Gerardi, Michele Winterreise

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1 Michele Girardi Un viaggio verso l’eternità Note sulla Winterreise di Schubert Oltre ad aver scritto numerose opere nel campo del teatro in musica, Franz Schubert fu sinfonista e camerista di primissimo livello, e dunque Musicista a tutto tondo, ma deve soprattutto al Lied la sua fama. Non è difficile comprendere le ragioni che gliel’hanno meritatamente tributata: senza nulla togliere alla foltissima schiera di compositori, da Mozart a Mahler, da Schumann a Berg, che hanno dato a questo genere fior di capolavori, Schubert riuscì a stabilire un rapporto musicale con il testo poetico dove l’interazione reciproca s’invera sin nel minimo particolare: ne deriva un equilibrio perfetto fra le due componenti. Certo, i pianisti accompagnatori potranno pur trarre maggior piacere da cicli di Lieder come la Dichterliebe di Schumann, dove hanno occasioni maggiori di brillare, ma per chi recepisce l’opera nel suo complesso poche composizioni uguagliano il piacere all’ascolto della Winterreise, il Viaggio d’inverno di Schubert, neppure il suo splendido Schwanengesang, ciclo compreso tra le ultimissime creazioni tanto ch’è rimasto incompiuto e battezzato, postumo, come Canto del cigno, che pure poggia su alcune tra le poesie più belle che ebbe per le mani (si pensi ai capolavori di Heine Der Atlas, piuttosto che a Die Stadt, fino al Doppelgänger). Il viaggio d’inverno non è opera di uno scrittore del livello di Goethe o Heine, Rückert o Schiller, ma dell’intellettuale progressista Wilhelm Müller, poeta mai divenuto realmente famoso, che tuttavia si muoveva nei circoli letterari più prestigiosi della Prussia d’allora e scambiava le proprie opinioni estetiche con la Brentano piuttosto che con Tieck. La sua memoria sarebbe cancellata, ai tempi d’oggi, se all’interno dei Waldhornisten, raccolta pubblicata nel 1824, le due sezioni intitolate Die Schöne Müllerin e Winterreise non avessero ispirato a Schubert altrettanti cicli musicali di ventiquattro poesie ciascuno. Tuttavia scordarlo sarebbe stato ingiusto anche a prescindere dalla musica, visto che le sue poesie, se non raggiungono vette sublimi, propongono tuttavia, nel loro insieme, un percorso assai coerente e rifinito nelle metafore, intriso di tratti pessimistici che andarono a toccare in profondità l’animo del compositore. Stupiscono alcune coincidenze biografiche tra poeta e musicista, entrambi morti giovani, e a distanza d’un anno l’uno dall’altro. Quando decise di musicare la Winterreise, nella primavera del 1827, Schubert stava entrando nell’ultimo anno di vita, mentre Müller periva tragicamente: lo stato d’animo del compositore, quasi presago della fine imminente e segnato nel fisico dall’incedere implacabile della sifilide, era perfettamente rappresentato da queste poesie, in cui aleggia la morte dietro ad ogni parola. *** Sarà concesso a uno studioso di opera qual è il sottoscritto, che scrive al di fuori del suo campo di specializzazione e pure conosce e ama il Viaggio d’inverno sin da quando ha intelletto e cuore, di non proporre al lettore una guida all’ascolto di foggia convenzionale, ma di raccontare quel che Schubert narra, e che passa direttamente al cuore dell’ascoltatore ben al di là della lingua in cui è scritto. E dunque: quel che più colpisce è la coerenza del racconto. Nel flusso delle ventiquattro poesie sonore, l’io narrante, giovane e artista, attraversa, da Wanderer (viandante), un’infinità di paesaggi e altrettanti stati d’animo che ruotano intorno a un’ossessione: farsi respingere da uomini e cose, per trarre da ogni sconfitta consapevolezza dell’inanità di ogni umano agire,

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Michele Girardi

Un viaggio verso l’eternità

Note sulla Winterreise di Schubert Oltre ad aver scritto numerose opere nel campo del teatro in musica, Franz Schubert fu sinfonista e camerista di primissimo livello, e dunque Musicista a tutto tondo, ma deve soprattutto al Lied la sua fama. Non è difficile comprendere le ragioni che gliel’hanno meritatamente tributata: senza nulla togliere alla foltissima schiera di compositori, da Mozart a Mahler, da Schumann a Berg, che hanno dato a questo genere fior di capolavori, Schubert riuscì a stabilire un rapporto musicale con il testo poetico dove l’interazione reciproca s’invera sin nel minimo particolare: ne deriva un equilibrio perfetto fra le due componenti. Certo, i pianisti accompagnatori potranno pur trarre maggior piacere da cicli di Lieder come la Dichterliebe di Schumann, dove hanno occasioni maggiori di brillare, ma per chi recepisce l’opera nel suo complesso poche composizioni uguagliano il piacere all’ascolto della Winterreise, il Viaggio d’inverno di Schubert, neppure il suo splendido Schwanengesang, ciclo compreso tra le ultimissime creazioni – tanto ch’è rimasto incompiuto e battezzato, postumo, come Canto del cigno, – che pure poggia su alcune tra le poesie più belle che ebbe per le mani (si pensi ai capolavori di Heine Der Atlas, piuttosto che a Die Stadt, fino al Doppelgänger). Il viaggio d’inverno non è opera di uno scrittore del livello di Goethe o Heine, Rückert o Schiller, ma dell’intellettuale progressista Wilhelm Müller, poeta mai divenuto realmente famoso, che tuttavia si muoveva nei circoli letterari più prestigiosi della Prussia d’allora e scambiava le proprie opinioni estetiche con la Brentano piuttosto che con Tieck. La sua memoria sarebbe cancellata, ai tempi d’oggi, se all’interno dei Waldhornisten, raccolta pubblicata nel 1824, le due sezioni intitolate Die Schöne Müllerin e Winterreise non avessero ispirato a Schubert altrettanti cicli musicali di ventiquattro poesie ciascuno. Tuttavia scordarlo sarebbe stato ingiusto anche a prescindere dalla musica, visto che le sue poesie, se non raggiungono vette sublimi, propongono tuttavia, nel loro insieme, un percorso assai coerente e rifinito nelle metafore, intriso di tratti pessimistici che andarono a toccare in profondità l’animo del compositore. Stupiscono alcune coincidenze biografiche tra poeta e musicista, entrambi morti giovani, e a distanza d’un anno l’uno dall’altro. Quando decise di musicare la Winterreise, nella primavera del 1827, Schubert stava entrando nell’ultimo anno di vita, mentre Müller periva tragicamente: lo stato d’animo del compositore, quasi presago della fine imminente e segnato nel fisico dall’incedere implacabile della sifilide, era perfettamente rappresentato da queste poesie, in cui aleggia la morte dietro ad ogni parola. *** Sarà concesso a uno studioso di opera qual è il sottoscritto, che scrive al di fuori del suo campo di specializzazione e pure conosce e ama il Viaggio d’inverno sin da quando ha intelletto e cuore, di non proporre al lettore una guida all’ascolto di foggia convenzionale, ma di raccontare quel che Schubert narra, e che passa direttamente al cuore dell’ascoltatore ben al di là della lingua in cui è scritto. E dunque: quel che più colpisce è la coerenza del racconto. Nel flusso delle ventiquattro poesie sonore, l’io narrante, giovane e artista, attraversa, da Wanderer (viandante), un’infinità di paesaggi e altrettanti stati d’animo che ruotano intorno a un’ossessione: farsi respingere da uomini e cose, per trarre da ogni sconfitta consapevolezza dell’inanità di ogni umano agire,

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opposto invano a una forza distruttrice. Tutto ciò viene espresso da metafore sonore, come idee fisse: il modo maggiore – i rapporti tonali variano a seconda se l’interprete è una voce acuta di soprano o tenore (Singstimme) o una voce grave di contralto o baritono (Hohestimme) – viene impiegato da Schubert con gelida ironia nei momenti più drammatici, mentre i metri poetici ostinati mimano l’incedere incessante del viaggiatore, che affonda i piedi nella neve e nel gelo, o le melodie più liriche ne esprimono il volo dell’illusione, che cozza contro la realtà. La ricerca del viandante parte dall’abbandono volontario di ogni sicurezza, per cercare una mèta impossibile e, passo dopo passo, s’addentra nell’ignoto. Lo si vede sin dall’inizio, dove la forma strofica, la più popolare tra le forme poetiche, viene riempita di un nuovo significato: l’ineluttabilità del viaggio per l’anima inquieta. Gute nacht (n. 1) è una Buona notte particolare, perché il giovane che parte lascia una fidanzata, promessagli in matrimonio, in nome dell’«amore che ama girovagare». Egli s’addentra in un paesaggio invernale, e il suo cammino viene scandito da un ritmo implacabile e nel modo minore per tre strofe (in maggiore i ritornelli), sino a che non scrive il suo addio sulla porta dell’amata, passando «in punta dei piedi» davanti all’uscio: l’improvviso passaggio alla tonalità maggiore porta una soluzione di continuità, che suona come un istante di ironia dolorosa. Nelle tappe successive i versi mettono in relazione l’inverno, inteso come un’eterna stagione dello spirito che soffre, con i luoghi di una felicità perduta, forse perché impossibile da raggiungere. Così La Bandueruola (Die Wetterfahne, n. 2), simboleggia l’instabilità del sentimento, scossa dal vento sospinto nelle orecchie dalle terzine del pianoforte che salgono e scendono. Il movimento si arresta poi, per fissarsi sulle Lagrime di ghiaccio (Gefrorene Tränen, n. 3), dove si condensa la manifestazione esterna del dolore ch’è più tiepida di quello che arde nell’animo. Ed è ancora il gelo dell’inverno che impedisce al viandante di trovare il conforto di prati e ruscelli dove passeggiava con l’amante in primavera.. Ora lì Il congelamento (Erstarrung, n. 4) ha ghiacciato ogni sentimento, che ribolle ancora dietro la spessa coltre, in un afflato musicale tra i più indimenticabili. Dopo tanto dolore viene una pausa lirica: il pianoforte si distende in arpeggi rassicuranti, e una melodia di filastrocca dipinge Il Tiglio (Der Lindenbaum, n. 5), ch’è quasi memoria di un’adolescenza serena, ed emblema della sicurezza in un domani che non c’è più. Ma il viandante ha solo la strada davanti a sé, e dentro di sé il richiamo affascinante dell’albero a trovare la pace («Hier find’s du deine Ruh’!») dove altre volte si era fermato: ma le sue chiome sono spazzate dal gelo, e il richiamo evoca la morte. Le lagrime che prima erano troppo tiepide per non ghiacciarsi, ora sciolgono la neve come flutti d’acqua (Wasserflut, n. 6) e tracciano la via scorrendo sino al ruscello, e con lui verso il paese, dov’è la casa dell’amata. Una malìa sonora tecnicamente fatta di nulla: basta una semplice cadenza I-V-I incastonata in una battuta a trascinare la voce in un mondo di ricordi che bruciano l’anima. Nel paesaggio successivo il viandante è sul fiume (Auf dem Flusse, n. 7) a contemplarne il silenzio invernale. Una lastra di ghiaccio ne ricopre la superficie, ma sotto l’acqua scorre: per quattro quartine la voce declama una melodia puntata, ma quando il viaggiatore descrive il suo animo che arde sotto la coltre gelata la melodia nell’ultima strofa passa alla tastiera nel registro grave. Basta questo semplice avvicendamento tra voce e strumento, e tra registro acuto e grave, a spalancare gli abissi dell’interiorità. Ancora cammino e sofferenza inducono il viandante a uno sguardo al passato (Rückblick, n. 8), verso la città che lo aveva accolto in un mondo di affetti, e che ora lo respinge. Anche qui stupisce la naturalezza della metafora sonora: una battuta scandisce il passo, affrettato e ansioso, salendo nel grave dalla tonica alla dominante, dove il movimento precipitoso si blocca e diventa statico, grazie alle ottave ribattute. Il fuoco fatuo (Irrlicht, n. 9) fa poi intravedere all’artista in cammino i luoghi più aspri della natura

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come mète: balena davanti alle nostre orecchie grazie a un movimento per quinte e quarte che scende al grave, una sosta successiva alla dominante, dove brillano terzine ribattute, e il guizzo conclusivo che risale alla tonica, come un motto che fissa per qualche istante il bagliore di ogni illusione. Inutile resistere: la strada per lasciare le rupi selvagge sono i canaloni dove scorrono i corsi d’acqua che finiscono nel mare, come ogni dolore finirà nella sua tomba («Jedes Leiden auch sein Grab [gewinnen]»). Ma se il continuo girovagare in luoghi selvaggi tra le bufere impone una sosta (Rast, n. 10), è proprio quando le membra del viandante si distendono che le ferite dell’animo bruciano più che mai. Se tra le abilità del narratore in musica sta l’uso sapiente del contrasto, il sogno di primavera (Frühlingstraum, n. 11) ne è la più perfetta dimostrazione. Qui il sogno è l’unica possibile materializzazione delle illusioni, che passa per la dolcezza di una melodia trepidante in tonalità maggiore, intrisa degli echi del canto degli uccellini. Ma il risveglio vi contrappone l’amara realtà del quotidiano: canta il gallo e fa freddo, la voce si raggruma sugli accordi secchi, tramonta ogni lirismo in pochi istanti. Quando il viandante chiude per l’ultima volta gli occhi, il cuore si apre alla speranza, ma la melodia perde la continuità iniziale del flusso – così come si spezzano le illusioni dell’animo – per dipanarsi su lacerti rinsecchiti, precipitata in un modo minore che tutto nega. In chiusura della prima parte Schubert fissa l’ultima immagine di solitudine (Einsamkeit, n. 12). Il tempo si rischiara, il vento si fa asciutto, manca tuttavia una vera tranquillità interiore, ed era perciò meglio lottare contro le bufere. Il modo minore annienta ogni positività del tempo migliore, quello maggiore potenzia la tempesta dell’animo. Nella seconda parte il cammino del viandante si fa meno incessante, quasi gli mancassero le forze, mentre si moltiplicano immagini che gli ricordano la sua condizione di lontananza dagli affetti, alla cui reale consistenza egli sembra non credere. Ecco che squilla il corno che annuncia la posta (Die post, n. 13) e fa sobbalzare musicalmente il cuore alla fine di ogni strofa: ma non ci sono lettere per lui dalla città, dove sta l’amore. L’animo scosso è quello di un adolescente, anche se i capelli si fanno grigi, e la testa canuta (Der greise Kopf, n. 14) in un momento di intensa malinconia, fissata da una melodia che sale e ricade, come la brina che si stende sul capo del viandante. Ma quando il sole scioglie la patina i capelli neri tornano a brillare, come la giovinezza del cuore, che non passa mai, e che centuplica il dolore di un individuo non ancora rassegnato. Ed è un percorso che non ammette compagnie innocenti e spensierate: persino una povera cornacchia (Die Krähe, n. 15) che svolazza intorno al viaggiatore diventa ai suoi occhi un uccello predatore fedele sino alla morte, quando potrà beccarne il cadavere. Il canto è regolare, fluido, come una strada verso la tomba, e allora non resta che affidare l’ultima speranza (Letze Hoffnung, n. 16) alle poche foglie colorate che adornano gli alberi d’inverno: ma esse cadono, e con loro precipita ogni attesa. È vano guardare alle case lontane nel villaggio (Im Dorfe, n. 17): quei cani che vegliano sul sonno dei paesani nei loro letti caldi, non gli permettono di riposare e di trovar pace nel sogno. È un disturbo sottile, manifestato da trilli distesi nel grave, che lasciano alle pause l’espressione di un’ansia continua. Uno stacco musicale perentorio introduce una mattina tempestosa (Der stürmische Morgen, n. 18), dove il viandante ritrova un effimero slancio eroico, stimolato dalla lotta tra gli elementi che compongono la visione, dovuta al vento che squarcia le nuvole e al sole che appare a chiazze negli scorci. È l’Inverno selvaggio, ancora una volta, la stagione sempiterna del suo cuore. Ma l’illusione (Täuschung, n. 19) ricompare, ed prende nuovamente l’aspetto di una luce che danza davanti al viaggiatore, e che si fa seguire volentieri, come il miraggio di un focolare domestico, metafora di una vita riempita da affetti familiari, specchio di una moglie fedele. Il cammino dell’artista volge oramai al termine: glielo mostra un cartello indicatore (Der Wegweiser,

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n. 20), ma quel segnale porta a una via da cui mai nessuno è tornato («Die noch keiner ging züruck»). Forse quel sentiero mena a un’osteria particolare (Das Wirtshaus, n. 21) ch’è luogo di ritrovo per tutti i viandanti a cui offre camere speciali, e altro non è che un cimitero: lo scorcio è impregnato di humour nero, ben evidenziato dall’incedere maestoso della voce sopra un corale. Ma anche in questa locanda non c’è posto per lui: e quando l’immaginazione celebra così la morte, ci vuole coraggio (Mut, n. 22) per riprendere a camminare, sferzati dalla neve gelida, e nuovamente il passo prende le cadenze eroiche di una ribellione, quella estrema: «Se non c’è nessun Dio sulla terra | noi stessi siamo Dei!» («Will kein Gott au Erden sein | Sind wir selber Götter!»). L’ateo Schubert disdegna tutti i soli paralleli (Die Nebensonne, n. 23), astri inghiottiti dal buio che reclama i suoi diritti a tutto scordare. E giunge alfine la mèta tanto attesa: «al limitare del paese c’è un suonatore di ghironda» (Der Leiermann, n. 24), che fa ruotare la manovella dell’organetto. Lo udiamo, insieme al viandante, dalla mano destra del pianista, che ripete ossessivamente il motivetto iniziale a singhiozzi, come un meccanismo logoro che s’inceppa. Dietro all’immagine che affratella il giovane viaggiatore al vecchio rinsecchito c’è la vera tomba: la condanna a vivere per sempre, alla continua ricerca di qualcuno a cui cantare una canzone che nessuno vuole ascoltare. L’ultimo effetto è indimenticabile: il viaggiatore riprende il motivo dell’organetto, ed è la sua ultima canzone, che s’imprime nella nostra coscienza, insieme alla visione sonora di quelle dita rinsecchite che girano la manovella. Com’essa la vita ruota intorno a un perno: la solitudine per l’eternità. Cagliari, Teatro comunale, marzo 2002, pp. xx-yy.