Genesi

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I N T R O D U Z I O N E 1. Argomento degli Appunti Queste note sintetiche intendono percorrere tutto il tragitto dell’Antico Testamento (= AT) attraverso i quarantasei libri che lo compongono. Ogni libro sarà collocato nell’ambito storico-letterario-teologico suo proprio per individuarne meglio la fisionomia peculiare e precisare agevolmente l’apporto specifico che esso dà al cammino della Rivelazione. Criteri fondamentali che informano questa presentazione sono due: a) Unità della Rivelazione attraverso Antico e Nuovo Testamento (DV, n. 16); b) Carattere preparatorio dell’AT (DV, n.15). 2. Scopo e metodo degli Appunti Ci si prefigge di presentare la materia in maniera tale che appaia netto il tragitto che la Rivelazione di Dio compie nell’AT: essa ha un principio, uno sviluppo a fasi alterne, e specialmente un reale progresso, cosicché noi la vediamo come consegnarsi naturalmente alla pienezza del NT. Senza schematizzazioni o forzature dovrà emergere questo tragitto ascendente: esso c’è (non è inventato!), se è vero che è l'unico e medesimo Spirito di Dio che presiede alla Rivelazione (DV, n.11). Il metodo adottato è quello di una presentazione organica dei singoli libri (su alcuni si insisterà di più, su altri di meno). Le sobrie notazioni storico-critiche saranno a servizio del tema teologico che maggiormente interessa in questa sede. Ad 2

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I N T R O D U Z I O N E

1. Argomento degli Appunti

Queste note sintetiche intendono percorrere tutto il tragitto dell’Antico Testamento (=

AT) attraverso i quarantasei libri che lo compongono. Ogni libro sarà collocato nell’ambito

storico-letterario-teologico suo proprio per individuarne meglio la fisionomia peculiare e

precisare agevolmente l’apporto specifico che esso dà al cammino della Rivelazione.

Criteri fondamentali che informano questa presentazione sono due:

a) Unità della Rivelazione attraverso Antico e Nuovo Testamento (DV, n. 16);

b) Carattere preparatorio dell’AT (DV, n.15).

2. Scopo e metodo degli Appunti

Ci si prefigge di presentare la materia in maniera tale che appaia netto il tragitto che

la Rivelazione di Dio compie nell’AT: essa ha un principio, uno sviluppo a fasi alterne, e

specialmente un reale progresso, cosicché noi la vediamo come consegnarsi naturalmente

alla pienezza del NT. Senza schematizzazioni o forzature dovrà emergere questo tragitto

ascendente: esso c’è (non è inventato!), se è vero che è l'unico e medesimo Spirito di Dio

che presiede alla Rivelazione (DV, n.11).

Il metodo adottato è quello di una presentazione organica dei singoli libri (su alcuni

si insisterà di più, su altri di meno). Le sobrie notazioni storico-critiche saranno a servizio

del tema teologico che maggiormente interessa in questa sede. Ad alcune pagine

“fondanti”(specialmente in Gen, Es, Dt…) sarà dedicata maggiore attenzione. Ma di ogni

libro cercheremo di individuare la “chiave di lettura” attraverso la quale sia agevole

caratterizzare il libro intero nella sua relazione con gli altri. Adotteremo abitualmente il

metodo della sintesi: tenteremo, cioè, di individuare e di fermare le linee principali non solo

dei singoli libri, ma anche di ciascun “ciclo letterario” in maniera che si formi più

agevolmente un quadro schematico della vicenda letteraria e storico-sapienziale (due

aspetti inseparabili!) del popolo dell’antica Alleanza.

Il linguaggio intende essere chiaro e semplice, senza oscurità specialistiche, ma anche

adeguato alle esigenze di un comprensione seria della Parola di Dio. Dovrebbe emergere

pian piano un quadro storico-letterario-teologico netto e solido, in modo che sia agevole

comprendere ogni fase dell’AT situata debitamente nella cornice che la giustifica e illustra.

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3. Tradizione e Alleanza nell’AT

Il termine TRADIZIONE, ben compreso, contribuirà a chiarire ancor meglio gli intenti

della riflessione sull’AT.

Per “tradizione” si intende, secondo la Bibbia, non tanto (o non solamente) la fonte

scritta, quanto un processo vitale comprendente un ampio periodo storico, che risulta

composto da una preistoria, da una trasmissione orale (parte integrante della vicenda

storica) e da una codificazione. Tradizione non è, dunque, una realtà consegnata alla lettera

morta, bensì la testimonianza di una vitalità che ha caratterizzato il popolo d’Israele

lungo la sua storia.Intenti a cogliere proprio questa “vitalità teologica”, che ci permette di entrare nella complessità dell’AT

come in un flusso unitario e armonico, non potremo sempre badare esaustivamente alle tematiche storico~critiche (ambientazione storica, genere letterario, autore e tempo di composizione, genesi letteraria del libro, struttura particolareggiata...), anche se le dovremo tener presenti. Fra le molte “Introduzioni all’AT”, si scelga, come primo sussidio, A. GIRLANDA, Antico Testamento. Iniziazione biblica, ed. Paoline, Cinisello B. 1992; o i più impegnativi P.GRELOT, Introduzione alla Bibbia, ed. Paoline, Cinisello B. 1990 (8a ed.); J.A.SOGGIN, Introduzione aII’AT, Paideia, Brescia 1987 (4a ed.). E’ indispensabile, infatti, l’informazione personale sui manuali collaudati. Le pagine qui offerte costituiscono un modesto aiuto assolutamente non sufficiente per l’approfondimento serio della materia.

La Tradizione d’Israele si articola in tre filoni non nettamente separabili: tradizione

storica, tradizione profetica e tradizione sapienziale. Questa triplice tradizione

racchiude, come in un quadro riassuntivo, tutta la vicenda religiosa d’Israele testimoniata in

scritti determinati che formano il complesso degli scritti dell’AT.

Elemento unificante di tutte le Tradizioni, ma più immediatamente percepibile in

quella storica, è la realtà dell’ALLEANZA: soltanto essa dà consistenza e valore alle

Tradizioni.

L’Alleanza è la categoria onnicomprensiva della Bibbia: questa può quasi esaurientemente racchiudersi sotto l’angolo visuale dell’Alleanza (cf W. EICHRODT, Teologia dell'AT voI. I: Dio e popolo, ed. Paideia, Brescia 1988, che vede nell’Alleanza la ‘categoria’ adatta ad unificare tutto il messaggio veterotestamentario). Con l’Alleanza la Rivelazione riceve un carattere dialogale inconfondibile. L’impresa da Dio affrontata e testimoniata dalla Bibbia ha spiegazione soltanto nella Volontà eterna di Dio di entrare in relazione personale con l’uomo: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà.... Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli ed ammetterli alla comunione con Sé” (DV, n.2). In questa mirabile descrizione della natura della Rivelazione entra l’Alleanza come strumento espressivo indispensabile. Alcuni testi citati dalla DV (cf Es 33,11; Gv l5,14-15; Bar 3,38) ed altri che vengono in mente come onnicomprensivi dell’itinerario biblico lo confermano. Si pensi ai due poli rappresentati da Gen 3,8 e 1Gv 1,3, dove, implicitamente e suggestivamente nel primo ed esplicitamente nel secondo, il senso dell’uomo è additato nella comunione di vita con Dio. Il vero spirito della Scrittura, in altre parole, riposa soltanto sul dialogo d’Alleanza, sulla relazione “io-Tu" (Dio – suo Popolo): cogliere l’Alleanza significa entrare per la via maestra nel cuore della Scrittura e la scoperta dell’Alleanza come dialogo tra amici ha rinnovato la comprensione globale della Bibbia: essa è testimonianza privilegiata del dialogo che Dio intrattiene con l’umanità.

Il termine ebraico usuale, per Alleanza, è berît (vocabolo complesso, che designa giuramento, promessa, impegno, trattato), reso in greco, usualmente, con diathèkē (ma andrebbe colta una certa dialettica tra i due termini...). Esso sta a rappresentare alcuni decisivi incontri di Dio con l’uomo (con Adamo, con Noè, con Abramo e poi con Israele al Sinai e a Sichem, con David e i profeti...) fino al suo culmine, l'incontro

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definitivo in Gesù Cristo, Parola eterna del Padre (cf Mc 14,24 e par.). Con lui l’Alleanza è piena perché Egli considera esplicitamente i partners come “amici” (cf Gv 15,15) in quanto resi abili a ricevere quello che passa tra Lui e il Padre, cioè la “vita eterna”, fatta di conoscenza e di amore (cf Gv 17,3).

Siccome l’Alleanza fra Dio e l’uomo abbraccia tutta la vicenda umana, la storia, nel suo

complesso, deve essere chiamata e considerata come storia della salvezza, cioè una vicenda

nella quale Dio entra costantemente e inevitabilmente (non esiste un attimo di storia che

possa prescindere da Dio!). Si deve, però, parlare di “storia generale di salvezza” per

distinguerla dalla “storia particolare della salvezza”, che è quella contenuta nella Bibbia.

L’una non esclude l’altra: tutta l’umanità è il “campo” dell’incontro con Dio: se egli si

concentra particolarmente su Israele, questo avviene non per esclusione, ma in vista di un

“servizio”, come fase preparatoria per la salvezza universale. “Fare discepole tutte le genti”

(Mt 28,19) è il fine dell’intervento di Dio nella storia!

Le due “storie” (quella generale e quella particolare), si differenziano, però, per al-

cune caratteristiche ben marcate. a) La Scrittura si rifà ai ‘fatti storici’ in senso lato, in quanto interessano idee, istituzioni e movimenti: non necessariamente essi debbono essere ‘salvifici’ in maniera diretta.

b) La tradizione (= trasmissione della storia) è essenziale per i ‘fatti storici’ della Bibbia. Essi sono tramandati non per investigazione, ma per via orale (= processo di trasmissione lungo e complicato, parte scritto, ma soprattutto orale) con selezione ‘soggettiva’ e parziale di fatti, cosicché ne risulta una storia “unilaterale” e “tendenziosa” (aggettivi positivi, in questa sede!). Pur con le sue imperfezioni, questo complesso è Parola di Dio e quindi garantisce la verità, in particolare dei fatti salvifici.

c) La spiegazione del nesso significante dei fatti storici è rivelazione divina. Dio dà spiegazione attraverso uomini che parlano in suo nome, spiegazione che è sempre profezia (= parlare in nome di Dio). Quindi, per la Bibbia, i fatti storici sono chiamata di Dio e risposta dell’uomo. La storia significa, per l’uomo, offerta di salvezza o giudizio: tramite essa l’uomo raggiunge la salvezza o va in rovina. Dio concede salvezza attraverso persone e istituzioni che sono elette in vista del Popolo: a seconda che esse adempiano o no il loro compito, si dà elezione o ripudio. Un intimo nesso di solidarietà lega, infatti, persone e istituzioni. Ogni decisione comporta benedizione o maledizione operanti non in maniera fatalistica, bensì per sovrana volontà salvifica di Dio.

La storia ha avuto un inizio e avrà una fine/meta (= giorno di Jahvè). Perciò la storia è promessa -compimento. Questa visione biblica della storia è tipologica, in quanto è tutta una figura e un’anticipazione che esige un adempimento escatologico già presente in Gesù Cristo.

Tradizione ed Alleanza sono, dunque, componenti costitutive della Bibbia ed in-

terdipendenti: non si esagera nell’affermare che l’una è il contenente (tradizione) e l’altra è

il contenuto (alleanza). Saranno gli assi portanti del nostro itinerario all’interno dell’AT.

4. Alcune Premesse.

Richiamiamo, quasi come un semplice elenco, alcune questioni di carattere generale,

indispensabili per affrontare con frutto lo studio dell’AT e che fanno parte di una

“Introduzione alla S. Scrittura” (cf V.MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio.

Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 1991, 12a ed., manuale

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modernamente impostato e molto utile per la consultazione personale). La Bibbia è la Rivelazione soprannaturale di Dio attraverso “eventi e parole intimamente connessi” (DV, n.2). Agli eventi si affianca, dunque, la PAROLA: una Parola che Dio amichevolmente rivolge agli uomini come ad amici (la fenomenologia della Parola umana che ha la sua massima efficacia quando è parola tra amici, cioè comunicata nell’amore, è un grande aiuto per delineare il dialogo Dio-uomo). Per farsi percepire essa raggiunge il destinatario nella sua concretezza, enucleandosi, crescendo e proponendosi ‘nella’ e ‘attraverso’ la Storia. La Parola, pertanto, viene trasmessa prima (e per lungo tempo) oralmente con tutti i mezzi a disposizione degli Ebrei, popolo semita.

Tre fasi vanno costantemente tenute presenti di fronte ad ogni libro dell’AT (e del NT): a) l'evento (l’intervento salvifico di Dio); b) la sua trasmissione (Israele che racconta e tramanda); c) la sua redazione (la messa per iscritto di quanto tramandato).

Questo è un discorso capitale per l’AT: da esso derivano la sua complessità, ma anche la sua ric chezza e fascino. Su di esso si innestano problematiche varie e fondamentali. Ne accenniamo alcune.

La Trasmissione (o l’atto del “narrare” da generazione a generazione) dà pian piano forma alle diverse Tradizioni mediante un linguaggio tipicamente umano impiegato a profusione. Lo si scopre attraverso i GENERI LETTERARI, cioè i modi di esprimersi, di raccontare, di insegnare, di esternare i sentimenti... che erano in uso nei tempi e nell’ambiente in cui vivevano gli autori biblici. L’individuazione dei generi letterari è una delle grandi conquiste della scienza biblica e un passo enorme nella comprensione della Parola di Dio. Ne ha ricevuto beneficio anche la cosiddetta Legge dell'incarnazione della Parola. Questa, camminando nella Storia ed esplicitandosi attraverso la Storia, ‘si carica’ di tutti i condizionamenti della Storia (ne assume colore e sapore!), cosicché è inconcepibile riceverla in maniera astratta (la Bibbia non è un libro caduto dal cielo!): è indispensabile collocare, situare la Parola. Si eviteranno facili ‘scandali’ e turbamenti e si ammirerà la condiscendenza di Dio e la sua paterna pedagogia (cf DV, n.15)!

Ma chi sono gli “Autori biblici”? Sempre un singolo, o talvolta (anzi, spesso) più persone? L’odierna conoscenza delle regole della composizione letteraria della Bibbia non permette una risposta univoca.

Questo si riflette anche sulla comprensione dell’ISPIRAZIONE, della quale è dogma l'esistenza, ma di cui è dibattuta la natura: certamente la si deve approfondire nella categoria del carisma e dell’azione costante dello Spirito Santo nella storia della Salvezza. Se esso ha sempre accompagnato le fasi decisive di questa storia, tanto più deve essere stato operante nei momenti decisivi della trasmissione della Parola di Dio per iscritto.

Così anche si pongono le domande sulla VERITA’ della Bibbia: questa trasmette fedelmente e senza possibilità di errore quelle Verità che Dio ci ha voluto consegnare in vista della nostra salvezza (cf DV, n.11). Tutto è vero nella Scrittura, non soltanto le fondamentali Verità salvifiche, ma anche ogni altra affermazione. Queste, però, sono vere in maniera diversa e graduale, a seconda della relazione che esse hanno con il “centro salvifico”. Un esempio: che Dio abbia creato l’uomo è verità salvifica incontestabile; il modo in cui lo ha creato secondo Gen 2,7 non è semplicemente errato, o da sottovalutarsi dal momento che non così l’uomo è stato creato. Questa modalità è vera non in senso scientifico, bensì in senso salvifico, in quanto aiuta grandemente a comprendere meglio Dio come Creatore. La tematica della Verità, poi, ha una retta trattazione soltanto nell’ambito di una prospettiva fortemente unitaria e progressiva della Rivelazione e di una comprensione letterariamente precisa dei testi (Qohelet, ad esempio, non è vero in senso assoluto, ma è vero in quanto testimonia una fase del cammino della Rivelazione, tanto che questa non si comprenderebbe appieno senza il messaggio di Qohelet). Cristo-Verità è il punto di arrivo di tante verità ‘parziali’ e funzionali che in Lui trovano giustificazione e pienezza. Oggi è molto dibattuto, inoltre, l’argomento del CANONE, cioè la lista dei libri ispirati: come si è giunti a questo elenco (perché questi 73 libri e non altri)? E’ necessario dare il giusto rilievo alla prassi della Chiesa primitiva che gode di particolare assistenza dello Spirito Santo. Non è indispensabile avere una decisione esplicita e solenne sul numero dei libri ispirati e canonici (questa verrà soltanto con il Concilio di Trento); è invece necessario aver presenti le scelte concrete della Chiesa del primo secolo (perché ha usato sempre questi e non altri libri): le sue scelte pratiche sono frutto di una decisione d’autorità che essa andava facendo con la luce dello Spirito Santo. Nuove formulazioni riceve pure la questione dell’ERMENEUTICA, la scienza che presiede all’attualizzazione per rendere un testo tanto lontano una Parola di Dio “qui, oggi, per me”. Le istanze dell’odierna filosofia del linguaggio e dell’esistenzialismo (si pensi a R. Bultmann) hanno profondamente inciso nell’ermeneutica biblica; d’altra parte le indicazioni metodologiche della Chiesa, al riguardo, sono molto feconde (cf DV, n.12 e L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa del 1993, a cura della Pontificia Commissione Biblica)

Sono alcuni capitoli di “Introduzione generale” alla Bibbia, oggi molto rinnovati, che vanno tenuti ben presenti per entrare nello studio che ora avvieremo. Essi contribuiranno a radicare nel “mistero” della Bibbia:

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Parola di Dio profondamente incarnata. Questa ‘duplicità’ (origine divina della Parola consegnataci in ‘contenitori’ umani) deve ispirare anche l’approccio del credente alla Bibbia. Essa va creduta e vissuta come regola di fede e di vita cristiana, come “lucerna ai miei passi” (Sal 119, 105), e quindi ricevuta “nello Spirito”; ma è Parola impegnativa anche nella sua veste letteraria ed esige studio e fatica (cf DV, n.25). Anzi: uno studio serio è condizione imprescindibile per la migliore comprensione del messaggio di vita che vuol essere la Bibbia.

5. Bibbia ebraica e Bibbia cristiana: specifiche ispirazioni di fondo.

Dato che tratteremo dell’AT nella sua globalità, è opportuno premettere una sua visione

panoramica, ed essa risulterà più efficace se terremo presenti la comprensione globale che

hanno, riguardo ad esso, gli ebrei da una parte e i cristiani dall’altra.

Ci ispiriamo a J.-L.SKA, Alla scuola della Torah, in: Parola, Spirito e Vita 61 (2010) 11-23. Per i cristiani l’AT è preparazione al NT. L’ultimo libro dell’AT è, secondo il canone dei cristiani, il profeta Malachia, il quale, come ultimo dei Dodici profeti, dà, in 3,22, uno sguardo al passato esortando a ricordarsi della “Legge di Mosè, mio servo, che io gli consegnai sull’Oreb per tutto Israele”, e poi prosegue, nei vv.23-24, annunziando l’invio del profeta Elia che “convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri”. Ma questi due ultimi versetti sono utilizzati da Luca per l’annuncio a Zaccaria della nascita del precursore Giovanni Battista (Lc 1,17) e così l’evangelista getta un ponte tra i due Testamenti; pertanto tutto il primo Testamento prepara il secondo ed è tutto proteso verso il futuro, cioè verso il Messia, Cristo Signore. Per gli Ebrei, invece, il culmine è subito all’inizio, nella Torah, e tutto il resto ne è come un commento e un’attualizzazione: per essi, quindi, il primo Testamento è rivolto verso “un passato paradigmatico, speranza di un futuro glorioso” (Ska, p.12). Il passato sta nella Torah e quanto segue non è tanto “storia” quanto commento ad opera dei Profeti (nebî’îm) e meditazione ad opera degli Scritti (ketubîm). Questa era la sistemazione della Scrittura nel tempo d’Israele e di Gesù. La storia, per gli ebrei, va dalla creazione (Genesi) all’esilio in Babilonia. Dopo il sec.VI a.C. Israele si disinteressa, in certo modo, della storia: produce soltanto i libri di Esdra e Neemia e 1-2Maccabei. Questo sganciamento dalla storia sarà definitivo dopo le disfatte del 70 e del 135 d.C. che persuaderanno il popolo ebraico che la propria storia è soltanto sconfitta e sventura, e pertanto esso abbandonerà ogni sogno di gloria e si concentrerà soltanto sullo studio e l’osservanza della Torah. I secoli seguenti dimostreranno che Israele è riuscito a sopravvivere soltanto grazie alla Torah. Ma quali sono i testi chiave che danno alla Torah il posto centrale che sarà man mano sempre più evidente? Si può far riferimenti a tre testi come i più probanti. Innanzitutto Gs 1,7-8: questi versetti sono chiaramente un’aggiunta con la quale si vuol dimostrare che Giosuè, più che condottiero deve essere un assiduo lettore della Legge “che Mosè mio servo ti ha data”; “non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, per osservare e mettere in pratica tutto quanto vi è scritto” (v.8). Si noti che questo testo si trova all’inizio dei libri profetici della Bibbia ebraica e quindi esso dà il tono a tutta la sua seconda parte. Il secondo testo è il Salmo 1, nel quale è esaltato il giusto come un appassionato della Torah. Egli trova la sua “gioia” nella Legge che “medita giorno e notte”. Essendo questo salmo come una introduzione al Salterio, esso invita a leggere i salmi come delle meditazioni sulla Torah, e siccome il Salterio, in alcuni manoscritti ebraici sta al primo posto fra gli “Scritti”, esso è come una prefazione della terza parte della Bibbia ebraica. L’ultimo testo è duplice: comprende 1Re 2,1-4 (Davide dà istruzioni a Salomone: “Osserva la legge del Signore, tuo Dio, procedendo nelle sue vie ed eseguendo le sue leggi…, come sta scritto nella legge di Mosè”) e Dt 17,18-20 (il re “scriverà per suo uso in un libro una copia di questa legge… Essa sarà con lui ed egli la leggerà tutti i giorni della sua vita, per imparare a temere il Signore, suo Dio, e a osservare tutte le parole di questa legge e di questi statuti”). I sovrani orientali si sono posti sempre al di sopra della legge, mentre al re d’Israele è prescritto di attenersi scrupolosamente ad essa. Egli è considerato come un maestro di sudditi dediti allo studio della Torah.

Questi testi sono tutti piuttosto recenti e quindi sono dimostrazione della progressiva stima

della Torah, alla quale sono ordinate tutte le altre sezioni della Bibbia ebraica. Ed è

opportuno tener presente questa comprensione della Torah all’inizio dello studio dell’AT.

Al Pentateuco, pertanto, presteremo particolare attenzione, ma non solo per il rilievo unico

che esso ha per gli ebrei, bensì anche a motivo della considerazione che esso riceve nel NT

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e in tutta la tradizione patristica.

5. Indicazioni bibliografiche

a) Il testo della Bibbia. Ideale sarebbe poter accedere alla S. Scrittura attraverso le

lingue originali (ebraico e greco). Non essendo ciò possibile a molti, ci si affida a delle

buone traduzioni, sulle quali la Chiesa vigila “con sollecitudine” (cf DV, n.12). In italiano si

segue normalmente la Traduzione ufficiale della CEI (obbligatoria per la liturgia e della

quale abbiamo da poco la II edizione completa). Si raccomanda anche la “Nuovissima

Versione della Bibbia” ed. San Paolo, Roma (originariamente in volumetti con buone

introduzioni, apparato critico e note, che poi sono stati raccolti in tre grandi volumi, più uno

di sussidi critici).

Molte altre traduzioni sono a disposizione; per lo studio di singoli libri si seguano le

Introduzioni (dove sono segnalate le migliori traduzioni).

Il presente studio ha come edizione di riferimento la Bibbia di Gerusalemme (= BG) ,

EDB, che si impone come strumento assolutamente indispensabile. Questa edizione, curata dai Padri della “École biblique” di Gerusalemme (di qui il nome), è finora il più utile e pratico sussidio alla portata di tutti. Originariamente fu edita in fascicoli separati, poi riuniti: vi hanno collaborato i migliori specialisti del tempo. Le introduzioni sono sobrie e precise e ultimamente sono state aggiornate in occasione della nuova traduzione della Bibbia CEI (2008) che ha reso indispensabile la seconda edizione della BG (ed. Dehoniane, Bologna 2009). Ma la BG si distingue specialmente per il ricco apparato di note. Esso è a margine di pagina con abbondanti rimandi a paralleli e a fondo pagina. Le note sono di due tipi: di caratteri critico-testuale (sobrie) e di impronta teologica (il vero tesoro della BG!). Il fedele uso di tutti gli accorgimenti per l’impiego di queste note permette di avere delle panoramiche profonde e puntuali di teologia biblica su molteplici tematiche. Si consiglierà sempre qualche studio per i vari libri, ma il primo passo da fare è anche il più agevole e fruttuoso: consultare scrupolosamente la BG. Una menzione di distinzione va fatta anche per la “Traduzione ecumenica della Bibbia” (TOB), 3 voll., frutto di collaborazione fra le Confessioni cristiane.

b) Sussidi e commenti. Strumenti di lavoro da conoscere ed utilizzare sono, per

l’AT, le Concordanze bibliche (ad es. La concordanza pastorale della Bibbia, EDB) e le

Teologie bibliche (ad es. Dizionario di Teologia Biblica, a cura di X.Léon-Dufour, ed.

Mari- etti, o Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed San Paolo).

Utilissimo il Dizionario teologico dell'AT, 2 voll., a cura di Jenni-Westermann, ed.

Marietti.

Per i commentari, oltre alla già citata Bibbia. Nuovissima Versione dai testi originali, si

raccomanda Il messaggio della salvezza, voll. 3,4,5, LDC, Torino 1987ss;

Lògos, Corso di Studi biblici, voll.1-4, LDC, Torino (il vol.1, di introduzione generale alla

Bibbia, è utilissimo, ma manca ancora il vol.2 che riguarda la tradizione storica).

Vanno segnalati ancora: il Grande Commentario Biblico, ed. Queriniana, Brescia 1989

(2a ed.), traduzione dall’inglese di un vasto commentario di esegeti americani (la ricchezza 7

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di questo sussidio sono, soprattutto, gli articoli tematici);

La Bibbia Piemme, Casale Monf. (AL) 1995 anch’essa molto ricca;

"Leggere oggi la Bibbia" (= LOB), ed. Queriniana, collana che alle due serie di studi su AT

e NT ne affianca una terza di sussidi su varie tematiche bibliche.

In queste opere si hanno abbondanti riferimenti bibliografici per ogni questione di

carattere generale e per ogni libro dell'AT.

Da ultimo ci permettiamo di raccomandare la consultazione della Bibbia per la famiglia,

edita dall’ed.San Paolo, Milano 1993ss. All’AT sono dedicati otto volumi. Essendo

destinatario il vasto pubblico, il linguaggio è accessibile e le proposte varie ed efficaci.

Per la conoscenza più efficace della Parola di Dio non si può trascurare la conoscenza

della Terra nella quale essa si è incarnata, la Palestina. Sussidi che trattano di Geografia e

Archeologia bibliche sono numerosi ed accessibili allo studioso medio. Mappe e Atlanti

biblici offrono le più svariate proposte per la conoscenza della terra e del mondo biblico.

Segnalo E.R.GALBIATI – A.ALETTI, Atlante storico della Bibbia e dell’antico

oriente, ed. massimo – Jaca Book, Milano 1983, utilissimo per le mappe che seguono passo

passo i vari eventi biblici.

Queste indicazioni di alcuni strumenti di studio fondamentali non escludono altre opere

di carattere generale o specifiche riguardo ai singoli libri della Scrittura.

Oggi la produzione editoriale nel campo della Bibbia e ragguardevole in Italia: è, però, necessario non appassionarsi troppo dei commentari dimenticando che il testo della Bibbia è la prima fonte e la prima lettura da farsi e rifarsi continuamente! Alcuni strumenti-guida sono una scorta necessaria: non si deve esagerare con la bibliografia da parte di chi vuole una sempre migliore conoscenza del testo in vista di un nutrimento più sostanzioso per la propria vita spirituale.

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I.I.

L A T R A D I Z I O N EL A T R A D I Z I O N E

S T O R I C A S T O R I C A

D E L L’ A N T I C O T E S T A M E N T OD E L L’ A N T I C O T E S T A M E N T O

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Il dialogo fra Dio e l’uomo ha come struttura basilare gli “eventi”, cioè gli incontri

fra l’iniziativa del Dio dell’Alleanza e la risposta dell’uomo. Questi eventi formano la

“materia prima” sulla quale il dialogo si istituisce e dà luogo alla STORIA: storia poi

interpretata dalla Profezia e dalla Sapienza, ma già ‘significante’ in se stessa.

E’ opportuno precisare subito, in maniera sommaria, l’accezione di ‘Storia’ nella Bibbia. Oggi pensiamo alla relazione oggettiva (ma esiste fino in fondo questa oggettività?) di fatti realmente (e come) accaduti. Per l’uomo biblico la prospettiva è notevolmente diversa: non sta in primo luogo l’accadimento in se stesso, quanto l’intervento di Dio. Nella misura in cui il credente riesce a percepire la presenza di Dio in un dato evento, questo è ‘storia’: essa è originata certamente da fatti realmente accaduti, ma è anche qualcosa di più, è interpretazione di fede. Il ‘fatto’, cioè, non rimane ‘nudo e crudo’, è trapassato dallo sguardo di fede, è visitato all’interno nei suoi risvolti più veri che sono le ‘intenzioni’ del Dio dell’Alleanza. Un fatto scrutato dall’esterno può non rivelare tutti i suoi significati: se, invece, viene penetrato e messo a nudo con l’occhio della fede, allora esso è capace di svelare dei sensi nuovi e autentici che riguardano le ‘mosse’ segrete e amorose di Dio: queste sono le vere leggi e spiegazioni di ogni accadimento! Per noi questa è storia ‘soggettiva’: per la Bibbia, invece è l’unica storia ‘oggettiva’ che deve interessare, in quanto capace di portare alla conoscenza più diretta di Dio (riconosciuto come il ‘motore’ di ogni cosa) e del suo amore. È evidente pertanto che chi racconta o scrive non è un semplice narratore o ricercatore, bensì è un credente, anzi un “profeta” che sa far scoprire a tutto il popolo di Dio la sua presenza negli eventi del passato: egli è l’ultimo anello di una tradizione che ha vissuto quei fatti come esperienza di fede fin dal loro accadere.

La Storia è, allora, il fatto accaduto e qualcosa di più, la sua interpretazione nella fede: ha la caratteristica dell’oggettività (confortata dalle scoperte archeologiche e storiche nel mondo biblico sempre più pertinenti), ma procede oltre, in profondità, chiedendosi che cosa Dio abbia inteso comunicare al suo Popolo con quell’intervento (efficace la formulazione di J.Marsh: bisogna chiedersi “che cosa stava succedendo in ciò che ebbe luogo”: un accadimento si sta svolgendo, ma che cosa realmente Dio sta intendendo?). E siccome sono interventi di Dio (= Rivelazione nella Storia e attraverso la Storia), cioè dalla portata inesauribile, non si finirà mai di interpretarli: ecco la legittimità e il motivo delle continue attualizzazioni di cui è intessuta la Bibbia. All’inizio di un dato evento c’è la presenza discreta, ma reale, incisiva e decisiva di Dio: alla fine, cioè nel momento (cultico) della comprensione di fede, questa presenza diviene straripante e grandiosa. E perché questo sia più convincente si adotta anche la generalizzazione: un evento che può aver coinvolto un piccolo gruppo è riferito come coinvolgente tutto Israele. Questo avviene per gli articoli fondamentali della fede d’Israele, perché ogni membro di questo popolo si sente coinvolto personalmente: soltanto così diverrà effettivo membro del popolo dell’alleanza. Se la storia è definita da Cicerone magistra vitae (De orat. 2,9,36) la storiografia è dal medesimo qualificata come opus oratorium maxime (De leg. 1,5,6): giudizio lapidario che dice efficacemente la distanza della concezione antica della storia rispetto a quella moderna.

Quanto vada tenuto ben presente questo concetto di Storia nella Bibbia non lo si inculcherà mai abbastanza: basti pensare che esso sta alla base di ogni regola ermeneutica! Prendendolo come criterio interpretativo, quanti errori, quante fatiche esegetiche vane si risparmierebbero!

La tradizione storica dell’AT si alimenta a tre fonti:

- Il PENTATEUCO (Gen-Es-Lv-Nm-Dt);

- L’OPERA DEUTERONOMISTICA (Gs-Gdc-1/2Sam - 1/2Re);

- L’OPERA del CRONISTA (1/2Cr -Esd/Ne).

Rimangono fuori da questi complessi ben delineati solo i due libri dei Maccabei che

costituiscono una testimonianza preziosa per l’età prossima al NT: li esamineremo in

appendice assieme ai cosiddetti “midrashim” (Rt - Tb - Gdt - Est). Per una presa di visione molto competente e specialistica ma accessibile si consiglia lo studio di E. CORTESE, Le tradizioni storiche di Israele. Da Mosè a Esdra. (La Bibbia nella storia, 2), ed. Dehoniane, 2a

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Page 10: Genesi

ed., Bologna 2001, pp.432.

A. I L P E N T A T E U C OA. I L P E N T A T E U C O

La Fonte più ragguardevole della Tradizione storica d’Israele è costituita dal

Pentateuco, parola greca che significa il "(libro) in cinque volumi”, la Torah degli Ebrei, la

“legge di Mosè”. E’ il primo e più arcaico complesso di documenti del popolo ebraico,

ritenuto come il dono di Dio per eccellenza e circondato di sommo onore (cf p.6).

Il Pentateuco è la Fonte più arcaica per quanto riguarda la gamma delle sue diverse Tradizioni (alcune databili al sec. XIII a.C.): invece la sua redazione definitiva va ascritta all’epoca post-esilica (tra il 500 e il 300 a.C.) o a cavallo tra fine V sec. ed inizio IV sec. (il tempo della missione di Neemia in Giudea nel 458 o di Esdra nel 398 a.C.), quando ormai qualche altro gruppo di libri (ad es. l’opera del Deuteronomista) era già stato sistemato definitivamente. La comunità che faticosamente si stava riorganizzando aveva bisogno di una legge che ne ridefinisse l’identità nazionale e non è improbabile che alla sistemazione della Legge abbia dato impulso l’autorità dei Persiani, dominante in quel periodo.

Questo rilievo mette in guardia sulla complessità delle questioni letterarie e redazionali dei libri dell’AT. Non necessariamente i libri che precedono sono stati composti prima di quelli che seguono!

Per la formazione del Pentateuco è comunemente seguita la teoria documentaristica.

Essa propugna la confluenza in questi cinque libri di quattro cicli di tradizioni (J - E - D -

P). La formazione letteraria del Pentateuco ha cominciato ad essere dibattuta in maniera

nuova dal sec. XVIII in poi ed ha portato a risultati ragguardevoli per la comprensione di

tutta l’opera.

Per una visione esaustiva delle caratteristiche teologico-letterarie delle quattro tradizioni, si rimanda alle Introduzioni, come il Messaggio della salvezza, v.3, pp.20-103; AA.VV, Parola e Vita. Una introduzione alla Bibbia, LDC, Torino 1983, pp. 58-69 (molto utile in proposito). Ottima sintesi nel Nuovo Diz. di Teologia Biblica,ed. San Paolo, s. v. “Pentateuco” (A. Bonora).

Non si dimentichi, però, che questa ricostruzione della formazione della Torah è oggi

sottoposta a crescenti critiche e correzioni e che, dagli anni ’70, si stanno aprendo nuove

piste per spiegare la formazione del Pentateuco. Per un’aggiornata documentazione al

riguardo, oltre l’opera già citata di E.Cortese, cf J.-L.SKA, Introduzione alla lettura del

Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia, ed. Dehoniane,

Roma 1988, pp.315 (cf anche il citato articolo di A.Bonora alle pp.1145-1147).

Non è possibile seguire, in questa sede, i complessi sviluppi di questa ricerca recente sul Pentateuco: ne riassumiamo le linee principali. L’ “ipotesi documentaria” nella versione classica di J.Wellhausen è sottoposta a profonda revisione. Rischia di apparire semplicistico oggi il presentare le quattro fonti del Pentateuco come documenti ben definiti e autonomi! D’altra parte è pura utopia attendersi risultati definitivi dalle ipotesi sulla formazione del Pentateuco formulate in questi ultimi decenni, da qualche esegeta descritti come “periodo anarchico”!

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Alcuni punti fermi, per ora, sono i seguenti (cf G.A. Borgonovo, Introduzione a Genesi, in: La Bibbia Piemme, pp.58-59). A) Importanza del “momento deuteronomista” che comprende da una parte il Dt e dall’altra l’opera che vi si ispira, cioè il “deuteronomista” (Gs – Gdc – 1/2Sam – 1/2Re) nelle sue due fasi preesilica (al tempo di Giosia) ed esilica. Questa “scuola” ha fissato la struttura dello jahvismo entro le coordinate teologiche dell’Alleanza offrendo i presupposti per la raccolta di un corpo di testi che formeranno la Torah. B) Importanza della tradizione sacerdotale (= P), formatasi durante l’esilio babilonico. Essa ha salvato lo jahvismo fissando le istituzioni fondamentali (come il Sabato, la circoncisione e il culto) e rielaborando le tradizioni antiche. Nel postesilio sarà responsabile della redazione finale del Pentateuco. Intuizione fondamentale di P è il progressivo svelamento di Dio, sul quale P strutturerà tutto il Pentateuco: Dio si rivela a tutta l’umanità con il nome generico di ‘elohim (Gen 1-11: eziologia metastorica); poi ai Patriarchi si rivela come ‘el Shadday, il “Dio della montagna” (Gen 12-50); infine al popolo si rivela come Jahvè (Es – Lv – Nm – Dt) C) Esistenza di un ricco materiale antico precedente. La scuola critica distingue tra J (sec. X), E (sec.VIII) e Redazione Jehovista (fusione redazionale di JE sotto Ezechia). Ora questa ipotesi non sembra più del tutto plausibile. Certamente non si può negare l’esistenza di materiale, anche scritto, già nel sec.X, ma non allo “stato puro” come talvolta si pensa. Un documento ampio, completo ed elaborato (J) come ipotizzato risalente all’ambiente della corte salomonica è problematico per molti versi: esso presupporrebbe una società economicamente evoluta e un’era di ‘illuminismo’ salomonico (G.von Rad) non suffragate da riscontri probanti: soltanto per il sec.VIII in Samaria possono essersi create condizioni simili. J come è stato ricostruito dalla critica classica del Pentateuco risente dei profeti, contiene un senso della storia e delle tecniche letterarie impossibili in epoca arcaica. Tale teologia, inoltre, non ha lasciato traccia nei profeti. Il tutto, dunque, fa pensare una datazione piuttosto bassa.

Il documento E è ancor meno probabile: manca di consistenza narrativa e teologica (sembra escogitato per assegnargli materiale che non entra nello J!). L’intensa predicazione profetica dei secc.IX-VIII, inoltre, non conserva tracce di influssi diretti da parte di questi documenti, e ciò è sorprendente, se essi già fossero ben definiti ed operanti nella coscienza d’Israele. E’ più prudente, allora, ipotizzare dei ‘frammenti’ per il sec.X e non ‘documenti’ veri e propri. D) La tecnica compositiva dei testi antichi non è la nostra. Troppo spesso si classificano come doppioni brani che non lo sono. Autore, allora, non era colui che creava ‘ex novo’, bensì colui che custodiva il materiale tramandato e lo sapeva inserire in nuovi disegni narrativi e in nuovi contesti. Bisogna recuperare il ruolo del redattore finale considerandolo come vero autore. Benché, infatti, egli usi tradizioni o cicli narrativi precedenti, a lui risalgono il disegno e le caratteristiche letterarie dell’insieme: egli dunque è responsabile dell’opera come ci è giunta e del preciso disegno teologico che le soggiace; e quest’opera (cioè lo scritto come ora lo abbiamo) interessa a noi in primo luogo.

Tutto è in evoluzione nel campo della formazione del Pentateuco. Noi, volendo

percorrere la Torah prevalentemente nella prospettiva storico-salvifica, daremo la

preferenza all’ipotesi classica delle quattro fonti, senza però assolutizzarne i dati, dal

momento che le nuove ipotesi vogliono concreta attenzione.

Una opportuna visione globale iniziale del Pentateuco si articola su tre grandi orizzonti:

a) l’evento dell’esodo nei tre assi fondamentali (uscita dall’Egitto – cammino nel deserto

– entrata nella Terra promessa) che comprende Es – Lv - Nm – Dt. E’ possibile una struttura concentrica di tutto questo materiale: A: Prologo: Israele in Egitto (Es 1,1-7,6) – A’: Epilogo: Deuteronomio (Dt 1-34); B: uscita dall’Egitto (Es 7,7-15,21) – B’: primi approcci con la Terra (Nm13-26); C: cammino nel deserto (Es 1,22-18,27) – C’: cammino nel deserto (Nm 10,11-12,16); D: alleanza del Sinai (Es 19-24) – D’: leggi (Lv 1- Nm 10,10); E: leggi sul santuario (Es 25-31) – E’: costruzione del santuario (Es 35-40); F (centro): peccato, castigo, perdono e nuova alleanza (Es 32-34).

b) La storia dei Patriarchi (Gen 12-50) che il redattore ha voluto premettere per

dimostrare che l’epopea dell’esodo è la realizzazione delle promesse a questi capostipiti,

visti in relazione di tipo parentale, pur se il legame storico soggiacente può essere più

complicato.

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c) La “storia delle origini” è stata aggiunta dal redattore di Gen 1-11 per ampliare

l’orizzonte a livello universale, nel quale ben si inserisce la storia d’Israele.

Seguiremo il Pentateuco secondo i suoi maggiori blocchi narrativi e legislativi.

Si potrà infine continuare a parlare di “Torah di Mosè”, se questa è la genesi di composizione del Pentateuco? Senza dubbio, ma non perché Mosè ne sia l’autore in senso tradizionale, bensì perché la sua presenza invasiva in questo complesso ha determinato il peculiare carattere del più importante complesso letterario dell’AT: Mosè ne è il costante punto di raccordo e di riferimento.

Concludiamo con la saggia osservazione di J.L.Sicre: è inutile stare a discettare

sull’origine del lago recentemente scoperto. È più saggio godere delle sue bellezze e

sfruttare le possibilità di svago che esso permette. Leggere e rileggere il Pentateuco

cercando le sue linee maestre e contemplandolo dai più diversi punti di vista: questo

permetterà di godere di esso e di scoprirvi un messaggio fondamentale per la nostra fede.

I. L A S T O R I A D E L L E O R I G I N I

(Gen cc.1-11)

Il primo libro del Pentateuco è la Genesi (= “origine”, in greco), che consta di due

grandi blocchi:

a) Origine dell’uomo e dell’universo (cc. 1-11);

b) Storia dei Patriarchi (cc. 12 - 50).

Quando Israele ha iniziato la riflessione sulle proprie origini come Popolo di Dio, si è

incontrato dapprima con Abramo e gli altri Patriarchi (questo è testimoniato specialmente

dalla trad.J). Solo in un secondo tempo esso ha avvertito la necessità di porsi la questione

sulle origini dell’uomo e dell’universo e ha creato pian piano quelle tradizioni che formano i

cc.1-11 di Gen: il primo blocco di questo libro, dunque, è più recente del secondo.

Si può istituire un parallelismo con la formazione dei Vangeli. La comunità primitiva ha curato innan-zitutto le tradizioni riguardanti la Morte e Risurrezione di Gesù (il ciclo della Pasqua): solo dopo aver risolto l’enigma capitale del Mistero di Cristo, essa ha compiuto un cammino a ritroso nella vita del suo Maestro, approfondendo la portata della sua missione pubblica e interrogandosi poi sulle sue origini umano-divine.

Fatte le debite proporzioni, è chiaro che anche l’antico popolo di Dio è stato mosso da un interesse ben preciso: la figura di Abramo che da antichissime tradizioni era professato come il capostipite. Solo in un secondo tempo (ma ben presto) e in funzione di Abramo e dei Patriarchi, si è andati al di là di quest’epoca patriarcale non solo per dare un’ambientazione a questi personaggi, ma anche per rispondere a fondamentali interrogativi di un popolo rappresentante l’umanità intera.

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La relazione fra i due blocchi è molto stretta: Gen 1-11 descrive le sorti dell’umanità primitiva, da Dio guidate amorevolmente, ma degradate dalla responsabilità dell’uomo al punto che Dio “deve dare una svolta” (parlando antropomorficamente) al suo piano di salvezza concentrandosi su Abramo e Israele ed eleggendo questo popolo come strumento di benedizione per tutti i popoli (cf Gen 12,3). Questo comporta che Gen 1-11 sia una presentazione dell’umanità alla luce della storia d’Israele: infatti i redattori di questi capitoli erano ebrei bene addestrati nel senso della storia della salvezza in cui era coinvolto il loro popolo.

Un commento molto utile, e in queste pagine abbastanza presente, è quello di E.BIANCHI, Genesi. Capitoli 1-11. Commento esegetico-spirituale, ed. Qiqajon, Comunità di Bose 1990.

Protagonista di Gen 1-11 è l'uomo in quanto tale (ha Adam ricorre ben 32 volte in questi

capitoli): è l’esperienza dell’umanità intera che viene descritta e chi procede a questa

riflessione è un popolo che, per quanto minuscolo, rappresenta l’umanità alla ricerca dei

grandi “perché?”. Gli stessi personaggi che ricorrono col nome proprio (Caino, Abele,

Lamech, Enoc…) hanno valore simbolico, rappresentando l’uomo nelle sue diverse

dimensioni. Quella di Gen 1-11 è la “storia delle origini”, ma anche la storia di sempre,

l’universale storia di peccato e di salvezza, la nostra storia. La Bibbia si apre con la storia

che riguarda tutta l’umanità (Gen 1-11) e si chiude con la storia del popolo di Dio che sfocia

nella storia universale del mondo e dell’umanità (Apocalisse). Questa maestosa

“inclusione” è la conferma che Dio “vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla

conoscenza della verità” (1Tm 2,4).

Con ciò abbiamo un preciso orientamento sul genere letterario di questi capitoli: esso

può essere definito come il genere letterario della Storia delle origini, appunto. L’agiografo,

che si fa portavoce dello sforzo riflessivo del suo popolo, vuol dare risposte non di carat tere

storico, bensì sapienziale (va sottolineata l’impronta “sapienziale” di Gen 1-11; ci si

domanda: che significato ha questo? E non: che cosa è accaduto realmente?). Qui siamo

ancora oltre la preistoria, su un terreno che non è possibile controllare, che sfugge allo

stesso autore sacro, ma che è ricostruito in alcune situazioni esemplari e schematiche

mediante narrazioni popolari e miti attinti dall’ambiente mesopotamico e depurati di ogni

infiltrazione politeistica. È una “storia emblematica” non in senso vago di metafora poetica,

bensì in un senso esistenziale e reale che coinvolge tutta l’umanità.

Leggende e miti, nell’ambito medio-orientale, sono ricchissimi circa le origini dell’uomo e dell’universo: per una nutrita informazione è molto utile AA.VV., L’Antico Testamento e le culture del tempo, ed. Borla, Roma 1990, pp.225-392, che riporta abbondanza di testimonianze dalle cosmogonie e cosmologie di Ittiti, Sumeri, Assiri, Babilonesi... Di fronte a questi testi è innegabile la dipendenza di Genesi. Infatti gli ebrei sono un popolo tra gli altri con tutti i contatti e gli influssi di un popolo sull’altro: gli autori sacri conoscono, prendono, valutano, utilizzano e modificano, istituendo delle mutuazioni reali, ma contemporaneamente esercitando una sovrana libertà ispirata dalla fede monoteistica. La legge dell’Incarnazione della Parola è applicata con magnifici risultati fin dalla prima pagina della Bibbia: nel linguaggio del tempo la Bibbia propone una teologia e un’antropologia alternative allo spirito degli “strumenti” che adotta.

Alcune sostanziali modifiche della Bibbia rispetto ai grandi poemi babilonesi come Enuma elish, Ghilgames e Atrahasis: la sostituzione del politeismo con il monoteismo centrato su Jahvè; la riduzione di tutte le forze cosmiche da “potenze divine” a semplici creature; la liberazione dell’uomo dalla soggezione schiavizzante di divinità crudeli per il recupero di dignità e autonomia (l’uomo non è un giocattolo in mano agli dei!); la comprensione della storia non come luogo di lotta fra dei o forze cosmiche, ma luogo in cui Dio si manifesta e si fa conoscere agli uomini e in cui gli uomini esercitano la loro libertà e responsabilità di scelta.

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Che Israele non senta il bisogno di elaborare un proprio discorso sulla creazione, ma accolga positivamente quanto proposto dai popoli circonvicini può essere considerato come un processo di inculturazione in atto.

Siamo al di là della preistoria, si usano leggende e miti... Che cosa c’è allora di vero e di “storico” in questi capitoli? E’ la domanda che ricorre usualmente. Basta precisare che oggi “mito” non è preso come sinonimo di “antistoria”: esso è l’espressione, in prosa o in poesia, di determinate esperienze primordiali (sul creatore, l’universo, l’uomo...) condensate in una forte carica esistenziale-religiosa. Finalità del mito è quella di descrivere le costanti dell’esistenza umana proiettandole su un inizio (“In principio…” è la prima parola di Genesi) per significare che esse sono valide dappertutto e per sempre. Gen 1-11, difatti, elenca tematiche di carattere universale. Pertanto è pacifico che le “vicende” ivi riferite non sono storiche nemmeno nell’acce-zione corrente dentro la Bibbia. Il nucleo, però, va considerato “storico” non nel senso che quei “fatti” si siano verificati come riferiti, bensì nel senso che essi rappresentano uno schema primordiale ed elementare atto a tradurre delle risposte che orientano l’umanità negli interrogativi di fondo che essa usa porsi ad un livello evoluto della sua esistenza. Il mito è il primo tentativo della ragione di capire il mondo e di indicarvi il posto dell’uomo. Si deve insistere sul concetto di “schema esemplare”: un’umanità che con sapienza ritorna alle proprie ascendenze non può non riconoscersi nelle situazioni-tipo offerte in queste pagine; in questo senso esse hanno la loro incidenza storica. L’agiografo non conosce per filo e per segno quanto accaduto “in principio”; ma è sicuro, con l’aiuto dall’alto, che le situazioni “mitologiche” ricevute e elaborate rappresentano situazioni-tipo senza le quali non si potrebbe spiegare la situazione attuale dell’umanità. Non c’è effetto senza causa; ora l’effetto c’è, deve esserci anche la causa, ed essa è stata individuata attraverso il mito. Si può parlare quindi di “eziologia metastorica” (categoria formulata da K.Rahner), cioè di ricerca della cause nel loro inizio temporale, di spiegazione della storia presente risalendo al passato. “Storici” questi capitoli non lo sono in senso stretto, ma sono appunto “metastorici” (al di là della storia) perché permettono di interpretare la storia presente cercandone l’origine e il fondamento, dando così un senso al presente. Ecco perché Gen 1-11 è un genere letterario particolare, la “storia delle origini”, come si è già detto. Come si constaterà agevolmente dalla struttura e dalla teologia organica di Gen 1-11, quella che viene data è una spiegazione sistematica, articolata, intenzionalmente globale: c’è sotto un progetto talmente esplicito di cercare e offrire risposte, che questi capitoli vanno visti come una “summa”, un prontuario a disposizione di chiunque ricerchi la verità. Peculiarità da sottolineare è che la letteratura di nessun popolo ha operato un tale sistematico tentativo a proposito di temi tanto grandi. Ma l’uomo biblico, in forza della sua fede nel Dio personale, ha avuto l’ardire di confrontarsi con essi, sicuro di ricavare qualcosa di grande e di valido per la sua esistenza sulla terra. Tenendo presente tutto questo, si capisce infine che finalità di questi racconti è soltanto quella di cogliere il senso delle primordiali espressioni della vita umana, e pertanto è da escludere ogni contraddizione fra il contenuto di Gen 1-11 e i risultati della scienza. La scienza infatti deve rispondere al “come è successo”, al “come è avvenuto”, mentre la Bibbia deve rispondere al “che senso ha” quanto narrato? Punti di vista e prospettive diverse, ma non alternative tra loro, che mai potranno venire in collisione, qualora si rispettino i confini di ciascun ambito.

Un altro punto da precisare ci viene offerto dal contesto da cui attinge la Bibbia: come si è visto, esso va individuato nella Mesopotamia. Ma Israele è venuto a contatto con questo ambiente durante l’esilio in Babilonia, cioè nella metà del sec.VI a. C. Gen 1-11, allora, non può essere stato concepito e scritto se non durante o subito dopo l’esilio. Difatti Gen cc.1-3.6-8.11 (per dire i testi più significativi) non possono essere adeguatamente compresi se non sullo sfondo della Mesopotamia, regione di acque abbondanti. Se questo è vero, allora la storia delle origini va concepita innanzitutto come una risposta alle grandi domande che il popolo di Dio si pone di fronte alla tragedia dell’esilio, e siccome Israele sta in funzione delle genti, come vedremo, le sue domande e le risposte che riceve sono esemplari per tutta l’umanità. Si deve aggiungere che le istanze del popolo dell’esilio e postesilio non hanno condizionato solamente Gen 1-11, ma praticamente tutta la grande storia ebraica che va fino al sec.VI a.C. Questa la tesi di fondo, che trova uniti la gran parte degli esegeti (che, cioè, Gen 1-11 vada interpretato alla luce della susseguente storia del popolo eletto, in particolare esilio babilonese e postesilio) costituisce la critica più convincente alla teoria classica della formazione del Pentateuco. Si ritornerà su questo concetto al termine della sezione.

La fede è la prospettiva di Gen 1-11 più che per ogni altra parte della Bibbia, diremmo:

l’autore sacro, infatti, era consapevole di non avere a disposizione ‘fatti’, e allora con

l’ausilio dei miti popolari ha costruito dei “segni”. E come ogni segno biblico, anche questi

vanno penetrati, scrutati in profondità: l’involucro è rozzo (racconti elementari), ma esso

nasconde una polpa finissima (grandi verità teologiche).

Gen 1-11 non è una “storia vera” come la intendiamo noi, ma una “storia che dice il

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vero” su determinati problemi dell’uomo.

Gen. 1-11 si divide naturalmente in due parti:

a) Creazione dell’universo e dell’uomo (cc. 1-2);

b) La potenza del peccato e l’umanità primitiva (cc. 3-11).

La divisione risulta logica rispetto al contenuto, ma non si deve porre uno stacco netto

tra le due parti, poiché prevale la loro unità che il redattore mette ben in rilievo. Questa

unità è chiara all’interno del complesso: basta richiamare due dati, quello della benedizione

(Gen 1,28 e ripreso da Gen 9,1) e quello dei limiti segnalati (Gen 2,16-17 e Gen 9,4-5). Ma

lo è anche rispetto all’intero libro di Genesi: per ben 10 volte (Gen

2,4a;5,1;6,9;10,1;11,11.27;25,12.19;36,9;37,2) il narratore sacerdotale usa l’espressione

“queste (sono) le origini di…” (‘elleh toledôt), conferendo a tutto il libro e alla sua storia

un’impronta del tutto positiva.

Certamente però la divisione in due parti ha un significato straordinariamente importante:

l’agiografo (sappiamo che non è una persona unica, bensì un circolo di sapienti), di fronte

alla problematicità della situazione attuale, riesce a precisare che “all’inizio non era così” e

allora descrive una creazione tutta positiva, uscita da un disegno stupendo di Dio (cc.1-2).

Messo in chiaro questo, allora egli entra nel problema specifico della complessità di questo

mondo (cc.3-11). Questa operazione inaugura una metodologia teologica fedelmente attuata nella Bibbia: Dio non è autore del male; egli è solo bontà; il male è responsabilità dell’uomo suggestionato da Satana. E quanto è attuale e necessaria questa metodologia, oggi! Ma questo è un messaggio innanzitutto per l’Israele dell’esilio: di fonte allo scoraggiamento diffuso fra il popolo di Dio il testo di Gen 1-2 riparte dalle origini del mondo per dimostrare che il “male” non fa parte del piano divino. La radice di ogni cosa e di ogni essere creato è sana. Corruzione, morte e violenza sono arrivati solo in seconda battuta. Basta “scavare” sotto lo strato di corruzione presente nell’universo per ritrovare uno fondo intatto dell’iniziale bontà della creazione come è uscita dalle mani di Dio all’alba dell’universo. Su questo fondamento si basa la speranza d’Israele ed è rafforzata la volontà di ricostruzione del nuovo progetto della nazione.

1. CREAZIONE DELL’UNIVERSO E DELL'UOMO (cc. 1 – 2)

La Bibbia si apre con un duplice racconto della creazione: uno appartenente a P (1,1-

2,4a) e l’altro a J (2,4b-25).Nei primi 11 capitoli di Gen intervengono solo queste due “Tradizioni”. Siccome esse sono distanziate

nel tempo (sec. X e sec. VI a. C.), vuol dire che la riflessione sulle origini dell’universo e dell’umanità ha fortemente impegnato il periodo più significativo della storia d’Israele. Per quanto riguarda l’individuazione delle fonti, però, si tengano presenti le considerazioni fatte poco sopra. Anche perché qui il problema si fa pressante, dopo quanto detto sopra circa l’ambiente mesopotamico come sfondo di questi capitoli e circa il loro orientamento a rispondere agli interrogativi di ebrei dei sec.VI-V a.C. Come esposto a p.11, pur

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continuando a parlare di “jahvista” e “sacerdotale”, sarà da immaginare J come un complesso di “frammenti” che possono essere arcaici, mentre P può essere ritenuto come un documento vero e proprio.

Entrambi i racconti (ma è proprio esatto parlare di “due” racconti?) sono rappresentativi

delle rispettive fonti: il primo è solenne, stilizzato, di intonazione liturgica; il secondo è

vivace, immaginoso e di inarrivabile potenza evocativa. Il primo designa Dio sempre con

“’Elohim” (plurale d’intensità), il secondo ha il doppio nome “Jahvè ‘Elohim”.

Subito si verifica un’applicazione di quanto detto a p.11, lettera D: questi due racconti di creazione non sono dei doppioni. Il redattore finale vi ha colto delle prospettive diverse che ha voluto conservare. Si tratta di fare una sintesi da entrambe per cogliere la totalità. Il racconto P si interessa maggiormente al mondo totale (l’universo e il cosmo), quello J maggiormente all’esistenza. Gen 1 risponde alle domande: Da dove viene il mondo e ciò che in esso esiste? Perché è fatto così? Gen 2 invece: Perché l’uomo è così? Perché la sua vita si svolge così? E tutti i brani di trad. J in Gen 1-11 hanno questa preoccupazione esistenziale: perché la conflittualità fra uomo e donna? Perché il lavoro duro (c.3)? Perché l’odio fraterno e la vendetta (c.4)? Perché le grandi catastrofi (cc.6-8 nei testi J)? Perché le diversità delle lingue e la difficoltà a capirsi (11,1-9)? Quindi due racconti che non costituiscono un doppione, ma che sono complementari.

1.1. Gen 1,1 – 2,4a: l’opera dei sei giorni

E’ un testo estremamente solenne, di andamento ritmico, cadenzato da ritornelli quasi

come una litania: è un Inno alla creazione, una lode liturgica a Dio creatore, una dossologia,

un “poema liturgico” col quale si apre la Scrittura. Esso costituisce la grande “ouverture”

dell’opera storica d’Israele, il portale solenne della costruzione letteraria creata dai sacerdoti

in esilio per sostenere la speranza del popolo di Dio e ne risulta un capolavoro di arte

narrativa.

Come ogni introduzione, anche Gen 1-11 diviene meglio comprensibile e sarà più

apprezzata dopo aver letto tutta la storia della salvezza.

La struttura dell’Inno: v.1: titolo generale; v.2: proemio; vv.3-31: corpo del racconto;

2,1-4a: conclusione (il v.1 corrisponde al v.4a del c.2: inclusione).

Questa struttura è comandata da alcuni fattori significativi. In primo luogo, tutto il materiale è organizzato attorno alla struttura ebdomadaria e al principio settenario: 6+1. Dopo un lungo lavoro, Dio entra nel suo riposo, al quale sarà chiamato anche l’uomo (cf Eb 4,10-11). Il numero 7 domina (7 vocaboli nel v.1, 14 nel v.2, 21 i vocaboli dei vv.1-2 e di 2,3b-4; 7 volte la frase “e Dio vide…”, 7 volte il verbo “ bara’ ”, 35 volte il nome ‘Elohim). Sette formule conferiscono al racconto l’andamento ritmico, come di litania: formula d’introduzione - formula di comando - formula d’esecuzione - formula di descrizione- formula di benedizione - formula di lode - formula di conclusione. Con questa insistenza l’autore vuol sottolineare la completezza e la perfezione: tutto, proprio tutto è uscito dalla mano di Dio, tutto è perfetto nel suo piano! Si noti ancora il seguente prospetto che visualizza questa perfezione: prima l’ambiente è apprestato (giorno e notte - firmamento - terra e mare - germogli, erba e alberi), poi esso è adornato (sole, luna e stelle - pesci e uccelli - bestiame sulla terra – l’uomo):

Produzione dell'ambiente (vv.3-13) Ornamento dell'ambiente (vv.14-21) I Giorno: opere 1 con 7 formule IV Giorno: opere 5 con 6 formule II “ : “ 2 “ 6 “ V “ : “ 6 “ 6 “ III “ : “ 3 “ 5 “ VI “ : “ 7 “ 5 “

“ 4 “ 6 “ “ 8 “ 7 “

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La struttura settenaria comporta un’attenzione speciale per il IV giorno (vv.14-19) che sta in diretta relazione con il I e il VII giorno: oltre a contenere da solo un sesto delle parole di tutto il racconto (69 su 413), con il IV giorno inizia una nuova serie di creature. I primi tre giorni contengono gli elementi immobili (cielo – trerra – mare), mentre gli ultimi tre racchiudono quelli mobili (astri – animali – uomo). Altro dato strutturante è la Parola di Dio: 10 volte “Dio disse…” nei 7 giorni di creazione. Il riferimento alle “dieci parole” (cf Es 34,28; Dt 4,13) si impone: l’autore ha voluto legare il piano creazionale a quello storico-salvifico. L’atto della creazione è legato a una forte teologia della Parola: Gen 1 è l’inno ammirato alla Parola creatrice: “Egli ha parlato e tutto fu fatto, egli ha comandato e tutto venne all’esistenza (Sal 33,9). 10 volte è utilizzata anche l’espressione “secondo la loro specie”. Il binomio “cielo-terra” (l’inclusione maggiore nel racconto) è tenuto sempre presente: tre giorni sono dedicati alla creazione di creature della sfera celeste (I, II e IV giorno) e altri tre giorni alla creazione di creature della sfera terrestre (III, V e VI giorno). Lo schema “comando – esecuzione” unifica ulteriormente il racconto. Lo schema è proprio della trad. P, che lo ripete in maniera macroscopica in Esodo, a proposito della costruzione e dell’erezione del Santuario (istruzioni sulla sua costruzione: cc.25-31 – loro esecuzione: cc.35-40). Esso tende a suscitare l’ammirazione e la lode, tipica atmosfera del genere letterario dell’inno.

Non si finirebbe di scoprire indizi strutturanti in Gen 1: segno di quanta ingegnosità letteraria (a servizio del messaggio) l’autore sacro ha messo in campo! Ma anche segno evidentissimo che l’intenzione dell’autore non è quella di narrare come Dio ha creato, bensì che Dio ha creato, e ce la mette tutta per dimostrare questa verità primordiale che fa “per la nostra salvezza” e che, sola, non è soggetta ad errore.

Ma passiamo ad alcune note esegetiche.

Il v.1 va lasciato indipendente dal v.2 (sebbene grammaticalmente possa essergli

congiunto) per avere vera funzione di titolo. Esso indica l’inizio del tempo, quando Dio ha

cominciato ad operare, cioè “creò il cielo e la terra”. “In principio” (bere’šît): c’è un inizio;

l’universo non è eterno.

‘Elohim è il nome ‘comune’ del Dio d’Israele (distinto dall’impronunciabile tetragramma JHWH) e designa Dio nella sua unicità e sovranità assoluta (cf Is 44,24): ecco perché è un plurale. “Bara’ ” designa l’atto creatore di Dio. L’AT lo utilizza 48 volte e sempre con soggetto Dio. E’ frequente nel Secondo Isaia (16v) e altri testi esilici e postesilici. Nei rari usi preesilici indica le “meraviglie” operate da Dio (cf Es 34,10; Nm 16,30); e allora, quando il verbo viene usato per la creazione dell’uomo vuol dire che l’uomo è la “meraviglia” di Dio e che questa meraviglia divina non si può descrivere. Ecco un motivo teologico, oltre ad altri, per affermare che Gen 1 non precisa nulla sulla modalità della creazione. L’antico uso di “bara’ ”, dunque, dice che Dio fa meraviglie, cioè cose nuove, ma nel campo della storia, non in astratto; pertanto in Gen 1 il verbo non può aver connotazione astratta (la “creatio ex nihilo” sarà affermata solo molto più tardi: cf 2Mac 7,28): esso qualifica l’attività di Dio come incomparabile e ineffabile, sottratta ad ogni speculazione umana. “Cielo e terra” sta per l’universo, essendo espressione “polare” (= i poli, gli estremi per il tutto).

Con il v.2 inizia la narrazione vera e propria (il “proemio”). Sono poste le premesse per

l’intervento di Dio, descrivendosi lo stato caotico della terra. Essa è informe e deserta e le

“tenebre” ricoprono l’”abisso”: un accumulo di elementi negativi!

“tohu wabohu” (si noti l’assonanza) sono due sostantivi in ebraico, resi poi dai LXX con aggettivi (aòratos e akataskeùastos). La coppia ricorre altrove solo in Is 34,11; Ger 4,23, mentre “tohu” è molto più frequente, e proprio Geremia aiuta a precisare: la terra è caos e nulla, priva di vita vegetale e animale, oltre che di presenza umana. “Tenebra” designa calamità e perdizione, soggiorno dei morti e notte senza fine; l’ ”abisso” (tehôm, linguisticamente legato alla mitica Tiamat mesopotamica) è elemento tumultuoso e devastante, terribile nella sua forza incontrollabile. Quattro termini, dunque, di negatività estrema ed efficace: è la “non-creazione” alla quale Dio dice di no attraverso lo “Spirito” che “si libra” sulle acque”. C’è opposizione dall’eternità fra Dio e il caos, dal momento che lo Spirito stabilmente insidia il caos. Questo dice la volontà eterna del Dio creatore, che poi ha un inizio (“in principio”). Il verbo “merachefet” (participio, e quindi designante uno stato), più che indicare il “covare” dell’uccello (si ricordi che “ruah” è femminile in ebraico!) come inclinano a credere molti Padri, ha il senso di “planare”, “volare” (cf Dt 32,11: parallelo molto

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efficace) e designa l’uccello che a cerchi concentrici si avvicina alla cova e porta vita. Quindi lo “spirito di Dio” non ha una presenza statica, bensì fa sorgere l’attesa di qualcosa di nuovo che subito avverrà: esso è l’elemento dinamico di una situazione negativa e statica, tanto più che la locuzione, per sé, può anche significare “vento fortissimo” (se all’aggiunta “di Dio” si da la resa del superlativo ebraico, come talvolta è testimoniato nell’AT).

Il corpo del racconto (vv.3-31) si può ora snodare con progressione logica e lineare

(non necessariamente cronologica!), dopo che sono state poste le premesse.

Secondo il sacerdotale l’opera di Dio procederà attraverso una serie di “separazioni”;

questo concetto è fondamentale nella sua teologia (Israele è un popolo separato dagli altri;

la tribù di Levi è separata dalle altre…), ed è naturale che esso presenti Dio che separa la

luce dalle tenebre, la terra dalla massa delle acque, e così via.

Il primo giorno (vv.3-5) viene creata la Luce (5v il termine “’or”): si applica la prima

volta lo schema sopra descritto. “Tob” (= buono) non dice soltanto una cosa ben riuscita,

bensì anche entusiasmo e ammirazione (si potrebbe anche rendere: che bontà! che bellezza!

Dio si congratula con se stesso!). I LXX traducono sempre “tob” con “kalòs” che ha un

vasto spettro di significati: bellezza esteriore, utilità pratica e bontà morale. Questa

constatazione che si ripete 7 volte è uno dei motivi più evidenti del clima positivo e gioioso

che domina Gen 1 e che sorprende in un brano di stampo sacerdotale.

Un problema si porrebbe per chi pensasse ad una successione cronologica: come può Dio creare la luce, se non ci sono ancora sole e luna, giorno e notte? Ma allora: e le tenebre, le ha create Dio? Tutte incongruenze fittizie se ci rifacciamo al piano teologico, l’unico inteso. Il primo atto della creazione è una vittoria di Dio sulle tenebre. Questo il senso del testo. “Fu sera e fu mattino”: è il computo del tempo ebraico che fa iniziare la giornata con il vespro e la fa terminare con il vespro secondo il calendario lunare. Dio dà il nome alla sua creatura (v.5) come farà poi per la terra e il mare: è un segno di dominio e di superiorità, del quale parteciperà anche l’uomo (cf 2,19; 2Re 23,34;24,17), ma per conseguenza è anche segno di demitizzazione: la cosa nominata è creata, non eterna.

Il secondo giorno (vv.6-8) è occupato dalla creazione del firmamento (“rāqîa’ ”: 5

volte), concepito come una superficie solida che sorregge le acque superiori e le fa scendere

come pioggia attraverso le cateratte. Il firmamento poggia su colonne (cf Gb 26,11) e viene

chiamato “cielo”. Si è molto discusso sull’assenza della formula “e vide che era cosa

buona”: forse il suo uso al v.10 riguarda anche il firmamento. Si tenga, però, presente che

per gli ebrei il numero 2 comporta imperfezione. Per simmetria il “così avvenne” del v.7b

dovrebbe essere anticipato al v.6b.

Il terzo giorno (vv.9-13) ha due opere di creazione. La prima (vv.9-10) è la separazione

orizzontale delle acque, separazione decisiva per la vita; asciutto e massa delle acque sono

anch’essi demitizzati ricevendo il nome (terra e mare). I miti dei grandi rivolgimenti

cosmici sono da Gen sostituiti dall’azione sovrana e ordinatrice di Dio. Siamo ben lontani

dallo spirito dei racconti mesopotamici di creazione.

La creazione è, in realtà, concepita come una separazione per far apparire quello che già esiste, ma ancora nascosto: separate le acque superiori e inferiori, appare l’asciutto. La concezione cosmologica popolare è l’unica ispiratrice di questa pagina, la quale costituisce la prima e più evidente applicazione della questione della “verità biblica”, un tempo vero scoglio interpretativo, ma oggi felicemente risolta nei suoi termini

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essenziali.

La seconda opera del terzo giorno (vv.11-13) è la vegetazione che è creata in maniera

indiretta (il comando è rivolto alla terra, non è Dio che crea i vegetali direttamente). Si

innesca così una cooperazione della creatura inferiore che, però, ha il suo principio dalla

Parola di Dio. Anche in questo caso è preso di mira un mito, quello della “Madre Terra”, la

quale viene svestita di sacralità dal comando di Dio a produrre: la natura buona non è

un’immagine suffragata da Gen, dove essa appare del tutto ‘neutra’.

Compare la dicitura “secondo la sua/loro specie” (v.12; cf v.21.24.25bis). Per il sacerdotale c’è un preciso ordine nell’universo che l’uomo è chiamato a riconoscere e a rispettare (questa la finalità delle separazioni). La classificazione dei vegetali in tre grandi categorie ( germogli – erbe che producono seme – alberi da frutto: un piccolo trattato di botanica!) vuole essere un primo esempio di collaborazione.

Il quarto giorno di creazione (vv.14-19: si ricordi la centralità di questo giorno) inizia la

seconda serie, quella delle opere di abbellimento e di ornamentazione. Esso porta al

massimo l’opera di demitizzazione: sole e luna, divinizzati in tutte le culture orientali, sono

fortemente declassati, non essendo neanche menzionati con il nome appropriato. Il termine

“me’orôt” più che luce designa piuttosto un “lampadario”, cioè un oggetto che emana luce:

sole e luna sono dei lampadari, altro che divinità! Gli stessi tre compiti essenziali assegnati

loro (cf vv.14-15), pur essenziali, accentuano la loro sottomissione.

Questo giorno, assieme al settimo, rivela la concezione sacerdotale sottolineando le feste in generale ed in particolare il sabato, come vedremo: il tempo sacro è in relazione con lo spazio sacro, difatti Gen 1 richiama la descrizione di Es 39-40, cosicché si deve dire che il sacerdotale concepisce il cosmo come spazio sacro, come un santuario.

Il quinto giorno (vv.20-23) vede l’apparizione della vita (pesci e uccelli). Sebbene

questa vita sia ancora allo stadio inferiore, è già troppo importante: ritorna il verbo “bara’ ”

(v.21). I grandi “mostri marini” (tanninîm) avevano per gli antichi un ruolo importante (cf

Sal 89,10-11), ma essi sono sempre e soltanto creature.

Perché l’autore introduce qui la benedizione di Dio (v.22)? Facilmente perché era piuttosto misterioso il meccanismo riproduttivo dei pesci e degli uccelli, a differenza di quello dei vegetali, e allora Dio interviene a dare la possibilità di vita con la sua benedizione. Così è confermato ancora che egli solo è l’autore della vita.

Il sesto giorno (vv.24-31) contempla altre due opere. La prima è la creazione degli

animali terrestri (vv.24-25), quelli che sono più prossimi all’uomo. Essi sono di tre specie

(animali domestici, rettili e bestie selvatiche), come tre erano le specie dei vegetali: si vuole

ancora sottolineare il mirabile ordine cosmico della creazione.

L’ambiente è gradualmente preparato: ma per chi? Per l'uomo, che è l’ultima opera di

Dio (la seconda del sesto giorno), la più impegnativa e la più diffusamente descritta (vv.26-

31). La stessa struttura (delibera: v.26; esecuzione: v.27; signoria: v.28) lo conferma:

l’uomo viene a rappresentare come il vertice di una piramide (mentre nel c.2 egli sarà al

centro del creato); tutta la creazione precedente è stata concepita a suo servizio.

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Il plurale “facciamo” va considerato come un plurale di deliberazione (cf 11,7-8), anche se non va esclusa l’ipotesi di un Dio che si consulta con la sua corte celeste: si direbbe che Dio non stenda la mano e dica “sia…”, ma che Egli quasi si raccolga in se stesso e prenda slancio per l’attività culminante!

Dio delibera di fare l’uomo “a sua immagine e somiglianza”. L’espressione, straordinariamente importante, è generica: “selem” (= figura) e “demut” (= eguaglianza). Il primo termine distingue l’uomo dall’animale, il secondo dice la somiglianza spirituale con Dio: non sono quindi sinonimi, infatti il secondo specifica il primo. Non si può precisare molto il pensiero dell’autore, se non affermando che l’uomo partecipa misteriosamente alla “kabôd” (gloria) di Dio per alcune prerogative (intelligenza, volontà e libertà) che lo distanziano dalle altre creature. Ecco perché il Sal 8,6 può affermare con ardire: “l’hai fatto di poco inferiore agli angeli” (o più esattamente: l’hai fatto poco meno di Dio!). Si noti che nel v.26 “ ’adam” è senza articolo (un uomo, un umano generico), mentre v.27 (realizzazione) è “ha-‘adam” (con artic.), l’uomo con identità precisa. Ma questa è acquisita soltanto nel momento in cui egli è creato “maschio e femmina”. Si osservi infatti il cambio : “a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (vv.27bc); due per sesso, uno per natura. Il mito “androgino” di un essere bisessuato poi separato, accolto dai rabbini e corrente nelle mitologie, è ben lontano dalla mentalità biblica. Però la verità che esso esprime va sottolineata: la bi-sessualità non è qualcosa di estrinseco all’uomo, come potrebbero insinuare i due vocaboli zakar ( il “puntuto”) e neqebah (la “perforata”), bensì un aspetto intrinseco alla persona. “Si può parlare di ha-‘adam quando c’è l’uomo e la donna. Passare dall’umano (‘adam) all’uomo (ha-‘adam) significa incontrare l’altro, il partner differente e uscire dallo stadio di indistinzione, di anonimato per essere visto, riconosciuto, scelto: è il passaggio dall’essere un ciò all’essere un chi” (E.Bianchi). Essere immagine e somiglianza di Dio, allora, comporta che l’uomo è un essere in relazione con Dio e con gli altri.

Ma prima viene la relazione con Dio, reale ma anche misteriosa. Quando nel Sal 8 si canta “di gloria e d’onore l’ha coronato” e nel rito del matrimonio il partner accoglie il partner con la promessa “prometto di amarti e onorarti…”, che cosa comporta l’ “onorare” se non professare il misterioso rapporto della persona amata con Dio che mai sarà esaurito nella vita a due? Ma non è forse questo il vero fondamento di una vera vita matrimoniale? Che, cioè, non sarà sufficiente la vita per conoscere e sperimentare l’insondabile mistero che è la persona amata che partecipa innanzitutto del “mistero” di Dio essendo creata a “sua immagine”, questo mistero che si è chiamati ad adorare e a porre come fondamento di una fedeltà dinamica che rende veramente felice una unione fondata su Dio e che avrà coronamento soltanto in Dio. Qui risiede l’essenza del matrimonio e senza dubbio Paolo pensa a questo mistero quando afferma: “Questo mistero è grande: io lo dico riferendomi al Cristo e alla Chiesa” (Ef 5,32).

Il v.28 afferma il dominio dell’uomo sulla terra e sugli animali: l’uomo è il sovrano

della terra, però il suo non è un potere assoluto e dispotico, infatti “soggiogare e dominare”

richiamano piuttosto all’opera del contadino che aggioga l’animale e al pastore che conduce

il gregge. Questa sovranità si esprime come una “benedizione”.

La benedizione, già pronunciata al v.22, ora si dirige su esseri che possono rispondere. Dio è principio della vita e la fecondità è dono soltanto suo (grande polemica con le religioni circostanti che sempre aspirano alla conquista magica di questa forza generatrice). Anche il dominio sugli animali è affermazione polemica: nel medio-oriente il dominio sul cosmo appartiene soltanto al re: la Bibbia demitizza questo dominio facendo vedere che Dio lo trasmette ad ogni uomo. Ma si faccia caso che le prospettive che Dio apre all’uomo nel v.28 (moltiplicatevi, soggiogate, dominate) sono esplicitazione di una “benedizione”, non semplicemente un comando. Dio non dà un ordine (“procreate!”), bensì formula una benedizione: la benedizione è adempiuta quando la terra sarà riempita. Non si parla qui di una procreazione senza limiti, bensì di una benedizione da realizzarsi, quanto mai opportuna per il popolo dell’esilio che sta sull’orlo della scomparsa totale. L’attuale problema demografico dovrebbe confrontarsi con questa “benedizione”; non si può accusare la Chiesa di promuovere una procreazione senza limiti, infatti i comandi del v.28 sono condizionati dal verbo introduttorio: “Dio li benedisse”. Le attività proposte sono correttamente interpretate soltanto alla luce della benedizione. Un altro aspetto da sottolineare: Dio affida il potere sulla terra ad ogni uomo, non ad uno in particolare, ad esempio il re, come risulta da tutte le culture contemporanee. Il re del creato è ogni uomo, ogni persona umana (cf Sal 8,5-10), non un solo membro della classe dirigente. La Bibbia opera una radicale democratizzazione contestando le gerarchie sociali allora esistenti. Demitizzazione e democratizzazione sono le due operazioni contestatrici nei confronti del contesto contemporaneo extrabiblico che continueranno ad operare nella lettura della realtà con gli occhi della fede: solo Dio merita gloria; gli uomini sono tutti uguali!

Infine, al v.29, Dio assegna un cibo vegetariano all’uomo (alberi con fusto) e all’animale (erba da pascolo). Non è il caso di scorgere qui il mito dell’età dell’oro di stampo pagano (infatti questa pace è solo dono messianico: cf Is 11,6-8), bensì il rispetto assoluto della vita alla sua origine che, secondo il progetto originario, comportava pace assoluta e assenza di lotta per procacciarsi l’alimento. La pace paradisiaca!

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Questa, sembrerà strano, si basa su quanto vi è di più concreto, il cibo; questo depone a favore del realismo della Scrittura, la quale non si abbandona a “voli pindarici”, come è tipico delle mitologia di qualunque tipo. Il discorso sul cibo nei vv.29-30 va approfondito. Dio ha dato subito prima (v.28) un reale potere all’uomo sul creato (terra e animali), ma immediatamente lo invita a moderare questo potere rispettando l’animale, difatti suo cibo sarà “ogni erba…e ogni albero”. Ma anche gli animali saranno in armonia tra di loro, non si uccideranno a vicenda per la sopravvivenza poiché hanno “in cibo ogni erba verde”: dunque rapporto pacifico tra uomo e animale e tra animale e animale (ognuno ha il suo specifico cibo). La pace originaria, dunque, è fondata (o meglio simboleggiata) nel cibo. E’ opportuno analizzare lo sviluppo del tema in Gen 1-11. Nei cc.2-3 (anche se di altra tradizione) esso è fondamentale, infatti la prova della libertà si basa sul “mangiare – non mangiare” (2,16-17) e il peccato è fondato sul simbolismo del “mangiare” (verbo ripetuto tre volte in 3,6 e quattro volte nei vv.11-13): Satana sceglie un’esigenza primordiale dell’uomo per proporre una modalità di ribellione a Dio. L’appetito smodato di porsi sul piano di Dio (tanti sono gli appetiti dell’uomo, ma quello del cibo è il più pressante!), assecondato gradualmente, impedisce all’uomo di dominare sull’animale (cf 1,28), anzi si rende suo schiavo e così rompe l’ordine della creazione, la quale precipiterà gradualmente nella corruzione fino al diluvio. Dio prende atto della distruzione dell’ordine originario (3,14-22) e dopo la catastrofe del diluvio Egli concederà all’uomo di cibarsi anche degli animali (9,2-3), ma con un’importante limitazione, quella di non mangiare la carne con il suo sangue (v.4). Siccome “l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza” (8,21b), Dio, concedendo l’animale come cibo, lascia spazio alla violenza dell’uomo, ma ne limita subito il campo in modo da impedire, per quanto possibile, che l’odio se ne impadronisca e la violenza divenga irrimediabilmente disumana. La creatura, in conclusione, nell’esercizio del dominio che Dio le ha dato deve imitare il suo Creatore che esercita il suo potere assoluto con mirabile discrezione e mitezza.

Con la creazione degli animali e dell’uomo è rimossa la vuotezza della terra (cf v.2):

l’opera è compiuta, e “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (v.31a).

L’esclamazione (ed ecco!) sottolinea la meraviglia di Dio e il suo entusiasmo per l’opera

compiuta: “gioisce il Signore delle sue opere” (Sal 104,31).

La conclusione del racconto (2,1-4a) rappresenta, comunque, il vero centro d’interesse

dell’autore: il riposo sabbatico (2,1-3). Il sabato, infatti, nel tempo dell’esilio rimane l’unico

segno della specifica identità religiosa d’Israele. Innanzitutto si dice che “furono portati a

compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere” (v.1), cioè con tutte le creature.

Siccome il termine “zeba’ot” ha una valore liturgico, non più militare come negli antichi

racconti, si vuol sottolineare che nel settimo giorno il caos è giunto a divenire “universo”,

cioè, secondo l’etimologia, che il caos è giunto all’unità ricevendo direzione, forma e

finalità di comunione con Dio. L’autore sacro chiude la sua mirabile pagina con lo sguardo

compiaciuto su un universo che, da caos, è passato ad un ordine liturgico, cioè perfetto,

secondo l’ideale che ha ispirato tutto il racconto, o meglio l’inno di lode. E tutto è accaduto nella spazio della Settimana, questa frazione di tempo in cui l’uomo lavora per sei giorni e nel settimo tutto restituisce a Dio professando così che tutto ha origine da Lui e a Lui ritorna. La varietà della creazione ha senso per il settimo giorno. L’immagine della menorah, il candelabro dalle sette braccia è il simbolo di questa settimana: il braccio centrale sostiene tutti gli altri, proprio come il sabato che dà senso ai giorni precedenti.

Che Dio porti a termine “nel settimo giorno” il suo lavoro (v.2a) non significa che Dio

abbia lavorato in questo giorno, bensì che il sabato, giorno vuoto di lavoro, è essenziale

perché la creazione sia completata.

La creazione non è fatta soltanto di lavoro, ma anche di riposo. Il verbo “kalah” (= finire, terminare) sottintende anche che il creato ha una finitezza, un limite: fino a lì e non oltre. Come anche questo è implicito nel verbo “shabat” (= arrestarsi, astenersi, più che ‘riposare’): Dio limita la creazione arrestando la sua azione.

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La benedizione al sabato (v.3a) comporta anche la sua fecondità (benedizione e fecondità sono una coppia in 1,22.28). Il sabato rende fecondi i sei giorni di lavoro, perché esso è il giorno della ‘shalom’ divina, della vita piena, della benevolenza speciale di Dio. Ecco perché Gesù guarirà spesso nel giorno di sabato: per significare che Dio è particolarmente vicino al suo popolo come Creatore e Salvatore.

Il sabato, infine è “consacrato” (v.3b), dichiarato “santo”, cioè separato, messo a parte per Dio. Per esso non si registrano i termini (fu sera e fu mattina): è il giorno senza tramonto e senza fine. Quindi esso non è solo il giorno della creazione (Es 20,8-11) e dell’esodo dall’Egitto (Dt 5,12-15), ma anche profezia del mondo a venire, dell’eternità della creazione e liberazione nuove e definitive (Is 66,22-23). Quando la fonte P produce questa mirabile pagina Israele vive in esilio in Babilonia (anni centrali del sec.VI), dove le usanze tradizionali rischiano di decadere. Lontani dalla patria, privati del Tempio e del culto, dispersi in mezzo a popoli pagani, gli Ebrei rischiano di perdere la propria identità religiosa e politica. Sarà compito della classe sacerdotale, sulla base degli antichi documenti ereditati dalle varie Tradizioni, ricostruire il passato del popolo restituendogli il suo significato e il suo senso teologico. Per questo, l’autore chiude con una trovata ad effetto: egli si appella a Dio stesso, visto come colui che si riposa dopo il lavoro della creazione e struttura l’inno in modo tale che il Sabato risulti al culmine di una serie di “opere”.

Così si chiude il racconto sacerdotale di Gen 1,1-2,4a, riguardante la creazione del cosmo

e che, a modo suo, vuole essere una risposta chiara e netta alla teologia idolatrica della

creazione del mondo dei Babilonesi: questa risposta è data facendo incursione nel campo

avversario, diremmo: riprendendo il mito babilonese, il Sacerdotale sottolinea come non

degli dèi falsi sono all’origine del creato, bensì l’unico vero Dio, che con il suo Spirito

aleggia sulle acque del caos primordiale e con la potenza della sua Parola mette ordine.

Un’operazione ardita e possibile soltanto sotto la guida di Dio, se si tiene conto del contesto

di schiavitù e di disparità assoluta tra Israele e Babilonia (sec,V a.C.). Eppure è proprio in

un periodo di assoluta irrilevanza storica che Israele, tramite i suoi Sacerdoti, rivendica il

proprio patrimonio religioso e la propria inconfondibile fisionomia.

Le verità teologiche maggiormente evidenziate da questo racconto sono le seguenti:

a) Dio è creatore dell’universo;

b) L’uomo ha il primato sulla creazione;

c) Il creato ha una originaria bontà;

d) La Parola di Dio è sommamente efficace, creatrice;

e) La Settimana biblica (e in essa specialmente il Sabato) ha un valore inestimabile.

f) La somma attualità degli eventi: l’origine di tutte le cose è riletta alla luce dell’esilio

babilonese, è una lezione perennemente valida (tutto Gen sta nella prospettiva dell’esilio).

1.2. Gen 2,4b – 25: la formazione dell’uomo e della donna

Gen 2, anche se in sé indipendente, è strettamente coordinato con il c.3, assieme al

quale presenta una struttura concentrica, se si prendono le grandi unità narrative.

A: 2,4b-17: creazione dell’uomo e del suo ambiente - B: 2,18-25: armonia dell’uomo con il creato e la donna - C: 3,1-7: suggestione di Satana a superare la creaturalità per essere “come Dio” - B’: 3,8-21:

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Page 23: Genesi

dissoluzione dell’armonia e pesanti conseguenze - A’: 3,22-24: rottura dell’uomo peccatore con l’ambiente.Globalmente preso, il testo descrive una situazione paradigmatica, cioè di sempre: l’umanità, posta di

fronte alla scelta di accogliere o meno Dio e il suo progetto (A-B), si è incamminata sulla strada del rifiuto (C) portandone il peso delle conseguenze (A’-B’). Questa è la realtà umana: essa ha due momenti, positivo e negativo. L’uomo vi sta in mezzo e ha tutte le facoltà per scegliere. E’ lo splendore e la miseria dell’umanità!

Di fronte ad un “secondo” racconto di creazione ci si domanda: perché due racconti di

creazione entrambi completi? Non semplicemente perché l’agiografo vuole conservare tutte

le tradizioni, ma soprattutto perché egli vede in essi una complementarietà (ecco perché è

inadeguato parlare di due racconti). “Mentre la descrizione della creazione fatta dal codice

sacerdotale ha di mira la domanda: ‘Da dove proviene tutto ciò che esiste?’, la domanda-

guida nei capp.2-3 è ‘Perché l’uomo è così com’è, un essere fallibile, che va incontro alla

morte?” (C.Westermann). E pertanto si passa dal grande evento cosmogonico con al

culmine l’uomo (Gen 1) al motivo antropologico centrale in Gen 2-3.

Gen 2,4a: “queste le origini del cielo e della terra” (cf 1,1); Gen 2,4b: “Quando il Signore Dio creò la terra e il cielo”: l’inversione non è senza conseguenze: il sacerdotale è interessato a tutto il cosmo, invece lo yahvista si concentra soltanto sull’uomo e l’ambiente che lo circonda. Il primo usa il verbo “creare” ( bara’) e il verbo “dire” (‘amar) sottolineando la potenza creatrice di Dio; il secondo invece il verbo “fare” (‘asah) e una varietà di altri verbi che designano la molteplice attività di Dio in una presentazione fortemente antropomorfica. Gen 1 elenca tutte le opere e per ultima la creazione dell’uomo; Gen 2 presenta l’uomo come la prima creatura apparsa su una terra che poi Dio gli rende abitabile. Due prospettive diverse, ma entrambe ordinate ad esaltare l’importanza dell’uomo. Altri elementi di complementarietà emergeranno via via.

La struttura particolareggiata del c.2 è la seguente: vv.4b-7: creazione dell’uomo; vv.

8-14: i due alberi e i quattro fiumi; vv. 15-17: compiti e limiti dell’uomo; vv. 18-23:

creazione della donna; vv.24-25: sintesi conclusiva.

Viene di nuovo dunque narrata la creazione, ma con ben diversa intonazione:

appartenendo a J, il racconto è pervaso da emozione, i suoi interessi sono esistenziali (non

cultici come nel c.1). Dio non è l’inaccessibile che agisce con la Parola creatrice, bensì

l’artigiano che giunge a produrre il suo capolavoro. Il contesto non è il caos primordiale,

bensì la regione fertile delimitata dai quattro “fiumi primordiali”, dai quali si dipartono

canali per l’irrigazione del suolo (cf vv.6.10-14).

L’ambientazione di Eden, così, porta alla Mesopotamia, terra irrigua e fertile. Questa precisazione è importante per Gen 1-11, perché quando la tradizione J (quella che fornisce il materiale più abbondante) parla della “terra”, si riferisce direttamente (anche se non esclusivamente) a questa regione che è stata culla di antichissime civiltà e tradizioni, come testimoniano i reperti archeologici. Israele fu ‘contagiato’ dal fascino di questa ricca terra e accolse alcune sue tradizioni con la libertà che gli è caratteristica. All’esordio, però, questa terra non è proprio ridente: l’autore sacro descrive un paesaggio stepposo, terra arida e polverosa. Motivo: non c’è la pioggia, ma soltanto l’acqua dei canali e non c’è l’uomo che la lavori. È nello stile dei poemi orientali iniziare in maniera negativa descrivendo ciò che ancora non c’era.

Questo secondo motivo è il più importante: i vv.4b-6 sono infatti premessa all’azione

del v.7, cosicché il racconto, iniziando con la creazione dell’uomo, fissa, fino alla fine,

l’attenzione all’uomo, visto nelle sue relazioni con la natura, con gli animali e con la donna.

Dio si improvvisa vasaio e “plasma” (yasar) l’uomo. Il modo di agire di Dio adottato da

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Page 24: Genesi

questo racconto va sotto il nome di "antropomorfismo”: Dio è visto agire sotto forma di

uomo. E’, questa, una tecnica narrativa essenziale per la fonte J, ma abbondantemente usata

in tutta la Bibbia: poco più avanti ne tratteremo. Quanto la modalità della creazione nel c.1

era alta e nobile, tanto essa nel c.2 è umile, come si è osservato.

Siamo intorno al sec.X (o anche qualche secolo prima, quando il mito va prendendo forma nella riflessione d’Israele), tempo in cui l’arte del vasaio era in auge in Israele e in tutto l’oriente: chiunque lo poteva osservare al lavoro (cf Ger 18,1-12). Geniale l’intuizione dell’autore sacro: per un popolo semplice mostrare Dio all’opera come un vasaio che fa cose stupende, significa inculcargli con rara efficacia la verità suprema della Creazione. Quel Dio che ha interposto la Parola tra Sé e l’uomo, diviene ora l’amorevole artigiano che plasma col calore delle sue mani! Il vasaio è tutto teso nel formare il vaso: lineamenti tirati nella concentrazione, gesti sicuri ma delicati e accorti, mano che passa a levigare il manufatto accarezzandolo… E’ insomma un lavoro di abilità, di precisione e di discrezione. Ebbene, così fa il nostro Dio con la sua creatura: siamo usciti dalla fantasia amorosa di Dio e dal calore delle sue mani onnipotenti ed amiche. Siamo troppo preziosi per Lui! Tutti questi significati ed altri ancora vanno intesi nel gesto antropomorfico del plasmare. Sostando sul quadretto del vasaio e analizzandone il movimento si va dritti dentro la verità salvifica, cioè si evidenziano stupendi elementi teologici. E questo è vero per tutti i paragoni e i simboli offerti abbondantemente dalla Bibbia: hi reali e che poi assumerà valore escatologico (cf Lc 23,43; 2Cor 12,4; Ap 2,7). I due termini, dunque, evocano lo splendore primitivo della natura. L’uomo è collocato nel giardino prima che esso sia adornato e completato (v.8b): tutto quanto segue sarà creato di fronte all’uomo. Alcune incongruenze sul giardino vanno rilevate: due volte è ripetuto che l’uomo vi fu collocato (vv.8.15); due gli alberi (della vita e della conoscenza del bene e del male) nello stesso posto “in mezzo al giardino”; si verifica un’interruzione nel flusso narrativo, favorito dalla notizia sui fiumi nei vv.10-14, che quindi sembra “un’aggiunta erudita e sapiente che vuol precisare la posizione del giardino” (R.De Vaux). Ecco il motivo della ripetizione nel v.15. Impossibile cercare localizzazioni esatte per i quattro fiumi: siamo certamente in ambiente mesopotamico (Tigri ed Eufrate), ma non sappiamo di più. E’ invece il simbolismo che conta. Innanzitutto il senso dell’acqua in se stessa: mentre nel c.1 essa era caotica e pericolosa, tanto che Dio la deve imbrigliare, nel c.2 essa è al centro come benedizione e promessa di vita. Che poi i fiumi siano quattro, questo dato rimanda ai quattro punti cardinali, cioè alla terra intera: l’acqua, elemento di vita “fascia” tutta la terra (come la si intendeva allora) e la rende un’oasi lussureggiante.

In questo giardino posto “in Eden ad oriente”, cioè in un luogo di felicità simboleggiato

da “oriente”, l’uomo è collocato “perché lo custodisse e lo coltivasse” (2,15): due verbi

significativi in un discorso di alleanza.

La fatica di impiantare il giardino la compie Dio, non l’uomo: Dio è generoso e offre il meglio che può all’uomo. Un’esistenza umana senza lavoro non sarebbe pienamente umana. Il lavoro, visto come collaborazione con l’opera divina, è un compito insito nella natura dell’uomo: solo che dopo il peccato esso muterà la sua ‘natura’; da attività serena, intesa ad umanizzare il creato, ad impegno gravoso e schiavizzante, ma sempre conserva il riferimento a Dio creatore. La dignità del lavoro come cooperazione con Dio è chiaramente affermata in polemica col mondo circostante, dove l’uomo o è schiavizzato nei servizi più umili agli dèi o usa il lavoro per derubarli di loro prerogative (vedi il mito di Prometeo).

Nel “giardino terrestre” l’uomo gode di libertà assoluta, che non è limitata dalla

presenza dei due alberi. Quello della vita è segno di benedizione e di grazia, simbolo della

vita piena concessa da Dio, addirittura dell’immortalità; esso è conosciuto dai miti

mesopotamici: lo ricerca Ghilgamesh, ma gli dèi non lo cedono, gelosi come sono (il Dio

biblico invece lo concede benignamente). L’albero della “conoscenza del bene e del male”

è, invece, geniale invenzione dell’autore sacro, anch’esso necessario, rappresentando il

rovescio dell’albero della vita: dove c’è la pienezza di vita ci deve essere anche il suo

contrario, la proibizione, perché la vita sia veramente umana, cioè limitata rispetto a Dio,

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ma soprattutto da accogliersi in consapevole libertà.

Infatti proprio perché è vita umana, essa riveste quest’affascinante dualità: vita straripante, rigogliosa e gioiosa (ecco l’albero della vita “in mezzo al giardino”: cf 3,22) e vita circoscritta, cioè limitata (ecco l’albero della conoscenza…). Ma questa limitatezza deve avere in sé alcunché di allettante e di attraente affinché la libertà umana sia rispettata ed effettivamente esercitata. Questo albero, dunque, ha in sé qualcosa di ambiguo: la vita piena è un bene sommo, ma questa, nella sua pienezza, sfugge per essenza all’uomo. Il volersene impossessare costituisce un attentato irreparabile all’ordine della creazione. L’atto del “mangiare” comporta assimilazione e possesso,e quindi mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male (polarità che dice totalità) comporta il dominare la morale, esserne padrone, e quindi sentirsi autonomo.

Abbiamo di conseguenza il primo comando di Dio secondo la fonte J. E’ una legge

positiva (“Tu potrai mangiare…”: v.16), seguita subito da una proibizione (“dell’albero…

non devi mangiare”: v.17): è importante questa sequela! Questo comando getta luce sulla

natura della norma che regola il vivere umano, che poi si concretizzerà nella Legge. Il tutto

(i due alberi e la proibizione) è frutto della riflessione sapienziale che caratterizza il

racconto dell’Eden.

La legge sarà sempre positiva, anche se necessariamente accompagnata da limitazioni. Le proibizioni di Dio non sono, infatti, dettate da arbitrio o gelosia, ma dalla natura stessa dell’uomo e delle cose. Viene interdetto quello che non può competere all’uomo per se stesso (essere arbitro del bene e del male), non quello cui egli ha diritto. L’uomo può fare tutto ciò che vuole: l’unica cosa che non gli è permessa è quella di mettersi al posto di Dio! L’uomo non può essere Dio, e il divieto di questo albero glielo ricorda! Egli può mangiare di tutto, ma non può mangiare il tutto! E’ una proibizione, questa, quando non si preclude ingiustificatamente all’uomo quanto è positivamente insito alla sua natura, bensì lo si aiuta ad essere veramente quello che deve essere e a godere pienamente di quello che veramente è alla sua portata? Gli si proibisce di essere Dio, e questo non è un sopruso, perché è intrinsecamente impossibile che egli lo sia! La legge, nella Bibbia, è sempre in favore dell’autentica realizzazione dell’uomo. Con questo divieto, comunque, sono poste le premesse per la tragedia futura, scaturita disgraziatamente da un ordine di cose che Dio non poteva non richiamare all’uomo nell’atto stesso della sua creazione. Il limite imposto all’uomo nel v.17 è dunque una vera e propria proposta di sapienza: si è sapienti solo se si è capaci di accettare la propria condizione di creatura e pertanto si attribuisce solo a Dio la “conoscenza del bene e del male”. Israele ha coltivato l’ideale della sapienza molto prima dei secoli postesilici: non ci meravigli che gli sia stato possibile riflettere sul mistero dell’uomo in chiave sapienziale. Ma ancora di più c’è nei vv.15-17 per capire la natura della legge futura. Essi possono essere visti come strutturati secondo lo schema dell’Alleanza (la prima volta nella Bibbia). Il v.15 (“Dio prese l’uomo e lo pose…”) è il prologo storico, i vv.16-17a (comando positivo e negativo) esprimono le clausole dell’Alleanza, il v.17b (“…moriresti”) le (benedizioni e le) maledizioni. Un comando dettato nel contesto dell’Alleanza perde il suo aspetto di eventuale ingiunzione arbitraria: lo si vedrà meglio a proposito del Decalogo in Es 20. Ma rifletteremo sul tema dell’alleanza come sottofondo di Gen 1-11 un po’ più avanti

I vv.18-23 rappresentano la sezione più vivace del racconto: è una relazione di grande

plasticità e movimento ed insieme di profonda ricchezza teologica. Il loro dinamismo

interno mostra che la creazione della donna ne è l’obbiettivo letterario e teologico.

In 1,27 (P) l’autore aveva detto: “maschio e femmina li creò”. Non solo l’essere singolo rispecchia l’imma-gine di Dio, ma anche la coppia: l’uomo e la donna insieme rappresentano l’immagine più vera di Dio, quella dell’amore e della gratuità della donazione. Le medesime verità stanno a cuore allo J che, però, le espone a modo suo, cioè con un senso drammatico molto spiccato. Abbiamo infatti una tesi: “Non è bene che l’uomo sia solo” (v.18): Dio è preoccupato per la solitudine dell’uomo, ed escogita tentativi per risolvere il problema. La creazione degli animali (vv.19-20) ha questa finalità: è l’antitesi, che però si rivela insufficiente, ma che crea attesa e interesse, dando forte rilievo alla seconda antitesi (creazione della donna: vv.21-22), quella valida. L’antropomorfismo guida sempre il racconto. Nel v.24 si opera la sintesi. Questa gradualità nel cercare la soluzione ha pure l’intento di valorizzare al massimo il risultato finale: la donna non è solo l’aiuto adeguato per l’uomo, ma anche il massimo che Dio poteva escogitare, l’anello ultimo che gli mancava per completare lo stupendo capolavoro della creazione. Anche la redazione sembra confermare ciò. Infatti va ricordato che i vv.18-25 sembrano un’aggiunta, anche se antichissima: in 3,2 la donna conosce la proibizione di mangiare

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dell’albero, ma in 2,16-17 essa ancora non era stata creata! Facilmente, dunque, il racconto primitivo quando parla dell’uomo posto nell’Eden pensa alla coppia: solo in un secondo tempo il redattore J può aver pensato di valorizzare la donna con un racconto specifico della sua creazione. Questo è un piccolo indizio sì del graduale formarsi delle tradizioni, ma soprattutto dell’assoluta priorità della donna rispetto ad ogni altra creatura: tale riconoscimento non è poca cosa in una cultura che non dava il giusto rilievo alla donna, vista soprattutto come sottomessa ai voleri e ai capricci dell’uomo-padrone (indizio di un certo livellamento lo avremo nella formulazione del X comandamento in Es 20,17, come si vedrà).

Per la prima volta l’espressione “Dio disse” seguita da “tob” (anche se al negativo)

(v.18a), che era usuale nel c.1. L’uomo per esistere davvero deve “ex-esistere”, porsi fuori

di sé ed entrare in relazione con l’altro (individualismo e isolamento sono “contro natura”),

e allora gli è necessario “un aiuto degno di lui” (v.18b). Questa la resa della nuova

traduzione CEI dell’originale ebraico “ke-neg-dô” (= come-di fronte a-lui). Traduzioni come “un aiuto adatto a lui” o “un aiuto come il suo di fronte” o “un aiuto che gli stia davanti” sono state proposte. Quest’ultima resa sembra rispecchiare meglio l’originale: sottolinea infatti non tanto la somiglianza (“simile”) o la complementarietà (“aiuto”) quanto invece l’alterità e la reciprocità, un “tu” che sta di fronte e col quale si entra in dialogo.

I rabbini traducono addirittura: “un aiuto contro di lui”. E’ opportuno tener presente

questa resa, poiché il rapporto uomo-donna, anche prima del peccato, va visto come

positivamente conflittuale. La donna non è concepita come il partner docile e succube: essa

è un’alterità pensante e indipendente. L’armonia non consiste nella uniformità, bensì nel

confronto e nell’accettazione delle differenze; uomo e donna stanno l’uno di fronte all’altra

nella loro individualità che comporta conflitto e sofferenza per il fatto stesso che essi sono

diversi. L’ideale è l’accettazione reciproca, non la paura e il conseguente tentativo di

dominio dell’uno sull’altra e viceversa. Aiuto, dunque, che stimoli a diventare “più uomo”

integrando armoniosamente l’alterità e non dominando soltanto. Questo dominio l’uomo lo

potrà esercitare sugli animali, non sulla donna! Se l’animalità che è nell’uomo non lo mette

in relazione con gli animali, vuol dire che essa non lo costituisce pienamente uomo: verità

troppo importante di fronte alle frequenti prevaricazioni della parte “animalesca” dell’uomo

dopo il peccato.

I vv.19-20 esprimono la posizione della Bibbia sugli animali. a) Essi sono inferiori all'uomo: sono creati dal “suolo” (l’uomo, invece dalla “polvere del suolo”: v.7a, qualcosa di più fine e nobi le), senza che si menzioni l’ ”alito di vita” (v.7b). Creati, sono condotti all’uomo perché egli imponga loro il nome (dare nome a qualcuno significa prender potere su di lui, come fu ricordato). L’attenzione non riposa sugli animali, essi sono posti subito in relazione con l’uomo: chiara è, dunque, la loro funzione di “servizio”. Imponendo il nome agli animali l’uomo comincia a ordinare il creato, a conoscere questo mondo apparentemente a lui simile, ma anche a capirne l’intima diversità. b) Essi hanno una loro specifica dignità: non sono un “aiuto simile a lui”, ma sono pur sempre un aiuto... L’uomo in mezzo a loro è re del creato: sono essi che gli permettono questa posizione di privi legio e di sapiente superiorità (il Sal 8,6-9 li menziona per celebrare questa regalità). La solitudine dell’uomo non è soltanto sessuale: si parla di “’adam”, non di “zakar” (= maschio) che è solo. Lo stesso avvicendarsi degli animali davanti a lui lo sottolinea. Secondo i rabbini, gli animali che sfilano si accoppiano davanti all’uomo, ma questo non lo soddisfa, e ciò sottolinea che non è della semplice soddisfazione sessuale (o meglio genitale) che soffre l’uomo, bensì di una relazione che includa anche una comunione più alta e realizzante. L’unione degli animali, non sufficiente per l’uomo, gli ricorda che la sessualità umana non si può esaurire nella dimensione genitale: l’unione uomo-donna è molto di più che l’unione maschio-femmina! Essa è in vista della comunione profonda. Anche qui c’è un rifiuto dei miti orientali (cf Enkidu), dove la comunione dell’uomo con l’animale è un ideale, mentre la presenza della donna è vista come una seduzione. Per la Bibbia vale il contrario: gli animali sono solo un aiuto esterno; la vera comunione vige soltanto tra uomo e donna.

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Col v.21 Dio imbocca la strada giusta, si direbbe. Dio fa scendere sull’uomo un sonno

particolarmente profondo che impedisce di rendersi conto di quanto succede ( tardemah: cf

15,12; Gdc,4,21;1Sam 26,12), lo fa entrare come in anestesia e gli estrae una parte vitale

(questo indica la “costola”, organo che sta vicino al cuore), con la quale egli forma la

donna: quindi la donna ha la stessa natura e dignità dell’uomo. L’uomo non ha visto nulla,

non sa spiegarsi la provenienza del grande dono fattogli e se l’immagina in un modo

poetico.

La misteriosità della provenienza della donna (lui è nel frattempo addormentato) segnala che questa è dono assoluto di Dio, ed essa, per lui, conserva un che di misterioso che gli sfuggirà sempre ma che l’attirerà sempre: egli la potrà conoscere veramente solo “in Dio” (e viceversa). Valgono le medesime riflessioni fatte sopra a proposito di gen 1,26-27 (p.20), infatti i messaggi convergono pur nella diversità delle tradizioni.

“Poi la condusse all’uomo” (v.22b): non è solo l’istinto che congiunge i due, ma ancora e

sempre l’uno è dono per l’altro. Ed ora lui ha una reazione ben diversa da quella di fronte

agli animali (cf v.20b): difatti l’impossibilità di trovare in essi un “aiuto degno di lui” può

averlo deluso (“non fu trovato un aiuto che fosse degno di lui”: v.20b) e quindi acuito in lui

il desiderio e pertanto egli prorompe quasi un riconoscimento immediato e spontaneo

dell’essere che ha di fronte e quindi parla perché ha di fronte a sé l’altra; egli si esalta

davanti alla donna e nell’ardore della contemplazione la canta come “aiuto degno di lui”

con le movenze di un canto nuziale: “carne della mia carne e osso delle mie ossa” (v.23).

L’uomo, con di fronte la donna, è giunto al massimo della capacità di comunione, che viene

espressa dalla sua ammirazione per il dono fatto da Dio (tre volte il pronome “questa” nel

v.23): le prime parole l’uomo le pronuncia di fronte alla donna. Il racconto popolare, di

mirabile freschezza (lo si paragoni con Gen 1,27!), si è formato facilmente a causa

dell’assonanza dei termini ebraici “‘iš” (uomo) e “’iššàh” (donna), che la Volgata rende con

“vir - virago” (in italiano dovrebbe rendersi uomo-“uoma”!): come un nome deriva

dall’altro, così la donna scaturisce dall’uomo e gode di pari dignità. Di fronte agli animali

l’uomo si è comportato da padrone, dando loro il nome: di fronte alla donna invece le

riconosce il suo stesso nome, in segno di stretta somiglianza ed armonia. La coppia

‘adam-‘adamah si dissolve ormai a favore della coppia ‘iš-‘iššah.

In realtà, come capita sempre per i nomi biblici, la spiegazione scientifica parla di due radici diverse: “’ iš” significa “legarsi a qualcuno”, “’iššah” significa “essere debole”.

La sublime ingenuità del racconto è portatrice di verità rivoluzionarie Si faccia caso come esso sorga in un ambiente e in un tempo (verso il sec. X a.C.) in cui la donna non aveva alcuna dignità, era asservita al pari degli schiavi, senza valore di sorta. Per l’autore sacro, invece, essa è della stessa natura dell’uomo (è tratta da lui, non dalla terra), ha la sua identica dignità, vive della sua stessa vita, è creatura umana intelligente e libera, amata da Dio come lui, destinata a stargli di fronte non come un oggetto, ma come soggetto capace di relazione interpersonale, di comunione. Certamente, questa non è la sola considerazione che la Bibbia palesa nei riguardi della donna: avremo, infatti, tante pagine che la ricacciano nell’ambito culturale ancora arretrato del tempo. Ma che l’agiografo abbia posto proprio all’inizio questa

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intuizione straordinaria, è chiaro segno che Israele, pur partecipe delle imperfezioni degli altri popoli, ha però come un punto irrinunciabile l’originaria volontà di Dio riguardo alla dignità dell’uomo come maschio e femmina. Per questo il racconto si chiude logicamente con la visione dei due che diventano “una sola carne” (v.24). E che questo sia il progetto di Dio sull’uomo e la sua sessualità lo conferma la piena armonia di coppia che i due vivono: “ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna” (v.25). Gesù nel vangelo (cf Mc 10,1-10) riconferma quest’ordine primitivo, che Ef 5,32 designa come “mistero”.

I vv.24-25 costituiscono una riflessione dell’agiografo, che tira le conseguenze

dall’operato divino (una voce fuori campo). All’uomo il compito di operare uno strappo con

l’ambiente (abbandonare padre e madre) per formare una “sola carne” con la donna.

Soltanto questa capacità di rottura con i legami primordiali costituirà l’uomo capace di

matrimonio.

Ogni connotazione sessuale negativa è qui esclusa. L’attività sessuale è implicita nel verbo “unirsi” (dabaq: cf anche Gen 34,3): soltanto che essa è vissuta serenamente, secondo il piano del creatore. Ma il verbo va anche oltre il semplice rapporto sessuale (in Dt 4,4;10,20 designa la fedeltà nel rapporto del popolo con Dio): è quella unità uomo-donna, più forte dell’unione genitori-figli, che permette la piena realizzazione dell’uomo. Uomo – donna sono una “sola carne”: basar sottolinea la materialità dell’uomo, ma non esclusivamente. Il termine di rado si traduce con “corpo”: carne sta per l’uomo nella sua interezza, sebbene predomini l’aspetto della corporeità. Il v.24, pertanto non intende soltanto una unione sessuale, bensì una totalità psico-fisica del legame maschio-femmina verso un unico essere umano.

La nudità contemplata nel v.25 e l’assenza di vergogna non costituiscono un dato folkloristico o imbarazzante. La nudità, nella concezione biblica, dice limitatezza e povertà creaturale; la serena accettazione del limite dissipa ogni senso di vergogna nei progenitori: essi ne capiscono infatti il senso e la portata e lo vivono positivamente nel sereno rapporto di coppia, dove la sessualità è parte essenziale ma non esaustiva. Tutto è trasparente e limpido, non esiste vergogna nell’esercizio di un’autentica e completa relazione di coppia, secondo il piano originario di Dio! Non v’è dubbio che i poemetti d’amore del Cantico dei cantici siano fioriti dalla contemplazione di questo quadro paradisiaco.

E’ con questo sguardo “nostalgico” sul capolavoro divino di una umanità pienamente

realizzata che si chiude un racconto tutto concentrato sull’uomo.

Alcune conclusioni su Gen 1-2.

1) Le verità principali del secondo racconto di creazione sembrano le seguenti:

a) Dio è creatore, ma più accessibile all’uomo: la sua attività si concentra sul suolo da

preparare per l’uomo ed interviene con gesti familiari ed antropomorfici (agricoltore,

vasaio);

b) l’uomo è al centro del creato: tutto è creato per lui (suolo, fiumi, alberi... animali,

donna), ma è anche essere in relazione (con la terra, con Dio, con le creature). “Uomo” in

generale (= umanità), l’essere che, letteralmente, “ha il colore ocra”, cioè il rosso della terra

argillosa. Questo senso di ‘ādām è fondamentale per l’interpretazione di Gen 1-11.

c) la donna si distacca da ogni altro “aiuto” per stare di fronte all’uomo in pari dignità;

d) Uomo e donna sono fatti per un mistero d’amore unificante (“una sola carne”).

e) La creazione della coppia umana conferisce il tocco culminante al capolavoro della

creazione: l’amore tra uomo e donna è la cosa più bella del mondo (il racconto di Gen 2

dimostra che Dio vi ha dovuto concentrare tutto il suo genio creatore!); esso è la bella

notizia che dona alla creazione una inarrivabile nota di lucentezza. Ci si sarebbe potuto

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attendere un esordio più bello della Bibbia?!

2) Un tema che appena accenniamo, ma molto interessante, è quello del potere di Dio

sulla creazione e del potere che Dio concede all’uomo. Non è uno “strapotere” quello che

Dio dispiega nella creazione: in essa invece egli mostra una particolare discrezione e

mitezza.

La sua è un’opera di separazione e di abbellimento; egli non distrugge nessun elemento, nemmeno quello negativo, bensì colloca ogni cosa al suo posto. La ruah, vento fortissimo, è nelle sue mani elemento di vita. Il suo stesso fermarsi dopo ogni opera a contemplarne la bellezza dice molto circa il suo potere discreto; come anche il riposo del sabato con il quale “umanizza” la sua potenza. Lo stesso potere mite e discreto Dio richiede all’uomo quando gli dà come cibo l’erba del campo (1,29); l’armonia fra uomo e natura si manifesta inoltre nella “custodia” del giardino che l’uomo adempie fedelmente e nel frutto che esso gli appresta. Anche il limite che Dio segnala all’uomo in 2,16-17 lo salva dalla concupiscenza del tutto, dal potere sfrenato che lo porterebbe alla morte.

Molti gli indizi in Gen 1-2 che dimostrano come Dio sia preoccupato di un dominio sulla

creazione discreto e mite. Egli stesso esercita sì il potere creatore che gli è proprio, ma non

lo fa pesare: altrettanto chiede all’uomo. Costui deve rispettare ciò che lo circonda come

garanzia della pienezza della sua vita. Un messaggio, questo, molto adatto come

fondamento di una visione ecologica autentica.

3) Ritorniamo sulla complementarietà dei due racconti accennata all’inizio: il primo

spazia nell’universo fino a giungere all’uomo; il secondo si concentra sull’uomo che viene

circondato progressivamente di tutti i beni. Il primo ha i caratteri di una teologia esplicita e

diretta, il secondo raggiunge la stessa efficacia teologica attraverso il racconto vivace e

venato di numerosi motivi sapienziali (il giardino di Eden, l’albero della vita, l’albero della

conoscenza del bene e del male...). Si parla di “complementarietà” a ragion veduta. Bisogna

infatti rifuggire da ogni “concordismo” (tentativo di far quadrare tutto logicamente!), ma è

giusto ricercare le convergenze. Su un tema capitale, come la creazione, si impegnano due

correnti di pensiero che, pur con le loro diversità di concezione e di ispirazione, si ritrovano

nel dare le risposte positive fondamentali e nell’intessere un inno alla bontà infinita del

Creatore.

4) Ci soffermiamo infine sul tema creazione-alleanza, già accennato come presente in

2,16-17; in realtà però esso coinvolge tutto il complesso di Gen 2,4b-3,24 e lo si incontrerà

anche in Gen 9. Si evidenziano in questi capitoli degli elementi che saranno centrali nella

presentazione della vicenda storica del popolo di Dio sotto forma di alleanza.

La struttura dell’alleanza la illustreremo più tardi: è sufficiente qui accennare ai dati che la fanno tenere presente. Innanzitutto il luogo desertico nel quale l’uomo viene plasmato (2,4b-7) richiama l’analogo luogo in cui Israele fu formato come popolo (Dt 32,10). Il deserto è terra di nessuno: Dio vi opera gratuitamente senza pretendere contropartita. Dopo aver plasmato l’uomo, Dio lo introduce nel giardino dove c’è il dono di frutti e di acqua abbondante, proprio come è stato per Israele entrato nel “paese fertile” descritto in Dt 8,7-10. All’uomo Dio dona un duplice comandamento: godere di tutti gli alberi dell’Eden, ma astenersi dall’albero della conoscenza del bene e del male (ne abbiamo visto la portata): anche Israele riceve un comandamento inteso come condizione della sua realizzazione come partner di Dio (Dt 30,15-16;Gs 23,6). Sia l’uomo

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nell’Eden che Israele sulla terra non terranno fede all’alleanza, e allora l’uno è espulso dal giardino (Gen 3,24) e l’altro è cacciato in esilio a Babilonia. Ma la punizione non è l’ultima parola: il Dio fedele, oltre che impegnarsi in una solenne promessa (3,15), viene in soccorso ai progenitori rivestendoli di “tuniche di pelli” (3,21) e concedendo loro di generare vita (3,20); analogamente Israele sarà tratto dall’esilio e conoscerà nuova vitalità sulla sua terra.

Questi parallelismi sembrano consistenti, tanto che possiamo pensare ad

un’organizzazione della storia delle origini sulla falsariga della storia d’Israele. E questo

risulta più che plausibile, quando sappiamo che Gen 1-11 rappresenta un complesso

formatosi posteriormente rispetto alla grande storia del popolo di Dio: questa l’autore

biblico ha davanti e gli riesce naturale proiettarla sulle origini dell’umanità, conferendo

valore universale all’esperienza particolare del suo popolo.

2. LA POTENZA DEL PECCATO. L'UMANITA' PRIMITIVA (cc. 3 - 11)

Struttura dei capitoli: Gen c. 3: il peccato dell’uomo; Gen c. 4-11: serie di piccoli quadri il cui scopo è quello di documentare il progressivo

e rapido dilagare del male nel mondo.

Al quadro positivo (il progetto di Dio) segue il quadro negativo della risposta errata

dell’uomo. Questa struttura va fortemente sottolineata perché ha implicazioni teologiche

fortissime.

L’autore sacro ha una fede magnifica, ma non è uno sprovveduto: vive nella

complessità della vicenda umana e tenta di leggerla alla luce di Dio, cioè dall’unico punto di

vista possibile. La prima affermazione che egli fa, è frutto del suo ottimismo di credente:

tutto quanto esiste è stato creato da Dio ed è intrinsecamente buono (ecco il motivo dei

cc.1-2 di Gen). Ma la realtà che lo circonda, con tutte le sue negatività, sembra smentirlo in

maniera lampante. L’autore della trad. J è l’uomo del “perché?”: da dove, allora, la malattia,

la morte, il lavoro duro, l’odio, la guerra...? Tutto ciò non rientrava nel progetto originario

di Dio! Se queste realtà tragiche spadroneggiano nel mondo, ciò accade ad opera di

qualcun altro, di Satana!

E’ una “chiave di lettura” da non giudicarsi come una scappatoia o un’ingenuità, bensì come la risultante di un limpido senso di Dio. Dio non può essere che causa prima di ogni bene: un legame di causa ed effetto fra Dio e il male distruggerebbe il concetto stesso di Dio, che è tale proprio perché è il Bene personificato, l’Amore sussistente. Tale fede primordiale induce l’autore sacro a distogliere gli occhi da Dio, per quanto riguarda il male, e a guardarsi attorno: è l'uomo stesso, causa del suo soffrire! Ci deve essere stato un momento in cui s’è rotto il meraviglioso equilibrio del creato: non potendo essere ascritta a Dio tale rottura, essa ricade inevitabilmente sull’uomo. Questa intuizione di fede costituisce una svolta e uno stacco nettissimo da tutte le mitologie mesopotamiche, inficiate di panteismo e di pessimismo cosmico.

L’autore sacro è confortato dall’ “immagine e somiglianza” di cui l’uomo fu dotato da Dio. Ciò comporta la LIBERTA’. Dio aveva preparato tutti i doni del creato per l’uomo: ma era naturale che egli li accettasse liberamente, non che se li vedesse imporre! C’è stata la prova, cioè il momento in cui Dio (diciamo

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così per semplificare) ha detto all’uomo: Questi sono i doni che ho preparato per te. Vuoi accettarli? L’uomo ha risposto di no!

A proposito di Gen 3, si prova forse con più efficacia la “storicità” di tutto il complesso: la scena ivi descritta ha consistenza storica non perché se ne possa misurare la veridicità fattuale, ma perché immagina una situazione, non afferrabile storicamente, che deve essersi verificata in qualche maniera nella misura in cui si vuol dare una spiegazione all’attuale (per l’autore) evoluzione dell’umanità. Ci deve essere stato un momento nel quale l’umanità (ha adam) è stata chiamata a decidere sui doni di Dio e questi doni, per istigazione di Satana, essa ha rifiutato: l’agiografo riveste questo momento con le categorie letterarie di un avvincente racconto di “tentazione”. Questo è il “peso storico” specifico di Gen 3. Che tale situazione di crisi primordiale si sia verificata nel modo descritto, ciò va attribuito, quindi, alla scelta personale dell’autore sacro che qualche modello di rappresentazione adatto ai suoi destinatari doveva pur escogitare. Con terminologia tecnica, si distingue tra “historie” (fatto storico in senso stretto, un fatto raggiungibile attraverso documentazione letteraria) e “geschichte” (fatto storico in quanto strettamente relazionato alla realtà attuale; fatto realmente accaduto, ma non raggiungibile con i mezzi letterari, bensì solo attraverso la meditazione e la riflessione). Logicamente, Gen 3 appartiene alla “geschichte”.

2.1. Il racconto del paradiso (Gen, c. 3)

La problematica, sopra accennata in termini elementari, soggiace dunque allo splendido

brano del c.3, frutto tipico della trad. J.

Struttura: vv.1-7: tentazione e caduta; vv.8-13: istruttoria e processo; vv.14-19:

condanna; vv.20-24: disposizioni varie.

Ma prima di procedere all’analisi è necessario richiamare l’unità costitutiva di Gen 2-3. Il progetto di grazia precede la devastazione del peccato e questa non distrugge quello: siamo in contesto di alleanza, ed essa è ordinata al prevalere della misericordia e della fedeltà di Dio. Queste pagine, inoltre, sono frutto di una riflessione sapienziale, cioè uno sforzo per capire il senso dell’uomo e della vita: non è quindi il caso di fermarsi su fatti e personaggi (“Adamo ed Eva”!). Riflessione che, pur molto antica nel suo nucleo, è stata ripresa e redatta durante l’esilio babilonese: ora sappiamo che l’orizzonte teologico dell’esilio non è principalmente quello del castigo, bensì quello della speranza nella misericordia divina e della ripresa della storia. Con questo si vuol dire che è necessario affrontare il c.3 di Genesi e tutto quanto ne segue con la giusta disposizione: il punto di vista ermeneutico è soltanto quello della positività della Grazia. Abbiamo già accennato che la storia delle origini è ricalcata su quella delle origini d’Israele. Questa tesi ha un risconto nella teologia di Gen cc.2-3, la quale, secondo N.Lohfink; rispecchia integralmente la storia

religiosa e di fede dell'antico Israele. Infatti, questo esegeta crea un parallelismo tra quanto è avvenuto nel

Paradiso Terrestre e la storia di Israele: 1) Israele è eletto a popolo di Dio in terra straniera e di schiavitù;    Adamo è creato fuori dal “Giardino” in terra incolta e disabitata.2) Israele, dall’Egitto, è condotto da Dio nella Terra “dove scorre latte e miele”;    Adamo viene posto da Jhwh nel “Giardino”.3) Jhwh dà il decalogo a Israele quale segno della sua alleanza con lui;    Jhwh dà ad Adamo un comandamento.4) Se Israele osserverà i comandamenti vivrà e avrà prosperità e pace;    Se Adamo osserverà il comandamento potrà rimanere nel Giardino in cui c’è l’albero della vita.5) Se Israele violerà i comandamenti riceverà il castigo: disgrazie, esilio e rovina;    Se Adamo violerà il comando di Dio "morirà di morte" e dovrà andare in esilio.

Andando direttamente al testo, constatiamo che la vivacità e la finezza psicologica

fanno dei vv.1-7 del c.3 un vero capolavoro narrativo: due gli attori, il serpente e la donna,

l’uno “astuto”, l’altra candida, indifesa e sottilmente insoddisfatta. La scelta del serpente

come personificazione di Satana è motivata da molteplici legami con l’ambiente.

Questo animale godeva di culto assai esteso fra i popoli medio-orientali ed era un segno ambiguo: l’astuto (‘arum: 3,1) di fronte all’uomo indifeso (‘arummim: 2,25). Con abilità l’autore ha concluso il secondo

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racconto della creazione con questa annotazione che funge sia da elemento di transizione che da gancio con il pannello tematico seguente. Lì dove si è toccato il vertice della creazione (nudità come espressione di povertà vissuta armoniosamente e gioiosamente) lì Satana colpisce: veramente misterioso è l’agire di Dio!

Nei miti orientali il serpente ha funzione positiva: è il custode della casa degli dèi; in Egitto esso è simbolo del potere del Faraone: potrebbe vedersi nella sua scelta da parte dell’agiografo una critica alla sapienza coltivata a Gerusalemme, troppo dipendente da quella egiziana. Dunque il serpente rappresenta l’insidia strisciante. Ma, a livello popolare, esso è anche il genio benefico e fecondo che attrae misteriosamente e gli si rende culto: esso è entrato anche in Israele (Ezechia distrugge l’idolo a forma di serpente durante la sua riforma: cf 2Re 18,4) Si può pensare che l’agiografo l’abbia scelto come strumento del male in vista di una sua radicale demitizzazione: quello che era venerato come dio propizio e fecondo è, in realtà, la causa di tutti i mali! Per la mentalità semplice degli ebrei ciò doveva costituire un forte deterrente. Più recentemente la simbologia del serpente è considerata come resa della coscienza oscura dell’uomo; infatti il porre domande e suscitare problemi (questo solo fa il serpente in Gen 3) è proprio dell’uomo. Il serpente è l’animale più intelligente, ma è anche colui che striscia nella polvere (3,14). Tali sono le condizioni dell’uomo, creatura intelligente, ma fatta di polvere e destinata a ritornare polvere (3,19). Quindi il serpente può far pensare al lato oscuro dell’uomo portato a ribellarsi a Dio invece di lodarlo.

Tutti questi possibili significati debbono indurre a prendere sul serio il simbolo del serpente: non è un semplice animale parlante come nelle favole! E’ la somma di molteplici realtà non semplicemente negative che Dio utilizza per esercitare la libertà dell’uomo in vista di una sua maturazione psicologica, morale e religiosa.

Si noti che in Gen 3 non si parla mai del diavolo: il serpente non è pensato come il demonio e men che meno come un anti-dio. E’ semplicemente una creatura (3,1). Tuttavia l’identificazione tra serpente e diavolo è antica: Sap 2,24 parla, alludendo chiaramente a Gen 3, della morte entrata nel mondo a causa dell’invidia del diavolo (diàbolos = divisore). Nel NT questo accostamento è ancor più esplicito (cf Ap 12,9;20,2). La piena identificazione avviene in epoca postesilica nella tradizione sia giudaica (Apocalisse di Mosè) che cristiana (Giustino, Dialogo con Trifone,124)

La tentazione si snoda insinuante e lieve; i vv.1-7 sono un saggio di grande arte

narrativa, come accennato, “un autentico capolavoro di psicologia” (J.Skinner). Satana

(perché, alla fin fine, è lui che muove all’attacco!) compare improvvisamente: è una “bestia

del campo”, quindi non una divinità. Pertanto, subito all’inizio, è affermata l’infinita

distanza tra Dio e Satana. Lo distingue, però, l’astuzia, l’arma che egli usa contro la coppia

“nuda”, cioè semplice.

Da dove deriva Satana? Chi lo ha posto nel giardino? Questo non viene spiegato: il Male c’è e basta! Le successive spiegazioni rabbiniche e cristiane poggiate su Gen 6,4 e Is 14,12-15 che parlano di angeli decaduti sono speculazioni teologico-filosofiche estranee alla Bibbia: per essa il Male è reale, ma la sua origine è un enigma. L’umanità è investita dal male, lo sperimenta continuamente a livello di singolo e di comunità, ma di più non sa. Sembra addirittura una presenza quasi naturale, seppur enigmatica e scandalosa: la presenza lì, nel giardino, di Satana non desta sorpresa e la donna gli parla come si parla con una vecchia conoscenza!

Satana è l’antiparola di fronte alla Parola di Dio, poiché esordisce distorcendo subito

l’ordine di Dio. Questo si ripeterà nella tentazione di Gesù nel deserto (cf Mt 45,1-11; Lc

4,1-13; per Mc 1,12-13 Gesù è il nuovo Adamo vincitore della tentazione), quando il

tentatore userà subdolamente la Scrittura. Egli esordisce con un evidente menzogna: non

dovete mangiare di nessun albero (cf 2,16-17, dove è affermato l’esatto contrario!)? Dio

(Satana parla solo di “Dio”, non del “Signore Dio”, quasi a sminuirlo!) ha dato tutto

all’uomo e gli ha “sottratto” (verbo positivo!) una sola cosa: Satana fa leva su quest’unica

cosa per sfigurare il volto di Dio. Abbiamo accennato che la donna non c’era ancora quando

Dio diede la proibizione di 2,17: essa quindi non l’ha ricevuta direttamente da lui, ma dal

suo uomo, cioè dalla tradizione, e quindi l’ha circondata di sospetto. Infatti la donna, 33

Page 33: Genesi

volendo correggere quest’affermazione di Satana (primo segno di cedimento!), esagera

anch’essa: aggiunge al divieto di Dio il “non toccare per paura di morire” (cf invece 2,17), e

questo è indizio di malcelata insoddisfazione e di frustrazione. Significa che il comando di

Dio è visto sotto la prospettiva della paura della morte, non come naturale conseguenza

della creaturalità umana; ma la paura non aiuta a comprendere bene e alla prima occasione il

disagio e il dispetto emergono. Il contatto, dunque, è già stabilito, e Satana, da sornione

interlocutore, diviene adesso categorico (v.4): mediante il motivo dell’ “invidia”, egli

riprende le parole di Dio in 2,17 e le rovescia completamente (quasi gridando, potremmo

immaginare) e così ottiene il risultato di ingenerare il sospetto e il dispetto nella mente

ormai ben disposta della donna.

La gelosia e l’invidia sono tipici degli dei dell’Olimpo greco (cf il mito di Prometeo); però queste componenti sono presenti in ogni mitologia, comprese quelle orientali. Si intuisce agevolmente l’abisso che separa le due concezioni, quella biblica (Dio, Padre buono, amico e compassionevole) e quella pagana (dèi meschini, invidiosi e gretti, tutti intenti a preservare i loro privilegi dall’intraprendenza degli uomini).

Satana annuncia una triplice conquista (non morire – essere come Dio – apertura degli occhi) come sconfitta di questa supposta invidia di Dio: egli mina alla base lo stupendo rapporto Dio-uomo progettato da Dio con amore e pazienza infinite!

Posta la premessa (il dubbio sulla bontà di Dio), la creatura vede le cose in modo

opposto: quanto è intrinsecamente male gli sembra buono: scompaiono tutti gli alberi del

giardino e davanti ad essa rimane soltanto l’albero della conoscenza del bene e del male. La

donna, suggestionata, fa una mortale confusione, e così scoppia il dramma (v.6). Tutti i

sensi vi sono implicati; prima fortemente motivati dalla nuova prospettiva (6a), poi decisi

nell’azione (6b). L’analisi di questo versetto vuol sottolineare la determinazione con cui la

coppia primitiva viola il precetto divino: è una trasgressione preparata (da altri, Satana),

voluta e consumata con piena responsabilità: l'uomo ha fatto veramente la sua scelta! “La donna vide”: non è più uno sguardo limpido, bensì intorbidito da una triplice concupiscenza che

l’avvolge come in una spirale sempre più sottile: concupiscenza dei sensi (frutto appetibile), concupiscenza estetica (gradito agli occhi), concupiscenza intellettuale (desiderabile per acquistare saggezza).

La scelta della donna come primo anello di colpa è stata determinata facilmente dal motivo della donna straniera e seduttrice della letteratura sapienziale già presente nella prima attività sapienziale al tempo di Salomone (si pensi alle donne straniere che hanno traviato questo re secondo 1Re 11,3-4)

L’essenza della colpa è il tentativo di “diventare come Dio”, arbitro del bene e del

male, e di non accettare il proprio stato di “creaturalità”, cioè il limite intrinseco alla natura

umana. Questa ribellione primordiale, dalle profondità insondabili (poiché comporta il

rifiuto netto di Dio e del suo progetto sul creato), è formulata nella familiare modalità del

“frutto” da mangiare. Un altro esempio classico di interpretazione: un dato di fede capitale

formulato mediante un gesto semplice ed immediato.

Ma che cosa hanno mangiato i progenitori? Il “frutto” (perî, in ebraico), senza specificazione. La tradizione ebraica si è sbizzarrita nel tentativo di precisarne il genere. Prevale la preferenza per il melo, frutto bello, buono e attraente. E’ incerto se la tradizione cristiana abbia attinto da quella ebraica. Si ricordi il gioco di parole latine fra malus (melo) e malum (male) e l’importanza del melo nel Cantico dei cantici, dove esso è la pianta dell’amore (cf Ct 2,3.5;7,9;8,5): sotto il melo si compie l’unione sessuale. Forse Ct 8,5 allude

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polemicamente proprio a Gen 3: nel Cantico il mangiare il frutto non conduce alla morte, ma a superare la morte stessa attraverso l’amore (cf Ct 8,6-7).

L'effetto del gesto del mangiare (v.7) è drammaticamente inatteso: l'opposto di quanto si

intendeva raggiungere! E’ acquisita, sì, una “conoscenza” ma quella della propria miseria

creaturale (nudità come abisso di distanza da Dio) e della rottura dell’equilibrio di coppia

(nudità come vergogna soltanto dopo il peccato).

La “vergogna” designa l’effetto del peccato. L’uomo non muore, come aveva previsto 2,17, ma la vergogna dice una specie di morte, cioè l’incapacità di vivere l’armonia originaria (non è in primo luogo una vergogna sessuale): non si è più capaci di relazione e di accoglienza reciproca (il senso dell’intrecciare delle cinture) e di rapporto familiare con Dio (per questo ci si nasconde). Il goffo gesto di intrecciare foglie di fico e farsene una cintura (cf v.7b) è il tentativo di nascondersi l’un l’altro e di ricostruirsi una nuova dignità “mascherandosi”. Qualche ulteriore riflessione si può fare mettendo in relazione Gen 3,7 con Gen 2,25. La nascita del vestito segna uno spartiacque tra il tempo dell’innocenza (2,25) e il tempo del peccato e della vergogna (3,7). I vestiti sono inutili quando si è innocenti; il peccato in quanto rifiuto della creaturalità genera la vergogna di essere nudi e quindi il bisogno di vestirsi. Il nudo è vissuto dai progenitori in modo differente a seconda della relazione con il Creatore: non è il nudo in sé a creare problema, bensì gli occhi con cui lo si guarda. Il vestirsi ha un’intima natura relazionale: ci si veste di fronte a qualcuno che è estraneo. Adamo ed Eva cambiano la relazione con Jahvè (non più in comunione paradisiaca, bensì come estranei) ed è allora che si sentono nudi e si vergognano: la rottura della comunione fa sorgere il bisogno del vestito. Lo conferma l’esperienza umana: nell’atto di donarsi nel rapporto di coppia i coniugi non si vergognano della propria nudità a motivo del loro amore e comunione. Deve essere sottolineata la relazione di 2,25 con 3,7 e 3,21 dove Dio confeziona “tuniche di pelli”: tutta la vicenda drammatica del peccato delle origini è tematicamente inclusa dal passaggio dalla nudità ai vestiti di pelli come rimedio alla vergogna che l’uomo prova nei confronti della propria nudità a causa della disobbedienza.

Istruttoria e processo (vv.8-13) si susseguono con altrettanta vivacità. All’ingresso di

Dio e alla sua domanda “Dove sei?” (v.9, al centro del c.3), l’uomo peccatore recede; per lui

Dio è ormai un nemico.

Il v.8 contiene molte verità. Dio “passeggiava nel giardino alla brezza del giorno”: egli sta a casa sua, l’uomo ne è amministratore. L’atto di nascondersi dell’uomo all’approssimarsi di Dio è un fatto nuovo, un comportamento ispirato dalla coscienza sporca. Logico è presupporre che precedentemente l’uomo non si nascondesse e che “passeggiasse con Dio”. Dio è immaginato come un gran signore orientale che se ne scende nei suoi possedimenti a svagarsi e a “prendere il fresco”, accompagnato dal suo amministratore, l’uomo. Qui si misura tutta la potenza della Trad. J: secondo essa c’era un’alleanza primordiale (ante litteram), alla quale l’uomo era chiamato: passeggiare con Dio, cioè vivere una vera comunione con lui, stando al suo lato! Abbiamo menzionato che lo schema di Alleanza soggiaceva già a 2,15-17, ma che è anche lo schema di fondo della “storia delle origini”. L’immagine di Dio e dell’uomo che passeggiano nel giardino prima del peccato è disarmante nella sua elementarità, ma potente per la forza espressiva: è un efficace esempio di “teologia narrativa” dell’autore sacro.

Dio esordisce con una domanda (“Dove sei?”: v.9) che lo rivela più come padre ansioso

che come padrone. Non che Dio non sappia dove la coppia si sia nascosta: la domanda è il

richiamo alla propria responsabilità, ed equivale a “che cosa hai fatto?”: il semplice fatto

che la coppia si sia nascosta è, per Dio, indizio lampante di un disastro. Alla contestazione

di Dio (v.11), l’uomo risponde sprezzantemente accusando addirittura Dio per il proprio

peccato: “la donna che tu mi hai posto accanto...” (v.12); Dio è il responsabile, poiché l’ha

messo in condizione di peccare! La donna segue la stessa linea di difesa (v.13). Quattro

volte è ripetuto il verbo “mangiare” nei vv.11-13: nel mangiare è simbolicamente racchiusa

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l’dea del preteso dominio e dell’arroganza umana: “mangiando” si vuole divenire “come

Dio”. E’ anche da sottolineare con cura l’ “impenitenza” dell’uomo che ormai considera

Dio come nemico: essa farà emergere la promessa di redenzione nel v.15 in tutta la sua

sconvolgente novità (Paolo commenterà: “quand’eravamo nemici…”: Rm 5,10). A questo

punto toccherebbe al serpente spiegare e discolparsi, ma questo non avviene: l’origine del

male rimane senza risposta, anche se la sua manifestazione è evidente.

La condanna (vv.l4-19) segue l’ordine inverso dell’istruttoria; il serpente è il primo

responsabile e riceve la prima maledizione della Bibbia (non l’uomo, ma Satana è

maledetto). Questa maledizione è emessa in relazione con gli altri animali (v.14) e con gli

uomini (v.15). Lo strisciare sinuoso e viscido del serpente è ambiguo: questo animale aderisce alla polvere come

nessun’altro, tanto che sembra “mangiare la polvere”: e questo è il gesto dei vinti, è la massima abiezione, la totale sterilità; però, nello stesso tempo, il serpente si muove nell’acqua, si attorciglia agli alberi assumendo una posizione verticale. Le sue possibilità, pertanto, ne fanno un animale ambiguo e pericoloso. La maledizione vuole rendere inoffensiva la potenzialità del serpente.

La maledizione del serpente comporta, rispetto agli uomini, la sconfitta definitiva di

Satana, enunciata con ogni evidenza nel cosiddetto “protoevangelo” del v.15.

È, senza dubbio il testo più celebre di Gen 1-11. Strutturalmente è disposto in tre stichi: 15a, serpente e donna come individui; 15bc le due discendenze (collettività); 15de, serpente e discendenza. Elementi principali: attori sono degli individui che poi divengono delle collettività. L’ ”inimicizia” è uno stato radicale di ostilità, come comporta il termine ebraico ‘êbāh (cf Nm 35,231-22;Ez 25,15;35,5) e si esplicita con i verbi “schiacciare” e “insidiare” che in ebraico possono avere una radice equivalente (shuf = schiacciare e sha’af = insidiare). I LXX scelgono la seconda per dire che entrambi (satana e uomo) si attentano senza fine. Rm 16,20 sceglie la prima radice (schiacciare) per annunciare la vittoria di Dio su Satana con la collaborazione del popolo santo (“sotto i vostri piedi”). La Volgata ha una via di mezzo: “schiacciare” per l’uomo e “insidiare” per il serpente. Ma è soprattutto il contesto della trad. J che conta. Il suo ottimismo mette in rilievo la vittoria: Satana “ha vinto” su Dio tramite l’uomo – tramite l’uomo Dio vince (anzi “stravince”! cf Rm 5,12ss) su Satana. Una vittoria chiarissima, ma a caro prezzo: l’insidia di Satana è aspra e incessante e assesta i suoi colpi! Il prototipo del combattente contro Satana è Cristo, il quale vince con la sua Risurrezione, ma conserva visibili (e gloriose) tutte le ferite della lotta. L’interpretazione messianica del testo, infatti, è molto antica (e per noi il Messia è Cristo): i LXX, traducendo “autòs” invece di “autò”, cioè il maschile invece del neutro, come logicamente avrebbe dovuto essere (infatti “spèrma/stirpe” è sost. neutro in greco), hanno chiaramente presente un individuo (il Messia), non la collettività: si avvia, così, molto presto il processo interpretativo messianico-cristologico, che dà la stupenda unità alla Bibbia nel segno del Messia. Le prime traduzioni latine (cosiddette Vetus latina) seguono i LXX (ipse, masch.), invece un passo ulteriore compie la traduzione della Volgata (che sostituisce le precedenti traduzioni latine), la quale introduce il femminile (ipsa), facendo così riferimento alla “donna”: per la Chiesa antica che adotta la traduzione latina della Vg è logico allargare l’orizzonte. Infatti, appoggiandosi ad Ap 12 che è una evidente rilettura midrashica di Gen 3,15 (cf LG, n.55), la “donna” circondata di astri rappresenta l’umanità vista nella sua originaria perfezione, oppure il popolo eletto dell’AT (la “sposa” dei profeti), ma anche la Madre di Dio o la chiesa stessa (Ap 21,9). Il “sensus plenior” che i Padri hanno sapientemente ricercato nell’AT, nel nostro passo sembra veramente risplendere, anche se è bene attenersi a quella saggia sobrietà che non guasta mai. Va ricordato, infine, che la “nova Vulgata” (1986), testo ufficiale della chiesa cattolica, cambia il pronome in “ipsum”, ritornando pertanto al tenore del TM: ne consegue qualche conseguenza per l’interpretazione? Non sembra: infatti la traduzione originaria della Vg costituiva la norma della fede della chiesa antica: la nuova traduzione dai testi originali risponde alle esigenze odierne e non intende sconfessare le scelte precedenti. Ma gli echi di Gen 3,15 sono sparsi nell’AT, essendo questo testo un condensato ermeneutico della storia salvifica in forte chiaroscuro, narrata senza reticenze in tutte le pagine bibliche. Un aggancio evidente lo si ha in Is 11,1-9 che parla del bambino, “germoglio” della stirpe di David, pieno dello Spirito di Dio, che si trastulla sulla buca di serpenti velenosi (i LXX hanno presente questo brano per introdurre il cambiamento accennato?).

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Il v. 15 è tipico di J per un duplice motivo; la sua nota di ottimismo (vittoria certissima

sul male) e l’impronta di realismo (lotta perpetua fra il bene e il male). E’ anche il versetto-

chiave per la storia della salvezza dal momento che esprime il contegno di Dio (severità

della punizione, ma continua apertura di misericordia) che sarà la costante e il “motore”

dell’Alleanza biblica. La “storia”, che sembrava interrotta fatalmente a causa dell’uomo, si

riavvia per la fedeltà di Dio. Di queste interruzioni e riprese sarà intessuta la Bibbia e la

storia dell’umanità intera. Infine, va sottolineata la posizione centrale del v.15 nel c.3: nel

panorama fosco del peccato e della punizione risplende la misericordia indefettibile di Dio!

Anche la donna riceve una duplice condanna: come sposa e come donna (v.16). Il parto

si compirà nel dolore: come mai il momento sublime del donare vita è accompagnato da

tanti dolori per la madre? Non doveva accadere così nel piano originario: causa ne è il

peccato. Come anche l’istinto sessuale verso l’uomo è ineluttabile ed è cosa meravigliosa

(la visione di 2,25!). Ma l’agiografo vede smentito ogni giorno questo ideale dai soprusi, le

violenze e gli asservimenti vari della donna in una società maschilista: non c’è più l’”aiuto

simile”, bensì l’essere-contro dell’uno con l’altro nell’ostilità e nell’istinto irrazionale. Ma

non doveva essere e non era così all’inizio: sudditanza e schiavitù della donna, negazione

flagrante di 2,25, sono altra conseguenza terribile della ribellione e del peccato. E’ come

una serie di reazioni a catena che si snoda inesorabilmente.

L’uomo è considerato nella sua oggettiva responsabilità (v.17a) e punito nel suo lavoro,

sua tipica attività: il suolo è “maledetto” (come lo è il serpente, v.14, ma non l’uomo!) e

dovrà essere lavorato con fatica e sudore perché dia qualche frutto. L’uomo avrà una

relazione faticosa e umiliante con la terra: egli, che era stato creato per vivere eretto di

fronte a Dio, assumerà la posizione curva dell’animale; il suo sudore bagnerà costantemente

la terra finché, senza soluzione di continuità (quanto è drammatico quel “finché” del

v.19a!), dovrà compiere l’ultima fatica, che è quella di cadere esausto sul solco e morire

(v.19b), confondendosi definitivamente con la terra ingrata (v.19d)! Il realismo di questa

pagina è straordinario.

Non è che prima del peccato l’uomo non sarebbe morto: la trad. J non conosce ancora l’immortalità (cf, invece, Sap 2,23). Egli sarebbe morto dopo una vita sazia e serena, accettata senza dramma nella consapevolezza della propria creaturalità. Dopo il peccato la morte si compie nell’angoscia di una vita consumata in maniera grama e nel dramma di un bene che è sottratto senza rimedio.

Il peccato originale è, dunque, distruzione dello shalom tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e

il creato: il completo “scompaginamento” risalta ancor meglio se si confrontano questi

versetti foschi con il progetto iniziale secondo la struttura concentrica dei cc.2-3 sopra

accennata. Da Adamo in poi si trasmette questa assenza di shalom, che poi ogni uomo fa

propria ed aggrava con i peccati personali. Adamo ha gettato la scintilla nel pagliaio (si

direbbe): l’umanità alimenta l’incendio con i peccati personali. Si deve, pertanto, ammettere

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che anche se Dio non ha dato seguito alla minaccia di 2,17 (“certamente morirai”), le

conseguenze sopportate dai progenitori assomigliano alla morte della loro dignità umana: e

d’altra parte la morte fisica non tarderà a comparire (cf 4,8) e a invadere la scena.

L’ultima sezione del c.3 (vv.20-24) è una serie di conclusioni. Il v.20, che più logi-

camente andrebbe prima o dopo 4,1-2, è stato posto qui forse per chiarire subito l’ambiguità

della condizione dopo il peccato. Da una parte infatti l’imposizione del nome alla donna da parte dell’uomo è indice della disarmonia che ormai si è introdotta. L’uomo aveva dato un nome agli animali, ma non alla donna (cf 2,20.23) poiché l’aveva riconosciuta come uguale a sé. Ora invece le impone un altro nome, la sente come distinta da sé e comincia ad esercitare un dominio su di lei. Per un altro verso invece il significato del nome imposto introduce un certo ottimismo: nonostante la dura condanna e il clima plumbeo dei versetti precedenti, l’agiografo crede fortemente nella vita. Il nome stesso di Eva (= far vivere, dalla radice “hajah”) è popolarmente inteso come fonte della vita. E’ opportuna qui una osservazione generale sui nomi propri nella Bibbia (e in particolare nel Pentateuco): essi, scientificamente, traggono origine dall’ambiente semitico nel quale hanno quasi sempre riscontri concreti; ma la Bibbia, interpretandoli secondo assonanze popolari, vi scorge per lo più un significato più profondo, un messaggio teologico che passa più incisivamente nella mente semplice dell’israelita. Con i nomi, in particolare, si applica il metodo dell’ ”eziologia” (cioè, la ricerca delle cause e di uno stato di cose).

L’uomo riceve da Dio una veste (v.21) simbolo di una nuova dignità in sostituzione di

quella rifiutata con il peccato; non più quindi la dignità originaria, ma pur sempre dignità

come segno della cura che il Creatore non rifiuterà mai all’uomo. Il simbolismo del vestito

è vario nella Bibbia; qui esso è segno della dignità dell’uomo decaduto (gliela da Dio dopo

il maldestro tentativo del v.7b) e della possibilità di rivestire una gloria perduta. Di fronte a

questa nuova situazione (l’uomo vestito così miseramente) Dio esce in un’amara

constatazione (v.22) che rivela il grado del suo coinvolgimento nella sventura di Adamo, e

poi scaccia l’uomo dal giardino erigendo la barriera dei cherubini dalla spada

fiammeggiante (v.23). L’uomo ha scelto di star lontano da Dio e questa scelta è rispettata:

egli ha rifiutato il “gan” ed è respinto alla “ ‘adamah” (terra), con la quale avrà sempre una

relazione conflittuale, anche se è chiamato a dominarla e trasformarla.

I vv.23-24 vanno considerati come la triste ma inevitabile antitesi di 2,15: il giardino

come luogo di comunione e di crescita armonica è stato rifiutato, ed esso rimane precluso;

la storia dell’uomo si svolgerà in una terra non ideale: scacciato dal giardino, l’uomo

proverà subito quanto sia concreta la maledizione del suolo nei vv.17-18. Si inaugura una

legge che i profeti in particolare illustreranno: il peccato influisce negativamente sulla

natura, come, d’altra parte, la conversione provocherà anche un suo rinnovamento (cf Am

9,13-15; Os 14,6-9).

Ma sono proprio questi ultimi versetti che sprigionano lampi di misericordia e di speranza. L’uomo rivestito da Dio conserva, nonostante tutto, una sua dignità. La cacciata dal paradiso non abolisce questo luogo di delizie, né l’albero della vita è tagliato: tutto rimane intatto, ma vuoto. L’uomo ne è esiliato, perde la sua bellezza e ritorna alla terra arida di 2,5. Ma è appunto un esilio! E siccome questa vicenda è letta alla luce della storia d’Israele, l’agiografo vuole dire che questo esilio, per quanto prolungato possa essere, finirà, come è finito l’esilio del popolo in Babilonia. Anzi, è proprio questo il momento, come già detto, in cui Dio comincerà ad impegnarsi per reintrodurre la sua creatura nella originaria splendida casa che gli aveva donato. Nei vangeli ricorre una sola volta il termine paràdeisos, in Lc 23,43: “Oggi sarai con me in paradiso” (ancora in 2Cor 12,4;Ap2,7). I legami con Gen 3 non sono diretti, però in entrambi i testi c’è l’idea di un

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“ritorno”, di una “riapertura” del tutto gratuita (il ladrone non osa chiederla: è Gesù che la promette). Ma nel testo di Luca “paradiso” è spiegato dal precedente: “Oggi sarai con me”, come a voler dire che il paradiso prima che un “luogo” è una “comunione con Dio”, e questo appunto è stato il giardino dell’Eden, dove l‘uomo ha camminato con Dio. Questo collegamento fra i due testi (Gen 3 e Lc 23) si basa sul concetto teologico della comunione e della gratuità.

Gen 2-3 è dunque incentrato sul tema dell’albero della vita, su come, cioè, poter

raggiungere l’immortalità. L’ambiente orientale in cui il racconto è sorto esige un confronto

con il poema assiro Ghilgamesh, opera di 3500 versi composta tra i sec.XIII e XII a.C. È

una vicenda affascinante che illustra la fatica dell’eroe, le sue battaglie e gli esiti della sua

ricerca. La profonda divergenza di questo poema con la pagina biblica sta prima di tutto

nella fatica dell’eroe che combatte con gli dèi che gli negano l’albero della vita e

dell’immortalità, ma soprattutto nel clima di sfiducia e di tragicità che avvolge l’intera

vicenda. Il finale negativo non potrebbe meglio illustrare la divergenza di fondo con il

dettato di Gen 2-3.

2.2. Il deterioramento progressivo dell'umanità (Gen, cc. 4-11)

Da Gen 4 (appartenente alla trad. J) assistiamo all’invasione inarrestabile del peccato,

dopo che esso si è saldamente installato nel cuore del primo uomo.

L’agiografo procede, in questi capitoli, con il metodo della schematizzazione e

dell'eliminazione. Egli dispone di materiale vario: antiche tradizioni (ad es. sul diluvio), monumenti archeologici di una

passata grandezza (ad es. Babele), genealogie, esperienze quotidiane di malvagità e lotte fratricide, divisioni tra i popoli... Questo materiale è posto, con gli occhi della fede, a servizio di una dimostrazione riguardo al prevalere del male nel mondo. L’autore sacro, lasciandosi guidare esclusivamente da criteri teologici, tende a creare una storia continuata che interessi tutta l’umanità, in modo che su questa “storia universale” possa poi inserirsi la storia particolare di Abramo e d’Israele. Gen 4-11 considera l’umanità intera come presupposto necessario del Popolo eletto. Per questo la vasta umanità è un tutt’uno, sia perché effettivamente l’agiografo non aveva conoscenze molto estese (che, ad ogni modo, sono ristrette all’ambito mesopotamico) e sia, soprattutto, perché l’umanità è considerata come uscente unita dalle mani di Dio: la schematizzazione domina questa dimostrazione.

Essa è ottenuta con un procedimento che possiamo definire eliminatorio: l’umanità è seguita dagli uomini primitivi fino a Noè, prima del diluvio, e dopo il diluvio da Set fino ad Abramo mediante una serie di genealogie schematizzanti che evidenziano una chiara linea di umanità sulla quale si sviluppa il disegno di salvezza. Ma questa schematizzazione non comporta esclusioni di sorta: per l’autore tutta l’umanità è rappresentata nelle genealogie ed elenchi (cf spec. c.10). La svolta avviene dopo la torre di Babele: l’orizzonte si restringe agli ascendenti diretti di Abramo. Questo non perché il resto dell’umanità non sia importante, ma perché è necessaria una ragguardevole genealogia per l’eletto di Dio ed essa è costruita con l’elenco da Sem a Terach, padre di Abramo, cioè con una sezione di umanità. Il criterio storico salvifico sarà ancor più efficacemente operante con la discendenza di Abramo: erede delle promesse e della benedizioni sarà Isacco e non Ismaele, e poi sarà Giacobbe e non Esaù. Dei rami collaterali non ci si interessa più.

Due gli effetti da sottolineare in questi schematismi: a) Gen 1-11 è stato concepito in

funzione della storia di Abramo e questo va tenuto ben presente per una sua retta

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interpretazione; b) Abramo racchiude in sé l’umanità e la rappresenta; la sua elezione, oltre

che essere pura “grazia”, è anche funzionale in quanto è a servizio dell’umanità: scelto fra

gli uomini, ma per tutti gli uomini, le benedizioni a lui dirette sono destinate a tutta

l’umanità (cf Gen 12,3) e in lui comincia a realizzarsi la salvezza di tutta l’umanità

(secondo l’avvio dato in Gen 3,15).

2.2.1. Caino e Abele (Gen 4,1-16): la prima illustrazione delle conseguenze

pratiche del peccato, i contrasti fratricidi e la morte. La ribellione a Dio comporta

inevitabilmente l’inimicizia tra gli uomini, cominciando dai fratelli.

La struttura ripete quella del c.3: il delitto (vv.l-8), l’istruttoria (v.9), l’interrogatorio

(v.10), maledizione e condanna (vv.11-15), allontanamento di Caino (v.16).

Ma anche il tema di fondo è uguale: il c.3 poneva il problema dell’accettazione

dell’alterità di Dio (rifiutata); il c.4 pone la domanda se l’uomo può accettare l’alterità del

fratello, dell’altro uomo (il vocabolo “’ach” = fratello, ricorre 7 volte nel capitolo).

Si noti la formula “X si unì a sua moglie ed essa concepì e diede alla luce Y”

(vv.1.17.25) che unifica tutto Gen 4. In 4,1 ‘adam è preceduto ancora da articolo: è l’uomo

generico; nel v.25 invece l’articolo è assente e quindi è designata una persona specifica,

Adamo come individuo.

L’episodio di Caino e Abele può provenire dai Keniti, popolo con il quale gli ebrei si sono incontrati dopo l’uscita dall’Egitto (cf Gdc 1,16), e riguarderebbe il loro antenato eponimo Kain (= fabbro?); esso rispecchia un ambiente culturale neolitico (menzione dell’agricoltura e della pastorizia). La tradizione J ha staccato il racconto di una lite mortale tra fratelli dal suo ambiente storico e lo ha riportato alle origini dell’umanità dandogli un valore eterno. Per questo non c’è da meravigliarsi se si parla di agricoltura e pastorizia fin dalle origini dell’umanità (mentre l’uomo primitivo è vissuto a lungo di caccia e di frutti selvatici), di un culto a Dio già istituito, di altri uomini che potrebbero uccidere Caino e della fondazione di una città.

I vv.1-8 sono bene articolati nella forma di un dramma. Sono, innanzitutto, presentati i

due fratelli (vv.l-2), ai quali la madre impone il nome (indizio di matriarcato).

L’etimologia offerta dalla Bibbia è di origine popolare: Caino da “qanah” = acquistare;

Abele da “hebel” = soffio, respiro, vanità (egli porta nel suo nome il dramma che l’attende e

la fugacità della sua vicenda). In realtà i due nomi sono traduzione semitica di nomi

sumerici; Caino di “tibira” (= fabbro) e Abele di “ibila” (= figlio, erede). L’uno rappresenta

la società sedentaria, l’altro quella nomadica.

I vv.1-2 rilevano il fatto della predilezione umana per Caino: un grido di gioia lo accoglie, Eva sente che Dio l’ha benedetta con la prole. Abele è semplicemente un aggiunto, esiste quasi soltanto in funzione del fratello; il primogenito è Caino e lui è quasi un intruso, un disturbatore per il possesso pacifico della primogenitura di Caino. Costui cresce abituato ad essere il primo in maniera incontrastata. Eppure Dio sceglie il più piccolo, il più povero e disprezzato!

Ma prima di procedere è opportuno rispondere alla domanda spontanea: ma chi è

questa “moglie “ di Adamo, “madre” dei due fratelli? La risposta chiarirà ancora il genere di

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racconto di Gen 1-11 e offrirà un tipo di soluzione che vale per tante altre pagine della

Bibbia.

L’alternativa è semplice: o Caino si è unito ad una sconosciuta sorella con un incesto, o si deve pensare ad un’altra coppia primigenia creata da Dio. Ma questa alternativa è frutto di una lettura “fondamentalista”. Infatti protagonista è l’uomo (con artic. ha‘ādām), cioè l’umanità in quanto tale presente nel primo uomo ma anche nei suoi discendenti attraverso la diramazione delle genealogie. Questa storia vuole andare alle origini dell’umanità per individuare chi è veramente l’uomo nella sua intima natura indistruttibile: si risale all’archetipo, l’Uomo per eccellenza (= umanità) per contemplarne lo splendore (c.2) e l’estrema caducità (c.3). In questi capitoli abbiamo una “eziologia metastorica sapienziale”, cioè una ricerca della cause (eziologia) che va al di là della storia (metastoria) con la finalità di avere una risposta (sapienziale) (cf p.15). “Adamo”, allora, è mio padre, mio fratello, mia sorella, ognuno, io stesso… perché tutti portiamo il nome di ‘ādām! In conclusione l’agiografo non vuole identificare questo e quel marito/moglie, bensì semplicemente sfruttare quella che è la prassi naturale, che, cioè, ogni essere umano presuppone una coppia che l’ha generato.

Tornando al racconto, vediamo che l’autore sacro dimostra questa legge dell’assoluta

libertà di Dio a proposito dei sacrifici che i due fratelli subito offrono (vv.3-5): è il primo

atto di culto dell’umanità (istintivamente l’uomo avverte l’esigenza di rivolgersi a Dio con

qualche segno di culto e di venerazione esteriore). Non c’è motivo esplicito per la

preferenza di Dio per Abele: Dio elegge chi vuole e gli eletti sono sempre i più deboli ed

insignificanti (cf nota BG a Gen 4,5)!

Solo il NT cerca i motivi della scelta di Dio. Eb 11,4 fornisce il motivo tradizionale dei

doni migliori o scadenti e 1Gv 3,12 designa le opere di Caino come malvagie e quelle di

Abele come giuste. I Padri svilupperanno queste tematiche. Ma i silenzi di Gen sono in sé

molto significativi: è la sovrana libertà di Dio che comincia a dispiegarsi. Il peccato di

Caino consiste nel rifiuto di questo libero e sovrano modo di agire di Dio: invidia e gelosia,

radice di ogni altro rifiuto, ispirano questa reazione.

Dio è accanto a Caino dicendogli che è in suo potere dominare i suoi istinti (cf la

plastica immagine del peccato come un cane accovacciato alla porta nel v.7, che peraltro è

di difficile resa; secondo alcuni è il versetto più difficile di tutta la Bibbia!).

Il peccato viene personalizzato ed è in possesso di una bramosia molto pericolosa verso chi è già mal disposto interiormente (come qui Caino), quindi ha un’intrinseca potenza, che però l’uomo può contrastare efficacemente (come sottolinea il comando: “tu dominalo”, che equivale a “tu puoi dominarlo”). E’ quindi molto chiara la dinamica tentazione-vittoria con cui il peccato è affrontato fin dalle prime pagine della Bibbia: potenza temibile, il peccato (cf Rm 5,12-21), ma dominabile agevolmente dall’uomo obbediente a Dio. Dio sta mettendo avanti a Caino la possibilità di scegliere.

Il consiglio amichevole di Dio è disprezzato da Caino, il quale non gli risponde neppure, ma, già preda del peccato, non considera nemmeno le parole di Dio e procede all’azione. Il passaggio tra i vv.7 e 8 sottintende l’arroganza e il disprezzo di Caino per Dio: c’è una gravità ben maggiore nel peccato di Caino rispetto a quello dei progenitori.Il delitto è consumato: la Bibbia lo narra con estrema sobrietà (v.8): che l’uomo alzi la mano contro l’uomo è la prima conseguenza della sua ribellione contro Dio. Il testo del v.8a sembra lacunoso, infatti al “disse…” non seguono le parole dirette nel testo ebraico. I LXX e altre versioni aggiungono: “Andiamo in campagna”. I targumim e la tradizione ebraica danno un senso assoluto a “disse”, che quindi significherebbe “litigare, avere a dire”. Se stiamo al testo originario interpretandolo letteralmente, cioè senza le parole dirette (CEI: “Ma Caino ebbe da dire con suo fratello Abele. E mentre si trovavano nei campi…”), il significato è profondo: Caino ha interrotto il colloquio con Dio e pertanto resta muto e chiuso nell’odio verso il fratello. La violenza su Abele è già antecedentemente perpetrata nel cuore. In questo delitto è racchiusa l’intera storia dell’umanità: Abele, l’uomo giusto e innocente, subisce la violenza del male.

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Caino da parte sua è l’espressione del male e del peccato inteso come il rifiuto di Dio che si concretizza in quello del prossimo fino alla sua soppressione. Questo è il peccato!

La risposta di Caino a Dio (v.9) è arrogante e sprezzante, non confusa come quella dei

progenitori: il male progredisce. Anch’egli accusa Dio per l’accaduto; con la risposta:

“Sono forse guardiano di mio fratello?” implicitamente egli afferma che Dio deve essere il

custode di Abele: se costui è finito male, la colpa è di Dio! E allora Dio interviene con

veemenza: “Che hai fatto?” (cf 3,13) e pronunzia la prima maledizione contro l’uomo: “Sii

maledetto!” (v.11). Chiaro il parallelismo con 3,9,12.

La maledizione giunge ora perché con l’omicidio Caino ha distrutto l’immagine di Dio in Abele e quindi ha inteso commettere un deicidio! E questo tentativo Dio deve esorcizzarlo nella maniera più decisa e radicale. Quella terra di cui Caino era stato coltivatore (cf v.2b), ora rompe la solidarietà con l’uomo perché è contaminata dal sangue, sede della vita (cf Dt 12,23). La sorte della terra (che sia feconda o sterile) è sempre legata alle libere scelte dell’uomo secondo la Bibbia.

Sembra che Caino riconosca l’enormità del delitto consumato (v.13) e ne preveda le

conseguenze; dalla violenza usata sul fratello scaturisce la psicosi della violenza: “chiunque

mi troverà mi ucciderà” (v.14). Dio non lo abbandona (v.15a) e gli impone un segno che lo

salvaguardi dai pericoli (v.15b): si fa vindice anche di Caino (v.15b)! Caino, pertanto,

respinto dalla terra “si allontanò dal Signore” (v.16a); egli è il “fuggiasco” (nad: vv.l2.14)

che abiterà in Nod (= terra di vagabondaggio). Con su di sé il segno della misericordia

indefettibile di Dio, egli ormai perde di vista Dio e non lo contemplerà più.

La vicenda di Caino completa in molti punti quella di Adamo ed Eva. Egli si è spinto ancor più oltre dei genitori rifiutando la fratellanza e più profondo è il distacco da Dio. Non è Dio che scaccia Caino, come ha fatto con i progenitori: è lui stesso che se ne va, rompe i ponti, anche se Dio gli ha usato misericordia con il segno impostogli. E’ l’uomo stesso che, avendo distrutto i vincoli più sacri e vitali, sente di non poter stare più di fronte a Dio e fugge, solo ed errabondo. La solitudine accompagna colui che ha rifiutato di vivere nella piena fratellanza.

Ma vogliamo capire meglio il messaggio della vicenda proposta da Gen 4,1-16. Essa

introduce una novità rispetto ai primi tre capitoli, che trattavano della relazione Dio-

creatura, uomo-donna: quella della fratellanza o fraternità. La fratellanza introduce delle

diversità: siamo tutti uguali (ad immagine di Dio), ma non identici. Questo è sottolineato dal

termine stesso ‘ah (= fratello).

Esso è diffusissimo nella Bibbia, ricorrendo (insieme a “sorella”, “fraternità) più di mille volte. Ora si sa che ‘ah, nell’ambiente semitico, spesso designa una cerchia di persone più ampia di quella dei fratelli carnali: cugini, nipoti, membri della tribù, il “prossimo”. Nel NT, poi, “fratelli” frequentemente designa coloro che hanno la medesima fede: Gesù pensa ad una famiglia allargata (cf Mc 3,34) e altrettanto pensano gli estensori delle lettere, dove spesso viene usato il vocativo “fratelli”. Quindi, partendo dai primi fratelli, Caino e Abele, le differenze nell’umanità si sono moltiplicate in ogni direzione.

Questa differenza è accettata da Caino fino ad un certo punto, poi la rifiuta e pertanto la fratellanza è macchiata di sangue. Vedremo subito che questa prima violenza sul fratello crescerà in progressione in Gen 4-11: una violenza così raffinata (sul fratello!) metterà in crisi o addirittura distruggerà la bontà della creazione affermata da Gen 1-2? Si noti che storie di fratelli sono narrate nei libri storici dell’AT: di fraternità si parla in concreto. E storica è la relazione tra Abramo e Lot (che per l’AT sono “fratelli”, pur se zio-nipote) che inaugura la storia speciale della salvezza con una fratellanza positiva. Questo accade perché Dio non abbandona la storia dell’uomo, come ha già dimostrato con la vicenda di Caino e Abele. Ma quella di Dio è

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una presenza strana, non sempre comprensibile: intanto la sua preferenza per Abele è misteriosa. Infatti, pur preferendo Abele, non lo salva dal suo destino, anzi sembra affannarsi ben di più attorno a Caino. Fratelli si nasce, ma vivere da fratelli è una scelta; se la scelta è negativa, come quella di Caino, essa porta alla violenza. Caino ha distolto sprezzantemente il volto da Dio che lo esortava amichevolmente (nel NT si ha un parallelo nel figlio maggiore della parabola del “Padre misericordioso” in Lc 15 che rifiuta al fratello minore questa relazione: “questo tuo figlio…”!): rifiutando il rapporto fiduciale con Dio egli non è stato capace di istituire il giusto rapporto con Abele. La riprova può venire dalla vicenda di Giuseppe e i suoi fratelli, ultima sezione di Genesi. La storia di Giuseppe può essere definita la più “atea” dell’AT: dov’è Dio quando egli è vessato e venduto dai fratelli? Eppure Giuseppe riesce a perdonare ed accogliere di nuovo i fratelli persecutori come veri fratelli. Perché ci è riuscito? Perché in realtà egli si è sempre affidato a Dio e lo ha sempre visto in azione nella sua vicenda (cf Gen 45,5,7-8;50,1-20). Questo dimostra che la vera fraternità è possibile soltanto là dove c’è affidamento completo a Dio. Però il realismo biblico dimostra che non è tutto rose e fiori nell’autentica fraternità, e questo è significativo: si canterà con più profonda partecipazione il canto della fraternità, il Sal 133 (“Quanto è bello e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!”), quando si sarà consapevoli di questa difficoltà e pertanto si farà una vera scelta anche se sofferta. Tanto più è gustato un simile canto, quanto più sgorga da una fraternità conservata o recuperata attraverso le tante insidie che la minacciano: questo è il cantico non dello sprovveduto o dell’idealista, bensì dello sperimentato nella lotta per la vera fraternità con accanto un Dio misterioso nel suo comportamento, ma al quale si accorda totale fiducia (ciò che non ha fatto Caino). La stessa dinamica compare in Mt 18,20: “dove due o tre… ivi sono io, in mezzo a loro”; il contesto parla di una fraternità disturbata e faticosamente recuperata (cf vv.15-19), ed allora si gusta più profondamente la presenza di Gesù nella comunità che si è ricostituita nel suo nome.

2.2.2. Le due discendenze (Gen 4,17-26): lontano da Dio, l’uomo si dedica tutto

alle occupazioni terrene. In questi versetti abbiamo una prima genealogia di stampo J

(mentre le genealogie saranno proprie della Trad. P). La costruzione della città (v.17) è vista

negativamente: l’ebreo primitivo ama il villaggio, luogo di comunione. Al progresso

materiale (cf i diversi mestieri) si accompagna lo scadimento morale: si introduce la

poligamia (v.19) e si instaura la violenza irrazionale (vv.23-24).

Questi versetti sono distribuiti in due sezioni. I vv.17-18, con richiamo al v.1, danno una genealogia di sette generazioni: un simbolo di pienezza, un periodo in sé concluso. I vv.19-24 riferiscono la genealogia di Lamech: due mogli e i loro rispettivi figli (tre maschi e una femmina): anche qui sette nomi (Lamech, due mogli e quattro figli). I nomi dei maschi contengono la radice “ybl” (= portare), la radice del produrre e del progresso: infatti ognuno esercita un’arte. Un’arte ambigua in se stessa: si parla di rame e di ferro, strumenti adatti alla pace, ma anche alla guerra. E il cantico di Lamech dimostra che essi ben presto sono asserviti a scopo di sopraffazione. Una particolarità va rilevata. Se leggiamo il sommario circa le arti umane nei vv.18-22 sullo sfondo delle mitologie antiche, una cosa colpisce: in esse arti e mestieri sono dono degli dèi all’umanità, mentre invece nella visione biblica essi sono iniziativa degli uomini che mettono in opera la propria inventiva perfezionando la creazione in conformità con l’ordine del Creatore che aveva comandato all’uomo di “soggiogare e dominare” la terra (1,28). Nello stesso tempo, però, l’uomo concepisce questo sviluppo come iniziativa propria, per questo esso si accompagna alla barbarie della violenza che subito canterà Lamech.

“Caino si unì a sua moglie”: ma chi sarà questa moglie? Caino fondò una città: ma c’erano appena tre persone!, e poi il contesto dice che Caino è errante e dedito alla vita nomadica. Obiezioni concrete che però non tengono conto del metodo della schematizzazione sopra accennato (cf p.35): l’agiografo segue queste persone in un processo unitario, non ponendosi il problema di altra umanità. Ma poi vale sempre il suo punto di vista, e questo va individuato nell’intenzione di far vedere come Caino cerca di sottrarsi alla solitudine e alla condizione di vagabondo causate dall’uccisione del fratello mediante la fondazione di una famiglia e di una città.

Il celebre “canto di Lamech” (vv.23-24), primo brano lirico della Bibbia, è costruito sul

modello di altri canti biblici antichi (cf Es 15,21;Gdc 15,16;1Sam 18,7) e consta di 3 versi

di 2 stichi ciascuno in parallelismo sinonimico, eccetto l’ultimo che è in parallelismo

antitetico; esso è rivolto alle mogli. Si noti la relazione tra i vv.19.23-24 (Lamech e le

mogli) e tra i vv.20-21 e 22 (i figli di entrambe). Il messaggio negativo qui formulato è

segno inequivocabile, per l’agiografo, del degrado dell’umanità: la rottura fra Caino ed 43

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Abele giunge ben presto ad essere istituzionalizzata. Questa violenza senza argini non è

ancora moderata dalla legge del taglione di Es 21,23-25 che è una misura di contenimento

delle faide infinite, e sembra dar credito al terribile detto latino “Homo homini lupus”!

Soltanto nel NT avverrà il superamento di questa legge di violenza, quando Gesù

comanderà il perdono “settanta volte sette” (cf Mt 18,22).

Un paragone fra il comportamento di Caino e quello di Lamech evidenzia il degrado che questo canto rappresenta. Caino ha colpito il fratello per un motivo religioso, Lamech colpisce per una scalfittura; Caino è consapevole dell’enormità del delitto, Lamech se ne vanta con il grido brutale di una vendetta illimitata; Caino spera in una mitigazione della pena, Lamech si affida alla sua potenza di guerriero; l’uccisione di Caino provoca una vendetta di sette volte, quella di Lamech una vendetta di settanta volte sette. Tutto quanto precede questo canto, cioè il progresso della civiltà accennato nei vv.17-22 è inficiato da questo terribile canto, e quindi va considerato come un progresso ambiguo e confuso.

Di fronte a questo quadro cupo di una schiera senza Dio, sta la stirpe di coloro che

“invocano il nome di JHWH”, Set e i suoi discendenti (vv.25-26, da mettere in relazione con

i vv.17-18 e col v.1: stesso grido di gioia).

“Adamo”, nel v.25, diviene nome proprio, come si è ricordato; l’avverbio “di nuovo”, l’espressione “un’altra discendenza” e la successiva spiegazione del nome Set richiamano al v.1, e si comprende come il redattore voglia chiudere in un’unica unità letteraria la narrazione iniziata con la nascita di Caino e Abele.

La trad. J pone a questo punto la rivelazione del nome di Dio (mentre E e P la ritardano

al tempo dell’Esodo: cf Es 3,14; 6,3). Il tenue, ma consistente filo della misericordia di Dio

non si interrompe. L’umanità non smarrisce totalmente il senso del divino: con un piccolo

“resto” (i “santi pagani”: cf Enoch che “camminò con Dio”: 5.22.24), Dio conduce avanti il

progetto di salvezza. Non è semplicemente l’impostazione positiva di questa tradizione che

comporta tale conclusione, bensì l’intuizione teologica profondissima che scorge nell’uomo

un essere religioso fin dalle origini avendo egli la capacità di discernere ed adorare il vero

Dio. Non si potrebbe vedere qui un fondamento concreto per la “rivelazione naturale” di

Dio, non primaria nella Bibbia, ma vigorosamente affermata (cf Sap 13,1; Rm 1,18-32)?

Anche in questa pericope, dunque, si riscontra il costante metodo divino: la corruzione avanza inarrestabile, ma un tenue filo della misericordia di Dio, che fa da contrappunto allo scadimento della discendenza di Caino, permane solido: Adamo è condannato, ma c’è la promessa della salvezza; Caino è maledetto, ma un segno lo designa come oggetto di misericordia; l’umanità va verso la corruzione e l’odio, ma una piccola sezione conserva il culto del vero Dio. Fra i tanti legami che fanno di Gen 1-11 un’unità solida (di tipo culturale, letterario, storico…), quello della fedeltà di Dio è senza dubbio il più rilevante e solido.

2.2.3. I Patriarchi prediluviani. Gen 5 è il primo esempio di genealogia P, con

la quale questa tradizione intende colmare lo spazio da Adamo fino a Noè (cf v.32), così

come con 11,10-32 essa vuol coprire lo spazio da Noè ad Abramo.

Questi sono i casi più evidenti della schematizzazione e semplificazione adottati dal redattore finale del Pentateuco riguardo a Gen 1-11. Tre sono i poli che egli vuole collegare: il ciclo di Adamo (cc.1-4), il ciclo di Noè (cc.6-9) e il ciclo di Abramo (cc.12-50) che apre a tutti i Patriarchi. Le due genealogie dei cc.5 e 11 servono allo scopo, e pertanto per l’agiografo la storia, dalla creazione al sorgere d’Israele come popolo, è un racconto continuato, con un disegno ben organizzato. Di fronte a tale schematismo si può forse immaginare anche per un attimo un interesse “storico” di queste pagine?

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Le generazioni sono 10 (numero tondo e perfetto, adatto anche alla memonica: bastano le

due mani per contare) e vengono elencate con schema fisso: età del generante, successivi

anni di vita, figli e figlie, somma totale degli anni.

Le genealogie, soprattutto nella Tradizione sacerdotale, hanno un ruolo importante poiché in esse viene dimostrata la forza operante della benedizione divina che continua il suo cammino nella storia dell’umanità nonostante il peccato e il male: Dio, infatti, ha maledetto il serpente, mai l’uomo. Una tavoletta sumerica di Nippur del secondo millennio ha sorprendenti rassomiglianze con Gen 5: contiene la lista di dieci sovrani; al settimo posto c’è un re che è stato assunto fra gli dei (Enoch è al settimo posto) e il decimo sovrano costruirà l’arca, come qui Noè. Se è difficile ipotizzare una dipendenza di Gen da questo modello, il confronto, come sempre, evidenzia la peculiarità della genealogia biblica. Infatti l’età dei patriarchi prediluviani, per quanto iperbolica, non raggiunge le cifre incredibili dei sovrani sumeri (fino a 72.000 anni!), e sta a servizio di un messaggio. Il personaggio parallelo a Enoch, Etana, di sua iniziativa, aiutato da un’aquila, tenta di salire al cielo per ottenere la “pianta del concepimento”: opposto il comportamento di Enoch.

Il messaggio di fondo è il seguente: la vita, bene supremo per gli ebrei, è concessa in

proporzione della fedeltà a Dio, sorgente della vita; più ci si allontana da Dio più l’età

decresce. Le cifre relative all’età, pertanto, sono simboliche. L’autore pensa a un periodo di

fedeltà (età alta), ma subito dopo il periodo della vita sarà drasticamente ridotto a causa

della perversione (cf 6,3) e nella lista del c.11 la vita dei patriarchi verrà sensibilmente

ridimensionata (l’umanità dopo il diluvio percorre di nuovo la via della corruzione).

Che l’età abbia una portata teologica in questa ed altre liste del genere, è provato specialmente dal caso di Enoch nei vv.21-24, il quale vive solo 365 anni, un anno solare, ma nonostante ciò vive una vita perfetta (totalità dell’anno solare) poiché egli “camminò con Dio” (vv.22a.24a). La forma ebraica del verbo halak è lo ‘hitpael’, la medesima forma che esprime il passeggiare dell’uomo con Dio nel giardino (3,8): Enoch è il primo uomo, dopo la coppia originaria, che adegua il suo passo a quello di Dio, come faranno poi Noè, Abramo e Isacco (per Mi 6,8 il “camminare umilmente con il tuo Dio” sarà l’ideale dell’israelita). Il personaggio, così popolare nelle tradizioni rabbiniche e apocrife, offre una grande lezione: la pienezza di vita è data dal camminare con Dio, non dalla lunghezza dei giorni. E’ stupefacente l’intuizione contenuta nel caso di Enoch, dal momento che è risaputa la stima degli ebrei per la lunghezza della vita come ricompensa di Dio per i giusti. Certo dovranno trascorrere secoli prima di giungere a Sap 4,7-10 che darà con la massima chiarezza il messaggio del destino degli eletti presso Dio; esso è però qui già prospettato. Il modo in cui Enoch ascese al cielo richiama al profeta Elia (il verbo “laqad” = prendere, ricorre anche in 2Re 2,10-11). Concludendo vogliamo sottolineare anche il contrasto fra l’età così alta dei patriarchi e il costante finale “poi morì”, registrato per ogni generazione. Quasi che il sacerdotale voglia sottolineare che la morte è inevitabile nonostante una vitalità eccezionale: c’è un intreccio di vita e di morte, come c’è un intreccio di peccato e di grazia in questi racconti.

In questa genealogia compare la figura di Enoch, l'uomo buono per eccellenza in mezzo ad un'umanità corrotta e stravolta dal peccato. Egli viene definito come colui che "camminò con Dio" e che non conobbe la morte "perché Dio lo aveva preso"; e la sua vita fu di 365 anni, un numero perfetto, corrispondente ad un anno solare. La genealogia, che nei vv.1-3, ha segnato la transizione dalla creazione alla storia

dell’umanità, tende a Noè, nominato come ultimo anello dell’elenco (v.32): egli è il

legittimo erede delle promesse fatte ad Adamo e sarà il personaggio chiave dei cc.5-10,

dove il suo nome (che significa “colui che consola”) ricorre ben 41 volte. La funzione di

collegamento della lista del c.5 appare meglio alla sua conclusione: nel v.32 essa si

interrompe dopo la generazione, da parte di Noè, dei suoi tre figli e rimane aperta per i

successivi sviluppi.

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Sostando su alcune particolarità, annotiamo innanzitutto la relazione tra Gen 5,1-2 e Gen

1,26-28, che sono della medesima tradizione P.

In entrambi i testi è sottolineato il legame Dio-uomo e il fatto che l’umanità esiste come uomo-donna, ma in 5,1 si menziona solo la “somiglianza” con Dio a proposito di Adamo; il peccato non l’ha distrutta, ma per far emergere l’ “immagine” di Dio latitante egli deve ancora “lavorare”. Invece il figlio che nasce ad Adamo è a sua (di Adamo) immagine e somiglianza (v.3), nella loro relazione non manca nulla: Set in tutto è umano come il padre. In sintesi: Adamo, dopo il peccato, è mancante in rispetto a Dio, Set è alla pari del padre. Dio ha comandato di moltiplicarsi in 1,28 e Gen 5 è l’adempimento di questo comando: il quadro statico di Gen 1 riceve anima e movimento dal c.5.

Certamente la genealogia non gode di molta popolarità presso di noi; diversamente invece

presso gli antichi. Oltre a riempire un lasso di tempo, come si è detto, essa ha lo scopo di

organizzare e strutturare il passato in maniera lineare e pacifica. Non dobbiamo credere,

cioè, che per forza il personaggio sia figlio del precedente: i vari nomi sono scaglionati in

una catena solenne e quindi collegati tra loro per presentare i singoli come membri di una

grande famiglia umana. La vita si trasmette di generazione in generazione in modo sereno,

non problematico, regolare, e questo inculca fiducia. Per il pio israelita contemplare questo

inarrestabile flusso di vita comporta istintivamente il riconoscimento della continua azione

di Dio che è sempre creatore.

2.2.4. Il ciclo del diluvio (Gen, cc.6-9) è un complesso letterariamente molto ricco

sia per la molteplicità e problematicità delle tradizioni, sia, ovviamente, per il messaggio

religioso. Nell’ottica della teoria classica, le trad. J e P si intersecano in maniera pressante,

ma entrambe costituiscono un racconto ben caratterizzato: quello J molto vivace e pieno di

vita, quello P più preciso ed elaborato, ma meno vivace (la BG elenca in nota i versetti

dell’uno e dell’altro racconto). Il criterio del redattore finale è stato quello di conservare

tutte le ricchezze della tradizione, anche a costo di evidenti contraddizioni.

Ne elenchiamo alcune: il diluvio è annunciato due volte (6,17; 7,4); il numero degli animali da introdurre nell’arca è discordante (6,19; 7,2); diversa è la modalità del diluvio: ritorno al caos per P (7,11), pioggia torrenziale per J (7,17-19). Ma la maggior divergenza consiste nella durata del diluvio: per J esso dura 101 giorni, per P, invece, si prolunga per un anno intero di 365 giorni con un computo scrupoloso che, al contrario, non interessa a J. E’ evidente che nel sottofondo agisce un intento artistico e simbolico nel quale la realtà è trasfigurata.

Il fatto che, in questa circostanza, siano state riferite due tradizioni testimonia circa l’importanza dell’evento del diluvio e della memoria che ne ha fatto il popolo. Tra i ricordi dei tempi primitivi, quello della catastrofe universale ha impressionato tanto quanto la memoria della creazione. Ma si ascolti questa saggia osservazione: “Si tratta di due documenti che raccontano del diluvio universale, ognuno con le sue proprie peculiarità. In ogni caso, però, si tratta di un agire di Dio che si compie in questo avvenimento in cui è interessato il mondo. Questo è il contenuto ultimo ed unico che va recepito nella sua duplice versione dalla bocca dei due testimoni” (W.Zimmerli)

Si tenga presente, però, la tendenza odierna della critica che, dal momento che il secondo racconto (J) è incompleto mancando della narrazione della costruzione dell’arca e dell’uscita dall’arca, non lo considera un racconto vero e proprio parallelo al primo, bensì come una serie di complementi aggiuntivi al racconto sacerdotale e composti dopo il ritorno dall’esilio.

Del resto, il diluvio non è creazione della Bibbia: esso è patrimonio universale (dai

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sumero-accadici ai romani, con il loro mito di Deucalione e Pirra), eco di un qualche remoto

cataclisma locale che in epoca imprecisata deve aver colpito la Mesopotamia. Il modello più

vicino al racconto biblico può ricercarsi nella tav. XI dell’epopea di Gilgamesh: l’agiografo

può aver utilizzato a piene mani le tradizioni mesopotamiche del 4-2000 a. C., depurandole,

però, di ogni elemento panteistico e politeistico e facendone veicolo di messaggio del più

puro monoteismo (cf nota a Gen 6,5 in BG). Sappiamo che questo è il metodo che

abitualmente viene adottato spec. in Gen 1-11.

Come già per il giardino di Eden, anche per il diluvio è tenuta presente la Mesopotamia, che è l’ambiente all’agiografo maggiormente noto. Quando il racconto parla di “tutta la terra” si fa dunque riferimento a quest’area. Una presenza così vasta, presso le mitologie medio-orientali, del motivo di un diluvio che ha purificato la terra testimonia in favore di un nucleo storico (metastorico): si può pensare ad un’inondazione catastrofica accaduta realmente nella Mesopotamia, della quale rimase viva la memoria e che pian piano è stata arricchita di motivazioni mitologiche e dalla quale ha attinto pure la Bibbia.

L’ispirazione di fondo è la seguente: l’uomo è giunto ad un punto tale di perversione

che è necessaria una radicale purificazione, pena la distruzione dell’umanità. E’un motivo

prettamente teologico, che dice la novità della pagina genesiaca e che manca totalmente

nelle tradizioni extrabibliche (per alcune di esse gli dèi si vendicano degli uomini perché

costoro sono troppo chiassosi!). Non si finirà mai di sottolineare l'aggancio del “materiale”

biblico a quello delle culture circostanti e, contemporaneamente, la sua radicale novità:

leggi dell'incarnazione della Parola di Dio e della sua soprannaturalità sempre all’opera!

La motivazione del diluvio va colta in Gen 6,1-5, dove sono registrati gli eccessi

esorbitanti del peccato dell’umanità che provocano la reazione decisa di Dio (vv.6-12).

Il v.5 fa parte della pericope precedente perché evidenzia che la “malvagità degli uomini” è l’unica responsabile del castigo che seguirà.

L’umanità pecca all’eccesso con l’unione dei “figli di Dio” con le “figlie degli uomini” (6,1-4). Episodio misterioso, pieno di mito, che intende ragguagliare sull’origine dei giganti (v.4a). Affascinante è la spiegazione seguente: mentre la mitologia pagana ha considerato come grande successo dell’uomo l’unione del suo principio generatore con quello della divinità (eroi figli di un dio/dea e di una creatura), per la Bibbia questa realizzata unione sarebbe il massimo della perversione. Spiegazione che, però, pecca di logica, dal momento che i maggiori responsabili (gli Angeli) sfuggirebbero alla punizione (il diluvio colpisce soltanto l’umanità).

I “figli di Dio”, invece, sono facilmente i figli di Set che, prima dediti a Dio (cf 4,26), ora si sono pervertiti. Sono chiamati “figli di Dio”, cioè uomini potenti, grandi (“di Dio” starebbe per il superlativo ebraico); oppure, secondo i Padri dal IV secolo in poi, la dicitura farebbe distinzione fra i discendenti di Set, dediti fino allora a Dio, e le discendenti di Caino (“figlie degli uomini”). Tra le due discendenze c’era separazione, come ipotizza Gen 4,17-26: ora, con il moltiplicarsi degli uomini e la prorompente bellezza delle donne, le due discendenze si attraggono in maniera disordinata. Si ripete la tecnica del primo peccato: “i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle” (v.2a), come la donna che “vide – prese – mangiò” (3,6). “Ne presero per mogli quante ne vollero” v.2b): risiede qui il peccato massimo, cioè nell’esercizio senza criterio della sessualità. L’insaziabilità sessuale è simile all’insaziabilità dei progenitori che volevano farsi simili a Dio. Quindi tale disordine non è in prima istanza valutato nell’ottica morale (non è la prospettiva dell’agiografo), quanto nell’ottica teologica: voler essere come Dio! C’è una gradualità in questo campo: la coppia, già incrinata dopo la ribellione nell’Eden (3,16b), era stata oscurata seriamente con l’avvento della poligamia (4,19): ora è distrutta completamente con l’esercizio disordinato della sessualità. Il bene sommo dell’essere e fare coppia (cf 2,24-25) è maliziosamente distorto dall’uomo per attentare a Dio stesso! Nei culti cananaici l’esercizio della sessualità aveva come scopo l’impadronirsi delle fonti della vita: l’esercizio smodato della potenzialità generatrice è visto dalla Bibbia come un tentativo di farsi gestori della vita, cioè di

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attentare all’unico Dio. Ma come sempre, il risultato è opposto: la vita non risulterà, per questo, illimitata, bensì sarà drasticamente ridotta (120 anni sono il segno della caducità umana; cf Sal 91,10 che parla di 70 o 80 anni). Il netto contrasto fra le espressioni “mio spirito” e “egli è carne” sottolinea il senso del limite: le creature non possono permettersi tutto quello che desiderano. La menzione dei “giganti” non è di per sé necessariamente legata alle unioni illecite tra figli di Dio e figlie degli uomini. Il termine “ nefilîm”, tradotto con “giganti”, può significare anche “coloro che cadono dall’alto” o “coloro che distruggono”: si designano tutti coloro che pur di diventare famosi portano alla distruzione dell’umanità. C’erano a quel tempo, “e anche dopo”, aggiunge l’agiografo (cf 4a): e ce ne saranno sempre di coloro che pensano di farsi come Dio. Ma la menzione dei “giganti” a questo punto vuole sottolineare che essi, cioè “gli eroi dell’antichità, uomini famosi”, acclamati e invidiati, non scamperanno al diluvio purificatore. L’umanità, insomma, ha imboccato una strada pericolosa, al cui fondo non c’è che la catastrofe.

I primi capitoli di Gen sono di esemplare chiarezza circa gli errori dell’umanità primitiva: la trasgressione dell’uomo non è un errore accidentale, è sempre una cosciente trasgressione del limite creaturale. L’uomo non accetta di essere uomo, cioè limitato per natura! Il manipolare la fonte della vita costituisce l’enormità che provoca la catastrofe (quale attualità di questa pagina biblica di fronte alle odierne sperimentazioni genetiche!). L’uomo ha sconfinato dal suo naturale limite nel sovrumano, nell’eroico (che, però, non è dell’uomo!) e così si è votato all’invasione del caos, del diluvio, la cui causa, è, pertanto, tutta umana. Dio dovrà intervenire non per la paura che l’umanità scavalchi il cielo (questo nei miti pagani), bensì semplicemente per la preoccupazione di salvaguardare, riaffermandone i necessari limiti intrinseci, la creazione uscita dalle sue mani. Infatti la creazione, senza questi limiti, non potrebbe essere nemmeno immaginata. Di Dio, infatti, ce n’è uno solo: ogni tentativo di trasgressione, da parte dell’uomo, nella sfera del divino è distruttivo per se stesso e perciò deve essere represso per il bene dell’uomo stesso. Se si vuol fare una considerazione alla luce di tutta la storia della salvezza, si deve affermare che sarà Lui, Dio, a concedere gratuitamente l’ingresso alla pienezza della vita vera, quella divina, non l’uomo che osa il ridicolo tentativo di accaparrarsela con i suoi vani mezzi!

La chiave interpretativa del diluvio sta tutta qui: con esso Dio viene in soccorso

all’umanità che sta prendendo la strada dell’autodistruzione.

Che il peccato dell’uomo sia fuori di ogni misura (“la malvagità degli uomini era

grande sulla terra”) lo si constata dalla reazione di Dio (6,6-12): egli “si pentì”, “se ne

addolorò in cuor suo”, disse: “Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato... perché sono

pentito d’averli fatti” (vv.6-7). Espressioni fortemente antropomorfiche, tipiche della Trad.

J, per significare in modo umano l’esigenza della santità di Dio (cf BG ad Iocum).

L’antropomorfismo, cui la Bibbia ricorre normalmente, esige una considerazione attenta.

Il diluvio è scatenato da un Dio che è pentito e addolorato e pronto a distruggere il suo “giocattolo” per farne un altro: una delle forme più audaci di antropomorfismo, ancor più vivida di quelle usate nei cc.2-3. Questo antropomorfismo ha sì come scopo primario quello di trasmettere verità profonde in maniera semplice a menti semplici; ma esprime anche una grande verità su Dio e sull’uomo.

Due serie di motivazioni aiutano a interpretare e valorizzare l’antropomorfismo. Positivamente, con esso emerge l’immagine di un Dio estremamente motivato: quello della Bibbia non è il Dio distaccato dei filosofi, bensì il Dio che si coinvolge e che partecipa in grado intensissimo alle vicende delle sue creature. Dio soffre non costretto da alcuno: soffre perché sceglie di soffrire; soffre per Amore! Dio non ha agito per scherzo e, scegliendo di creare l’uomo, sta fino al collo dentro la vicenda umana. Egli gioisce (vide che era buono…), si preoccupa, si rattrista, s’infuria… I profeti saranno insuperabili nel presentare un Dio siffatto. Ma l’antropomorfismo svela anche un lato negativo e drammatico. A causa del peccato l’uomo ha smarrito il senso di Dio e i forti antropomorfismi della Bibbia stanno a dimostrare da quanto lontano deve iniziare il cammino per il ricupero della sua autentica immagine. Con il peccato tutto è stato rimesso in discussione, anche l’idea di Dio, e tutto deve essere faticosamente recuperato. Pertanto, anche riguardo a Dio si assiste al cammino progressivo e ascendente della Rivelazione. Per l’uomo ferito dal peccato è necessario partire da molto lontano, appunto da un modo di agire “a modo di uomo” di Dio per poterne avere una reale percezione che gli permetta di ritenere il senso di Dio. Certo, tra l’immagine di Dio nel diluvio e quella di Dio nel NT (ad es. in Paolo o in Giovanni) corre un abisso, ma così soltanto si valuta il cammino percorso e soprattutto si comprende il ruolo dell’antropomorfismo: esso è stato il mezzo provvidenziale che ha permesso di ritenere una qualche concreta esperienza di Dio e ha reso possibile l’inizio dell’itinerario su Dio che sfocia alla piena manifestazione del NT. Tra il Dio a così forti tinte umane dell’inizio della Rivelazione e il Dio

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Padre della sua pienezza non c’è contraddizione, bensì continuità mirabile: entrambe le comprensioni colgono nel vero quando le si vedono inserite nel loro preciso ambito della storia della salvezza, cioè la prima come avvio della rivelazione salvifica e la seconda come suo culmine e traguardo. Anche riguardo all’immagine di Dio vale l’assioma della “verità salvifica”. E’ una vera e autentica per -cezione di Dio quella che lo vede agire come un uomo? Senza dubbio! Ma soltanto se inserita nel suo preciso contesto rivelatorio. Man mano che la coscienza religiosa dell’uomo si affina decadono certe rappresentazioni antropomorfiche di Dio non perché esse non siano semplicemente vere, bensì perché vengono espresse in maniera gradualmente più alta. Tutto quanto è compreso nella rivelazione di Dio come Padre è presente, in embrione, nella rappresentazione del Dio antropomorfico di Gen. Insomma: non ci si lasci disorientare dal Dio che si pente, si addolora e distrugge, ma lo si veda già dotato di quella paternità che, del resto, non dovrà attendere il NT per manifestarsi, E si noti, infine, che Dio è Padre fin da Gen: è l’uomo che non riesce a sperimentarlo ancora come tale a causa delle ferite inferte dal peccato e che pertanto deve ricorrere ad immagini alla sua portata. Immagini che, però, sono un validissimo “contenitore” della verità, se è vero che esse sanno trasmettere un’esperienza di Dio che è radicalmente diversa da quella di ogni altra religione contemporanea.

Tutta la generazione umana è dunque “corrotta” (vv.11a.12a), cioè piena di

“violenza” (vv.11b.13b): il termine “chamàs” evoca colpe di carattere specificamente

sociale. Sono i soprusi dei ricchi sui poveri tante volte denunciati dai profeti (cf Am 2,1-

15;3,10… fino ad Ez 7,23;8,17, più o meno contemporaneo alla redazione del racconto). È

sempre così: quando si distrugge il rapporto con Dio (senso di 6,1-4), ci va di mezzo anche

quello con l’uomo e quello con la terra che già era stata contaminata dal sangue fraterno

sparso da Caino (cf 4,10). Ma in questo panorama fosco si iscrive la “storia” di Noè (le

“toledot” del v.9). Egli “era un uomo giusto e integro” (come Giobbe: cf Gb 1,1) e

“camminava con Dio” come Enoch (5,24): proprio il contrario dei contemporanei che

avevano corrotto tutta la terra con le loro iniquità. Noè è segno e garanzia che la storia

dell’umanità continua anche attraverso la catastrofe: egli sarà, come altri “santi pagani”,

intercessore per l’umanità (cf Ez 14,14-20). Con lui si prolunga il filo rosso della

Misericordia e della fedeltà di Dio: “ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore” (v.8).

Infatti ci si potrebbe chiedere se il diluvio costituisca un vero rimedio alla corruzione

dell’umanità: un male si ripara con un male più grande? La frase del v.8 ci mette sulla

giusta strada: è la “grazia” di Dio, cioè il suo favore gratuito e immeritato, il motivo solido

per non disperare: la “collera” di Dio è destinata a dissolversi, ma rimarrà in eterno la sua

benevolenza. Dio apparentemente reagisce come gli uomini, ma il suo volto vero è un altro:

è quello della misericordia. Questi attributi divini (grazia e ricordo benevolo) stanno al

centro dell’evento sconvolgente del diluvio. E’ anche la struttura del racconto che lo

conferma: “Dio si ricordò di Noè…” (8,1) sta al centro di una costruzione concentrica di

tutto il racconto, come è stato concepito dal redattore sacerdotale che ha riplasmato la

relazione jahvista. Si osservino i seguenti richiami: all’esterno (6,9-10; 9,28-29: A – A’) una notizia genealogica, cui segue un’introduzione teologica (6,11-13; 9,1-17: B – B’). All’entrata nell’arca (6,18b-21; 7,13-16a: C) corrisponde l’uscita dall’arca (8,15-19: C’) e alla crescita delle acque ((7,17a: D) il loro decrescere (8,5.13a.14: D’). Al centro il ricordo di Dio nei confronti di Noè (8,1: E). Il “ricordarsi” di Dio (cf anche 9,15.16) si lega con il motivo dell’alleanza già qui (cf 6,18 e c.9): questo connubio è frequente nella Bibbia, fino alla constatazione del “Benedictus”: “Egli si è ricordato della sua santa alleanza” (Lc 1,72). Il ricordo, dunque, è sempre un preludio ad un intervento salvifico di Dio.

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Sul dramma del diluvio, dunque, si stende la luce indefettibile di Dio misericordioso: la rilettura di un evento che è patrimonio dell’umanità, è semplicemente straordinaria, frutto di fede limpida e lungimirante.

La costruzione dell’arca (6,13-22) è narrata secondo lo schema comando (vv.13-21) –

esecuzione (v.22), tipico del sacerdotale ed è vista come il tempo della “crisi”, cioè della

divisione, poiché con l’arca alcuni pochi si salveranno e tutti gli altri periranno. Questo

tempo diviene, nel NT, figura del giorno escatologico (cf Mt 24,37-41), ma è anche lo

spazio della “pazienza” di Dio (“quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di

Noè, mentre si fabbricava l’arca…”: 1Pt 3,20). L’arca è “tebah” in ebraico, termine usato ancora solo in Es 2,3.5 per designare il cesto di giunchi nel quale fu esposto Mosè: con un mezzo insignificante Dio compie cose grandi. Viene così istituito un parallelismo tra Noè e Mosè: entrambi scampano l’umanità dalle acque. I LXX traducono l’ebraico con “kibotòs” che poi ricorre per designare l’arca dell’alleanza in Es 25-40, quasi a suggerire che lo strumento di salvezza per Noè è misteriosamente il luogo della presenza di Dio. Che, infatti, l’arca abbia un significato recondito lo dicono non tanto le misure (che sono esorbitanti: 135 x 22 x 13 mt circa; cf 6,15), quanto la sua strutturazione interna che deve preservare la distinzione tra le specie degli animali e tra animali puri e impuri (6,16-7,5), ma anche il particolare di 7,16b (“Il Signore chiuse la porta dietro di lui”) che non è soltanto un bello antropomorfismo, bensì soprattutto il segno della premura e della paterna benevolenza di Dio. Pertanto l’arca, più che richiamare la nave, è una sorte di immagine galleggiante dell’arca dell’alleanza collocata nel santuario. La verità sottostante è stupenda: l’autore sacro, che ha ben presente il significato forte dell’arca dell’alleanza, vuole insinuare che Dio non sta altrove durante il cataclisma del diluvio, sta nell’occhio del ciclone, misteriosamente accanto ai suoi eletti, attraversa con loro la dura prova necessaria per salvare l’umanità. Pertanto il centrale “ricordo” di 8,1 va visto non come episodico, bensì come una sollecitudine continua da parte di Dio per Noè, la famiglia e tutti gli animali, menzionata al momento opportuno.

Riguardo al diluvio vero e proprio, a p.42 ne abbiamo accennato modalità e durata. Per

rendersene personalmente conto è necessario leggere di seguito i versetti delle singole

tradizioni: si constaterà come esse risaltino con ogni evidenza. Che il diluvio sia provocato

da pioggia torrenziale per 40 giorni (tempo di prova, ma sfociante nella salvezza, secondo

la simbologia di questo numero), come pensa la trad. J, o sia un subitaneo ritorno al caos per

l’improvviso rompersi delle cateratte (richiamo a Gen 1,6-9) come preferisce la trad. P, esso

è sempre una “anti-creazione”. Esso ammonisce che la terra non è eterna: come è iniziata

così può finire, naturalmente a causa della malvagità dell’uomo. Il seme della speranza,

però, non muore: fra tutto questo caos “rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca”

(7,23b). Un piccolo resto (il verbo “sha’ar” lo richiama) sarà sufficiente a Dio per

continuare la storia della salvezza.

La stessa economia del racconto è significativa: la relazione sullo scatenarsi del

diluvio è piuttosto contenuta (7,6-24), mentre grande enfasi è dedicata alla descrizione del

graduale placarsi di esso e al recupero della terra purificata e asciutta (8,2-14), all’uscita di

Noè dall’arca (8,15-22) e al nuovo ordine del mondo (c.9). Si direbbe che tutto il ciclo

(cc.6-9) indugia il tempo indispensabile sulla punizione ed è tutto proteso al rinnovamento

del mondo, che è il vero significato del diluvio.

Dopo il fragore spaventoso delle acque, la calma e la graduale ripresa della vita. Tutto

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parte dal “ricordo” di Dio: 8,1 è il perno di tutto il racconto, come si è detto. Il “ricordare”

comporta il prendersi cura delle persone e delle situazioni, ed esprime magnificamente la

continua sollecitudine di Dio per i suoi eletti.

Ritorna quindi il movimento di creazione nei vv.1b-2a: Dio “fa passare” sopra la terra il vento (ruah come in 1,2) e l’acqua che defluisce permette all’arca di posarsi si monti dell’Ararat, da prendersi non certo in senso locale, quanto come indicazione dei monti più alti che si conoscevano. I vv.6-12 non sono soltanto una bella costruzione artistica dello jahvista (i tre invii ogni 7 giorni in sapiente crescendo): siccome protagonista è la colomba (”yonah” in ebraico) e nell’AT essa rappresenta il popolo d’Israele, si vuole insinuare che il popolo eletto non trova riposo che nella terra promessa. Inizia un mondo nuovo (ecco il motivo del comando di prolificare riguardante gli

animali: 8,17) e riprende anche l’economia sacrificale: con il sacrificio offerto Noè

riconosce che Dio è il padrone della terra e della vita, e Dio accetta l’omaggio (“ne odorò la

soave fragranza”: v.21, altro forte antropomorfismo) e promette di non distruggere più

l’uomo con il cataclisma del diluvio (v.21), ma di favorirlo con l’avvicendarsi armonico

delle stagioni (v.22, con quadruplice copia che dice la totalità della natura e delle sue leggi)

Questa promessa è il reale centro d’interesse del racconto del diluvio: la Bibbia, si direbbe, non è tanto interessata al diluvio che si è verificato, quanto alla promessa che non ci sarà più un diluvio. Gli ebrei non sono un popolo marinaro ed hanno istintivo terrore per le acque abissali che circondano la terra (cf 1,7). Questa promessa è per loro fondamentale ed amano sentirsela ripetere. Essa è un elemento che, invece, manca nelle narrazioni babilonesi: gli dèi, pur contenti che il diluvio sia terminato, non promettono nulla all’uomo, cosicché l’umanità vive sempre nella paura che il castigo possa ripetersi.

Dio, si direbbe, è addivenuto a più miti sentimenti (se si vuol rispettare

l’antropomorfismo adottato dall’agiografo): è disposto a limitare le esigenze della sua

santità in vista e a motivo della misericordia, del perdono e della grazia, “perché l’istinto del

cuore umano è incline al male fin dalla sua adolescenza” (v.21a): constatazione molto

realistica (“Voi siete cattivi”, dirà Gesù in Mt 7,11), con la quale capiamo che Dio ha

perseguito il suo scopo: con il diluvio ha scampato l’umanità dall’autodistruzione.

Ma con il diluvio (sembrerà paradossale!) abbiamo un’immagine di Dio dai contorni più precisi. Abbiamo constatato la condiscendenza di Dio nei confronti dei progenitori (cf 3,15). Ora questa condiscendenza risalta attraverso il paradosso: all’inizio la collera di Dio contro il peccato include l’annientamento con catastrofi colossali che egli promette con proposito truce, diremmo (cf Gen 6,7): alla fine la preservazione della terra è una meraviglia della sua bontà (cf 8,21-22). C’è stata sì una purificazione dell’umanità, ma c’è stata anche una “conversione” (!) di Dio a più miti consigli di fronte alla fragilità della sua creatura. Dio si va modificando lungo l’imperversare del diluvio (ecco il ruolo del “ricordo” in 8,1) e ne esce un Dio pieno di misericordia e di tenerezza. Duplice lo scopo di questo ciclo: attraverso un mito presentare l’esigenza di una umanità perfetta davanti a Dio e l’assicurante verità che Dio non può conservare a lungo la collera. Tutto questo, naturalmente, è spiegabile attraverso le espressioni antropomorfiche necessarie all’Israele dell’esilio, ma efficacissime anche per l’uomo d’oggi e di tutti i tempi.

L’umanità dunque, profondamente purificata, non raggiungerà più i picchi di perversione

antecedenti la prova. Siccome Dio è fedele alle sue scelte, la storia continuerà con questa

umanità e Dio si adatterà alla debolezza dell’uomo, non perché costui ne approfitti per

disimpegnarsi (purtroppo lo farà molto spesso!), ma perché appunto questa storia

avvincente continui con riprese sempre pervase di slancio e di fiducia. A quale scopo? Ma

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questa è la vita!..., la vita come Dio l’ha inventata. Ed ecco allora che la storia riprende con

nuovo vigore (cf 9,1-17).

Questo brano, che chiude il ciclo del diluvio, comprende due sezioni: vv.1-7 (inclusione sul verbo “moltiplicarsi”) e vv.8-17 (inclusione su “alleanza”). Noè è “benedetto” da Dio come lo fu Adamo e riceve di nuovo il comando di moltiplicarsi (cf 1,29-30). Ma l’ordine primitivo non può ritornare completamente: “timore e terrore” regoleranno ormai i rapporti con gli animali, non più il pacifico possesso. Si è rotto il rapporto positivo con essi: Dio ne prende atto e permette ormai all’uomo di cibarsi degli animali (cf invece 1,29); ma di essi l’uomo non sarà padrone assoluto perché deve guardarsi dal sangue, considerato sede della vita. Pur abilitato a cibarsi degli animali, l’uomo non è padrone della loro vita: la vita di ogni essere è esclusivo dominio di Dio (v.6;cf Lv 17,10-14)! Questa proibizione del sangue, è tanto importante che Dio la estende dall’animale all’uomo, inaugurando la “legge del sangue” (vv.5-6), usanza praticata dagli antichi semiti: “Non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue” (v.4). Vita traduce nefesh che indica la realtà profonda di un essere vivente: non mangiare il sangue, dunque, comporta l’accogliere l’altro nella sua individualità, nella sua intimità rinunciando alla violenza distruttrice. Norme incisivamente inculcate, fondate sulla legge del contrappasso, tese a limitare la vendetta ad oltranza praticata da Lamech. Il senso della proibizione del sangue è il rispetto e la tutela della vita in ogni sua espressione. Paradossalmente la trasfusione del sangue sostiene e favorisce proprio la vita: ogni interpretazione letteralistica è così spazzata via. Da questi versetti i rabbini hanno dedotto le cosiddette “leggi noachiche” che riguardano tutta l’umanità prima e fuori della rivelazione (teniamo presente che Noè non è visto come un israelita!). Esse sono sette (stabilire la giustizia, non maledire la Divinità, rigettare l’idolatria, astenersi dall’incesto, dall’omicidio, dal rubare e dal sangue); sono accessibili ad ogni essere umano e rendono possibile a tutti loro il conseguimento della salvezza. Non abbiamo forse in questo passo la giustificazione per sviluppare il celebre tema della relazione fra ebrei e non ebrei (cristiani e non cristiani) in ordine alla salvezza?

I vv.9-17 sono la solenne conclusione del ciclo del diluvio e in particolare della sua

parte positiva iniziata da 8,1: la promessa è sancita da un’Alleanza (9,9), che va considerata

come unilaterale, cioè pura grazia di Dio (in ebraico c’è la formula “qûm berît”, ripetuta 2

volte nei vv.9.11, che denota l’iniziativa di un solo partner nell’alleanza) e il cui segno (ogni

alleanza ne ha uno!) è l’arcobaleno (9,12-l7). Per questo essa è un’alleanza “eterna”

(vv.12.16). L’arcobaleno rimanda all’esperienza comune: alla tempesta segue la quiete, la luminosità multicolore.

L’arco nel cielo è una contrapposizione alle raffigurazioni pagane che immaginano gli dèi muniti di arco e frecce nell’atto di scagliarle sulla terra. Dio invece depone l’arco sulle nubi (v.13), annunciando un’era di pace, e pertanto l’arco di guerra e di offesa è trasformato dalla Bibbia in arco di pace e in auspicio di vita: stagliandosi sull’azzurro intenso dopo la pioggia, esso è fonte di rinnovata speranza e gioia.

Il ciclo del diluvio, dunque, ha ispirazione ampiamente positiva: rivela l’ansia che

agita Dio (per parlare antropomorficamente) di rompere con il passato e di ripartire con

un’umanità nuova e definitiva.

Qualche altra considerazione teologica sul ciclo del diluvio è opportuna per cogliere

meglio la portata positiva dell’evento. Si ricordi che il complesso narrativo di Gen 6-9 appartiene quasi totalmente al tempo dell’esilio in Babilonia, tempo di gravi interrogativi sul futuro d’Israele: è la fine di tutto, questa catastrofe? No, infatti come dal diluvio Dio ha salvato Noè e la sua famiglia per dare inizio ad una nuova storia, così si può sperare che anche ora Dio abbia lo stesso atteggiamento nei confronti del suo popolo. D’altra parte Dio ha avuto dei ben precisi motivi per punire l’umanità (la sua totale depravazione), contrariamente a quanto dicono i miti babilonesi circa il comportamento degli dei. Colpa e grazia sono i due grandi fili che raccordano il lontano passato al doloroso presente. Il diluvio è mosso dalla speranza delusa di Dio (cf Gen 6,6): egli si aspettava ben altra umanità, benché i segni di degrado andassero aumentando dopo la ribellione iniziale di Gen 3. Annientare questa umanità? Ciò avviene solo in parte, infatti Dio lascia in vita Noè. Di fronte ai superstiti che escono dall’arca Dio ammette che l’uomo è malvagio “fin dall’adolescenza” (8,21) e allora, nella sua infinita

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misericordia, ne prende atto e gli accorda delle facilitazioni: gli concede come cibo gli animali purché egli riconosca che Dio è padrone della vita. Dio continua a credere nella dignità e nel valore della vita dell’uomo (cf 9,6). Due i poli che dominano nel ciclo del diluvio: la grazia di Dio e la giustizia di Noè. Di Noè Dio si fida e ne accetta sacrificio (cf 8,20-21): questo significa che se Dio mai si rassegnerà al peccato, accetterà però un mondo nel quale c’è il peccato. Il diluvio è stato presentato come una de-creazione: quando Dio ritira la mano tutto ripiomba nel caos. Quella creazione che è il capolavoro divino si ribella a Dio ed egli deve disciplinarla con le acque abissali, le quali sono il segno dell’indispensabile giudizio di Dio riguardo al male. Ma queste acque sono anche positive: l’asciutto riemerge col calare delle acque come esso era emerso con la divisione delle acque in Gen 1,9. Dalle acque, dunque, può scaturire la morte ma può nascere anche la vita. Questa duplice valenza delle acque sta al fondo di Gen 1; Gen 6-9 e Es 14 (passaggio del mare): in tutti e tre gli eventi agisce il vento (ruah: Gen 1,2;8,1b;Es 14,21b) e le acque mosse dal vento sono portatrici di distruzione (del male) e di vita (per la terra, per Noè e per Israele nell’esodo). Il Dio della creazione è il medesimo Dio dell’esodo: la creazione d’Israele salvato dalle acque attraverso il mare dei Giunchi è paragonabile alla creazione dell’universo in Gen 1 e alla sua ri-creazione in Gen 9. Il vertice teologico del ciclo del diluvio risiede in Gen 9,1-17 e questo testo sta in stretta relazione con Gen 1: all’atto creatore iniziale corrisponde un analogo atto ri-creatore quando Dio decide unilateralmente di non distruggere più l’umanità. Questa sua volontà è sancita dall’alleanza, il cui segno è l’arcobaleno. La tradizione sacerdotale conosce due alleanze: questa con Noè e discendenti e quella con Abramo in Gen 17, mentre non conosce quella del Sinai (di tradizione deuteronomistica). Entrambe queste alleanze sono “alleanza eterna” (9,16;17,7): non dipendono cioè dalla legge (Sinai), ma soltanto dalla promessa incondizionata di Dio. La storia di Israele comincia con l’alleanza di Dio con Abramo (Gen 17), ma questa si fonda sull’alleanza che Dio ha prima stabilito con tutto il creato (Gen 9). Non si può proprio dire che la storia delle origini sia una storia di caduta: è piuttosto una storia di salvezza. Questo lo si comprende ancor più efficacemente se si considera che cosa sia realmente cambiato con il diluvio. Non è cambiata l’umanità: questa è stata punita per la sua malvagità, ma dopo il diluvio Dio promette di non innovare la catastrofe perché riconosce che l’uomo “è incline al male fin dalla giovinezza” (8,21b) e che la creazione è ormai turbata dalla violenza (9,2-4): Dio accetta ormai l’umanità com’è e ricomincia con essa una storia rinnovando solennemente l’alleanza. Ma è proprio Dio che è cambiato con il diluvio! All’inizio egli vorrebbe fare “tabula rasa” dell’umanità (6,7) come giudice inflessibile. Al termine invece lo vediamo ricondotto a più miti consigli e guarda all’umanità con compassione e amore, proprio come aveva fatto all’inizio della creazione. Dio cambia idea, si fa vincere dalla compassione e dalla misericordia, e non ha paura di perdere in stima da parte dell’uomo con questo benefico “voltafaccia”. C’è un testo profetico molto attinente all’argomento: Is 54,7-10 che rilegge la tradizione del diluvio per annunciare la salvezza di Gerusalemme. Dio potrebbe distruggere il creato, ma non lo farà mai perché “ai giorni di Noè” ha giurato di non distruggere la terra: ebbene, altrettanto farà con Gerusalemme, anzi con essa stipulerà un’ alleanza di pace” (v.10), cioè un’alleanza piena, come fu quella con Noè. Ci sono poi le riletture di due autori sapienziali: Sir 44,17-18 e Sap 10,4 ribadiscono la lettura del diluvio sotto l’aspetto salvifico più che punitivo. Lettura che continua nel NT: cf Eb 11,7;1Pt 3,18-21;2Pt 3,4-13. Concludiamo il ciclo del diluvio con la constatazione che se esso ha, in sostanza, un

messaggio positivo, questo si rivolge direttamente al popolo dell’epoca dell’esilio. Se infatti

il mondo è sopravvissuto alla catastrofe del diluvio, sopravviverà anche Israele alla

distruzione della nazione. Ma questo sarà possibile soltanto per la grazia di Dio che “si

ricorda” d’Israele come si è ricordato di Noè. Ci dovrà, però, essere anche il contributo del

popolo, ed esso si sostanzierà nel culto: il culto autentico che si sta organizzando nella

comunità postesilica è gradito a Dio come lo fu il sacrificio di Noè appena uscito dall’arca

(8,20-22); esso sarà condizione di nuova esistenza per Israele. Grazia divina e iniziativa

umana collaboreranno per la prosperità di questo popolo.

Rimane il problema della violenza che ha invaso l’universo. Ad esso risponde la

permissione che Dio ha dato all’uomo di uccidere gli animali per cibarsi (9,2-3): la violenza

ormai si eserciterà contro gli animali, non contro l’uomo. Ma siccome Dio accetta il

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sacrificio di animali puri (8,20), l’atto violento contro gli animali è ritualizzato e pertanto

socialmente accettabile e legittimo. Una violenza di questo tipo non è più distruttiva, bensì

atta a pacificare la società.

2.2.5 L'umanità post-diluviana (cc.10-11). Conclusa la prova purificatrice del

diluvio, l’umanità riprende il suo cammino che l’autore sacro riferisce ancora in modo sche-

matizzato nei cc. 10-11.

Una premessa è costituita dalla pericope in 9,18-29 (Noè e i suoi figli) di impronta

jahvista (solo i vv.28-29 sono sacerdotali). Non è un episodio folkoristico, ma non è

neanche facile precisarne la funzione. Sembra che, precedendo la tavola della diffusione dei

popoli, esso voglia sottolineare che la continuità di una nazione può essere assicurata solo là

dove il rispetto per la generazione precedente sta alla base dei rapporti parentali.

Noè, “coltivatore della terra” (v.20a), riprende l’esperienza di Adamo nei confronti del suolo. La vite, frutto tipico dell’area mediterranea, è un prodotto ambiguo: può portare all’ubriacatura (cf Pr 23,29-35; Sir 31,25-31), ma è anche un simbolo delle gioie della vita (cf Qo 10,19; Sir 40,20) e caratterizza i tempi messianici (cf Is 65,21; Ger 31,5…). Il peccato di Cam (v.22), è controverso: forse non consiste soltanto nella mancanza di rispetto per il padre (che pure è peccato gravissimo perché attenta alla dignità della persona umana, tanto più se questa è il capo di una comunità: cf 2Sam 6,20), ma ancor più nel tentativo di carpire le fonti della vita tramite lo sguardo cupido alla nudità del padre. L’errore di Cam è ancora più grave perché egli pensa di indurre anche i fratelli a fare altrettanto narrando loro la “cosa” (v22b). Il castigo è l’esatto contrario delle mire di Cam: la sua discendenza sarà duramente soggetta a quella dei fratelli (“Schiavo degli schiavi”). Che si parli di Canaan e non di Cam significa che l’agiografo tiene presenti i cananei del suo tempo, continuo inciampo per la fede del popolo, ma ad esso ormai soggetto. La maledizione/benedizione di Noè inaugura la serie delle benedizioni dei patriarchi (cf cc.27.49) che, essendo parole efficaci di un capostipite, si realizzano nei discendenti. Si rinnova anche il principio della selezione già intravisto: maledetto Cam per il suo rapporto sbagliato con il padre, e asservito Jafet a Sem, Noè benedice quest’ultimo da cui uscirà Abramo, e pertanto l’agiografo va preparando il terreno alla discendenza che uscirà dal Patriarca.

Messaggi principali: subito abbiamo la prova di quanto Dio ha constatato, che cioè l’umanità “è inclina al male fin dall’adolescenza” (8,21b). Il figlio che tenta di rompere il rapporto naturale con il padre tenta anche di dissolvere la relazione dei fratelli tra di loro e quella con il padre. In Gen 12-50 si registrano rapporti disturbati fra Isacco e Giacobbe, tra Giacobbe ed Esaù e tra Giuseppe e i fratelli. Ma quando Giuseppe si riconcilia con i fratelli, allora sarà possibile a costoro ricuperare il loro essere figli dell’unico padre, Giacobbe. Il tentativo di Cam, inoltre, può anche significare la ricerca di realizzarsi senza distinzioni e senza limiti: accettare infatti di derivare da un altro comporta il riconoscere di far parte di un consesso umano ben preciso che pone dei limiti ai propri desideri e pretese. Quello di Cam è dunque un tentativo di autonomia sulla scia di quello dei progenitori (Gen 3), e come questo anche il suo gesto ha conseguenze negative sulle generazioni successive.

I cc.10-11 chiudono la “storia delle origini” ed hanno lo scopo di agganciare Abramo e la

sua discendenza a Sem, figlio di Noè; essi sono in parallelismo con Gen 5 che funge da

raccordo tra il ciclo di Adamo e il ciclo di Noè. In questa prospettiva è interessante notare

come la genealogia non parta seguendo l’ordine di età dei figli (Sem, Cam, Jafet), ma parta

alla rovescia: Jafet, Cam, Sem. Questo per accentuare la stirpe di Sem e accentrare

l’attenzione su questa, da cui discenderà Abramo. La tavola presenta 70 popoli e quindi sta

ad indicare la totalità dei popoli della terra (70 è un multiplo di sette che indica totalità e

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pienezza), quasi a dire che tutte le nazioni della terra sono benedette in Abramo e in lui

chiamate a partecipare al progetto di salvezza di Dio. Così risulta evidente lo schematismo

dell’agiografo (cf pp. 41-42 per i tre “poli” del libro di Genesi). L’autore non sa nulla del

tempo che intercorre fra questi poli, ma non gliene importa neanche: gli interessa invece

istituire un “continuum” di generazioni e si serve della genealogia per realizzarlo. Di fronte

alla genealogia del c.10 (più che rispetto a quella del c.5) va precisato che essa ha lo scopo

di collocare una determinata famiglia o un determinato popolo nel grande alveo dell’intera

umanità mediante delle relazioni solidali; infatti la difesa dell’identità propria non può

prescindere dal riconoscimento e accettazione dell’identità altrui. Ed ancor più che quella

del c.5, la genealogia del c.10 è singolare: non si riferisce ad una famiglia qualsiasi, bensì

alla famiglia umana in quanto tale (le si possono accostare le genealogie di 1Cr 1-9 che

riguardano tutto un popolo, Israele). Il flusso ordinato e solenne di generazioni tipico di Gen

5 continua anche in Gen 10: medesima è infatti la fonte.

Il c. 10 è quasi tutto dovuto a P, con inserzioni J (vv.8-19. 21.24-30), come anche il c.11 (vv.10-32). Al centro, con funzione di vero spartiacque, si colloca un brano J, l’episodio della torre di Babele (11,1-9). Più che parlare di due fonti parallele, oggi si preferisce pensare ad un testo essenzialmente “sacerdotale” (P) con aggiunte “jahviste” (J). La “tavola dei popoli” nel c.10 fornisce un quadro genealogico strutturato secondo

criteri storici e geografici: i figli di Jafet popolano l’Asia minore e le isole del Mediterraneo,

quelli di Cam i paesi del Sud (Egitto, Etiopia e Arabia), nel mezzo si collocano i figli di

Sem (elamiti, assiri, aramei e antenati degli Ebrei). E’ un quadro dipendente dalle

cognizioni geografiche dei secc.VIII-VII presso gli ebrei, tendente a dimostrare l’unità dei

popoli, pur sparsi su tutta la terra. Termini come “figlio” o “generare” spesso non vanno

presi in senso stretto (talvolta soggetto del generare sono i popoli). In Gen 10 abbiamo il

fondamento dell’universalismo biblico.

Orientamento di fondo: P vede il popolamento della terra come un fatto positivo; è il

compimento della benedizione a Noé in 9,1: il “disperdersi sulla terra” (cf 10,32) ha,

dunque una portata positiva. La prospettiva sacerdotale, infatti, è universalistica: il Dio

d’Israele è l’unico Dio e quindi tutti i popoli della terra sono in qualche modo apparentati

formando una grande famiglia di popoli non livellati, bensì integrati nel concetto di

solidarietà. Questa visione universalistica non può che essere postesilica, affine, nello

spirito, al messaggio del Deuteroisaia e di Ezechiele.

Ma quale scopo hanno le aggiunte “jahviste”? Esse introducono nel flusso solenne delle generazioni secondo P delle puntualizzazioni “semitiche”, che cioè alludono a Israele (i vv.21.24-30 si diffondono sul ceppo noachico che risale a Sem); se poi si aggiunge che nei vv.15-20 viene dettagliata la mappa di tutte le famiglie cananee nel loro territorio, la finalità sembra la seguente: Israele fa parte dell’umanità (P), ma si distingue specificamente dai cananei, suoi nemici per antonomasia (J). Israele subirà continui pericoli, nella purezza del suo monoteismo, da parte delle popolazioni cananee e si vedrà spesso rimproverato dai profeti di collusione con esse. Nella “tavola dei popoli”, mentre esso si considera parte integrante dell’umanità, vuole

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affermare anche una sua estraneità rispetto a Canaan. Forse è un modo per incoraggiare a mantenere le distanze a difesa della propria identità religiosa; è come se gli israeliti dicessero che i loro rami genealogici risultano divaricati rispetto a quelli dei cananei già all’inizio della nuova umanità post-diluviana! Possiamo evidenziare, nella lista, il primo nome personale: Nimrod (vv.8-19-2: J). Egli è degno successore di Caino, costruttore della prima città (cf 4,17): egli “fu il primo a divenire potente (ghibbôr) nella regione” (v.8), il fondatore dei più vasti imperi che l’autore conosca al suo tempo (vv.10-11). La serie degli imperi è aperta da Babele: di là parte la “colonizzazione” operata da Nimrod nella terra di Assur: viene così prefigurato l’ultimo quadro della storia delle origini, Babele.

Il brano della torre di Babele (11,1-9), è la lettura, molto vivace, di stampo jahvista,

che sviluppa il tema riguardante il popolamento della terra. La pericope è ambientata nella pianura attorno a Babilonia dove erano numerose, già nel secondo millennio, le ‘ziggurat’, torri a gradini a scopo astronomico e cultico. Il racconto nasconde due tradizioni legate insieme dal redattore, come palesano alcune ripetizioni: la duplice finalità della costruzione nel v.4, la duplice discesa di Dio (vv.5.7), le due azioni (confusione e dispersione) con un duplice effetto. Non c’è logica narrativa tra il c.10 e l’inizio del c.11: se i popoli si sono dispersi su tutta la terra, come mai ora li vediamo radunati tutti “in una pianura nel paese di Sennaar” (11,1b)? Si passa da una tradizione all’altra con il consueto criterio di conservare quanto è significativo. Si può però anche scorgervi una logica teologica. Dio ha voluto il popolamento di tutta la terra (c.10); gli uomini hanno disubbidito tenendosi uniti per imbastire il tentativo di costruire una “città e una torre, la cui cima tocchi il cielo” (v.4) Si può scorgere anche qui, in sottofondo, la mentalità pagana che pensa a un dio che ha paura degli uomini e cerca di dividerli, mentre questi si oppongono e pensano di “farsi un nome” (v.4) con le loro costruzioni portate avanti con uno sforzo comune. E’ il tentativo “prometeico” di raggiungere il livello della Divinità, di essere legge a se stessi: si ripete il dramma del peccato originale. Il paradigma di questo tentativo è la città di Babilonia, simbolo per la Bibbia della strapotenza e arroganza umane, sfruttando l’etimologia popolare (Babel da “balal” = confondere). Ma Dio “scese a vedere la città…” (v.7). Punta ironica: quei monumenti che paiono tanto possenti sono nulla per Dio che deve avvicinarsi per scorgerli! Un’esegesi più attenta, però, oggi fa emergere un messaggio ulteriore da questa pagina. Le parole iniziali letteralmente suonano: “Tutta la terra era un labbro unico e parole uniche”: questo aggettivo è inteso da un midrash come parole “sigillate”, chiuse. E allora il dialogo dei vv.3-4 è in realtà un monologo assolutistico che non attende risposta: è il linguaggio della propaganda, strumento della dittatura e della demagogia. Nei documenti mesopotamici spesso ricorre l’espressione “un solo labbro”, “parole uniche”, in particolare nei documenti imperiali assiri, per designare la soppressione di ogni ribellione: siamo all’omologazione tipica del regime dittatoriale. I vv.3-4 possono essere considerati come critica dell’imperialismo mesopotamico. Quando i monarchi orientali conquistavano un regno e raggiungevano l’apice del potere costruivano una nuova capitale o ne adattavano una esistente in modo che esprimesse la loro potenza: una città con nel mezzo una “torre”. Si noti che il testo non privilegia unicamente la torre: questa è menzionata assieme alla città e poi nel v.8 essa non compare nemmeno. Siccome il vocabolo “migdal” significa “torre fortificata”, fortezza, si può pensare ad una città possente con nel mezzo una fortezza inespugnabile (parallelo significativo in Gdc 9,46-52). La dicitura “la cui cima tocchi il cielo” è iperbolica, ne indica l’imponenza (cf Dt 1,28;9,1). La situazione iniziale allora sarebbe la seguente: l’umanità si presenta in situazione di falsa unità (non coltiva l’autentico dialogo), determinata ad esercitare un dominio assoluto che abbia come segno una città dalle proporzioni colossali. Dio viene a distruggere questo progetto. L’interpretazione tradizionale non va scartata, ma forse le va premessa quella recente: l’umanità attenta a Dio non perché vuole (almeno esplicitamente) scalare il cielo, ma perché tenta di instaurare un regime assolutistico in cui è impossibile ogni dialogo e l’alterità. La costruzione della città con la torre in mezzo è un dato negativo per la tradizione J (come già con sospetto era stata vista la costruzione della città da parte di Caino in 4,17), perché la grande città qui immaginata è ostacolo alla vera fraternità e al dialogo (il villaggio è l’ideale per l’autore jahvista). L’unità linguistica non è quindi positiva perché serve ad instaurare un regime prepotente e totalitario e a progettare il disegno sovrumano di scalare il cielo: l’eterna illusione d’onnipotenza e di eternità. Non penso che si debba eliminare un’interpretazione a favore di un’altra. “Scalare il cielo” è espressione iperbolica per significare il “farsi come Dio” (l’eterna tentazione!): e questo si pensa di realizzarlo con una città colossale chiusa in una omologazione totale. La “confusione delle lingue” dunque non costituisce una semplice punizione: significa l’intervento necessario di Dio che, disperdendo le genti, le salva dalla depressione della dittatura e le spinge “su tutta la terra” perché si impegnino a ricercare l’unità attraverso un cammino di dialogo e di convergenza. E’ per esse l’attuazione del progetto che Dio ha perseguito fin dall’inizio, quando Egli dialogava con Adamo nell’Eden e quando gli ha dato la donna per avere un partner di comunione. L’uomo ha bisogno di alterità: a Babele si tenta di negarla e allora Dio spinge l’uomo in un cammino che partendo da un positivo pluralismo porti verso la comunione. Il c.10 esprimeva la positività della varietà delle lingue e delle razze, come si è detto sopra: con il suo intervento Dio impedisce che questo ideale vada in frantumi e pronuncia un verdetto

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inappellabile contro ogni tentativo storico di totalitarismo. Il cammino verso la comunione perfetta di una umanità dalla multiforme varietà sarà il percorso continuo dei popoli: esso avrà una pienezza a Pentecoste con il dono dello Spirito Santo (At 2: l’anti-Babele), a significare che la vera unione nella differenza delle culture e delle lingue è dono di Dio (“li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”). Ma questo non esime l’umanità dal cominciare davvero questo cammino nella pluralità verso l’unità. Ecco come si inserisce a questo punto la storia di Abramo. Il tentativo di Dio di impegnare l’umanità a formare una comunità di popoli rispettosa della diversità comincia proprio là dove Dio ha dovuto confondere le lingue: Abramo proviene da quella stessa regione (Ur dei Caldei). La chiamata del patriarca può essere considerata come l’inizio di questo itinerario: con accanto Dio amico sollecito e non antagonista, Abramo è chiamato ad aprire questo cammino verso l’unità, di cui tutta la Bibbia sarà testimonianza. Una volta giunto nel paese che Dio gli ha indicato Abramo si troverà a confronto con la seduzione di un’altra città, Sodoma: da essa Abramo non si farà contagiare (al contrario di Lot: cf Gen 13,10-11), mentre sperimenterà i benefici della benedizione di Melchisedek re di Salem, cioè di Gerusalemme, la città che, nonostante le sue tante infedeltà, mai sarà ripudiata da Dio e diverrà la dimora di Dio con gli uomini in un’alleanza eterna: “egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suoi popoli” (Ap 21,3: si noti il plurale!). In questa “Gerusalemme celeste” le diversità di popoli e di culture non saranno abolite, bensì concorreranno a quella pace che solo l’alleanza con Dio renderà possibile. La prospettiva che si apre dal brano della torre di Babele non può essere qualificata come semplice utopia: il cammino dell’umanità verso la città della pace è possibile e si snoderà pian piano, nella misura in cui uomini e donne si apriranno a una scelta di comunione dove le alterità e le peculiarità non saranno soppresse, bensì armonizzate e rese attive con l’aiuto del Dio creatore della ricca varietà delle genti e unico artefice della loro comunione.

Potrebbe essere più ricca e consolante la portata salvifica della pericope della torre di

Babele considerata nella sua ampia traiettoria rivelatoria? Eppure nella dinamica narrativa e

teologica di Gen 1-11, essa, secondo l’agiografo, segna il culmine del deterioramento

progressivo dell’umanità: dopo la purificazione del diluvio la storia dell’umanità primitiva

dà nuovo (e si direbbe, ineluttabile) principio alla ribellione in continuità con l’umanità

prediluviana. E’ giunto il momento di una svolta inevitabile, svolta che, però, si verifica

sempre nel segno imprevedibile della Misericordia: Dio non decide di abbandonare

l’umanità a se stessa, bensì di scegliere da questa umanità disgregata Abramo e a lui, e per

mezzo di lui a tutti i popoli, dare finalmente un “nome grande” (12,2b, opposto a 11,4). Dio

non sceglie qualcuno per far scomparire tutti gli altri, ma perché tutti ricevano benefici

attraverso l’uno.

Così l’ultimo spezzone di Gen 1-11 va ormai decisamente verso Abramo. La lista dei

patriarchi post-diluviani (11,10-32) lo dimostra chiaramente: è come un sommario di

apertura alla storia di Abramo.

Essa comprende due parti: la lista vera e propria (vv.10-26) e la discendenza di Terach (vv.27-32), entrambe introdotte da “toledot” (genealogia), termine tipico di P. L’elenco dei patriarchi nei vv.10-26 registra nove anelli genealogici ed è il seguito di quello del c.5; di esso riprende gli elementi principali, mentre evita di presentare la somma dell’età prima e dopo la nascita del primo figlio e tralascia la formula finale “poi morì”. E’ chiara la volontà di sottolineare che la vita fiorisce dopo il diluvio. Ma la differenza maggiore sta nella drastica riduzione dell’età dei patriarchi postdiluviani (fra i 200 e i 600 anni); in essa va visto il segno non tanto di una minore fedeltà a Dio, quanto degli effetti lasciati dal diluvio. Questa età, anche se più breve, sembrerebbe contraddire Gen 6,3 (120 anni), ma tale discordanza rivela semplicemente una diversità di tradizione. L’ultimo anello della genealogia è Terach, padre di Abram (v.26), il personaggio cui essa manifestamente tende. La discendenza di Terach (vv.27-32) introduce la prima parte della storia di Abramo; è infatti richiamato il suo ambiente di origine, la cui menzione vuole rispondere alla domanda del perché i padri sono venuti ad abitare in Canaan. Infatti Ur dei Caldei è soltanto il punto di partenza (vedi sopra) di una storia che si svolge altrove. In realtà la famiglia di Terach sperimenta Ur dei Caldei come una terra di morte. Aran morì “alla presenza di suo padre”, cioè prematuramente, dopo aver generato Lot (v.28); Sara, la moglie di Abramo, “era

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sterile e non aveva figli” (v.30). Non è più possibile vivere in una terra di morte e di sterilità: è necessario cercare una terra più adatta per la vita della famiglia, per questo Terach esce da Ur verso Carran. Vedremo fra poco come questa migrazione possa spiegarsi storicamente mediante situazioni sociali verificabili per quel tempo e per quella zona. Ma agli ebrei del tempo dell’esilio interessa maggiormente il dato teologico: Abramo si distaccherà dal suo clan per obbedire alla voce del Signore, quando il padre Terach aveva 145 anni e vivrà ancora 60 anni (cf 11,26.32;12,4b). Ora Abramo avrà davanti a sé solo il Signore e nessuna sicurezza umana: in questa situazione del proprio capostipite Israele comprenderà il vero significato dell’esilio in Babilonia: esso è come un nuovo inizio sotto il segno della fedeltà del suo Dio, non una catastrofe irrimediabile. Sottolineiamo con enfasi, infine, la doppia menzione di Ur dei Caldei e quella di Carran, città finalmente identificabili: dalla metastoria si passa alla Storia (biblicamente intesa)!

3. Conclusioni su Gen 1-11

1. Queste note permettono forse di vedere il primo grande blocco di Gen nella sua luce

più autentica. Lo possiamo considerare come il tentativo grandioso, operato nella

prospettiva della fede, di rispondere alle eterne domande dell’uomo: donde deriva

l’universo? qual è l’origine dell’uomo? perché il male?... L’agiografo non ne sapeva più di

noi sul piano storico. Solo la fede lo ha ispirato a formulare delle risposte chiare e perenni,

servendosi di un patrimonio culturale e religioso molto cospicuo al suo tempo. Miti e

leggende mediorientali vanno considerati, nella prospettiva della storia salvifica, come

propedeutici nel disegno eterno di Dio, come strumenti offerti all’autore sacro per formulare

risposte risolutorie nella fede. Cosicché Gen 1-11 può essere visto come un “breviario”, o

un manuale nel quale non solo Israele (che vi cerca le risposte alla tragedia dell’esilio), ma

tutta l’umanità può riscoprire le sue autentiche origini, avendo l’agiografo coronato i

tentativi reiterati dell’umanità di darsi delle risposte utilizzando il meglio delle tradizioni

popolari che tali tentativi avevano prodotto.

2. Vogliamo aggiungere ancora qualche spunto che può favorire una comprensione più

precisa di questi capitoli iniziali in una visione teologica d’insieme mediante l’apporto delle

singole tradizioni che li hanno prodotti. Illustreremo la risposta che esigono domande di

questo genere: qual è la comprensione globale della tradizione J circa l’umanità primitiva?

E come si diversifica, o che cosa aggiunge, la proposta della tradizione P? Il tentativo di

risposta è possibile soltanto a livello generale.

Se la storia delle origini è stata formulata sulla scia della storia patriarcale, come precisato

ad inizio di sezione, Gen 1-11 ne costituisce il prologo (abbiamo rilevato i molteplici legami

tra le due parti di Gen). Ora, per J, Abramo è chiamato da Dio a “diventare una

benedizione”: in Gen 12,2-3 il tema della benedizione è preminente (cf p. 60) ed invece

esso è assente nella storia delle origini, almeno come “benedizione divina”. C’è una

58

Page 58: Genesi

situazione di non-benedizione, di non-salvezza che però l’umanità anela a superare: ciò che

avverrà con i Patriarchi, e quindi con Israele.

Si può fare il paragone con la lettera ai Romani: l’umanità (pagani e giudei) vive sotto il dominio del peccato (Rm 1,18-3,20): soltanto Cristo porterà a tutti giustificazione e salvezza (Rm 3,21-8,39). E non a caso Paolo introduce due grandi personaggi della trad. J: Adamo in 5,12-21 e Abramo nel c.4. La storia delle origini tende a Gesù nuovo Adamo e in Lui, tramite la fede (vedi Abramo), la “benedizione” passa a tutte le genti.

Vedremo, nel libro di Esodo, come la vicenda del popolo di Dio sia modellata sullo

schema dell’Alleanza, a significare che Dio è generoso con Israele se esso è fedele al patto:

Gen 2,4b-3,24 (trad. J) ha, in sottofondo, il medesimo schema di alleanza, ma anche qui

invertito. Infatti è posta in rilievo l’iniziativa di Dio che crea con amore e progetta una vita

di comunione con i progenitori nell’Eden. Questi sono chiamati a rispondere con la

coltivazione del giardino e il rispetto per l’albero della conoscenza del bene e del male;

l’autore J vuol dire, in sintesi, che la pienezza della vita è a disposizione dell’uomo purché

questi riconosca la sua condizione di creatura dipendente da Dio: queste sono le linee

fondamentali dell’alleanza primordiale. Ma l’esito è infausto: l’uomo non rispetta il patto

mangiando il frutto per “essere come Dio” e perde la comunione con Dio e il paradiso.

Tutto quanto segue della trad. J è dimostrazione di un’alleanza rinnegata: Caino e la sua

discendenza, il diluvio, la torre di Babele.

Al tempo di Salomone, quando si formula questa tradizione, si viveva un momento positivo, anzi florido, della vita nazionale: la lunga storia dell’alleanza instauratasi al Sinai tocca ora la piena realizzazione. La meditazione sul fallimento dell’umanità primitiva intende, però, mettere in guardia sulla possibilità del fallimento: gli estensori della storia primitiva sembra che non conoscano questo fallimento; di esso, però, si comincia ad avere qualche avvisaglia e alla fine del regno di Salomone si verificherà in pieno.

L’ingresso dell’uomo nella storia avviene nel segno del no a Dio; l’umanità inizierà il suo

cammino priva della presenza di Dio che essa ha rifiutato. E questo sta ad ammonimento

della storia futura del popolo di Dio: là dove Dio è rifiutato, Egli non può farsi presente, ne

andrebbe di mezzo la libertà dell’alleanza. Ma là dove Dio non c’è perché non voluto, lì si

snoda una storia irta di difficoltà e costellata di infedeltà, come il cammino del popolo di

Dio da Salomone in poi dimostra, ma prima ancora ha dimostrato la vicenda dell’umanità

primitiva dal peccato dei progenitori a Babele.

Nonostante tutto, però, il progetto espresso dallo javista è positivo. Egli è l’uomo dei

“ricominciamenti”: avventura che ricomincia con l’inimicizia fra la Donna e il serpente

(Gen 3,15), con Enosh donato “al posto di Abele” (4,25), con Noè che trova grazia agli

occhi del Signore (9,26), con l’umanità dispersa a Babele che attende di essere riconvocata

in ekklesìa e che in Abramo comincia ad intravvedere la realizzazione di questo progetto:

questa “chiesa” rinverdirà il progetto del paradiso/Eden prefigurato, lungo la storia

d’Israele, dalla “terra che Dio gli indicherà” (12,1b), dalla “terra buona e vasta… dove

scorre latte e miele” (Es 3,8). Il futuro messianico ha i colori dell’Eden (cf Is 11,6-59

Page 59: Genesi

9;35,9;65,23-25). Gesù è il nuovo Adamo dell’Eden (Mc 1,12) che riapre il paradiso al

peccatore pentito (Lc 23,43) e ai martiri (Ap 6,9-11), in attesa del Paradiso escatologico

(Ap, cc.21-22). Veramente il vasto arco del progetto divino riguardo all’uomo inizia con le

intuizioni dell’autore J, che può essere definito come il “teologo della storia della salvezza”

(G.von Rad), come nel NT lo sarà l’evangelista Luca.

Qual è la visione della trad. P in queste medesime pagine? Egli esordisce con un “canto”

alla creazione (Gen 1,1-2,4a), che è considerata come un cosmo ordinatissimo assimilato

alla perfezione del tempio di Gerusalemme recentemente perduto (questa tradizione infatti

sorge durante l’esilio): di questa creazione l’uomo è “sacerdote” e il sabato l’appuntamento

religioso che tiene uniti e offre identità agli israeliti in esilio, presso i quali è mantenuto

vivo il ricordo della Terra immaginata come un cosmo perfetto. Ma anche la trad. P conosce

l’infedeltà dell’umanità, sottolineata dall’età decrescente dell’uomo: da 900 a 700 anni

prima del diluvio (Gen 5), da 600 a 200 dopo il diluvio (Gen 11,10-26), tra 80-70 anni

attualmente (cf Sal 90,9-10). Questo perché l’uomo che dovrebbe camminare con Dio come

Enoch e Noè (cf 5,22-24;6,9), “ha pervertito la sua condotta sulla terra” (6,11-12), e

pertanto peccato e corruzione uccidono la vita: ecco il diluvio, “la fine di ogni uomo”

(6,13a). Ma sorge subito dopo il diluvio un’umanità nuova (cf 9,1-17) che si propagherà

sulla terra come segno di un rinnovato rapporto con Dio (c.10, col quale si ha il passaggio

dal mito e dalla preistoria alla storia).

Quale nuova lettura risulta di questi capitoli con la scelta del redattore finale di conservare

entrambe le tradizioni intrecciandole l’una all’altra (solo nel ciclo del diluvio le fonde

assieme)? Si ha un’ulteriore chiave di lettura di questi capitoli.

“Per esempio, Gn 2 suona adesso come ulteriore sviluppo della creazione dell’uomo e della donna, che P inseriva nel più ampio contesto della creazione cosmica, a coronamento della medesima. Inoltre, la storia della caduta J in Gn 3 ormai non può essere più interpretata senza riferimento al ’molto buono’ di P in Gen 1,31. La stessa rilevanza cosmica del diluvio in P (ritorno al caos primordiale, che rende necessario un nuovo inizio) acquista significato e spessore ulteriori, se letta nel contesto della storia narrativa del peccato nello J, da Adamo alla generazione del diluvio.

Ancora. Per il redattore che compone la sua sintesi nel dopo-esilio, la ‘storia delle origini’ appare chiaramente come il prologo non solo del Pentateuco ma dell’intera storia d’Israele. Il popolo eletto, avviato faticosamente dopo l’esilio alla sua ricostruzione, trova in quelle pagine la fede nel suo compito particolare dentro il concerto della storia universale, storia di peccato e di salvezza insieme.

Per noi cristiani, infine, Gn 1-11 diventa il prologo di tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento. Luca, nella sua ‘genealogia’ di Gesù (Lc 2,23-38), risale fino ad Adamo, fino a Dio; il disegno salvifico esplode in tutta la sua universalità: ‘Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio’ (Lc 3,6). Gen 1-11 acquista il suo pieno significato alla luce del grande epilogo di Ap 21-22, là dove la storia del popolo di Dio sbocca di nuovo nella storia universale del mondo e dell’umanità”. (V.Mannucci, in “Parole di Vita” 1979/3, p.32, che ha ispirato questo paragrafo).

Una sintesi teologica telegrafica di Gen 1-11? Il progetto positivo sull’umanità non

sfugge di mano a Dio a causa delle reiterate infedeltà: queste sembrano ineluttabili (Adamo

nel c.3, Caino e suoi discendenti nel c.4, gli uomini del diluvio in 6,1-4, Cam in 9,20-23, 60

Page 60: Genesi

Babele in 11,1-9) ed hanno un carattere di estrema gravità, essendo sempre un tentativo di

“diventare come Dio” facendosi norma a se stessi. Dopo ogni necessario castigo Dio riparte

con fiducia con la medesima umanità, o meglio con un “resto” di essa. Mai il Dio fedele

rinnega il suo disegno d’amore, bensì lo rinnova con interventi che, nonostante le

apparenze, hanno lo stampo della sua misericordia e della sua fedeltà.

Gen 1-11, considerato globalmente, adempie egregiamente il compito introduttorio che

gli compete: così veramente è iniziato il dialogo fra Dio e l’umanità. Abbiamo detto che la “storia delle origini” è di stampo sapienziale, ma questa è una sapienza “narrativa”: Dio istruisce il suo popolo con il fascino del racconto, lo coinvolge con il movimento delle scene drammatiche che si susseguono senza interruzione, lo interpella con quadri di vita paradigmatici. Si lascerà “catturare” Israele da questa pedagogia divina? Essendo lo sfondo vitale di Gen 1-11 il periodo dell’esilio babilonese e il postesilio, possiamo rispondere senz’altro affermativamente. Ma è opportuno ricordare, lasciando questa prima e fondamentale sezione della Bibbia, che essa è fatta per ciascuno di noi e per ogni tempo, essendo essa il criterio che Dio ci affida per gestire davanti a lui la nostra esistenza. Questo è vero, in realtà, di ogni pagina della Scrittura: Gen 1-11, pagina iniziale, lo ricorda con rara efficacia.

II. I P A T R I A R C H I (Gen. 12 – 50) Molteplici sono gli indizi di una frattura fra i due complessi letterari di Gen 1-11 e di Gen

12-50, come anche gli indizi di una continuità fra di essi. Fra i primi il più ovvio è quello

della comparsa di personaggi protagonisti di una storia singolare ed articolata come sono i

Patriarchi. Fino a questo momento di fronte a Dio stava l’Umanità come gruppo omogeneo (Adamo, Caino, Noè... sono prevalentemente degli archetipi con valenza esemplare per l’umanità). D’ora innanzi Dio elegge delle persone che gli stiano di fronte con una storia personale, articolata e definita. Esse, pur avendo ancora un alto valore esemplare e tipico (ma quale personaggio biblico non l’ha?!), divengono protagonisti di una vicenda avvincente e ben definita: scompaiono i soggetti generali di specifico valore simbolico (l’uomo, i figli degli uomini, gli uomini…) ed emergono persone singole alle quali si indirizza esclusivamente, in Genesi, la Parola creatrice di Dio.

Si passa, inoltre, dalla “storia delle origini” (qualifica di un tempo iniziale, quanto vasto e circoscritto sfugge persino all’agiografo!) alla “storia patriarcale”, la quale, pur non ancora in possesso dei caratteri della posteriore storiografia biblica, colloca i protagonisti in un segmento di tempo ormai in qualche misura individuabile. Ma il contrasto più significativo va ricercato a livello teologico, cioè nella portata

profonda dell’agire di Dio. La storia delle origini ha dimostrato che l’umanità risulta

invincibilmente malata a causa del suo peccato inarrestabile (cf cc.4-11): essa è

profondamente peccatrice e incapace di distogliersi dal male. Dio dà inizio ad una nuova

fase della medesima storia riversando sull’eletto le sue benedizioni (cf 12,2b). L’umanità

aveva tentato di “farsi un nome” (11,4): è invece soltanto Dio che “renderà grande il nome”

di Abramo (12,2c). Pian piano si constata come in Abramo si concentrino tutte quelle 61

Page 61: Genesi

caratteristiche positive che Dio aveva tentato vanamente di rendere operanti nell’umanità .

Infatti Abramo e gli altri Patriarchi operano un ribaltamento nel rapporto con Dio: quanto

l’umanità è risultata recalcitrante alle iniziative divine, tanto i Patriarchi, ognuno a proprio

modo, darà una risposta generosa agli appelli di Dio. Il contrasto a questo livello profondo,

tra le due parti di Genesi, non potrebbe essere più radicale.

Parliamo di “nuova fase” della storia e non di nuova storia, perché Dio è fedele alla sua

creatura e non la rinnega, anzi proprio all’umanità è intesa la scelta di Abramo e d’Israele.

Molteplici sono anche i motivi del collegamento fra i due blocchi, offerti da

significative continuità e discontinuità. La continuità è data palesemente dalla conclusione

del c.11 (vv.27-32), dove si elenca la discendenza di Terach dalla quale proviene Abramo:

si assiste al graduale restringersi delle generazioni fino al solitario emergere sulla scena di

un solo individuo, Abramo, pronto per gli ulteriori sviluppi di una storia particolare. Questo

personaggio, però, sta sullo sfondo dell’Umanità.

I due cicli, inoltre, sono segnati, specialmente nel loro avvio, dalla Parola creatrice di

Dio: come essa ha tratto all’esistenza l’universo e l’uomo (c.1), così ora crea Abramo come

adoratore di Dio e capace di stare di fronte a Lui per allacciare un dialogo d’alleanza. La

Parola ha sempre un particolare risalto all’origine delle grandi epoche della storia della

salvezza.

Per quanto riguarda la composizione letteraria, ricordiamo che le tradizioni su

Abramo e i Patriarchi sono le più antiche: per dilucidare il tema delle origini del popolo

d’Israele esse scoprono Abramo come il capostipite (cf p.12).

Molto complesso risulta l’itinerario compositivo e anche qui recenti studi tendono a ridisegnare il quadro classico riguardante la formazione delle storie dei Patriarchi. Si può, comunque, affermare che esso tiene ancora molto bene e anche se si dovesse concedere maggior peso ad un più determinante intervento redazionale post-esilico (queste le nuove posizioni), l’itinerario formativo delle tradizioni conserverebbe le medesime tappe (cf p.11). La gran parte del materiale ha una veneranda antichità: si è andato formando presso i santuari tribali premonarchici (come Betel, Sichem, Mamre, Silo…) e sembra ben sistemato organicamente già verso il secolo X a.C. (trad. J); integrazioni significative (trad. E) arricchiscono gradualmente i racconti. Il materiale a disposizione della trad. P risulta omogeneo (c’è stata la fusione JE al tempo di Ezechia) e sembra che i responsabili di questa tradizione si siano limitati a riprodurlo, interrompendolo o modificandolo quando necessario, per inserire armonicamente i loro specifici contributi. Sarà da specificare meglio nella presentazione dei singoli cicli.

La culla delle più antiche tradizioni patriarcali sono, senza dubbio, gli arcaici santuari

sorti sulla memoria di un patriarca: sono i luoghi concreti che distinguono ormai la storia

patriarcale da quella precedente. Questa osservazione introduce alla questione della storicità

di questi racconti.

Grande era, nei tempi passati, la sfiducia nella dimensione storica dei Patriarchi: li si accostavano ai miti lunari babilonesi, o alle divinità cananee declassate in antenati per legittimare l’usurpazione del paese di Canaan, o a mitici fondatori di santuari cananei del tutto leggendari… Le scoperte archeologiche nell’antico vicino Oriente hanno posto un argine a queste ipotesi. Dalla metà del secolo XIX la Mesopotamia (e specialmente la cosiddetta “mezzaluna fertile”) è stata sottoposta al setaccio archeologico: è ritornata alla luce una serie di testi e di documenti che forniscono sorprendenti paralleli con i costumi sociali e giuridici dei

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patriarchi, e che pertanto sottintendono una civiltà abbastanza caratterizzata. Alcuni studiosi recenti minimizzano questi paralleli, ma essi vanno registrati e adeguatamente valorizzati, pur se è da precisare il ruolo dell’archeologia in questo settore. L’archeologia può gettare luce sull’ambiente in cui sono inserite le narrazioni, ma non è in grado di dimostrare se esse siano vere o siano leggende infondate; può dire solo che si raccontavano storie del genere e che sembrano narrazioni attendibili. Con queste precisazioni, sintetizziamo alcuni risultati offerti dalle scoperte archeologiche. I patriarchi appartengono al ceppo degli amorrei, come provano i loro nomi tipicamente semitico-occiden-tali. I nomi di Abramo e Giacobbe hanno riscontro nell’onomastica amorrea. Ma pur amorrei, essi si rifanno etnicamente al ceppo arameo (cf Dt 26,5: “Mio padre era un arameo errante”); e testimonianze degli aramei risalgono fino al 2000 a.C. Usi e costumi matrimoniali e familiari dei patriarchi, risultanti da una mescolanza di elementi nomadici e sedentari, hanno trovato riscontro nei documenti coevi venuti alla luce. Oggi non si può negare che la vicenda di questi Uomini di Dio sia storicamente ben più delineata che in passato, dal momento che la scienza (archeologica soprattutto) ha fatto rivivere un ambiente che spiega tante pagine di Gen. L’archeologia assegna Abramo al bronzo medio (1900-1600 a.C.), un’età molto evoluta per i commerci e le manifatture, come provano le ceramiche rinvenute che sono di egregia fattura. I Patriarchi sono vissuti, dunque, in un’epoca caratterizzata da notevole progresso sociale ed economico e da scambi commerciali che hanno portato a trasmigrazioni e fusioni di tribù di origine diversa. Su questa non del tutto sfumata fisionomia storica dell’epoca patriarcale è bene insistere anche per apportare un altro criterio di differenziazione fra i due blocchi di Gen, differenziazione che si realizza ad un livello duplice: a livello storico (non più storia delle origini, bensì storia dai contorni meno incerti) e a livello storico-salvifico (dalla storia generale della salvezza, l’umanità di Gen 1-11, alla storia particolare della salvezza: i patriarchi e poi il Popolo di Dio).

Il discorso fin qui fatto sull’ambientazione e la “storicità” dei patriarchi va, però,

confrontato con le nuove ipotesi esegetiche che già abbiamo riscontrato a proposito di Gen

1-11. Esse, in sostanza, negano la possibilità di precisare l’epoca di questi personaggi,

poiché usi e costumi patriarcali menzionati nei loro cicli non possono essere ascritti ad

un’epoca ristretta, bensì è possibile vederli in vigore almeno lungo tutto il secondo

millennio a.C. Per di più, anche a proposito dei Patriarchi prevale oggi la tendenza a leggere

ed interpretare la loro esperienza religiosa alla luce dell’esilio babilonese e delle condizioni

della comunità israelitica postesilica. Ritorneremo sull’argomento nelle conclusioni.

Ricordiamo subito, però, l’ammonimento di un grande esegeta: “Se la fede storica d’Israele non è fondata nella storia, questa fede è erronea, e la nostra anche. Intendiamoci bene: non si tratta, qui come altrove, di ‘provare la Bibbia’, né di ‘provare la fede’: si tratta di dare alla nostra adesione di fede dei motivi ragionevoli, di mostrare come la cornice storica nella quale la Bibbia situa la rivelazione di Dio si giustifichi all’occhio dello storico (R. De Vaux).

NB: Gli appunti che seguono, d'ora in poi saranno più sintetici: più che seguire i testi passo passo, offriremo alcune tracce per interpretare le unità di testo e i blocchi letterari della Bibbia in maniera globale. Nostro intento sarà quello di far emergere una chiara e netta linea storico-salvifica che ci permetta di considerare la tradizione storica nel suo lineare sviluppo.

1. Il ciclo di Abramo (cc. 12,1 - 25,18)

Le tradizioni che intervengono nel ciclo di Abramo, delineano ciascuna a proprio modo

il protagonista. La trad. J inserisce il patriarca nella dialettica fra promessa e compimento e

nel tema della benedizione: la benedizione è come una forza che irrompe nella stirpe di

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Abramo e sfocia nel popolo. Abramo è modello di vita religiosa e morale. E’ questa

tradizione che conferisce al ciclo di Abramo, come ai seguenti, la configurazione di storia

familiare e popolare con profonda caratterizzazione religiosa. La trad. E, che è presente in

modo frammentario, idealizza il patriarca visto come il prototipo dell’uomo giusto (cf 15,6,

testo capitale del ciclo) e timorato di Dio (cf c.22). La trad. P fornisce solo alcune notizie

topografiche e biografiche (cf 11,31; 12,4) e fa di Abramo un modello di vita per l’Israele

esilico e post-esilico: “Sii integro” è il programma esaustivo di una vita dedita a Dio nel

quadro dell’Alleanza (cf 17,1; il capitolo è tipico della trad. P).

Si può circoscrivere questo ciclo sotto tre prospettive principali.

1.1. Chiamata e risposta. Abramo vive da poco a Carran, dove si era trasferito da

Ur dei Caldei al seguito del padre Terach (cf 11,31). Egli è adoratore degli dei della sua

tribù, eppure viene raggiunto dalla chiamata diretta e personale di Dio, una chiamata che

non ammette repliche: “Vattene dal tuo paese... verso il paese che io ti indicherò” (12,lbc).

Egli è il primo di una ininterrotta serie di chiamati da Dio.

Siamo al punto in cui la storia della salvezza si aggancia alla storia dell’umanità primitiva, uno dei più importanti dell’AT. Dio rivolge la sua Parola ad una persona singola ed instaura un dialogo d’alleanza che non avrà più fine. Abramo non ha alcun titolo per meritare questa elezione. La convinzione della gratuità dell’elezione sarà uno dei cardini della teologia biblica (cf Dt 7,7-8; Rm, c.4). Israele ha la chiara coscienza di non appartenere alla terra di cui ha il possesso e di esservi entrato in un determinato periodo della sua protostoria, come fanno intendere alcune formulazioni di carattere liturgico (cf Dt 6,21;26,5-9). Sconosciuta è anche la modalità della rivelazione personale di Dio: il racconto inizia dal vivo, senza preamboli, in maniera molto incisiva secondo lo stile di J, cui appartengono quasi esclusivamente i cc.12-13. Abramo deve lasciare paese, patria e casa: tre termini che designano tre realtà che restringono gradualmente la sfera dei legami affettivi e progressivamente aggravano il peso del distacco. Egli deve lasciare il certo per l’incerto con una fede totale (lo sottolinea Eb 11,8).

Dio innanzitutto chiede perentoriamente: “Vattene...”; segue la promessa: “farò di te

un grande popolo”. Come sia avvenuto il contatto di Dio con Abramo non è specificato: c’è

il tramite della parola (“Il Signore disse ad Abram”). Al v.7 “il Signore apparve ad Abram e

gli disse”: c’è un contatto misterioso che sostiene la parola, mentre al v.1 la nuda parola

funge da tramite, ed essa ha quindi maggior rilievo ancora. La “benedizione” nei vv.2-3 non

è un semplice augurio: essa, provenendo da Dio, significa una realtà concreta di bene che

riempie la vita del giusto (cf Dt 33,23). Ma va anche detto che essa è già un problema,

poiché la promessa di una discendenza numerosa è fatta a colui che già conosce la sterilità

di Sara sua moglie (cf 11,30): si pone subito quindi un problema! Questi versetti comunque

hanno molto rilievo sia per la loro estensione che per l’accuratezza della struttura.

Sembra intenzionale la loro scansione in sette elementi (1. farò di te un grande popolo; 2. e ti benedirò; 3. renderò grande il tuo nome; 4. e diventerai una benedizione; 5. benedirò coloro che ti benediranno; 6. coloro che ti malediranno maledirò; 7. in te saranno benedette tutte le famiglie della terra). I grandi favori che Dio accorderà ad Abramo (elementi 1.3.5 e 6) si alternano alla progressiva espansione della benedizione di Dio (elementi 2.4.7). Va sottolineata la prospettiva escatologica dell’espressione “un grande popolo”. Questa

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prospettiva di escatologia messianica, già attiva al tempo di David e Salomone (il periodo della trad. J cui appartengono questi versetti), risuona particolarmente nel contesto esilico e postesilico, cioè nel tempo di rinascita e dell’apertura universalistica di Israele.

Abramo sarà fatto un “grande popolo”, avrà da Dio un “nome grande” (evidente

l’opposizione 11,4) e sarà talmente benedetto da diventare una benedizione personificata

così da essere strumento di benedizione per tutti i popoli. La promessa, sebbene articolata e

ricca, è proiettata su un futuro incerto; Dio ripeterà spesso la promessa (12,7;13,15-

17;15,5.18;17,4-6.16;18,16-18), ma essa tarda a realizzarsi, mentre adesso incombe

l’urgenza dell’obbedienza nel distacco radicale: “Vattene...”. La richiesta comporta una

decisione immediata e radicale: “Allora Abramo partì come gli aveva ordinato il Signore”

(v.4a). La risposta si risolve in un’esecuzione che sconvolge l’esistenza dell’eletto e della

sua famiglia (vedi la sottolineatura dei vv.4b-5, di stampo sacerdotale). Gen 12,1-4a è una meditazione sul mistero della Parola creatrice di Dio non meno efficace di quella del

c.1: ora Dio crea l’uomo nuovo con la sua chiamata. Non si può, infatti, pensare ad Abramo, lui politeista, come fedele seguace di un Dio personale, se non supponendo l’attività trasformatrice della Parola divina. Nel momento in cui Dio chiama crea: sta qui l’unicità della sua Parola. L’irruzione della Parola distoglie Abramo dai culti tradizionali e lo concentra soltanto su Dio in una relazione esclusiva e personalissima, modello per ogni discendente. Si può istituire una bel paragone con la chiamata dei quattro discepoli di Gesù in Mc 1,16-20. Gen 12,1-3 rappresenta una svolta radicale non solo nella storia personale di Abramo, ma anche nella visione della storia generale della salvezza.

Ormai Dio è entrato nella vita dell’eletto e questa dipende completamente da tale

relazione. Dio ha mostrato una terra del tutto nuova e sconosciuta, Canaan; Abramo vi

giunge con tutta la famiglia percorrendo l’itinerario classico, all’interno della cosiddetta

“mezzaluna fertile, di chi dalla Mesopotamia si recava in Egitto. In Canaan Abramo si

stabilisce inaugurando un genere di vita del tutto nuovo (cf cc.12-14).

La vita di Abramo e dei Patriarchi offre caratteri tipici di nomadismo: vita sotto la tenda, nelle vicinanze di pozzi, migrazioni stagionali (in Egitto, ad esempio), forte legame tra i membri, cura per conservare la purezza della stirpe mediante matrimoni tra consanguinei, responsabilità collettiva, magnificenza di ospitalità, l’istituto dell’adozione... Però nella loro vita compaiono elementi affini a quelli tipici della popolazione della Mesopotamia, cosicché si può pensare che i patriarchi pratichino un genere di vita seminomadico.

La Bibbia mediante la descrizione delle lunghe peregrinazioni di Abramo sottolinea

questa nuova condizione dell’eletto: esse non sono soltanto manifestazioni consuete in

uomini di un tempo aperto alle trasmigrazioni attraverso la “mezzaluna fertile”, bensì

conseguenza di una guida interiore esercitata dalla Parola di Dio. I gesti più significativi che

Abramo compie (cf cc.15.16.18.22) sono tutti una risposta all’iniziativa di Dio sullo schema

della prima chiamata. E’ chiaro come Dio voglia Abramo in un genere di vita nomadico:

“Alla tua discendenza io darò questo paese” (12,7), non a te! Abramo deve restare sempre

un nomade, un pellegrino, uno straniero!

Difatti il suo sarà sempre un peregrinare : da Betel, al Neghev, in Egittto, in Edom… Di suo avrà soltanto una caverna che fungerà da tomba per la moglie (Gen 23) e poi anche per lui (25,9-10). E’ la condizione di ogni vero chiamato, quella di non avere altri che il Signore come unica eredità, e Abramo la inaugura alla grande (diremmo). D’altra parte Dio sarà tutto per Abramo: costantemente lo accompagnerà, gli rinnoverà le promesse e lo ammetterà in una stupenda familiarità, tanto che il patriarca può essere definito come “amico di

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Page 65: Genesi

Dio” (Is 41,8;Dn 3,35;Gc 2,23).

La fecondità del nuovo corso della storia della salvezza la si misura sulla figura di

Abramo: la storia dell’umanità primitiva era stata un continuo tentativo da parte di Dio di

allacciare un legame solido con la creatura, ma senza grandi risultati: Abramo permetterà a

Dio di vedere esaudito quel desiderio per cui l’uomo era stato creato: entrare in comunione

con la creatura. C’è voluto uno “strappo” iniziale, una chiamata autorevole e una risposta

altrettanto decisa: con la persona singola è più agevole anche per Dio istituire una relazione

trasformante.

1.2. Fede e Alleanza. Quanto la tradizione sulla chiamata è essenziale e breve,

tanto è ricca quella sulla fede. Il patriarca vive ormai in un’altra dimensione, e l’agiografo

lo dimostra subito nel c.13 con l’efficace paragone tra Abramo e il nipote Lot. Nel momento in cui i due debbono separarsi, Abramo lascia scegliere al nipote la terra, e questi opta per

quella che è più fertile e allettante (la valle del Giordano), mentre Abramo si accontenta di quella più arida, poiché confida in Dio. Lot ha preferito una vita facile che lo condurrà pian piano alla disfatta e ad un esito inglorioso (cf c.19), mentre Abramo si vede rinnovare subito le promesse di prosperità e di numerosa discendenza (13,14-17).

Ma è una fede vissuta da un uomo, e il racconto non esita ha mostrarne le titubanze e le incertezze. Gli stratagemmi di Abramo registrati in 12,10-20;16,1-4; 20,1-5, il riso di scetticismo in 17,17; 18,12 (riso di Sara)… mostrano un uomo in cui la fede talvolta si eclissa. L’iniziale risposta generosa a Dio non esclude i disorientamenti e gli oscuramenti, ma è anche evidente il progresso: la fede si irrobustisce progressivamente in Abramo e d’altra parte la dilazione dell’adempimento della promessa mira proprio a questo traguardo.

Dio si fida del suo “amico” che ancora vive momenti di palese umanità e gradualmente

lo introduce in un rapporto sempre più stabile, rappresentato dall’Alleanza dei cc.15 e 17

(quanto è significativo che in mezzo ci sia il c.16 che descrive il tentativo umano di Abramo

riguardo al sospirato erede!). L’introduzione all’alleanza è costituita da una esplicita

affermazione della fede di Abramo: dopo la rinnovata promessa di Dio (cf 15,3.5), egli

“credette al Signore che glielo accreditò come giustizia” (v.6). E’ l’affermazione più importante del ciclo di Abramo e determinante nella storia della salvezza: con essa

si assicura che il patto non è imposto, bensì liberamente accettato. “Credere” traduce il verbo “’aman” che comporta l’adesione totale di una persona nei confronti di un’altra. “Abramo credette, cioè si rese solido della solidità stessa di Dio, partecipò alla sua solidità e fermezza” (S.Lyonnet). Abramo capitola totalmente di fronte a Dio, senza condizioni gli accorda totale fiducia e partecipa della saldezza di Dio (cf Is 7,9b). Dio ac-credita questa adesione sul conto di Abramo (“giustizia” significa qui il comportamento ‘giusto’ o adeguato dell’uomo verso Dio, di colui che fa la volontà di Dio fino in fondo). Il gesto del Patriarca è del tutto gratuito: non comporta ‘attività’ in accezione corrente, bensì apertura e vuoto interiore, possibilità offerta a Dio di intervenire e dispiegare la sua iniziativa. E’ da questo testo che parte ogni discorso sulla fede nella Bibbia e da qui deriva la qualifica di Abramo come nostro Padre nella fede. Eb 11,8-10 riflette profondamente sulla fede di Abramo. Nel giudaismo intertestamentario, cioè nella copiosa letteratura ebraica al di fuori della Bibbia canonica (come Giubilei 24,11; Antich. giud. 1,10, 3) la fede di Abramo è considerata come azione meritoria secondo la logica della mercede. L’apostolo Paolo in Gal 3,6ss e Rm 4 scalzerà completamente questa concezione e farà di Abramo il prototipo dell’uomo giustificato, cioè salvato, mediante la fede che non è “azione”, bensì svuotamento e disponibilità per Dio.

La fede, per Abramo, è la strada diretta per entrare in Alleanza con Dio: essa è, infatti,

adesione di obbedienza personale a Dio e per essere tale esige necessariamente la stabilità.

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La Bibbia, per designare questa relazione interpersonale che scaturisce dalla fede e per

conferirle un valore normativo per tutti i tempi, usa la categoria dell’Alleanza. Del valore

dell’alleanza nella storia della salvezza abbiamo già detto (cf pp.3-4). Essa è stata già

adottata al termine del diluvio con Noè (cf Gen 9,1-17), ma siccome quella che Dio stipula

con Abramo è la prima alleanza personale e “storica”, è utile collocarla nell’ambiente suo

specifico. La realtà dell’Alleanza è nota e praticata nel Medio Oriente fra i secoli XIV-VIII a.C.: è un ge nere speciale di patto che regolava le relazioni fra i popoli, ed in specie fra un signore e i suoi vassalli, ed includeva i seguenti elementi: a. un preambolo con i nomi dei contraenti; b. un prologo storico che rievocava i benefici del signore nei confronti del vassallo; c. le condizioni imposte al vassallo; d. le clausole per la conservazione del patto e per la sua periodica lettura; e. l’invocazione dei testimoni (in genere gli dèi); f. benedizioni e maledizioni, a seconda che si osservino o si infrangano le clausole... Israele conosceva molto bene questo genere di patto, vivendo fra popoli che lo praticavano normalmente, ed ha scelto di designare con esso le relazioni che lo legano a Dio. Alleanza è, dunque, la forma espressiva immediatamente accessibile della relazione permanente fra Dio e Israele. Essa avrà piena formulazione al Sinai (cf Es 19-24), ma già con Abramo (e prima ancora con Noè) è adottata in gran parte delle sue componenti strutturali.

Quella con Abramo è la prima alleanza personale e la fonte di tutte le successive

formulazioni di alleanza con le quali Dio legherà a sé Israele. L’alleanza è preceduta, in

15,7, dall’ennesima promessa di una terra e di una discendenza lunga e numerosa, ed è

formulata con un cerimoniale di stampo arcaico (la fonte è J con aggiunte da E nei vv.13-

16).

La modalità di Alleanza che segue (vv.9-12) potrebbe apparire strana: seguendo un rituale arcaico, testimoniato fra i popoli medioorientali (come a Mari), Dio comanda ad Abramo di prendere degli animali, di dividerli e di collocare distanziate le due parti l’una di fronte all’altra. Pian piano il sole declina e il Patriarca entra in un misterioso torpore (i sensi sono sospesi e Dio agisce, come è accaduto nel caso di Adamo: Gen 2,21); egli è assalito anche da un “oscuro terrore”, tipico di chi si trova all’improvviso davanti alla Divinità (lo “spavento” prenderà anche i tre apostoli nella Trasfigurazione: cf Mc 9,6). E Dio parla ad Abramo preannunciando il destino futuro dei discendenti e la sua stessa sorte: sarà una storia che Dio guiderà infallibilmente (vv.13-16). Ma questi versetti sono un’inserzione su una trama originaria. Il vero interesse della nostra pagina riposa sulla scena finale (vv.17-21). Tramontato il sole e fattosi buio fitto, “ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi” (v.17). Il modo con cui si esprime l’inizio del v.18 (”In quel giorno il Signore…”) chiarisce che in quei simboli è rappresentato Dio stesso. Dio è fuoco ardente (cf Es 3,2;19,8;24,17), un simbolo che gli si addice mirabilmente se si riflette su tutta la storia della salvezza. Dio, passando tramite questi simboli attraverso le parti divise degli animali, s’impegna con giuramento imprecatorio a favore di Abramo e dei suoi discendenti. E’ il rito cosiddetto “apotropaico”, nel quale il contraente invoca maledizioni divine su se stesso qualora egli sia infedele ai patti: “accada a me come a questi animali se non…”; un giuramento pronunciato passando e ripassando attraverso gli animali squarciati e divisi. E’ una modalità primitiva, come si diceva, e pertanto efficacissima. Ma l’aspetto mirabile sta nel fatto che è Dio solo a passare attraverso gli animali! Questa è un’alleanza unilaterale: Dio dà, s’impegna di fronte a se stesso, per amore, nient’altro che per amore al punto da non volere un’alleanza bilaterale nel primo solenne incontro con Abramo. La formula kārat berît (= tagliare un patto: cf Gen 9,9) la svela esplicitamente come unilaterale. Ora, un’alleanza unilaterale più che esaltare quello che il contraente farà (qui Dio ripete ancora la promessa della terra: cf vv.18-21) concentra l’attenzione sulla natura del contraente. Ed allora constatiamo che una tale alleanza, essendo la prima, esalta l’identità profonda di Dio, che è quella di essere il Dio fedele. Abramo ne deve essere certo. Su di essa poi si innesteranno alleanze bilaterali. Diremmo che Dio quasi rincorre Abramo: il patriarca ha dimostrato tutta la sua fiducia in Dio (cf 15,6); Dio lo assicura dimostrandogli in maniera originale che Egli è la fedeltà per eccellenza. Abramo, dal canto suo, è anch’egli avviato sulla strada di una

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trasformazione interiore. Il timore lo pervade all’inizio (v.1: “non temere”) ed egli mostra difficoltà a vivere la chiamata (cf vv.2.8) La risposta che Dio gli dà concerne la “discendenza” (vv.2-7) e quanto Egli ha già fatto per il Patriarca (v.7), ma poi soprattutto l’alleanza unilaterale subito sancita (vv.9-12) come sopra descritta. Ma si noti che mentre la promessa della terra è rivolta al solo patriarca (v.7) e così egli la interpreta (v.8), al v.18 essa è riservata alla discendenza. È interessante notare che nei cicli patriarcali il dono della terra è promesso al solo patriarca in 13,17; 15,7-8, alla sola discendenza in 12,7;26,4;48,4, o ad entrambi (13,15;17,8;24,7;26,3;28,4.13;35,12). Nella fluttualità dei destinatari va scorto un insegnamento per Abramo. Egli potrà superare il timore se “rinnegherà se stesso” e le sue attese personali per un orizzonte più ampio: nella contemplazione di un futuro nel quale i suoi discendenti verranno in possesso della terra il patriarca supererà la paura e vivrà serenamente l’avventura cui Dio l’ha chiamato. Su queste basi, poste in Gen 15, capitolo fondamentale nella storia di Abramo, l’alleanza avrà un naturale e ricco sviluppo già nello stesso ciclo di Abramo come dimostra il c.17.

In esso quest’alleanza è riformulata in chiave sacerdotale e per questa fonte essa sarà il

punto di riferimento costante, l’alleanza più importante. Essa comporta un progresso:

l’uomo si vede imporre obblighi di perfezione morale (v.1) e un segno esterno di

appartenenza a Dio, la circoncisione (vv.23-27). L’alleanza diviene bilaterale e quindi

piena: c’è un progresso dal c.15 al c.17: ulteriori sviluppi nel c.22.

Gen 17 è un brano che la critica attribuisce alla tradizione sacerdotale del sec.VI a.C. Questa tradizione l’abbiamo già incontrata in Gen 9 sempre a proposito dell’Alleanza: per la nota posteriorità redazionale della “storia delle origini” rispetto a quella della formazione d’Israele, la presentazione dell’alleanza con l’umanità trae ispirazione proprio da Gen 17.

Per cogliere la novità del messaggio che questo passo intende proporre si faccia caso alla

struttura concentrica di tutto il capitolo, al cui centro (vv.9-14) domina appunto il tema

dell’alleanza e del suo segno, la circoncisione. Il vocabolo berît/alleanza ricorre ben 14

volte in questo capitolo e, secondo la mistica dei numeri, vengono sottolineate la pienezza e

la totalità (il 14 è il raddoppio del numero 7). Gen 17 è, per la tradizione sacerdotale, il

“luogo teologico” dell’alleanza. Abramo ha un ruolo fondamentale non semplicemente

perché capostipite del popolo d’Israele, bensì perché è un progenitore chiamato

all’alleanza. Ad essa si ispirerà l’alleanza del Sinai.

Gen 17,1-8 è una solenne presentazione di Dio: Egli si propone come ‘El Shaddai (v.1a), antico nome divino di origine mesopotamica, comunemente reso come Dio onnipotente. E subito la novità della risposta (“cammina davanti a me e sii integro”: v.1b) che fa da premessa agli impegni in seguito specificati. Ma quello che più colpisce in questa prima unità è la reiterata promessa di una numerosa discendenza come ricompensa (ben cinque volte: vv.4.5.6.7.8), quasi ad assicurare che la risposta di Abramo sarà ampiamente ripagata. Infatti va sottolineato prima di tutto che la richiesta di una contropartita da parte dell’uomo di fronte ai grandi impegni che Dio prende nei suoi confronti è indice della considerazione che Dio ha dell’uomo: Dio lo ritiene capace di rispondere in maniera forte ai suoi benefici. D’altra parte il paragone fra il dono di Dio e l’offerta dell’uomo palesa la grande sproporzione esistente fra i contraenti dell’alleanza: pur esigendo una risposta, la dimensione “graziosa” è evidente anche in un’alleanza bilaterale. Tutto e sempre è dono!

Ma qual è la contropartita che Abramo deve nell’alleanza? La circoncisione. Ad essa è

dedicato il resto del c.17. La parte centrale (vv.9-14) espone ampiamente il rito da

osservare. L’esecuzione è ritardata dall’umano dubbio dell’eletto che Dio fuga con una

nuova promessa (vv.15-21). Significativo questo intermezzo: l’alleanza biblica è un patto

non giuridico e freddo, bensì pieno di umanità e di calore. L’uomo è stanco, dopo tanto

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attendere: Dio lo comprende e lo rincuora. E allora è possibile ad Abramo adempiere

fedelmente la sua parte, praticando la circoncisione su di sé e sulla sua casa (vv.23-27).

La circoncisione, che consiste nell’asportazione del prepuzio nel membro maschile, è

dunque il segno che concretizza l’impegno dell’uomo e porta l’alleanza alla sua pienezza.

Questa è una pratica che si perde nella notte dei tempi: forse è dettata da esigenze igieniche

o fa parte di una iniziazione matrimoniale. Praticata già nel periodo monarchico (cf Is 44,7;

Lv 26,41), con l’esilio babilonese essa rappresenta un principio d’identità per Israele:

quando tutto risulta distrutto (la dinastia davidica e il tempio di Gerusalemme), essa diviene

veramente il segno: esso, che risiede nella “carne”, nel centro stesso della vita, è

incancellabile; ogni israelita questo segno dell’imperitura fedeltà di Dio alle promesse lo ha

su di sé, nel centro di se stesso, perché non dimentichi mai. La contropartita che Dio chiede

nell’alleanza, pertanto, non è tanto un’opera autonoma, quanto invece qualcosa che rimandi

alla sua gratuita iniziativa.

In questa luce non si apprezza mai abbastanza la portata profonda della circoncisione per Israele: essa sta sempre a ricordare quanto Dio sia fedele! Ce se ne vergognerà solo quando si apostata da Dio e dalla fede dei padri (cf 1Mac 1,15), ma per essa si sarà pronti anche a morire (cf 2Mac 6,10). Questo intrinseco spessore teologico della circoncisione è spesso richiamato e difeso dai profeti (cf Ger 4,4; Dt 10,16) che inculcano la “circoncisione del cuore”, cioè la disponibilità all’ascolto e alla conversione. Purtroppo anche la circoncisione farà la fine della legge presso gli ebrei: assurgerà a segno di appartenenza etnica e a fonte di falsa sicurezza. Paolo sarà il più fiero oppositore ad un segno ormai svuotato di significato (cf Gal 5,6; Rm 4,1-12). Ma noi dobbiamo valutare la circoncisione alla sua fonte: non v’ha segno più efficace per designare il legame fra i partner dell’alleanza biblica.

Altro segno forte dell’alleanza bilaterale è il cambiamento del nome (il nome determina

la persona, per i Semiti): da Abram in Abraham. In realtà sono due forme dialettali del

medesimo nome (“egli è grande quanto a suo padre, è di stirpe nobile”), ma qui,

popolarmente, Abraham è spiegato, mediante l’assonanza con “ab hamon”, come “padre di

moltitudine”. Il nuovo nome designa Abramo come nuova creatura: egli è ormai tutto di Dio

e il segno della circoncisione testimonia questa appartenenza.

Con l’alleanza si instaura un ordine di grazia, perché niente e nessuno l’ha meritata, e

un ordine stabile ed irrevocabile, in quanto legato esclusivamente alla parola di Dio e alla

sua fedeltà. Conseguenza di questa solenne alleanza è l’intimità profonda che si instaura fra

Dio ed Abramo, come provano i fatti che seguono: l’apparizione a Mamre (18,1-15) e

l’intercessione di Abramo per Sodoma (vv.16-33): Abramo ha l’ardire di porsi di fronte a

Dio e di impetrare con tenacia per la salvezza dei giusti residenti nella città! La visita dei tre misteriosi personaggi e l’accoglienza che Abramo riserva loro non è soltanto un grande esempio di ospitalità biblica, ma è soprattutto l’indizio della divina condiscendenza: Dio accetta di stare in mezzo agli uomini (il motivo della visita della divinità ricorre anche in tradizioni extrabibliche, come in Odissea XVII e nei “Fasti” di Ovidio). Il problema sta nella relazione tra questi “tre uomini” e Jahvè. In 18,1 Jahvè appare ad Abramo; al v.2 Abramo vede tre personaggi che al v.3 chiama “mio signore”. Il plurale ritorna nei vv.4-9.16 mentre il singolare è usato nei vv.10.13. La soluzione più semplice è quella di immaginare la visita di Jahvè accompagnato da due messaggeri considerati come divinità minori (in effetti in

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18,22;19,1 si parla dei due separati da Jahvè) e come manifestazioni di Jahvè: ciò che spiegherebbe i passaggi repentini fra plurale e singolare. Altri testi nei quali la menzione dell’angelo si sovrappone a quella del Signore e si passa dall’angelo al Signore, sono: Gen 16,7;22,11;Es 3,2;Gdc 2,1-2… In questo fenomeno si può cogliere la preoccupazione teologica secondo la quale l’uomo non può vedere Dio e rimanere vivo. Certo è che nell’immagine dei tre personaggi che si assidono a tavola abbiamo uno dei più arditi e suggestivi antropomorfismi dell’AT (la celebre icona di A.Rublev coglie questo momento). L’interesse della pericope comunque risiede nella seconda parte (vv.9-16). Il “riso” di Sara è chiaro indice delle situazione negativa offerta attualmente dai due coniugi (vv.11-12). Ma è proprio nel momento in cui si realizza la manifesta impossibilità umana che si palesa l’onnipotenza divina: “C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore?” (v.14a). Tale solenne affermazione ha ancora da fare con la resistenza umana (Sara nega ostinatamente di aver riso: v.15), ma questa resistenza si sta sfaldando pian piano: Abramo che aveva “riso” precedentemente (17,17) adesso non si associa alla moglie; egli rimane pensoso, quasi in adorazione. Qualcosa sta cambiando nel rapporto tra i due rispetto a quello che è il cuore del loro cruccio, la tragedia della sterilità. Si noti che ai ripetuti interventi di Dio Abramo osserva un rispettoso silenzio e dimostra il proprio assenso con gesti concreti. Invitato ad uscire, il patriarca parte (12,4); alla promessa di discendenza egli risponde con l’erezione di un cippo (v.8) e alla reiterata promessa di discendenza egli pone l’ “opera” più grande, quella di prestare fede assoluta (15,6). Così in questo caso: le promesse dei tre personaggi trovano resistenza presso Sara: Abramo non obietta nulla, ma risponde con il gesto dell’intercessione a favore della città depravata. L’intercessione di Abramo in favore di Sodoma (18,23-32) rispecchia il gusto della trattativa commerciale e giudiziaria del tempo. Abramo inizia con una certa titubanza e prende pian piano coraggio. S’interrompe all’improvviso quando sa che in Sodoma non ci sono nemmeno dieci giusti (il numero 10 era, per la tradizione giudaica, il minimo per formare una comunità in preghiera nella sinagoga). Comunque è rilevante questo ruolo di intercessore che Abramo si assume; esso anticipa quello di Mosè (Es 33,11-13) e di Geremia (Ger 18,20) e del Servo di Is 53 che realizza in pieno il ruolo dell’intercessione col dono della vita. Alla luce della Pasqua la comunità cristiana comprende che solo Gesù è il vero intercessore, il vero “Paraclito” (cf 1Gv 2,1-2;Eb 7,25).

1.3. Il dramma della Paternità. E’ questo il dato su cui si gioca tutta la

drammaticità della vita di Abramo, condizionata dalla promessa fatta a lui da Dio: “io farò

di te un popolo grande” (12,2; cf 15,5). Ma la sterilità affligge il patriarca e sua moglie. Dio

sembra non aver fretta ad adempiere le promesse (abbiamo elencato quante volte egli le

ripeta), e da parte sua Abramo “crede sperando contro ogni speranza” (Rm 4,18),

nonostante che egli viva una situazione molto strana: a 99 anni un uomo dovrebbe aver

risolto da tempo il problema del figlio ed erede! Finalmente nasce Ismaele dalla schiava

(costume testimoniato dal diritto mesopotamico): questo fatto va visto come il tentativo

umano di “forzare la mano” a Dio (cf c.16). Il patriarca può sperare che la promessa di Dio

abbia almeno una parziale realizzazione. E invece no! Non il figlio della schiava sarà erede

delle promesse, bensì il figlio nato ad Abramo da Sara deve essere l’erede (cf 17,19): così la

realizzazione della benedizione si allontana di nuovo. Passano lunghi anni invano. Abramo

sembra essersi cacciato in un vicolo cieco dando credito a Dio: eppure egli attende con

perseveranza, fondato soltanto sulla parola di Dio. E’ una fede, quella di Abramo, segnata

dalla prova e dall’oscurità.

Finalmente Dio decide di adempiere la sospirata promessa e il figlio tanto atteso è

annunciato (cf 18,9-15) e nasce (cf 2l,1-7): quanto è estesa la relazione sulla promessa,

tanto è telegrafica la notizia sul suo adempimento. Abramo può così vedere l’aurora della

realizzazione della parola di Dio, ma questi la pensa ben diversamente: Abramo deve offrire

in sacrificio Isacco! L’alleanza con Dio ha i suoi costi!

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A questo fa pensare il sacrificio d’Isacco in Gen 22, culmine della vicenda di Abramo e indice della serietà del reciproco impegno tra Dio e il Patriarca. Considerando questa famosa pagina biblica dal punto di vista dell’alleanza (alla luce dell’alleanza, infatti essa va spiegata), possiamo dire che le parti ora si rovesciano. E’ vero che l’azione drammatica di Abramo è comandata da Dio (“prendi il tuo figlio… e offrilo in olocausto…”: 22,2) e che al termine (vv.15-17) Dio rinnova le promesse all’amico fedele. Ma la scena è tutta dominata dal Patriarca e dal figlio Isacco che si apprestano ad eseguire la volontà divina: durante lo snodarsi del dramma Dio è nell’ombra, diremmo dietro le quinte. La risposta che Dio aveva chiesto ad Abramo in Gen 17 era la circoncisione, la quale (come si è visto) era il segno dell’identità di Israele. Ma l’identità non si limita ad un segno nella carne: questo prelude ad una realtà interiore. La circoncisione lega indissolubilmente a Dio, fa un tutt’uno con lui, in quanto esprime l’irrevocabile legame con lui espresso da un’obbedienza portata all’estremo. La prova è infatti terribile! Il Dio dell’Alleanza, il Dio fedele smentisce se stesso chiedendo la morte di colui che egli stesso ha voluto, promesso e creato, il figlio della promessa, Isacco. “Dio sembra chiedere ad Abramo di distruggere le condizioni stesse per la realizzazione delle promesse. Abramo però ritiene che, proprio eseguendo il comando di Dio, pone le condizioni per la loro realizzazione” (S.Lyonnet). Senza dubbio Dio non vuole il sacrificio umano; la modalità scelta per provare Abramo costituisce l’esplicita condanna di questa pratica aberrante seguita talvolta anche dagli ebrei (cf 2Re 16,3;21,6;Ger 7,31), ma anche la giustificazione del rito del riscatto dei primogeniti (Es 13,11). Ma c’è una verità profonda nella richiesta di Dio: il punto limite del rapporto uomo-Dio nella forma di alleanza è il sacrificio, l’offerta della vita stessa, senza alcuna riserva. L’uomo è creatura, la vita è di Dio e a lui va ridata. L’alleanza rivela questo suo volto esigente: di tutta la sua realtà creata il credente è chiamato a fare “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). Il sacrificio del giovane Isacco sarà sostituito dall’offerta di un ariete (cf 22,13) e dalle innumerevoli vittime offerte nel tempio di Gerusalemme lungo i secoli. Ma queste sono soltanto vittime sostitutive in attesa di Colui che avrebbe offerto tutto se stesso “una volta per tutte”, Gesù Cristo (Eb 9,38). L’obbedienza di Abramo è narrata da Gen 22 con due serie di azioni ben articolate (vv.3-6.9-10); Giuseppe di Nazaret esprimerà allo stesso modo la sua docilità (cf Mt 1-2): nessuna parola, ma solo gesti di adesione incondizionata. Interessante è l’elaborazione che la tradizione ebraica fa del sacrificio di Isacco. Costui si fa legare docilmente per il sacrificio (Isacco pronto per l’olocausto è il primo efficace “tipo” bibli co, cioè prefigurazione di Cristo innocente offerto in olocausto per i peccati dei fratelli). Egli è effettivamente immolato, ma subito ritorna alla vita ed eleva a Dio questa benedizione: “Benedetto sei tu che dai la vita ai morti”. Fa eco a questa tradizione un brano della lettera agli Ebrei: Abramo sacrificò il figlio poiché pensava che “Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo” (11,19). Il testo di Gen 22 non afferma tanto (certo che Abramo non poteva ancora credere nella risurrezione, ma è importante che già la tradizione ebraica e poi il NT gliel’attribuiscano). L’autore di Ebrei non è solo; va tenuto presente anche Rm 4,18-25 dove Paolo fa un parallelismo tra la fede di Abramo circa la capacità di Dio di suscitar vita contro ogni apparenza contraria e la fede dei cristiani in “colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore”. Allora possiamo considerare Gen 22 come un efficace approfondimento dei dati costitutivi dell’alleanza, cioè dell’identità dei due contraenti. Da una parte Abramo (lui per primo perché più in evidenza in questo caso): lui obbediente fino allo spasimo, ma pieno di fiducia tanto da fare un sacrificio perfetto e da scorgere nel suo Dio l’autore della risurrezione. Da qui si comprende come il segno della circoncisione abbia costituito per lui una vera trasformazione interiore. Dall’altra parte Dio che educa l’eletto con grande energia ed inflessibilmente, diremmo, illustrando così, previamente, quale genere di cammino egli abbia previsto per i suoi eletti: il cammino dell’espropriazione interiore completa. Ma questa vicenda è coinvolgente anche per Dio, il quale giura solennemente (“giuro per me stesso…”: v.16a) rilanciando tutte le promesse fatte a partire da Gen 12,3, ma che ora rivelano più direttamente la sua natura di Dio fedele.

Ora Dio mette fine alle prove cui ha sottoposto Abramo. Infatti “tu hai obbedito alla mia

voce” (22,18b), sei stato fedele fino in fondo all’alleanza stipulata. Questa motivazione si

riaggancia all’obbedienza iniziale del patriarca (“allora Abramo partì come gli aveva

ordinato il Signore”: 12,4), cosicché la vicenda del Patriarca rimane inclusa e qualificata da

quella “obbedienza di fede” mediante la quale “l’uomo si abbandona a Dio tutt’intero

liberamente” (DV, n.5).

Come è evidente, nella vicenda esemplare di Abramo l’alleanza non solamente risplende nelle sue componenti tipiche, ma giustifica anche ampiamente il titolo di “padre dei credenti” che le tre religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) gli attribuiscono.

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Si può affermare che Abramo viva soltanto per questa testimonianza di fedeltà: Dio l’ha

preparato per questa prova e dopo di essa egli non ha quasi più nulla da dire per la storia

della salvezza.

Il suo ciclo comprende ancora l’episodio della tomba dei Patriarchi (c.23: P), che riflette alcuni usi del codice legislativo hittita, cioè cananeo: Abramo, da straniero, non potrebbe seppellire Sara se non possedendo un terreno. Egli vorrebbe soltanto una parte del terreno per non sottostare agli oneri fiscali della servitù, ma poi finisce per acquistare tutta la proprietà per un prezzo molto alto (400 sicli d’argento). Questa gli dà diritto di cittadinanza in Canaan, non è più un errante. Però la terra acquistata è “in proprietà sepolcrale” (v.20), cioè una caparra della promessa per il resto del paese. E’ un possedimento reale, però non ancora pieno: Abramo vive e muore nella fede e nell’attesa della piena realizzazione delle promesse. Il c.23, in pratica l’ultimo del ciclo, è un complemento significativo del messaggio sulla fede. Ma si deve dare anche rilievo a 25,1-6 (la discendenza di Chetura): viene fornita una lista di sei figli che Abramo ha da “un’altra moglie” (v.1) e questa notizia ha un valore teologico. Attraverso i sei figli che gli nascono da Chetura, Abramo diviene padre di diversi popoli (cf vv.3-4); a questi figli il Patriarca diede doni senza dimenticare i figli di altre concubine (v.6). A costoro vanno aggiunti gli ismaeliti con i loro dodici capi (vv.12-16). In questi dati trionfa la tipica mentalità patriarcale: Abramo, sperando contro ogni speranza, si è trasformato, lui vivente, in padre di popoli numerosi. Lungi da noi il fastidio per le notizie di Gen 25,1-6. Si deve anzi affermare che è il modo più consono di suggellare una storia di fede che nella paternità ha toccato punte drammatiche: questo il dato culturale e religioso da far nostro per non tradire lo spirito originario del testo.

Si coglie così agevolmente la prospettiva che dà unità al ciclo di Abramo: la fede

provata e oscura che accompagna tutta l’esistenza del Patriarca. All’inizio la fede è richiesta

‘da sola’, mentre al termine Dio vuole che essa sia accompagnata da un’opera di obbedienza

concreta. Pertanto, tutta la vita di Abramo è inclusa nella fede. Soltanto a questo titolo

Abramo è “amico di Dio”, “padre dei credenti” (cf Rm 4,11), il “Patriarca nostro Abramo”

(Preghiera Eucaristica I).

NB: Non ci soffermiamo su Isacco, il “figlio della promessa” (Gen 17,16; Gal 4,23), perché la sua figura è un po’ sfumata nella Bibbia e la sua vicenda non è molto articolata. “Isacco” (da yishaq = ridere, “egli, o Jahvè, ride”) ricorda innanzitutto che il precedente riso amaro di Abramo e Sara si trasforma ora in riso gioioso e grato; di fronte a questo bambino nato “contro ogni speranza” i due coniugi sperimentano l’indefettibile fedeltà di Dio e ne godono pienamente nel loro cuore semplice; ma possiamo anche aggiungere che questo riso richiama il sorriso di Dio che comporta compiacenza, favore ed esaudimento nei confronti dei suoi amici: Dio gode con loro di fronte al figlio tanto atteso.

Isacco è un personaggio umile, quieto, innamorato della sua sposa Rebecca (24,67b), pieno di poesia e di fascino, ben lontano dalle drammatiche esperienze degli altri patriarchi. Nel lungo e narrativamente stupendo c.24 (la “bucolica nel deserto”, lo definisce R. De Vaux) Isacco compare soltanto alla fine (vv.62-67); solo il c.26 lo riguarda direttamente, ma con episodi paralleli a quelli del ciclo di Abramo. In 25,18.29; 27,1-45; 28,1-9 Isacco è menzionato in merito alla vicenda dei figli. Egli ha la funzione di trasmettere le promesse e le benedizioni da Abramo a Giacobbe (importante, a questo proposito, la benedizione in 26,24-25); per questo è un anello tanto importante da entrare a buon diritto nella triade spesso menzionata: “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe”. Ma l’inserzione di Isacco nella terna può avere anche un’altra motivazione. Isacco è l’unico patriarca che nasce nella terra, che vive nella terra e muore nella terra: non la lascia mai. Dio gli proibisce di scendere in Egitto (Gen 26,2-3): “rimani in questo paese” (v.3a). La tradizione scorge in questa permanenza continuata di Isacco il diritto al possesso della terra. Né Abramo né Giacobbe hanno trascorso tutta l’esistenza permanentemente nella Palestina. Facile poteva essere l’obiezione rivolta ai discendenti, che cioè essi erano discendenti di emigrati e pertanto essi non possedevano diritti al possesso del paese. Isacco permette di rispondere a questa obiezione: egli è l’unico patriarca che non ha lasciato mai la terra e quindi fonda il diritto dei discendenti al suo possesso. Questo servizio giustifica ampiamente la presenza di Isacco tra i patriarchi.

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2. Il ciclo di Giacobbe (Gen 25,19 – 37,1)

Anche questa sezione di Gen ha il medesimo intreccio di tradizioni che sottostanno

al ciclo di Abramo, anche se P è modestamente presente: predomina la trad. J la quale

conferisce al ciclo un tono inconfondibile di vivacità e di movimento che ben rispecchia i

tratti personali di Giacobbe. Il ciclo sembra più unitario di quello di Abramo. Il perno

attorno a cui ruota tutta la vicenda è il conflitto fra i due fratelli Giacobbe ed Esaù.

Si può individuare una divisione tripartita: a) la primogenitura (cc.25-28); b) il soggiorno di Giacobbe presso Labano (cc.29-31); c) l’incontro dei due fratelli (cc.32-36). Gli eventi più significativi di ogni parte, per quanto riguarda il rapporto tra i fratelli: Giacobbe carpisce la primogenitura (c.27); i due matrimoni di Giacobbe (c.29); l’incontro fra Esaù e Giacobbe (c.33).

Giacobbe si presenta con caratteri autonomi rispetto ad Abramo: la sua vicenda ha un

carattere più laico, ma è anche percorsa da un dinamismo nel cammino di fede e da un

graduale approfondimento dell’adesione a Dio. Mentre infatti Abramo è fin dall’inizio

“condizionato” dalla Parola di Dio e la sua fede è totale fin dagli esordi, Giacobbe deve

compiere un itinerario di graduale approfondimento, cosicché colui che dapprima palesava

una buona dose di indipendenza da Dio, alla conclusione della sua parabola esistenziale è

trasformato in “uomo di Dio” al pari di Abramo suo antenato.

Interessa qui rilevare le tappe più significative di questa vicenda dai tratti di marcata

modernità al fine di sottolineare la pedagogia divina e la varietà degli itinerari salvifici.

Isacco è sempre in penombra, come testé accennato: emerge con contorni più definiti la

moglie, Rebecca. Essa è vista in parallelismo con Sara: entrambe belle e sterili, entrambe

all’origine di due figli/popoli (Isacco-Israele e Ismaele-Ismaeliti da Sara; Esaù-Edomiti e

Giacobbe-Israele da Rebecca); la loro sterilità marcata sottolinea che il frutto delle loro

viscere è soltanto dono di Dio.

La nascita dei due fratelli (Gen 25,19-28) suggerisce anche la libera scelta da parte di Dio, accennata nel v.23 ed evidenziata nella tradizione posteriore (cf Ml ,2-3; Rm 9,12-13). Giacobbe è interpretato popolarmente sia con “calcagno” (‘aqeb in ebraico) sia con “soppiantare” (‘aqab). In realtà “Giacobbe” deve risalire all’espressione amorrita “proteggere”: Dio protegga (ya’aqob-El). La vendita della primogenitura per un pranzo (cf 25,29-34) è attestata dall’antico diritto degli hurriti, ma per l’agiografo è uno stratagemma umano che spiana la strada al piano di Dio. Le astuzie di Giacobbe per appropriarsi della primogenitura, bene sommo presso i popoli seminomadi, sono i mezzi umani che Dio permette nella sua graduale educazione dell’eletto (la possibilità di vendere la primogenitura è attestata nelle leggi della città di Nuzi risalenti al II millennio a.C.). La portata profonda dell’episodio sta nell’intento di dimostrare che Esaù non è adatto a fungere da veicolo dell’elezione divina (troppo istintivo e schiavo della tirannia del corpo). Di fronte c’è Giacobbe, un uomo che ragiona, calcola e progetta il futuro. Giacobbe, dunque, ha acquisito i diritti della primogenitura. Questo va tenuto presente nel giudicare la “benedizione rubata”: Giacobbe infatti difende un “suo diritto”!

La benedizione di Isacco a Giacobbe (c.27), narrata in una pagina piena di vita e di

movimento, avviene in un solenne cerimoniale con i seguenti elementi: la richiesta di

benedizione, l’identificazione della persona da benedire, il pasto che corrobora colui che

benedice, il bacio che trasmette la vitalità e la prosperità ed infine la benedizione. Il

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contenuto della benedizione (vv.27-29) è vario. Giacobbe è benedetto nei campi: il

riferimento ad attività agricole, anche se l’ambiente patriarcale è quello dei pastori, dice che

la fertilità del suolo era condizione essenziale di sopravvivenza e di benessere, e questa è

stata sovrapposta al racconto lungo la sua trasmissione. Giacobbe è benedetto anche nel

dominio (”sii il signore dei tuoi fratelli”), ed anche nei confronti dei popoli (il v.29 può

essere considerato come variante di Gen 12,3a).

Per qual motivo Isacco non fa nulla per ritirare la benedizione da Giacobbe quando si rende conto dell’inganno (vv.33ss)? Nella mentalità ancestrale del tempo la “benedizione” (o maledizione) ha una consistenza quasi materiale che non può essere modificata, emana una carica dinamica e magica, essa ricade dal padre morente sul figlio in maniera irrevocabile. Le benedizioni che Isacco rimedia per Esaù sono come un “surrogato”: il v.39 dice il contrario del v.28. Circa la “moralità” dell’agire di Rebecca e Giacobbe nel tentativo di carpire la primogenitura ad Esaù si deve precisare che senza dubbio “è una vera menzogna quella di Giacobbe e la S. Scrittura la riporta senza approvarla; e per giudicare Giacobbe ricordiamoci che siamo nel quadro della morale ancora imperfetta dell’AT; morale assai meno esigente di quella cristiana sul diritto della verità. Il mistero c’è e profondo, ma è quello dell’azione di Dio che utilizza per i suoi fini le mancanze stesse dell’uomo e resta sovranamente libero nelle sue scelte: Dio ha preferito Giacobbe ad Esaù già prima della loro nascita (25,23)” (R. De Vaux).

Il ciclo di Giacobbe ha il vero inizio nel c.28: nel v.10 Giacobbe prende l’iniziativa ed

“esce” dalla terra d’Israele: vi ritornerà in 33,18 con il nome cambiato in Israele. Il motivo

di questa partenza è dato dalla paura della vendetta di Esaù, secondo la tradizione J (27,41-

45), mentre per quella P è il desiderio di imitare suo padre Isacco prendendo moglie dalla

sua parentela (28,1-5).

Anche questo ciclo risulta dal confluire di tre tradizioni.

La trad. J mette insieme materiale staccato con molta perizia: intento è quello di presentare una teologia delle dodici tribù israelitiche e legittimare il quadro politico-religioso del regno nel sec.X. Giacobbe ed Esaù per lo Jahvista rappresentano i due popoli di Israele e di Edom. La trad. E continua la trasformazione della tradizione in storia familiare e sottolinea la valenza teologica della narrazione che di per sé è laica: la storia di Giacobbe è interpretata in vista del voto da sciogliere a Dio e il protagonista è rivestito di virtù morali. Poco presente è la tradizione P, limitandosi ad alcune liste di nomi e alcune notizie storiche. Lo scenario del ciclo sono la Trasgiordania e la Palestina centrale.

Fino al c.28 non sembrano emergere preoccupazioni religiose in Giacobbe, ma Dio ha

dei progetti precisi su di lui, come risulta da Gen 25 e 27. Dio attende il momento della

peregrinazione e della solitudine (“capitò in un luogo dove passò la notte”: 28,11a) per un

primo contatto con l’eletto: a Betel il giovane fa una prima esperienza del Dio dei Padri (cf

Gen 28,10-22).

Questa esperienza avviene in uno spazio sacro, a Betel. In ebraico si legge: “capitò nel luogo” (con artic.). Betel è conosciuto come spazio sacro (cf 12,8;13,3) e Giacobbe lo scoprirà subito. Al calar del sole egli “prese una pietra…” (v.11b): è una procedura iniziatica, un rito di incubazione sacra (cf Sal 3;68): il giovane non si dispone solo per dormire, ma anche per avere a sua insaputa una comunicazione sacra importante per il futuro. Il triplice “ed ecco” nei vv.12-13 vivacizza l’introduzione degli elementi successivi della visione. Si deve pensare non ad una scala a pioli (come preferiscono le rappresentazioni artistiche), bensì ad una scala a gradini come nei templi mesopotamici. Gli angeli che “salivano e scendevano” sono i veri protagonisti della rivelazione (scala ed angeli sono tipici ingredienti della trad. E). La tradizione ebraica immagina la terra santa come provvista di protezione angelica: quando Giacobbe rientrò in Canaan “gli si fecero incontro gli angeli di Dio” (32,2). Il sogno di Giacobbe è un’esperienza non diretta di Dio: essa è mediata da esseri celesti, eppure conduce al riconoscimento: “Questa è proprio la casa di Dio!” (v.17) e al conseguente voto: “Se... il Signore sarà il mio

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Dio” (v.21). Tutto il testo sottolinea la mentalità antica della divinità localizzata in luoghi determinati. Al patriarca che finora è vissuto in angusti ambiti di interessi materiali, ora si para innanzi all’improvviso un orizzonte illimitato: destituito di sicurezze umane nella nudità del deserto, scopre che c’è un Dio (lontano sulla sommità della scala, ma pur sempre in contatto con l’uomo attraverso la scala percorsa dagli angeli) che veglia sulle sue sorti. Lo conforta la grande promessa che Dio gli fa riguardo alla terra e alla discendenza con l’assicurazione: “ti farò ritornare in questo paese” (cf vv.13-15). Essa ripete quella già fatta ad Abramo (qui chiamato “padre” nel senso di antenato, capostipite) ed è strutturata sul meccanismo biblico della “personalità corporativa” per cui il destino di uno rappresenta anche quello della comunità e viceversa. Infatti Giacobbe morirà in Egitto, ma nella discendenza è veramente lui che si estende ad oriente e ad occidente. La promessa che Dio fa al patriarca nel v.15 gli ispirerà il lungo voto dei vv.20-22. Al v.16 avviene il “riconoscimento”: adesso Giacobbe passa da uno stato inconscio a quello conscio; sapeva che quello era un luogo sacro, ma non sapeva perché: ora sa che lì c’è il Signore; Betel e la grande promessa di Dio, i due elementi ripresi al termine (cf c.35), fanno da delimitazione all’esperienza religiosa di Giacobbe e spiegano le sue decisioni successive. E’ opportuno un riferimento a Gv 1,51, dove chiaramente è tenuto presente il nostro passo. La frase di Gen 28,12b “salivano e scendevano su di essa” potrebbe essere anche tradotta con “… scendevano su di lui”, dal momento che “scala” (šullam in ebraico) è maschile. Giovanni deve aver tenuto presente questo particolare del testo ebraico che permette una traduzione della preposizione articolata maschile “bô” con “scendevano su di essa” o “scendevano su di lui (Giacobbe)”, e aver scelto questa seconda possibilità, altrimenti non si spiegherebbe il passaggio da una semplice scala a Gesù figlio dell’uomo. L’interpretazione patristica dell’episodio è duplice. Agostino, riferendosi a Gv 1,51, pensa a Gesù che unisce cielo e terra tramite i predicatori del vangelo (gli angeli); altri, dando al fatto un’interpretazione ascetica, vedono nella scala il cammino dell’uomo che si eleva all’incontro con Dio mediante la virtù. La prima interpretazione insiste sulla comunicazione di Dio all’uomo; la seconda sulla tensione dell’uomo verso Dio.

Dopo questo misterioso e fugace contatto con Dio, Giacobbe si reimmerge nella realtà

“profana” della vita: Gen 29-34 è un susseguirsi di vicende umane che rivelano usi e

costumi di antiche civiltà mesopotamiche. In questi capitoli, importanti perché Israele vi

riconosce le radici della sua struttura tribale, è rappresentata al vivo la società complessa e

progredita del tempo patriarcale, nella quale Giacobbe intende costruirsi una posizione. Egli

è un uomo astuto e intraprendente: attraverso inganni, fatti e subiti, egli si costruisce una

fortuna che va considerata come adempimento della benedizione del padre Isacco. Il

complesso letterario, prevalentemente jahvista, è ben costruito e compatto. Ci si meraviglierà a buon motivo dello spazio dato alle vicende matrimoniali di Giacobbe e all’accumulo di ricchezze che egli fa (cc.29-31). Si pensi, però, che da questi matrimoni provengono i dodici figli dai quali in seguito il popolo d’Israele trarrà la sua solida struttura e che i beni accumulati costituiscono, in una mentalità arcaica, la garanzia della benevolenza divina: Giacobbe sa che la benedizione si traduce nei beni, per essi ha lottato con determinazione e Dio lo ha premiato.

Questi vivaci capitoli mettono in rilievo dei temi importanti. Innanzitutto la figura di

Giacobbe. Il patriarca, l’ingannatore ingannato, è costretto a pagare le conseguenze delle

sue azioni sbagliate; ritrova, però, poco a poco i segni della presenza di Dio nella sua vita e

questo lo preparerà per le esperienze future. Il viaggio di Giacobbe si conclude presso un

pozzo. Il pozzo è elemento tipico del paesaggio pastorale di Gen (cf 24,11.16.20); presso di

esso si trova Rebecca (c.24), Rachele (c.29), le figlie di Ietro (Es 3,16): è il luogo

dell’innamoramento. Giacobbe, però, si comporta come dominatore; il primo contatto con

Rachele più che amore denota desiderio di possesso (29,1-11). E gli si renderà la pariglia.

La notte delle nozze avviene lo scambio tra le due sorelle: invece di Rachele Giacobbe si ritrova accanto Lia la figlia minore: il termine “bekîrāh” (= minore) richiama da vicino la “bekôrāh” (= primogenitura) che egli aveva carpito al padre Isacco con l’inganno. Giacobbe comincia a sperimentare a proprie spese le conseguenze

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delle sue azioni!

Centrale è il tema della famiglia (29,31-30,24): tutti i mezzi sono visti come legittimi di

fronte ad una numerosa e prospera famiglia. Giacobbe non ci fa una bella figura.

Altre conseguenze negative egli sperimenta: ingannato prima da Labano, si vede conteso tra le mogli, è costretto a rapporti con le schiave e alla fine è “venduto” da Rachele a Lia (“ho pagato il diritto di averti”!); neanche può imporre il nome ai figli: ci pensano le mogli! Egli sperimenta così la sofferenza inflitta ad Esaù all’inizio della sua storia. In questo vortice di rivalità e gelosie ne esce un vivace quadro di famiglia patriarcale, anche se ai nostri occhi ancora imperfetta: i figli sono visti quasi come “bene di consumo”, non come frutto di amore coniugale! Dio stesso, che pur è riconosciuto come l’autore della vita (cf 30,2), è tirato dalla propria parte da ciascuna donna per i propri interessi. Eppure pian piano esse lo avvertono come vicino alla debole, prima Lia, la donna meno amata, e poi Rachele disprezzata per la sua sterilità (30,22-23). Ma al di là dei contrasti e delle divisioni, pian piano, grazie all’intervento discreto di Dio, si va formando attraverso Rachele e Lia, la futura casa di David (cf Rt 4,11). Dio infatti ha un preciso progetto di famiglia e pian piano tutti i protagonisti sono chiamati a scoprirlo e a collaborare alla sua realizzazione. Giacobbe, intanto, nell’assillante susseguirsi delle vicende familiari, è intento ad

accrescere la sua fortuna economica e lo fa ancora con astuzia a spese di Labano (30,25-43).

Il racconto dell’arricchimento di Giacobbe è “antichissimo poiché non si è potuto formare che in un ambiente di seminomadi, specialisti nell’allevamento del bestiame. Ma tale racconto ha costituito sempre la gioia di tutti gli israeliti, felici che Giacobbe, fino a qui indegnamente sfruttato dal suocero Labano, prenda la rivincita. E l’ha presa rispettando i termini del contratto!” (R. De Vaux).

Il suo successo, però, crea invidia all’interno della famiglia di Labano (31,1-2): il

contrasto è di natura economica. In un “consiglio di famiglia” (31,4-16) Giacobbe difende

le sue ragioni e le due mogli si decidono a seguire il marito che sta pensando alla fuga

perché solo così possono conservare l’eredità acquistata (31,14-16). Questa fuga è voluta da

Dio stesso (31,3) come un ritorno alla propria terra e un adempimento delle promesse: nel

pieno della laicità della narrazione Dio è sentito dai protagonisti ben presente

(vv.5.7.9.11.13.16). Egli interverrà ancora schierandosi a fianco di Giacobbe fuggiasco

(v.24). La vicenda si snoda ancora vivacemente (fuga di Giacobbe con le mogli; Labano che

reclama le figlie; Giacobbe che si dimostra magnanimo verso il suocero), fino alla

rappacificazione suggellata da un banchetto (vv.22-54).

I temi dei cc.29-31 sono quindi quelli di Giacobbe che pian piano avverte la presenza di Dio accanto, della famiglia che si costituisce attorno al bene dei figli e agli interessi economici e di Dio che pian piano è avvertito come colui che nascostamente sta costruendo la famiglia. E dietro la famiglia di Giacobbe lo sguardo si allarga a tutto Israele. In questi capitoli infatti riappaiono i temi tipici delle narrazioni patriarcali, come la triplice promessa della terra (Gen 30,25;31,3.13), la benedizione (30,27.30;31,42) e della discendenza (29,31-30,24). Le promesse di Dio si vanno realizzando fra le turbolenze umane e le libere scelte dei protagonisti: quello illustrato dai cc.29-31 è un progetto in fase di attuazione.

La fuga di Giacobbe da Paddam-Aram rivela la consapevolezza del patriarca che la

permanenza presso Labano è una parentesi nella sua vita: ha compiuto a suo tempo un

exitus (cf 28,5), ci vuole un reditus. Il suo posto è a Betel, dove Dio lo ha benedetto (cf

28,13-15); quella è la patria e Dio stesso lo induce al ritorno: “Torna al paese dei tuoi padri,

nella tua patria e io sarò con te” (31,3). Questo fa capire quanto il primo incontro con Dio

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abbia orientato la sua vita e precisa ancora il senso della permanenza presso Labano: un

tratto di vita provvisorio, anche se necessario per dare contenuto alla benedizione ricevuta

dal padre attraverso la ricchezza accumulata. Ed allora Giacobbe non si fa piegare dalle

rimostranze di Labano (cf 31,22-41) e punta deciso verso Betel, imboccando la via del

ritorno.

Scampato il pericolo dell’ira di Labano, si para innanzi a Giacobbe l’ostacolo dell’ira del

fratello Esaù (si ricordi che il conflitto tra i due è il fulcro narrativo dell’intero ciclo); è

indispensabile una riconciliazione e ad essa lo prepara un’ulteriore misteriosa esperienza: la

lotta che egli deve sostenere con Dio (Gen 32,23-33).

E’ un brano di oscurità e difficoltà celebri (mescolanza di tradizioni JE): per enigmaticità e argomento (vita dell’eletto attentata da Dio) è parallelo a Es 4,24-26 (Dio assale Mosè di notte). Di esso, però, a differenza del parallelo di Es, è evidente la portata religiosa: Giacobbe fa un’esperienza prolungata di Dio, superiore a quella di Betel. In essa non è passivo, bensì “vince” mediante la sua costanza e strappa la benedizione. La localizzazione di questa lotta è il fiume Jabboq, un affluente del Giordano ad una cinquantina di Km a nord del Mar Morto. Il passaggio di questo fiume non è solo uno spostamento topografico: Giacobbe deve lasciare la terra della sua attività in proprio per entrare nella terra della promessa e dell’obbedienza. La lotta si svolge di notte, il tempo dell’incertezza e della paura. Egli combatte con “un uomo” (v.25), che solo al mattino gli si rivela come Dio (v.29). E’ una lotta, un confronto serrato e prolungato con Dio “fino allo spuntare dell’aurora”, cioè fino allo svelarsi pieno della salvezza. Ma è anche una vicinanza e un’intimità inaudite con Dio: Giacobbe (o Israele) tiene Dio fra le braccia, sente il calore e la forza di Dio, il quale, benignamente, si lascia “catturare”! Ma è Lui che provoca l’uomo alla lotta, alla ricerca insaziabile, allo sforzo tenace perché l’uomo infine possa ottenere da lui la benedizione richiesta. Ecco perché in questo contesto il nome di Giacobbe è mutato in “Israele” (v.29) che, di per sé, significa “Dio si mostri forte”, ma popolarmente è spiegato come “è stato forte contro Dio” (cf 35,10). Nome che passerà a quel popolo che, nella sua secolare storia, percorrerà lo stesso itinerario d’impegno e di lotta per vivere l’alleanza, fino a Gesù, l’Israele nuovo, che, secondo Lc 22,39-46 (cf il vocabolo “agonia” = lotta) impegna tutte le forze fino a sudar sangue per fare la volontà del Padre nell’imminenza della Passione. Il messaggio è forte: la Bibbia prospetta una relazione con Dio ad alto rischio. Può essere lui stesso che provoca e spinge al combattimento per i suoi fini misericordiosi. Vuole avere di fronte un partner robusto e deciso: la lotta di Giobbe con Dio, le avvincenti diatribe degli oranti del Salterio con lui gli sono gradite. Egli permette che l’uomo sperimenti la solitudine dell’abbandono (la notte), ed in essa “tenta” il suo fedele: posto in situazione difficile costui lotta con la forza della disperazione fino allo spuntar dell’alba. E’ così che la fede e la relazione con lui si rafforzano. Dio vuole di fronte un vero combattente, pronto alla lotta prolungata, e quando Egli può constatare compiaciuto perseveranza e capacità di reazione gratifica il partner di un’amicizia rinnovata. Colui che prima era tutto preso dagli interessi materiali è incontrato da Dio che lo cambia interiormente con un’esperienza misteriosa. Allora si capisce che quell’attivismo precedente di Giacobbe, apparentemente tutto “materiale”, è in realtà una palestra che allena l’eletto a ben altre conquiste, ad affrontare la vita per vivere da protagonista l’alleanza. La lotta lascia i segni (Giacobbe “zoppicava all’anca”: v.32): non può che essere così per chi si butta nella mischia con la sete della vittoria. Israele è ammonito: infatti il messaggio è per il popolo (lo conferma il cambiamento del nome da Giacobbe a Israele). Questa pagina costituisce un forte messaggio per l’Israele dell’esilio e per le comunità credenti di tutti i tempi.

Giacobbe ha così percorso un lungo itinerario di preparazione. Ha conseguito il

benessere materiale, ma anche una familiarità straordinaria con Dio. Ora può definire il

rapporto con Esaù, convinto che l’autentico cammino verso Dio deve passare attraverso il

fratello. Il susseguirsi immediato dell’esperienza di Dio nella lotta notturna e dell’incontro

con Esaù dimostra questa verità.

“Poi Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù” (33,1a). L’incontro si realizza in un quadruplice movimento: Esaù si avvicina con i suoi uomini, Giacobbe si avvicina con la sua carovana; Giacobbe si affretta, Esaù gli corre incontro. Tutto il movimento si conclude con l’abbraccio della riconciliazione (33,1-3).

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Segue poi il dialogo tra i fratelli (vv.5-11). E’ significativo che in questo brano venga usato più volte il verbo “prostrarsi”, una in riferimento a Giacobbe, che si prostra sette volte (cf v.3) e tre volte in riferimento alle mogli e ai figli. Lo stesso verbo era stato usato nella benedizione di Isacco a Giacobbe (“si prostrino davanti a te le genti”: 27,29). Ma ora i termini sono invertiti: è Giacobbe che si prostra davanti al fratello e questo atto di umiltà ha l’effetto di placare il rancore di Esaù. Esaù rifiuta i doni di Giacobbe, e accetta solo un “omaggio” (in ebraico “berakah”) quasi a risarcimento della “berakah”/benedizione che gli era stata carpita con l’inganno. La trasformazione interiore dell’eletto continua ancora con il rovesciamento delle posizioni iniziali. Sorprendente è la dichiarazione di Giacobbe: “io sono venuto alla tua (di Esaù) presenza come si viene alla presenza di Dio” (v.10) con allusione a “Penuel”/faccia di Dio (32,31); abbracciando il fratello, Giacobbe torna ad incontrarsi con Dio: il volto del fratello che perdona ed abbraccia è manifestazione e presenza di Dio. L’incontro con Dio passa attraverso la riconciliazione con il fratello (quale anticipo del NT!).

Restaurate le relazioni fraterne, Giacobbe si sente spronato da Dio stesso: “Alzati, va a

Betel e abita là” (35,1a). Egli si prepara con scrupolo all’incontro (cf 35,2-4), poi si reca a

Betel circondato dalla protezione divina (il forte terrore che prende le genti all’intorno è

indizio della presenza di Dio: cf v.5), e qui Dio “gli apparve un’altra volta” (v.9). Le parole

di Dio confermano il nuovo nome del patriarca (v.10) e promettono una fecondità smisurata

(vv.11-12).

Questo testo non ha la forma (e quindi la solennità) di un’alleanza sul tipo di quella con Abramo. Però riveste un’importanza singolare, essendo l’ultima di una serie di promesse divine che ha costellato i cicli di Abramo e di Giacobbe. I vv.9-12 sono probabilmente di trad. P (sec.VI): questo spiega perché non si dia risalto a Betel, che nel sec.VI non esisteva più, e perché la promessa di benedizione e di fecondità sia tanto enfatizzata: essa riguarda la smisurata ed illustre discendenza (“popolo e assemblea di popoli… re usciranno dai tuoi fianchi”: v.11) e il dono della terra dei Padri (v.12). L’Israele esilico deve sperare in tempi migliori contemplando la continua fedeltà che Dio ha dimostrato ai Padri. Il parallelismo con le promesse ad Abramo, ma anche il loro superamento sono evidenti. L’autore sacro accentua questa benedizione perché in Giacobbe, circondato dai dodici figli, futuri patriarchi, la promessa non è più semplicemente tale, sebbene si debba attendere ancora per la nascita del popolo vero e proprio. Gen, 49 (le benedizioni di Giacobbe) confermerà il ruolo tutto speciale attribuito a questo patriarca dalle antiche tradizioni.

Questo è il vertice dell’itinerario spirituale di Giacobbe: vertice raggiunto faticosa-

mente ma fermamente perseguito da Dio. Come già accadde per Abramo, su questa

massima punta dell’esperienza di Dio si chiude l’arco della vita del patriarca che interessa la

storia della salvezza. Giacobbe, fra le delusioni e dolori causatigli dai figli (cf c.34; 35,21-

22 e tutta la vicenda di Giuseppe), vivrà da “eletto di Dio” (cf Ml 1,2), nell’ombra di

vicende che non lo vedranno più protagonista, sempre nella fiducia che le promesse si

realizzino. La figura del Patriarca rivela altri tratti interessanti nello sviluppo del ciclo del

figlio Giuseppe (come la sua predilezione per questo figlio, la sua sofferenza nel seno di un

clan difficile, il suo abbandono in Dio), ma abbiamo sufficienti dati, per una valutazione

teologica, nel ciclo che lo vede protagonista

Non si parla della “fede” di Giacobbe nel testo, sebbene essa sia implicita nella sua

reazione alle parola di Dio (cf 35,14); certamente Giacobbe risulta distante da Abramo su

questo versante, o almeno il suo rapporto con la fede si esplicita diversamente: vari, infatti

sono i modelli che Dio propone. Ma il redattore che ha già mostrato Giacobbe giunto al

diretto contatto con Dio nel c.35, vuole illustrare i frutti della sua fede piena mediante la

chiara visione riguardo al futuro d’Israele che dimostra di avere quando benedice i suoi figli

nell’imminenza della morte (c.49).

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Più che benedizioni, Gen 49 contiene una serie di oracoli che descrivono la situazione delle varie tribù nel tempo del massimo splendore della monarchia

Le “benedizioni” di Giacobbe in Gen 49 sono piuttosto degli oracoli nei quali si alternano benedizioni e maledizioni. Sappiamo del “peso” che esse hanno nella mentalità patriarcale. Un quadro parallelo si ha in Dt 33 (benedizioni di Mosè), più recente; ma anche in Gdc 5 (cantico di Debora), più antico. Gen 49 appartiene al genere letterario del “testamento”. Secondo le concezioni antiche il moribondo aveva particolari intuizioni sul futuro e le sue benedizioni/maledizioni avevano un potere maggiore di quello assegnato alle normali benedizioni/maledizioni. Mosè, Samuele, David, Mattatia ed altri importanti personaggi lasceranno il loro testamento. Giovanni adotterà con rara efficacia questo genere letterario nei “discorsi di addio” di Gesù (cf Gv 14-17).

Il poema, dicevamo, riflette una situazione posteriore a Giacobbe: la sua ultima forma non può essere più tardiva del regno di David, ma alcuni suoi elementi sembrano anche anteriori. Comunque esso rispecchia il momento di massimo splendore della monarchia davidica. L’ordine con cui i figli vengono benedetti è quello della loro nascita (cc.29-30); il simbolismo animalesco domina (Giuda come leone, Issacar come asino…). Ruben non ha eredità a causa del peccato di incesto commesso (cf 35,21-25, che non è un semplice disordine sessuale, bensì il tentativo di soppiantare il padre nel proprio clan; la stessa portata avrà l’iniziativa di Assalonne in 2Sam 16,21-212). Anche Simeone e Levi saranno dispersi a motivo della violenza perpetrata contro gli abitanti di Sichem (Gen 34). Ma la preminenza assoluta dell’oracolo riposa su Giuda (49,8-12): la storia di questa tribù è praticamente la storia del popolo di Dio; ma il suo costante dominio avrà piena realizzazione con la venuta del più glorioso discendente della dinastia davidica, il messia. Il regno del discendente di Giuda sarà prospero, come dicono due immagini efficaci (v.11): l’asino legato alla vite e i panni lavati nel vino. Per l’abbondanza non si esiterà a legare l’asino alla vite pur col pericolo che la danneggi, né si esiterà ad usare il vino al posto dell’acqua, tanto esso sarà abbondante. Queste immagini che ricorrono anche altrove (Am 9,13; Gl 4,18; Is 25,6) sono semplici simboli di realtà spirituali. Fin dall’antichità questo oracolo è stato considerato la prima profezia messianica in senso stretto: Gesù si identifica con “il leone della tribù di Giuda” (Ap 5,5) e porta a compimento le promesse fatte a David (cf 2Sam 7) e l’oracolo di Gen 49. Accanto a quello di Giuda si deve porre l’oracolo su Giuseppe (vv.22-26). Nei sue due figli, Efraim e Manasse, egli conterà molto nella storia susseguente: Giuseppe sarà come una rigogliosa pianta da frutto. Le successive immagini degli arcieri e del guerriero, alludono probabilmente alle dure lotte sostenute dagli efraimiti contro nemici esterni e interni (Gdc 6-9; 12,1-6). Ma la più tipica e agognata promessa è quella di una terra pingue di vino e latte, quanto mai confacente alle attese delle famiglie patriarcali.

Lo stare “in sordina” della fede e il suo emergere gradualmente nella vicenda di

Giacobbe fino al termine della storia (c.49) con una visione chiara sulla sorte dei suoi figli

stanno a dire, secondo il redattore, che egli ha vissuto sempre nella certezza che Dio è

fedele. Un’esistenza avventurosa, come quella di Giacobbe, costellata di incontri/scontri

con Dio e di crescente prevalere della dimensione religiosa in lui, rendono il patriarca

modello accessibile di vita per chiunque sia in ricerca di senso nella vita.

3. Il ciclo di Giuseppe (Gen 37,2 – 50,26)

Quest’ultima sezione di Gen è ascrivibile quasi esclusivamente alle trad. JE (pochi gli

interventi di P), e si presenta come il ciclo più compatto e definito riguardante i Patriarchi.

Due capitoli non dovevano far parte originariamente della storia di Giuseppe: il c.38 (la storia fra Giuda e Tamar), unità letteraria completamente chiusa in se stessa, e il c.49 (benedizioni di Giacobbe), raccolta molto antica di oracoli sulle tribù israelitiche rispecchianti un’epoca molto posteriore, come si è detto poco sopra.

L’epoca di composizione del ciclo di Giuseppe potrebbe essere il sec.X a.C.: in esso,

infatti si respira un notevole cosmopolitismo (è il periodo di Salomone che intrattiene 79

Page 79: Genesi

relazioni con molti popoli, in specie con l’Egitto) e lascia presupporre una ragguardevole

attività letteraria e sapienziale.

L’intonazione generale del racconto, il quale, più che una pagina storica o teologica, si rifà al racconto sapienziale esemplare dai contorni storici piuttosto sfumati, permette di pensare, dunque, con ragionevole grado di probabilità al sec.X. Va, certo, evitata ogni semplificazione: l’ambientazione storica non è così esplicita da eliminare ogni perplessità, ma la si può considerare, allo stadio della ricerca, sufficientemente probabile. A tal proposito si ricordi che ancora deve essere trovato un brano biblico che impedisca di far riferimento ad una (o più) epoca della civiltà medioorientale: per il fatto che intento della Bibbia non è quello di fare la storia, bensì quello di servirsi della storia per iscrivervi il progetto storico-salvifico, questa affermazione è valida.

Per la nuova ipotesi della composizione del Pentateuco, altrove menzionata, la storia di Giuseppe non può essere così antica proprio a causa della sua perfezione: essa è un vero “romanzo storico” con un unico protagonista dall’inizio alla fine, sebbene vi siano delle aggiunte estranee come il c.38; il suo universalismo presupporrebbe la predicazione del DeuteroIsaia e la figura di Giuseppe sarebbe tratteggiata secondo stilemi sapienziali postesilici (cf Pr 1-9). La motivazione principale sarebbe quella dell’impossibilità di un’attività letteraria ed artistica così elevata al tempo di David e Salomone (sec.X a.C.). Ma se ne portano anche altre: ne tratteremo nella Conclusione.

Letterariamente siamo di fronte ad un’opera letteraria vera e propria della prosa

ebraica: la purezza della lingua, la linearità del racconto, la successione serrata dei vari

episodi, gli elementi di ‘suspense’ che tengono desta l’attenzione e la tensione del racconto,

la forte caratterizzazione dei personaggi testimoniano in favore del valore artistico del ciclo.

Vediamo qualche dettaglio. Come ogni racconto, il ciclo è costituito da tre momenti

fondamentali: comincia con una situazione stabile e tranquilla, segue una crisi, infine una

risoluzione finale.

All’inizio la famiglia di Giacobbe è unita, i fratelli si riconoscono come tali (cf 37,2-3). Poi la crisi: si odiano, non si parlano, gli uni complottano contro l’altro fino a pensare di uccidere Giuseppe (cf 37,4-36). In un terzo momento la riconciliazione, il dialogo fraterno e la riunificazione dell’intera famiglia (cf cc.42-46). E’ proprio a motivo della fondamentale unitarietà della novella che risulta difficile applicare a questi capitoli la teoria delle diverse fonti che fino a questo momento era più che plausibile. Comunque, continuiamo per il momento ad esporre l’ipotesi classica Perdurava la memoria della discesa del clan di Giacobbe in Egitto a causa delle vicissitudini e delle fortune di un personaggio carismatico, Giuseppe. Al tempo di Salomone essa fu ripresa ed elaborata con maestria poiché offriva diversi spunti adatti per consolidare il regime salomonico e l’integrazione fra le tribù settentrionali e meridionali che componevano il regno.

Non seguiremo il racconto passo passo: esso d’altronde è molto noto a motivo della

trama avvincente. Sostiamo su alcune note più significative.

Quella di Giuseppe è una storia tutta umana. Rispetto alla storia di Giacobbe si va ancor

più avanti in questa linea: infatti al personaggio “laico” che è Giacobbe si sovrappongono

espliciti interventi divini che educano gradualmente. Qui, invece, tutto è “orizzontale”:

personaggi spiranti miserie e grandezze. Giuseppe rivela progetti di supremazia: anch’egli

s’ingegna a farsi spazio come il padre Giacobbe, forte della sua predilezione (è il ruolo dei

suoi sogni: cf 37,4-10) e i fratelli lo odiano con tutte le forze fino ad estrometterlo dal loro

clan: una famiglia distrutta! Non viene riportata nessuna preghiera, nessuna liturgia o atto di

culto, non vengono menzionati santuari patriarcali e oracoli divini. Tutto si svolge al di

fuori dei recinti sacri: è una storia tutta laica. Conseguentemente è costruito anche il ritratto 80

Page 80: Genesi

di Giuseppe. Egli non gode di contatti diretti con Dio e di esperienze trasformanti. Egli è

esemplare di virtù umane: la sua pietà verso i genitori, l’amore fraterno e il perdono, la fuga

dell’adulterio (cf la motivazione umana della lealtà e dell’amicizia, e non religiosa, che egli

apporta in 39,8-9), la pazienza nell’avversità (un solo cenno al “Signore [che] fu con

Giuseppe” in 39,21)… tutto corre sul crinale della filantropia. Giuseppe è l’uomo delle virtù

quotidiane e normali! Lo stupendo protagonista di un “romanzo storico” dalla toccante

umanità.

In realtà questa diversa ispirazione del ciclo di Giuseppe rispetto ai due precedenti va attribuita alla collocazione del personaggio: Giuseppe non è uno dei patriarchi destinatari di visioni e di promesse, bensì egli e i suoi fratelli sono gli antenati del popolo di Dio, i capostipiti delle dodici tribù. Nella storia della “discendenza (toledôt) di Giacobbe” (37,2) viene presentato per primo l’ultimo dei nati da Giacobbe al tempo della sua “servitù” presso lo zio Labano (30,24). Va tenuta ben presente la diversa funzione del personaggio rispetto ai precedenti: il redattore del Pentateuco ha inserito la sua storia tra i Patriarchi e l’esodo per colmare la vistosa lacuna della permanenza degli Ebrei in Egitto della quale la Bibbia non dice nulla. Nell’economia di Gen, dunque, il ciclo di Giuseppe ha un ruolo di collegamento tra i Patriarchi e il Popolo d’Israele ormai costituito. L’appellativo di “patriarca” attribuito a Giuseppe e ai fratelli, dunque, non dovrebbe avere la stessa portata che ha per Abramo, Isacco e Giacobbe: questo senza alcun pregiudizio per il ruolo e l’importanza del nostro eroe.

A dire il vero l’ingresso del protagonista sulla scena non suscita istintiva simpatia: egli

sembra approfittare della predilezione del padre per riportargli i “pettegolezzi” dei fratelli

(37,2) e con i suoi “sogni” narrati ostentatamente pone forse una premessa per innalzarsi su

di essi. E’ lui stesso il motivo della scatenante gelosia dei fratelli! Questi particolari vanno

tenuti presenti per comprendere meglio il comportamento di Giuseppe al culmine della

storia. Tutto questo cammino è guidato da un Protagonista invisibile, Dio: è Lui che tira le

fila di tutta la vicenda; è Lui la chiave ermeneutica della storia: “Dio mi ha mandato qui

prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di

molta gente” (45,7); motivazione ripresa con solennità al termine: “Se voi avete pensato del

male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi

si avvera: far vivere un popolo numeroso” (50,20). Questo denso concetto teologico

costituisce il climax di tutta la storia di Giuseppe.

Il pianto di Giuseppe di fronte all’ultima cattiveria dei fratelli, gretti all’inverosimile (cf 50,17b), lo rivela stupendamente umano, ma inopinatamente, si direbbe, emerge la profonda religiosità del protagonista nell’affermazione che subito egli fa: l’ulteriore dolore arrecatogli egli lo sconfigge con l’interpretazione che dà di tutta la vicenda. La finale colora di senso religioso tutta una storia solo apparentemente soltanto umana. Questa dimensione religiosa ha, come già accennato, una colorazione sapienziale

marcata, così evidente nei due versetti chiave sopra citati, ma sottostante ad ogni fase della

vicenda: sapienziale è, ad esempio, il tentativo di seduzione da parte della moglie di Potifar

(39,7-15; cf il motivo della “donna straniera” in Pr 2,16;5,3.20;6,24-26). Ma elemento

tipicamente sapienziale è il sogno, non solo quello di Giuseppe giovinetto (37,5-10; “Ecco,

81

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il sognatore arriva!”: v.19), ma anche quelli del coppiere e del panettiere del faraone (40,5-

23) e del faraone stesso (c.41).

Il “sogno” nella Bibbia ha una valutazione varia. Una tradizione accoglie positivamente il sogno, soprattutto nella storia dei patriarchi (Gen 20,3;28,10-22;31,24), nei libri “storici” (1Sam 3 per Samuele; 1Re 3,4-15 per Salomone) e nei libri apocalittici (libro di Epoche, i Testamenti dei XII Patriarchi). Nel NT si pensi all’esperienza di Giuseppe di Nazareth (Mt 1,20;2,13.19.22); il sogno annuncia i nuovi tempi escatologici (At 2,17 che cita Gl 3,1). Un’altra corrente, profetica e sapienziale, mostra diffidenza nei confronti dei sogni (cf Ger 23,15-32) o anche molta severità (valutazione dura di Sir 34,1-8). Criteri per il giusto discernimento sono l’ortodossia dell’interpretazione dei sogni e il vaglio della storia, e questo si verifica nella storia di Giuseppe. Egli interpreta i sogni rettamente: quelli che all’inizio sembravano confezionati a suo proprio vantaggio, alla fine appariranno non più solo in funzione di Giuseppe, bensì integrati, assieme agli altri, per la salvezza di molte persone. Il sogno, rettamente interpretato, risulta “parola di Dio” che si realizza e quindi diviene uno dei mediatori della Parola. Il sogno vuole la verifica, altrimenti rimane fantasia irreale e ingannevole. Pertanto, nella storia di Giuseppe esso appartiene alla categoria positiva di mediatori della Volontà divina.

L’impronta sapienziale può, in particolare, aiutare ad interpretare il grande spazio dato al

confronto di Giuseppe con i fratelli (cf cc.42-45): è un susseguirsi di viaggi dei fratelli tra

Canaan ed Egitto, ma questi non sono solo fatterelli di cronaca, bensì diventano simboli di

un lungo cammino interiore di trasformazione e di purificazione: vi si intrecciano i temi

della prova, della provvidenza di Dio, dell’ospitalità, della fraternità e della riconciliazione.

Giuseppe, venduto in Egitto, è dimenticato dai fratelli: per loro egli non esiste più! Dovranno compiere un duro e sincero cammino di purificazione e di conversione per riacquistare il senso della fraternità, e Dio si serve proprio di Giuseppe. Quando egli li ha davanti li sottopone alla prova: li accusa di essere spie (cf 42,6-17) e li minaccia di severe sanzioni. Nel pericolo i fratelli cominciano a ritrovare se stessi; si riconoscono una sola famiglia, figli dello stesso padre e si ricordano anche di “uno (che) non c’è più” (42,13). Il confronto si sviluppa con altre prove che approfondiscono la solidarietà dei fratelli e Giuseppe ha la prova definitiva del loro cambiamento quando Giuda si dichiara disposto a dare la vita in cambio di quella di Beniamino (cf 44,33: tutto il discorso di Giuda è un capolavoro di retorica biblica, pervaso da autentica commozione). Il cambiamento è radicale, è rinato lo spirito e il legame fraterno. Ed è allora che Giuseppe si fa riconoscere (cf 45,2-3) e la famiglia può ricostituirsi. Educato dalle sofferenze patite a causa dei fratelli e dalla sapienza che gradualmente esse gli hanno procurato, Giuseppe, di fronte ai fratelli ignari, cerca il modo per instaurare la fraternità che prima aveva contribuito a far fallire. E’ una strategia che merita approfondimento. Prima di farsi riconoscere da loro egli comincia col mentire circa la propria identità e usa anche una certa violenza con loro. Ma egli usa questi mezzi a fin di bene: “ Giuseppe induce i fratelli a rivisitare il loro passato e a riconoscere la sofferenza che hanno inflitto a lui e al padre. Li porta così ad una conversione interiore (cf 42,13.21-22.28.36-38) fino al giorno in cui, messi alla prova quanto alla loro fraternità nei confronti di Beniamino, invece di disfarsi di nuovo del figlio preferito di Giacobbe, riconoscono piuttosto la loro colpa (44,16). Giuda, quello che aveva proposto di vendere Giuseppe, si offre come schiavo al posto di Beniamino per proteggere la ragione di vita del padre, cioè la relazione privilegiata con il figlio preferito (44,18-34): esattamente quello che aveva provocato l’odio e la gelosia dei fratelli in Gen 37,3-4. Alla fine, la concupiscenza e la gelosia che erano di impedimento alla fraternità sono domate. Lo stesso per la menzogna e l’inganno. Quando Giuseppe si fa riconoscere, il narratore annota puntualmente il ritorno allo scambio verbale (45,15). Nella sua saggezza, Giuseppe era consapevole di non poter fare il cammino dei fratelli al loro posto, senza privarli di loro stessi, senza spogliarli della loro iniziativa e della loro libertà. Se avesse agito così, avrebbe reso impossibile la fraternità. Perché questa viene solo alla fine di una lunga maturazione, resa possibile dai passi che ciascuno muove verso l’altro, accettando di rinunciare all’invidia e alla menzogna. Ed è vitale giungere a questo: la conclusione del racconto non sottolinea forse che la posta in gioco ultima della fraternità è la vita (50,20-21)?” (A.Wénin, Dalla violenza alla speranza. Cammini di umanizzazione nelle Scritture, ed. Qiqajon, Magnano (BI) 2005, pp.47-48). La storia di Giuseppe dimostra che c’è la possibilità del perdono, della riconciliazione e della fraternità attraverso la prova e la conversione sincera. Ma questo è possibile non per un gioco avveduto e mirato tra uomini, bensì a causa di un occulto Protagonista, che lo stesso Giuseppe, “timorato di Dio” (cf 42,18b), svela nelle frasi su riferite. Ecco la “sapienza” della peripezia avvincente di Giuseppe: Dio regge le sorti dei suoi eletti che guida con mano nascosta e sicura tra vicende umane intricate.

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Page 82: Genesi

La tradizione biblica esalta la sapienza (cf Sap 10,13; Sir 49,15) e la fede (cf Eb 11,22)

di Giuseppe; queste e le altre virtù del personaggio sopra elencate (oltre alle traversie

subite) inducono i Padri della Chiesa ad additare Giuseppe come “tipo”, figura anticipatrice

di Cristo.

Tre storie di fratelli legano il racconto di Gen. Due lo aprono e lo chiudono: all’inizio

la storia di Caino ed Abele dominata soltanto dalla violenza e dal sopruso; alla fine un’altra

storia di fratelli dove, invece, risplende la potenza del perdono e della riconciliazione . Al

centro la storia di Giacobbe ed Esaù che sfocia nella riconciliazione in preparazione

all’incontro con Dio a Betel ed è quindi, in un certo senso, la più significativa. Ma il ciclo di

Giuseppe completa molto bene quelli precedenti: fondamentale è il rapporto vivo e solido di

Alleanza con Dio (Abramo e Giacobbe), però è indispensabile anche un forte senso di

fraternità e di comunione interpersonale (Giuseppe) e il prolungato itinerario di

riconciliazione tra Giuseppe e i fratelli ne dimostra l’importanza.

Il ciclo dei Patriarchi risulta, pertanto, la storia di una fratellanza perseguita come risposta alle benedizioni divine. Sotto questo punto di vista diviene chiara la contrapposizione fra i due blocchi di Gen: la “storia primitiva” (cc.1-11) registra una ripetuta infrazione dei rapporti tra fratelli (Caino e Abele, il canto di vendetta di Lamech, l’esito negativo del tentativo di Babele). La ribellione a Dio non può che influire negativamente sui rapporti interpersonali. La “storia dei Patriarchi” (cc.12-50), invece, essendo una storia di relazioni rinnovate con Dio, è anche una storia di fratellanze recuperate come frutto preminente delle benedizioni di Dio.

Gen acquista, così, una completezza insospettata: è il libro delle premesse della storia

della salvezza, i cui fondamenti sono stati ben piantati. Ormai può iniziare la storia del

Popolo di Dio, partner definitivo dell’Alleanza.

Questa storia è anticipata dalla visione ammirata dei destini gloriosi del popolo nel c.49

(le “benedizioni di Giacobbe”). Il testo, che abbiamo visto risalente all’epoca monarchica

ma con molti elementi anteriori, è stato collocato dal redattore al termine di Gen come

vaticinio e garanzia: la storia che fra poco inizierà con Esodo sarà sempre drammatica, ma

sfocerà nella formazione di un popolo pienamente rispondente alle promesse fatte ai

patriarchi.

4. Osservazioni conclusive sui PatriarchiLa vicenda patriarcale occupa il blocco più consistente di Gen. Qui essa è stata

presentata nella sua linearità per coglierne più agevolmente il progetto teologico, anche se,

dal punto di vista della critica storica e letteraria, la formazione di questi cicli è

estremamente complessa e soggetta a molte ricostruzioni ipotetiche (problema accennato

all’inizio e ripreso fra poco). A noi preme valutare globalmente, attraverso di essi, le prime 83

Page 83: Genesi

grandi tappe della storia particolare della salvezza.

In una conclusione articolata tocchiamo due questioni, l’una teologica e l’altra storico-

critica.

a) Una valutazione teologica complessiva del ciclo dei Patriarchi.

Dio sceglie uomini singoli, i Patriarchi, e con ognuno adotta una particolare pedagogia: li

chiama come persone inserite in un preciso contesto vitale con tutti i condizionamenti

dell’epoca perché rifulga la gratuità della vocazione, il suo inserimento nella vicenda

umana e il suo graduale sviluppo.

La vicenda patriarcale evidenzia una vita morale allo stadio ancora iniziale: costumanze matrimoniali (cf 12,10-20; 16,1-3; 19,30-38; 20,1-18; 25,1-4; 26,34-35; cc.29-30) e comportamenti sociali (cf cc.27 e 34 in particolare), se da una parte costituiscono preziose testimonianze di inserimento in un concreto sfondo epocale, dall’altra lasciano perplessi per l’imperfezione che denotano. Allora è importante precisare che un conto è, per la Rivelazione, la condotta morale e un altro conto è il cammino di fede. Dio ha scelto i Patriarchi per far progredire, attraverso di loro, la Rivelazione: egli esige da essi una chiara testimonianza di fede, nella quale la Bibbia li descrive perfetti. Ma Dio non li strappa dal loro ambiente e dalla loro cultura, e quindi dalle evidenti limitazioni di costumi fieri e primitivi: sarebbero risultati modelli estranei ed incomprensibili. Israele, che medita sulle sue origini, si riconosce meglio in questi capostipiti, li considera più accessibili. L’affinamento del senso morale ha un passo diverso da quello della fede. Anzi, proprio perché la fede pone in dialogo esigente con Dio, può iniziare realmente un progresso in campo morale, come la legislazione mosaica poi testimonierà. Diremmo che Dio è radicale nell’esigere l’obbedienza della fede, in quanto risposta alla sua iniziativa rivelatrice, mentre è paziente pedagogo in campo morale: la coerenza tra fede e morale costituirà un caposaldo a partire dalla predicazione profetica. Queste precisazioni vanno tenute presenti per molte altre pagine bibliche, in particolare a proposito degli usi degli Ebrei nel deserto e dei comportamenti dei Giudici.

Il primo incontro fra un Dio personale e l’uomo getta luce vivida sull’identità di

entrambi. Dio è essenzialmente l’ ”essere per” gli altri, il “Dio misericordioso e fedele”

che non ritira le promesse, anche se le protrae nel tempo: sa adattarsi alle diverse indoli

degli eletti, tutto teso a instaurare un rapporto personale.

L’uomo, dal canto suo, investito dalla chiamata, acquista il senso fondamentale

dell’esistenza: è trasformato nell’intimo, vive solo per Dio e per una risposta totale nella

fede; è l'uomo radicalmente afferrato da Dio (un “profeta”: cf Gen 20,7).

Con i Patriarchi, quindi, Dio pone tutte le premesse per il cammino della rivelazione:

ecco perché la tradizione, che ha compreso bene il loro ruolo, usa spesso la formula “il Dio

di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe” e Gesù stesso l’adotta (cf Mc 12,26-27 e

par.). Dopo la preparazione e i ‘tentativi’ fatti con l’umanità primitiva, con i Patriarchi Dio

instaura un’Alleanza eterna: con la luce dello Spirito la chiesa primitiva riconoscerà

agevolmente nell’alleanza patriarcale il suo inizio e fondamento (cf At 3,13; 7,2-16), a tes-

timonianza dell’unità della Rivelazione.

b) Il ciclo dei patriarchi alla luce della critica storica

Ritornando sulle questioni iniziali di carattere storico-critico preciseremo meglio la

84

Page 84: Genesi

funzione di questi testi.

Indubbiamente si respira un altro clima passando dalla storia delle origini a quella dei

patriarchi: si entra in un ambito più preciso e si fa appello a usi e costumi matrimoniali,

all’ospitalità e alle scoperte archeologiche per collocare questi personaggi all’inizio del

secondo millennio a.C. Ma questo evidente maggiore aggancio alla storia permette di essere

così precisi sulla collocazione dei patriarchi? Oggi se ne dubita.

Gli indizi che inducono a maggiore prudenza sono molteplici. Innanzitutto non vi sono tracce dei patriarchi biblici nei documenti contemporanei; nessuna iscrizione, nessun documento o monumento essi ci hanno lasciato (un argomento, questo, in verità non troppo probante, poiché non è detto che i Patriarchi debbano essere stati personaggi tali da dover lasciare tracce). La stessa loro religione che professa la fede nel “Dio del padre” o nel “Dio dei padri” (Gen 26,24;28,13;31.53;32,10;46,1; Es 3,6) e che privilegia un culto legato primariamente alle persone in contrasto con le divinità cananee legate a luoghi e templi, non può essere considerata come esclusiva dei patriarchi: essa è esistita sotto forme diverse in tutta la storia d’Israele e non caratterizza un’epoca precisa. Ancora: le condizioni di vita dei patriarchi che appaiono come seminomadiche dalle fonti non conduce ad un’epoca specifica. I beduini del deserto vivono ancora oggi più o meno come i patriarchi biblici! Non è quindi possibile individuare con certezza l’epoca patriarcale solo sulla base di alcuni costumi o di un certo stile di vita. Se si passa ai patriarchi in Egitto non accresciamo le nostre certezze. Scene di migrazioni di semiti verso l’Egitto descrivono passaggi abituali di gruppi asiatici in Egitto. Il collegamento fra i testi biblici e quelli egiziani che parlano degli Hyksos (popolazione asiatica che è riuscita a governare l’Egitto per quasi due secoli: 1730-1550 a.C.) è puramente ipotetico, come lo è anche quello tra le migrazioni patriarcali e i cosiddetti hapirû, gruppi nomadi e banditeschi che scorazzavano per il medio oriente verso la metà del II millennio. Ma c’è di più: nessuna traccia di un personaggio di nome Giuseppe nelle liste dei funzionari egiziani, e questo sorprende alquanto se Giuseppe è giunto alla carica di vicerè! Il ciclo di Giuseppe conosce qualche costume egiziano: gli egiziani non mangiano con gli stranieri (43,32) e hanno in abominio i pastori (46,34). Ma è francamente poco. Gli autori di Gen 37-50 hanno una conoscenza approssimativa della civiltà egiziana, quella che ogni abitante di Canaan un po’ istruito poteva avere. “Una storia come quella patriarcale, di carattere familiare, popolare e mistico-religioso, ha poche possibilità di trovare conferme nei monumenti archeologici e nei documenti della storia dell’antico Medio Oriente” (R. De Vaux). Un argomento abbastanza solido a favore della “storicità” delle figure patriarcali si basa sull’impossibilità di inventare gli antenati di un popolo. I patriarchi erano figure popolari e ben conosciute almeno in qualche parte della terra d’Israele (Abramo e Sara attorno a Ebron, Isacco nella regione di Bersabea e Giacobbe nel nord), ma molte questioni rimangono in sospeso: quando sono diventati gli antenati d’Israele? Quando si è stabilita la genealogia (Abramo, Isacco, Giacobbe)? E’ proprio vero che il primo è padre del secondo…? Non ci sono certamente motivi per negare queste notizie macroscopiche, ma nemmeno è possibile ritrovare il fondamento sicuro degli anelli patriarcali all’origine del popolo d’Israele: la tradizione è troppo celebrativa per non creare sospetti. Passando all’aspetto letterario, va detto che gli studiosi oggi abbassano drasticamente la datazione di alcuni testi chiave. Una pericope fondamentale come Gen 12,1-3 è considerata oggi postesilica: il suo scopo sarebbe quello di fare di Abramo il capostipite di una comunità tornata da Babilonia per ricostruire Gerusalemme e il tempio, come narrato in Esd-Ne. Come Abramo ha obbedito e Dio lo ha benedetto e reso prospero, altrettanto può accadere per chi ha avuto il coraggio di ritornare da Babilonia e di restaurare una vita in Palestina. Messaggio troppo palese! Ci sono addirittura indizi che Abramo non sia venuto dalla Mesopotamia, ma che sia un nomade che ha circolato sempre per la Palestina. Gli studiosi notano che si parla poco di questa provenienza di Abramo: solo in Gen 11,28.31;12,1-3;15,7; Ne 9,7 e questi sono tutti testi tardivi. Tutti gli altri racconti non presuppongono l’origine caldea di Abramo. Non è sorprendente che egli, in tempo di carestia, non ritorni a casa, ma scenda in Egitto? In Gen 24 c’è l’appellativo divino “Dio del cielo” (v.7) che è tipico del linguaggio di epoca persiana (2Cr 36,23;Esd 1,2). Le peregrinazioni di Giacobbe sono collegate dal filo rosso del “ritorno” in Canaan: i testi che lo menzionano (31,3.13;32,10;33,18) sono tardivi. Questi sono alcuni indizi che mostrano con una certa sicurezza come le figure patriarcali possono essere il frutto di una rilettura e di una riattualizzazione di testi più antichi per rispondere alle preoccupazioni della comunità postesilica tornata a Gerusalemme verso il 539 a.C. Si vuol dire semplicemente che bisogna essere molto cauti nell’istituire legami fra i testi biblici sui patriarchi e i movimenti di migrazione dell’inizio del secondo millennio.

Tenendo conto di questo panorama letterario che si presenta molto rinnovato non è il caso

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di reagire con uno scetticismo di fondo: viene meno ogni certezza, tutto è leggenda?! Più

volte abbiamo ammonito che non è questa la soluzione da abbracciare. Bisogna piuttosto

individuare l’intenzione dei racconti passati in rassegna. In linea di principio: non segue che

il personaggio di una leggenda debba essere necessariamente “leggendario” cioè inventato,

mentre molti elementi del racconto possono essere leggendari. Ed è impossibile separare gli

elementi leggendari da quelli strettamente storici. Ma cosa vogliono perseguire i testi

biblici? Non si dimentichi mai che essi sono “veri” in vista della nostra salvezza: essi non

vogliono “informare”, bensì intendono “formare”. Questo secondo fine non esclude il

primo, ma il modo di raccontare sarà diverso, perché al narratore non interessa in primo

luogo l’oggettività dei fatti, bensì il significato delle vicende narrate e a tal fine sceglie i

suoi mezzi espressivi. Ma quale è questo significato?

Innanzitutto la storia patriarcale è destinata a stabilire una genealogia che distingua Israele dai popoli circonvicini precisando la sua identità e che fondi il diritto ad avere una terra. Se Abramo l’ha percorsa per tutta la sua estensione prendendone possesso e ha concesso a Lot la parte che lui voleva agendo da padrone; se Giacobbe, pur pellegrinando altrove, vi è ritornato a comando di Dio e se Giuseppe, pur vissuto fuori di essa, vi ha voluto essere seppellito: tutto questo dimostra il reale dono che Dio ha fatto… Ma questo dono è stato fatto in perpetuo a tutti i discendenti (ecco il ruolo della genealogia): di qui il “diritto alla terra”. Infatti gli antenati sono modelli da seguire e i racconti che li riguardano sono paradigmatici, esemplari. Modello è in particolare Abramo per la sua fede, la fiducia e l’obbedienza; ma lo è in gran parte anche Giacobbe che rassomiglia ad un eroe popolare per le sue prodezze e la sua furbizia. Anche Giuseppe, pur ad altro livello, ha tante cose da dire alle generazioni future, in specie a quella dell’esilio. Infatti “con ogni probabilità, l’ultima redazione di questi racconti è postesilica, quando Israele non possedeva più la sua terra. Ora, secondo la teologia classica del Deuteronomio, Israele ha perso la sua terra perché non ha osservato la legge ed ha ‘rotto’ l’alleanza con il suo Dio (cf Dt 28). La causa dell’esilio è l’infedeltà d’Israele (cf 2Re 17). Ma rimane una speranza per Israele? Sì, rispondono i racconti patriarcali (nella loro ultima stesura), perché la promessa della terra è legata a un’alleanza più ‘antica’ di quella del Sinai o dell’’Oreb, alleanza condizionata dall’osservanza della legge. Secondo i racconti patriarcali, la promessa della terra è legata ad un’alleanza unilaterale ed incondizionata (cf Gen 15 e 17). Dio promette ad Abramo una terra ed una numerosa discendenza, ma non chiede nulla in cambio. Questa alleanza dipende solo dalla fedeltà di Dio alle sue promesse; l’infedeltà d’Israele non può invalidarla, ed infatti non l’ha invalidata. La speranza d’Israele è fondata quindi sulla grazia divina alla quale risponde la fede d’Abramo (Gen 15,6)” (J.L.Ska).     

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