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GIANNI MORELLI

QUELLA MANOPARLANTE

Teodoricoin Sant’Apollinare Nuovo

SOPHIACollana di arte • letteratura • SCienza • Storia

VII

Quaderni di Storia dell’Arte

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QUELLA MANO PARLANTE.Teodorico in Sant’Apollinare Nuovo

DIRETTORE DELLA COLLANAMichelangelo La Luna, University of Rhode Island

COMITATO SCIENTIFICO:Ornella Scognamiglio, Università della Calabria

Giovanni Morello, Biblioteca Apostolica Vaticanaxxx

EDITOR MANAGER:Giuseppe F. Zangaro, Università della Calabria

© 2018. conSenso publishingIT - 87067 Corigliano-Rossano (CS) - via G. Cesare 1

+39 0983 515463 • +39 339 8004078www.consensopublishing.it | [email protected]

ISBN 9788897715085Catalogo disponibile su ISBN Global Register of Publications

SOPHIACollana di arte • letteratura • SCienza • Storia

Volume stampato su iniziativa e con il contributodel Lions Club “Rossano Sybaris”

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Indice

Presentazione 9Giovanni PaPPalardo

Prefazione 11MiChelanGelo la luna

Introduzione dell’Autore 15

Sacro e potere 17

Le mani dicono tutto 23

Vacanze romane 29

I troni delle mani parlanti 39

Schede di approfondimento 49

Abstract 70

Bibliografia essenziale 71

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Presentazione

È la quinta volta che il Lions Club Rossano Sybaris contribuisce alla realizzazione di un’opera del socio onorario Gianni Morelli, studioso di storia dell’arte, membro del Lions Club Ravenna Bisanzio, nostro “gemello” dal 1996.

Il saggio svolge una vera e propria indagine sulla gestualità delle mani offerta dalla iconografia cristiana, che spazia da occidente a oriente: dalla Ravenna del re Teodorico e, a ritroso nel tempo, fino all’eredità dell’arte greco-egizia dei primi secoli del nuovo millennio.

Con un passaggio molto forte – che a noi preme sottolineare – sul movimento delle mani della nostra Madonna Achiropita e di quelle del piccolo Cristo, nella Cattedrale di Rossano.

In questo saggio non sono solo le dita a farla da protagoniste, ma appunto le tesi avanzate dal nostro autore che, ancora una volta, riesce a sorprenderci con proposte originali e nuove argomentazioni sempre coinvolgenti.

Noi Lions, nel continuare un percorso di promozione culturale quasi trentennale, non possiamo non concludere ricordando, soprattutto ai più giovani, quanto scritto dallo stesso Gianni Morelli:

“L’opera d’arte va prima ascoltata e poi guardata. In essa compaiono sempre insieme l’arte e il suo artefice ed è lui che suggerisce al nostro sguardo come ammirare”.

Domenico Pugliese, Presidente Lions Club Rossano Sybaris

Giovanni Pappalardo, Responsabile Service

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Prefazione

Siamo onorati e felici di accogliere all’interno della collana SOPHIA la nuova opera di Gianni Morelli, Quella mano parlante. Dopo un’accurata analisi della figura di Teodorico, lo studioso esamina le immagini di Sant’Apollinare Nuovo, e in particolare il Cristo e della Vergine in trono che usano le loro mani non solo per benedire, ma anche per parlare con autorità.

Nel suo avvincente saggio, in cui attraverso uno stile semplice e vivace riesce a esprimere concetti alquanto difficili, il Morelli cerca di dare una risposta alla seguenti domande: come mai l’immagine del Cristo in trono di Ravenna è molto simile a quella di Santa Caterina al Sinai? E come mai alla figura della Vergine in trono è concesso, per la prima volta nella storia (oltre cinque secoli dopo la nascita del cristianesimo) il potere di usare la mano parlante?

Sono questioni intriganti a cui lo studioso cerca di fornire argute soluzioni, ricorrendo ad alcuni aspetti della vita e della personalità di Teodorico, e a una attenta comparazione delle immagini di Sant’Appolinare Nuovo con altre figure simili.

Tra queste spicca la Madonna Achiropita della Cattedrale di Rossano che, secondo il Morelli è la “sola immagine al mondo ove le due verità di fede – doppia natura del Cristo e medesima sostanza della Trinità divina – si mostrano compresenti e affermate con una solennità e potenza che solamente l’arte è in grado di esprimere.”

A proposito dell’affresco, lo studioso cita l’importante opera dell’amato professor Giuseppe Roma, La Madonna Achiropita di

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Rossano, recupero filologico di un testo pittorico (2001). Ci preme qui ricordare il suo indispensabile contributo alla costituzione della collana SOPHIA, e alla organizzazione del convegno di studi dedicati al Codice Purpureo di Rossano nel maggio del 2017.

Michelangelo La LunaUniversity of Rhode Island

22 novembre 2018

Introduzione

Questo saggio è poco più di un flash sul sentimento religioso di Teodorico e riguarda la sua chiesa prediletta di Ravenna.

In Sant’Apollinare Nuovo si affacciano due sorprese iconografi-che impossibili da risolvere:

1) il volto del Cristo in trono, praticamente gemello del Cristo nel monastero di Santa Caterina al Sinai, laddove Chiara Frugoni ci ram-menta “il gesto famoso delle tre dita levate di Cristo non è solo per benedire, ma può significare anche semplicemente parlare e se affi-dato ad altri personaggi e situazioni, legiferare, detenere il potere”…

2) E poi la prima immagine al mondo della Vergine in trono nel gesto della mano parlante.

A chi sta parlando la Madonna?

E perché attendere più di cinque secoli di era cristiana per con-sentire alla Madre del Cristo il gesto dell’oratore?

Nel Nuovo Testamento Gesù aveva introdotto novità profonde rispetto sia al mondo giudaico, sia al mondo pagano in genere: egli rivaluta la natura e la dignità della donna, così come dei poveri e degli umili e rimette in discussione concezioni e atteggiamenti fortemente radicati negli uomini. Egli agisce in una prospettiva religiosa e spirituale, intesa a liberare l’uomo dalla schiavitù del diavolo e del peccato, ma la sua opera di liberazione comporta conseguenze anche sul piano sociale e politico. Le sue inequivocabili parole sull’inscindibilità del vincolo matrimoniale e sulla uguale dignità dei coniugi costituiscono, per esempio, una novità

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Sacro e Potere

Nel 456 gli Ostrogoti si stabilirono in Pannonia, a sud-est del Danubio, sotto la protezione dell’Impero Romano Orientale.

Il potere degli Unni era stato annientato e gli Ostrogoti erano di nuovo liberi. Probabilmente fu in questo periodo – è Lars Munkhammar che lo attesta - che divennero cristiani. Uno dei tre re ostrogoti al governo aveva un figlio di nome Teodorico, che più tardi sarebbe stato chiamato Teodorico il Grande. Come garanzia ad un trattato di pace questo principe goto, all’età di sette anni, fu mandato a Costantinopoli, dove crebbe alla scuola delle armi romane e della scaltra politica bizantina: scuola mirabile per un barbaro pieno d’ingegno, di audacia e ambizione che era destinato ad un grande avvenire.

Teodorico era ben accetto alla corte di Leone, si dice anche che l’imperatore lo adottò, nonostante questa notizia sia molto incerta. La vita di corte nella Costantinopoli imperiale fu senza dubbio una parte decisiva della formazione di Teodorico.

Nel 471 Teodorico fu proclamato Re degli Ostrogoti.

Con la sua gente si spostò verso la penisola balcanica. Aiutò l’imperatore a soffocare una sommossa e ne fu ampiamente ricompensato. Divenne infatti magister militum praesentalis, la più alta carica militare dell’Impero Romano d’Oriente: poteva così entrare a Costantinopoli con una trionfale processione, ebbe una statua eretta in suo onore e, nel 484, fu consul per un anno, la più prestigiosa onorificenza dell’Impero.

radicale sia per i Giudei, abituati alla poligamia e al ripudio più o meno motivato della moglie, sia per i Romani presso i quali era consentito e as-sai praticato l’uso del divorzio. Ma l’istituto del matrimonio, benché ce-lebrato nell’Antico e nel Nuovo Testamento, venne ben presto messo in discussione e addirittura condannato nei primi secoli del cristianesimo. L’atteggiamento in parte misogino e antimatrimoniale dei Padri colpì profondamente gli uomini del Medioevo, che di quelle teorie fecero il cardine della propria etica. E così, isolando alcune affermazioni di San Paolo, Tertulliano o dei Padri, essi scaricarono sulle donne i pregiudizi negativi che gravavano sul matrimonio, considerato come conseguenza del peccato originale. Le donne, figlie di Eva, simbolo del peccato, ven-nero ancora una volta colpevolizzate e demonizzate. Nel matrimonio, accettato solo come remedium concupiscientiae, la loro attività fu nuova-mente finalizzata alla sola procreazione, mentre nella vita sociale esse tornavano ad essere emarginate per la loro inferiorità e debolezza.

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Chiaramente, non possiamo conoscere la relazione dello stesso Teodorico con la religione. Era un Goto ariano, anche se fu istruito nella cattolica Costantinopoli.

Nella primavera dell’anno 500 Teodorico – sulla scorta di un illu-stre precedente che aveva portato Costantino il Grande a festeggiare nell’antica capitale i venti anni del suo impero - si recò a Roma per celebrare le feste per i trent’anni del suo regno.

A Roma si inginocchiò nella basilica di San Pietro, si recò al Foro Romano e presso l’arco di Settimio Severo, parlò al popolo. Fece ingresso solenne nel Palazzo del Palatino.

E tuttavia, nei giorni dei festeggiamenti, Teodorico stava imperso-nando il suo copione di imperatore romano. La sua identità come Re dei Goti era più forte ed importante e, senza dubbio, era di massimo interesse nazionale gotico che le chiese gotiche in Italia, specialmen-te a Ravenna, fossero altrettanto magnifiche e prestigiose di quelle cattoliche. Non si trattava solo di una questione di manifestazione religiosa, ma soprattutto di una questione di potere gotico.

L’esteriorità della vita ecclesiastica richiedeva grandiosi edifici e splendide vesti liturgiche, ma anche libri sacri, preferibilmente di meravigliosa bellezza.

Il Codex Argenteus era uno di questi libri, forse il più bello.

La produzione del Codex Argenteus come oggetto fisico trova origi-ne nella necessità di fornire le chiese ariane di Ravenna di prestigiosi manoscritti della Bibbia ed è facile immaginare che il Codex Argenteus fosse il più prezioso manoscritto gotico a Ravenna. Di conseguenza è molto probabile che fosse destinato ad essere ammirato nella più importante chiesa gotica: in Sant’Anastasia o nella chiesa palatina di Teodorico, a meno che questa chiesa non fosse la stessa Sant’Ana-stasia.

Vedi Scheda 2 - Il Codex Argenteus, p. 56.

A vantaggio dell’Impero – e a proprio vantaggio – sconfisse Odoacre che aveva controllato l’Italia per più di un decennio. Dopo anni di lotte, Teodorico e gli Ostrogoti potevano stabilirsi in Italia e, nel 493, Teodorico divenne il re sovrano di questa regione. Formalmente diventò vassallo dell’imperatore romano orientale, ma in pratica governava in modo indipendente.

Agli occhi dei Romani, i Goti erano barbari, tuttavia sembra che fossero accettati come detentori del potere. I Goti, d’altra parte, ave-vano un proprio orgoglio etnico. Ritenevano importante la tribù e amavano mostrare la propria specificità attraverso attributi esteriori: sotto il sole mediterraneo mantennero i capelli lunghi e spesso in-dossavano pellame.

Anche per quanto riguarda la religione i Goti erano barbari agli occhi dei Romani. Erano Cristiani, senza dubbio, ma non cattolici. Assieme ad altre popolazioni germaniche erano considerati ariani e, agli occhi della chiesa cattolica, erano senza dubbio eretici. I Goti avevano le proprie chiese e la propria liturgia, particolarità che sot-tolineavano la loro distinzione dai Romani.

È difficile stabilire cosa l’arianesimo significasse per gli Ostrogoti, in senso religioso, sociale, politico.

Per i Goti di Teodorico aveva – a parte qualsiasi altra cosa – un im-portante significato nazionale. Si può sostenere – scrive lo storico John Moorhead – che l’enorme programma edilizio intrapreso da cattolici e ariani a Ravenna durante e dopo il regno di Teodorico fosse in parte mosso da rivali-tà e si può avere il sospetto che, per i Goti, una caratteristica essenziale del pro-prio arianesimo fosse semplicemente il fatto che non era la fede dei Romani – .

L’uso della lingua gotica come lingua ecclesiastica permetteva ai Goti di considerare il proprio cristianesimo in senso nazionale, una circostanza particolarmente rara nell’occidente medievale.

Vedi Scheda 1 - La Liturgia Ariana in S. Apollinare Nuovo, p. 50.

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Sotto Teodorico il regno ostrogoto in Italia era divenuto la princi-pale potenza territoriale d’Europa.

I privilegi concessi a Teodorico ne facevano una sorta di vice- im-peratore per la parte occidentale, al punto che il sovrano seguiva un cerimoniale delle apparizioni pubbliche non dissimile da quello dell’imperatore; una volta viene perfino definito augustus.

Tuttavia il sovrano goto ebbe sempre l’accortezza di non abban-donare mai il titolo di rex : in tal modo gli imperatores Anastasio e Giustino, che si susseguirono sul trono di Costantinopoli durante il suo lungo regno e che non mancarono di preoccuparsi per la sua potenza, poterono comunque fingere che l’equilibrio raggiunto con Odoacre e quindi il riconoscimento da parte del re barbaro del loro supremo potere, fosse mantenuto.

Gli epiteti che vengono assegnati a Teodorico nelle Variae (beni-gnus, gloriosus, iustus, piissimus) non sono affatto elogi formali, ma termini che lo avvicinano agli imperatori del passato come pure a quelli coevi che regnavano a Costantinopoli. Al pari di questi, egli distribuiva le cariche amministrative tra i senatori e, in generale, i la-tini, mentre si occupava anche della plebs attraverso l’organizzazione dei giochi e la distribuzione dei viveri.

Allo stesso tempo, però, Teodorico era attento a non tralasciare la cura della parte germanica del suo regno. Come ebbero a scrivere Cassiodoro e Giordane ...Non vi fu razza tra i regni occidentali con cui Teodorico non avesse stretto amicizia o rispetto alla quale non avesse imposto supremazia durante la loro vita.

In qualità di Re d’Italia, Teodorico si impegnò a conservare il pa-trimonio romano. La lingua ufficiale non era il gotico, ma il latino. Il senato di Roma era composto da Romani. Vi erano Romani nell’am-ministrazione regale teodoriciana e a corte. Il più famoso era Cassio-doro, il principale tra i collaboratori di Teodorico.

È in gran parte agli scritti di Cassiodoro che dobbiamo le nostre conoscenze riguardo a Teodorico e all’Italia gotica.

Cassiodoro era il primo ministro di Teodorico e, al contempo, il suo segretario personale. Si dice che Teodorico fosse analfabeta, ma si dice la stessa cosa di molti

potenti condottieri e, nel caso di Teodorico, probabilmente non è vero, dal momento che fu istruito presso la corte imperiale. D’altra parte, il latino non era certo la sua specialità, ma senza dubbio era l’area di competenza di Cassiodoro, uomo di lettere, retore, scrittore e filologo.

Cassiodoro era la lingua latina.

Non è certo che conoscesse il gotico, ma nella sua posizione è verosimile che fosse in grado di comunicare con i membri della fami-glia reale. Teodorico e Cassiodoro sicuramente avevano una lingua in comune: il greco.

Nel 538, quando Cassiodoro era alla fine della sua carriera poli-tica, o forse quando l’aveva già conclusa, raccolse tutti i documenti che aveva scritto durante il suo ufficio, in grandissima parte scritti a nome del re goto. Li suddivise in dodici libri con il titolo Variae al cui interno è possibile seguire l’esercizio ufficiale del governo del potere gotico al tempo di Cassiodoro.

Per quanto dalla vita e dalle opere di Cassiodoro trapelino molte ambiguità a proposito dei suoi rapporti con i successori di Teodorico e con l’ultima parte della storia del regno ostrogoto in Italia, non può esserci alcun ragionevole dubbio – è Franco Cardini che parla – sul fatto che egli fu un fedele collaboratore e servitore del grande sovrano goto; e pare proprio si possa ritenere che fino all’ultimo egli conservò per quello che ben si può ritenere il suo sovrano per eccellenza, sentimenti di affetto e di rispetto, anche se negli anni successivi ritenne prudente astenersi dal ribadirli.

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Le mani dicono tutto

La descrizione più felice della mano parlante – come suggerisce Chiara Frugoni - ce l’ha offerta Apuleio nel suo Asino d’oro, all’inizio del secondo secolo.

Telifrone, prima di mettersi a narrare la sua straordinaria avven-tura di guardiano di cadaveri (per impedire alle streghe di appro-priarsene), accomodatosi sul cuscino, “distese la mano destra in avanti atteggiandola come fanno gli oratori, con le ultime due dita chiuse, le altre invece sporgevano verso l’alto e il pollice teso in avanti”. (fig.1)

La mano parlante era dunque il gesto più tipico dell’oratore nell’Antichità: era soprannominato “adlocutio” ed era utilizzato per ottenere l’attenzione del pubblico. Nel corso dell’orazione, la mano si sarebbe mossa frequentemente e con ampia gestualità. Gestico-lare, in età romana, non era affatto disdicevole (come invece lo di-venterà in età bizantina); la gestualità è connessa con l’istintività e la spontaneità, elementi che i romani non giudicavano inopportuni pur rispettando rigide convenzioni civili o un severo iter per le ca-riche pubbliche. Lasciarsi andare non impediva il compimento dei propri doveri.

“Senza la mano l’actio diviene trunca” sentenzierà la tarda retorica.

Con le mani, e grazie ad un comprensibile latino medievale, “gau-dium, tristitiam, dubitationem, confessionem, poenitentiam,modum,copiam,numerum,tempus ostendimus”.

Il movimento delle dita è un linguaggio compreso da tutti, anche da forestieri parlanti lingue diverse e diversi dialetti.

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Questa forma di comunicazione venne prediletta dagli artisti pro-prio per far parlare i personaggi rappresentati che, altrimenti, sareb-bero risultati statici e muti.

Nel contesto cristiano occidentale il gesto delle due dita sporgenti verso l’alto apparteneva, esclusivamente e senza riserve, al Cristo. La sua mano destra testimonia ancora oggi il significato teologico e la diffusione geografica del suo messaggio.

Punto di riferimento è il Concilio di Calcedonia del 453. In que-sto Concilio venne sconfitto il credo monofisita che sosteneva la sola natura divina del Cristo: solamente per un istante, al momento della nascita, sarebbe stata presente la natura umana, subito sopraffatta da quella divina. A Calcedonia venne invece ribadita la doppia natura, umana e divina, del Cristo, entrambe compresenti e conviventi per tutta l’esistenza terrena di Gesù.

Le due dita indicano, appunto, le due nature di Cristo. (fig. 2)

Nella variante orientale (bizantina), assistiamo ad una nuova postu-ra: l’anulare si unisce al pollice a formare un anello, mentre le tre dita libere risultano leggermente piegate. La ripresa in ambito cristiano di questo tratto dell’iconografia imperiale testimonia una volta di più il desiderio di sottolineare la potenza e la maestà del Signore.

La chiesa orientale ha come momento culminante il Concilio di Nicea del 325. In questo Concilio il culto ariano, che sosteneva un rapporto gerarchico nella Trinità, viene condannato come eretico. Ario infatti sosteneva la superiorità del Padre rispetto al Figlio, co-munque Dio “minore”, in contrasto col Credo cattolico secondo cui le tre persone sono distinte, ma “consustanziali”.

Le tre dita lasciate libere dall’anello formato da pollice e anulare proclamano dunque la Trinità divina e conseguentemente la creden-za di questa verità di fede. (fig. 3)

Fig. 1. Onorio nel gesto della mano parlante.Nella mano sinistra tiene il globo che

simboleggia la parte dell’impero su cui comanda. Particolare di piatto d’argento,

anno 388, Madrid, Academia de la Historia.

Fig. 2. Bernardo Gelduino, Cristo in mandorla fra quattro

evangelisti, secolo Xl-Xll, Tolosa

Fig. 3. Cristo fra l’imperatrice Zoe e Costantino VIII (?), mosaico Xl secolo, Istanbul, Hagia Sophia.

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Esiste una sola immagine al mondo ove le due verità di fede – dop-pia natura del Cristo e medesima sostanza della Trinità divina – si mostrano compresenti e affermate con una solennità e potenza che solamente l’arte è in grado di esprimere.

Intendo riferirmi alla Madonna “Achiropita” di Rossano, dipinta ad affresco sul terzo pilastro sinistro della navata centrale, nella Cat-tedrale di quella città.

Un’opera solenne e misteriosa.

Solenne per l’impianto monumentale della figura, l’aplomb dei panneggi, la forma espansa e chiara del volto della Vergine, la si-curezza avvolgente delle braccia incrociate dove, sulla sinistra, sie-de con naturalezza il Figlio, dal volto sereno e gli occhi eloquenti nell’atto di accompagnare il gesto della sua mano destra, quasi in una risposta affermativa alla domanda che gli è stata appena rivolta.

E poi il mistero delle mani parlanti: di Lei e del Figlio.

Quelle dita della Madre, enormi, lunghissime, indice e medio volti in giù, perentorie, perché sui dogmi non sono ammesse incertezze o eresie.

E quella mano destra di Gesù in cui pollice e anulare e mignolo uniti formano un anello attorno alle dita libere: dita lunghissime e affilate per far comprendere che anche dalla braccia della madre, il piccolo Cristo intende essere riconosciuto come Dio1. (fig. 4)

1 Giuseppe Roma, in conclusione della sua magistrale indagine filologica del testo pit-torico offerto dalla Madonna Achiropita di Rossano, suggerisce agli studiosi percorsi di ricerca innovativi, che mette conto riportare per intero. “[…] L’immagine che è campita sul terzo pilastro della navata centrale, proprio per la collocazione decentrata escluderebbe un suo ruolo principale nell’ambito di un programma iconografico di un qualsiasi edificio di culto, almeno che non si cerchi di individuare il significato globale della decorazione e la temperie storica e artistica che può averla prodotta. I contatti sot-to l’aspetto iconografico tra l’Achiropita di Rossano e la Madonna di S. Maria Antiqua sono evidenti, ma è lecito ipotizzare che non si possono circoscrivere soltanto all’iden-tità iconografica della Vergine raffigurata, sia a Rossano che a S. Maria Antiqua, con le “mani incrociate”, ma, a mio avviso si può ipotizzare di estenderli a tutto un contesto pittorico che assegnava, almeno a S. Maria Antiqua, un ruolo privilegiato al culto e alla figura della “Theotokos” e all’esaltazione di una vera e propria “devotio marialis” tipica del tempo di Giovanni VII. […] A Rossano, la circostanza che i resti murari su cui è di-pinta l’immagine sono perfettamente compatibili con la prima, ma non con la seconda fase della vicenda costruttiva della Cattedrale e il fatto non secondario che l’Achiropita

A volte Cristo tiene davanti a sé un libro aperto: l’osservatore me-dievale sapeva bene, guidato dalla mano parlante, che il Redentore stava proprio pronunciando la frase offerta alla lettura dei fedeli. Non a caso la frase è del Cristo che parla in prima persona.

Teodorico adotterà nella sua chiesa palatina, per la scena del Cri-sto in trono, questo doppio registro; mano parlante-libro aperto.

Nelle pagine a seguire verranno sottolineati e commentati i di-sgraziati restauri inflitti alla figura del Cristo; e tuttavia credo si possa affermare che lo schema originario della decorazione risulti, anche dopo i guai, concettualmente confermato.

non fosse in origine una immagine isolata, ma facesse parte di un esteso programma ico-nografico, farebbero propendere per una datazione “alta” dell’affresco, tra la fine del VII e l’VIII secolo”; G. Roma, La Madonna Achiropita di Rossano Calabro, recupero filologico di un testo pittorico, Soveria Mannelli 2001.

Fig. 4. Madonna “Achiropita”nella Cattedrale di Rossano,

Vll-Vlll secolo.

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La mano parlante del Cristo nelle due declinazioni, greca dalle tre dita e latina dalle due dita, è stata fatta propria, ovviamente, da altri personaggi della storia sacra i quali tuttavia, per potersi espri-mere, debbono possedere autorità di magistero e con quel segno imporre il silenzio prima di parlare.

Lo troviamo in san Paolo, nei santi vescovi, nel Battista che an-nuncia “preparate le vie del Signore” e mai nei santi martiri. Né mai è attribuito alla grandi sante in forza del divieto pronunciato da san Paolo “Nel Tempio le donne tacciano”. (fig. 5)

Persino alla Vergine quel segno fu sempre rifiutato, fino ai giorni dell’ariano Teodorico.

Nel Basso Medioevo, con la crescente attenzione al Cristo evan-gelico, povero e sofferente, con il diffondersi della venerazione per la Madonna e in generale l’affermarsi di nuovi e più umili modelli

di santità – ad esempio di san Francesco – l’immagine severa ed au-toritaria della divinità andò modificandosi e, di pari passo, il gesto imperioso di Cristo passò a significare semplicemente quello, rassi-curante, della benedizione.

Nella storia dell’arte, spesso, grazie alle mani, si può cogliere il messaggio più profondo dell’artefice. La posizione delle dita chiarisce il tono e il significato di tutta un’opera. Nei ritratti, le mani sono quasi sempre al centro del dipinto, come un sole che concentra su di sé le cose che gli stanno intorno, compreso il volto.

Anzi, più dello stesso volto.

Le mani dicono tutto.

Fig. 5. San Paolo in tronocon le sue Epistole, 1180-1190,

Monreale, cattedrale.

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Vacanze Romane

Di immagini della Madonna in trono, nel gesto della “mano par-lante”, ne restano, a fine medioevo, solo due: la più antica si trova nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, commissionata da Teodorico nei primi anni del sesto secolo, al suo rientro dal lungo sog-giorno romano legato ai festeggiamenti per il trentesimo anniversario del suo regno. (fig. 6)

Teodorico che torna a Ravenna porta nel cuore l’emozione dell’in-contro con la Roma classica, con i suoi monumenti grandiosi e fati-scenti, le mura e gli acquedotti e insieme il germe di una politica volta alla conservazione e al restauro delle città antiche.

Porta negli occhi il volto della nuova Roma cristiana, dai grandi mo-saici oggi perduti di Sant’Andrea in Catabarbara e Sant’Agata dei Goti.

Porta dentro di sé un tumulto di pensieri che gli vengono da quel-le due figure femminili identificate dalle scritte come le due Chiese, poste a mosaico all’ingresso della basilica di Santa Sabina, realizzata al tempo di Sisto II (432-440).

Ognuna ha un codice aperto nella sinistra e la destra è atteggiata nel gesto della mano parlante.

Personaggi sconvolgenti le due donne, perché a quel momento la mano parlante mai era stata attribuita a figure femminili e sarà proprio Teodorico, nella sua chiesa di Ravenna, a sciogliere quel nodo gordiano.

L’Ecclesia ex circumcisione mostra l’Antico Testamento; l’Ecclesia ex gentibus il Nuovo. Pagani ed ebrei convertiti hanno fatto nascere la Chiesa di Cristo, guidata dal pontefice. (fig. 7)

Fig. 6. Madonna “Theotokos” nel gesto della mano parlante,inizio Vl secolo, Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna.

Fig. 7. Ecclesia ex circumcisione e Ecclesia ex gentibus,V secolo, Roma, Santa Sabina

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Fig. 8. Maria regina alla destra del Figlio, 1130-1143,Roma, Santa Maria in Trastevere.

Fig. 9. Multiplo da tre solidi in oro con ritratto di Teodorico, proveniente da necropoli presso Senigallia e trasformato in spilla. Roma, medagliere capitolino.

Dunque le due parti della Bibbia, dell’Antico e del Nuovo Testa-mento, non sono in contrapposizione fra loro, ma sono le fonti della Chiesa. Cristo è venuto per tutti, senza distinzione di popolo o di religione. Tutti riceveranno misericordia.

Sacralità e potere sono germogli potenti che si vanno intreccian-do e abbarbicarsi nella mente di Teodorico.

La seconda immagine ci viene offerta 600 anni dopo, nel mosaico del catino absidale di Santa Maria in Trastevere, al tempo di Inno-cenzo ll (1130-1143).

In essa Maria regina, in cielo, si mostra seduta sullo stesso trono del Figlio alla sua destra (in analogia di Cristo “che siede alla destra del Padre”).

La Vergine, con la sinistra atteggiata nel gesto della mano par-lante, tiene con la destra un cartiglio dove sono le sue parole “La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia”. Cristo, con la mano destra abbraccia la madre girandole il braccio dietro le spalle e con la sinistra tiene il cartiglio esortandola “Vieni, mia preferita, porrò in te il mio trono”. (fig. 8)

Legata alla permanenza di Teodorico a Roma è la coniazione stra-ordinaria di monete a carattere celebrativo, tra le quali spicca un uni-co ritratto noto, attribuibile con certezza a Teodorico, che compare sul multiplo da tre solidi, in oro, raffigurante sul dritto il busto del sovrano e sul rovescio la Vittoria Portatrice di Pace, avanzante verso destra e recante una ghirlanda. (fig. 9)

Questo esemplare, oggi conservato al medagliere capitolino, pro-viene dalla necropoli di Movio d’Alba (Senigallia) e risulta trasfor-mato in spilla già in antico.

Il pezzo presenta numerosi problemi ponendosi, come unico caso di aperto contrasto con la tradizionale politica di monetazione teo-doriciana, che sempre utilizza l’immagine dell’imperatore regnante in Oriente. La cosa può forse spiegarsi con la natura pseudo-moneta-ria dell’oggetto, il suo essere medaglione destinato ai donativi all’in-terno della élite gotica, piuttosto che alla circolazione.

L’immagine che vi compare risulta convenzionale e simbolica: il re è rappresentato frontalmente, il busto con corazza e clamide, la

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mano destra nel gesto dell’oratore, sulla sinistra tiene il globo sor-montato dalla Vittoria con palma e corona.

Il volto presenta tratti molto marcati ma non individualizzati (no-nostante le fonti ricordino di lui la fluente e bionda capigliatura). Caratteristici sono la pesante acconciatura, pettinata a casco, liscia e poi arricciata alle punte, secondo la moda diffusa in area orientale e i corti baffi.

Elementi, tutti questi, che vanno interpretati piuttosto – e anche in questa occasione – come segni di distinzione etnica.

Il sovrano non porta la corona, considerata attributo imperiale. Il modello del sovrano armato può forse suggerire come doveva com-parire nel perduto mosaico del palazzo reale, dove Teodorico arma-to era affiancato dalle personificazioni di Roma e Ravenna.

Alla luce di considerazioni di questo genere, il medaglione aureo mostra come Theodoricus Rex tendeva a dare di sé una immagine co-struita sulla falsariga dei canoni in auge a Costantinopoli e nell’area orientale.

Non mancano, poi, elementi che ci permettono di capire quanto lo sguardo di Teodorico si addentrasse nella sfera delle insegne del potere nella reggia imperiale di Costantinopoli.

Egli chiede con insistenza e infine ottiene gli imperiali ornamenta del palazzo che Odoacre aveva mandato a Costantinopoli. Al pari di un imperatore, indossa la porpora imperiale mentre non è certo se disponesse pure del diadema.

Ma le insegne rimangono per noi senza volto, perché, seppure fossero numerose le immagini di Teodorico, sia a mosaico che in bronzo attestate in varie città, da Roma a Napoli a Ravenna a Pavia, esse sono andate perdute, con una sola eccezione: quel ritratto inti-tolato Iustinianus, che si trova appeso sulla controfacciata di Sant’A-pollinare Nuovo, ritratto sul quale, tuttavia, pesano guasti dovuti a rimaneggiamenti di varia epoca e natura.

Lavori condotti nel 1951 hanno confermato la presenza di rima-neggiamenti antichi, tanto è vero che la parte originale si limitereb-be al volto del sovrano, mentre il diadema con pendilia, la clamide purpurea, il fondo d’oro e il nimbo apparterrebbero all’età del ve-scovo Agnello dopo il 561, mentre l’iscrizione sarebbe addirittura un restauro moderno di Felice Kibel. (fig. 10)

Nel ritratto originario mancavano tutti i segni distintivi del potere imperiale, confermando quanto sappiamo da Procopio, che Teodo-rico usò gli attributi della regalità nei confronti del suo popolo; man-tenendo invece un atteggiamento di subordinazione nei confronti del Basileus dal quale dipendeva pur sempre il proprio potere.

Ne discende allora che in ambedue i ritratti, nel più giovanile medaglione aureo come nel più tardo mosaico in Sant’Apollinare Nuovo, l’immagine di Teodorico appare variamente ma strettamen-te vincolata ad un tipo di ritrattistica che ha in Costantinopoli la sede naturale della propria elaborazione.

Fig. 10. Ritratto intitolato Iustinianus frutto di pesanti rifacimenti.Mosaico in Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna

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A Costantinopoli – preme ripeterlo – Teodorico soggiornò a lun-go durante la sua giovinezza per tutto il decennio dal 461 al 471, a stretto contatto con gli ambienti della corte imperiale. Non ci può dunque stupire che proprio Costantinopoli possa rappresentare un punto di riferimento forte e ineludibile nei confronti delle esperien-ze artistiche che vanno maturando nella Ravenna teodoriciana.

Accostamento di elementi della iconografia occidentale e di quel-la orientale, dunque: alla cui base stanno prototipi non solo costanti-nopolitani, ma anche romani e forse siriaci e alessandrini.

Maria Andaloro spinge la sua indagine fino ad Afrodisia, in Asia Minore, dove un frammento di arcangelo innesca un dialogo emo-zionante coi mosaici del Cristo e della Theotokos in trono fra gli an-geli, rispettivamente sulla parete meridionale e settentrionale della basilica palatina teodoriciana. La serie delle figure angeliche raven-nati, maltrattate ma non stravolte dai rifacimenti, ci restituisce una galleria di volti strettamente apparentati all’arcangelo di Afrodisia e ci obbliga a riguardare le scene dei troni delle mani parlanti dove ci attendono nuove rivelazioni. (fig. 11)

Gli angeli al servizio dei due troni sono otto (sei teodoriciani e due ricostruiti da Felice Kibel): in alta uniforme, forse appartenenti alla gerarchia delle Dominazioni, ciascuno col lungo scettro o bacolo da viaggio, impugnato con la mano sinistra velata.

Le Dominazioni sono una gerarchia “recente”, aggiunta da Dionigi Areopagita al tempo di Teodorico. L’etimologia del nome proviene dal latino “dominatio” facendo riferimento al loro ruolo, secondo l’angeologia cristiana, in quanto addetti al dominio del creato, ovvero a regolare l’universo di modo che esso si mantenga sempre in ordine.

Due tra gli angeli, i più vicini ai Cristo e alla Vergine assisi in tro-no, si rivolgono col gesto dell’oratore ai non presenti nella basilica per testimoniare alle altre schiere angeliche e, grazie ad esse, ai sud-diti del regno, cosa stia avvenendo nel corso di questa liturgia che non ha eguali.

Gli altri angeli di servizio ai troni, anch’essi con le mani in movi-mento (fig. 12), sono incaricati di accentuarne accenti e passaggi.

Fig. 11. Vicinanza stilistica tra Angeli.Confronto tra mosaici e pittura, Ravenna e Afrodisia.

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Le Dominazioni ricevono ordini direttamente da Dio e distribui-scono compiti per le gerarchie inferiori: sono davvero i governatori celesti.

Superfluo, probabilmente, osservare quanto dietro al dettaglio possa sempre nascondersi la vertigine: nei mosaici più importanti della basilica l’originale e attualissima allegoria “politica” degli an-geli parlanti, senz’altro assai gradita e certamente soppesata nel mo-mento della stesura musiva, con la teologia politica del re Teodorico.

Un ultimo accenno chiama in causa i maestri giunti dall’oriente a lavorare per re Teodorico i quali: inventori, aiuti, nonché il gruppo numeroso dei pratici esecutori hanno tutto amalgamato e trasformato in un proprio stile che non può essere definito se non ravennate.

Fig. 12. Angeli parlanti in Sant’Apollinare Nuovo.

I troni delle mani parlanti

Restiamo a Ravenna in Sant’Apollinare Nuovo e raccogliamoci per guardare le figure di Cristo e della Vergine in trono a riascol-tarne il suono, diciamo così, bizantino e, forse ancor meglio, ariano-costantinopolitano.

È come se partecipassimo ad una cerimonia di liturgia paraimpe-riale, presieduta dallo stesso Teodorico, che il taglio compositivo dei mosaici tende ad evocare.

E proviamo a stringere maggiormente la trama di queste sugge-stioni.

Ho già accennato alla Vergine in trono con la mano destra solleva-ta nel gesto dell’oratore e ho osservato che si tratta della prima figura femminile al mondo a rivolgersi direttamente ad una platea precisa di ascoltatori. (fig. 13)

Dono sconvolgente per tutta la cristianità quel gesto e, a ben pen-sarci, se non fosse stato un cristiano davvero “speciale” come Teodo-rico a progettarlo, l’unica Madonna conosciuta dalla mano parlante resterebbe quella glorificata a metà del dodicesimo secolo in San-ta Maria in Trastevere. Magnifica stesura senza dubbio, nella quale però Maria intreccia il suo dialogo d’amore esclusivamente col pro-prio figlio.

Vedi Scheda 3 - Principali icone mariane, p. 50.

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Dal suo trono nella basilica palatina di re Teodorico. la Madonna parla ad alta voce. Ma a chi si rivolge la Vergine2?

2 Nella basilica erano presenti altre immagini sostituite, dopo il rescritto giustinianeo del 561 che confiscava i beni della Chiesa ariana a vantaggio di quella cattolica, dai due cortei di santi martiri e sante vergini, ancora oggi visibili. Le immagini eliminate collegavano le figure maiestatiche di Cristo e della Vergine, in prossimità dell’abside, con raffigurazioni del palatium ravennate e della civitas Classis. Sono state fatte diverse ipotesi su quali fossero i soggetti “epurati” da Agnello al momento della riconsacrazione della basilica al culto cattolico e tutti gli studiosi accolgono l’idea che si trattasse di un corteo. Quale però ne fosse la natura non è chiaro: alcuni hanno pensato a processioni capeggiate rispettivamente da Teoderico e dalla sua sposa, in atto di offrire doni a Cristo e alla Vergine in trono, altri a un corteo di carattere profano e trionfalistico, capeggia-to dallo stesso Teoderico. Ultimamente Rita Zanotto ha precisato quest’ultima ipotesi, collegando la presenza delle immagini di Classe e di Ravenna con i drammatici eventi

Un fortissimo riferimento a quella orazione e ai suoi destinatari viene proposto dalla pagina che compare nel volume quinto della serie decimasettima dell’anno 1899 de “La Civiltà Cattolica”.

Un flash incomparabile per sapienza teologica ed intensità emo-zionale, che ci conduce dentro una scena fortemente dinamica, an-che a fronte delle esangui figure con le quali l’arcivescovo Agnello, a suo tempo, ebbe ad epurare la originaria assemblea teodoriciana.

“Una intera processione di sante martiri, colle corone in mano, vanno incontro a Maria Vergine nei musaici della navata gran-de di Sant’Apollinare nuovo in Ravenna. La eletta schiera di 22 sante ha con sé raccolte le celebri martiri di Roma, Eugenia, Agne-se, Emerenziana, Anastasia, Cecilia ed altre, tutte coi loro nomi. Nel ricco vestito delle nobili dame della corte bizantina esse seguo-no i tre re magi, per fare con questi l’omaggio alla divina Madre ed al suo Figliolo. Dirimpetto si svolge una simile processione di santi, segnalati per il martirio, che parimenti portano in mano le loro corone a Cristo, seduto in trono e assistito da quattro angeli. Quanto ben corrisponde il movimento di tutto questo coro di santi e di sante verso l’altare, col movimento verso lo stesso altare della serie di colonne e di archetti! Quanto espressivo (e ciò mi preme molto di più osservare), riesce in questi musaici il culto prestato alla Santa Madre di Dio; giacché Maria occupa sul trono, dove aspetta il corteggio delle sue sante, lo stesso posto che occupa di-rimpetto a lei il Salvatore in cima dei santi. E Maria, nella stessa maniera, è circondata da quattro angeli, celeste milizia che le ren-de onore, come lo rende al suo Figlio dall’altra parte della navata.

Su questa vetusta immagine di carattere in parte greco, la di-gnitosa figura della Vergine parla coll’alzata mano destra al lungo corteggio, che viene ad onorarla col suo Figlio; parla specialmente ai tre re magi, rappresentanti del mondo intero gentile, parole di

che accompagnarono la presa di potere di Teoderico su Odoacre, recuperando quindi l’idea di una grande liturgia di ringraziamento per la vittoria, legata al preciso momen-to storico. Inoltre la scritta Ego sum rex Gloriae sul codex retto da Cristo in trono (come leggibile prima dei restauri del XlX secolo) ben si riconnette al concetto della regalità di Cristo, caro sia all’arianesimo che ai suoi avversari.

Fig. 13. Madonna in trono tra gli Angeli.

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salute e di pace, e ci fa benedire in essi dal divin frutto delle sue viscere, da Gesù che tiene in grembo. L’alta dignità di Maria, così la esprimono i quattro spiriti celesti, col loro riverente contegno. Gli angeli, come nunzii celesti, che migrano dal cielo per le terre, portano lunghi bastoni; hanno i sandali sui nudi piedi e l’antico costume degno e grave, cioè di sotto la tunica lunga manicata col clavus, e di sopra il pallio con larghe e belle pieghe”.

Del Cristo in trono nella parete sud numerosi studiosi hanno os-servato la sua speciale vicinanza all’icona custodita nel monastero del Sinai ed invitato a valutare quest’ultima con fiducia, quale vivida espressione dell’arte bizantina del Vl secolo.

Personalmente giudico l’icona del Sinai non immediatamente co-stantinopolitana, quanto piuttosto di pittura greco-romana e di area alessandrina e in ogni caso indipendente e da valutare come arte “altra” ed esterna al clima figurativo della capitale. (fig. 14) Sono col-pito in particolare dall’arte greco-egizia dei ritratti nel Fayyum, che paiono meglio guidarci verso l’icona del Sinai.

Ne parleremo fra poco.

Vedi Scheda 4 - I ritratti del Fayyum, p. 64.

Per il momento merita qualcosa in più di un semplice accenno la questione del famigerato restauro riguardante la ridipintura della parte mancante del corpo del Cristo, imputato, forse troppo fretto-losamente, a Felice Kibel.

Il cuore della polemica è ben espresso da Corrado Ricci all’inter-no delle sue Tavole Storiche dei mosaici di Ravenna (XXI-XXXIII S. Apollinare Nuovo).

Nello scorcio nel secolo XVl la figura del Redentore, che troneg-gia in fondo alla parete meridionale della chiesa, era (salvo forse piccoli danni) pressoché intatta. Il Malezappi la descriveva così:

“Nel muro della nave di mezo di questo nobile tempio è Christo nella parte destra del mosaico lavorato da buon maestro et posto

Fig. 14. Cristo in trono tra gli Angeli.

a sedere con un libro in mano, nel quale sono queste parole : Ego sum Rex Gloriae, con quattro angeli appresso, vestiti di bianco in piedi, duoi dalla parte destra, et duoi dalla sinistra” 3.

“Nel secolo XVll purtroppo – scrive Flaminio da Parma – vi fu chi senza discernimento ebbe il ghiribizzo d’ivi collocare un Or-gano con notabile pregiudizio di quei musaici, ed ho usate, ma

3 Era nota alla meditazione patristica greca e latina una concezione complessa dell’avvento del Cristo: i teologi distinguevano un adventus in humilitate, che poteva essere reso dall’annunciazione o dalla nascita, da un adventus in maiestate, a cui possono corrispondere la resurrezione, l’ascensione, la visione apocalittica e il giudizio finale». Ricordiamo, per tutti, un passo di Agostino: «[Christus] opportuno tempore venit ad nos, primo humilis, postea venturus excelsus. Primo venit ante iudicem staturus; postea venturus est iudex sessurus ut ante illum stet pro merito suo genus humanum».

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inutilmente, tutte le diligenze per iscoprire l’ignorante autore del grave disordine, affine di registrarne il nome a perpetuo disonore. Ma da Religiosi di mente sana nel principio di questo secolo (XVlll) trasportato l’Organo altrove, si è scoperta dopo S. Clemente la metà di S. Martino e per provvedere al più possibile alla deformità del vacuo spazio, l’altra metà di San Martino, due Angeli e la metà dell’Immagine del Salvatore mancanti, sono state espresse con li colori con la più possibile imitazione delli Musaici...”. (fig. 15)

Chi allora dipinse la parte scomparsa del Redentore commise un singolare sbaglio: anziché il libro pose in mano alla figura una specie di scettro e, colpa anche più grave dopo la stampa del libro di Flami-nio da Parma, raccolse e ripeté lo sbaglio Felice Kibel (se non forse chi diresse il suo lavoro) traducendolo in mosaico …”4.

Dopo la morte del Sarti, Kibel si pose sulle sue orme continuando a considerare i complementi pittorici veritieri e continuando a tra-durli in mosaico.

4 Caterina Antonellini (Ravenna, Studi e ricerche lX/2 anno 2002) attraverso la documen-tazione d’archivio ha modo di ridimensionare la perentoria sentenza di Corrado Ricci nelle sue Tavole: “Il solo Kibel fu l’autore di quell’infelicissimo lavoro”. Dice la Antonellini: “Come già aveva notato Gerola, la documentazione ci permette di capire inoltre come Kibel avesse poco peso nelle decisioni sulle questioni iconografiche. Era compito del pro-fessor Ignazio Sarti, che lo affiancò nei lavori fino al 1854, risolvere queste problematiche preparando i disegni per i completamenti. Architetto e scultore di origine bolognese, giunse a Ravenna nel 1827 come professore di architettura e divenne in seguito Direttore dell’Accademia di Belle Arti ed incaricato dalla Legazione Apostolica di stendere il primo progetto di rastauro. Dal carteggio risulta infatti che fu lui a decidere che il riquadro con Le nozze di Cana era una seconda raffigurazione della Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Du-rante la redazione della perizia interpretò male l’iconografia della storia perché mancava una parte del mosaico e impose perciò un completamento che poi risultò arbitrario. Sem-pre per una sua scelta arbitraria fu eseguito anche il restauro del pannello dei Re Magi. La parte superiore era già stata completata in pittura e il restauratore dell’epoca aveva posto sulla testa dei tre personaggi delle corone. La questione sulla sulla veridicità di questo compendio in pittura ed in particolare sulla possibilità di lasciare le corone suscitò nel 1845 un dibattito tra il Sarti e il Delegato apostolico che le voleva eliminare, ma il Sarti decise di lasciare le corone perché a suo avviso essendo una pittura antica risalente al Vll secolo, facevano ormai parte della decorazione e della storia del monumento e quindi vere o false che fossero, le corone dovevano essere tradotte in mosaico.

Fig. 15. Disegno da Ciampini con sagoma dell’organo settecentescoche ha menomato la figura del Cristo, di due Angeli e di alcuni Santi nella parete

sud di Sant’Apollinare Nuovo

E veniamo infine alla icona che possiamo azzardare come “gemel-la” del Cristo teodoriciano, la straordinaria figura del Cristo conser-vata nel monastero di Santa Caterina sul monte Sinai. (fig. 16)

In quella icona, di particolare interesse sono le mani sottili, rese con poche ed essenziali linee: la destra nel gesto oratorio e l’altra che sostiene un Vangelo rilegato e impreziosito con gemme.

Ho già sostenuto che le mani dicono tutto e nel corso della nostra ri-flessione sui troni teodoriciani siamo stati quasi travolti dalla profusione di mani parlanti nella Vergine, nel Cristo e in alcuni angeli del seguito.

La stessa mano del Cristo del Sinai e di Sant’Apollinare Nuovo comparirà, tale e quale, cinque secoli dopo, nella figura del Cristo imperiale più famosa al mondo, in Santa Sofia ad Istanbul e, a segui-

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re, nelle tre grandi basiliche arabo-normanne di Cefalù, Monreale e Palermo.

Splendido è il volto sensuale, dal luminoso color avorio dove ri-saltano dei contorni scuri volti a sottolineare le ciglia degli occhi e il naso. Osserviamo anche la tonalità grigio-olivastra intorno al collo, sotto la bocca e sotto le sopracciglia e il lieve tono roseo delle labbra e delle palpebre.

Fig. 16. La stupenda icona del Cristo al Sinai nel gestodella mano parlante, “gemella” del Cristo teodoriciano a Ravenna.

Il carattere naturalistico è poi conferito anche dai baffi e dalla barba di cui si percepisce un lieve movimento e dai capelli scriminati al centro e raccolti su di un lato.

Se da una parte l’artista è stato abile nel ritrarre la natura umana del Cristo, al contempo è riuscito anche a restituire quella divina attraverso lo sguardo (osserviamo la differenza delle due pupille che conferiscono, quella a sinistra di chi guarda, il sentimento della ac-coglienza e l’altra, solennità e astrazione).

Gli occhi del Cristo non fissano lo spettatore, ma guardano lonta-no senza concentrarsi su di un punto determinato. Con questo mez-zo, l’artista raggiunge l’effetto di una presenza continua ed universa-le della persona raffigurata.

Notiamo infine che alle spalle del Cristo si intravvede una nicchia, o lo schienale di un trono, con una porzione di cielo stellato che con-feriscono spazialità alla composizione.

Data l’alta qualità dell’icona i maggiori storici dell’arte sostengono che essa sia stata realizzata nella capitale bizantina, tesi rafforzata dal fatto che questa iconografia del Cristo verrà utilizzata come effigie del “vero volto di Cristo” nelle monete imperiali a partire dal regno di Giustiniano secondo.

Tutto bene, dunque.

Ma dentro di me continua ad imporsi una insistente domanda: come mai il Cristo in Sant’Apollinare Nuovo, realizzato da Teodorico nei primi quindici anni del sesto secolo, è così vicino per fattura, se non addirittura anteriore, all’icona del Sinai? Esiste forse un prototipo comune per le due figurazioni?

O addirittura quella stessa icona, dal tratto segnatamente “impe-riale”, venne trasportata a Costantinopoli quale dono al futuro impe-ratore dal patriarca Anatolio (già patriarca di Alessandria), in vista dell’incoronazione di Zenone, prima consacrazione ecclesiastica di un imperatore romano?

E Teodorico, ostaggio ancora adolescente dell’imperatore Zenone, averla ammirata per anni nel palazzo imperiale e poi fatta copiare e una volta divenuto re, posta quale sigillo della propria regalità nella chiesa palatina a Ravenna ?

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Schededi approfondimento

E poi quella formula lapidaria: “Ego sum Rex Gloriae”, che com-pare qui per la prima volta in Occidente (spostando l’accento da quell’altra più “paterna” che Teodorico aveva visto nel mausoleo di Santa Costanza a Roma) e perfettamente coerente con l’intitolazione della sua basilica al Cristo Re?

Le mani dicono tutto… ma non hanno detta ancora l’ultima parola.

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Scheda 1

Liturgia Ariana in S. Apollinare Nuovo

La liturgia ariana è argomento arduo, data la spesso rilevata scarsità delle fonti al riguardo. Se infatti sull’aspetto dottrinale abbonda la documentazione, per la liturgia e in genere l’organizzazione ecclesiastica della comunità ariana disponiamo solo di labili indizi.

Privilegiando tuttavia le fonti monumentali, consideriamo in-nanzitutto l’eccezionale decorazione della cappella palatina, la basilica attualmente denominata S. Apollinare Nuovo ma in ori-gine dedicata in nomine Domini Nostri Iesu Christi. L’intitolazione a Cristo, con il preciso riferimento alla sua signoria, si associa ad un programma decorativo di mosaici parietali che ricoprono comple-tamente le navate, disponendosi su più registri paralleli. In quel-lo superiore si fronteggiano tredici pannelli per ciascuno dei due lati, con soggetto cristologico.

Sul lato nord vi sono rappresentazioni della vita di Cristo (13 figure sul lato nord): miracoli, ma anche scene della sua vita e illustrazioni di parabole. A partire dall’abside troviamo: le nozze di Cana, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la chiamata di Simone e Andrea, la guarigione dei due ciechi di Gerico, la scena con la donna prostrata, il colloquio con la samaritana, la risurrezione di Lazzaro, la raffigurazione della parabola del fariseo e del pubblicano, l’elemosina della vedova povera, la rappresentazione di Cristo giudice finale, la guarigione del paralitico di Cafarnao, seguita da quella dell’indemoniato geraseno, infine quella del paralitico di Betsaida.

Sul lato sud (13 figure) invece, sono rappresentate scene della passione e risurrezione di Cristo: partendo nuovamente dall’abside troviamo: l’Ultima Cena, la preghiera nel Getsemani, la cattura di Cristo, Gesù davanti al sinedrio, il rinnegamento di Pietro seguito dall’annuncio di esso, il pentimento di Giuda, Gesù condannato

da Pilato, la salita di Gesù al Calvario, l’annuncio della risurrezione alle Marie al sepolcro, i discepoli di Emmaus e l’apparizione del Risorto a Tommaso e ai dodici.

Si comprende che gli studiosi abbiano sempre pensato ad una scelta dettata da precise motivazioni, liturgiche o dogmatiche. (…)

Ritengo difficile non concordare con l’ipotesi che la scelta dei soggetti del ciclo cristologico sia derivata da una esegesi di impronta ariana, la cui chiave di lettura più significativa sta tuttavia nell’ordine dispositivo di queste scene, che almeno nella parete Nord non è certamente cronologico. La stessa spiegazione di tipo didascalico-morale sarebbe insufficiente a spiegare, ad esempio, la scelta di rappresentare due miracoli molto simili (le guarigioni di paralitici). Si deve quindi tornare a pensare che alla base di tale successione ci sia piuttosto un ordine liturgico. Nella basilica, eretta in funzione di Teoderico e della sua corte, dove il culto praticato era ariano, molto probabilmente si leggevano in tale successione nel corso dell’anno le pericopi evangeliche qui illustrate. Ciò non esclude, ma al contrario implica, che esse fossero scelte in funzione della precipua interpretazione dogmatica relativa alla ipostasi del Figlio; allo stesso modo i mosaici del ciclo della Passione sul lato sud rispecchiano molto probabilmente la sequenza delle letture nel periodo pasquale.

Un’ulteriore possibilità per riconoscere una specificità ariana nel ciclo musivo teodericiano è stata individuata nel primo pannello del lato sud, quello con l’immagine dell’Ultima Cena. Attorno ad una mensa “a sigma”, che rispecchia una tipologia attestata archeologicamente per l’età contemporanea alla basilica, si dispongono Gesù e gli Apostoli. Il piatto della cena pasquale contiene il pane unito ai pesci, che può considerarsi il simbolo eucaristico paleocristiano. L’assenza dell’agnello ha richiamato l’attenzione di alcuni studiosi, che l’hanno interpretata come testimonianza dell’uso della “cena pura”, ovvero senza carne, praticata dagli Ebioniti e da essi forse trasmessa ai Goti ariani.

R.Z.

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S. Apollinare NuovoLato nord

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S. Apollinare NuovoLato sud

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Scheda 2

Il Codex Argenteus

Il Codex Argenteus (letteralmente il libro d’argento) è il più prezioso tesoro librario della Svezia e uno dei più preziosi manoscritti del mondo.

È una testimonianza dei quattro Vangeli in lingua gotica.

La traduzione dei Vangeli dal greco al gotico fu realizzata nel lV secolo ad opera del vescovo gotico Wulfila, che fu anche il vero responsabile dell’invenzione dell’alfabeto gotico.

Gli archi alla base di ciascun foglio incorniciano passi paralleli del testo sovrastante.

Il codice fu redatto come libro destinato a diventare oggetto di lusso, forse per lo stesso Teodorico. In origine probabilmente era racchiuso in una preziosa coperta decorata con perle e pietre preziose.

Il Codex Argenteus nella sala del museo, Codex Argenteus, f.167(Luca 17:10-25) fotografia biblioteca universitaria Uppsala.

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Il testo del manoscritto è uno dei più antichi e completi documenti in gotico, tramandati alla posterità.

Probabilmente il Codex Argenteus fu redatto a Ravenna durante la dominazione ostrogota e nel corso del regno di Teodorico il Grande, all’inizio del Vl secolo.

Fu scritto su una pergamena sottile di altissima qualità, con inchiostro d’oro e d’argento.

Da un altro manoscritto proveniente da Ravenna (Orosio: Adversus paganos, ora presso la biblioteca Laurenziana di Firenze) si riporta una nota circa lo scriba: “Confectus codex in statione magistri Viliaric antiquarii” che significa “Questo libro è stato prodotto nel laboratorio del maestro scriba Viliaric”.

Wiljarith è un nome gotico di cui Viliaric è una forma latinizzata, alternativa allo stesso nome. Si tratta di uno scriba goto a Ravenna nella prima metà del sesto secolo, con il proprio e ben equipaggiato laboratorio, in servizio – assieme ai sacerdoti – presso la cattedrale di Santa Anastasia ( o nella basilica palatina di Teodorico). La connessione tra il maestro Wiljarith ed il Codex Argenteus è una tentazione troppo forte per poter essere celata: è possibile che l’autore dello splendido Codex sia proprio “Wiljarith bokareis” “Wiliaric, lo scriba”.

L.M.

Scheda 3

Principali icone mariane

Icona, dal greco eikon, immagine, designa una pittura sacra eseguita su pannello di legno con una tecnica particolare tra-mandata da secoli. Le più antiche sono eseguite a encausto: se-condo questa tecnica i colori sono legati con della cera e stesi con ferro rovente. Alcune sono eseguite in mosaico: in mag-gioranza sono pitture a tempera: i colori sono amalgamati non con olio ma con giallo d’uovo preparato con aceto o, in Russia, con una specie di birra, il kvas. La tavola di legno è accurata-mente scelta tra legni non resinosi e diversi secondo le regioni d’origine, e preparata sui due lati. La parte riservata a ricevere la pittura viene leggermente incavata per ottenere sui bordi una specie di cornice naturale. Alcune tavole sono dipinte sui due lati e servono per lo più a essere portate in processione. Nel corso dei secoli molte icone sono state ricoperte di una ric-ca ornamentazione metallica, chiamata riza dai russi, che copri-va tutto il dipinto, tranne il viso e le mani della figura rappre-sentata. Da notare, però, che l’icona è preziosa prima di tutto per la pittura e non per gli oggetti preziosi che la ricoprono.

Maria nelle icone

Le icone mariane sono le più numerose dell’iconografia e anche quelle più amate dai fedeli. La Madonna vi è raffigura-ta il più delle volte in busto, ma talvolta anche a pieno corpo seduta o in piedi. È dipinta obbligatoriamente su fondo oro, simbolo del cielo dove essa si trova. Regge sempre il divin Fi-glio seduto in grembo o appoggiato sul braccio sinistro, talvol-ta anche destro. Il bambino e tale per la statura, ma ha i tratti di un adulto: veste abiti coperti di striature d’oro: questa messa in scena apparentemente inconsueta vuole suggerire che egli è l’Emmanuele, Figlio di Dio e Dio egli stesso. Maria e, così,

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designata come «Madre di Dio», e la sua maternità divina è significata dai due digrammi posti ai due lati del suo capo: MP ΘY, abbreviazione per Meter Theou. Ossia Madre di Dio. Secondo la tradizione antica le icone mariane riproducono un ritrat-to originale di Maria dipinto dall’evangelista Luca. Il ritratto, fatto dopo la Pentecoste, mentre Maria viveva ancora a Geru-salemme, sarebbe stato portato a Costantinopoli nel corso del secolo quinto, e posto nel santuario mariano dell’Odigitria, da cui prenderà il nome. Ciò spiega che molte icone mariane sia-no venerate come Madonna di san Luca, Madonna Greca, Madon-na di Costantinopoli, Madonna Odigitria. Quest’ultimo vocabolo, molto diffuso in Italia, è anche abbreviato in «Itria».

Le icone mariane si dividono in gruppi, comunemente chia-mati tipi. Il tipo più diffuso è naturalmente quello dell’Odigi-tria. Nel corso dei secoli vi sono stati apportati alcuni cambia-menti più o meno grandi, ma facilmente riconoscibili. Ogni tipo porta un nome che lo distingue dagli altri e che viene iscrit-to in lettere vistose in corrispondenza del capo della Madonna. I principali tipi per ordine di importanza e di diffusione sono:

Il tipo ieratico dell’Odigitria

La Madonna Odigitria è tra le icone più celebri della Madre di Dio, venerata tanto in Oriente quanto in Occidente. Il nome le viene dal santuario mariano di Costantinopoli dove l’immagine era custodita, quello detto «degli odigoi». o delle guide, dal nome dei monaci custodi del santuario che facevano da guide ai frequentatori del santuario, in maggioranza ciechi, venuti a chiedere la guarigione alla Madonna. Col tempo il nome fu dato alla stessa Madre di Dio e alla sua icona che, usato nella forma femminile di «Odigitria», divenne un nome proprio. Ciò che aggiungeva lustro all’immagine era la sua fama di essere un ritratto fatto dal vivo a Gerusalemme dall’evangelista Luca mentre la Madonna era ancora in vita. L’icona originale dell’Odigitria è stata definitivamente distrutta

dai Turchi nel 1453 quando la città di Costantinopoli fu da loro occupata. Di essa sono rimaste numerose repliche fatte in diverse epoche e venerate in molte chiese dell’Oriente e dell’Occidente. I diversi paesi dell’Occidente cristiano venerano in diversi modi e con diversi titoli le immagini dell’Odigitria conservate in musei, chiese, santuari: così nella Francia, nella Germania, nella Spagna, nei Paesi Bassi, nella Polonia e, soprattutto, in Italia e a Roma. L’Italia e Roma ne possiedono una serie infinita, per la vicinanza delle coste italiane alla Grecia e alla stessa Costantinopoli, e per le molte vicende storiche che ne hanno fatto una terra di rifugio, oltre che di scambi e di commerci. Alcune di queste icone pretendono addirittura di essere lo stesso originale dell’Odigitria, pervenuto in Italia o durante l’iconoclastia (VIII-IX secolo), o ai tempi della Quarta Crociata (1204) e dell’occupazione latina di Costantinopoli, o alla caduta della capitale dell’impero bizantino in mano ai Turchi nel 1453. Da notare che l’arte italiana è rimasta fedele al tipo per lunghi secoli, come si può notare in molte Madonne presenti a Firenze, a Napoli. nella Sicilia e a Venezia e risalenti ai secoli XII-XIV.

Il tipo affettuoso dell’Eleousa

In questo tipo viene abbandonata la rigidità di atteggiamento propria dell’Odigitria, nella quale non v’è posto per i sentimenti umani, per lasciare il posto a uno scambio di affetti fra Madre e Bambino. Nel tipo, infatti, sono stati introdotti alcuni cambiamenti più o meno vistosi: le guance del bambino e della Madre si avvicinano fino a toccarsi. le due figure si scambiano bacio e carezze, la Madre tiene tra le sue la mano del Bambino, questi infine spinge l’affetto sino a cingere il collo della Madre col braccio. Il termine greco «Eleousa» designa, appunto, l’atteggiamento amoroso tra Madre e Figlio, volto a provocare la pietà (dal greco eleos) e la misericordia del Figlio verso i fedeli.

Il tipo mette, quindi, in rilievo l’affetto che lega Ma-dre e Figlio in vista del bene da elargire ai fedeli: insiste,

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inoltre, sulla umanità del Figlio, in contrasto con il tipo dell’Odigitria, ove l’accento è messo sulla divinità di lui. Il tipo riflette, infine, un cambiamento di atteggiamen-to nella stessa devozione mariana della Chiesa e dei fedeli. Esistono diverse varianti dell’Eleousa: in esse si ritrovano i tratti distintivi del tipo, ma con alcune modifiche nei gesti della Madonna, del Bambino o di entrambi e nell’espressio-ne affettiva: il Bambino inizia a presentare movimenti del cor-po. si agita, accarezza con la mano la guancia della Madre, e questa cerca di calmarlo, di trattenerlo, di consolarlo, ecc. Il nome stesso di Eleousa e attestato in epoca relativamente tarda e sembra dall’inizio legato a due chiese mariane di Costanti-nopoli che portano questo nome e che risalgono ai secoli XI e XII. La più recente fu costruita dall’imperatore Giovanni II Comneno (1118-1143) nel palazzo imperiale, non lonta-no dalla cappella funebre gentilizia dedicata a San Michele. È noto che durante il regno dei Comneni, l’Odigitria veniva trasferita in processione ogni venerdì nella chiesa dell’Eleou-sa per una solenne cerimonia. Documenti figurativi di questa processione attestano la presenza di una icona di questo tipo nel XII secolo e, quindi, in epoca non lontana nella quale la famosa icona della Madonna di Vladimir lasciò la capitale bi-zantina per Kiev e ciò tra il 1130 e il 1135. Questa era l’ico-na originale o una copia? Niente permette di rispondere. In ogni modo, da allora si perdono le tracce del prototipo co-stantinopolitano di cui si può seguire le tracce solo attraver-so le numerose repliche esistenti in tutto il mondo cristiano. La più antica raffigurazione della Madonna del tipo Eleousa a noi pervenuta e che può essere considerata come precursore, è attestata in un avorio del secolo VIII-lX. proveniente dall’Egit-to e conservato oggi nella «Walters Art Gallery» di Baltimora. I1 prototipo originale dell’Eleousa non ha lasciato tracce, ma molte repliche ne sono state fatte nel corso dei secoli, che si trovano disperse e venerate in tutti gli angoli della cristianità

di Oriente e di Occidente. Esse si trovano su mosaici, affre-schi, monete, stemmi e, naturalmente, icone. I1 tipo esiste con maggiore frequenza a mezzo busto, ma altre raffigurazioni ri-producono la Madonna a piena figura, in piedi o seduta. Da notare che l’iscrizione «Eleousa» si trova di rado sulle icone di questo tipo, che portano in cambio altri nomi, vocaboli maria-ni e nomi di luoghi d’origine o di venerazione. Due repliche meritano una menzione speciale: quella detta Madonna di Via-dimir, diventata il palladio della Chiesa russa, e quella detta Madonna Damascena, venerata alla Valletta nell’isola di Malta.

Il tipo umano dell’Allattante

Il tipo dell’Allattante (in greco Galaktotrophousa). è una raf-figurazione mariana che ha conosciuto grande diffusione nel corso dei secoli. Il tipo, già attestato nelle catacombe e in Egit-to, è conosciuto in Occidente col nome di Maria Lactans. Ma-donna del latte. Madonna Allattante. In questo tipo Maria reg-ge sul petto il bambino in genere sul braccio sinistro, mentre con la mano destra gli porge il seno scoperto. Il tipo si ispira direttamente all’episodio evangelico riferito da Luca. il quale mette in bocca a una donna del popolo il grido di ammirazio-ne: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!, (Lc 11,27). L’omaggio indirizzato in primo luogo a Gesù, lo è indirettamente alla Madre. Per questo il brano è sta-to recepito dalla Chiesa che lo legge in tutte le feste di Maria.

I testi patristici e liturgici si fermano spesso sull’episodio, vedendo nella funzione materna dell’allattamento il segno tangibile della realtà dell’incarnazione. San Giovanni Dama-sceno (t749), l’ultimo grande Padre della Chiesa greca, così esclama: «Sei divenuta, in realtà, più preziosa di ogni creatura. Da te sola il Creatore ha ricevuto in eredità le primizie della nostra na-tura; la sua carne dalla tua carne. il sangue dal tuo sangue: Dio ha succhiato il latte dalle tue mammelle, e le tue labbra hanno toc-cato le labbra di Dio. Meraviglie inafferrabili e inesprimibili!».

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Il tipo della Madonna Orante

Il tipo iconografico della Madonna Orante è molto antico e si ritrova già nelle più antiche raffigurazioni delle catacombe. In esso Maria è raffigurata in busto o in piedi le braccia protese verso l’alto nel gesto della supplica rivolta verso la persona invisibile del Figlio. Il tipo esprime visibilmente il tema dell’intercessione mariana per i fedeli e per la Chiesa. Inoltre, essendo Maria considerata come simbolo e Madre della Chiesa, ciò dà al tema una profondità tutta particolare e attuale.

Il tipo della Kyriotissa o «regina»

Può anche denominarsi «Dominatrice del mondo». Il tipo raffigura la Madonna seduta in trono, in abito di Basilissa. o «imperatrice». Questo tipo trionfale, già abbozzato nelle catacombe nella scena dell’adorazione dei Magi, si è imposto dopo il concilio di Efeso del 431. A partire dall’epoca di Giustiniano I (527-565) lo vediamo risplendere a Parenzo, a Santa Sofia di Costantinopoli. a Ravenna, a San Demetrio di Salonicco, ecc. Dopo le lotte iconoclaste il tipo torna in auge e alla Madonna in trono è riservato il posto d’onore nel catino delle absidi centrali delle chiese.

La Theotókos è raffigurata vestita di porpora, assisa da sovrana, con tutti gli onori che sono dovuti a una Basilissa. Il Bambino le è seduto in grembo, e ha la destra alzata in segno di benedizione. La Madonna si presenta Cosi «trono della Sapienza». La solennità è resa dalla staticità frontale di Madre e Figlio, sullo stesso asse verticale. Questa grandiosa visione è stata spesso cantata dai Padri della Chiesa e dai testi liturgici. Tra le icone del secolo VI raffiguranti Maria Regina, ne esistono solo due pervenute in buono stato di conservazione.

La prima si trova nel monastero del monte Sinai, e rappresenta Maria con in grembo il bambino, seduta su un trono gemmato, circondata dagli arcangeli Gabriele e Michele,

e dai martiri Giorgio e Teodoro. La seconda, chiamata Madonna della Clemenza, proviene dalla basilica romana di Santa Maria in Trastevere: Maria vi appare vestita da Basilissa, seduta su un trono gemmato, circondata da due angeli che le fanno da guardia. In ambedue le raffigurazioni Maria e rappresentata come Regina degli angeli e dei santi.

G.G.

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Scheda 4

I ritratti di Al Fayyum

Di fondamentale importanza per comprendere l’origine sti-listica delle prime icone bizantine sono anche i ritratti di mum-mie, diffusi in Egitto a partire dal primo secolo dopo Cristo i cui esemplari più noti sono quelli rinvenuti nel Fayyum.

Si tratta di tavolette di legno su cui si realizzavano ritratti dei defunti con una incredibile attenzione per i dettagli fisiono-mici e che poi si ponevano sulle mummie; la tecnica di realiz-zazione a partire dal quarto secolo dopo Cristo fu soprattutto l’encausto e lo stile riprendeva quello della pittura ellenistico-romana.

Ciò che sorprende in questi ritratti è l’estrema cura per i dettagli, ma un altro elemento che cattura l’osservatore sono i grandi e profondi occhi che riflettono un senso di tranquillità e pace interiore.

Come questi, per esempio: il ritratto di una ragazza vestita con una elegante tunica rossa e una corona di foglie d’oro.

Il suo nome è Eirene.Quello di una donna (Alina è il nome che compare nell’i-

scrizione) con i capelli ricci, il viso grassoccio e l’aria di una casalinga vestita a festa.

O quello di un giovane in tunica bianca che conserva ancora l’espressione timida di un adolescente.

Oppure quello di un uomo più maturo, che fissa davanti a sé qualcosa che non riusciamo a vedere.

Nessuno sfondo, nessuna ambientazione, nessun detta-glio; solo volti dai grandi occhi spalancati. Se non fosse per l’abbigliamento, potrebbero essere dignitosi ritratti borghesi dell’Ottocento.

Invece no: sono pitture vecchie di quasi duemila anni. L’e-poca a cui risalgono si pone addirittura tra il primo secolo avanti e il terzo dopo Cristo.

Al tempo della dominazione romana, in Egitto, nella lussu-reggiante oasi del Fayyum o lungo la valle del Nilo, i funzionari venuti da Roma vivevano insieme ai discendenti dei coloni mi-litari greci e alle popolazioni locali.

Roma, la capitale dell’impero, era lontana e in quei territori di mercanti e di commerci si mescolavano abitudini di vita e credenze religiose.

Nella speranza di assicurarsi una vita ultraterrena, i più ave-vano adottato i complessi rituali funerari egizi: primo fra tutti, l’imbalsamazione dei corpi.

I ritratti non erano nati per essere esposti, né tanto meno come opere d’arte a sé stanti. Facevano parte invece dei rituali funebri e servivano a ricoprire e identificare i volti dei defunti. Tanto che, a volte, erano accompagnati da iscrizioni che spe-cificavano il nome e l’età, in modo analogo a quello delle foto che ornano le tombe dei nostri cimiteri.

E come le attuali, anche quelle erano in grado di raccontare la loro storia.

I personaggi ritratti sono, per lo più, giovani. L’età media sembra collocarsi tra i trenta e i quaranta anni, a conferma di un mondo in cui l’aspettativa di vita era brevissima e la morte un fatto quotidiano.

Dipinti probabilmente da pittori di scuola alessandrina, a tempera o con la tecnica dell’encausto, coi colori disciolti nella cera calda, restituiscono con estrema immediatezza e con una intensità sconvolgente le fattezze di quegli uomini e donne di un passato lontano.

Nessuna idealizzazione: tutti sono realizzati con grande ac-curatezza, dalla struttura del viso, al colore della pelle, ai pic-coli difetti fisici. E ognuno è caratterizzato con una propria espressione: ora severa, ora smarrita, ora stupita o malinconica.

Diverse sono le etnie: dai greci, ai romani, agli egiziani, come differenti sono le estrazioni sociali. Non solo aristocratici, ma gente comune, mercanti, insegnanti, funzionari, militari,

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adolescenti e addirittura bambini. Comunque tutti di famiglie abbastanza facoltose da potersi permettere i costosissimi riti di mummificazione.

L’abbigliamento varia a seconda della data di esecuzione, ma riprendono sempre, pure nel ritardo della provincia, le tendenze di moda a Roma, tanto che si ha l’impressione che molti ci tengano a mostrarsi nelle loro vesti migliori, come que-sta bruna matrona, Isidora è il suo nome, fiera di sfoggiare non solo una elaborata acconciatura e preziosi gioielli d’oro e pie-tre preziose, ma anche una raffinata tunica rosso scuro.

Ma c’è ancora una sensazione più indefinita che colpisce e che scopriamo in quegli sguardi indecifrabili e persi in un pun-to lontano. Sembra che tutte le persone ritratte abbiano l’aria di conoscere qualcosa che noi non sappiamo e siano accomu-nate dallo stesso segreto. Quello che commuove è l’impressio-ne che la pittura le abbia fermate nel momento struggente nel quale stanno per varcare la soglia del mistero.

G. e G.M.

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ABSTRACT

That speaking Hand

The present essay is essentially an short summary of the religious meaning attributed to Teodorico concerning his favourite Church in Ravenna. In St. Apollinare Nuovo, in fact, we can see two iconographic surprises, difficult, indeed, to be resolved.

The first one concerns the face of Christ in throne, which appears as the same in the monastery of St. Catherine situated in the Sinai mountain; “the image, Chiara Frugoni asserts, where the famous gesture of the three Christ’s fingers can be used not only to bless but also, simply, to speak. Otherwise, if connected with different personalities or different places it can mean to legislate, to be in power…”.

The second surprise concerns the image of Virgin Mary in the throne with the gesture of “the speaking hand”, the first time in the world. But the question which arises could be “Who is Virgin Mary speaking to?” and why was necessary to wait for five centuries of Christian eras before Her, Christ’ Mother, was permitted to use the gesture of the “Speaking hand”?

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SOPHIACollana di Arte - Letteratura - Scienza - Storia

Diretta da Michelangelo La Luna, University of Rhode Island, USA

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• SUPPLEMENTI

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