GENTE DEL MUGELLO di Wilma Tognarelli

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Wilma Tognarelli GENTE DEL MUGELLO Memorie di un'infanzia contadina Edizioni 1

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A cura di Fiorenza Caciotti. Libro di memorie ambientato nel Mugello degli anni '40 e '50, uno spaccato di vita familiare e contadina.

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Wilma Tognarelli

GENTE DEL MUGELLOMemorie di un'infanzia contadina

Edizioni

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Impaginazione a cura di Fiorenza Caciotti.

Le foto, dove non diversamente indicato, appartengono alle famiglie Tognarelli e Piacenti.

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa, in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, se non previo consenso degli autori.

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A Zaira, mia madre, che con i suoi racconti ha fatto rivivere in me i ricordi dell'infanzia, preziosi, anche se non sempre

felici.

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WILMA

Sono nata in una famiglia contadina, a Pulianella, nel Mugello. I miei genitori, sposati oramai da diversi anni, avevano desiderato a lungo un figlio. La mia mamma, Zaira, mi ha accolta con gioia, il babbo un po' meno, desiderava un maschio, per avere un aiuto nel podere; aveva scelto anche il nome, Vasco. Invece sono stata chiamata Wilma, un nome che la mamma aveva sentito casualmente sulla bocca di una donna che chiamava la sua bambina e le era piaciuto subito.

Sono arrivata in una notte buia e piovosa (pioveva da un mese), a lume di candela, alle una e mezza del 26 novembre 1941, in tempo di guerra. La mamma racconta che la levatrice disse, quando mi vide: “Una bella bambina, sana e cicciottella!” Pesavo tre chili e trecentocinquanta grammi.

Per l'occasione hanno ammazzato una gallina, per fare il brodo. Le fasce, il corredino, erano sempre gli stessi, se li passavano fra sorelle e cognate. La zia Ida, la sorella del babbo, aveva portato un lenzuolo vecchio per fare le pezze, morbide, che non irritassero la pelle delicata di un neonato.

Nei primi tempi dopo la mia nascita, mi racconta la mamma, piangevo tutta la notte, non facevo dormire nessuno; ho pianto per un mese intero, poi hanno scoperto che non mi piaceva il buio. Allora l'unico rimedio era tenere una candela sempre accesa. La mamma incaricava il marito di andare in paese a comprare le candele a pacchi; il babbo andava, moccolando, un'ora e mezza di cammino a piedi. Bisogna ricordare che era inverno, c'era sicuramente la neve.

A quattro mesi avevo già due denti. Ero coccolata dalla

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mamma e dalla zia Norina, la moglie di Beppe, uno dei fratelli del babbo, la quale aveva solo un figlio maschio e viveva con noi, avendo il marito sotto le armi.

Arrivata la primavera, la mamma non mi ha più fasciato come un salame e ha cominciato a farmi fare la pipì nel vasino, però solo la notte; durante il giorno lei era a lavorare nei campi e a casa rimaneva la nonna, che doveva curare i suoi animali e si dimenticava della pipì della bambina. La mamma veniva a casa per la poppata, poi tornava al lavoro.

I miei mi hanno sempre detto che ero una bambina vispa e precoce, non stavo mai ferma; a sei o sette mesi chiamavo mamma e babbo, a dieci già camminavo; non ho mai gattonato, mi hanno messa giù e sono partita.

Ho puppato al seno della mamma per undici mesi. Una

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Pulianella, 1942 - Zaira e Ottavio con la piccola Wilma.

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volta svezzata, però, non volevo la farinata, mi piaceva poco, preferivo il latte della mucca.

Zia Norina è stata la mia madrina; ha aspettato una bella giornata di sole, dopo le feste di Natale, si è messa la cappa bianca e mi ha portato a battezzare a S. Margherita, a Mangona; un'ora di strada a piedi con la bambina sulle braccia, sotto la cappa. Quella cappa bianca ha visto battezzare diverse generazioni della famiglia.

Ho imparato subito anche a parlare. Nell'estate del '43 lo zio Pietro, arrivato da Milano per passare qualche giorno con sua sorella Anna (la nonna), si complimentò con la mia mamma per come parlavo bene, nonostante che non avessi ancora due anni. Zia Norina, quando si arrabbiava, diceva le parolacce, io le ripetevo perfettamente e non ne dimenticavo nemmeno una.

Mi piaceva arrampicarmi, prima sulla panca e poi sulla tavola. Salivo anche sui fornelli a carbone, prima sulla sedia e poi sui fuochi (a rischio di bruciarmi), infine aprivo la finestra che stava sopra, per guardare quando arrivava il babbo col carro.

Anche le scale, quelle che adoperava il babbo per la potatura delle piante, mi piacevano molto e mi ci arrampicavo di continuo, per la disperazione della nonna e di chi aveva l'incarico di tenermi d'occhio. Devo dire che mi è andata bene, non sono mai cascata né mi sono fatta male.

Questi sono i ricordi della mia primissima infanzia, che non possono essere miei, ma mi sono stati tramandati dai racconti della mamma e della zia.

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LA NOTTE DI LARNIANO

Il mio primo vero ricordo risale a quando avevo quasi tre anni e mi ha segnato per sempre, come un incubo che di notte torna a tormentare il sonno.

Era una calda notte d'estate, il 6 agosto 1944, quando venni svegliata da un gran fracasso: era arrivato un gruppo di soldati tedeschi armati di mitra. Aprirono con un enorme calcio la porta della camera dove dormivo, facendo tremare tutta la stanza.

Il mitra era puntato verso di noi. Nel letto c'eravamo io, la zia Norina e Dino, il suo figliolo (lo zio Beppe, il marito di Norina, era militare da oltre cinque anni e per questo ogni tanto io dormivo con loro). I soldati ci fecero capire, minacciandoci con le armi, che dovevamo raggiungere gli altri della famiglia sull'aia, tutti in fila lungo il muro.

Appena fuori, io mi precipitai piangendo in collo alla mamma. Anche lei e la zia Norina piangevano e questo mi spaventò quanto vedermi il mitra puntato contro. Avevo soltanto due anni e sette mesi ma ricordo tutto molto bene, le immagini di quella scena mi sono rimaste stampate nella mente, come tante fotografie che il tempo non è riuscito a sbiadire.

La mia mamma, la zia Norina ed io abbiamo ricordato spesso quegli avvenimenti; mio cugino Dino, invece, che allora aveva quasi sei anni e di sicuro se ne rammenta molto bene, sembra preferisca non parlarne.

La mamma piange ogni volta che si torna sull'argomento, la zia, che ora, purtroppo, non è più con noi, aveva un carattere più forte e, col passare degli anni, riusciva a rivivere

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quei fatti con una certa serenità e persino a scherzarci sopra.Già prima di quel terribile episodio gli stessi soldati quasi

ogni giorno venivano a casa nostra, ma quella notte sembravano persone completamente differenti. Anche le altre volte a me bastava vederli per stare male, per provare quasi un male fisico alla vista delle armi, dei fucili e persino dell'uniforme; quella notte, poi, ero addirittura terrorizzata, come, penso, sarebbe stato ogni altro bambino che si fosse trovato in quelle circostanze.

I tedeschi non portavano solo il mitra, ma anche tanti altri oggetti minacciosi (di sicuro altre armi), che penzolavano loro dalla cintura e a me facevano tanta, tanta paura. Non capivo niente di quello che dicevano, sempre con quella voce dura. La mamma, per rassicurarmi, mi diceva: “Non è niente, fanno per scherzo,” ma io sapevo che non era così.

Non avendo trovato niente nella casa, i soldati sembrarono a un tratto più calmi, così la mamma e la zia si fecero coraggio e chiesero e ottennero di poter salire in camera per prendere qualcosa per noi bambini.

La mamma, quando tornò, aveva sul braccio due cappotti, nonostante si fosse in agosto, uno nero, per sé, e uno bianco per me; stranamente, me li ricordo molto bene, quello nero era di lana, quello bianco era fatto di una pelliccina, forse di coniglio.

Uno dei soldati tedeschi, l'unico che parlasse italiano, quando erano in casa le aveva porto una forma di pecorino, dicendole: “Prendilo, lo mangerete strada facendo.” La mamma, però, era troppo spaventata, così aveva dimenticato di prendere il formaggio e anche quel poco di biancheria di ricambio che aveva preparato.

A un altro soldato, uno di quelli che capitavano spesso lì in casa, piaceva la zia Gina, la figlia più giovane della nonna, una bella ragazza di diciannove anni. Quasi tutti i giorni le

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faceva una visitina, e mai da solo. I tedeschi, quattro o cinque, arrivavano all'ora di desinare

o di cena e ci mangiavano tutto. Erano golosi di fiori di zucca fritti e la mamma passava le ore a friggere per loro, usando dozzine di uova per volta. La nonna, piena di rabbia, brontolava fra sé: “Avessi un cannone....”

Così questo soldato si fece accompagnare da Gina in un'ispezione per tutte le stanze e quando, in camera nostra, vide in un cassetto il portafoglio del mio babbo, senza dire niente lo mise sotto il braccio della ragazza, perché potesse portarselo via.

Finito di frugare nella casa e nelle stalle, i soldati fecero colazione con prosciutto, salame, formaggio, pane e vino. Noi, seduti sull'erba all'inizio della vigna, eravamo costretti a guardare in silenzio, mentre loro si rimpinzavano con la nostra roba come maiali.

Visto che non avevano trovato né armi né partigiani, che, come si capì poi, era quello che cercavano, i tedeschi ordinarono al babbo di preparare un carro trainato da due mucche, perché dovevamo spostarci. Sul carro fecero salire il nonno, la nonna e me, ma io non ci volevo stare, volevo la mamma vicino, piangevo, strillavo, ero disperata.

Per un po' le cose sono andate avanti così, poi la mamma non ha resistito e ha chiesto di potermi prendere in braccio. La strada, però, era lunga e faticosa, dovevano prima scendere fino al fiume, poi risalire fino ad un certo punto della montagna di fronte.

La mamma era rimasta l'ultima della fila, perché io ero pesante, e un tedesco la spingeva col calcio del fucile sul fondo schiena, affinché non restasse indietro; per questo, quando poi lo ha raccontato, è stata anche presa in giro dagli uomini e dai ragazzi, che magari non avevano vissuto quei momenti, ma lei, ricordandoli, non riusciva a riderci su,

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nemmeno dopo tanti anni. Poi la povera donna non ce l'ha più fatta a portarmi e io

sono finita di nuovo sul carro, nonostante i miei strilli.Ogni tanto si incontravano gruppetti di soldati armati

fino ai denti. Da lì passava la famigerata Linea Gotica e le strade erano percorse continuamente dai tedeschi in ritirata.

Tutti noi abitanti della casa colonica venimmo scortati, sempre col mitra puntato, a Larniano, nei pressi di Monte Frassino, dove i tedeschi avevano il comando. Un contadino che abitava lì vicino ci mise a disposizione la stalla, con tanta paglia sul pavimento, dove poterci mettere a riposare, noi e un'altra famiglia, gli abitanti del Tegolaccio, nostri vicini; in tutto eravamo circa trenta persone, con una sentinella armata sempre sulla porta, a sorvegliarci.

A Larniano siamo rimasti per due giorni, chiusi nella stalla come bestie, poi ci hanno rimandati tutti a casa e possiamo dire che, tutto sommato, ci è andata bene.

Arrivati vicino a casa, abbiamo incominciato a sentire le mucche che muggivano, i maiali che stridevano...... Le bestie, abbandonate a se stesse per giorni, reclamavano a gran voce le cure dei loro proprietari! Si è visto poi che i conigli avevano mangiato tutto il loro letto, spinti dalla fame!

Una volta entrati in casa, la nonna si è messa le mani nei capelli, il babbo e la mamma sono rimasti senza parole: i mobili e le sedie ribaltati, la biancheria tutta per terra........ mancava tanta roba, persino il letto della mamma!

Prima di tutto i miei hanno pensato a governare gli animali, che per il contadino è la cosa più importante, poi hanno cercato di riordinare alla meglio la casa.

Quando si fece sera e arrivò il buio, non c'erano fiammiferi, non c'erano candele, non c'era più nemmeno la lampada a carburo. La disperazione era totale.

Dino aveva la febbre e il mal di pancia. Zia Norina

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bestemmiava e imprecava, il nonno diceva: “Madonnina santa, che Dio ti perdoni!”

Io non capivo più niente, nonostante fossi così piccola avevo la testa piena di perché: perché non avevamo cibo, né acqua, né luce? Che cosa avevamo fatto di male?

Tutti ci si chiedeva la causa di quello che ci era capitato. In seguito ci spiegarono che era stato trovato un soldato tedesco ucciso nella pineta vicino alla nostra casa e per questo il comando, attribuendone la responsabilità ai partigiani, aveva ordinato la rappresaglia contro gli abitanti del vicinato.

Chissà come, poi, fu deciso di lasciarci tornare a casa sani e salvi, ma molti di noi rimasero segnati nell'animo per tutta la vita.

LE MIE PAURE

Intanto il babbo, la mamma e la zia si facevano in quattro per poter recuperare un po' di raccolto, granturco, grano, fagioli, ceci, che erano rimasti nei campi, quel tanto per non morire di fame. Dino ed io si rimaneva a casa con la nonna, ma lei si occupava più degli animali che di noi.

Dopo quella terribile esperienza, nacquero nel mio animo di bambina paure e disagi di ogni tipo. Io non mangiavo quasi niente, mi sembrava che tutto puzzasse, i bicchieri, i piatti, il cibo stesso. Le noci mi piacevano e ce n'erano ancora, ma non si può vivere solo di noci. Deperivo giorno per giorno, sempre di più.

La mamma si mise in cerca di un dottore, dopo un po'

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seppe di uno che aveva l'ambulatorio a Barberino e mi fece visitare. Il dottore disse: “Questa bambina è debole e anemica, deve mangiare carne e un uovo tutti i giorni.” Erano gli strascichi della guerra, i bambini vivevano impauriti e la salute e la crescita ne risentivano.

Tornando a casa la mamma era preoccupata: l'uovo non mi piaceva e la carne, dove la potevano comprare? Per trovare una macelleria dovevano camminare più di un'ora da casa nostra! Comunque, l'uovo ci provò a darmelo, povera donna, ed io lo vomitai tutte le volte.

Abitavamo al podere Pulianella, le case più vicine erano il Tegolaccio e Puliana, a un quarto d'ora di cammino, la fattoria era a Cirignano, a circa quaranta minuti di strada, circondata da campi e boschi. Per arrivare al paese, Barberino del Mugello, c'era in tutto un'ora e mezza di strada, perciò non era semplice procurare il necessario ad una bambina difficile come me.

Il tempo scorreva lentamente, fra privazioni, disagi e sofferenze, mentre la guerra, finalmente, era alla fine.

La mia salute non migliorava, anzi, andava peggio, la febbre mi saliva tutte le sere e la mamma era molto preoccupata.

Per capire di che male soffrissi, i miei decisero di farmi fare i raggi ai polmoni e mi portarono, col calesse e il cavallo (e quello fu divertente), in un piccolo ospedale a Borgo San Lorenzo. All'ospedale mi trovarono solo cose di poco conto, sarebbe stato sufficiente un nutrimento adeguato per farmi star meglio, ma io non avevo voglia di mangiare niente.

I miei genitori, poveretti, non capivano che il rifiuto del cibo derivava da un profondo disagio psicologico che mi portavo dentro, un po' per i ricordi della guerra, un po' per la situazione difficile, della quale parlerò più oltre, che si stava creando in famiglia. A conferma di questo disagio, poco dopo

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incominciai persino a balbettare. Da quella notte dei tedeschi dormivo poco e male, non

riuscivo a superare lo spavento; allora la nonna disse che bisognava lavarmi con l'acqua di paura, un decotto di erbe che si trovavano nei campi. Era la nonna stessa a farlo, mattina e sera, dopo avermi segnato e aver detto misteriose preghiere. Le mie condizioni, però, nonostante questo espediente, non migliorarono di molto.

Poi il dottore consigliò di operarmi alla gola e per questo dovemmo aspettare lo specialista.

Dopo una visita preliminare, all'ambulatorio in via 20 Settembre, a Barberino, l'otorino mi tolse le tonsille, anzi, me le strappò via, senza anestesia, provocandomi un dolore da impazzire. Eravamo una decina di bambini, doloranti e terrorizzati; mi ricordo che a uno era venuta l'emorragia, stava in braccio alla sua mamma, per terra una pozza di sangue.

Nonostante l'operazione io non stavo ancora bene, allora la nonna Maria, la mamma della mia mamma, disse a sua figlia: “La bambina viene da me per un po' di tempo, tu non le puoi stare dietro come si deve.”

Così sono andata a vivere dalla nonna, alla Cavallina, nei pressi di Barberino.

Cosa dire dei miei nonni materni, i Cerbai di Panzano? Federico e Maria, così si chiamavano i nonni, erano stati dei bravi genitori: i loro sette figli, maschi e femmine, senza differenza, erano andati tutti a scuola.

Al mattino tutti a tavola a fare colazione, non si cominciava a mangiare finché la famiglia non era al completo; si discuteva del programma della giornata, se c'era qualcosa di particolare da fare, poi i piccoli a scuola, i grandi al lavoro.

I nonni erano stati mezzadri a Panzano, sempre nella zona di Barberino, finché i loro figli non erano cresciuti, poi, negli anni di cui parlo io, si erano trasferiti alla Cavallina, lasciando

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il podere, e tutti si erano trovati da lavorare a Prato, in fabbrica.

Adesso, a distanza di tanti anni, mi sono resa conto che essi avevano dato ai figli un bell'esempio di vita, che questi si sono portati dietro fino ad oggi.

Anche quando ero piccola, però, capivo che erano diversi dalle persone che avevo conosciuto fino ad allora. Nella loro famiglia regnavano rispetto, educazione, disponibilità e generosità. Soprattutto, andavano tutti d'accordo, si volevano bene, e fra loro non c'erano le tensioni che spesso sentivo sorgere fra i parenti di mio padre.

I nonni Cerbai abitavano nella piazza del paese, lì avevano tutti i comodi, la luce elettrica in casa, l'acqua a pochi metri. Sono rimasta con loro per quattro mesi, da maggio a settembre del 1947 (avevo sei anni) e, curata e coccolata, sono migliorata di molto, tanto che la zia Orella, la figlia minore della nonna, che si era affezionata molto a me, non voleva che tornassi a casa, per paura di una ricaduta.

Anche la scuola era comoda, di rimpetto alla casa dove stavamo. Ma il babbo, forse perché non dessi troppo disturbo alla nonna e alla sua famiglia, mi rivolle a casa, e così ebbe termine quella breve parentesi di quiete e di benessere.

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LA FAMIGLIA

A questo punto vorrei presentare la mia famiglia paterna, formata anche questa di mezzadri che vivevano da molti anni nella casa della Pulianella, tanto che la gente chiamava la località col loro cognome, “il Tognarelli”. Il podere apparteneva a dei signori di Livorno, i Di Pietro.

Durante la guerra a casa erano rimasti solo due uomini, il nonno e il mio babbo, quattro donne, la nonna, la mamma, la zia Norina e la zia Gina, due bambini, io e Dino, e la garzona Liliana. I fratelli del babbo erano sotto le armi, il cugino Carlo, di cui parlerò in seguito, se n'era già andato con tutta la sua famiglia.

Il babbo, il capoccia, era vicino ai quaranta anni, magro, anzi magrissimo, non molto alto, con occhi neri e capelli castano scuro. Nell'aspetto era sempre molto preciso e ordinato. Si chiamava Ottavio ed era il primo di otto figli. Si occupava di tutti, genitori, fratelli, sorelle, cognate, oltre che di sua moglie e di me. Doveva badare anche ai campi e a tutti gli animali. Quando era scoppiata la guerra, quattro dei suoi fratelli erano stati richiamati e inviati al fronte (ne sarebbero tornati solo tre), e il podere e la famiglia erano rimasti interamente sulle sue spalle.

Il babbo non si allontanava mai dal lavoro, solo il sabato mattina andava al mercato, a Barberino; questo gli serviva come svago e anche come occasione per la compravendita del bestiame.

A mezzogiorno in punto lui e gli altri contadini siritrovavano con i sensali “dal Tocco”, una trattoria nel centro del paese, a mangiare la trippa e a concludere gli affari.

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La mia mamma, Zaira, adesso ha più di novanta anni, ma ricorda lucidamente quei tempi. Lei era di diversi anni più giovane del babbo e a quell'epoca aveva circa trenta anni; era piuttosto magra, ma con il viso rotondo, gli occhi celesti e dei bei capelli castano chiaro, che portava lunghi, raccolti dietro la nuca.

Quando si era sposata, nel 1937, aveva trovato nella sua nuova casa una famiglia di diciassette persone.

Zaira era portata per la matematica, ha sempre fatto i conti a mente, quando c'era bisogno di fare un calcolo, in famiglia si rivolgevano a lei.

Io sono nata a quasi cinque anni dal matrimonio e la mamma, anche se era stata felice della mia nascita, mi ha sempre ripetuto che ero arrivata nel momento sbagliato, perché c'era la guerra, con tutte le difficoltà che questa comportava.

Con me era severa ma giusta, io l'adoravo e aspettavo a gloria che tornasse dai campi. Lei ci teneva molto che sapessi

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1927 - Ottavio Tognarelli a venti anni. 1937 - Ottavio al tempo delle nozze con Zaira.

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leggere, scrivere e far di conto ed ha dovuto combattere non poco per mandarmi a scuola, soprattutto coi nonni, che non ne vedevano la necessità, dal momento che ero solo una bambina.

Nonno Pietro, il babbo di mio padre, era nato a Prato nel 1880, in via Magnolfi, in una bella villa che esiste ancora oggi e si distingue dalle altre case per una curiosa torretta che sembra un piccolo faro.

Il matrimonio fra i suoi genitori, Michelangiolo Tognarelli e Carolina Gori, era stato forse un accomodamento, come usava a quei tempi, fra un uomo zoppo, così si diceva allora, e una donna che aveva avuto un figlio, anzi, una bambina, da ragazza (due situazioni, per quell'epoca, abbastanza difficili). La donna, poi, morì di parto e il piccolo Pietro venne portato dal padre a casa sua, a Pulianella, dove fu allattato da una zia. Il nonno Pietro, quindi, non aveva fratelli, solo una sorellastra, che ha vissuto sempre a Prato.

Questa vicenda è sempre rimasta un po' misteriosa; si è pensato che la madre del nonno (in famiglia la chiamavano la pratese) fosse stata indotta ad un matrimonio con un uomo a lei socialmente ed economicamente inferiore allo scopo di regolarizzare la propria posizione di ragazza madre.

Alla morte della mamma, il bambino ebbe anche una piccola eredità, un cassettone e un bel letto matrimoniale con un soffice materasso (il nonno era l'unico in famiglia ad avere il materasso di lana, in campagna i materassi erano imbottiti con i cartocci, le foglie del granturco).

Pietro crebbe a Pulianella, si sposò ed ebbe otto figli. Non si occupò mai del podere, che passò dalla gestione del cugino Carlo a quella di Ottavio, il mio babbo.

Il nonno anche da vecchio era un bell'uomo, sebbene gli fossero rimasti pochi capelli, bianchi come la neve; pure il baffo era bello, bianco e folto. Aveva una corporatura media, occhi scuri. Era molto goloso, gli piacevano i dolci e il vino,

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così ogni tanto ci scappava qualche bicchiere di troppo, che gli procurava mal di pancia.

Era brontolone, metteva bocca dappertutto, anche se non era lui a dover prendere le decisioni. Amava molto giocare a carte e quando arrivava qualcuno in visita correva subito a prendere il mazzo dal cassetto. D'altra parte era sempre solo, non andava mai alla bottega, a buttar via soldi.

Non andava a caccia ma faceva di peggio, costruiva dei lacci, trappole per merli e passerotti, con una ciliegia per esca. Se le povere bestiole si posavano per prendere la ciliegia, scattava un marchingegno che gli rompeva le zampe e le bloccava. Quando portava a casa le sue prede, il nonno le nascondeva in tasca, per non essere rimproverato, specialmente da noi bambini, per la sua crudeltà.

Nonna Anna, la moglie, era nata alle Mulina, un podere

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Pietro Tognarelli, padre di Ottavio. Nonno Pietro con Dino, il prediletto nipote maschio.

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non lontano da Pulianella; aveva la stessa età del marito, era una donna piccola e grassa, con i capelli raccolti sulla nuca e una bella faccia col naso all'insù. Portava gonnelloni lunghi fino ai piedi e tutti pieghettati, come la Mami del film “Via col vento”. Era una persona molto laboriosa, incominciava a faticare la mattina molto presto, mungendo le pecore, e per tutto il giorno non aveva un attimo di riposo.

La nonna aveva partorito otto figli senza mai problemi, un'ora e il bambino era già vestito, questo diceva alle nuore.

Amava molto gli animali, le mucche, le pecore, i maiali, tutti quanti. Niente le faceva paura, nemmeno il toro, che era ombroso e pronto a incornare tutti, meno che lei. Quando si facevano male, soprattutto alle zampe, la nonna medicava a tutti le ferite, con sale e aceto. Aiutava le femmine nel parto e poche volte accadeva che qualcosa non andasse bene.

Ricordo che una volta un maialino si era incastrato in un

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1943 - Zaira con Wilma, di diciassette mesi. Nonna Anna con i nipotini Wilma e Dino.

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buco dell'uscio del porcile e strideva tanto forte che la scrofa lo sentì dal campo, dove stava mangiando, e arrivò di corsa, con la bocca aperta che faceva paura. Nessuno si sarebbe avvicinato, ma la nonna non ci pensò due volte, entrò dentro, liberò il piccolo e così anche la scrofa si calmò subito.

La nonna era la massaia, avrebbe dovuto fare da mangiare e custodire la casa, invece cucinava poco e male, anche se, invece, faceva un formaggio molto buono. Non sapeva cucire e nemmeno fare il bucato, ma era bravissima nei lavori dei campi.

La massaia, col denaro ricavato dalla vendita delle uova, del formaggio e dei polli, comprava le camicie agli uomini, due volte all'anno. Io chiedevo perché a Dino, anche se era solo un bambino, toccasse la camicia, e a me niente. La nonna rispondeva: “Questa è l'usanza.” Una risposta che, anche se ero piccola, mi sembrava del tutto insoddisfacente.

Altrettanto ingiusto mi sembrava quando la nonna, mentre ero fuori a giocare, mi chiamava per farmi fare qualche lavoro. Alle mie proteste, perché non aveva affidato quel compito a mio cugino, la nonna rispondeva: “I ragazzi possono stare a giocare, le bambine devono aiutare in casa.”

La nonna raccontava che quando i suoi figli erano piccoli e la famiglia si trovava in qualche difficoltà lei faceva scrivere a suo fratello Pietro, quello che abitava a Milano e diceva che lavorava in banca, il quale era molto generoso e le mandava dei soldi. Quando il babbo si sposò, lo zio di Milano gli regalò cento lire, una bella somma per quel tempo.

I miei hanno scoperto, in seguito, che lo zio era omosessuale; probabilmente, non potendo farsi una propria famiglia, lui non si tirava indietro quando gli veniva richiesto di aiutare quella della sorella.

Quando il babbo o i suoi fratelli parlavano di andarsene dal podere, la nonna Anna gli diceva: “Dove vorresti andare,

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lasceresti un posto così?” Era innamorata di quel podere, quello era il suo mondo, lì si era sposata e aveva avuto i suoi otto figli, mai una malattia, mai uno svago. Sopportava tutto in silenzio, i dispetti delle nuore, il brontolio del nonno, non si lamentava mai. Diceva che avrebbe avuto piacere di morire in quella casa, ma in questo la sorte non l'ha potuta accontentare: quando ci siamo divisi, i nonni sono andati ad abitare a Prato con Tonio, il figlio più giovane, e sua moglie Liliana, e lì sono morti.

Veniamo adesso a parlare degli zii, i figlioli dei nonni. Zia Rosa, una delle figlie più grandi, alla mia nascita si era già sposata ed era andata ad abitare a Comignano, nella casa dove io poi sono andata a scuola per un certo periodo di tempo.

Zia Ida, la più simpatica e anche la più bella delle figlie femmine, si era sposata da diversi anni ed era andata ad abitare in paese, al centro di Barberino del Mugello; si era maritata col Bigonaio, dopo aver vissuto con lui una storia d'amore assai tempestosa.

Il vero nome dell'uomo era Giuseppe Settimelli, ma lo chiamavano il Bigonaio perché faceva le botti e le bigonge per il vino.

Da questo, anni prima, Ida aveva avuto una bambina, Marisa, ma lui allora non l'aveva voluta sposare.

La nonna si era dovuta umiliare col padrone del podere, per il fatto che sua figlia era rimasta incinta senza essere maritata, aveva dovuto chiedere perdono per la ragazza, altrimenti i signori avrebbero dato la disdetta alla famiglia, considerandola disonorata.

Prima che Ida partorisse, Giuseppe sosteneva di avere dubbi sulla sua paternità e affermava: “Se il bambino nasce entro il tal giorno, vuol dire che è figlio mio!” E per l'appunto la piccola nacque proprio nel giorno da lui indicato!

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Nonostante questo, e nonostante il fatto che la bambina fosse praticamente il suo ritratto, l'uomo non volle sposare la ragazza, né riconoscere la figlia, suscitando grande scandalo in paese.

Quando Marisa fu diventata grandicella, Ida andò a servizio in casa dei signori Di Pietro, padroni della fattoria, i quali si interessarono alla sua difficile condizione di ragazza madre e le prospettarono il matrimonio con un vedovo agiato, che cercava, anche lui, una sistemazione.

Quando venne a sapere di questo progetto, il Bigonaio si decise: “Allora la sposo io!” Così le nozze avvennero, finalmente, cinque anni dopo la nascita della figliola, e la situazione di Ida e della piccola si regolarizzò.

Il marito della zia, il Bigonaio, appunto, lo ricordo molto bene. La storia che ho appena raccontato era accaduta diversi anni prima della mia nascita e oramai era acqua passata; Marisa, la figliola di Ida e Giuseppe, era diventata grande, quindi ero io la coccolina dello zio.

Quando la zia mi portava a casa sua, diceva: “Ora gli facciamo una bella sorpresa” e mi faceva nascondere dietro la porta. E lui, tutte le volte stava al gioco ed esclamava: “Guarda chi c'è, c'è la mia cincia!” E via una gran festa, che mi faceva sentire una principessa. Chiedeva come stavo, se avevo mangiato, mi riempiva le tasche di chicchi e cioccolate. Si arrabbiava con tutti, anche con sua moglie, con me, invece, era il più dolce, il più generoso degli zii.

La nonna Anna, però, diceva che era un mascalzone, perché non riusciva a perdonargli le umiliazioni che la figliola e la tutta famiglia avevano dovuto soffrire per colpa sua.

Zia Gina, la più piccola fra le figlie femmine, che viveva ancora in casa, era una bella ragazza, ben proporzionata, dai capelli scuri, con un ciuffo bianco su una tempia, e dai vivaci occhi neri. In tempo di guerra c'era un soldato tedesco che le

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faceva la corte, ma lei non l'aveva mai preso in considerazione. Con noi bambini era brava, stava al gioco e non faceva mai la spia. Poi si è sposata ed ha lasciato la casa, andando a vivere prima a Montecuccoli e infine a Prato, col marito e con la figlia Anna.

Zia Norina che, come ho già detto, era la moglie di Beppe, uno dei fratelli di Ottavio, era una donna ancora giovane, aveva solo un anno più della mamma. Alta, la più alta delle donne, con i capelli scuri e un bell'ovale di viso, sempre sorridente, scherzosa, chiacchierona, quando non parlava cantava (e bene), aveva la battuta sempre pronta, insomma, era uno dei personaggi più notevoli della famiglia.

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Beppe, il marito di Norina, da militare.1943 - Norina col figlio Dino.

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Quando la mamma si assentava, per lavoro o per altra causa, era lei ad occuparsi di me: preparava la merenda perme e per suo figlio, controllava che non si combinassero guai e che non ci facessimo male.

Era una bella persona, pulita, precisa, accorta, sempre indaffarata. Era lei che ci dava le punture, aveva imparato esercitandosi sul sedere della mamma, che coraggiosamente si era prestata come cavia.

Con le parole era un po' cruda e schietta, forse troppo, perché i bambini piccoli non capiscono le battute.

“Quando torna la mamma?” io le chiedevo continuamente nella giornata, e lei, a volte, rispondeva, per farmi smettere: “Oramai non torna più, è tardi, l'avrà presa il chiappino!” E rideva.

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1987 - L'affetto fra Zaira e la cognata Norina è durato a lungo, fino alla scomparsa di quest'ultima, avvenuta nel 1992. Nella foto, le due donne ritratte in occasione delle nozze d'oro di Zaira.

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“Ma chi sarà questo chiappino,” mi chiedevo io, e stavo in pensiero finché non arrivava la mamma. Con la zia ci stavo bene, ma avevo bisogno di sicurezza e questa solo la mamma me la poteva dare.

Zia Norina era anche una donna molto assennata, lei e la mamma si erano alleate e si sostenevano a vicenda nelle discussioni in famiglia. Loro due andavano d'accordo come idee, principi, educazione, ma c'era quella cosa, chiamiamola soggezione, per cui dovevano stare sempre un passo indietro agli uomini, e il marito doveva essere rispettato e ubbidito, sempre e comunque.

Io credo (e me ne rendevo conto anche da bambina) che se le donne avessero potuto fare di testa propria si sarebbero evitati tanti guai e si sarebbe sofferto meno tutti quanti.

La mamma e la zia sapevano cucire, rammendare, ricamare, lavorare a maglia e all'uncinetto, erano sempre pronte a imparare cose nuove, niente le spaventava. La zia sapeva anche tessere al telaio a mano, con questo si era preparata il corredo prima di sposarsi. A queste occupazioni le donne si dedicavano nell'inverno, l'estate era per i duri lavori dei campi, come gli uomini.

Dino, il figlio di zia Norina, era un ragazzo birichino, ma buono; alto, snello, con due gambe secche come le zampe di un merlo, occhi marrone chiaro che brillavano di furbizia, capelli biondi con tanti riccioli morbidi. Portava spesso i pantaloni alla zuava, che gli lasciavano scoperte le caviglie.

Era mio cugino, ma anche mio amico e compagno di giochi. L'unico giocattolo che aveva era un fucilino di legno, che portava a tracolla legato con uno spago. Per poter giocare non ne bastava uno solo, perciò mi diceva sempre: “Fattelo comprare dalla tua mamma, così quando io sparo tu mi rispondi.” A forza di chiedere, la mamma infine me l'ha comprato e abbiamo giocato insieme, ma era un gioco da

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maschi, per me era più divertente salire sugli alberi, oppure andare sull'altalena.

A Dino piaceva anche fare il tiro a segno con le uova, di nascosto dalla nonna, naturalmente; a dire il vero, lui molte se le beveva e anche io ci ho provato, ma non mi piacevano. Era divertente anche salire sul tetto della nostra casa passando da dietro, dove c'era il pollaio con la scaletta per le galline. A me faceva un po' schifo, era tutta coperta di cacche, ma lui insisteva; poi, logicamente, venivamo sgridati tutti e due, perché ci eravamo insudiciati da capo a piedi.

Zio Beppe, il padre di Dino, è rimasto sotto le armi per quasi sei anni, a Bengasi, in Africa, ed è tornato solo a guerra finita, nel 1945. Questo ci ha avvicinati molto alla zia e a suo figlio, che erano sempre soli; io, in particolare, le ero molto affezionata, e quando era triste e si sentiva sola dormivo nel letto matrimoniale, con lei e con Dino.

Infine il marito di Norina è tornato a casa. Beppe era un uomo non molto alto ma di bell'aspetto, e questo aveva fatto sì che la zia lo sposasse, nonostante che lui fosse un tipo più tranquillo e tradizionalista di lei.

Lo zio era un po' dispettoso, ma simpatico; con me era molto affettuoso, mi coccolava, mi accarezzava i capelli, che allora erano biondissimi e lunghi, mi faceva mille complimenti. Quando c'erano dei visitatori ci prendeva sulle ginocchia, me e Dino, e diceva: “Fossero tutti e due miei, sarei già sistemato!” In seguito lui e Norina hanno avuto un altro figlio, ma anche quello è stato un maschio.

Lo Zio Angiolino, un altro dei fratelli di Ottavio, era un chiacchierone simpatico e molto furbo, attento a cogliere tutte le occasioni. I lavori dei campi non li aveva mai potuti sopportare, perciò a soli sedici anni era andato a cercare lavoro a Prato.

Come primo impiego aveva fatto il cameriere dai signori

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Bacci, alla Pietà, quindi, probabilmente grazie a qualche amicizia, era stato assunto al “Convitto Cicognini”, non come cameriere, ma addirittura come economo.

Quando era arrivata la guerra, anche lui era stato richiamato ed era rimasto quattro anni in Abissinia. Si era sposato alla fine del 1942, soprattutto per usufruire della licenza matrimoniale di un mese, poi era tornato al fronte, lasciando la moglie, Ottavina, in casa nostra, una nuova zia.

La mamma racconta che la zia Ottavina era la più bella

delle sue cognate, snella, ben fatta, con capelli neri, lunghi eondulati, e un carattere dolce e buono. Era svelta nei movimenti, nei lavori di casa e anche nel suo mestiere, la rammendina.

Nel 1944 è arrivato il loro primo bambino, Osvaldo, grassoccio come il padre, e quando Angiolino è

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1955 - Angiolino con la moglie Ottavina.1943 - Angiolino Tognarelli militare.

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definitivamente tornato dalla guerra la famiglia è andata ad abitare a Prato.

Lo zio che non ho mai conosciuto è stato Gino, morto nel 1941 a Bologna, poco dopo che era stato richiamato sotto le armi. Il babbo a volte mi ha parlato di lui, poiché il fratello scomparso così all'improvviso gli mancava.

Gino non aveva studiato agraria, ma faceva tutto nel podere, con grande passione. Era lui a occuparsi, in particolare, delle piante da frutto, ma non solo. Quando andava in visita da parenti o amici, tornava sempre con qualche arbusto, per fare nuovi innesti. Anche il padrone, il signor Di Pietro, gliene portava da Livorno.

Con le uve facevano un ottimo vino; era lo zio Gino a decidere in quale campo mettere la vigna, oppure l'uliveta, perché il terreno doveva essere in un certo modo.

Allo scoppio della guerra, però, anche Gino era stato richiamato. La mamma racconta che, pochi giorni dopo la sua partenza, arrivò a casa un telegramma, nel primo pomeriggio, dove c'era scritto che lo zio stava malissimo.

Il babbo e lo zio Beppe partirono a piedi per la stazione di Vernio, un'ora e mezza di cammino, ma ci arrivarono quando l'ultimo treno era già passato. Le informazioni sul traffico ferroviario erano poche. Il babbo e lo zio rimasero tutta la notte alla stazione, per poter partire col primo treno del giorno dopo.

Arrivarono a Bologna in mattinata, andarono all'ospedale, e qui, dopo lunghe ricerche, seppero che Gino era morto durante la notte, solo come un cane, chiamando: “Mamma, mamma!” I genitori e i fratelli non hanno mai saputo con chiarezza da quale malattia il poveretto fosse stato colpito.

Il più giovane dei fratelli era Tonio, un tipo molto ambizioso e avaro. Era un ragazzotto di bella presenza, ma vanesio e pieno di sé, tanto che gli amici e i vicini di casa, per

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prenderlo bonariamente in giro, lo chiamavano “il principe”. Era abile sul lavoro e molto rapido e deciso nei

movimenti. Ricordo un episodio in particolare: era freddo, eravamo tutti nel canto del fuoco e la mamma stava facendo un maglione con i ferri; aveva già finito alcuni pezzi, tra cui una manica, e io ci stavo giocherellando. Lei mi disse: “Dammela, che devo misurarla con l'altra.” Io, per gioco, invece di porgerla, gliel'ho tirata e dove è andata a finire? Nelle fiamme! Lo zio, con uno scatto felino, l'ha afferrata, prima che il fuoco ci facesse qualche danno, e mi ha risparmiato di sicuro una buona dose di sculaccioni.

Di cose positive su di lui ricordo solo questa. Per il resto, Tonio si rivolgeva a noi bambini solo per criticarci e brontolarci, mai con un complimento, oppure una lode.

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1944 - Lo zio Tonio militare a Cagliari.

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Anche lui, come gli altri fratelli, è rimasto diversi anni sotto le armi, prima in Sardegna e poi in Sicilia, ed è stato l'ultimo a tornare a casa, a ventisei anni.

Ecco, questi erano i componenti della mia famiglia quando ero piccina io, cioè al tempo della guerra.

Poi questa, per grazia di Dio, è finita e siamo arrivati all'estate del 1946; la mamma aveva un gran pancione e i miei genitori speravano nella nascita del desiderato figlio maschio, invece stava per arrivare mia sorella Gigliola.

C'era un'altra cosa importante in quel momento, il primo voto delle donne, se ne faceva un gran parlare dappertutto. Era il 2 giugno 1946.

La mamma diceva: “Io vado a votare, anche se il bambino dovesse nascere per strada!” La zia Norina era d'accordo con lei, la nonna, invece, non credeva nei cambiamenti e non votò.

I NOSTRI VECCHI

Il babbo raccontava: “Noi Tognarelli si viveva a Pulianella da quattro o cinque generazioni, perché nella nostra famiglia c'erano sempre stati tanti figli maschi e le braccia per lavorare il podere non mancavano. I miei genitori, Pietro e Anna, ci hanno abitato per settanta anni. Quando ero ragazzo io, in casa c'erano il bisnonno Gino, la bisnonna (il nome non lo ricordava) e i loro sei figli, Giuseppe, Carlo, le tre femmine, e infine Michelangiolo, mio nonno, col figliolo Pietro, mio padre.”

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Giuseppe sposò una ragazza del posto, Maria, e si trovò un podere per conto proprio. Carlo sposò Laura, che abitava, anche lei, poco lontano. Adele, Concetta e Palmira, le sorelle, si erano maritate con contadini delle vicinanze.

Michelangiolo aveva sposato Carolina Gori, detta in famiglia la pratese, ma era ritornato nella casa paterna con il figlio dopo che la moglie era morta di parto.

Quello che rimase più a lungo in casa, anche dopo sposato, fu Carlo, il capoccia; il babbo raccontava che era un brav'uomo, aveva insegnato a tutti, lui compreso, a lavorare.

Né Michelangiolo né Pietro vollero mai occuparsi del podere, perciò Carlo giudicò suo dovere aspettare che il mio babbo si fosse sposato e i suoi fratelli fossero già tutti grandi, per andare a starsene per conto proprio; a Pulianella c'era tanto lavoro da fare, per cui occorrevano mani esperte, e lui, essendo il capo, sentiva su di sé la responsabilità di tutta la famiglia.

La moglie di Carlo, Laura, era la massaia, ma di lei non si poteva davvero dire che fosse una brava donna. Cucinava per tutti, quello che decideva lei, a mezzogiorno preparava la tavola poi se ne andava in giro, con la scusa di dover badare ai pulcini. Laura mangiava sempre da sola, quando non c'era nessuno. Non chiacchierava, non dava confidenza, alla mia mamma dava del voi. Le donne della famiglia, fra di loro, la chiamavano “l'arpia”.

Per il pranzo di nozze dei miei genitori era stata preparata tanta roba da mangiare, molto buona e abbondante, ed erano rimasti vassoi pieni di carni, dolci, zuccherini e altro. Il giorno dopo tutti si aspettavano almeno uno di quei vassoi, invece Laura mise in tavola, come al solito, pasta e fagioli! Che fine avevano fatto tutti quegli avanzi?

Anche per altri versi la massaia trascurava i suoi doveri: non andava nella stalla e nemmeno nei campi, si curava solo

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del pollaio, recuperava le uova, le portava nella dispensa e chiudeva la porta a chiave. La chiave la metteva nella tasca del grembio, così nessuno poteva entrare nella dispensa senza il suo permesso.

Laura era un personaggio singolare, anche fisicamente, aveva la gobba, o meglio, era piegata in due; ogni tanto si appoggiava alla tavola e si raddrizzava, ma solo per pochi secondi. Non ha mai detto a nessuno di quale malattia soffrisse e nessuno si è preoccupato di scoprirlo.

Il babbo si sposò nel 1937. Zaira, la moglie, veniva da Panzano. I suoi genitori non furono molto contenti di queste nozze, ma non vi si opposero.

L'anno dopo, nel 1938, Carlo si trovò un podere a Montecuccoli e ci si trasferì con la famiglia, lasciando al nipote Ottavio la gestione di Pulianella.

LA ZIA MARIA

Una storia particolare, nella sua drammaticità, è quella della zia Maria, la moglie di uno zio del nonno.

Ricordo che Maria veniva spesso a trovarci nella bella stagione, arrivava al mattino e andava via la sera. Era una donna non più giovane, di circa sessanta anni, ma all'aspetto sembrava che ne avesse ottanta, anche perché era sempre vestita di nero.

Abitava a Cirignano, in una casetta situata poco lontano dalla fattoria dei Di Pietro. Si faceva tutta la strada a piedi, perché era molto legata alla nonna Anna, e veniva volentieri a

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farle visita, per scambiare due chiacchiere con lei.Quando si era sposata aveva venticinque anni, aveva

sposato Giuseppe Tognarelli, fratello di Carlo e zio del nonno Pietro.

Dopo il matrimonio, Maria era venuta ad abitare a Pulianella, ma non essendoci più camere da letto disponibili nell'ala destra della casa, dov'erano tutte le altre (quattro in tutto, ma grandi, ci stavano due letti matrimoniali, uno per i genitori e uno per i figli), gli sposi si erano dovuti stabilire nell'ala sinistra, dove c'erano delle stanze libere.

Maria ebbe una prima bambina, Elia, nel 1910. Il secondo bambino, Giulio, nato tre anni dopo, morì a undici mesi, per le conseguenze di un parto avvenuto in circostanze drammatiche.

Capitava a quei tempi che le donne partorissero senza l'assistenza della levatrice, ma c'erano sempre delle parenti a dare aiuto. A Maria, invece, toccò di dover partorire da sola, senza nessuno che l'assistesse!

Il marito era fuori per lavoro, la donna era sola in camera, di notte, con la piccola Elia, quando fu presa da doglie improvvise; chiedeva aiuto, ma nessuno la sentiva, la stanza era lontana dalle altre camere abitate e tutti dormivano.

Finalmente Carlo, il cognato, si alzò per andare al gabinetto e la sentì gridare. Chiamò la nonna Anna, la più disponibile, e le chiese di andare a vedere cosa succedeva. La nonna prese un lume a olio e andò nella camera di Maria.

Appena ebbe aperto la porta si trovò davanti uno spettacolo orribile: quella povera donna giaceva per terra immersa nel suo sangue, col bambino accanto, che sembrava morto. La nonna si sentì mancare e le cadde il lume di mano, spegnendosi. Dopo un attimo di smarrimento, però, lei si riprese, andò verso la finestra e l'aprì, urlando per chiedere aiuto. Poco dopo le portarono una lampada più grossa, dell'acqua calda, e arrivarono altre donne a dare una mano.

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Nonna Anna ha raccontato poi che c'era sangue da per tutto; Maria, sfinita e gelida, giaceva immobile, come morta, sul pavimento, mentre il bambino respirava a malapena, con l'ombelico ancora da legare. La piccola Elia, terrorizzata, aveva vissuto tutto quel dramma senza avere la capacità di chiamare aiuto!

Si vide poi che il piccolo, venendo alla luce, era caduto in terra e aveva battuto la testa. Da allora non era più stato bene, aveva pianto tanto finché, a undici mesi, era morto, senza che si fosse mai sentito parlare di chiamare un dottore.

Quella povera donna, quando ne parlava, riviveva i suoi ricordi con tanta angoscia!

Anche l'attesa del funerale del bambino fu drammatica. Lei piangeva disperata, mentre vegliava il figlio morto, ma qualcuno la invitò ad andare a “ricorere i fagioli in campo lungo”, invece di stare a perdere tempo; questo era il ricordo più terribile, ma lei non disse mai chi fosse stato così disumano da darle quell'ordine.

Dopo questi avvenimenti incresciosi la zia Maria, il marito, la piccola Elia e la suocera se ne andarono dalla casa di Pulianella. Presto arrivò il terzo bambino, che ebbe lo stesso nome del secondo, ma questo nacque quando Maria oramai abitava a Cirignano, lontano da quegli orribili ricordi.

Le disgrazie, per la povera donna, però non erano finite. Dopo pochi anni le morì anche il marito, lasciandola con due bambini piccoli e la suocera già avanti con gli anni. I Tognarelli chiesero al padrone se potevano riprendere in casa Maria e tutta la sua famiglia, ma il signor Di Pietro rispose che poteva tornare solo la suocera, ormai molto vecchia.

La zia, Elia e il piccolo Giulio andarono allora ad abitare dai fratelli di lei, in un podere vicino a La Futa che si chiamava “La Fabbrica”. Maria crebbe i suoi due figli da sola, con tanti sacrifici.

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Poi la famiglia tornò di nuovo ad abitare a Cirignano, Elia si sposò con un brav'uomo di Barberino e Maria andò a vivere con lei. Finalmente la poveretta raggiunse un po' di tranquillità.

L'altro suo figlio, Giulio, trovò una buona sistemazione, entrò nei Carabinieri e, per lavoro, si spostò e visse in varie località per l'Italia.

PULIANELLA

Pulianella, detta anche il Tognarelli, era una vecchia casa molto grande, su due ali e due piani. Al piano terra c'erano le stalle, la cantina, il fienile e altre stanze per gli attrezzi da lavoro.

Al primo piano c'erano due cucine, una a destra, ed era quella che si usava noi, l'altra a sinistra, seguita da due camere e un salotto (queste stanze avevano ospitato un contadino a cui i tedeschi avevano buttato giù la casa, ma solo per il tempo necessario a ricostruirla).

Appena si entrava c'era la nostra cucina, una grande stanza con un enorme camino; nelle case contadine a quel tempo il fuoco era sempre acceso e il paiolo, con l'acqua calda, stava appeso alla catena sulla fiamma.

Sotto la cappa del focolare ci stavano quattro sedie, due da una parte e due dall'altra. Dalla parte destra, dietro alle due sedie, era collocata la conca per il bucato, invece a sinistra c'erano i fornelli a carbone, con sopra la finestra, poi un

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mobile molto alto, che nella parte inferiore conteneva grandi pentole e tegami e sopra la piattaia. Di seguito, un acquaio di pietra, con le mezzine di rame con l'acqua di sorgente da una parte, e dall'altra due secchi, per lavarsi le mani. Per andare a prendere quell'acqua, le donne e noi bambini dovevamo camminare per diverse centinaia di metri ogni volta.

Alla parete opposta c'era una fila di beccatelli di legno, con su appese le giubbe e le mantelle per quando pioveva. Al muro di fronte alla porta, in alto, c'erano l'orologio, due immagini della Madonna con l'altarino e una di S. Antonio, santo particolarmente venerato dai contadini, perché considerato protettore degli animali e capace di tenerli lontani dalle malattie.

In quella stanza, che era il cuore della casa, si passava la maggior parte del tempo, quando non eravamo fuori nei campi, e si faceva di tutto: la nonna preparava il formaggio e la ricotta, il nonno, vicino alla finestra, faceva i panieri di vetrice, oppure, quando venivano a trovarlo gli amici, giocava a carte.

La mamma e la zia Norina cucinavano, cucivano, facevano la calza e qualche volta filavano la lana delle pecore col fuso di legno e poi la ritorcevano, per farla più resistente e farci le calze massicce, da indossare quando arrivava la neve. Quando c'era la neve, tutti si mettevano queste calze calde e pesanti e sopra le scarpe di cuoio, alte fino alla caviglia, con i chiodi a rinforzare le suole, anzi, con le bullette, noi le chiamavamo così. Il nonno, che soffriva il freddo, portava questo tipo di calze per tutto l'inverno.

Accanto alla cucina c'era il salotto, grande, con un tavolo rettangolare lungo più di due metri e mezzo, tanto che potevano starci diciotto o venti persone, con le panche ai lati lunghi e due sedie a capo tavola, i posti del nonno e della nonna. Di lato alla porta c'era una madia, dove la mamma e la

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zia facevano il pane.Alla parete di fondo c'era la vetrina, dove faceva mostra

di sé il servito di tazzine da caffè della nonna, ventiquattro pezzi con la riga d'oro, della fabbrica “Richard-Ginori”, che si usava solo nelle grandi occasioni.

All'altra parete, sopra la panca, in alto, erano appese, oltre a una bella immagine della Madonna del Rosario, quattro grandi fotografie color seppia: due, ingiallite dagli anni, del nonno e della nonna, e altre due dello zio Angiolino e di sua moglie.

A proposito del Rosario, il nonno lo diceva tutte le sere, “Maria Mater Gratiae”, e tutti dovevamo partecipare. Tutti in semicerchio intorno al camino acceso.

A volte i vicini venivano a veglia, dopo il Rosario. La porta d'ingresso era sempre spalancata, i visitatori, non

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2009 - Wilma è tornata a Pulianella.

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potendo bussare, esclamavano: “Si viene!”Si facevano le bruciate con i marroni, nella padella di

ferro tutta forata, col manico lungo per non si scottare. Il nonno diceva, tutto contento: “Bruciate e vino giovane!” Anche a me piacevano, ma il vino, logicamente, a noi bambini non lo davano. Dopo il salotto veniva la camera dei nonni, dove c'erano due letti matrimoniali, uno di fronte all'altro, un grosso armadio, un cassettone, quello della madre del nonno, e inoltre una cassa, sempre chiusa a chiave, con sopra un cappellinaio attaccato al muro.

Il nonno era molto religioso, tanto che gli amici lo chiamavano “Madonnina santa”, così sopra al suo letto c'erano ben sette immagini della Madonna, una differente dall'altra.

Le altre camere erano al piano di sopra, dove al soffitto c'erano le travi del tetto. Quando c'era la tormenta, con neve e vento, non si riusciva a dormire, tutto sbatacchiava, i fischi del vento mettevano in moto la fantasia e io avevo veramente paura che i tegoli volassero via con la tempesta. Per fortuna dormivo nel letto matrimoniale, in mezzo ai miei genitori, e così mi sentivo sicura e protetta.

Per la famiglia non c'erano feste, tutti i giorni si dovevano fare le stesse cose, governare le mucche, le pecore e gli altri animali, curare la mungitura, preparare il formaggio, la ricotta, era un gran lavoro.

Quando io e mia sorella eravamo piccole, la mamma era spesso triste o arrabbiata, poiché non poteva accudire le figlie come avrebbe voluto, dal momento che era sempre a lavorare nel campo, e se la prendeva col babbo, così nascevano fra di loro discussioni anche molto aspre.

Se ripenso a quei tempi difficili, alla fatica, alle privazioni, provo dispiacere per la mamma e la zia Norina, donne giovani, piene di idee, di energia, di voglia di fare, che

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dovevano soffocare la propria iniziativa, la propria intelligenza, perché questo hanno fatto, in nome della norma che imponeva loro di ubbidire sempre al marito e di seguire regole vecchie centinaia di anni.

Credo che lo zio Beppe non abbia mai capito a pieno la fortuna che aveva avuto a sposare Norina, anzi, rimproverava la moglie perché era troppo avanti con le idee: “Ma cosa dici, ma cosa fai, s'è mai vista una cosa così!” La zia vinceva alcune delle sue battaglie, la mamma invece si stancava di discutere e finiva per seguire la volontà del marito.

Ripensando al babbo, che ora non c'è più, e a tutta la fatica che ha dovuto fare, mi affiorano alla mente anche bei ricordi, di momenti piacevoli vissuti insieme.

A Pulianella non avevamo l'acqua in casa e quindi per fare un bagno decente, in estate, andavamo al fiume, la Stura, un po' più in alto della casa, dove l'acqua era veramente pulita e limpida, anche perché il fondo del bozzo era di pietra, e non c'era mota. Devo dire che sguazzare in quell'acqua fredda e trasparente era veramente bello. Quel posto si chiamava la Rondine, di lì non passava mai nessuno, non c'erano strade né viottoli, c'eravamo solo il babbo ed io.

Per arrivarci si attraversavano campi con alberi da frutto, meli, ciliegi, albicocchi, peschi, peri, con frutti dai colori brillanti, e si potevano scorgere tanti animali selvatici, lepri, fagiani, merli, tortore, cuculi, passeri e tanti altri, che riempivano l'aria con i loro versi. Si potevano percepire tutti i profumi, i rumori lievi provocati dal vento, i piccoli movimenti degli animali.

C'erano molti nidi di uccelli, che il babbo sapeva riconoscere da lontano, alcuni con le uova, altri con i piccoli già nati. Guai a toccarli, il babbo non voleva, altrimenti la mamma degli uccellini non gli avrebbe portato più l'imbeccata.

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Fatto il bagno, per riscaldarmi rincorrevo le farfalle, nei prati presso al fiume, che erano tutti fioriti e colorati, una meraviglia.

Piccoli momenti di felicità, che rivivono nella memoria.Tornando a casa si faceva un'altra strada, un po' meno

faticosa che all'andata. Si attraversavano i campi di grano con le spighe gialle, quasi mature, e i papaveri che si affacciavano col loro colore vellutato e brillante.

Ogni tanto spuntava là in mezzo l'azzurro dei fiordalisi, che mi ha sempre incantato; erano i miei fiori preferiti e li coglievo per portarli a scuola, alla mia maestra, la quale accoglieva con gioia quel semplice dono.

IL PODEREPulianella era un bel podere, dove si poteva arrivare fino

a un raccolto di centoventi sacchi di grano, senza contare granturco, ceci, fagioli, lupini per gli agnelli e vecce per i piccioni.

Per i piccoli raccolti gli uomini non chiamavano le macchine, ma li facevano a mano e li battevano col correggiato, un attrezzo particolare che per usarlo dovevi prendere il tempo, altrimenti ti batteva sulla testa. Erano due bastoni di legno, collegati insieme all'estremità da un pezzo di cuoio, detto correggia, uno si teneva in mano, l'altro si batteva sul raccolto.

Il podere era molto scosceso, con pochissima pianura, tanto che anche la casa era costruita su un terreno un po' in

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discesa. Per questo tutto diventava faticoso, la nonna camminava a stento anche sull'aia, specialmente dopo la prima, leggera, paralisi che l'aveva colpita.

La mamma diceva: “Qui non si mette mai un piede in pari, però tutto quello che si pianta o si semina cresce a meraviglia!” Clima e esposizione erano ottimi, ed è per questo che avevamo anche tanti frutti, di tutte le qualità.

Fattoria di Sopra di Cirignano, di Pasquale di Pietro, di Livorno, a Barberino del Mugello. Questa era la nostra fattoria.

Si chiamava Fattoria di Sopra perché ce n'erano due, alla distanza di cinquecento metri una dall'altra. Credo che i padroni fossero fratelli.

Là nei pressi c'era anche una chiesetta, con una statua della Madonna molto bella. Io e mia cugina Adriana, che abitava in un podere non lontano dal nostro, ci andammo per diversi pomeriggi a dottrina, per prepararci alla Prima Comunione. Ricordo un bel giardino tutto fiorito (era settembre), con tante rose gialle e molte altre piante in fiore, tutto molto pulito e curato. Non ricordo, invece, chi fosse la signora che ci ospitava in casa sua, ci faceva lezione e poi ci dava la merenda; forse era la moglie del signor Di Pietro, o quella del fattore.

Il podere era situato a metà strada fra Cirignano e Mangona, ad un'altezza di circa quattrocentocinquanta metri. I campi erano circondati da tantissimo verde, con boschi di enormi querce, da cui si potevano raccogliere tante ghiande per i maiali, estesi castagneti, che davano squisiti marroni, e alberi da frutto di tutte le specie. Ricordo con nostalgia le nespole, che maturavano fra settembre e ottobre; io ero molto golosa di questo frutto, che oggi non si trova quasi più. Anche le sorbe maturavano in autunno.

Ecco, io sono nata qui e sono cresciuta con questi frutti,

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che mi piacevano molto, ma non si mangiavano alla fine, come frutta, bensì durante il pasto, come companatico. La carne, invece, generalmente di coniglio o di altri animali da cortile, potevamo permetterci di mangiarla sì e no una volta al mese. Altrimenti uova, formaggio, verdure e, come ho detto, i frutti di stagione.

C'erano anche tanti funghi, e il babbo li conosceva e sapeva sempre dove cercarli. Arrivati sul posto, mio padre mi diceva: “Tu raccogli questi e poi mi aspetti, che vado a vedere un'altra fungaia qua sopra.” Io mi mettevo in ginocchio e in poco tempo riempivo il paniere fatto dal nonno. Era uno spettacolo indescrivibile, i funghi spuntavano dalla soffice borraccina, simile a quella che noi bambini raccoglievamo per metterla nel presepe; al posto dei personaggi, dei pastori, della Sacra Famiglia, c'erano i funghi porcini, belli e profumati.

D'inverno si ammazzava il maiale e se ne mangiavano alcune parti, mentre prosciutti, salami, pancetta e spalla venivano salati per essere venduti o consumati durante tutto l'anno.

Avevamo anche tanti conigli, che mangiavano in continuazione; gli si davano i marroni, dei quali erano ghiotti,ma oltre a questi non gli doveva mancare il radicchio, sì, quello che si mangiava anche noi, molto buono, rapacelli, cicerbite e così via. I cespi oramai troppo grossi per l'insalata andavano ai conigli, ma questi ne mangiavano tanti e raccoglierli era compito mio; era un lavoro pesante per una bambina, fino a buio nel campo, per poter sfamare tutti quanti gli animali. Incominciavo a farlo già da fine gennaio, col freddo, il vento e tanta solitudine, che a volte mi metteva paura.

Quando arrivava la primavera, finalmente, sembrava tutto più lieve, anche la fatica. In campagna con la bella stagione

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escono fuori tutti gli animaletti, farfalle, uccelli, fagiani, leprotti che, anche a scorgerli da lontano, mettono allegria.

Io amavo molto la primavera, con tutti i frutti fioriti. Si incominciava col mandorlo, poi il pesco, dal colore rosa vellutato, poi il ciliegio e poi i meli di tutte le qualità, con le sfumature di colore dal bianco fino all'arancio. I fichi ci accompagnavano fino a settembre, poi susine, pere e tutti gli altri. Quando arrivava la primavera il nostro podere si trasformava in un bel giardino tutto fiorito, dai mille colori.

Con la bella stagione arrivavano i barulli, così si chiamavano i merciai ambulanti. Alcuni compravano, altri vendevano; una volta uno ha comprato da noi ventisette conigli, per settecento lire. La mamma ha detto: “Con questi soldi si prende il lettino alla Wilma.” Ma i soldi non sono bastati, il lettino costava mille lire, così ho dovuto dormire ancora con il babbo e la mamma, perché nella zana non c'entravo più (non che mi dispiacesse, anzi!).

Un anno, vicino alla Pasqua, la stagione degli agnelli, il fattore venne per contare i piccoli nati e io lo accompagnai nella stalla. Lui contò e disse: “Sono ventuno.” Io obiettai: “Hai sbagliato, sono ventidue, conta di nuovo.” Lui rise e poi se ne andò. Io ci avrei scommesso, ero sicura che erano ventidue. Lo dissi alla mamma, ma lei, conoscendomi, non mi volle dare spiegazioni e cambiò discorso.

Il giorno dopo in tavola, per desinare, c'era la coratella, le interiora dell'agnello. La zia Norina, di fronte al mio stupore, mi disse: “Su, su non fare storie, si deve pur mangiare.” E, senza pensarci, aggiunse che la mamma lo aveva preso per le zampe di dietro e lei l'aveva sgozzato, spellato e poi sbuzzato. Sentito questo, inorridita, io mi sono messa a piangere e non ho più voluto mangiare.

Ho già detto che zia Norina sapeva fare di tutto, anche la macellara. Andava nella stalla o nel pollaio, secondo quello

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che era stato deciso di cucinare; se si trattava di un coniglio, due sberle sugli orecchi ed era morto, se invece si trattava di un papero era più complicato, allora lei si aiutava col manico della scopa e coi piedi, e la povera bestia era spacciata.

In questo periodo la mamma e la zia abitavano ancora insieme e si aiutavano a vicenda. Una volta si accorsero che il vitellino che allevavano nella stalla non finiva il latte della madre, allora si misero d'accordo: la mamma si avvicinava con il secchio e la zia, con in mano un bastone, si rivolgeva alla mucca, che non aveva un buon carattere, minacciandola: “Se ti muovi, ti ci accoppo.” E da quel giorno io, Dino e il bambino della vicina facemmo colazione col pane inzuppato nel latte, un lusso, per quei tempi.

La domenica la mamma e la zia Norina facevano le sfoglie, belle rotonde e gialle per le uova. Poi le ripiegavano in un certo modo e le tagliavano a striscioline, le tagliatelle. Anch'io ci provavo e mi piaceva pasticciare, poi finivo tutta infarinata. Quando c'erano ospiti le donne preparavano i tortelli di patate, una specialità della nostra zona, conditi col sugo di coniglio.

IL BUCATO

Quando la mamma e la zia facevano il bucato con la cenere, era un rito che a me piaceva molto, anche se a loro costava invece molta fatica. Lo facevano una volta al mese e ci impiegavano due giorni, utilizzando la conca che c'era in cucina, accanto al focolare.

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Per prima cosa sistemavano i panni scuri e quelli più sporchi sul fondo della conca, dopo averli insaponati, poi i panni più chiari e infine il bianco; ci mettevano un telo, poi un altro, adibito per contenere la cenere, e infine cenere a volontà, ripulita dai carboni. Poi acqua bollente in abbondanza, finché non usciva, altrettanto bollente, dalla cannellina in fondo alla conca, e a quel punto il bucato era pronto.

La mattina seguente i panni erano ancora belli caldi, allora la mamma e la zia Norina li sistemavano nelle ceste, fumanti e profumati. Per andare al fiume li caricavano sulla treggia trainata da due vacche, se non ubbidivano, urli e minacce.

Salivamo sulla treggia, la zia con le redini, Dino, la mamma ed io. Arrivati al fiume io e Dino si giocava, cercando di prendere un pesce, oppure dei granchi, che era più facile, mentre la mamma e la zia sciacquavano il bucato. Intanto passava la mattinata; finito di sciacquare si doveva ricaricare tutto sulla treggia per tornare a casa. Arrivati, si scaricava, la zia portava le vacche nella stalla, la mamma stendeva tutta la biancheria ad asciugare, sui prati e sulle siepi. Il profumo dei panni puliti era inconfondibile e se ci penso mi sembra di risentirlo, anche se è un odore che non esiste più.

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IL PANE

Anche la giornata del pane per me era divertente; si faceva una volta alla settimana e noi bambini lo prendevamo come un gioco, ma per le donne era molto faticoso, dovevano lavorare un sacco di farina da cinquanta chili.

La zia e la mamma, dopo aver impastato a mano tutta quella farina con l'acqua e il lievito, facevano una serie di filoni, circa cinquanta, e li coprivano con un telo bianco. Ogni volta stavano attente a lasciare una certa quantità di pasta, che doveva servire da lievito per la settimana successiva.

Intanto io e Dino si preparava la schiacciata con lo zucchero, se era autunno ci mettevamo anche l'uva nera.

Mentre i filoni lievitavano su una lunga asse coperta da vecchi teli, le donne scaldavano il forno con i sarmenti o con le fascine. Ogni tanto controllavano la lievitazione e quando i filoni erano diventati belli gonfi li infornavano; dopo un'ora il pane era cotto, sufficiente per le necessità della famiglia per una settimana.

Se era il tempo delle mele si cuocevano anche queste al forno, ed erano buonissime. Questi profumi, il lievito, il pane, l'uva, le mele, invadevano tutta la casa e si sentivano da lontano.

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I RIMEDI DELLA NONNA

Per il raffreddore, la nonna metteva la paletta di ferro nella brace e la faceva diventare tutta rossa, poi la bagnava con l'aceto e ci faceva respirare il fumo (le fumenta).

I piccoli tagli ce li faceva bagnare con l'orina e così seccavano nel giro di due giorni.

Per l'emicrania c'era un vecchietto, nel vicinato, che la segnava, con piccoli gesti e particolari preghiere, senza alcun compenso.

Alle bestie, ma anche ai bambini malaticci, si toglieva il malocchio. L'hanno fatto più volte anche a me, con un piatto, dell'acqua e dell'olio, accompagnando il rito con preghiere dette sottovoce.

Se le messi erano quasi mature, quando minacciava un temporale gli uomini si disperavano, bestemmiando e gridando: “Addio raccolto! Tutte le nostre fatiche!” La nonna allora correva nel canto del fuoco a prendere la catena del paiolo e la scaraventava in mezzo all'aia, recitando giaculatorie alla Madonna e a tutti i santi che conosceva.

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LA MIETITURA

Quando si avvicinavano i giorni della mietitura, per le campagne non si parlava d'altro. Quelle grandi vallate di verde, a poco a poco si facevano sempre più gialle, fino a diventare color oro.

Una volta maturo il grano, si doveva far presto a metterlo al sicuro, perché serviva per il pane di tutto l'anno.

Gli uomini parlavano del tempo che faceva, del vento, della minaccia di pioggia, ne parlavano di casa in casa: “il vento di sotto porta la pioggia”, “il vento è nemico delle spighe”; spighe che il contadino toccava con amore, come se le volesse accarezzare.

Negli anni subito dopo la guerra il grano e tutti i cereali venivano segati a mano, con la falce. Ricordo le grandi fatiche dei miei genitori e di tutta la famiglia, le schiene doloranti, le mani coperte di vesciche. Uscivano di casa alle quattro del mattino per tornare la sera alle nove, sfiniti dal lavoro sotto il sole cocente.

Giorno per giorno il grano segato veniva riunito in mezzo al campo. I contadini prima facevano i covoni e poi la serqua (un ammasso di tredici covoni), con tutte le spighe rivolte all'interno, riparate dal vento. Questa fase del lavoro cercavano di farla nel minor tempo possibile, in pochi giorni. Chiamavano i vicini, i parenti, gli amici. Poi, a loro volta, sarebbero andati ad aiutarli, per ricambiare. Così ci si dava una mano a vicenda.

Finito di mietere, gli uomini preparavano l'aia, la liberavano dalla legna e dagli attrezzi, la pulivano bene e poi

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facevano una specie di asfalto. I vecchi della famiglia dicevano: “Oggi si imbuina l'aia.” Come? Con lo sterco delle vacche: dividevano lo sterco dalla paglia, poi lo stendevano con dell'acqua e con una grande scopa, e il gioco era fatto. Risultato, una piccola piazza asfaltata; se erano fortunati e non pioveva, resisteva per tutti i raccolti.

Le vacche erano animali sempre molto importanti per il contadino, non solo per il latte che producevano, o per i vitellini, giocherelloni e simpatici, che venivano venduti a pochi mesi di vita per procurare denaro contante, che altrimenti non si vedeva quasi mai. Le vacche erano indispensabili per i lavori pesanti che facevano da mattina a sera, povere bestie, e persino per lo sterco e il concio che producevano.

Le bestie portavano i covoni sull'aia con il carro, dodici alla volta. I contadini facevano una grande barca, sempre con le spighe all'interno. Il più anziano, o il più capace, rimaneva sopra alla barca e sistemava questi covoni in modo che non vi entrassero né acqua né vento, affinché le spighe non si rovinassero.

Dopo una settimana o due arrivava la macchina trebbiatrice, che divideva i chicchi del grano dalla paglia. E il fattore, vicino ai sacchi pieni, che teneva il conto: “Uno a me, uno a te...”

Noi bambini avanti e indietro tutto il giorno per portare l'acqua fresca dalla sorgente. Il nonno stava molto più comodo, si limitava ad andare in cantina per il vino.

Finito tutto il lavoro, si festeggiava con un grande pranzo, col papero in umido come piatto forte.

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IL GREGGE

Come ho già detto, la nonna Anna era innamorata di tutti gli animali, ma in particolare delle pecore, e soprattutto degli agnellini.

Si accertava che tutti puppassero, li accarezzava, li puliva e appena erano un po' più grandicelli gli cuoceva i lupini, per lo svezzamento dal latte materno. Si sedeva sulla greppia e rimaneva per ore a guardarli.

A volte andavo anch'io con la nonna nella stalla, ma dopo un po' di tempo dovevo uscire; quell'odore mi infastidiva, odore di latte, di lana, di letame, tutto quel miscuglio mi diventava insopportabile. Anche dopo tanti anni, l'odore della stalla delle pecore lo riconoscerei fra mille.

La tosatura avveniva due volte all'anno, a maggio e a settembre, ed era un gran lavoro. Il babbo e gli zii si preparavano tre banchetti, uno per ciascuno: appoggiavano una porta su due caprette di legno ed ecco fatto il banco da lavoro. Prendevano una pecora, le legavano tutte e quattro le zampe insieme e la stendevano sul banco; nonostante questo brusco trattamento, la povera bestia non si ribellava.

Gli uomini sudavano tutto il giorno, passando da una pecora all'altra, e a sera le avevano tosate tutte e venticinque. La nonna gironzolava intorno ai banchi, per vedere che tutto andasse bene. I tosatori usavano forbici molto grandi e qualche taglio ci scappava, ma la nonna era subito pronta per medicare le ferite, sia quelle delle bestie che quelle degli uomini.

Ma prima di questa operazione c'era un'altra cosa importante da fare, il bagno a tutte le pecore, perché il

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compratore voleva lana pulita. Allora si aspettava una bella giornata di sole, si partiva alle dieci del mattino e ci si incamminava con il gregge. Gli uomini camminavano circa un'ora e dovevano essere due o tre, per tenere unite le pecore, che altrimenti si fermavano a brucare l'erba nei prati. Si attraversava il podere e anche un po' di bosco, per arrivare al fiume Stura.

Nel luogo prescelto c'era una cascatella di un paio di metri, con un bozzo non molto profondo. Alle pecore l'acqua non piace, e allora cosa facevano, il babbo e gli zii? Ne prendevano una a forza e la buttavano nell'acqua. Poiché le pecore non sono tra i più intelligenti degli animali, dopo la prima, le altre saltavano nell'acqua da sole.

Una volta nell'acqua, però, se ne sarebbero volute andare subito, ma uno degli uomini scendeva nel fiume insieme a loro e, prendendole una ad una, gli dava una lavata. Di solito questa operazione la faceva lo zio Tonio, il più giovane. Sembra strano, ma la lana al naturale si pulisce benissimo, anche senza sapone.

Poi il babbo e gli zii portavano le pecore in un bel prato, al sole, così mentre mangiavano si asciugavano, e infine di nuovo nella stalla, con la paglia del letto pulita e ancora sotto il controllo della nonna.

Mi è capitato di essere presente al pascolo quando qualcuna delle pecore ha figliato e, invece di provare paura o raccapriccio, mi sono trovata incantata nel vedere quella bestiolina che faticosamente emergeva dalle profondità del ventre materno e iniziava a vivere. L'agnellino si alzava in piedi quasi subito, in precario equilibrio, e dopo qualche ora già correva dietro alla madre.

Per tornare alla stalla, però, dato che era lontana e con un percorso in salita, lo doveva portare in braccio il garzone, con la madre sempre al fianco, che lo chiamava belando. Io mi

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rattristavo, pensando che molti di quei piccoli sarebbero finiti, arrosto o in umido, in tavola per la prossima Pasqua!

I cuccioli delle pecore hanno gli occhi grandi, il muso piccolo piccolo e si muovono con grazia; sono morbidissimi, viene voglia di toccarli e ritoccarli, fanno una grande tenerezza, anche perché non hanno proprio niente per difendersi.

Chissà, forse anche la nonna li vedeva in questo modo, e perciò si prendeva tanta cura di loro.

I GARZONI

La Liliana è la prima garzona che io ricordi, maleducata, vagabonda, ma anche intraprendente, come si è visto poi. Era una ragazza non bella, non molto alta, piuttosto grassoccia, con occhi marroni e capelli castani. Veniva da una famiglia della nostra parrocchia. Erano cinque figli, i genitori e la nonna. Loro erano a pigione, senza podere, e in famiglia lavorava solo il babbo. Da casa nostra sono passati tre dei fratelli più grandi, Urbano, il maggiore, Gina e Liliana, poveri in canna e affamati, ma da noi venivano trattati bene, perché nessuno trovasse da ridire e ci portasse per bocca.

Molto giovane, Liliana portava già le pecore al pascolo; era una ragazzina all'inizio ubbidiente e servizievole, poi sempre meno. In casa mia la trattavano come una di noi, forse anche meglio.

Ricordo un Natale freddo e ventoso; lei era arrivata da

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poco, ma per la Befana il babbo riempì tre calze, una piccola per me e due grandi, una per la Liliana, e una per una bambina figlia di parenti in difficoltà. Le calze erano le nostre, le avevamo attaccate la sera prima al camino, ma siccome io ero piccina, nella mia calza il babbo mise molti meno dolci che in quella di Liliana.

Veniamo alla paga della garzona: mangiare, bere, un letto dove dormire, due paia di scarpe, uno per la domenica, per andare alla Messa, e un paio con i chiodi per andare nei campi, tutto il vestiario e centocinquanta lire al mese, pagate al suo babbo, che si chiamava Onorato.

La Liliana è rimasta con noi come garzona finché non si è fidanzata con lo zio Tonio e da allora è diventata la padrona, almeno lei si comportava come se lo fosse.

Oltre a lei, ogni estate arrivava un garzone nuovo e il capoccia, il mio babbo, lo vestiva, gli comprava le scarpe da montagna e dava qualche soldo alla famiglia. Avevano tutti una gran fame.

Ne ricordo uno in particolare, Italo, che non ubbidiva mai, aveva solo dodici anni, ma era già molto furbo. Ha aspettato che venisse a trovarlo il suo babbo per raccontargli tutti gli spregi che, a suo dire, gli faceva lo zio Tonio. Ha raccontato che lo zio gli dava da mangiare le bucce del cacio e spesso gli tirava dei nocchini sulla testa. Suo padre l'ha riportato a casa, a Baragazza, facendo un sacco di storie e lanciando minacce allo zio. Il babbo, che era abituato a prendersi tutte le responsabilità, ha parlato con l'uomo e si è accordato con lui per due sacchi di grano, che gli ha dovuto dare come risarcimento per i “maltrattamenti”.

L'estate successiva è arrivato Orazio, un bel giovanotto bruno, alto e magro, dai denti bianchi e perfetti. Lui era già grande e si difendeva da solo. Era anche un tipo divertente, dopo cena, a veglia, era lui a tenere banco, raccontava le

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barzellette, o le sue avventure, vere o inventate. Masticava il vetro, suscitando grande stupore in noi bambini; io gli chiedevo poi di farmi vedere la lingua, per controllare se si era fatto male. Ma la cosa che mi è rimasta più in mente è quando ci leggeva un libro “da grandi”, a voce alta, e tutti noi, adulti e bambini, ad ascoltarlo; leggeva benissimo ed anche in modo avvincente, senza annoiare, tanto che tutti facevamo silenzio. Non rammento il titolo del libro, mi sembra, però, che raccontasse le avventure di un bambino rimasto senza genitori, e così a volte ci faceva ridere, a volte ci strappava qualche lacrima.

Orazio era un ragazzo che a momenti sembrava soffrire di solitudine. Credo che avesse perso alcuni dei suoi familiari e in certi momenti sembrava che rimpiangesse coloro che non c'erano più. Ogni tanto lo vedevo triste, con gli occhi velati; mi avvicinavo e allora lui mi chiedeva: “Mi vuoi bene?” Io gli rispondevo di sì, ma ero troppo piccola per capire il suo stato d'animo. Allora non me ne sono resa conto, ma forse Orazio è stato il mio primo, segretissimo, amore di bambina.

E' rimasto con noi per circa un anno, poi è tornato al suo paese, nel Bolognese, e non l'abbiamo più visto.

LA LILIANA

Tornato a casa dalla guerra, Tonio ha ritrovato la garzona Liliana ormai cresciuta, se n'è innamorato e di lì a poco, nell'aprile del 1947, l'ha sposata. La nonna non era per niente contenta e gli diceva : “Quella non è una donna per te.” Lo zio

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le rispondeva: “Mamma, non vi dovete preoccupare, ci penso io a domarla.” Da come sono andate le cose, però, si è visto che è stata Liliana a domare lo zio.

Nemmeno mio padre era favorevole, ma finiva sempre per assecondare il fratello, forse contava su di lui, non avendo figli maschi.

La nonna aveva ragione a non essere d'accordo, perché dopo il matrimonio la zia ha cominciato a manifestare tutta la sua cattiveria. Liliana non era più la garzona, ma la padrona; arrivava dove voleva, era prepotente e maleducata.

Aveva sposato lo zio Tonio giovanissima, quando aveva solo sedici anni, e approfittando della sua nuova posizione faceva un mare di dispetti a noi bambini. Vicino all'aia c'era un melo con l'altalena; se mi trovava che ci giocavo, mi faceva girare, girare, finché non vomitavo. Dino, essendo più grande, si difendeva meglio dai suoi soprusi.

A forza di sgomitare e fare prepotenze, Liliana ha fatto andare via da casa, per la disperazione, prima la zia Norina e poi la mamma. Infatti, anche a causa del comportamento di Tonio e di sua moglie, di lì a poco la famiglia ha incominciato a sgretolarsi.

Nel gennaio del 1949 (nel mondo della mezzadria tutti i cambiamenti e gli spostamenti avvenivano a gennaio, quando i lavori agricoli erano fermi) lo zio Beppe, la zia Norina e Dino ci hanno lasciato, si sono trasferiti al podere della Collina, a metà strada fra la nostra casa e la scuola dove andavo a quel tempo. Io mi fermavo da loro tutti i giorni, per un breve saluto, mentre andavo a scuola.

Io e la mamma eravamo molto dispiaciute, Dino e gli zii ci mancavano; il babbo, come al solito, non diceva niente, comunque sembrava preoccupato, perché era rimasto solo Tonio a dargli una mano nel podere. Per lo zio Beppe era stato facile trovare una nuova sistemazione, anzi, gliel'avevano

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offerta, perché lui aveva un figlio maschio. Il babbo e la mamma hanno resistito a Pulianella ancora

un po' di tempo, ma la nostra vita in casa con gli zii era un inferno, e andava sempre peggio.

La mattina mi recavo a scuola e almeno lì stavo bene, lontano da rancori e conflitti. Tornavo a casa e non trovavo nessuno ad aspettarmi, erano tutti al lavoro. La Liliana pretendeva che la mamma lavorasse nei campi come faceva lei, che non aveva figli.

Io cercavo di aiutare la mamma, di alleggerirle la fatica. Andavo a prendere l'acqua, anche se stentavo a reggere il peso della mezzina; mi occupavo di mia sorella ancora piccola, stavo attenta che non si mettesse nei pericoli, che erano tanti.

La zia non aveva rispetto per nessuno, né grandi né piccini, nemmeno per la nonna, la massaia. Avevamo un sottoscala molto fresco, quello era la nostra dispensa, vi trovavano posto il formaggio, il salame, le uova, il latte e così via. Lei se ne serviva, per sé e per lo zio, senza dire niente, a volte sciupando la cena al resto della famiglia.

Tonio aveva preteso un bel matrimonio, cosa che il babbo gli aveva fatto, la camera nuova, un ricco pranzo col cuoco, gli invitati, amici e parenti; tutte cose che la mamma non si era nemmeno sognata di chiedere per le proprie nozze. Gli amici e i vicini di casa, vedendo tutto quel lusso, ricordavano il nomignolo dello zio, che chiamavano scherzosamente “il principe”.

Tonio e Liliana non si contentarono di questo, anzi, diventarono sempre più prepotenti. Quando la sera facevo i compiti, lo zio, per farmi dispetto, prendeva la lampada a carburo e mi lasciava al buio, mentre lui andava in un'altra stanza. Io avevo sempre avuto paura del buio e gridavo a squarciagola, finché la mamma arrivava di corsa.

Da loro non ho avuto mai una carezza, un complimento,

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niente. Io ero la bambina malaticcia, quindi da mettere da parte.

Quando c'erano delle feste gli zii ci andavano sempre; io, poiché i miei genitori non mi ci portavano, chiedevo di poter andare con loro e a volte, dopo lunghe preghiere, mi dicevano di sì.

Una volta, a Mangona, c'era una festa in parrocchia, con la processione, ed io ci andai con gli zii. Finiti i festeggiamenti, fu deciso di prolungare il divertimento con la fisarmonica e il ballo. Oramai ero grande, avevo sette anni, ma con la Liliana non ce ne potevo: ad un tratto mi accorsi che era sparita senza dirmi niente.

Curiosa come sempre, senza preoccuparmi di essere rimasta sola, guardavo in giro, osservavo, volevo vedere tutto. Il sole tramontava, tutti si divertivano, ridevano e facevano chiasso. Un ometto piccolo e grasso suonava la fisarmonica e cantava (mi ricordo ancora il titolo di una canzone, “Perduto amore”); dopo un po' andai sulla porta e mi guardai in giro, incominciando a stare in pensiero, poiché gli zii non si vedevano da nessuna parte.

Le rondini stridevano forte per chiamare i piccoli al nido; di lì a poco sarebbe stato buio, ed io mi trovavo sola, anche se tra tanta gente. Aspettai ancora un po', rientrai e vidi che tutti ballavano, ma bambini in giro non ce n'erano più, era troppo tardi. Venni presa dal panico e cominciai a piangere, ma nessuno se ne accorse.

Pensavo: “E' buio, per arrivare a casa c'è un'ora di cammino, la strada è in mezzo al bosco...” In quest'angoscia passai ancora del tempo, non so quanto, finché la zia tornò, con l'aria più innocente del mondo, e mi disse: “Che piangi, cogliona?” come se non fosse successo niente. Questo fatto non lo raccontai alla mamma, ce n'era già abbastanza.

Passò un po' di tempo, poi, un'altra volta, venimmo a

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sapere che al paese di Barberino del Mugello, nel piccolo teatro, facevano vedere gratuitamente un documentario. Era l'occasione giusta per vedere un film, non l'avevo mai visto prima, ero curiosa di scoprire com'era.

Chiesi alla mamma di portarmi, ma lei non poteva, aveva la bambina piccola. Allora provai con gli zii e incominciai a chiederglielo al mattino, appena alzata: “Zia, posso venire con voi?”

Loro mi imposero una serie di ricatti: se vuoi venire, devi fare questo e quello, tutti lavori faticosi che sarebbero spettati a Liliana. Io, naturalmente, spinta dalla mia curiosità, li svolsi tutti.

Lo zio, prima di partire, mi avvertì: “ Non pensare che ti porti in braccio se ti addormenti!” Io risposi che non mi sarei addormentata.

Andammo, e la strada fu lunga. Arrivati al paese, si entrò nel teatro, e finalmente ci si mise a sedere; ero stanchissima, mi facevano male i piedi, perché avevo le scarpe di due numeri troppo grandi (me le compravano sempre a crescenza), ma non mi lamentavo, ero arrivata dove volevo.

Poco dopo incominciò il film, ma sullo schermo non c'era altro che fucili, carri armati, delle palle verdi che, mi spiegarono, erano bombe, uniformi, scarponi, cartucce, elmetti e tanti, tanti soldati, che mi risvegliavano brutti ricordi. Una vera delusione! E io che avevo fatto tanta fatica!

Intanto si era fatta ora di cena, e mi era venuta una bella fame. Nell'intervallo fra il primo e il secondo tempo lo zio uscì e comprò due panini col salame, uno per sé e uno per la zia; per me niente, così rimasi anche senza mangiare!

A causa di comportamenti di questo tipo, e peggio, le cose in famiglia non andavano più bene. Tonio, forte della sua posizione di unico maschio giovane in famiglia, pretendeva sempre di più e il babbo lo accontentava: aveva voluto la

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bicicletta, il fucile, Bobi, il cane........La Liliana mirava più in alto: non avendo figli suoi,

voleva mia sorella Gigliola, si era messa in testa di prenderla per sé, e faceva di tutto per metterla contro di me e i miei genitori. Il babbo non si è mai espresso in proposito, ma la mamma diventava una iena quando vedeva il comportamento della cognata.

Quando Liliana andava in paese, portava le caramelle, ma solo a Gigliola. La mia sorellina con me non voleva più giocare, cercava sempre la zia. La mamma non era più capace di pettinarla né di vestirla, la bambina diceva: “Lasciami stare, mi strappi tutti i capelli!” I bottoni del golfino avevano dei disegnini, la Liliana le diceva: “ La tua mamma li ha messi lì apposta perché ti mangino la gola.” E tante altre stupidaggini, a cui la bambina, che era molto piccola, credeva. La sera la zia la portava a letto con sé e chiudeva la porta da dentro, perché la mamma non potesse andare a riprendersela.

Poi le cose peggiorarono: una volta la mamma, tornando dal lavoro, sorprese Tonio e Liliana, insieme, che stavano ispezionando da capo a piedi la bambina, dopo averla spogliata completamente. La sua reazione fu violenta, gli disse chiaramente che dovevano farla finita, ma non ottenne nessun risultato.

Poco tempo dopo, un pomeriggio, andai con la nonna a raccogliere le mele per metterle in forno, poiché l'indomani si faceva il pane. Al ritorno trovammo la zia Liliana, col seno di fuori, che stava “allattando” mia sorella. La nonna scosse la testa, ma non le disse niente, io le chiesi, in tono beffardo: “Ma dove ce l'hai tu il latte?”

La bambina, intanto, sentendo che non le veniva niente dal seno, si era presa una bella bizza e sembrava che non riuscisse più a respirare. Andai di corsa a chiamare la mamma e le raccontai quello che stava succedendo.

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Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso; la mamma aveva dovuto subire già troppe prepotenze, non era disposta a tollerarne ancora.

Ero piccola, quindi quello che potevano i miei me lo nascondevano, ma mi ero resa conto anch'io della violenza che gli zii cercavano di farci. La cosa strana era l'atteggiamento del babbo, che subiva tutto senza protestare, con la scusa di dover mantenere la pace in famiglia.

Finalmente, per fortuna, un giorno lo zio Duilio, il fratello della mamma, venne a trovarci e ci disse che a Panzano si era liberato un piccolo podere che poteva andare bene per noi, la Mulinaccia. Il babbo e la mamma ne parlarono, si informarono e poi accettarono di trasferirsi laggiù. Era l'anno 1951.

Nello stesso anno anche Tonio e la moglie, rimasti soli con i nonni nella vecchia casa del Tognarelli, dovettero smettere di fare i mezzadri ed andarono ad abitare a Prato, in via del Romito.

Presero in affitto una casa con della terra, ma il padrone gliene toglieva un pezzo alla volta, per venderla a costruttori di palazzi. Lo zio lavorava in fabbrica e quando tornava andava nel campo vicino a casa, la zia faceva le pulizie presso una famiglia di signori alla Pietà.

I nonni, abituati a vivere in campagna, non si trovavano bene. Un giorno Pietro andò sulla scarpata dell'autostrada, che passava vicino a casa sua, per fare l'erba per le bestie, e una macchina lo travolse e lo uccise, anche perché il poveretto non era abituato a stare attento al passaggio delle auto.

Inutile ripetere che gli zii erano persone avare, che pensavano solo per sé. L'assicurazione dell'investitore pagò il risarcimento dovuto, ma Tonio e Liliana si tennero tutto, con la scusa che il nonno viveva con loro.

La nonna poco dopo, avendo subito nuove paralisi,

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rimase inferma e in pochi anni morì anche lei. La Liliana non si era arresa, voleva un figlio e, non

essendo riuscita a impadronirsi della mia sorellina, ci riprovò, questa volta con mio cugino Roberto, che aveva due mesi.

Dopo il parto la madre, la zia Gina, si era ammalata gravemente. Liliana accorse, piena di premura: “Al bambino ci penso io, tu non ti devi preoccupare.” E Tonio d'accordo, avevano già fatto i loro piani.

Dopo un po' di tempo la madre di Roberto guarì e richiese suo figlio, ma niente da fare. “Roberto resta con noi,” disse Liliana. Intanto il bambino, logicamente, si era affezionato agli zii, li chiamava babbo e mamma.

Questo per Gina fu un grave colpo e si prese un forte esaurimento. Non volle però arrendersi e continuò a richiedere indietro il figlio. Dopo tante liti, un giorno la madre si riportò il piccolo a casa, ma il bambino piangeva, non mangiava, così Elio, il padre di Roberto, disse alla moglie: “Lascialo alla Liliana, lo riprenderai quando sarà più grande, nel frattempo ce lo campano loro.”

Di fronte a questo “tradimento”, zia Gina si avvilì ancora di più; non aveva pace, si sentiva abbandonata, vedeva che Liliana aveva plagiato anche suo marito, come aveva fatto con i nonni, Tonio, Roberto e mia sorella. E pensare che la povera donna alla quale quei due stavano strappando un figlio, era la sorella di Tonio!

Liliana è morta a cinquantaquattro anni, dopo aver passato tutta la vita in battaglia, con l'uno o l'altro dei suoi parenti. Quanto a Gina e Elio, Liliana gli aveva concesso, per un periodo di tempo, di stare vicino al loro figliolo, affittandogli due stanze, camera e cucina, in casa sua.

Roberto, tuttavia, è vissuto con la Liliana finché lei è morta.

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LA SCUOLA

Comignano, primo ottobre 1947, primo giorno di scuola. Mi ero incamminata per tempo, appesa a una cartella di fibra marrone, più grande di me. Dentro poche cose, un lapis, un quaderno a quadretti grandi, la merenda (una fetta di pane e una mela), tanta emozione e paura. Non c'erano libri, poche famiglie a quei tempi potevano permettersi di comprarli. Non avevamo il grembiulino, quella fu una novità della quinta classe.

La maestra si chiamava Ivana, era giovane e attenta alle necessità di noi bambini, specialmente dei più piccoli; oltre a me, aveva altri alunni, di varie età e di tutte le classi, perciò doveva far fare, durante la mattinata, lavori diversi, organizzando i compiti per tutti e avendo a disposizione un solo libro di testo per classe.

A noi bambini di prima toccarono due pagine di bastoncini, ma, nonostante tutto il mio impegno, io non riuscivo a farli diritti.

Non conoscevo nessuno e rimasi zitta tutta la mattina, senza avere il coraggio di rivolgere la parola a una compagna, anche perché non ce n'erano della mia età. Mi sembrava che non arrivasse mai mezzogiorno e quaranta, per essere libera di tornare a casa dalla mamma.

Oltre alla soggezione per la maestra e per l'ambiente nuovo, provavo una gran vergogna, perché avevo le caviglie e i piedi coperti di croste marroni, per una specie di allergia che mi provocava delle bolle, e quindi non potevo mettere lescarpe (ero andata a scuola con ai piedi delle vecchie ciabatte).

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Come se non bastasse, forse in seguito allo spavento subito a causa dei tedeschi, da quella terribile notte balbettavo un po', specialmente se mi trovavo fra persone che non conoscevo.

La maestra aveva capito subito che ero in difficoltà, e aveva cercato di aiutarmi ad inserirmi nella classe ed a svolgere i compitini che ci assegnava.

Vedendo che non andavo meglio, però, alcuni giorni dopo mandò a chiamare la mamma, la quale provò a spiegarle i miei problemi, dovuti, secondo lei, soprattutto a ragioni di salute.

Il dottore aveva detto che dovevo mangiare di più, non dovevo prendere freddo e non mi dovevo bagnare, cosa impossibile d’inverno, dovendo camminare trenta o quaranta minuti per andare a scuola, in mezzo a campi e boschi, con calzature non adatte.

Allora, con mio grande sollievo, la maestra e la mamma decisero di rinviare tutto all’anno successivo, anche perché ero la più piccola della classe, ero nata alla fine di novembre e non avevo ancora compiuto sei anni.

Primo ottobre 1948. Era passato un anno, io ero cresciuta, stavo meglio, non balbettavo più.

Il primo giorno io e Dino (quell'anno eravamo nelle stessa scuola) ci alzammo presto, intorno alle sette, e facemmo colazione; poi la mamma mi fece le treccine, coi fiocchi rossi, e mi fece indossare la gonnella nuova a pieghe e il golfino di lana di pecora, con le tasche, che mi aveva fatto lei.

Dino mi prese per mano e io mi incamminai con lui, questa volta con le scarpe ai piedi.

A scuola, i bambini erano tutti come me, un po' spaventati, ma presto ci tranquillizzammo, grazie ancheall'atteggiamento gentile e paziente della maestra.

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Nella mia classe c'erano alunni di prima, seconda e terza, tutti insieme, con una sola insegnante.

Durante la mattinata noi piccoli andavamo avanti con i puntini e le aste, fatti col lapis sul quaderno a quadretti, mentre gli scolari più grandi studiavano le tabelline o facevano il dettato. Siccome quasi nessuno aveva il libro di testo (a quei tempi si chiamava sussidiario), la maestra dettava agli alunni la lezione di storia, di geografia, di scienze e così via.

A me veniva a noia a fare sempre i soliti esercizi, allora mi distraevo ascoltando quello che l'insegnante dettava ai grandi, e mi dimenticavo di fare le aste. Ricordo in particolare una bella poesia, “S. Martino”, che studiavano i bambini di terza; loro stentavano ad impararla, ma a me piaceva tanto che la sapevo benissimo, parola per parola. Quando uno non la ricordava, io gli suggerivo, e per questo venivo richiamata dalla maestra.

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1948 - Wilma con la cugina Marisa, figlia di Ida, e il suo fidanzato Benito.

1948 - Wilma e il cugino Silvano Cerbai sono passati a Cresima.

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Con i numeri me la cavavo abbastanza bene, la cosa più difficile per me era leggere; leggevo malissimo, non so perché, forse perché facevo poco esercizio, oppure perché leggere ad alta voce in classe faceva rinascere in me tutte le vecchie paure, compresa quella di balbettare di nuovo.

L'insegnante diceva che mi dovevo esercitare dopo la scuola, ma i miei non me ne lasciavano il tempo. Arrivata a casa, c’erano già pronti i lavori da fare: dovevo governare gli animali, raccogliere l'erba per i conigli e, oltre a questo, dovevo badare alla mia sorellina.

Fra i miei familiari, solo la mamma dava importanza ai miei progressi scolastici, per gli altri lo studio era solo una perdita di tempo, perciò la sera, dopo cena, a volte non mi lasciavano nemmeno una lampada di cui potermi servire per finire di fare i compiti.

Ottobre 1949, classe seconda. Ero contenta di tornare a scuola, anche se dovevo darmi da fare per mettermi in pari con i miei compagni, perché durante l'estate non avevo fatto niente, non mi ero nemmeno esercitata nella lettura.

La maestra mi rimproverò e io ci restai male, ma non le dissi che i miei non mi avevano nemmeno comprato il libro dei compiti per le vacanze.

Piano piano recuperai, acquistando sicurezza anche nel leggere. Mi piacevano le storie che ci dettava l'insegnante, le leggevo fino a saperle quasi a memoria.

In classe con me c'era una bambina di nome Milena, molto buona e carina, che era sempre provvista di tutto, quaderni, libri, matite di tutti i colori, insomma, tutto ciò che occorreva per la scuola.

Poco prima delle vacanze di Natale la maestra arrivò in classe con un pacco di materiale scolastico; io pensavo che fosse per tutti noi bambini e quindi chiesi che mi fosse data

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una gomma per cancellare rotonda, tutta colorata, come io non ne avevo mai viste prima, ma l'insegnante ci informò che quella roba non era per tutti gli alunni, ma solo per Milena.

Io ci restai molto male, perché non riuscivo a capire; allora la maestra, con garbo e pazienza, ci spiegò che il pacco veniva dal “Patronato Scolastico”, ed era destinato a Milena perché lei era orfana del babbo, il quale era partito per la guerra e non era più tornato.

Finita la scuola, mentre mi avviavo verso casa, non molto convinta mi chiedevo: “Come mai lei che non ha più il babbo ha tutte quelle cose e a me, che ce l'ho ancora, manca tutto?” Solo dopo averci riflettuto a lungo ho capito, e non ho più invidiato a Milena le matite colorate e le altre belle cose che aveva in cartella.

Quell'anno dopo le vacanze di Natale ritornammo a scuola con la neve. Il paesaggio era totalmente cambiato: intorno alla casa era tutto bianco, uscendo dal bosco si entrava in un grande prato coperto di neve, sembrava di stare in mezzo a una fiaba; al mattino, le prime impronte di scarpe erano quelle di noi bambini, ma si distinguevano anche le orme lasciate da tante specie di animaletti. Dino le sapeva riconoscere (così almeno diceva) e me le indicava: c'erano quelle del cervo, del leprotto, dei passerotti e così via. La stradina in mezzo al prato non si vedeva più. Ci mettemmo a fare capriole, a distenderci sulla neve........ e così facemmo tardi a scuola!

In classe i primi pensierini di noi piccoli e il tema dei più grandi furono, naturalmente, sulla neve!

Ottobre 1950, classe terza. Arrivarono disposizioni dal Comune: la scuola, da Comignano, venne spostata alla Collina, in casa del prete, visto che questo era stato trasferito e la canonica era vuota.

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La scuola di Comignano era stata bombardata durante la guerra e non era mai stata ricostruita; fino ad allora un contadino aveva fornito una sede provvisoria in casa sua.

Nella nuova sede della Collina, al mattino le lezioni incominciavano un po' più tardi, alle nove, dato che la scuola era fuori mano, ma io mi alzavo sempre molto presto, perché dovevo eseguire i soliti lavori per aiutare i miei genitori.

A metà del cammino verso la scuola trovavo la casa dove si erano trasferiti Dino e i suoi e mi fermavo sempre, anche per pochi minuti, per salutarli. Rivederli mi faceva piacere, poiché ero molto affezionata alla zia e a mio cugino. Quando faceva veramente freddo e nevicava, la zia Norina mi faceva trovare pronta una bella tazza di latte caldo, per ristorarmi prima di riprendere il cammino.

A scuola mi trovavo bene, la storia e la geografia mi piacevano, e così l'aritmetica, ma i miei voti rimanevano bassi,probabilmente perché a casa non avevo il tempo di fare i compiti e di esercitarmi a leggere.

Inoltre in casa non c'era armonia, mancava la serenità, e anche questo, l'ho capito dopo, influiva sui miei risultati scolastici.

Eravamo già arrivati a primavera, gli orti e i prati erano tutti fioriti di mille colori. Di solito la primavera mi metteva allegria, ma quell'anno ero preoccupata, avevo l'esame e temevo di non farcela.

A giugno facemmo gli esami al Casino, una frazione di Barberino del Mugello, e io fui promossa in quarta. Le insegnanti che ci avevano interrogato mi avevano chiesto tutte cose che conoscevo bene! Sarà stata fortuna o forse la mia maestra mi aveva voluto aiutare, visto che a scuola mi impegnavo tanto?

Ottobre 1951, classe quarta. Sapevo già, all'inizio

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dell'anno scolastico, che a gennaio avrei cambiato casa e anche scuola. Saremmo andati ad abitare al podere La Mulinaccia, a Panzano, e la scuola sarebbe stata al Nerini, a circa un'ora di cammino. Oramai ero abituata a camminare, per andare a scuola!

Il pensiero di dover cambiare a metà anno, però, mi rendeva nervosa, perché sarebbe stato un ambiente nuovo, nuovi compagni, nuova maestra.........

Ah, dimenticavo, alla maestra Ivana era stata accolta la domanda di trasferimento, da allora avrebbe insegnato vicino a casa. Ero contenta per lei, ma mi piangeva il cuore a lasciarla!

La nuova insegnante, Giovanna, così si chiamava, era una ragazzona, giovane anche lei, che arrivava in bicicletta, o meglio, spingendo la bicicletta, perché per raggiungere la scuola c’era una bella salita.

Era una brava maestra, capace e paziente, ma quello che più mi piaceva di lei era il sorriso che aveva sempre sul volto!

Ogni tanto ci portava fuori durante la ricreazione, nella piazzetta della Chiesa, e ci faceva divertire insegnandoci i giochi che faceva lei da piccola. Per me erano tutte cose nuove, perché a casa il tempo che potevo dedicare ai giochi era molto poco!

La maestra si rendeva conto delle mie difficoltà, vedeva che spesso ero stanca e cercava di venirmi incontro, così, anche se facevo tardi, al mattino, non mi sgridava. Io capivo quanto era buona con me, e anche per questo mi mortificavo da sola, per le mie mancanze.

A casa la mamma non mi guardava mai la cartella, non ne aveva il tempo; il nonno diceva, scuotendo la testa: “Perdetutto il tempo per la scola…”

Arrivò il Natale, con le vacanze, ma io preferivo andarea scuola: in casa mia c’era troppa tensione, fra i miei genitori e

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gli zii.A metà gennaio ci trasferimmo finalmente al podere la

Mulinaccia; mi bastarono due o tre giorni per aiutare la mamma a sistemare la casa, con le poche cose che ci erano toccate nella divisione.

Poi di nuovo a scuola, questa volta al Nerini, presso un contadino che aveva la casa grande, con due stanze adibite a scuola, per le cinque classi, e il gabinetto sulle scale.

Dopo il trasferimento, ancora i soliti problemi. “Dai, non dobbiamo fare una brutta figura alla nuova

scuola,” cercavo di incitarmi, al mattino, ma ero sempre più stanca, perché adesso che eravamo soli ad occuparci del podere, i lavori che mi venivano assegnati erano cresciuti.

Per fortuna non ero più sola, avevo trovato tre compagne, anzi, tre amiche, la Gina, l’Ottavina e la Fiorenza (erano sorelle); facevamo la strada insieme, chiacchierando e ridendo,

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La casa colonica del Nerini, dove Wilma ha frequentato parte della quarta elementare.

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e così sembrava meno lunga.A giugno fui promossa, questa volta senza bisogno

dell'aiuto della maestra.

In quinta mi cambiarono scuola di nuovo. Il Comune di Barberino del Mugello aveva stabilito che i bambini che abitavano dopo il cimitero di Panzano dovevano andare a scuola al Cornocchio. La strada era un po’ più breve, le amiche le avevo ancora, così non mi lamentavo. Da un po' di tempo mi sentivo più serena, il mondo mi sembrava meno crudele.

Mi inserii subito nella classe, ogni giorno andava meglio. La mia insegnante mi piaceva, mi era piaciuta sin dal primo momento.

Si chiamava Rosanna Sandretti ed aveva ventinove anni. Era una ragazza bruna, portava i capelli legati dietro la nuca con un nastro nero; aveva gli occhi scuri e dolci, un bel sorriso grande e sincero. Vestiva in modo sobrio e accurato, in classe metteva il grembiule nero per non sporcarsi il vestito. Era molto attenta e rispettosa, anche con gli alunni, e spiegava tutto molto bene.

Per la prima volta anche noi bambini avevamo il grembiule nero e il colletto bianco, così eravamo tutti vestiti uguale e ordinati. Per la prima volta avevamo anche il sussidiario, ognuno il suo!

I giorni scorrevano veloci. Io non facevo mai un’assenza, non c’era niente che mi potesse fermare, alle otto ero già pronta, sgridavo le amiche quando tardavano, anche se avrei dovuto capirle: erano in una famiglia con dodici figli, le sorelle più grandi curavano i più piccoli, perciò liberarsi per venire a scuola per loro era un'impresa, ogni mattina.

Dopo le lezioni, la mamma cercava di lasciarmi qualche ora libera per i compiti, ma le difficoltà erano tante.

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Oltre al resto, non c'erano soldi per comprare libri, quaderni, matite. La mamma cercava di arrangiarsi col ricamo, la sera dopo cena, lavorava a tovaglie, tovaglioli, lenzuoli; io le facevo compagnia e cominciavo a darle una mano, facendo qualche orlo a giorno o punti altrettanto facili, ma finivo sempre per addormentarmi.

Il babbo era sempre nervoso, gli mancavano i suoi fratelli, anche se Tonio l'aveva trattato molto male, al momento della divisione.

Mia sorella era piccola, frequentava la prima classe e non ci voleva andare, non le piaceva la scuola.

Rosanna, la mia insegnante, non solo era precisa e meticolosa nel suo lavoro, ma era anche una donna meravigliosa dal punto di vista umano, capace di ascoltare, capire, aiutare.

Eravamo quindici alunni su due classi, quarta e quinta, e le volevamo tutti bene, anche quelli che non amavano la scuola e non avrebbero voluto continuare a venirci.

Si parlava di tante cose e lei, nella sua semplicità, riusciva sempre a farsi capire da tutti. A me diceva che ero più grande della mia età e che avrei dovuto proseguire negli studi, perché ci ero portata, e smettere sarebbe stato un peccato.

Eravamo già a primavera inoltrata. Vicino alla mia casa c’era un campo di grano che, come si faceva buio, si riempiva di lucciole; io le osservavo tutte le sere dalla finestra della mia camera, riflettendo e sognando ad occhi aperti.

Non mi piaceva la vita dei miei genitori, mai e poi mai avrei voluto vivere come loro. Ma come fare a cambiare? Quando gliene parlavo, l’insegnante mi diceva: “Se prosegui gli studi, ti si presenterà sicuramente l’occasione.”

A giugno c'erano gli esami, ma questa volta non ci dovemmo spostare, si rimase nella nostra scuola, vennerodegli insegnanti esterni per esaminarci.

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1952 - In quinta, finalmente, anche Wilma ha il suo sussidiario!

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Io ero tranquilla e serena e infatti venni promossa conl’otto in matematica! La maestra fu molto orgogliosa di me, per i risultati che avevo ottenuto. Io da una parte ero felice, dall'altra mi piangeva il cuore, perché sapevo che avrei dovuto lasciare la mia insegnante e i miei compagni.

Anche la Fiorenza venne promossa, ma lei, a differenza di me, era molto contenta che quello fosse l’ultimo giorno di scuola.

Non mi fu possibile iscrivermi alle medie, un po’ per i soldi, che non c'erano, e un po’ per la lontananza di casa mia dalla scuola. Le medie erano a Barberino, avrei dovuto fare circa mezz’ora a piedi e un’altra mezz’ora in autobus, per arrivarci.

Così, dopo qualche discussione in famiglia, l'idea venne messa da parte e la mia avventura scolastica finì.

LA PRIMA COMUNIONE

Dopo il catechismo a Cirignano, in fattoria, il 6 settembre del 1950 era arrivato per me il giorno della Prima Comunione. A settembre, invece che a giugno, perché la nostra parrocchia non aveva il prete, venivano quelli delle parrocchie vicine quando avevano tempo.

A fare la Prima Comunione quell'anno eravamo solo quattro bambini, due femmine e due maschi: Iliano, Emilio, mia cugina Adriana ed io.

La signora Bagnoli, padrona del podere Puliana,

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6 settembre 1950 - Wilma ha fatto la Prima Comunione.

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partecipava sempre alle feste del suo contadino, il padre di Iliano; siccome era l'unica che avesse la macchina fotografica, gentilmente si era offerta di fare le fotografie a tutti noi bambini. La mamma, però, avendo speso tutti i soldi che aveva per il vestito bianco e il velo, alle foto aveva dovuto rinunciare, per paura che le fossero chiesti dei soldi.

Io ci tenevo ad avere un ricordo della cerimonia, specialmente per il vestito, ma ho dovuto aspettare fino alla primavera successiva per fare quelle benedette fotografie, le ho desiderate per otto mesi!

Un sabato di maggio del '51 siamo andate finalmente, la mamma ed io, a Barberino del Mugello. Oltre alle foto, la mamma doveva fare tante altre cose, prima di tutto riconsegnare il lavoro di ricamo (ricordo che era una tovaglia con dodici tovaglioli, ricamata di un marroncino quasi grigio a punto antico) e poi fare numerose piccole spese, per sé e per le altre donne della famiglia; per questo mi ha lasciata dalfotografo, dicendomi: “Intanto vestiti, che io torno subito.”

Io, ubbidiente, ho cercato di vestirmi, ma siccome lei ritardava ho dovuto fare tutto da me, così è andata a finire che mi sono messa il vestito all'incontro (il davanti di dietro); nella fotografia, per fortuna, non si nota molto, ma dalla mia espressione si capisce che le cose non erano andate proprio come avrei voluto io!

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LA MULINACCIA

Il “fondo” era un'antica usanza contadina molto diffusa nel Mugello, per quanto in via di superamento, perché decisamente ingiusta. Quando in una famiglia ci si doveva dividere, il cinquanta per cento dei beni andava ai vecchi, i genitori, il resto veniva diviso in parti uguali fra i figli maschi. Alle figlie femmine non toccava niente. Nel gennaio del '49, quando zio Beppe e zia Norina decisero di andare a vivere per conto proprio, fu chiamato lo stimatore, ma siccome tutto dipendeva dalla volontà dei componenti della famiglia, fu deciso di comune accordo che la spartizione non rispettasse l'usanza e che tutto sarebbe stato diviso in quattro parti uguali fra Pietro, il padre, e i tre figli, Ottavio, Beppe e Tonio.

Nel gennaio del 1951, come ho già detto, anche i miei genitori, mia sorella ed io ci trasferimmo al nuovo podere, ma la divisione dei beni non fu eseguita in parti uguali, questa volta fu stabilito di seguire la vecchia usanza, cioè il cinquanta per cento al padre e il cinquanta per cento ai due figli maschi.

In questo modo a Tonio, che rimase in casa con i vecchi (erano in tutto quattro persone, i nonni, Tonio e Liliana), toccò il settantacinque per cento dei beni della famiglia, mentre a mio padre e ai suoi (anche noi eravamo in quattro), rimase solo un venticinque per cento. Questo ci mise in gravi difficoltà, perché vennero a mancarci molti utensili per la casa e strumenti indispensabili per il lavoro, oltre a una bella somma di denaro.

Noi chiedemmo ai nonni perché ci avessero trattati in

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maniera così ingiusta, rispetto ai precedenti, e la nonnarispose sottovoce, come se si vergognasse, che Tonio aveva voluto così.

Al babbo mancavano diversi attrezzi da lavoro, tra cui il giogo, che l'amato fratellino non gli aveva voluto dare nemmeno pagandolo, aveva preferito venderlo ad un altro contadino.

La mamma era rimasta priva di capi di biancheriaindispensabili per la casa, tra le cose più urgenti il ricambio delle lenzuola dei letti. A Pulianella c'erano sedici lenzuoli e nella divisione otto erano toccati al nonno, quattro allo zio Tonio e quattro al babbo.

E ora veniamo ai soldi che c'erano in fattoria, sì, perché i soldi li teneva il fattore, usava così. In tutto erano circa ottocentomila lire.

Con lo stesso sistema di spartizione, seicentomila lire

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2009 - "La Mulinaccia" ristrutturata e trasformata in agriturismo.

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erano toccate a loro, duecentomila a noi. Tutte le responsabilità sostenute, i sacrifici fatti dal babbo per la famiglia durante gli anni della guerra, quando era rimasto il solo uomo a lavorare il podere, erano stati ripagati così!

Arrivati alla Mulinaccia, i miei sistemarono in breve tempo le poche cose che gli erano toccate.

Il podere, per fortuna, era più comodo dell'altro, i campi erano vicini a casa e quasi tutti in pianura. C'era anche un piccolo fiume, che nasceva poco lontano da noi, ai piedi del Monte Maggiore della Calvana. La mamma doveva sempre aiutare il babbo per i lavori dei campi, ma non si allontanava mai molto, se la chiamavo da casa mi sentiva.

Dopo la scuola, io dovevo occuparmi degli animali e cercavo di farmi aiutare da mia sorella, ma lei non mi ubbidiva e così mi toccava fare tutto da sola.

Avevamo due maiali, fra cui una femmina che presto avrebbe avuto i piccoli, due vacche bianche, undici galline, un gallo, una decina di conigli e infine un gatto bianco e nero, Macchia, a cui ero molto affezionata.

La mamma disse al babbo: “Dobbiamo darci da fare, inventarci qualcosa, ci hanno mandati via scalzi e 'gnudi!” Il babbo, al solito, taceva, allora lei aggiunse: “Alla Wilma mancano le scarpe pesanti per andare a scuola, alla Gigliola non solo le scarpe, ma le magliette, la cappa, tutti i vestiti. E' cresciuta, non entra più in quelli dell'anno scorso!” Gigliola era una bella bambina veniente, cresceva a guardarla, di conseguenza il vestito nuovo bisognava comprarlo sempre a lei e non rimanevano i soldi per me.

Di fronte a queste urgenti necessità, la mamma parlò con la Bruna, una nostra vicina di casa. Eravamo a luglio, le galline stavano covando e la mamma si fece scambiare le uova di gallina con quelle di tacchina, così dopo ventotto giorni le nacquero dei tacchini, invece che dei pulcini. All'epoca il

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tacchino si vendeva bene a Natale e pesava il doppio del pollo. Si arrivò a settembre che avevamo allevato ventidue

tacchini; si tratta di bestie molto voraci, mangiano di tutto, ma bisogna sorvegliarle perché non facciano danni.

Il babbo mi diceva: “Li devi controllare, altrimenti ci vendemmiano loro prima del tempo e nella vigna rimangono attaccati alla vite solo i raspi.”

Allora, oltre che ai maiali, dovevo badare anche ai tacchini, che mi facevano quasi paura, da quanto erano grossi e aggressivi. Il babbo mi aveva fatto una bacchetta morbida e sottile, di salcio verde, che doveva servire per controllare gli animali. Avrei dovuto, all'occorrenza, colpirli piano, ma un giorno ho perso la pazienza e ho tirato un colpo troppo forte a un tacchino dei più grossi, che ha cominciato a richiamare tutto il branco, facendo il suo verso minaccioso: “Tich, tich, tich.....” e spiccando brevi voli, con tutti gli altri dietro. Io gli ho tirato di nuovo con la bacchetta, ma gli ho fatto male ad un'ala, che è scesa giù e così è rimasta. Nonostante questo, il tacchino ha mangiato normalmente e ha raggiunto il peso, come gli altri del branco; il compratore, però, non l'ha voluto, ha detto che era difettoso, così l'abbiamo mangiato noi.

A febbraio del 1952 il babbo si è iscritto alla piantata degli alberi in Calvana, a settecentocinquanta lire al giorno, ma questo lavoro è durato poco. La mamma, a casa, si faceva in quattro per curare tutti gli animali, poi aveva me e mia sorella da accudire, la casa, il bucato, il pane e tutto il resto.

Comunque eravamo contenti, perché ci eravamo liberati di chi ci aveva fatto soffrire e finalmente avevamo anche messo da parte un po' di soldi.

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IL LAVORO E LA CASA

Quando ero triste, ripensando alla scuola che avevo dovuto abbandonare, andavo a trovare le mie amiche, la Fiorenza, la Gina e l’Ottavina, e i loro nove fratelli, tre femmine e sei maschi. La loro mamma era di nuovo in attesa e, nonostante la miseria, con tutti quei bambini nella casa non c’era spazio per la tristezza.

Ma anche per le mie amiche la scuola era in seconda fila, anche loro, per la maggior parte del tempo, dovevano guardare i fratellini, oppure ricamare, curare le bestie o fare altri lavori.

Vicino a casa mia abitava un'altra bambina, Rosanna, che aveva qualche anno più di me; io non mi ci trovavo bene come con le altre, ma lei si è rivelata, poi, una vera amica. Quando eravamo insieme si parlava di tante cose, lei mi diceva soprattutto dei suoi fidanzatini, mentre, secondo me si poteva chiacchierare anche di argomenti più seri.

Io le raccontavo le difficoltà della mia famiglia e le dicevo anche che con i miei mi trovavo a disagio, come se, pur essendo con il babbo e la mamma, fossi stata, per così dire, fuori posto.

Progettavo di riprendere gli studi, quando avessi potuto, ma prima di tutto volevo trovare un lavoro, per guadagnare un po' di soldi, perché bisognava che facessi qualcosa per aiutare la mia famiglia.

Dopo un po’ di tempo Rosanna, sapendo che avrei voluto lavorare, mi disse: “Ti piacerebbe occuparti di una bambina di quattro anni? La sua mamma deve riprendere il lavoro e cerca una persona fidata per affidarle la figliola.”

Quei signori abitavano a Firenze, quindi sarei dovuta

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restare anche a dormire e sarei tornata a casa una volta alla settimana. Avrei dovuto prendere la Sita, la fermata dell'autobus era molto vicina alla casa dove abitava quella famiglia.

Ne parlai con la mamma, che non ne fu punto entusiasta; disse che avevo solo dodici anni, dove volevo andare. “Sì,” risposi io, “ma la vogliono piccola, la bambinaia, altrimenti gli costa troppo.”

Infine la persuasi e, piena di speranza, mi preparai la valigia, con il cambio dei vestiti e della biancheria.

La domenica successiva arrivarono quei signori; una volta al mese venivano a ritirare il bucato che gli faceva la mamma di Rosanna. Io li avevo visti altre volte, ma loro non

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1953 - Wilma alla Mulinaccia.

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mi avevano notata. “Dov’è questa ragazzina?” disse la signora, che si

chiamava Flora. “Ora arriva,” rispose la mamma di Rosanna.Erano tutti sotto il noce, davanti a casa; io arrivai di corsa e salutai la signora, ma lei, invece di rispondere al saluto, esclamò: “Ahhh, è così piccola!.......”

Con un filo di voce, io obiettai che avevo dodici anni e qualche mese. La mamma di Rosanna aggiunse che ero una bambina con la testa sulle spalle, ma la signora Flora tagliò corto: “Sei troppo piccola, sarà per il prossimo anno.”

Me ne tornai a casa con le orecchie ciondoloni, tutte le mie speranze erano naufragate!

“Per questa volta è andata male,” disse la mamma vedendomi così avvilita, “ma c’è tempo, c’è tempo…”

Effettivamente ero indietro con gli sviluppi della crescita, mangiavo sempre troppo poco, perché quando eravamo a tavola sentivo la tensione che covava fra i miei genitori e questo mi toglieva anche il poco appetito che avevo.

Rosanna, invece, era alta e ben formata, con un bel seno, capelli e occhi neri e un carattere allegro. Io certe volte la invidiavo un po’. Era una ragazza laboriosa, aveva sempre qualcosa da fare, incombenze che le assegnava il padre, ma lei le eseguiva apparentemente senza fatica.

Oltre a curare il podere, suo padre aveva già trovato lavoro a Prato, in fabbrica, ed entro poco tempo ci sarebbe andata pure lei.

Trascorse ancora un inverno triste e grigio. Erano passati sette o otto mesi da quando la signora mi aveva detto che ero troppo piccola per guardare la sua bambina e non ero cresciuta nemmeno di un centimetro, per questo incominciavo a preoccuparmi anch'io, oltre che i miei genitori.

Arrivammo di nuovo al Natale. Quando andavo a scuola, per le feste recitavo qualche poesia o raccoglievo il vischio,

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che piaceva tanto alla mia insegnante Sandretti (la ricordo ancora con tanto affetto); allora, invece, i giorni erano tutti uguali, per noi non esistevano né feste, né domeniche e neppure il Natale.

Gli animali avevano bisogno sempre delle stesse cure e il ricavato era sempre troppo poco. Poco per noi e anche per il padrone, che si lamentava ogni volta che veniva a controllare il podere (poiché eravamo a mezzadria, quello che si ricavava dalla terra andava diviso a metà col padrone).

Rosanna aveva già cominciato a lavorare in fabbrica, a Prato. Io le dissi: “Per favore, prova a domandare se c’è un posto anche per me.” Lei mi rispose che ci volevano quattordici anni compiuti, mentre io ne avevo solo tredici, ma aggiunse: “Comunque mi informo, per sapere che possibilità ci sono.”

Grazie all'interessamento della mia amica, dopo una settimana fui assunta nella fabbrica dove lavorava lei, non regolare, ma a nero, come si dice anche ora. Decidevano tutto i padroni, la paga, le ore, io non avevo nessuno dei diritti degli altri operai.

Il primo giorno di lavoro mi accompagnò Rosanna. Ci alzammo prestissimo, alle tre e mezza del mattino, facemmo più di mezz’ora a piedi poi prendemmo l'autobus per Prato, la Cap. Alle cinque e mezza si arrivò in città; dopo essere scese alla fermata di piazza San Marco, facemmo a piedi via del Romito e via del Castagno, attraversammo di corsa l'autostrada e arrivammo al Lanificio Banci che, ho poi saputo, era uno dei più importanti di Prato.

Alle sei in punto si incominciava a lavorare. Io fui messa a una macchina che si chiamava roccatrice e che faceva un sacco di rumore. Eravamo venti donne, dieci per parte, alcune grandi, altre giovanissime, come me.

Rita, la maestra, mi insegnò come fare il nodo e mi

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Barberino, 1955 - Zaira con Wilma e l'amica Rosanna.

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assegnò un turno che, purtroppo, non era quello di Rosanna. La prima giornata fu durissima, mi sembrava che il

tempo non passasse mai; dovevo alzarmi sulle punte dei piedi per arrivare ad annodare i fili e dopo un po' le mani e tutta la persona mi facevano un male terribile.

Il giorno dopo Rosanna aveva il turno di mattina e ioquello di sera. Presi la Cap al Cornocchio a mezzogiorno, per arrivare dal Banci alle due e lavorare fino alle dieci di sera. Sull’autobus non conoscevo nessuno e stavo molto attenta a contare le fermate, per scendere a quella giusta.

Io non conoscevo Prato, c'ero stata solo una volta, un anno prima, assieme al nonno Federico e alla mamma, per comprarmi le scarpe al mercato in piazza del Duomo.

In Piazza S. Marco scesi dall'autobus e incominciai a leggere i nomi delle vie, per ritrovare la strada. Ad un certo punto mi sentii osservata e scorsi vicino a me un ragazzo che mi guardava e che mi chiese, con garbo, dove dovevo andare. “Dal Banci” risposi. “Anch’io,” disse lui ridendo, “in filatura, e tu?” Non sapendo il nome del reparto, risposi: “Dalla Rita.” Così facemmo la strada insieme e poi ci salutammo dicendo: “A stasera.”

All’uscita, alla fine del turno, trovai tanta gente che faceva festa alle dieci, come me. Qualcuno aveva la bicicletta, altri il motorino, ma c'erano anche tanti a piedi; era buio e non mi piaceva camminare da sola. Arrivata all'autostrada, che gli operai attraversavano a loro rischio, per evitare il lungo percorso del ponte, ritrovai lo stesso ragazzo del mattino, che mi disse di stare attenta, perché era pericoloso, e poi mi rimase vicino per tutta la strada. Avrei voluto chiedergli il suo nome, ma mi vergognavo. Dovevamo affrettarci, perché alle dieci e venti partiva l’autobus da piazza S. Marco.

Salimmo, ma non c'erano posti a sedere; io, in piedi, mi trovai sballottata a destra e a sinistra e ben presto mi accorsi

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che non mi sentivo più lo stomaco. Arrivati a Carraia mi prese il panico, sentii che stavo per vomitare. Dissi all’autista che stavo male e lui mi tirò giù il vetro del finestrino, ma non feci in tempo a sporgermi, così successe il peggio e, oltre al malessere che provavo, mi trovai a sprofondare nella vergogna!

Finalmente arrivammo alla fermata del Cornocchio, dove c’era la mamma ad aspettarmi, con una lampada in mano, perché erano le undici e mezza e la strada era molto buia.

“Dai, andiamo, a mezzanotte siamo a casa” mi disse, vedendomi tutta scombussolata. Le raccontai la mia disavventura sull'autobus e lei, dopo avermi confortata un po', mi chiese come era andata sul lavoro. “Ma, non so, dobbiamo essere molto svelte a fare il nodo e poi sono troppo bassa e non ci arrivo bene.”

“Domani andrà sicuramente meglio” mi rassicurò la mamma.

Arrivata a casa non mangiai, andai subito a letto, avevo lo stomaco ancora disturbato. La mamma borbottava col babbo, che nel frattempo si era svegliato: “Si incomincia bene!”

Nei giorni seguenti le cose migliorarono un po', lavorare mi risultava un po' meno faticoso e pian piano i dolori scomparvero. Più a lungo mi durò il disturbo sull’autobus, ma dopo una quindicina di giorni anche quello non mi faceva più male, non vomitavo più, ma alcune volte, sfinita, mi ci addormentavo.

Alla fine della quindicina ci fu la busta paga, dodicimila lire. Non avevo mai visto tanti soldi tutti assieme! Ricordo che erano un foglio rosso e due grigio-verde.

Mi comprai subito una vestaglietta (lo spolverino), per non sporcarmi sul lavoro, e un paio di scarpe, perché quelle che avevo erano vecchie e rotte. Poi c'erano da pagare i biglietti dell’autobus, perché io non potevo fare

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l’abbonamento; avrei risparmiato quasi la metà dei soldi, ma ci voleva la carta d’identità e in Comune non me la facevano fino ai quattordici anni compiuti.

Una settimana uscivo di casa alle undici e venti per tornare a mezzanotte circa, l’altra mi alzavo alle tre e mezza e tornavo alle quattro del pomeriggio. Non era facile nemmeno per i miei, che una volta mi dovevano accompagnare e l’altra venire a prendermi alla fermata della Cap.

Quando mi capitava di avere lo stesso turno della Rosanna facevamo la strada assieme, così non si disturbavano i genitori.

Il ragazzo che avevo conosciuto i primi giorni si chiamava Paolo e lavorava nel mio stesso reparto, la filatura, io all’inizio dello stanzone e lui in fondo, ma lì non ci incontravamo mai.

Per strada, invece, quando ci capitava lo stesso turno, Paolo mi aspettava sempre; prima di attraversare l'autostrada mi prendeva per mano e mi tirava, ripetendomi che era molto pericoloso. Poi facevamo la strada insieme, quasi di corsa, per non perdere l'autobus.

Via del Castagno era una strada poco illuminata, piena di buche che quando pioveva si trasformavano in pozzanghere; da una parte scorreva la gora, con l'acqua che cambiava colore ogni giorno, a seconda degli scarichi delle tintorie. Nell'aria c'era un odore sgradevole di acido e di fumo caldo. Io non ero abituata a quegli odori e all'acqua così sporca, e mi venivano in mente i prati e l'aria di casa mia.

Quando avevamo il turno di mattina insieme, alcune volte Paolo ed io ci fermavamo dalla Lola, un piccolo bar, l'unico aperto così presto, per comprare la colazione. Paolo prendeva delle briosce con la crema, io un cornetto.

Sull’autobus lui stava con i suoi amici, io invece da sola, non avendo fatto amicizia con nessuno. Lui scendeva alla

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Cavallina, un piccolo paese dove tutte le donne si occupavano di ricamo, ricami belli e anche importanti, come tovaglie per gli altari delle chiese.

Per tutto il tempo che ho lavorato dal Banci, Paolo mi ha aiutato e si è comportato con me come un fratello maggiore, forse perché mi vedeva così piccola; quando ho finito il periodo di lavoro, però, ci siamo persi di vista e non ho saputo più niente di lui.

Col passare dei giorni la stanchezza ricominciò a farsi sentire, le poche ore di riposo non riuscivano a farmela superare. Io mi domandavo quanto avrei resistito, perché sapevo che non ce l'avrei fatta ad andare avanti così per molto tempo. Quando eravamo in reparto non si poteva nemmeno parlare, ognuno doveva stare al proprio posto e la macchina doveva girare a pieno; Rita non ci perdeva d’occhio un secondo, anche se lavorava pure lei.

Quando tornavo a casa dopo il lavoro, spesso non potevo neanche mangiare, dovevo andare subito a letto, perché ero sfinita e mi faceva male la testa.

Dopo quasi un mese che lavoravo così ci fu una novità: un sabato ci comunicarono che si sarebbe dovuti andare al lavoro anche la domenica, di straordinario, perché c'erano delle ordinazioni di furia. Per me era la prima volta, una novità non certo gradita, anche perché mi privava del sospirato riposo settimanale.

Io non sapevo che la domenica la Cap saltava qualche fermata, insomma faceva un altro giro, così, senza rendermene conto, mi trovai a scendere dall'autobus in piazza del Duomo, invece che in S. Marco. Non sapevo dov'ero, da che parte dovevo andare. Alle cinque e mezza del mattino era ancora buio e in giro non c’era nessuno; che fare? Presa dallo sconforto, mi sedetti sulla gradinata della chiesa e mi misi a piangere.

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Dopo lunghissimi minuti passò un uomo in bicicletta, che, vedendomi lì sola e in lacrime, mi si avvicinò. Alla sua domanda se mi occorreva aiuto, io gli risposi, quasi balbettando, che dovevo andare dal Banci. “Eh, povera bambina, è lontano da qui” mi disse lui. Dopo averci pensato, però, mi invitò a salire sulla canna della sua bicicletta e si offrì di accompagnarmi. Guardai l’orologio, che era murato su un angolo della piazza: erano le cinque e quaranta, dovevo fare presto. Non esitai e mi arrampicai sulla canna.

Quando ho raccontato questo episodio in famiglia e anche adesso, quando ci ripenso, mi meraviglio di aver incontrato, in un mondo che certo anche allora non era popolato solo di brava gente, quell'angelo in bicicletta, che mi portò sana e salva a destinazione. Mi meraviglia anche la fiducia istintiva che provai per lui (o forse era solo la forza della disperazione).

Quella è stata la mia prima giornata di straordinario. La domenica non facevamo otto ore di lavoro, ma sette, e ce ne pagavano otto.

La fabbrica del Banci era nuova e di concezione molto moderna, c'erano pochi muri e tante finestre a vetri, anche il tetto era di vetro. Sui viali c'erano tanti alberi piccoli piccoli, che erano stati piantati da poco e che non dovevamo calpestare, altrimenti il padrone si arrabbiava.

Dopo qualche mese di lavoro ci dissero, a noi ragazzine a nero: “La furia è passata, potete restare a casa, vi richiameremo noi al bisogno.” Ci dettero la busta paga e qualcosa di più, tanto che io mi sentii quasi ricca.

Stava iniziando la primavera, di lì a poco c’era la Prima Comunione di mia sorella. Proposi di fare una festicciola per l’occasione; la mamma era un po’ titubante, poi acconsentì. Del resto, era la prima festa della nostra famiglia.

Con i soldi guadagnati in fabbrica, a mia sorella regalai un bel vestito di pizzo Sangallo bianco, lungo fino ai piedi,

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Giugno 1955 - Gigliola è passata a Comunione.

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Giugno 1955 - La famiglia al completo.

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Gigliola con il babbo....... ...e con la mamma (senza contare la gallina).

Zaira col vestito buono. Wilma col vestitino a palloni.

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con il velo da mettere in testa, alla mamma un vestito a fantasia rosso e nero, con la gonna svasata, che le piaceva tanto, per me presi un vestito bianco a palloncini neri, con scarpe e calzini bianchi.

Invitammo solo poche persone, tra cui la zia Orella e il suo fidanzato, Brunero, che come regalo ci prese a noleggio una macchina Fiat 1100 con l'autista, per non dover andare a piedi alla chiesa, distante alcuni chilometri.

In macchina, davanti salirono lo zio e la zia, dietro mia sorella e la mamma; per me non c'era posto, ma ero contenta lo stesso.

Passarono i mesi, finalmente finii quattordici anni, l'età in cui, quando fossi andata a lavorare, sarei stata pagata regolarmente.

“Non ci allarghiamo tanto,” dicevo fra me. “Dai quattordici ai sedici anni dovrò fare l’apprendistato, con una paga ridotta; dai sedici ai diciotto, poi, guadagnerò un po’ di

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1956 - Wilma ha fatto la prima tessera d' abbonamento alla Cap.

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più e sarò assicurata, con tutti i diritti di legge. Solo a ventun anni, comunque, avrò lo stipendio pieno e potrò fare il cottimo, come gli altri operai.”

Mi misi in cerca di un lavoro e ben presto, grazie all'aiuto dello zio Duilio, che a Prato aveva tante conoscenze, fui assunta in una delle più grandi aziende tessili della città.

Il 27 luglio 1956 fu il mio primo giorno di lavoro alle “Manifatture Lane Fratelli Franchi”. Ci ho lavorato per trentacinque anni, fino a quando sono andata in pensione.

Dai Fratelli Franchi, un'azienda grande e moderna, c'erano circa cinquecento operai, in gran parte donne, ma lì tutto era fatto secondo le regole e io vi ho trovato, per tutti gli anni che ci sono rimasta, rispetto e anche considerazione, sia da parte dei compagni di lavoro che dei padroni.

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1957 - Wilma al lavoro nel reparto tessitura delle Manifatture Lane Fratelli Franchi di Prato. La foto, di Ranfagni, è rimasta esposta per venticinque anni in un ufficio della direzione dell'azienda.

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Intanto, nonostante il passare del tempo, il mio problema principale era ancora quello legato alla crescita. Io ero sempremingherlina, non crescevo, non sviluppavo, perciò alla fine i miei genitori decisero di farmi vedere di nuovo da un dottore.

Dopo un’accurata visita il dottor Banti, che visitava anche lui a Barberino, disse alla mamma: “La bambina è sana.” Poi incominciò a farmi una serie di domande, anche molto intime e imbarazzanti. Infine mi chiese: “Cosa fai? Raccontami una tua giornata tipo.”

In conclusione, venne fuori che dormivo poco e soprattutto non mangiavo abbastanza (e quello si sapeva); quello che mangiavo, poi, lo lasciavo tutto per strada, lo bruciavo fra i viaggi e le ore di lavoro. Non era possibile che crescessi normalmente, dovevo dormire, mangiare di più e anche svagarmi, disse il medico.

Allora la nonna Maria, che si era trasferita con la famiglia alla Querce, vicino a Prato, mi venne in aiuto, ancora una volta.

Disse alla mia mamma: “Durante la settimana la bambina resta con noi, viene a casa il sabato, dopo il lavoro, così può dormire qualche ora di più.”

Allora non mi alzavo più alle tre e mezza, ma alle cinque del mattino, per entrare alle sei. La nonna aveva più tempo libero della mia mamma e mi faceva trovare sempre qualcosa pronto, che io mi sentivo disposta a mangiare; tutto, così, mi diventava più semplice, avevo più tempo per riposare e inoltre potevo parlare, sfogarmi e consigliarmi con lei.

Le ripetevo sempre che avrei voluto portare giù anche la mia famiglia; la mamma mi sembrava già pronta per una nuova vita, ma al babbo l'idea del cambiamento faceva paura.

Dopo qualche tempo venni a sapere che c'erano delle case in vendita nei pressi e ne parlai col nonno Federico: “Nonno, puoi chiedere tu il prezzo?” Avevo paura che, vista la mia

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1955 - Gli zii Orella e Brunero quando erano ancora fidanzati. Fu anche grazie al loro aiuto che Wilma e i suoi riuscirono a comprarsi la casa a La Querce.

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età (avevo solo sedici anni), non mi prendessero in considerazione).

In via Baccio Bandinelli, alla Querce, c’era una villa che era stata divisa in piccoli appartamenti. Il nonno si informò e mi disse: “L’hanno venduta tutta, c’è rimasta solo la limonaia; ci puoi ricavare una camera da letto grande, la cucina e il bagno. Il prezzo è trecentocinquantamila lire.”

Il sabato andai a casa e incominciai subito il discorso, ma il babbo mi prese per matta, sosteneva che i soldi che avevamo non sarebbero bastati per comprare casa. Ne parlai a quattr'occhi con la mamma e lei mi parve più disponibile.

“I soldi che mancano ci si fanno prestare dal nonno,” dissi io. “Dopo, qualche santo sarà!”

Il lunedì dissi al nonno: “Va bene, compriamo la casa, se ci dai una mano tu.”

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Zaira alla fine degli anni '50, al tempo del trasferimento della sua famiglia a Prato.

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“D’accordo, poi ne parlerò anche con la tua mamma,” rispose il nonno. “Intanto la possiamo fermare, ma, bambina, per fermarla ci vogliono trentamila lire.”

“Sì, sì, giovedì riscuoto e te le do io.”“Allora parlo con la signora Scarselli,” riprese il nonno.

“Vedrai che potrà aspettare qualche giorno.” Quelle stanze erano nella villa degli Scarselli, dei signori che avevano molti possedimenti alla Querce.

Il sabato seguente tornai a casa di nuovo e questa volta dovetti mettere tutto in piazza e parlare con decisione. Aspettai che ci si fosse tutti, anche mia sorella, che allora andava ancora a scuola, e incominciai a esporre il mio progetto.

Il babbo diventò una furia, vedendo che riprendevo un discorso che lui aveva già considerato chiuso, la mamma non parlava, per non peggiorare le cose. Io, però, ero decisa e minacciai mio padre, dicendogli che se non faceva come proponevo io non sarei andata più a lavorare; gli ricordai, anche, che guadagnavo più io in un mese che lui in un anno.

Lui prese a gridare, ripetendo che tutte le sue disgrazie derivavano da noi figlie femmine, per cui non gli toccavano più delle buone terre a mezzadria.

Da qualche tempo lo avevano spostato ancora di podere, non più alla Mulinaccia, ma alle Buche, un poco più avanti, sempre sul fiume, e dopo pochi mesi di nuovo, stavolta nella fattoria di Monte Buiano, a lavorare direttamente per l'azienda come bracciante.

Questo non gli sarebbe dispiaciuto, se lo avessero pagato puntualmente, ma oramai erano quattro mesi che non vedeva una lira. A volte, addirittura, il babbo e la mamma andavano a lavorare a giornata presso altri poderi della stessa fattoria, ma nemmeno in quel caso venivano pagati.

Quando si presentavano per reclamare almeno una parte dei loro soldi, il fattore gli diceva che non ne aveva in cassa e

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rimandava sempre, anche se conosceva l'urgenza dei bisogni della famiglia. Inutile dire, poi, che di quello che dovevano riscuotere, i miei non hanno avuto nulla.

Io ero molto arrabbiata e preoccupata, per questa situazione e per la reazione del babbo davanti alla mia proposta, ma sono andata avanti lo stesso. Guadagnavo poco, ma il salario arrivava sempre puntuale, ogni quindicina, circa ventottomila lire al mese.

Il nonno cercava di aiutarci a pagare la casa, per quanto poteva, ma disponeva solo di centomila lire. Allora parlò con la figlia Orella e suo marito Brunero, che si erano sposati da poco e conoscevano la miseria della mamma (basti dire che come regalo di nozze lei aveva potuto dar loro soltanto una gallina). Lavorando tanto, avevano risparmiato già un po’ di soldi e con grande generosità accettarono anch'essi di prestarceli.

Dopo lunghe discussioni, col sostegno, questa volta, anche della mamma, riuscii a convincere mio padre, che acconsentì all'acquisto.

Grazie alle cure della nonna e della zia, intanto, io avevo completato il mio sviluppo ed ero arrivata ad avere una crescita normale. Lavorare mi piaceva, le macchine non erano più troppo alte per me e reggevo bene la fatica.

Nel gennaio del 1958, quando oramai andavo per i diciassette anni, la mia famiglia ed io lasciammo il Mugello e ci trasferimmo finalmente alla Querce, in poggio, fra gli ulivi, in via Baccio Bandinelli n. 16 (numerazione interna).

La casa doveva ancora essere pagata, per la maggior parte, ma io la sentivo già nostra.

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