermata da una

chiavarda (chiavigghia o chiavi). La bure (pertica) era una

stanga sottile e lunga più di tre metri che collegava il ceppo

al giogo. La base dell'aratro era composta dalla stegola

(manuzza) che fungeva da impugnatura e permetteva la

manovra da parte del contadino, e dal dentale (puntale o

dintali) alla cui estremità si inseriva il vomere (ommara) in

ferro con la punta in acciaio, a forma semiconica. Il giogo

(nei suoi sistemi alternativi di fissaggio del giogo sul collo

degli animali), prevedeva il ricorso al varruneddu e al

sidduni. Ai fini di un'aratura ottimale era determinante

l'esatta misurazione dell'angolo che si veniva a formare tra la

pertica e il dentale. Bisognava tenere sempre l'aratru

aggarbatu e mai a puntuni, per evitare che gli animali

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facessero troppa fatica nella trazione. La tinnigghia, un'asse

di ferro ricurva talvolta appiattita, traforata o filettata

introdotta nel ceppo fungeva da profime, ovvero da

regolatore della profondità del vomere. Alla tinnigghia si

assicurava la bure tramite un cardiddu. L'estremità inferiore

curidda della pertica si incastrava nella cavità aperta del

gomito del dentale, saldata da un cuneo in legno, il cugnu.

Questo piccolo artificio si rivelava un fondamentale

elemento mobile a garanzia della stabilità e dell'equilibrio di

tutta la struttura. Nei casi in cui ad esempio il vomere non

solcasse sufficientemente la terra, l'aratore poteva sistemare

u cugnu (posto sotto la cudidda della pertica) ristabilendo la

corretta distribuzione dei pesi e della forza. Due redini erano

collegate alla manuzza e servivano a orientare la direzione

attraverso la cavezza (capistru) o la nasiera (naseri), che

erano una sorta di freno. L'uso di questo tipo di aratro a due

animali venne meno con l'avvento dell'aratro a forbice a

scocca, per il quale bastava un solo mulo. Intorno agli anni

trenta fecero la prima comparsa gli aratri in ferro, disegnati

secondo la forma del vecchio strumento, saldati per lo più in

un unico pezzo.

Evoluzione dell'aratro

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Da questa grammatica dell'aratro è evidente come le mani, il

corpo, l'anatomia del contadino partecipino dell'attrezzo

modificandolo e a sua volta modificandosi

antropologicamente. Il corpo umano è centrale in tutto il

contesto strumento/terra/sostentamento, e pone all'evidenza il

mondo come un contesto di rimandi costituito dagli

oggetti/enti come uso-per, come aver-da-essere, un'esistenza

articolata nella polarità in-grazia-di (umwillen: il corpo e il

suo sostentamento come finalità, causa efficiente) e in-vista-

di (woraufhin: in quanto orizzonte, finalità del produrre,

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l'orizzonte/raccolto in cui riorganizzare l'insieme dei rimandi,

il tessuto culturale). E dunque l'esserci, l'uomo, come in-

grazia-di-cui, intenzionalità che di causa in causa, utensile

dopo utensile rimanda come in un circolo alla vita umana,

alla conservazione e alla salvezza. Le cose, gli utensili tutti,

sono inseriti in un'opportunità (bewandtnis), che è la

generale corrispondenza di tutte le cose, un organizzarsi

degli oggetti in un fine che tutti li raccoglie. L'in-essere

appunto, nel trovarsi familiare (vertrauen) non circondati ma

significati dalle cose, abitati, abituati fino a prendere

abitudini, ritmi e sistemi di vita, a innalzare Totem e farsi

portatori di codici simbolici. E/sistere vuol dire esserci

(Dasein) in una relazione di senso, nella vita nei suoi esercizi

quotidiani; nel corpo segnato dalla stanchezza dell'essere in

un mondo, dove in indica il fatto che il soggetto non esiste se

non in relazione ad un altro, ed è tale relazione a generare gli

oggetti e l'oggetto è l'effetto della relazione.

Finimenti in cuoio e ferro per il giogo equino

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Anima della cavagna (contenitore per la ricotta); ferro a carbone

Il mondo è un contesto di rimandi, l'opportunità quale

tessuto della relazione chiarisce che tali rimandi sono

orientati sulla base della struttura dell'esserci, dell'esserci in

quanto chi, in-grazia-di-cui. La relazione col mondo si

delinea allora propriamente come una grammatica degli

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utensili, una rete allamano, che vuol dire l'utilizzabilità, la

maneggiabilità delle cose (una cosa è in relazione ad un'altra

in quanto -als- rinvia ad altro per segno, morfologia o

significato); perché l'esserci è nel mondo per fare qual/cosa,

vivere, produrre, sostentarsi, amare. Questo qualcosa di

antropoietico è ed era il lavoro che forma e redime, dà un

orizzonte di senso e una possibilità, un orientamento totale

che va dalla luce del mattino al tramonto del sole, appunto

nei chiaroscuri (lichtenden bergens) di un giornata fatta di

rimandi e sensi/non sensi e in cui cresciamo e

com/prendiamo, ci troviamo (befindlichkeit) a vivere. E il

lavoro, in quanto significante surcodificante e il corpo

stremato dalla fatica come santuario ideologico raccolgono il

di-verso nell'uni-verso (U. Galimberti), assorbono i corpi e li

modificano nell'anatomia e nella fisiologia, fagocitano i

simboli e li decodificano come una loro funzione, ingoiano

parole e le trasformano in un linguaggio tecnico. Attraverso

la mano (hand) che afferra la vita quasi con sacralità e con la

cieca speranza non di una redenzione, ma di raccogliere nella

terra seminandoli i frutti dell'assoluto, dell'essere.

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La salvezza è data certamente dal lavoro, ma non in quanto

accumulo di capitale finalizzato a confermare l'uomo come

parte di un processo divino (L'etica protestante e lo spirito

del capitalismo. M. Weber), piuttosto come fluttuazione del

corpo quale produttore di valori e degli accumuli di

eccedenze nella comunità; quasi una mistica economica che

portava -ad esempio nella Sortino Medievale- a vivere per lo

più di scambi e nei tempi più antichi addirittura nella

distruzione della parte maledetta della merce prodotta.

L'eccedenza (il potlàc di cui parla Mauss e la dépense di

Bataille), l'accumulo di beni non più scambiabili e utili solo

ad arricchire il singolo, creando squilibri all'interno della

comunità e la formazione del potere. Il potlàc era infatti la

distruzione artificiosa della ricchezza e in essa dell'autorità,

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un sacri/ficio, un fare il sacro e la sacralità consisteva nella

distribuzione (dell'essere nelle cose) in eguale misura, dando

modo al simbolo e all'essere di vivere l'ambivalenza e di

fluttuare liberamente nel gruppo sociale, senza la

ipercodificazione del corpo come funzione per la produzione

e la trascendenza simbolica delle cose nel loro valore di

scambio (ad esempio l'oro). Mauss nel Saggio sul dono.

Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche,

racconta che per i primitivi le merci non erano cose, ma fatti

sociali, e dunque tendevano a far passare il simbolo della

prosperità nella comunità.

Affumicatore per l'allevamento delle api

L'epoca moderna, attribuendo un valore ideologico alla

merce prodotta, una trascendenza, ha fatto in modo che i beni

della terra e della fatica fossero invece scambiati per il loro

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valore cultuale (significato dal simbolo sovrastrutturante e

religioso del denaro o dell'oro), interdicendo lo spreco e la

distruzione della parte maledetta; ha risolto cioè

l'ambi/valenza primitiva nell'equi/valenza che annulla le

differenze (U. Galimberti), in quanto portatore di un

significante autoritatrio e dispotico che annulla i flussi dei

significanti trascendendo le cose. Marx sarebbe stato molto

chiaro su questo punto: Una merce si trova in forma

generale di equivalente in quanto viene esclusa da tutte le

altre merci. E' solo nel momento in cui questa esclusione si

limita ad un genere specifico di merci, la forma unitaria

relativa di valore del mondo delle merci ha raggiunto la sua

consistenza oggettiva e validità generalmente sociale.

Carretto siciliano e particolare di un laterale

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Platone, e tutta la mistica economica da lui derivata, col tò

agathòn (ciò che rende buona una cosa e la fa essere o non

essere) ha mosso ad una metafisica della merce cercando

nella trascendenza il valore e il senso delle cose. E' proprio

nell'oro che Marx ha rinvenuto tale trascendenza, che chiama

equivalente generale, il totem di un'identificazione sociale,

appunto una pre/valenza. Nel grano (significante/sinonimo di

denaro che allude ad una scambiabilità in moneta del cereale,

e in essa ad una condivisione di un simbolo comune) e

dunque nella cerealicoltura estensiva (già dall'età spagnola e

borbonica), che la Sicilia ha fornito a buona parte della

Penisola, dalla semplice produzione finalizzata allo scambio

al mercato la degenerazione nel simbolo dispotico è evidente

in tutta la storia della comunità isolana, con la de/formazione

dei borghi rurali concentrati in mulini e macine, in

cittadine/città di commercio.

Mensole, casci ri fusu e chiavi di carro

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Queste dinamiche sociali tese ad un'equità nel gruppo di

appartenenza sono ben visibili anche nella storia sortinese,

ripercorrendo la quale come ha fatto Gioacchino Bruno, è

venuto alla luce che il quartiere nobile della Diruta (Curditta)

era praticamente isolato come una fortezza dal resto della

cittadina, e che il simbolo di comunione tra ricco e povero

era il senso del religioso (si incontravano solo in occasione

delle ricorrenze cristiane), a cui però il povero non si sentiva

vincolato, nonostante la legislazione tendente a conservare la

subordinazione sociale, ad immolarsi fino all'estremo. E

infatti sottolinea Gioacchino Bruno che In tali ricorrenze il

nobile concedeva l'elemosina e il povero la riceveva. La

religione (possiamo affermare) poneva il ricco e il povero

sullo stesso piano, ma nel contempo li diversificava

rafforzando quel divario sociale esistente tra le due classi. Il

contadino non aveva col signore altri rapporti diretti; infatti

chi amminastrava il suo patrimonio erano i notai, che

registravano i donativi dovuti dal contadino al proprietario.

Tale attività veniva esplicata all'interno del paese nella

cosiddetta "Casa comunale", una costruzione fatta edificare

dal Gaetani nel 1749 dove erano custoditi i registi notarili.

Nel 1646 la Sicilia fu investita da una inesorabile carestia...

A tale castigo divino Sortino non poté sottrarsi e i cittadini

dopo un anno di stenti, spinti dalla fame, si ribellarono al

marchese, e nel 1647 incendiarono la Casa comunale con

ciò che conteneva. L'economia del paese era basata

sull'arboricoltura (vite e ulivo), la pastorizia per la

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produzione di latticini, il miele, e l'artigianato con una

compenetrazione straordinaria tra arti e mestieri in

particolare in occasione della costruzione delle chiese. Nel

museo di Nunzio Bruno sono conservati e valorizzati gli

strumenti di lavoro dell'epoca. Per lo più oggetti manuali, in

cui si avverte ancora la fatica della presa, la stanchezza della

manipolazione.

Molletta per carbone; piatta per la raccolta dell'olio (la forma dell'oggetto deriva più che

dall'anatomia umana dalla funzione di travaso a cui era preposto)

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Frammenti dell'essere, questi attrezzi d'uso, che sono come

segni di una scrittura primitiva, scambiati per fare circolare

un senso che li trascende, strumenti di un equivalente

generale che di volta in volta assegna ai loro nomi un valore.

E il valore consisteva nel sedimetare nel significato sociale

del lavoro e della ricchezza prodotta, la relazione dello

scambio. L'oggetto prima di essere un mezzo di sussistenza

aveva un significato dinamico sociale che garantiva nell'uso

la sopravvivenza della comunità (La struttura del villaggio

non fa che confermare il gioco raffinato delle istituzioni,

esso rappresenta e assicura il mantenimento dei rapporti tra

gli uomini e l'universo, tra la società e il mondo

soprannaturale, tra i vivi e i morti. Lévi-Strauss). Proprio

l'opposto di quanto è avvenuto nella modernità in cui il

surcodificante è diventato autoritario/preminente all'interno

del codice: i bisogni primari sono risolti in un'etica alta che

umilia però la vita, in una trama di simboli e parole che

hanno alienato l'uomo da se stesso, espropriato della terra,

ridotto ai margini della produzione economica, umiliato da

un dio che si fa sentire con una voce crudele

I missionari impararono che il mezzo più sicuro per ottenere

le conversioni consisteva nel fare abbandonare ai Bororo il

proprio villaggio per un altro in cui le case fossero disposte

in linee parallele. Disorientati, senza potersi più riferire ai

punti cardinali, privati del piano che costituisce una prova

del loro sapere, gli idigeni persero rapidamente il senso

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delle loro tradizioni, come se il loro sistema sociale e

religioso fosse troppo complesso per potere fare a meno

dello schema reso manifesto dalla disposizione del villaggio

e continuamente evocato attraverso i loro gesti quotidiani

(Lévi-Strauss).

Macchinetta per tappare le bottiglie, epoca XX sec.; tosa equini meccanica del XX sec.,

ultima esposizione del museo

Il passaggio dall'essere al dio ha comportato proprio questa

degradazione dei simboli e in essi delle elementari strutture

delle società, dall'ambivalenza fluttuante del simbolo

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(symbàllein), nel dia-bàllein di un significato supremo che

impone come reali i segni del suo codice, sopprime ogni

forma di reversibilità simbolica e trasforma in Diavolo

l'alterità (e la felicità, l'eudaimonia, nel daimonion, il

demoniaco), ogni tensione che il Logos non riesce a

comprendere e redimere. Una deformità conforme alla

metafisica dei costumi (e poi del diritto e delle leggi), che fa

della carne e della sessualità il veicolo di un sistema di segni

prepotente che trascende la verità biologica del corpo e lo

trasforma in un gioco di potere. Servendosi del corpo

sfiancato dalla fatica, umiliato come santuario ideologico e

fonte dell'alienazione e funzione dell'autorità; passaggio

storico/culturale e antropologico che Marx conosceva bene

La fame è fame, ma la fame che si soddisfa con la carne

cotta o mangiata col coltello e forchetta è una fame diversa

da quella che divora carne cruda aiutandosi con le mani,

unghie, denti. La produzione non produce perciò solo

l'oggetto del consumo, ma anche il modo del consumo, essa

produce non solo oggettivamente ma anche soggettivamente.

La produzione crea quindi il consumatore, perché non

fornisce solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno

al materiale.

Dima, sagoma per intagliare la chiave di carro

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Braciere completo

Contenitore di sostanze chimiche per la disinfestazione di alberi da frutto

Ruota di un carretto

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Dall'essere al dio

degenerazione antropontologica nel diritto e nelle leggi

Il passaggio dall'essere a dio ha naturalmente prodotto una

degradazione dei simboli originari nelle forme di culto

popolare, e questo è visibile anche nella storia del territorio

della Diruta e della sua devotissima gente e nelle leggi e

norme che ne regolavano la vita. Gli stralci di banni et

ordinationi, estratti dal Libro rosso di Sortino di Lidia

Messina riproposti in queste pagine rendono bene l'idea di

come il passaggio ontologico dell'essere in un significante

dispotico surcodificante abbia certamente dato un collante e

una identità alla vita comunitaria, nello specificare il diritto

come derivato essenzialmente e giustificato in quello

biblico/canonico, ma anche contribuito allo svilimento

dell'uomo comune e dei suoi diritti basilari nei confronti del

baronato feudatario, come è ad esempio avvenuto nel

periodo di governo della famiglia Gaetani (1477-1796).

Per quelli che biastemano il nome di Dio

Primo perché appartiene al buon governo primariamente

osservare a far osservare lo culto divino e la religione

cristiana per lo presente banno si provede, ordina e

comanda da detto signore di detta terra di Sortino che non

sia persona alcuna di qualsivoglia stato, sesso, grado e

condizione... che presuma biastimare il nome di Dio, della

Beata Vergine Maria e i suoi Santi, ne fare lo diavolo Santo

nello cospetto d'uno o più officiali o in chiesa o nella piazza

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e nei luoghi pubblici sotto pena nelle Prammatiche sopra ciò

fatte, oltre di onze 4 applicate all'erario fiscale di detta

terra.

Che non si venda vino a minuto senza licenza del gabellotto

Item che non sia persona alcuna cittadina ne forastiera...

che presuma in detta terra vendere vino a minuto senza

licenza del gabellotto del vino o da detto signore.

Che non si passeggi di notte

Item che nessuna persona di qualsivoglia stato, grado e

condizione così citatina come forastiera tanto privilegiata

quanto non privilegiata presuma né vogli andare a tempo di

notte passiando per detta terra né stari a cantonera né ad

altri parti di detta terra con lo sappularo miso con la facci

immarrata o stravestito, come sole andare lo iorno sotto la

pena di remigare due anni sopra le regie galere e questo

s'intende dalle due ore di notte fino che sono lo pater nostro.

Dopo l'Ave Maria non stiano nelli molini donne

Sotto la pena di onze 4 applicate all'erario fiscale di detta

terra per ogni controventore.

Per l'ingarzati

Banno... con lo quale si ordina, provede e comanda che

nessuna persona... ne deggia stare ingarzato con donne in

qualsivoglia maniera, pretesto e colore sotto la pena di onze

10 per ogni controventore... e le donne sotto la pena della

frusta e non ostante che non siano presi infraganti, ma basta

che si provi detta controvenzione con testimoni.

Quelli che sono prosecuti de' furto non possono andare di

notte

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Sotto la pena di onze 4 per ogni controventore.

Che non si possono assettare ne stare all'infrascritti lochi

prohibiti

Nessuna persona... si possa trattenere et assettare nelle vie e

lochi infrascritti taliando e tentando donne... sotto la pena di

onze 4.

Che non si possa vendere carne ne bestiame senza licenza

del gabellotto

Di non potere chiudere terreno

Banno per li luoghi chiusi

Perché la temerarietà delle persone è arrivata a segno tale

che nessuno può custodirsi quello che è suo per causa che

molti indiscrizionati poco timorosi di Dio della giustizia

entrano e vanno discorrendo nelli luoghi chiusi e patronati

con rubbare di più.

Banno per li bestimatori

Banno che non si possa portare cortelli meno di un palmo

Che non si possa sparare ai porci

Perché... la poca descrizione delli genti che tengono porci in

questa terra è arrivata a segno tale che le genti non sono

padroni del suo, in maniera che s'ha ormai perduto l'orticelli

ed altri che tengono innanzi le loro case per loro deporto...

s'ordina... che nessuna persona... presuma sparare a porci

nelli loro orti.

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INTERVISTA

dis/correndo con Gioacchino Bruno

Allora Giacchino è venuto il momento di farti delle

domande. Ho portato con me uno di quei vinelli di casa che

avvicinano all'essere e rendono piacevole il mio soggiorno in

Sicilia; mentre lo sorseggiamo voglio chiederti alcune cose.

Che cos'è l'antropologia?

L'antropologia è la scienza che studia le tracce dell'uomo; tali

tracce sono le materie prime essenziali e di facile reperibilità,

come il legno e la pietra che sono quelle più comuni, mentre

il ferro e la terracotta risultano più recenti e eleborate. Sono

questi gli elementi basilari che fusi a volte insieme fanno

l'essenziale per il quotidiano; proprio nei manufatti elaborati

come utensili c'è l'uomo e la sua storia, ed è possibile estrarre

la vita vera. Una volta la casa con tutte le supellettili te la

costruivi in proprio e negli attrezzi si assorbiva non solo la

tecnica e gli usi di quella specifica comunità, ma la storia

stessa di una persona e della sua famiglia. Tali oggetti

venivano ereditati per generazioni, perché non si conosceva

il consumo e c'era solo l'essenziale. Non si può descrivere a

parole cosa significhi maneggiare quei manufatti,

ripercorrere con le mani le emozioni suscitate da

quell'artigianato.

Trovi appropriata la definizione di antropontologia che ho

dato del tuo lavoro?

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Bhe sì, anche se lo sai che non amo speculazioni

eccessivamente intellettuali. Se però intendi con questo

neologismo nella ricognizione dell'oggetto la ricerca della

verità sono d'accordo. Una volta gli attrezzi te li costruivi

con le mani, e ciò che rimane sono tracce/frammenti che nel

piccolo concentrano e raccontano l'ambiente più ampio.

Quando scopro un reperto nuovo, avulso da un contesto e

che non ho mai maneggiato, mi trovo davanti al mistero e

cerco di coglierne afferrandolo e adoperandolo certamente la

funzione pratica, ma in essa il senso globale delle cose. Se

questa traccia del passato è l'essere immanente e assente di

cui parli, mi sembra la definizione più corretta.

C'è differenza tra artigianato e arte?

L'artigiano esegue lavori su commissione, per danaro. Il

committente è stato importante per l'affinamento delle

tecniche perché piu' facoltoso era piu' l'artigiano si

trasformava in artista. L'artista segue invece il suo istinto, è

libero; può essere considerato un'evoluzione culturale

dell'artigiano.

Cos'è per te questa terra?

È la mia vita, qua c'è tutto da scoprire. Più di tre giorni

lontano non riesco a stare; mi riempe di felicità e appaga

ogni mio interesse. Come quando ho scoperto palmenti

arcaici (vasche intagliate nella roccia in cui avveniva la

pigiatura dell'uva). Già da molti anni avevo fatto una ricerca,

e quando mi sono trovato davanti alla roccia impermeabile

ho avuto un'emozione fortissima. Si trattava di vere opere

d'arte: una vasca intagliata in una tomba paleocristiana,

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un'altra in contrada Favara all'interno di una tomba

Castellucciana (così sono chiamati oramai i reperti simili a

quelli trovati in quei luoghi e da cui hanno assunto il nome)

nelle vicinanaze di Noto.

Che cos'è il sacro?

Il sacro è rispetto della tradizione, della vita. Il sapere e la

conoscenza scavano sempre nella terra, dove riposa la nostra

storia e in cui è depositata la memoria dei nostri cari. Il sacro

è ciò che è permanente, che rimane, di significativo. Dunque

l'essenziale, l'essere.

Ho visto la tua documentazione, soprattutto le cartografie mi

hanno stupito per la meticolosità; qual è il metodo con cui

lavori?

L'interesse prima di tutto e il piacere della scoperta. Quando

ho prodotto le carte del territorio l'intenzione era quella di

rilassarmi dal mestiere di fotografo, esercitando la mia

passione di ricercatore. Diciamo che è stato molto naturale

per me. In questo ambiente mi ci trovo da sempre, già da

quando abitavamo a Floridia, avevo 6-7 anni e mio papà

permetteva solo a me di toccare i vasi in ceramica che

trovava nelle sue ricerche. Da piccolo sono stato educato

all'amore nel toccare un vaso; e quanto mi piaceva sentire la

storia di un corpo in quel coccio, vederci le mani che lo

avevano maneggiato o immaginarci le labbra che lo avevano

dissetato. Quando mi trovo davanti ad un territorio nuovo,

osservo prima di tutto i segni dell'uomo, come può essere un

masso geologicamente fuori posto. Questa cosa stimola la

mia curiosità, perché qualcuno deve avercelo portato; cerco

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allora informazioni nei documenti su insediamenti umani e

comincio a produrmi materiale visivo con disegni, fotografie

e plastici perché voglio ricostruire quel sito come era

all'origine. E' così in ultimo disegno carte senza i segni

dell'attuale urbanizzazione; e sono carte che non esistono nei

documenti perché nessuno aveva mai pensato a farle.

Com'è nata l'idea della casa/museo di Floridia?

Non è stata un'idea ma un percorso lineare. Mio padre

Nunzio comprò appositamente una villetta già nel 1972 che

successivamente ampliò in modo da contenere le migliaia di

oggetti che aveva raccolto. Da che ho memoria la mia casa è

sempre stata un museo ed è da sempre che respiro la storia

che trasuda da tutto quello che mi circonda. La casa in cui

vivo non può essere che una casa/museo.

Mi racconti di tuo padre Nunzio e di tuo nonno Gioacchino?

Nunzio, mio padre è stato un'ossessione e un'ombra, severo e

a volte rude, quasi un orso come spesso capita alle persone di

talento ma un esempio con la consapevolezza e il rispetto che

portava al lavoro, tanto da farmi travagghiare come un mulo.

Mi ha aperto non solo allo studio dell'entonoantropologia,

ma è stato anche il mio maestro di bottega e da lui ho

imparato i rudimenti del disegno e le tecniche della

fotografia. Ad esempio mi ha insegnato a spuntinare, a fare

dell'unghia una tavolozza, prendere i grigi col pennellino e

riempire i bianchi lasciati dal pulviscolo sull'immagine

stampata. Il corpo ha una possibilità infinita di partecipare al

fatto creativo, credo di averlo compreso allora. Mio nonno

Gioacchino mi ha insegnato a ad ampliare proprio le

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possibilità del corpo, ad usare ogni parte stimolando la mia

curiosità ed educando la mia fisicità per la realizzazione di

un prodotto estetico (mi ricordo mentre dipingeva le

scenografie con una scopa, con una vitalità creativa di getto e

senza ripensamenti); è stato il mio maestro di pittura ma

soprattutto mi ha dato una visione estetica del mondo. Grazie

a lui ho imparato a costruirmi gli strumenti di lavoro da solo,

come gli artifici per ottenere degli ellissi perfetti con due

chiodi e una cordicella, e lavoravamo in sinergia

intellettuale, tanto da avere impiantato nella sua casa una

camera oscura.

Tieni seminari e lezioni soprattutto in associazioni culturali

o come guida per scolaresche e studiosi nel museo di

Floridia; è importante tramandare il tuo sapere?

Certo, tutti leggiamo il libretto d'istruzioni di una macchina

fotografica, di un qualsiasi utensile o di un elettrodomestico;

poi però bisogna ampliare le conoscenze con la pratica e il

lavoro. Certe cose te li crei tu con l'esperienza acquisita; le

novità che si introducono nella tecnica si devono tramandare,

e l'espediente è appunto l'insegnamento.

Alla luce hai dedicato un intero ciclo di lezioni, cos'è la

luce?

La luce è la mia vita, non solo per mestiere, trovandomi da

sempre in una terra assolata e calda. E' ciò che consente ad

una cosa di essere vista e vissuta, è la vita che c'è in quella

cosa. La luce è l'ombra e pure l'ombra è prodotto dalla luce;

l'artista in generale percepisce i chiaroscuri e modella i toni

per ottenere un volume, il corpo dell'oggetto. E' energia la

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luce, calore, istinto in un fotografo, tanto che io usavo

l'hassemblad senza esposimetro, facendomi guidare

dall'esperienza.

Un'ultima domanda; le mani, è corretto dire che sei un

pensatore che trae ispirazione, conosce con le mani? Questo

interesse credo sia centrale nel tuo lavoro anche di

fotografo, come si vede nella bella mostra fotografica sui

contenitori nella storia contadina iblea che hai tenuto nel

2008 nel museo di Floridia

Il tatto percepisce quello che sfugge all'occhio, ad esempio

un chiodino che spunta da un legno. L'occhio può ingannare

come il legno che vede spezzato nell'acqua, il tatto, la presa

no. Quando trovo un attrezzo nuovo, sconosciuto (e non sono

tanti dopo tutti questi anni di ricerca) capisco cos'è prima di

tutto cercando il manico, che in genere è la parte liscia e a

misura della mano. Se trovi il manico, quando lo afferri

capisci cos'era quell'oggetto e la sua funzione, come una

grammatica che è interna alla cosa e la delimita nelle

funzioni e nell'uso. Cominci a maneggiarlo, cerchi di usarlo e

ne scopri la funzione. Pinza, martello e sega sono stati e sono

gli attrezzi minimi elementari eleborati sull'anatomia e sulla

base dei movimenti della mano nel contesto produttivo

artigianale. La pinza nella forma, nel materiale e nella

struttura racconta la mano quando afferra, il martello il

movimento verticale, la sega quello orizzontale; analizzare

un utensile è ripercorrere un lavoro, gli esercizi della mano

che con quel lavoro ha sostentato il corpo.

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NOTA AUTOBIOGRAFICAdi Gioacchino Bruno

Nasco a Solarino in una casa all’angolo con il Corso principale; era il 1963, la casa… non me la ricordo. Quando avevo due anni la famiglia si trasferì a Floridia in via IV novembre 22. Era il periodo in cui si giocava per strada, il posto più lontano si trovava ad un isolato di distanza ed era l’antica uscita del paese prima che costruissero il ponte sul Torrente Mulinello. In questo luogo denominato localmente “u vadduni”, cioè il vallone, vi era la bottega del fabbro, che ferrava i cavalli e i muli e ricordo pure il bottaio. Da ragazzi ci andavamo per riempire la giornata, ma c’erano le botteghe artigiane e i gestori non volevano che scorrazzassimo per le vie. Allora ci dirigevamo per la “trazzera” che scendeva al “vadduni”, presso una “gebbia”, una grande vasca piena di acqua melmosa per tirare le pietre alle rane. Non siamo mai scesi più di tanto, rammento che era impraticabile, piena di rovi e cespugli. Una vecchia trazzera abbandonata. Per strada si giocava a palla raramente perché il gruppo era formato da molte ragazze. Frequentavo all'epoca la piazza grande vicino la chiesa Madre e ogni tanto andavo al Carmine. Questo fu un periodo di gioco sfrenato. Tutti i giorni andavo a consumare le scarpe di ginnastica. Un paio durava due tre mesi.Quando avevo otto/nove anni mio padre portò la famiglia in una campagna appena acquistata. C'era una distesa di spine alte due metri, era un roccaro. Il terreno l'aveva ottenuto con pochi soldi. Costruimmo le fondamenta della casa; dopo un anno di lavori ci trasferimmo in campagna, era il 1972 e io avevo nove anni. Questo è il periodo in cui spostammo gli oggetti che si trovavano in una vecchia casa in via IV novembre, vicino dove abitavamo (al numero civico 22 vivevamo, al 26 c’erano gli oggetti, al 32 lo studio fotografico). Mio fratello iniziò a correre con la bicicletta. Io lavoravo in campagna, piccoli lavoretti pomeridiani, c’era sempre la ricompensa. Mia sorella studiava.Mio papà, fotografo, mi portava a fare i matrimoni. Verso i dodici anni facevo già le prime fotografie; il mio momento veniva dopo il taglio della torta quando gli sposi si fanno ritrarre con parenti e amici. Io avevo la macchina fotografica, mio papà dirigeva le operazioni e lo ricordo mentre urlava i nomi delle persone che doveva fotografare. Mi diceva “Jack si prontu”. Così ho iniziato ad usare la 6x6, all'epoca c’era la Rolleiflex, una biottica; poi comprò l’Hasselblad e aveva una Nikon F che non mi ha mai fatto toccare. In seguito l’ha cambiata per una Rolleiflex con il motorino per l’avanzamento della pellicola. Dopo pochi anni mi insegnò a caricare la pellicola nella macchina. Fatto questo ero pronto per uscire da solo a fare fotografie. L’occasione fu un compleanno: chiamò mia mamma e mi disse “Gioacchino tuo padre non c’è, torna tardi da Catania, devi andare a fare un compleanno in via Tizio numero tot”. Partii per il mio primo compleanno, avevo 13 anni. Quell'anno mi iscrissi alla Scuola d’Arte di Siracusa.A 16 anni mio papà mi mandò da solo a riprendere un matrimonio. Questo è il periodo nel quale ho conosciuto Cettina, la mia compagna; c’era la radio a Floridia e mio padre era l’organizzatore. Io trasmettevo nel pomeriggio e mi alternavo con un amico, Salvo Romano. Arrivò quindi la chiamata alle armi e dovetti rinuciare agli studi. Fui spedito a Viterbo, poi a Siracusa presso il

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34 CRAM dell’aviazione e infine a fare da sponda con il distretto del Villaggio Miano e Testa dell’Acqua dove c’erano i radar. Mi congedai il 27 agosto del 1983, il giorno dopo nasceva mio figlio Nunzio.Iniziò una nuova vita. Avevo finito il militare, ero padre e sapevo fotografare. "Bene eccoti macchina fotografica e flash e vai a sfamare la tua famiglia", così disse mio padre. Mi convinsi ad aprire una succursale dello studio a Belvedere perché c’era un immobile mezzo libero. I muri erano di nonno Felice, il papà della mamma di Cettina. Aprii lo studio ma lavoravo poco. Dopo un anno decisi di aprire a Sortino, che già frequentavo da professionista visto che là c’era una succursale gestita da mia zia Celina. Liberammo la casa del Corso al civico 93 da tutte le cose che vi erano custodite. Comprammo delle scaffalature in metallo rosse e nere e una scrivania. Avevo una Hasselblad CM500 ed un flash Metz 60. Utilizzavo la Pentax K1000, una 35 mm come macchina di riserva, ma quest’ultima non era mia e acquistai una Reflex, la Nikon FA, che fu la mia prima macchina. Il mio archivio fotografico risale al 1984, perché fu allora che iniziai a fotografare per passione. Ad oggi ho collezionato 1000 fogli di acetato, ogni foglio contiene 8 strisce, ogni striscia contiene 6 negative 24x36 non sempre piene. Dopo Mascalucia mi trasferii a Floridia sopra lo studio, quando la radio fu chiusa, in Corso Vittorio Emanuele 326 al secondo piano. Mi spostai definitivamente a Sortino nel 1987. Avevo una famiglia e uno studio fotografico, lavoravo da matti. Per hobby facevo foto del paese. Iniziai a leggere la bibliografia della storia sortinese e di Pantalica, accompagnavo la lettura con passeggiate esplorative. I primi anni li ho dedicati a Pantalica grazie alle conoscenze di un carissimo amico, Enzo Fraello. Poi ho scoperto le trazzera che si intrecciano nelle vallate e con esse le diversità delle contrade. Finché è venuto alla luce il quadro antico che raffigura il vecchio paese di Sortino prima della distruzione del terremoto del 1693. Da quel momento una grande forza interiore mi ha spinto a fare delle domande, erano le risposte che dovevo cercare. Cercare dovunque nei libri, nei disegni e nei dipinti, nei manoscritti, nel terreno, nel sapere degli anziani, discutendo con gli uomini di cultura. A casa disegnavo quello che mi mancava per comprendere meglio l’assetto urbanistico del vecchio sito, realizzando mappe via via sempre più dettagliate. Dopo due/tre anni che avevo fotografato ogni cosa, cominciai a farmi un'idea archeovisiva degli scorci della vecchia città; dove avevo già perlustrato ritornavo per guardare il panorama con un’altra luce. Vedere e cercare, accumulare più informazioni per meglio elaborarle e così trovare risposte alle mie domande.Intramezzavo le escursioni verso le rovine della Sortino Antica con passeggiate, finché una volta mentre mi aggiravo per la Lardia incontrai la dottoressa Beatrice Basile della Soprintendenza di Siracusa (persona meravigliosa); andavo quindi alla Fiumara per incontrare pastori e contadini, da Serramezzana a Gesolino. Belle esperienze quelle di Farina e Favara, non di meno le ricerche della Carrubba, la Costa Giardini, il monte Buongiovanni e la sua cava, Santo Mauro e Vallonazzo. Come pure la passeggiata con Nuzzo Mosca presso la Necropoli di Cava Rovettazzo. Perlustrai i Cugni a visitare neviere e di nuovo a camminare alla scoperta di cave e pirreri, di abbeveratoi e cisterne, di grotte e spelonche, di nicchie e gradini intagliati, abitazioni rupestri intonacate e affrescate, cascate di calcare solidificato, saie e canalette, paratori e mulini, torchi e macine, discariche abusive e colate di cemento, ecc. ecc.Nel 1993 in occasione del 300° anniversario del terremoto del 1693 ho

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voluto racchiudere in un opuscolo le mie ricerche; mandai le pagine in stampa con l’aiuto economico di amici e conoscenti, “Sortino Diruta”, lo scrissi con Luigi Ingaliso. Alla presentazione del libro tenuta ai Cappuccini feci pure una mostra di fotografie sulla Sortino Vecchia.Per lunghi anni non ho frequentato assiduamente Floridia e con essa la Villa Museo, ci andavo una domenica si e tre no. Mi impegnai invece nel sociale, insieme ad amici costituimmo un’associazione dal nome “Spazio Arte Giovani”, esperienza che mi ha fatto conoscere non solo come fotografo. E' di quel tempo un'opera che avevo nel cuore: la storia di Sortino raffigurata in un grande murale. Nacque così “Sortino nel tempo”, un'opera di 35 metri circa, alta 3 metri, dipinta nel muro perimetrale della palestra adiacente la Chiesa Madre di Sortino. Io ne curai il progetto e i disegni, la parte pittorica fu eseguita da Sebastiano Pane e Alessandro Rapisarda aiutati da Mario Matera e Roberto Sequenzia. Un altro murale importante fu quello che realizzai presso La Villa delle Rose, lungo 42 metri e alto 3,50. Tracciai 6 scene; le due scene centrali ripercorrevano il quadro della Sortino Diruta, mentre le scene laterali, due a destra e due a sinistra, rappresentavano scene della Sortino Diruta attuale, cioè i ruderi archeologici. Questo dipinto intitolato “Sortino Diruta” fu eseguito con Sebastiano e Alessandro, sempre con l’aiuto di Mario Matera.In questo periodo impiantai una camera oscura per la stampa in Bianco & Nero; presi una casa in affitto per centomila lire al mese nella Scalinata dei Cappuccini, all’angolo con via Roma. Due stanze una al primo e una al secondo, con cucina e bagno in miniatura. Oggi questa casa non c’è più, l’hanno demolita.Lo studio del vecchio paese di Sortino, nel 1998 mi portò a pulire diverse case della Sortino Antica e tutto il materiale trovato si trova oggi presso il deposito archeologico comunale (e tale deposito è nato proprio dalla necessità di custodire la quantità crescente dei reperti). Il materiale di ricerca ha permesso all’Amministrazione Comunale di preparare un progetto per rivalutare il Convento del Carmine, convertirlo in deposito archeologico ad esposizione permanente, un Antiquarium. Nacque come Antiquarium medievale. Il progetto per finanziare il restauro fu accettato e si rimodernò il Convento.Negli anni 90 ricoprendo la carica di segretario della Pro-Loco Pantalica Sortino, ideai la celebrazione del presepe vivente presso una grotta della Sortino Diruta. Nel 1994 cominciai a realizzare il plastico in scala della Costa Sortino; scelsi il gesso come materia per intagliare la topografia del vecchio paese e posizionare case chiese e strade nelle tre dimensioni, visto che avevo già prodotto uno studio cartografico. Un anno di lavoro culminato in una esposizione presso il Circolo Rinascita. La presentazione del plastico mi ha permesso di mettere in mostra anche parte dei lavori artistici che avevo prodotto negli anni addietro.Nel 2007 custituii il Circolo SiciliAntica sede di Sortino per agevolare il processo di salvaguardia del nostro patrimonio culturale.Lo stesso anno mi chiamò mio padre dicendo che avrei dovuto fare un progetto per il nuovo museo che sarebbe nato a Floridia nella ex-caserma dei Carabinieri e vecchio Carcere. Naturalmente mio padre aveva una collezione enorme di reperti e io non facevo altro che accrescerla. Da tempo leggevo dei lavori agricoli e pastorali degli iblei e avevo una certa familiarità con gli oggetti. Quando andavo a Floridia a trovare la mia famiglia c’era sempre un

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lavoro da fare, qualcosa da spostare o da sistemare (sono stato io ad avere pulito le collezioni, centinaia forse di più, con l'aiuto e il sostegno di mia madre, che così mi spronava: “Forza Gecchi puliziamu ca avveniri a scuola”). Iniziammo a sistemare mobili per l’esposizione, restaurammo oggetti in ferro e legno. Venne il giorno della consegna delle chiavi, andammo a vedere i locali; erano in pessime condizioni, specialmente il carcere. Serviva una restaurata. Cosa che si completò nel giro di un anno. Si cominciò a mettere qualche oggetto, i locali ancora erano della Pro-loco che se ne serviva per esposizioni. Tempo addietro mio padre era stato incaricato di esporre qualche oggetto. L’esposizione piacque a tutti, tanto che ci invitarono di arricchirla con altri esemplari che si trovavano a Villa Museo. La politica si rese conto che era necessario ufficializzare le nostre raccolte; fu così che il Comune di Floridia la Provincia di Siracusa e l’Associazione Xiridia firmarono un protocollo d’intesa col quale concedevano i locali dell’ex carcere e del piano terrano della ex stazione dei Carabinieri di Floridia per 30 anni più 30. Mio padre mi spinse a proporre un progetto per il museo. Nella mia idea si sarebbero dovuti restaurare i locali, smantellare l’esposizione primaria per consentire i lavori di manutenzione. Ci misi l'anima, mi procurai cassette in legno, smontai l’esposizione selezionando il materiale per tipologia: martelli con martelli, seghe con seghe. Come i lavori furono completati iniziai a separare gli oggetti per ciclo produttivo, pensai alla dislocazione dei mobili in base agli oggetti che avrebbero contenuto. Si completò il museo e si fece l’inaugurazione. All’Associazione Xiridia che gestiva il museo di Floridia la Provincia stanziò una cifra. Con la burocrazia e le scadenze mio padre non riusciva però a dialogare, fu mia sorella che lavorava presso la Provincia di Siracusa ad aiutarlo nella gestione delle carte dell’Associazione. Mio padre morì nel 2009, il museo continua ad essere aperto con una esposizione permanente rivoluzionata.Oggi sto aprendo un laboratorio a Sortino (Centro Studi Sicilia Antica) per facilitare la raccolta degli oggetti antichi, tutelarne la storia e promuovere la conoscenza della tradizione. La mia idea è di muovere a un progetto di valorizzazione del territorio sulla base delle ricerche fino ad ora sviluppate.

Mostre fotografiche: aprile 1989 “Attimi fotografici”, galleria De Santis, Como. Novembre 1990 “I quattro canti di Sortino”, Circolo rinascita Sortino. Agosto 1995 “Sortino Diruta”, Circolo rinascita Sortino. Agosto 1996 “Pantalica”, Villa museo Floridia. ottobre 2005 “Pantalica è Sortino”, Antiquarium sortinese. Ottobre 2007, “Valorizzazione di Sortino diruta”, ex Palazzo comunale Sortino.

Fornitura fotografica: 1989 “Sortino nei soprannomi” di Giuseppe Rossitto. 1990 “Chiese conventi e palazzi di Sortino” di Giuseppe Salonia. 1995 “Storia di Sortino e dintorni”, nuova edizione, di Sebastiano Pisano Baudo. 1999 “Ciclopi e ciminiere” di Paolo Mangiafico. 2001 “Sortino”, edito da GAL Val d’Anapo, a cura di Massimo Papa. 2004 “Il libro rosso di Sortino”, a cura della Dottoressa Lidia Messina. 2007 “Sortino ieri e oggi” di Padre Amodeo G. Iaia. 2009 “Antiquarium sortinese”, Comune di Sortino.

Mostre tematiche: novembre 2007 “I doni e i giochi nella tradizione di Ognissanti”, museo della civiltà contadina iblea, Floridia. Marzo 2008 “I contenitori nella cultura materiale iblea”, museo Floridia. Novembre 2008

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“Vino botti e bottai”, museo Floridia. novembre 2009 “Dall’ulivo all’olio”, museo Floridia. Settembre 2011 “L’amore per il Collezionismo” Sala polifunzionale presso il Museo della Civiltà Contadina di Floridia.

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Plastico Sortino Antica onto/memorie 21 Gennaio 2012

L’idea nacque dal bisogno. Mi serviva vedere a tre dimensioni la “Costa Sortino”, così si chiama attualmente la contrada dove si trovano i resti del sito archeologico di Sortino Antica. La puoi chiamare “Sortino Medievale”, “Sortino Diruta”, o più comunemente “Sciuttinu Vecchia”. In questa costa a grandi gradoni prospicienti il Fiume Guccione, si scorgono qua e là tantissime testimonianze architettoniche intagliate nella roccia, grotte grandi e piccole; grotte naturali e artificiali; anfratti perfezionati; nicchie ed archi portanti; tramezzi e pavimenti; e poi i tanti modelli di canalette per l’acqua; scale costruite ed intagliate; gradoni e gradini; testimonianze dell’antico Villaggio rupestre diventato borgo e poi comune. Dopo averla perlustrata diverse volte nella sua totalità, mi sono dedicato a porzioni di essa, per studiarla fino in fondo. Grazie alla collaborazione dei miei familiari ho potuto esercitare un hobby così impegnativo. Dopo aver scattato migliaia di foto e realizzato centinaia di disegni e mappe, decisi di vedere il paese come era fatto. Così pensai di fare un plastico. Il parto fu laborioso. Per prima cosa feci un mini plastico della montagna con su scolpite delle piccolissime case, lo feci in argilla. Plastico che ancora conservo. A questo punto preparai le carte per fare i modelli. Come materiale scelsi pannelli di gesso, 50x70x8, quelli che si utilizzano per le tramezzature di ambienti. Partendo dalla base, cioè la parte alta del Fiume Guccione, iniziai a intagliare i blocchi rispettando le linee della quota altimetrica. Feci una specie di scalinata, calcolai che successivamente dovevo intagliare le case. Mentre intagliavo gradini facevo pure i muretti a secco e le strade; intagliavo e coloravo, tracciavo e intagliavo. Man mano che realizzavo mi spiegavo tutto quello che avevo letto. La posizione delle strade dava finalmente delle chiare risposte alla topografia generale. La posizione del Castello dominante su tutto con al suo fianco la torre adesso si poteva ammirare in 3d. Le carte sono importanti, ma non tutti hanno la competenza per trasformare linee, punti, stelle cerchi e forme di una carta topografica in cose. Facendo il plastico per me l’ho fatto per tutti. Per la parte manuale ho impiegato 12 mesi, mentre il progetto nella sua totalità l’ho sviluppato nell’arco di 5 anni. È stato acquistato dal Gal Val D’Anapo con 5 milioni di lire, per essere esposto nell’Antiquarium sortinese, presso il Convento del Carmine di Sortino. Per la parte pittorica mi sono avvalso dall’aiuto di Vincenzo Pane. Attualmente è posteggiato fra l’ascensore e l’entrata dell’Ufficio Tecnico del Comune di Sortino. Adesso che mi ritrovo un laboratorio meraviglioso vorrei farne uno in legno, rappresentando la realtà di oggi, cioè ruderi e sentieri attuali. Possibilmente utilizzando la stessa scala, 1:250, di quello precedente in gesso che mostra come era il paese nel XVI sec., con le case e le chiese. Sarebbe una bella base per avviare campagne di ricerche, per rintracciare le spoglie nascoste da terra e pietre. La costa com’è ora, con i ruderi conosciuti intagliati ed evidenziati. Come un puzzle che si deve comporre. Il luogo lo porti a casa con le fotografie, la conoscenza te la danno i libri; trasformi tutto in tratto, disegno, mappa, sezione, pianta, cartina, plastico, sculture per vedere quello che non c’è più nella sua totale integrità. Lo fai rivivere, realizzi qualcosa che non c’era, questo fu lo stimolo, io volevo vederlo. Di Gioacchino Bruno

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BIBLIOGRAFIA MINIMA

F. Giuliano, Il castello di Sortino (con interventi, fotografie e disegni di G.

Bruno), Comune di Sortino, 2000

Lidia Messina, Libro Rosso di Sortno, Archeoclub, 2003

Lidia Messina-Concetta Corridore, Sortino e la famiglia Gaetani, La

Ediprinteditrice, 1988

S. Pisano Baudo, Sortino e dintorni, Lentini 1910

Andrea Gurciullo, Memorie Spettanti a Sortino, Catania, 1794

Gioacchino Bruno-Cristian Isabella, U Nummu Ru Gesu, Xiridia 1995

Gioacchino Bruno-Luigi Ingaliso, Sortino Diruta, 1993

Paolo Mangiafico, Ciclopi e Ciminiere, Prova d'Autore, 1999. Pagg. 46-51

Dionisio Mollica, Sortino: archeologia, storia, arte, tradizioni, Tipografia

Invernale Floridia, 2001 (fotografie di G. Bruno)

Giuseppe Rositto, Sortino nei soprannomi, Cuecm, 1989 (fotografie G.

Bruno)

Giuseppe Salonia, Chiese, conventi e palazzi di Sortino, Arti grafiche

Marchese, 1990 (fotografie G. Bruno)

Luigi Lombardo, La valle dell'Anapo e i Leontinoi, Grafiche Cosentino,

2006

Vincenzo Pane, Sortino Diruta, Tesi di Laurea Accademia di Belle Arti

Catania anno 2003/2004, relatore prof. S. Todisco

Per quanto riguarda la rassegna giornalistica, diversi quotidiani già dal 1995

si sono occupati in più occasioni del lavoro di Gioacchino Bruno; tra gli altri

si ricordano La Sicilia, L'Aperiodico e La Gazzetta del Sud.

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Gioacchino BrunoReperibile a Sortino (SR) presso il laboratorio di via Roma [email protected]

Giancarlo Buonofiglio; tra le sue pubblicazioni: Il demoniaco nella nevrosi ossessiva; Il linguaggio delle emozioni, manuale storico/critico di psicoanalisi; Kandinskij, dinamiche storiche di una piramide spirituale; Non desiderare la donna d'altri; Decalogo ad uso di chi proprio non può fare a meno di vivere (in stampa). [email protected]

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Le fotografie e i disegni nel testo sono di Gioacchino Bruno

* * * * * Proprietà letteraria Giancarlo Buonofiglio