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GENESI Dalle origini affiora un progetto Introduzione generale alla BIBBIA La BIBBIA dell'Antico Testamento è il racconto dell'esperienza religiosa e delle vicende storiche del popolo d'Israele, dapprima tramandata oralmente poi fissata in scritto. Dio vi si rivela in forma confidenziale e paterna comunica la sua verità, le sue esigenze e il suo piano. Vuole fare di questo popolo, che si è stabilito nella Palestina uno strumento di salvezza universale. Esso non era diverso dagli altri popoli e non fu trasformato miracolosamente. Dovette sottoporsi a un lungo tirocinio d’educazione faticosa ed austera, per rispondere alle esigenze di Dio e rimanere fedele all'alleanza stipulata con lui. Contenuto La Bibbia o Sacra Scrittura abbraccia l'Antico e il Nuovo Testamento, ossia da prima a dopo Cristo. Dal punto di vista del credente, essa contiene la Parola di Dio e il suo disegno di salvare tutti gli uomini del passato, del presente e del futuro per mezzo di Gesù Cristo. Il punto focale è, quindi, l'incarnazione del Figlio di Dio, come vertice e pienezza della storia della salvezza. In questo progetto di storia salvata è racchiusa la creazione intera e ciò che deve ancora accadere, val a dire il giudizio finale e la risurrezione dei morti. Autore e autori La Bibbia trasmette la volontà divina attraverso l’opera di uomini da lui ispirati, che ne diventano autori complementari. Sicché la “Parola” s’incarna negli uomini e negli ambienti storici in cui è stata pronunciata. È però rivolta ad una comunità vivente, credente e pellegrinante. Gli autori dei testi hanno scritto sotto ispirazione, ossia sono stati guidati da una particolare illuminazione divina. Pur conservando la loro identità culturale e temperamentale, interpretano i fatti del momento alla luce di Dio e li giudicano come indice d’adesione o di rifiuto alla sua verità. Più che un’esposizione storica, la loro è una teologia della storia. Le promesse sul Messia che percorrono l'antica Alleanza, per i cristiani si compiono nel Nuovo Testamento. «Nella persona di Gesù e nella sua opera, si rivelò agli Apostoli il senso della storia, della

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GENESIDalle origini affiora un progetto

Introduzione generale alla BIBBIA La BIBBIA dell'Antico Testamento è il racconto dell'esperienza religiosa e delle

vicende storiche del popolo d'Israele, dapprima tramandata oralmente poi fissata in scritto. Dio vi si rivela in forma confidenziale e paterna comunica la sua verità, le sue esigenze e il suo piano. Vuole fare di questo popolo, che si è stabilito nella Palestina uno strumento di salvezza universale. Esso non era diverso dagli altri popoli e non fu trasformato miracolosamente. Dovette sottoporsi a un lungo tirocinio d’educazione faticosa ed austera, per rispondere alle esigenze di Dio e rimanere fedele all'alleanza stipulata con lui.

Contenuto La Bibbia o Sacra Scrittura abbraccia l'Antico e il

Nuovo Testamento, ossia da prima a dopo Cristo. Dal punto di vista del credente, essa contiene la Parola di Dio e il suo disegno di salvare tutti gli uomini del passato, del presente e del futuro per mezzo di Gesù Cristo. Il punto focale è, quindi, l'incarnazione del Figlio di Dio, come vertice e pienezza della storia della salvezza. In questo progetto di storia salvata è racchiusa la creazione intera e ciò che deve ancora accadere, val a dire il giudizio finale e la risurrezione dei morti.

Autore e autori La Bibbia trasmette la volontà divina attraverso

l’opera di uomini da lui ispirati, che ne diventano autori complementari. Sicché la “Parola” s’incarna negli uomini e negli ambienti storici in cui è stata pronunciata. È però rivolta ad una comunità vivente, credente e pellegrinante.

Gli autori dei testi hanno scritto sotto ispirazione, ossia sono stati guidati da una particolare illuminazione divina. Pur conservando la loro identità culturale e temperamentale, interpretano i fatti del momento alla luce di Dio e li giudicano come indice d’adesione o di rifiuto alla sua verità. Più che un’esposizione storica, la loro è una teologia della storia.

Le promesse sul Messia che percorrono l'antica Alleanza, per i cristiani si compiono nel Nuovo Testamento. «Nella persona di Gesù e nella sua opera, si rivelò agli Apostoli il senso della storia, della legge e delle promesse. Scoprirono insomma che tutto l'Antico Testamento aveva un senso cristiano. Gli Apostoli non ricavarono la loro fede dall'Antico Testamento, ma fu la fede in Gesù Cristo a far loro comprendere le Scritture» (Girlanda).

Esegesi biblica Molti sono i fattori che rendono complessa la lettura della Bibbia. Fra

essi, la grande dimensione temporale e culturale che racchiude poi, la varietà degli stili o generi letterari usati. Gli esperti o esegeti, hanno sottoposto gli scritti ad un’accurata analisi. L'esegesi o interpretazione biblica consiste, quindi, in una

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ricerca per arrivare alla parola più sicura tra le varie redazioni del testo e alla verifica degli altri elementi contemporanei agli scritti.

Canone ebraico delle Scritture La Bibbia ebraica contiene l’Antica Alleanza (AT) così suddiviso: 1. Torah (il Pentateuco): Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio. 2. Profeti anteriori: Gs, Gdc, 1-2 Sam, 1-2 Re; Profeti posteriori: Is, Ger, Ez, Os, Gl, Am, Abd, Gio, Mic, Na, Ab, Sof, Ag, Zc, Ml. 3. Scritti: Sal, Gb, Pro, Rt, Ct, Qo, Lam, Est, Dn, Esd, Ne, 1-2 Cr.

Canone cristiano delle ScrittureAntico Testamento

Pentateuco: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio; 1. Libri storici: Gs, Gdc, Rt, 1-2 Sam, 1-2 Re, 1-2 Cr, Esd, Ne, Tb, Gdt, Est, 1-2 Mac. 2. Libri profetici: Is, Ger, Lam, Bar, Ez, Dn, Os, Gl, Am, Abd, Gio, Mic, Na, Ab,

Sof, Ag, Zc, Ml. 3. Libri sapienziali: Gb, Sal, Pro, Qo, Ct, Sap, Sir. In tutto 46 libri.

Nuovo TestamentoVangeli: Matteo, Marco, Luca, GiovanniAtti degli ApostoliLettere di Paolo: Romani, 1-2 Corinzi, ai Galati, Efesini, Filippesi, Colossesi, 1-2

Tessalonicesi, 1-2 Timoteo, a Tito, Filèmone ed Ebrei. Lettere cattoliche: Giacomo, 1-2 di Pietro, 1-2-3 di Giovanni e Giuda. Apocalisse. Il NT contiene 27 libri.

Diversità fra i due canoni. Alcuni libri dell’Antico Testamento non sono accettati dagli Ebrei, dai Protestanti e dai

Testimoni di Geova, ossia Tb, Gdt, 1 e 2 Mac, Bar, Sir, Sap. e alcune parti di Est e Dn. Pertanto il Canone degli Ebrei è di 39 libri, quello della Chiesa di 46.

Del Nuovo Testamento i Protestanti e i Testimoni di Geova non ammettono Ebrei, Giacomo, Seconda di Pietro, 2-3 di Giovanni, Giuda, Apocalisse.

Tradizioni della BibbiaLa parola di Dio, all'inizio trasmessa oralmente, fu in seguito trascritta e più tardi

ancora rivista, rielaborata e completata. Queste sono le quattro tradizioni dell'Antico Testamento:

1. Tradizione Jahvista o "J" (orale) Deve il nome al fatto che in essa Dio è chiamato Jahvé (Signore). I

racconti tramandati a memoria nella Giudea o regno del sud, furono messi in scritto verso il 950 a.C. al tempo del re Salomone. L’esposizione è vivacissima e Dio è presentato alla maniera di un gran monarca della terra (antropomorfismo). Riporta la creazione del mondo, dell'uomo, il peccato di Adamo e promette la salvezza di Dio per mezzo d’Israele.

2. Tradizione Elohista o "E" (orale) S’identifica col nome dato a Dio Elohìm (Dio). Sorse nel regno della

Samaria o del Nord e fu trascritta verso il 750 a.C. È attenta all'aspetto morale, evita di rappresentare Dio in maniera umana ed inizia dalla storia d’Abramo. Al centro vi è l'alleanza mosaica di Dio con il suo popolo, stipulata sul monte Sinai. La trasgressione o l’infedeltà all'Alleanza, diventa il peccato originale del

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popolo. Si ritiene che, dopo la distruzione di Samaria nel 721 a.C., questa tradizione sia stata fusa, accavallata o aggiunta a quella jahvista.

3. Tradizione Deuteronomista o "D" (scritta) Proviene dal Libro del Deuteronomio e interpreta i libri storici alla luce

della sua dottrina: fedeltà a Dio uguale a benedizione e disubbidienza a lui punita col castigo. Si applica soprattutto ai libri storici (Gs, Gdc, 1 e 2 Sam, 1 e 2 Re). Richiama appassionatamente Israele all’osservanza della Torah, per evitare la condanna all'esilio di Babilonia, che si andava profilando. L'opera ebbe inizio dopo la caduta di Samaria e fu al centro della riforma di Giosia (622 a.C.: vedi 2Re c 22). Cessò durante o alla fine dell'esilio babilonese.

4. Tradizione Sacerdotale o "P" (scritta) Si sviluppò dall'esilio babilonese (586 a.C.), al secolo IV a.C. Un

gruppo di Sacerdoti e di esperti della Torah riesaminò e rifuse i Libri Sacri. La liberazione dall’esilio aveva acceso le speranze e bisognava inquadrare bene il passato in vista di un rilancio futuro. Fa’ della Bibbia un testo accurato e rigoroso: colma i vuoti della narrazione precedente e la riformula, in modo da fare emergere l'identità del vero Ebreo e il suo rapporto col Dio dei padri. Dà rilevanza alla Torah, alla circoncisione e al culto del tempio. Oltre a ciò, introduce lunghe genealogie e codici religiosi e civili. Da questo diligente lavoro di limatura durato più di un secolo, è derivato l’attuale testo della Scrittura, che ora possediamo.

Fonti storichePur non avendo alcun testo originale dell’AT in ebraico, sono migliaia le copie

antiche pervenuteci. Tra i molti preziosi frammenti che vanno dal 250 a.C. al 68 d.C. trovati nelle grotte di Qumran ci sono due codici completi del profeta Isaia, uno di Abacuc ed altro ancora. Copie successive, sostanzialmente concordi ai manoscritti di Qumran sono: il Codice del Cairo, il Codice di Aleppo e il Codice di Leningrado, redatti dal 900 al 1000 d.C. e tutta l’opera dei masoreti.

PENTATEUCO I primi cinque libri della Bibbia compongono un insieme detto dai Giudei

la Torah o Legge e di gran lunga i più importanti. Per averne copie maneggevoli furono divisi in cinque rotoli. Di là proviene il nome di Pentateuco, o cinque astucci. Nel Pentateuco è narrata la nascita e il primo sviluppo del popolo discendente da Abramo e unito a lui nella fede nel Dio che gli si era rivelato, detto “Dio del padre o dei padri”. Questa narrazione è preceduta da un'esposizione sull'origine del cosmo, la creazione dell'uomo e il suo peccato.

Il Pentateuco è essenzialmente il prodotto di un'opera redazionale che dal secolo X, cioè sotto il regno di Salomone cominciò a raccogliere le memorie orali d'Israele. Le quali, sottoposte a successive revisioni, ebbero forma definitiva verso il V-IV secolo a.C. Vi confluisce la ricchezza storica e teologica del passato e del presente del popolo eletto, sempre attuale perché parola viva di Dio.

I libri del Pentateuco sonoGenesi. Descrive la creazione dell'universo e dell'uomo, il peccato originale e il

diluvio. In seguito il mondo si ripopola, ma i suoi abitanti continuano ad allontanarsi da Dio. Nei capitoli 12-50 è narrata l'elezione d’Abramo ad essere

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capostipite del popolo eletto e la storia dei suoi discendenti sino a Giuseppe, viceré d'Egitto.

Esodo. Rievoca la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù del faraone d'Egitto avvenuta per mezzo di Mosè, il passaggio del Mar Rosso e la traversata del deserto ed infine, il patto d’alleanza con Dio concluso al monte Sinai.

Levitico. Contiene una raccolta di leggi sui sacrifici, sull'investitura dei sacerdoti, sui codici di purità e di  santità, sul calendario liturgico, ecc.

Numeri. Racconta il cammino del popolo nel deserto fino alle soglie della “terra                   promessa”. Dopo la partenza dal monte Sinai, si fa il censimento del popolo, si costruisce la tenda del convegno o “santuario” e si celebra la prima Pasqua. Arrivato alle steppe di Moab, Israele si prepara ad attraversare il fiume Giordano per entrare nella “terra promessa”.

Deuteronomio. È strutturato su tre discorsi attribuiti a Mosè. Riporta le ultime vicende della vita del “Liberatore” e la missione affidata a Giosuè. Nel secondo discorso, il più lungo, è inserito un codice di leggi civili e religiose d’importanza capitale (cc 12-26). Pone l'accento sul valore religioso degli accadimenti, considerati eventi di salvezza ed esorta Israele alla fedeltà a Dio.

I cinque libri del Pentateuco o Torah, nella lingua ebraica non hanno titolo. S’identificano con la prima parola del testo

Bereshit «In principio» (Genesi) Shemot «Nomi» (Esodo) Wajjikrà «Allora egli chiamò» (Levitico) Bemidbar «Nel deserto» (Numeri) Debarim «Parole» (Deuteronomio).

GENESITraccia di lettura

Premessa La Genesi o Bereshìt è il libro delle origini del mondo, dell’umanità e

della storia. Si può dividere in due grandi parti: da Adamo ad Abramo (cc 1-11) e da Abramo a Giuseppe (cc 12-50).

Alcuni elementi fondamentali della prima parte appartengono alla protostoria e sono quindi ricostruzioni allegoriche di eventi primordiali, compresi alla luce della sapienza ispirata dal Dio dei padri. Si tratta dell’origine dell’universo, della creazione dell’uomo e, soprattutto, della frattura che si era operata tra Dio e l’uomo, vale a dire il peccato delle origini. La seconda parte (cc 12-50) ricostruisce e interpreta fatti storici non del tutto decifrabili. Nel complesso la Genesi indaga sull’inizio e il senso delle realtà create, sul malessere dell’uomo e sui primi passi incerti nella storia. Poi si sofferma a tratteggiare la figura di Abramo

e della sua discendenza.Autore

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GENESI

Ciascuno dei libri della Bibbia ha almeno due autori che lavorano in simbiosi: Dio e l’uomo. Dio, non avendo un corpo come noi e non potendo comunicare attraverso gli organi vocali e i sensi, ispira i suoi messaggi a dei personaggi disponibili a captarli e a trasmetterli con parole umane. Questa è in sostanza l’ispirazione che fa della Bibbia un libro santo. L’Onnisciente ne è l’autore principale, in quanto fa dire a uomini da lui prescelti ciò che vuole comunicare. Naturalmente un tale connubio tra Dio e l’uomo non annulla la personalità di quest’ultimo, che vi emerge in tutta la sua identità intellettuale, storica e temperamentale. Sicché la “parola di Dio”, prima di incarnarsi nel Figlio, entra nella storia umana e ne subisce e ne accompagna i cambiamenti. A questi suoi collaboratori Dio non chiede la trasmissione scientifica della creazione, ma l’enunciazione di principi etico-spirituali per comprendere ciò che è vero e buono. Lo scopo della Bibbia non è la scienza, ma “insegnare la via del cielo” (Agostino).

Premesso che «Israele non ha scoperto Dio dall’universo creato, bensì attraverso gli interventi di Jahvé nella storia del suo popolo» (A. Schena), le fasi più importanti della formazione del Libro della Genesi sono almeno tre: 1. La tradizione jahvista che ne secolo X mise in scritto quanto si tramandava oralmente nel regno di Salomone; 2. La tradizione elohista che, in seguito alla distruzione del regno del Nord, fu aggiunta e compattata con quella jahvista; 3. La tradizione sacerdotale che durante e dopo l’esilio di Babilonia riplasmò e dette forma definitiva a quanto era già stato scritto.

1. CREAZIONE del MONDO e dell'UOMO (1,1-3,24)

Il racconto della creazione e delle successive vicende umane provengono da due tradizioni, quella sacerdotale e quella jahvista, che si completano. La prima scandisce l'opera del creato sul ritmo della settimana e termina con il riposo del sabato. La seconda, più scarna ed antica, descrive la creazione dell'uomo e della donna, il loro peccato e il castigo che ne seguì. L’intento, come si è accennato, non è il resoconto preciso dell'universo e della sua formazione, ma la trasmissione di un messaggio religioso circa l'origine del creato e il suo significato.

In principio (1,1-2,4a) "Bereshit", «in principio», è la prima parola della Bibbia e presenta

l'apparire improvviso di un Essere Creatore dal quale ha origine il cosmo, la vita, la creatura umana, la storia. Riguardo all'uomo, oggetto della sua benevolenza, egli ha un piano di salvezza.

«In principio Dio creò il cielo e la terra». A differenza dalle cosmogonie orientali da cui l’autore può avere attinto, nessuna delle cose che sono chiamate all’esistenza c'era già, ma è stata creata, ossia fatta uscire dal non essere. La creazione dal nulla non è espressa esplicitamente; l’astrazione non era alla portata della cultura d’allora, ma è tramandata in termini concreti del tutto negativi: terra deserta, tenebre, abisso o gorgo d’acque. Su tutto, però, «aleggiava lo spirito di Dio», un vento divino carico di potenza e di vita. Le creature balzano all'esistenza all’appello dell’Onnipotente e in ordine crescente di dignità, fino all'uomo,

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immagine di Dio. Il cosmo della Bibbia

«Dio disse "Sia la luce" E la luce fu». Il suo bagliore rischiarò l'universo, che uscì dal caos primordiale della tenebra e fu pieno di splendore. L'azione creatrice non affatica l'Essere supremo che opera mediante parole pensate e volute. Ognuna di queste sue attività desta meraviglia per la bontà e la bellezza che vi traspare; perciò alla fine di ogni intervento creativo è detto: «È cosa buona». Con la separazione della luce dalle tenebre, si chiude il primo giorno.

La creazione a schema settimanale appartiene alla “tradizione sacerdotale” del VI secolo a.C., ma il racconto è cadenzato sull’antichissimo genere poetico degli orientali. Oltre ad essere un inno di lode al Creatore, ha lo scopo di proporre la laboriosità divina a modello di quella umana sei giorni di lavoro e uno dedicato al riposo (shabbāt, sabato). I primi tre giorni si occupano della separazione degli spazi celesti e terrestri: è separata la luce dalle tenebre, le acque del cielo da quelle della terra ed, infine, la terra dal mare.

Nei tre giorni successivi si procede all’ornamento degli spazi creati: il sole, la luna e le stelle illuminano il firmamento, il cielo si popola di uccelli, il mare di pesci e la terra si riempie d’animali. Una serie ripetitiva di formule accompagna il racconto dei sei giorni comando, esecuzione, descrizione dell'opera, approvazione. Essendo le cose create tutte "buone", niente di ciò che è stato fatto è malvagio per natura; spetta all’uomo ordinarle, salvaguardarle e utilizzarle.

Il secondo giorno disse: «Sia un firmamento in mezzo alle acque, per separare le acque dalle acque». «L'orientale pensava all'universo come a una piattaforma sostenuta da colonne e coperta da una volta metallica, il firmamento. Dio, dunque, getta quest’immensa cupola e compie la seconda azione di "separazione" tra le acque delle nubi, cioè la pioggia, e le acque delle sorgenti» (Ravasi).

Nel terzo giorno, «Dio disse "Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un unico luogo e appaia l'asciutto». Con quest’operazione la terraferma fu separata dal mare. La parola dell'Onnipotente risuonò ancora per dire «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto». L'ambiente è ora creato e diviso: deve essere abbellito.

Il quarto giorno è dedicato a corredare d’astri il cielo. «Dio disse "Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni». Sole e luna brillano nel firmamento, insieme a miriadi di stelle. Hanno il compito di notificare il succedersi dei giorni, mesi ed anni e scandire il calendario liturgico, ma non possiedono l'alone divino come nell'Antico Oriente. Sono semplici creature.

La parola che risuona nel quinto giorno riempie il mare di pesci e il cielo d’uccelli. «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». Il loro apparire è accompagnato da una particolare benedizione: la fecondità al fine di riprodursi e di moltiplicarsi.

Nel sesto giorno, prima dell'entrata del protagonista sulla terra, Dio si dedica ad ornarne la dimora in modo stupendo. «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie» che, stando alla classificazione d'allora, si dividevano in bestie domestiche, rettili e fiere selvagge. A questo

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punto, avvolgendo con uno sguardo di compiacenza tutto il creato, l’Onnipotente disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza». Così tutta la corte celeste è informata di quanto sta per accadere. Difatti, delle tante creature che costellano l'universo, quella che sta creando più d’ogni altra ne porta l’impronta. «L’uomo è la più alta rappresentazione di Dio che esista sulla terra» (Ravasi). L'Ebreo non ha bisogno di raffigurare Jahvé (Es 20,4) il suo volto risplende in ogni essere umano, che n’è l'interlocutore, il "tu" intelligente e libero, capace d’intenderne la parola.

«Maschio e femmina li creò». L'uomo è creato in "coppia" il maschio e la femmina hanno la stessa dignità e uguaglianza di diritti. A loro è ingiunto «Siate fecondi e moltiplicatevi», ossia partecipate del potere creativo col dare origine alla vita e alla discendenza. Inoltre dà loro il compito di “soggiogare e dominare” la terra, vale a dire renderla più abitabile con l'ingegno e l'operosità. Tutte le ricchezze della natura sono a servizio dell’umanità presente e futura. Non è consentito ad alcuno di saccheggiarle o di sfruttarle in modo indebito. Alla fine del sesto giorno, contemplando l'ultima opera della sua parola, Dio ne fu grandemente soddisfatto, perché «era cosa molto buona», davvero eccellente.

«Nel settimo giorno, Dio cessò da ogni lavoro» e rientrò nella sua eternità. L’interruzione è chiamata in ebraico “sabbat” cioè sabato che include il significato di “settimo” e di “riposo”. Sette è altresì simbolo della pienezza e della perfezione, a differenza del sei che implica imperfezione. «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò», dedicandolo alla celebrazione liturgica. L'uomo frequentando il culto sabbatico esce dall'imperfezione (sei) ed entra nel settimo giorno o perfezione; passa così dal tempo alla sfera di Dio e, nella pace del riposo, attende l’incontro definitivo con lui nel sabato eterno.

Secondo racconto della creazione (2,4b-25) Passiamo dalla precedente tradizione sacerdotale del VI-V secolo a.C. a

quella jahvista del X secolo a.C., detta così per il nome dato a Dio (Jahvé). La prima cosa che salta alla vista è un deserto senz'acqua e senza vegetazione, per esprimere il nulla. Dio pensa a qualcuno che collabori con lui a trasformare quel deserto.

«Allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita». L'uomo detto in ebraico Adam, dall'argilla rossastra con cui era plasmato, rappresenta l'umanità e non è un nome proprio. È composto nella sua materialità da “polvere del suolo”, ma si distingue dagli altri animali di cui condivide il respiro e le altre funzioni, per il possesso di un «alito di vita» (in ebraico nishmat o anche ruah: soffio). Questi ultimi termini, usati esclusivamente per Dio e per l'uomo, esprimono capacità di pensare, coscienza di sé e introspezione, ossia facoltà a penetrare i misteri della conoscenza e ad intessere un dialogo con gli altri e con Dio. I semiti non separavano l’anima dal corpo, perché l’uomo è anima e corpo insieme; la scissione fu introdotta dalla filosofia greca. L’uomo intero è «immagine di Dio».

«Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo». È un luogo indeterminato e metaforico (la tradizione lo colloca nei pressi del fiume Eufrate), per indicare un'oasi alberata nella steppa, luogo di felicità dove l'uomo viveva in piena armonia con la natura circostante. L'Adamo o il fatto d'argilla passò allora dal deserto arido e inospitale ad «un giardino», detto nella versione greca dei Settanta “paradiso”, parola d’origine persiana. Vi era stato messo «perché lo coltivasse e lo custodisse», ossia per renderlo, in stretta collaborazione con il Creatore, ancor più bello. Doveva mettere a frutto le sue

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capacità per farlo diventare sempre più diverso dal deserto selvaggio. Nel giardino l’Adamo viveva in familiarità con Dio, che vi scendeva a passeggiare.

In quell'oasi incantevole incontriamo «l'albero della vita», simbolo diffuso nell'antico Medio Oriente come veicolo d'immortalità e di comunione con Dio. Ma, accanto ad esso, vi era pure qualcosa di molto misterioso l'«albero della conoscenza del bene e del male», una pianta simbolo dei limiti umani. Chi ne avesse mangiato i frutti andava incontro alla morte. In forma allegorica è detto che la «conoscenza del bene e del male» spetta soltanto a Dio e l'uomo non può appropriarsene, pena la morte. Questa frase non si riferisce all'onniscienza che l'uomo non può raggiungere e neppure alla semplice “conoscenza del bene e del male”, connaturale alla persona ragionevole, ma alla facoltà di decidere ciò che è bene e ciò che è male e l’agire di conseguenza. Così facendo, l'uomo rivendicherebbe piena autonomia morale nei confronti di Dio, rinnegando il suo stato di creatura, usurpando prerogative intrasferibili e di spettanza esclusivamente divina.

Avendo creato Adamo come «essere in relazione», tendente alla comunione e alla conoscenza, il Signore cominciò a riempire lo spazio terrestre e celeste d’animali. «In qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome». Dare il nome significava per l'uomo impossessarsi della realtà stessa delle cose, dominarle o trasformarle con l'aiuto della scienza e della tecnica. Tuttavia nessuna di queste creature era capace di comunicare con l'uomo. Il Creatore, allora, «gli tolse una delle costole e formò una donna». Adamo l'accolse con grande gioia perché era il femminile di se stesso e il suo naturale completamento sul piano spirituale, intellettivo, affettivo e procreativo. Il quadro si chiude con una riflessione «Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie e non provavano vergogna». Il testo intende dire che accettavano con serenità e gioia la loro condizione di creature, così come Dio li aveva fatti.

2. PECCATO ORIGINALE (3,1-6,4) Tentazione e caduta (3,1-7)   L'atmosfera paradisiaca che circondava i progenitori era minacciata dalla

intromissione del serpente, che secondo la tradizione indicava la presenza di Satana (Sap 2,24). Nel Medio Oriente e nella terra di Canaan si adorava il serpente come simbolo della fertilità; l’Ebreo lo riteneva una falsa divinità. Dotato di “astuzia”, ossia di una sapienza perfida e affascinante, si avvicinò all’essere umano per insinuargli il sospetto sulla bontà di Colui che l’aveva creato.

Il serpente cominciò a parlare alla donna con finezza psicologica e le rivolse una domanda paradossale "Dio vi ha proibito di mangiare i frutti d’ogni albero". No, rispose la donna, sorpresa dalla menzogna. Va bene, ammise il tentatore, ma perché non potete mangiare «dell'albero che sta in

mezzo al giardino». E proseguì, demolendo la piena fiducia della coppia umana nel Creatore "Non è affatto vero che egli sia buono, anzi «sa che quando ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Il che

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significa che al pari di Lui e anche contro di Lui, sareste in grado di stabilire ciò che è male e ciò che è bene. La donna si lasciò convincere e, appena mangiato il frutto con il marito, «si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi». La nudità, fin allora accettata serenamente, diventa motivo di paura e di vergogna di fronte agli altri e a Dio stesso. L'equilibrio, stabilitosi con l'accettazione gioiosa del proprio essere si era rotto. Sostituendo il progetto del tentatore a quello di Dio, non avevano raggiunto la felicità e l'emancipazione, ma solo la consapevolezza del male e la paura.

È questo, secondo la Bibbia, il peccato delle origini che l'uomo porta dentro di sé, come iscritto nel codice genetico e che ha distrutto la sua armonia interiore e quella con la natura, con gli altri e con Dio stesso. Eppure, "diventare come Dio" o essere immagine o icona di Dio, faceva parte del progetto divino per l'uomo. Proprio a conferma di questa volontà, egli manderà suo Figlio nel mondo per restituire agli uomini la dignità di figli e di essergli simili (1Gv 3,2). «Non è il desiderio di essere come Dio, simili a lui, che costituisce il "peccato originale", bensì la pretesa di poterlo diventare da sé, con mezzi propri, in contrapposizione a Dio» (Girlanda). Si tratta, quindi, di un atto d’orgoglio, che costituisce un vero attentato alla sovranità dell'unico Dio e il rifiuto della propria condizione creaturale.

Il processo (3,8-19) Dio si presentò, come di consueto, all'appuntamento con la coppia

pensante che, sapendosi colpevole si nascose per la vergogna della propria nudità. L'Onnipotente fece capire di essere informato della loro disobbedienza e ne chiese ragione. Si assisté così ad un patetico palleggiamento di responsabilità e d’accuse reciproche tra l'uomo e la donna, la donna e il serpente. Scaricare la colpa sugli altri, sulle strutture, sugli eventi è la giustificazione di cui gli uomini si sono serviti sin dagli inizi. «L'uomo è responsabile delle sue scelte ogni teoria psicologica, sociologica o biologica che tenda a deresponsabilizzare l'uomo, tende in realtà a farne un robot, quindi a distruggerlo come essere umano libero e responsabile» (Girlanda).

Su ciascuno dei tre colpevoli piombò la sentenza del Creatore. Furono colpiti nelle loro funzioni vitali che, per l'uomo e la donna divennero più gravose. Al serpente è detto «Maledetto tu fra tutto il bestiame sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai». Strisciare è naturale per il serpente. Qui è messo in risalto il destino dell'antagonista di Dio e dell'uomo, costretto a strisciare come un nemico vinto di fronte al trionfatore. Vi è forse il disprezzo per l'idolatria cananea.

Subito dopo, continua «Io porrò inimicizia tra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». Dall’antico documento jahvista una luce di speranza e di vittoria si proietta sul futuro dell'umanità. Alcuni leggono queste parole come un “protovangelo”, ossia un primo annuncio della salvezza operata da Cristo; altri vi scorgono l’esaltazione di Maria, la donna da cui sarebbe nato il Salvatore. Entrambe le letture sono implicite e convalidate dalla tradizione. Le parole del testo, così come suonano, rimandano ad una lotta senza tregua tra il bene e il male condotta dalla stirpe umana, specialmente nelle sue punte emergenti e quella del “serpente”, vale a dire da individui e collettività schierati dalla parte di Satana. La conclusione della lotta si risolverà con il trionfo del bene.

Nei confronti della donna, questa è la sentenza «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». L'armonia che ha fatto esultare Adamo davanti alla sua donna, è infranta. Tra loro s’instaura una reciproca diffidenza e il loro rapporto diventa conflittuale. La

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donna cercherà di sedurre l'uomo e l'uomo di dominare anche con la violenza la donna. Perfino la gioia della maternità è offuscata dal dolore.

Il terzo verdetto colpisce Adamo. «Maledetto il suolo per causa tua Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita». Da giardiniere di Dio nell'Eden, l'uomo tornerà nella steppa per lottare contro una natura ritornata ostile. Nella carne e nello spirito avrà travagli, infermità e afflizioni, fino a che "non ritornerà alla terra" con la morte. A tutto ciò, va aggiunto la perdita dell'amicizia e della familiarità con Dio. Il suo stato miserevole sarà trasmesso in eredità ai discendenti solidali con lui, come in seguito lo saranno con Cristo Signore (Rm c 5). Dio, infatti, non poteva rassegnarsi alla distruzione del suo progetto, ma lo rilanciò per mezzo del Figlio.

Dai racconti precedenti emerge chiaramente che il male non fa parte del creato né proviene da Dio. È stato l'uomo, suo viceré, ad attentare con un gesto temerario e ribelle alla sovranità dell'Eterno e a rompere l'armonia preesistente. Il peccato è, allora, un problema religioso, si colloca cioè su una linea teologica. Il gesto di arroganza e di insubordinazione che rifiuta la supremazia divina, rompe il rapporto con l’Onnipotente. «L'uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore e abusando della propria libertà ha disobbedito al comandamento di Dio, aprendo le porte alla presenza del male, soprattutto del male morale» (CCC 385s). Il suo non è stato un errore morale, ma la rottura di un rapporto. Sedotto dalla menzogna era giunto a diffidare di Dio e a ritenerlo reo di voler incatenare tutte le potenzialità della libertà umana. In realtà, con il monito a non mangiare dell’albero proibito, il Creatore affermava unicamente il suo diritto a definire i valori su cui esercitare la libertà. Il peccato originale che è alla base dello stato di rottura tra Dio e l’uomo, deriva da quell’insubordinazione e sfiducia.

Quali furono le conseguenze del peccato originale Adamo, il «fatto di terra» era mortale per natura; valicava questo limite mangiando i frutti dell'albero della vita messogli a disposizione nel giardino dell'Eden. Non più sostenuto da un tale alimento, egli rientrò nella sua caducità. Nonostante ciò, restava sempre "immagine di Dio" ed aveva la tendenza connaturata a “diventare simile a Lui”. Nel nuovo stato di ostilità un’inclinazione del genere lo portava «a mettersi in concorrenza con Dio stesso, a credersi indipendente e autonomo, nella persuasione di conoscere adeguatamente ciò che è bene e ciò che è male. Sin dal concepimento che ne fa un essere libero, l'uomo si pone radicalmente in una posizione di avversione a Dio» (Mattioli). Essendo libero e autonomo, l’uomo potrebbe opporsi a Dio o esserne un potenziale nemico. Tale tendenza non è di per sé un vero peccato, ma una propensione a compiere gesti responsabili di rottura con Dio, ossia a commettere peccati personali. Il cristiano sa che il battesimo cancella il peccato originale, ma lascia intatta l’inclinazione al male.

La cacciata dall'Eden (3,20-24) «Il Signore Dio lo scacciò (Adamo) dal giardino di

Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto». Sotto la scorza di questo linguaggio simbolico è tratteggiata la nuova situazione dell'uomo lavoro faticoso, sofferenza, morte e lontananza da quel Dio che lo aveva creato importante e messo a parte della sua amicizia. Avrà difficoltà a riconoscere la presenza del Signore negli avvenimenti della storia. Ciò nondimeno,

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chi lo creò a sua immagine non lo abbandonerà a se stesso e gli metterà a disposizione un suo piano di liberazione e di salvezza.

Dato che la vita doveva continuare, gli fu confermata la benedizione della fecondità e alla donna fu dato il nome Eva, cioè sorgente della vita. Con gesto paterno, l'Onnipotente ricoprì la nudità delle sue creature e le rivestì di «tuniche di pelli», per restituire ad esse dignità e decoro.

Caino ed Abele (4,1-16) Con l'episodio dell'uccisione d’Abele da parte di Caino, la Bibbia

s’inserisce nel girone della storia universale che, purtroppo, è macchiata di peccato e di sangue. L'umanità decaduta, infranta l'armonia con Dio la ruppe anche con il suo simile, oggetto d’odio e di violenza sino alla morte. Poiché tutti gli uomini in Adamo, loro capostipite, sono fratelli, ogni delitto contro l'essere umano diventa "fratricidio". Qui i due fratelli «incarnano altrettanti modelli sociali Caino è l'agricoltore sedentario Abele è, invece, il pastore nomade, verso il quale va la simpatia del narratore jahvista» (Ravasi). Il racconto suppone una civiltà già evoluta e la presenza d’uomini che potrebbero uccidere o difendere Caino.

Dio ammonisce Caino, invidioso della prosperità del fratello, di stare in guardia perché «il peccato è accovacciato alla tua porta verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai». Il testo corrotto è di difficile lettura; ricorda che la tentazione alimentata dalla predisposizione alla trasgressione può portare al crimine. Successivamente «Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise». Il dato è tratto; dal peccato originale (inclinazione al male), si è passati al peccato attuale, premeditato e compiuto. Nel processo che lo seguì, Dio disse a Caino: «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo» ed esige giustizia. Caino capisce che dovrà essere «ramingo e fuggiasco sulla terra», ossia dovrà abbandonare la sua famiglia e la tribù che lo ha protetto. Perché non fosse ucciso, Dio gli impresse un marchio di riconoscimento che lo tutelava nel suo pellegrinare (forse vi è il riferimento al tatuaggio di qualche tribù che lo accolse). Pure in questo caso, com’era avvenuto con Adamo, l'Onnipotente si prese cura del colpevole.

Discendenti di Caino e di Set (4,17-26) Lontano dal suo clan, Caino si sposò e la sua discendenza

diede origine ad una civiltà di tipo evoluto con lo sviluppo delle arti e dei mestieri, quali la musica e la lavorazione dei metalli. Il passaggio ad una società più progredita, è vista con sospetto dalla tradizione jahvista: per essa implicava un decadimento morale. Qui si accenna per la prima volta alla poligamia e allo scatenarsi della violenza. Il personaggio che incarna queste prevaricazioni è Lamec. Oltre ad aver introdotto la poligamia, uccide «un uomo per una scalfittura» e proclama che la sua vendetta contro chiunque sarà senza limiti. Da ciò si arguisce la necessità e la bontà della “legge del taglione” per contenere, entro certi limiti, lo spirito di vendetta.

Adamo, al posto del perduto Abele, ebbe un figlio di nome Set che, a sua volta generò Enos. «Allora si cominciò ad invocare il nome del Signore», ossia il nome di Jahvé. Per il documento jahvista il nome e il culto di Jahvé erano presenti dalle origini, mentre le tradizioni elohista e sacerdotale lo fanno derivare dall’apparizione a Mosè sul monte Sinai.

I patriarchi prima del diluvio (5,1-32) Si tratta di una lista genealogica di nomi inseriti dal documento

sacerdotale, per colmare l'intervallo tra la creazione e il diluvio. Colpisce immediatamente la longevità di cui sono dotati questi personaggi. Forse vi era

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sottesa l'idea che la vitalità, man mano che ci si allontanava dall'immortalità iniziale, fosse in continuo calo per la crescita della malvagità. Non è da escludere che gli anni abbiano un valore simbolico, o siano in rapporto con i clan cui appartenevano i patriarchi. Esulano, in ogni caso, dalla storia e dalla cronologia.

D’Enoc, padre di Matusalemme (il più longevo di tutti), è detto che «camminò con Dio, poi scomparve perché Dio l'aveva preso». La sua scomparsa misteriosa a 365 anni, quanti sono i giorni dell'anno solare, si attribuì a un'assunzione da parte di Dio, identica al rapimento di Elia (2Re 2,11s). Alla sua memoria la tradizione ebraica attribuisce grande importanza. Noè nacque da Lamec, diverso dal truce vendicatore già nominato. «Noè aveva cinquecento anni quando generò Sem, Cam e Iafet», protagonisti della storia futura.

Figli di Dio e figlie degli uomini (6,1-4) «C'erano sulla terra i giganti a quei tempi». L'autore jahvista

ricupera una leggenda popolare sui giganti, nati dall'unione di donne mortali con esseri celesti. «Egli, senza pronunciarsi sul valore di questa credenza e velando il suo aspetto mitologico, richiama solo questo ricordo di una razza insolente di superuomini, come un esempio della perversità crescente che stava per motivare il diluvio» (BJ). L'opinione che vedeva nei “figli di Dio” angeli che si univano a donne, è stata abbandonata da tempo. Vi è forse un riferimento ai riti della fertilità, che simulavano un “congiungimento sacro” tra la divinità e un partner umano. L’idea di un rapporto sponsale tra la sposa umano-terrena e lo sposo divino-celeste è un motivo molto diffuso nelle culture antiche. I Padri interpretarono i figli di Dio come la discendenza di Set e le figlie degli uomini come la discendenza di Caino.

2. IL DILUVIO (6,5-9,17 )Non è improbabile che nell'antico Medio Oriente si sia verificata «una

catastrofe naturale legata ai due fiumi mesopotamici, il Tigri e l'Eufrate, che per un tratto di 350 chilometri prima della foce corrono su un piano quasi perfetto (il dislivello è solo 34 metri). In caso di forti piogge e dello scioglimento delle nevi a primavera le acque si trasformavano in un'enorme massa che dilagava distruggendo tutto» (Ravasi).

Corruzione dell'umanità (6,5-12) Il crescere della scelleratezza ferì il cuore di Dio che «si pentì di

aver fatto l'uomo sulla terra», espressione antropomorfa ma efficace per significare il rammarico del Signore di fronte all'invadenza del male. Su chi n’era la causa, l'Eterno emise un giudizio di condanna «Cancellerò dalla faccia della

terra l'uomo che ho creato» ma, nei confronti di chi si era conservato giusto dissociandosi dalla depravazione generale, il giudizio fu di benevolenza «Noè trovò grazia agli occhi del Signore» e si salverà con tutta la famiglia.

Preparativi per il diluvio (6,13-7,6) Prima dell’immane catastrofe Dio

disse a Noè «Fatti un'arca di legno di cipresso». La tradizione sacerdotale inserisce un’annotazione per far conoscere le dimensioni di quella

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costruzione. L'arca aveva misure imponenti circa 156 metri di lunghezza, 26 di larghezza e 15 d’altezza. Era un complesso galleggiante di 65-70 mila metri cubi. «Entrerai nell'arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli», più una coppia per ogni specie d’animali e il necessario nutrimento per tutti. La tradizione jahvista, poco dopo, parlerà invece di sette coppie per gli animali "puri", ossia quelli che potevano essere sacrificati e mangiati e una sola coppia per gli animali "impuri".

Il diluvio (7,6-24) Terminata la scelta degli animali e la raccolta di provviste, Dio impose a Noè

di entrare nell'arca e, «dopo sette giorni» si aprirono le cateratte del cielo. Piovve a dirotto «sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti». La memoria di un diluvio primordiale, fa parte di molte mitologie antiche. L'esempio più vicino al racconto biblico, si trova nel poema mesopotamico del II millennio a.C., intitolato Epopea di Ghilgamesh, il cui protagonista riesce a scampare dal diluvio. Ovviamente il diluvio non ricoprì tutta la terra secondo i dati reali, ma secondo quelli degli uomini dell'epoca. Noè, un longevo di circa seicento anni, era restato fedele al Signore. In cambio ottenne la salvezza per sé e la famiglia. A lui sarà affidato il compito di continuare l’espansione della specie umana, di tramandare l'idea del vero Dio e la speranza di una salvezza per tutti.

La fine del diluvio (8,1-22) Dopo un anno, come a Dio piacque, «le acque andarono via via

ritirandosi dalla terra». La loro decrescita era già stata avvertita a 150 giorni dall'inizio del diluvio esse defluivano lentamente verso il mare, mentre «fu trattenuta la pioggia dal cielo», ossia richiuse le cateratte. «L'arca si posò sui monti dell'Ararat», una regione montuosa dell'attuale Kurdistan ai confini della Turchia, dell’Iran e dell’Armenia sovietica. Stando ad una tradizione popolare, essa s’incagliò sulla cima del monte Ararat, di 5.278 metri.

L'uscita dall'arca avvenne per tentativi. Il patriarca liberò per due volte una colomba che fece ritorno, ma al terzo esperimento non rientrò. Era il segno del prosciugamento della terra e Noè, al comando del Signore, uscì dall'arca con la moglie, i figli, le nuore e gli animali che aveva salvato. Il suo primo pensiero fu di gioiosa gratitudine all'Onnipotente che lo aveva scampato. Costruito un altare vi bruciò sopra, come olocausto, animali "puri". Il Signore se ne compiacque e promise «Non maledirò più il suolo a causa dell'uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall'adolescenza né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto».

Il diluvio poteva sterminare l'umanità, ma non cambiare il "cuore dell'uomo", vale a dire la sua intima natura portata al male. Poiché Jahvé l’aveva fatto a “sua immagine e somiglianza“, doveva rispettarne le scelte e i limiti e permettergli perfino di compiere il male, cagione di rovina e di angosciosi interrogativi.

L'alleanza con Noè (9,1-17) Noè, divenuto nuovo

capostipite dell’umanità, eredita la benedizione d’Adamo. Dio, infatti, gli comanda di “crescere e di moltiplicarsi” e di dominare la natura. Può mangiare di tutto, eccetto «la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue», in quanto la “vita” appartiene al Signore. Soprattutto colpisce il monito «Chi sparge il sangue dell’uomo

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dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio è stato fatto l’uomo». Se ogni vita appartiene a Dio tanto più quella dell’uomo. C’è una sola eccezione: la delega concessa allo Stato per la tutela del “bene comune”. La Bibbia rammenta che, nel passato, vi erano i cosiddetti «vendicatori di sangue» (Nm 35,19+).

«Io stabilisco la mia alleanza con voi non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra». Questa alleanza e le sue conseguenze appartengono a tutta l’umanità e si diversifica da quella che in seguito sarà stabilita con Abramo, che riguarderà la sua discendenza. Segno di questo patto è l’arcobaleno, posto tra le nubi a indicare la fine della tempesta e, simbolicamente, la ripresa di un dialogo tra cielo e terra, tra Dio e l’uomo. Con quest’inserto, la tradizione sacerdotale ha voluto celebrare l’alleanza cosmica in un universo restaurato.

4. DAL DILUVIO AD ABRAMO (9,18-11,32)Ebbrezza di Noè (9,18-28) Noè cominciò ad occuparsi di viticoltura che, per gli effetti

inebrianti del vino, innescò una polemica contro Canaan, figlio di Cam e antenato della popolazione palestinese, i cui abitanti costituivano, per gli Israeliti, un'incessante tentazione all'idolatria. «Cam, padre di Canaan, vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli». Cam, deridendo il padre nudo ed ubriaco infranse il quarto comandamento, ma ad essere colpito dalla maledizione di Noè fu il nipote.

Elenco delle nazioni della terra (10,1-32) I settanta popoli enumerati dalla tradizione sacerdotale in

questo capitolo si fanno risalire ai figli di Noè «Questa è la discendenza dei figli di Noè dopo il diluvio». Il loro habitat geografico è più o meno il seguente la discendenza di Iafet popolò l'Asia Minore e le isole del Mediterraneo quella di Cam, l'Egitto, l'Etiopia, l'Arabia e Canaan. Infine, i figli di Sem s’identificano con gli Elamiti, gli Assiri, gli Aramei e gli antenati degli Ebrei.

Questa elencazione e l’assetto dei popoli della preistoria va letto e interpretato sulla base della fede d'Israele; mediante di esso Jahvé salverà l'umanità intera. La mappa delle nazioni evidenzia la comune origine e la diversità delle razze e delle culture.

La torre di Babele (11,1-9) Una tale costruzione «nella tradizione

biblica è presentata come luogo e simbolo della dispersione degli uomini, origine di lotte etniche ed imperialismi destinati a creare barriere e ostacoli all’unità dei popoli (Sofonia 3,5-11)» (A. Schena). L'espressione «Tutta la terra aveva un’unica lingua» può essere intesa come una dominazione politica culturale e religiosa imposta a molte nazioni con la volontà di spogliarle della propria appartenenza. L'autore giudica in modo

negativo questo disegno e ne fa l'emblema d’ogni oppressione. La costruzione

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del tempio, ziqqurrat o "torre", che si proiettava in alto e sulla quale poggiava la casa della divinità, è vista come una sfida a Dio, una volontà di scalare il cielo. «A questa sfida "verticale" si unisce quella "orizzontale" del dominio su tutte le nazioni, riducendole a un solo popolo e a una sola lingua» (Ravasi).

Il Signore si affacciò su questo affannarsi febbrile, grondante sudore e rabbia e disse «Confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro». Successe una "babele», derivata dall’ebraico “balal” che significa “confusione, rimescolamento”. Babele vuol dire "porta di Dio", città santa e spaziosa. L'incomprensione è provocata dalla discordia, dall'ingiustizia per la privazione della libertà, dalla ribellione per difendere la propria identità. Questi elementi sono alla base del crollo d’ogni dittatura. Per ritrovare un'unità senza antagonismi bisogna attendere la Pentecoste del 30 d.C., dove la ricomposizione delle genti avverrà nella lode gioiosa al Signore e nel rispetto della dignità e della diversità di ciascuno.

Discendenti di Sem fino ad Abramo (11,10-32) La tradizione sacerdotale, per congiungere la storia primitiva a

quella d’Abramo, personaggio chiave del XIX-XVIII secolo a.C., si serve di genealogie. Lo sguardo si accentra su Sem, come capostipite dei Semiti e, quindi, d’Abramo. È un completamento della lista già iniziata al capitolo 10.

Un giorno, «Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, e Sarai sua nuora, moglie di Abram e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono». Là morì Terach. Si tratta di un nucleo familiare di Semiti assai benestanti che, per motivi a noi sconosciuti, si allontanò da Ur dei Caldei, splendida capitale della Mesopotamia meridionale, risalente al quarto millennio a.C. e che già prima d’Abramo aveva raggiunto un altissimo grado di civiltà.

Il nome Abramo si trova inciso sulle tavolette di Ur e significa "il padre (Dio) è esaltato". Con questo patriarca il Creatore volle ristabilire, in modo originale, un rapporto di comunione con l'uomo ed iniziare concretamente la storia della salvezza. Il progetto da Abramo passò alla sua discendenza, Israele. Conteneva, oltre alla conoscenza del “Dio dei padri”, la promessa di una terra e la benedizione per tutte le nazioni. Da parte sua, Israele ebbe la ferma coscienza d’essere il popolo scelto da Jahvé e chiamato a portare la salvezza alle genti.

5. STORIA DI ABRAMO (12,1-25,18)Abramo è l'uomo della fede, ossia del totale abbandono al Dio che gli si rivela.

L'affascinante racconto delle sue vicende si snoda per tredici capitoli. La storia dei patriarchi consta di cicli narrativi, provenienti dalle tradizioni jahvista, elohista e sacerdotale che, solo dopo l'esilio di Babilonia, raggiunsero l'attuale stesura finale. Abramo, Isacco, Giacobbe/Israele sono personaggi storici e perfettamente inseriti nell'ambiente orientale.

Vocazione di Abramo (12,1-9) Abramo da Ur, costeggiando la valle

mesopotamica dell'Eufrate, giunse a Carran con il padre Terach. Alla morte di questi, il Dio che ne guidava il destino, gli apparve per spingerlo imperiosamente verso la terra di Canaan. Il Dio sconosciuto, che in seguito fu detto "Dio del padre o dei padri", gli intimò: «Vattene dalla tua

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terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Questo comando e la relativa promessa costituiscono il fondamento e il filo conduttore per orientarci nella Bibbia. Il testo sacro non riferisce come Dio si è rivelato ad Abramo, ma ne riporta il messaggio che cambiò il corso della storia.

«Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore»; si mise in viaggio all'età di 75 anni, accompagnato da Sarai, la moglie sterile (11,30) e il nipote Lot. Comincia così il cammino di fede del patriarca che, inoltrandosi nella terra di Canaan abitata allora dai Cananei, sentì ripetersi «Alla tua discendenza io darò questa terra». In segno di gratitudine e per prenderne possesso, Abramo costruì altari a Sichem, More e Betel che «diventeranno sede di santuari ebraici o, meglio, è probabile che l'autore biblico li metta sulla strada d’Abramo per spiegarne la fama da essi goduta successivamente» (Ravasi). Il patriarca continuò l'esplorazione della "terra promessa" fino al deserto del Negheb, la parte più meridionale della Palestina, confinante con la penisola sinaitica e con l'Egitto.

Abramo in Egitto (12,10-20) Sorpreso da una grave carestia, l'amico di Dio fu costretto ad

emigrare in Egitto. Sara conservava la sua avvenenza e il patriarca, per aver salva la vita, la fece passare come sua “sorella” offrendola al faraone, il quale «a causa di lei, trattò bene Abramo, che ricevette greggi, armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli». Il faraone fu colpito da «grandi piaghe» per essersi unito a Sara e, fatta un'indagine, scoprì che era moglie d’Abramo. Lo rimproverò aspramente, gliela restituì e lo fece accompagnare fuori della frontiera con quanto possedeva.

Il testo biblico narra l'episodio senza emettere alcun giudizio morale. Il fatto si ripeterà altre due volte (20,2 e 26,7); è probabile che risalga a un’usanza aristocratica dell'alta Mesopotamia. In tal caso, sarebbe evidente l'intenzione di confondere ed ingannare le popolazioni non al corrente di quella consuetudine.

Abramo si separa da Lot (13,1-18) Dopo aver attraversato di nuovo il deserto del Negheb, Abramo si diresse

nella zona di Betel. «Sorse una lite tra i mandriani d’Abram e i mandriani di Lot», il quale possedeva armenti al pari dello zio. Abramo, uomo di pace, disse al nipote mostrandogli la terra circostante «Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra, io andrò a destra se tu vai a destra, io andrò a sinistra». Lot scelse la fertile valle del basso Giordano «e piantò le tende vicino a Sodoma. Ora gli uomini di Sodoma erano malvagi e peccavano molto contro il Signore». La scelta della Transgiordania era dettata dall'abbondanza dei pascoli e la prospettiva di una vita facile, anche se la perversità dei Sodomiti non faceva prevedere nulla di buono.

Dal canto suo, Dio premiò la generosità d’Abramo rinnovandogli la promessa «Tutta la terra che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza per sempre. La tua discendenza sarà numerosa come la polvere della terra». Parole che di certo gli restituivano la speranza, ma di figli non c’era ombra. Si stabilì «alle Querce di Mamre» presso Ebron «e vi costruì un altare al Signore».

La guerra contro quattro re (14,1-16) «Questo capitolo non appartiene a nessuna delle tre grandi fonti

della Genesi. Il suo valore è giudicato molto diversamente. Sembra che sia una

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composizione tardiva che rimaneggia l'antica» (BJ). I dati geografici e storici la rendono piuttosto discutibile. Forse si è voluto inserire Abramo nel filone della grande storia e rivestirlo di gloria militare.

La narrazione riferisce lo scontro tra quattro re orientali contro cinque re della terra di Canaan: questi ultimi furono sconfitti. Lot era stato catturato con quanto aveva e condotto prigioniero dai vincitori. Abramo, informato da un fuggiasco, «organizzò i suoi uomini esperti nelle armi, in numero di trecentodiciotto e si diede all'inseguimento fino a Dan», nel nord del Paese. Sorprendendoli nel sonno, li mise in fuga e continuò ad incalzarli oltre Damasco, ossia fino a quando non ebbe ricuperato l'intero bottino di guerra e Lot con tutti i suoi averi.

Melchisedek (14,17-24) Di ritorno dalla spedizione, nella «Valle del re» che, secondo Giuseppe Flavio

si trovava a meno di 400 metri da Gerusalemme, venne incontro ad Abramo «il re di Salem, Melchisedek» che significa “re di giustizia”. Essendo sacerdote «offrì pane e vino e benedisse Abram». Salem è interpretata comunemente per Gerusalemme. La sorprendente apparizione di questo re-sacerdote, ha dato origine ad un’approfondita indagine nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Intanto, egli è presentato come re-sacerdote figura di Davide che, a sua volta, è simbolo del Messia (Salmo 110,4). Per il fatto di non avere genealogia, così fondamentale nel mondo

semitico, l'autore della Lettera agli Ebrei vi vede il prototipo di Gesù Cristo, re e Messia, che è fuori e prima del tempo (7,3). Anche l'offerta di pane e di vino è spiegata come allegoria dell'Eucaristia.

Il personaggio Melchìsedek, isolato e granitico, per Daniélou ha lo spessore di «grande sacerdote della religione cosmica, che non è limitata a Israele ma che abbraccia tutti i popoli. Il mondo intero è il primo tempio da cui s’innalza l'incenso della preghiera dell'umanità». Abramo, il padre del futuro sacerdozio levitico, «diede a lui la decima di tutto», riconoscendo in lui il rappresentante dell'Altissimo. Il resto del bottino fu spartito tra i presenti; Abramo non volle niente per sé.

Le promesse e l'alleanza (15,1-21) Il tempo passava e nella tenda d’Abramo non si sentiva il

vagito del bimbo promesso. Ovviamente la fede del patriarca era messa a dura prova. L'essersi affidato ad un Essere misterioso come Dio, non lo liberava certo da paure e sospetti. Doveva cedere la sua eredità al servo Eliezer? Se ne lamentò col Signore, che rispose «Non sarà costui il tuo erede, ma un nato da te sarà il tuo erede», e gli confermò che la sua discendenza sarebbe stata numerosa come le stelle del cielo. All'udire tali cose, Abramo «credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia». La promessa rinnovata in così tarda età era «umanamente impossibile. Dio gli riconosce il merito di quest'atto e lo mette in conto alla sua giustizia» (BJ). Il giusto, infatti, è gradito a Dio per il suo abbandonarsi a lui, con piena fiducia e totale sottomissione. Un tale atteggiamento fa d’Abramo il "padre dei credenti". Paolo utilizzerà il testo per dire

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che Dio giustifica gratuitamente chi crede e si affida a lui. Chi pecca potrà diventare giusto unicamente con la fede e non con le proprie forze o le opere della Legge.

L'altra preoccupazione d’Abramo era il possesso della terra di Canaan. Chiese, quindi, al Signore «Signore Dio; come potrò sapere che ne avrò il possesso». Dio rispose proponendogli un “rito d’alleanza”, secondo la prassi allora vigente. Consisteva nello squartare in due alcuni animali e metterne di fronte le parti divise. Chi infrangeva il patto d’alleanza, meritava la sorte di quegli animali. Al far della notte Abramo fu preso da sgomento e da uno strano torpore. Ebbe una teofania o manifestazione divina che lo rassicurò. Ed «ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi». Abramo non era passato tra gli animali. Ciò significava che soltanto Dio si era compromesso in quell'alleanza. «L'impegno è gratuito, unilaterale, cosicché Dio terrà fede al suo impegno e realizzerà quanto promette, indipendentemente da ciò che farà l'altra parte. L'infedeltà dell'uomo non potrà distruggere la fedeltà di Dio» (Girlanda).

Nascita di Ismaele (16,1-18) Il diritto mesopotamico consentiva ad una sposa sterile di dare per

moglie al marito una sua schiava e riconoscere come suoi i figli di lei. Era presumibile che la schiava egiziana Agar, una volta rimasta incinta, assumesse un contegno di compiacimento che umiliava Sara. La quale, con l'acquiescenza del marito, «la maltrattò, tanto che quella fuggì dalla sua presenza». Agar si sedette presso una sorgente dove le apparve il Signore sotto sembianze angeliche e la invitò a tornare indietro. Le promise «Partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele. Egli sarà come un asino selvatico». Ismaele che significa "Dio ascolta" sarà l'antenato degli Arabi, uomini del deserto, indipendenti ed errabondi come il citato asino selvatico (Gb 39,5-8), e spesso in lotta con i popoli sedentari. «Abram aveva ottantasei anni quando Agar gli partorì Ismaele».

L'alleanza e la circoncisione (17,1-27) Il nuovo racconto dell'alleanza di pregevole fattura trasmessoci

dalla tradizione sacerdotale, si distacca notevolmente da quello jahvista del capitolo 15. Abramo ha ormai 99 anni. L'Onnipotente che s’introduce con l'antico nome di Shaddai, dall'origine incerta, parla a lungo all'anziano patriarca. Per 14 volte è ripetuta la parola "alleanza", il doppio di sette, simbolo di perfezione. Nella Bibbia il termine ricorre 287 volte. In cambio di questo splendido dono, Abramo è invitato a tendere alla perfezione morale, «cammina davanti a me e sii integro» e per di più sottoporsi alla circoncisione.

Prima, però, gli è cambiato il nome «Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò». Secondo l'antica concezione, il mutamento del nome indicava un cambiamento di destino o di missione. Abramo diventerà padre di molte genti.

Il segno richiesto da Dio per appartenere al suo popolo è la circoncisione «Sia circonciso tra di voi ogni maschio e ciò sarà il segno dell'alleanza tra me e voi». La circoncisione, presente nel mondo egiziano e sconosciuta ai Cananei, diventò un sigillo d’appartenenza al popolo dell'alleanza. «Quando avrà otto giorni, sarà circonciso tra voi ogni maschio». Il rito, da iniziazione alla maturità sessuale, assunse in Israele un significato profondamente religioso e fu spostato gradualmente alla primissima infanzia. «Si "recide la carne del prepuzio" del membro del bambino per ricordare che alla radice stessa della vita c'è il segno e il sigillo dell'adesione all'alleanza col Dio della benedizione e della vita» (Ravasi). In ogni caso, se la circoncisione fisica non sarà accompagnata da un coerente tenore di vita, non garantirà la protezione divina. I profeti leveranno la voce a

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proclamare come vera solo la “circoncisione del cuore”, ossia la fedeltà ai precetti dell'alleanza.

Anche il nome di Sarai deve modificarsi in Sara, che poi ha lo stesso significato del primo "principessa". «Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio la benedirò e diventerà nazioni e re di popoli nasceranno da lei». La notizia sbalorditiva fece sorridere Abramo, al pensiero che aveva ormai quasi cento anni e Sara pochi di meno un riso che denota più stupore che incredulità. Non cessò di raccomandare Ismaele al Signore, il figlio su cui poteva davvero contare. L'Onnipotente n’accolse la supplica e promise che anche Ismaele sarebbe stato fecondo e padre di un popolo numeroso. «Ma stabilirò la mia alleanza con Isacco, che Sara ti partorirà a questa data l'anno venturo». Il capitolo si chiude con la circoncisione d’Abramo, di Ismaele tredicenne e di tutto il clan.

L'apparizione a Mamre (18,1-15) In seguito Dio apparve direttamente ad

Abramo «mentre egli sedeva all'ingresso della tenda». A questa manifestazione la tradizione ha dato molta rilevanza, sia perché i Padri della Chiesa nei tre uomini che si erano presentati intravedevano il mistero trinitario di Dio, sia perché la stessa mitologia pagana registrava incontri della divinità con gli umani. All'inizio il patriarca, pur con il rispettoso omaggio della prostrazione, li considerò «tre uomini». A poco a poco ne scoprì la trascendenza e l'unicità, anche se due di

loro, com’è detto dopo (v 22), potevano essere angeli (19,1). Per gli ospiti imbandì un sontuoso banchetto che essi mostrarono di gradire. Poi, rinnovarono ad Abramo la grande promessa «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». Per Sara la cosa era talmente inverosimile che si mise a ridere. Ne fu rimproverata. Allora capì di trovarsi davanti ad una misteriosa presenza divina ed ebbe paura. Questo riso, come quello precedente d’Abramo è all'origine del nome d’Isacco, che può tradursi approssimativamente con "Dio ha sorriso" o si è mostrato favorevole.

Nell’accompagnare ossequiosamente gli ospiti verso il Mar Morto, Abramo fa un'altra sorprendente scoperta Dio lo tratta da amico e gli rivela ciò che sta per fare. Un terribile castigo avrebbe colpito Sodoma e Gomorra che si stendevano davanti a loro, a causa dei peccati che vi si commettevano. Sarebbero state completamente distrutte. L'annuncio della sciagura di Sodoma scosse profondamente Abramo, anche perché colà risiedeva il nipote Lot e si mise ad implorare il Signore «Davvero sterminerai il giusto con l'empio Forse vi sono cinquanta giusti nella città» e tu non ne terrai conto e farai perire tutti No, «rispose il Signore "Se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell'ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo».

La trattativa condotta con molta abilità da parte d’Abramo, andò avanti per un pezzo sino a raggiungere il numero di dieci. «Forse là se ne troveranno dieci». "Rispose «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci». «Nella tradizione giudaica dieci è il numero minimo di uomini richiesto per poter celebrare la preghiera liturgica» (Ravasi). Abramo ritenne impossibile scendere sotto quella soglia per ottenere un perdono collettivo. Sapremo in seguito che basterà uno, il “Servo di Jahvé” a salvare l’umanità intera (Is c 53). È davvero grande il valore salvifico dell'intercessione dei giusti per il mondo.

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La distruzione di Sodoma (19,1-29) Due dei tre personaggi

ospitati da Abramo e qui detti «angeli», raggiunsero a Sodoma Lot, il quale li ricevette con la stessa cortesia dello zio, li introdusse in casa e preparò loro un banchetto. «Gli abitanti di Sodoma, si affollarono attorno alla casa, giovani e vecchi» e chiedevano a Lot di fare uscire i due forestieri per "poterne abusare". Erano, pertanto, dediti al vizio contro natura che prese nome dalla loro città, un abominio che gli Ebrei punivano con la morte (Lv 20,13). Lot tentò di placarli offrendo loro le due figlie vergini in cambio dei pellegrini, perché all'epoca l'onore di una donna aveva meno valore del sacro dovere dell'ospitalità, ma invano. La folla depravata cercò di sfondare la porta, ma gli ospiti di Lot «colpirono di cecità gli uomini che erano all’ingresso della casa, così che non riuscirono a trovare la porta». Poi sollecitarono Lot a lasciare la città, «perché noi siamo per distruggere questo luogo».

Per vincere l'indecisione di Lot, gli esseri misteriosi «presero per mano lui, sua moglie e le sue due figlie e lo condussero fuori della città». Egli si rifugiò a Zoar, una cittadina delle vicinanze che fu inghiottita dal Mar Morto solo in epoca romana, a causa di un terremoto. Allo spuntar del sole, «il Signore fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco». L'immane cataclisma sommerse le due città che affondarono nelle acque del mare. Perfino la moglie di Lot voltatasi a guardare la catastrofe, «divenne una statua di sale», quand'anche la denominazione possa provenire da qualche concrezione salina o roccia a forma vagamente umana.

L'origine dei Moabiti e degli Ammoniti (19,30-38) L'incesto attribuito a Lot parte da un ragionamento non

convincente delle due figlie: lo sterminio degli uomini della zona. A Zoar ce n’erano, eccome! Forse erano intenzionate ad avere discendenti dalla propria stirpe. Per i Moabiti e gli Ammoniti provenire da Lot era un grande vanto gli Israeliti invece, loro fieri avversari, lo consideravano un marchio infamante che dava esca a pesanti scherni.

Abramo e Sara a Gerar (20,1-18) Abramo era costretto a spostarsi per trovare nuovi pascoli e

sottrarsi alle ricorrenti carestie. Nel recarsi a Gerar, città del Negheb, verso i confini con l'Egitto, il patriarca ricorse all'espediente già usato con il faraone, per aver salva la vita fece passare la moglie come sua sorella. «Abimèlech, re di Gerar mandò a prendere Sara». Essendo giusto, Dio gli ingiunse di non toccare quella donna e di restituirla al proprio marito, che era «un profeta», ossia un protetto dalla divinità e un potente intercessore.

«Pregherà per te e tu vivrai». Abimèlech ci rimase male biasimò l'artificio ingannevole escogitato da Abramo che, a sua volta si scusò, dicendo «È veramente mia sorella, figlia di mio padre». Per riparare l'onore della moglie altrui accolta e trattenuta in casa, restituì Sara insieme a «greggi e armenti, schiavi e schiave». Dopo questo risarcimento riacquistò salute e il suo harem

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tornò ad essere fecondo. Il fatto è un probabile doppione elohista alquanto addolcito di quanto narrato in 12,10-20.

Nascita di Isacco (21,1-7) Finalmente Sara mise al mondo il tanto sospirato “figlio della

promessa”. «Abramo chiamò Isacco il figlio che Sara gli aveva partorito». Isacco significa "riso di Jahvé", in sintonia con quello di Abramo e Sara all'annuncio della sua nascita. Fu circonciso all'ottavo giorno e gioia, riso e canto non mancarono in quei giorni nel clan del patriarca.

La cacciata di Agar e Ismaele (21,8-21) Siamo alle prese di un doppione elohista riguardo ad Ismaele;

mentre in 17,25 aveva già tredici anni, qui allo svezzamento d’Isacco ossia almeno tre anni dopo, ridiventa fanciullo. Vi si rinviene l'ingiunzione di Sara ad Abramo di scacciare la schiava con il figlio, la disperazione d’Agar nel deserto, l'intervento salvatore di Dio, la promessa di una discendenza di guerrieri per Ismaele. Stavolta Agar non tornò indietro. Il figlio «crebbe ed abitò nel deserto e divenne un tiratore d'arco. Egli abitò nel deserto di Paran e sua madre gli prese una moglie del paese d'Egitto». Il deserto di Paran si trova nella penisola del Sinai e, poiché Ismaele sposa un'egiziana, il suo destino si distacca notevolmente da quello di Isacco, l'unico erede della promessa.

Abramo e Abimèlech a Bersabea (21,22-34) Ritorna in scena Abimèlech con il capo del suo esercito, per rinsaldare

l'amicizia e risolvere i conflitti sorti per «un pozzo d'acqua, che i servi di Abimelech avevano usurpato». Abramo, per ottenerne la proprietà e il diritto d'uso, offrì al re sette agnelle che il re accettò. «Per questo quel luogo si chiamò Bersabea, perché là fecero giuramento tutti e due». Bersabea è una parola composta da beer, "pozzo" e sheba che può significare "sette" (agnelle) o "giuramento". Per cui Bersabea, oggi città israeliana, vuol dire «pozzo delle sette pecore» o "pozzo del giuramento". «Abramo piantò un tamerisco a Bersabea e lì invocò il nome del Signore»; si può dedurne l'esistenza di un santuario, caro alla memoria dei padri.

Il sacrificio di Isacco (22,1-19) La tradizione elohista ci ha trasmesso una delle pagine più vigorose e d’intensa drammaticità, «una specie d’itinerario all'interno del mistero della fede, con la sua terribile tenebra e il suo approdo luminoso» (Ravasi). Vi risuona inflessibile la voce di Dio che ordina ad Abramo «Prendi tuo figlio Isacco, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Se una pugnalata avesse colpito il cuore del patriarca sarebbe stata meno straziante di quel comando. Invece di piangere e recriminare, egli s’immerse in un abisso di sofferenza e tacque nei tre giorni necessari ai preparativi e durante il viaggio verso la montagna.

Fu Isacco a rompere quel silenzio penoso con l'ingenua domanda rivolta al padre «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto». Inghiottendo amaro, Abramo rispose «Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio». La tortura raggiunse il culmine allorché, preparato l'altare e depostovi il figlio legato, «stese la mano e prese il

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coltello per immolarlo». Solo dopo aver bevuto sino in fondo il calice dell'amarezza, si fece udire la voce di Dio «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che temi Dio». La tensione si stemperò e il sangue riprese a scorrergli nelle vene. Aveva superato la più atroce delle prove abbandonandosi ciecamente all'Onnipotente la sua fede aveva retto e Dio n’era compiaciuto. Dopo la prova, Isacco divenne ancor più il “figlio della promessa”, un puro dono della bontà divina. In quest’episodio i Padri della Chiesa hanno visto in Isacco l'icona di Cristo che si offre in sacrificio a Dio. Anche se la tradizione posteriore identificherà il «territorio di Moria» con la collina di Sion, dove si eleverà il tempio di Gerusalemme (2Cro 3,1) ed in seguito la moschea di Omar, si tratta di due località diverse e il paese di Moria resta sconosciuto.

Dietro il racconto, tuttavia, si celano importanti insegnamenti. Vi è la proibizione d’ogni sacrificio umano sia per la fondazione di santuari, sia per i riti di culto come avveniva tra i Cananei. Gli esseri umani dovevano essere sostituiti da animali, simboleggiati nell'ariete.

Il brano si chiude con una nuova solenne benedizione di posterità numerosa e la riconferma «Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

La discendenza di Nacor (22,20-24) Si narra che Nacor, fratello d’Abramo, ebbe dodici figli al pari di

Ismaele e di Giacobbe. La nuova genealogia mette in luce il nome di Rebecca, la nipote di Abramo essa diventerà la sposa d’Isacco.

Morte e sepolture di Sara (23,1-20) «Sara morì a Kiriat-Arbà, cioè Ebron, nella terra di Canaan».

Aveva 127 anni. Dopo il lamento funebre, Abramo disse a Efron l'hittita, forse sensale di tombe, di vendergli un terreno per la sepoltura della moglie. La trattativa fu lunga e dal sapore orientale. Alla fine, la «caverna di Macpela» e il campo circostante fu ceduto ad Abramo per «quattrocento sicli d'argento», somma non certo irrilevante; il siclo corrispondeva a più di 11 grammi d'argento. «Così il campo d’Efron che era a Macpela, di fronte a Mamre, la caverna e tutti gli alberi che erano dentro il campo, passarono in proprietà ad Abramo». È il primo terreno posseduto da Abramo nella “terra promessa”.

Matrimonio di Isacco (24,1-67) Alla morte della madre, la solitudine d’Isacco si era fatta più pesante.

Abramo pensò ad una moglie per il figlio da scegliere nel proprio clan (matrimonio endogamico) e mantenere la purezza della razza. I parenti li aveva in Oriente. Là doveva essere ricercata la sposa per Isacco. In questo capitolo, il più lungo della Genesi, sono narrate le peripezie del viaggio e il successivo matrimonio.

La spedizione comincia con un solenne giuramento da parte del servo «il più anziano della sua casa», forse Eleazaro, che è obbligato a mettere «la mano sotto la coscia» del padrone, eufemismo per indicare le parti sessuali. Egli avrebbe dovuto recarsi nella patria d’Abramo a cercarvi una moglie per il figlio Isacco. Dopo altre spiegazioni, il servo formò una carovana di dieci cammelli e «portando ogni sorta di cose preziose» partì per Carran, nell'alta Mesopotamia, dove si trovavano i parenti d’Abramo. Fuori della città vi era un pozzo presso al quale arrestò i cammelli. A questo punto, chiese con fede al Signore di avere «un felice incontro», e più esplicitamente aggiunse «La ragazza alla quale dirò "Abbassa

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l'anfora e lasciami bere, e che risponderà Bevi, anche ai tuoi cammelli darò da bere, sia quella che tu hai destinata al tuo servo Isacco».

Non tardò a presentarsi Rebecca, figlia di Nacor, nipote d’Abramo. Era vergine, bella e fece esattamente quanto era stato chiesto nella preghiera. Lo sconosciuto le diede un pendente e dei braccialetti d'oro e, saputo di chi era figlia, benedisse il Dio d’Abramo che lo aveva «guidato per la via giusta a prendere per suo figlio la figlia del fratello del mio padrone». Accettò la loro ospitalità ma, prima di mangiare, ricordò il motivo del suo viaggio e chiese se erano disposti a dare Rebecca in sposa ad Isacco. Il padre Betuel e il fratello Làbano risposero «Ecco Rebecca davanti a te prendila e va' e sia la moglie del figlio del tuo padrone, come ha parlato il Signore». Al colmo della gioia, il servo si prostrò per ringraziare Dio. Poi offrì doni preziosi a Rebecca, alla madre e al fratello. Fu quindi servito un sontuoso banchetto.

Non appena fu l'alba, il servo decise di ripartire nonostante le tiepide rimostranze dei parenti di Rebecca, la quale era determinata ad andarsene presto. «Così Rebecca e le sue ancelle si alzarono, montarono sui cammelli e seguirono quell'uomo». Dopo giorni raggiunsero l’accampamento del patriarca e videro Isacco venire loro incontro. Il giovane, dal racconto del servo, seppe tutto l’accaduto. Introdusse Rebecca nella tenda che era stata di sua madre, «la prese in moglie e l'amò. Isacco trovò conforto dopo la morte della madre».

Gli ultimi anni di Abramo (25,1-11) Lo stesso Abramo si consolò sposando un'altra donna,

Keturà ("incenso"), e dalla quale ebbe sei figli. Alcuni furono antenati di grandi popoli arabi come i Madianiti. Ciò nonostante l'eredità del patriarca andò tutta ad Isacco gli altri figli furono allontanati. A 175 anni «Abramo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati» nello Sheol, luogo delle ombre viventi. Gli si dette sepoltura nella caverna di Macpela, situata nell'attuale città di Ebron, accanto alla moglie Sara.

La discendenza di Ismaele (25,12-18) Da Ismaele, morto a 137 anni, ebbero origine dodici grandi tribù

arabe. I confini entro i quali gli Ismaeliti stabilirono i loro insediamenti erano situati nell'Arabia del nord.

6. STORIA DI ISACCO E DI GIACOBBE (25,19-37,1)La figura biblica d’Isacco appare piuttosto scialba. Possente è, invece, quella di

Giacobbe, astuto “soppiantatore” del fratello Esaù, destinato a pagare faticosamente le sue furbizie. Aperto al dialogo con l'Onnipotente, ingaggiò una lotta con lui per averne la benedizione. Trasmetterà al suo popolo il suo nome nuovo Israele, ossia "forte con Dio".

Nascita di Esaù e Giacobbe (25,19-28) Rebecca, tanto amata da

Isacco era sterile. Il marito pregò fervidamente per lei e fu esaudito. Ebbe due gemelli. Lo strano è che neppure nel seno materno stavano in pace. Il Signore fece sapere a Rebecca che portava in grembo due popoli, gli Edomiti, (dal “pelo rosso" che alla nascita ricopriva Esaù) e gli Israeliti discendenti di Giacobbe, (che alla nascita “teneva il

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calcagno" del fratello e detto perciò “il soppiantatore”). Israele avrebbe prevalso nei confronti degli Edomiti. Esaù cede la primogenitura (25,29-34)Esaù era il primogenito, anche se gemello; come tale aveva diritto alla primogenitura che, tra gli altri privilegi, includeva quello di essere il capo clan della famiglia. Esaù commise una leggerezza imperdonabile nel cedere, per un piatto di lenticchie o di «minestra rossa», la propria primogenitura. Più sleale è da considerare il comportamento di Giacobbe che, approfittando astutamente della fame del fratello, gliela carpì con giuramento. «Così i disegni di Dio, che prevedevano Giacobbe e non Esaù come depositario delle promesse, si compiono anche attraverso le colpe» (Girlanda).

Isacco a Gerar (26,1-14) Ad Isacco è dedicato solo questo capitolo. I tre episodi che esso riporta sono

paralleli a quelli del padre. Prima di tutto gli si riconfermano le promesse fatte ad Abramo «Renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo e concederò alla tua discendenza tutti questi territori tutte le nazioni della terra si diranno benedette nella tua discendenza». C'è poi una strana analogia tra Rebecca, moglie d’Isacco e da lui fatta passare come sua "sorella" e Sara. Siamo di nuovo a Gerar, città di Abimèlech «re dei Filistei». Egli si accorse dell'intimità sponsale tra Rebecca ed Isacco, rimproverò severamente quest'ultimo che, per salvare se stesso, aveva messo a repentaglio d’adulterio la sua gente. Ritenendolo protetto da Dio, il re diede ordine di rispettarlo, pena la morte. La semina d’Isacco in quel luogo fruttò un raccolto talmente abbondante da farlo diventare ricchissimo, suscitando così l'invidia dei Filistei.

I pozzi tra Gerar e Bersabea (26,15-35) Di Abimèlech è detto che fosse re dei Filistei di Gerar, ma la

notizia è anacronistica. I Filistei s’insediarono nella terra di Canaan non prima del XII secolo, mentre l'epoca dei patriarchi si collocava tra il 1800 e il 1600 circa a.C.

Sta di fatto che la prosperità crescente d’Isacco, ospite di quella terra, non lasciò indifferenti gli indigeni. I pozzi fatti sterrare da Abramo erano stati otturati perciò i servi d’Isacco ne scavarono uno d’acqua sorgiva. «Ma i pastori di Gerar litigarono con i pastori di Isacco» e se n’appropriarono. Amareggiato, Isacco chiamò quel pozzo Esek, "lite". Non potendo sopravvivere senza pozzi per abbeverare il bestiame, scavò un secondo pozzo. Anch'esso fu contestato dagli abitanti di Gerar e Isacco gli diede il nome di Sitna, "accusa". «Si mosse di là e scavò un altro pozzo, per il quale non litigarono allora egli lo chiamò Recobòt», vale a dire "spazi liberi" per pascolare e prosperare.

Continuando a spostarsi raggiunse Bersabea, il pozzo del giuramento comprato dal padre (c. 21).  Stavolta, il Dio che gli apparve per rinnovargli le promesse, nel presentarsi, disse «Il sono il Dio di Abramo, tuo padre». Questa espressione è all'origine della religione patriarcale d'Israele la fede nel Dio del padre o dei padri, significava riporre la propria fiducia nel Dio sconosciuto rivelatosi ad Abramo, che si darà un nome al monte Sinai. Isacco «costruì in quel luogo un altare e invocò il nome del Signore» per ringraziarlo e farne un luogo di culto, forse ancora funzionante all'epoca dello revisione dello scritto.

Abimèlech, ostile ad Isacco, si vide costretto a stringere con lui un patto d’alleanza confermato, dopo il banchetto, da un giuramento. Aveva capito che la benedizione di Dio accompagnava il patriarca. A Bersabea fu scavato un pozzo d’acqua sorgiva.

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Esaù, il fratello ingannato da Giacobbe, a quarant'anni sposò donne del luogo, violando l'endogamia o i matrimoni all'interno del clan. Un'amarezza in più per la famiglia d’Isacco.

Giacobbe carpisce la benedizione a Isacco (27,1-45) Questo racconto appartenente alla tradizione jahvista, nella

redazione finale è stato addolcito e sfumato. L'inganno messo in atto da Rebecca non è riprovato anche se vi si nota una certa pietà per Esaù. Tutta la scena si svolge all'interno di una famiglia con i suoi contrasti tra genitori e figli, preferenze e astuzie, per trarre vantaggio dalla situazione. Esaù, con un gesto di suprema incoscienza, aveva rinunciato alla primogenitura. Giacobbe che ve lo aveva indotto, ora che il padre era anziano e semicieco, si adoperò con l'appoggio della madre per ottenere quanto, secondo lui, gli spettava.

Il vecchio Isacco, prima di morire, chiamò il primogenito Esaù, gli disse di andare a caccia di selvaggina e preparargli un piatto di suo gusto dopodiché, l'avrebbe benedetto. Rebecca, che aveva ascoltato ogni cosa, chiamò il suo prediletto Giacobbe, gli disse di sgozzare due capretti del gregge, di portarli a casa e di fidarsi di lei. Alle obiezioni del figlio, rispose rassicurandolo il piano escogitato avrebbe funzionato. A Giacobbe non restò che ubbidire. Portò i due capretti e la scaltra madre li cucinò in maniera ancora più ghiotta. Poi, fece indossare al figlio le vesti d’Esaù. «Con le pelli dei capretti rivestì le sua braccia e la parte liscia del collo», allo scopo di ingannare il semicieco marito difatti, Esaù era peloso e il fratello glabro.

L'inconsapevole Isacco, dopo aver assaporato con piacere le pietanze approntate dalla moglie, chiamò il figlio per la benedizione della primogenitura. Isacco si presentò, camuffato, ma il padre ne sentì la voce e disse «La voce è la voce di Giacobbe, ma le braccia sono le braccia di Esaù. Così non lo riconobbe e lo benedisse». Giacobbe mentiva spudoratamente, sostenuto dalla complicità della madre che si era assunta ogni responsabilità dell'oscura manovra. Premesso che le benedizioni (come del resto anche le maledizioni) erano irrevocabili ed efficaci, Isacco promise a Giacobbe benessere agricolo e abbondanza di beni. Poi aggiunse «Sii il signore dei tuoi fratelli e si prostrino davanti a te i figli di tua madre. Chi ti benedice sia benedetto».

«Esaù, ritornato dalla caccia, ripeté i gesti di Giacobbe che però l'aveva preceduto. La scoperta della truffa fa esplodere il dramma che il narratore biblico presenta in tutta la sua violenza» (Ravasi). Il padre gabbato fu colto da convulsioni, mentre Esaù levava grida altissime e penose. Tuttavia, la gran benedizione era stata accordata a Giacobbe e non si poteva più togliere. Esaù in pianto supplicò il padre di dare qualcosa anche a lui. Impietositosi, Isacco gli impartì una benedizione «minore», promettendo ai suoi discendenti, gli Edomiti, una vita nomade nel deserto fuori della Palestina, un vivere di "spada" ossia di rapina e brigantaggio. «Servirai tuo fratello, ma verrà il giorno che ti scuoterai, spezzerai il suo giogo dal tuo collo» un'aggiunta posteriore per ricordare l'emancipazione degli Edomiti da Israele sotto il regno di Ioram (848-841 a.C.). Naturalmente, la vendetta covava nel cuore di Esaù che decise di aspettare la morte del padre per metterla in atto. L'uccisione di Giacobbe avrebbe provocato l'intervento dei vendicatori di sangue e quindi la morte anche d’Esaù, lasciando Rebecca senza figli. La madre non li voleva perdere e, per salvare Giacobbe, gli ordinò «Fuggi a Carran da mio fratello Làbano. Rimarrai con lui qualche tempo, finché l'ira di tuo fratello si sarà placata».

Giacobbe in viaggio verso Carran (27,46-28,9)

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Isacco stesso convenne sulla partenza di Giacobbe per Carran, ma con una motivazione diversa per cercarvi una moglie tra i parenti di sua madre, secondo la prassi dell'endogamia. «Così Isacco fece partire Giacobbe, che andò in Paddan-Aram presso Làbano, figlio di Betuel, l'Arameo, fratello di Rebecca, madre di Giacobbe e di Esaù».

Mentre Giacobbe si recava dai suoi parenti a Carran, nella regione di Paddan-Aram al nord-est dell'attuale Siria, Esaù sposò una sua cugina, figlia di Ismaele forse intendeva ingraziarsi i genitori con un matrimonio all’interno del clan.

Scala di Giacobbe (28,10-22) Nel suo viaggio verso Carran, Giacobbe si

addormentò posando il capo su una pietra. Vide in sogno «una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo». Il riferimento alle ziqqurrat o torri a ripiani ascendenti della Mesopotamia sembra evidente. Da essa, però, scendevano e salivano «gli angeli di Dio» simboli, secondo i Padri della Chiesa, della Provvidenza divina che si manifestava mediante il loro intervento. Il "Dio dei padri" gli disse che quella terra sarebbe appartenuta a lui e alla sua discendenza. «Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai poi ti farò ritornare in questa terra». Giacobbe consacrò alla divinità la pietra usata come guanciale, in ricordo della rivelazione divina. Il luogo fu chiamato Bet'el, ossia "casa di Dio". «Betel fu un santuario importante anche in epoca successiva, quando per un certo periodo vi fu custodita l'arca. Dopo la morte di Salomone e la divisione in due del suo regno, Geroboamo (secolo X) ne fece un centro religioso importante per il regno del nord» (Ravasi).

Lia e Rachele (29,1-30) Fuori della città di Carran c'era un pozzo. Là

Rachele veniva ad abbeverare il gregge di suo padre Làbano. Appena Giacobbe la vide, rimosse la pietra dal pozzo per dissetare il suo bestiame. Poi «baciò Rachele e pianse ad alta voce»; le riferì che era suo cugino, figlio di Rebecca, sorella del padre. La ragazza corse dal padre e Làbano andò incontro a Giacobbe, «lo abbracciò, lo baciò e lo condusse nella sua casa». Dopo il racconto delle vicende del nipote, ne dichiarò la consanguineità «Davvero tu sei mio osso e mia carne» e lo tenne con sé per un mese. Giacobbe lavorava con lena per lo zio che, non volendo approfittare della parentela, gli disse «Indicami quale deve essere il tuo salario». «Io ti servirò sette anni per Rachele, tua figlia minore», fu la risposta del nipote e Làbano accettò la proposta.

Era prassi nell'antico Oriente e anche in altri continenti acquistare con merci, denaro o quant’altro la sposa che diventava proprietà del marito. Parte di questo prezzo le serviva come dote. Naturalmente, si poteva pagare anche con prestazioni lavorative. Allo scadere dei sette anni, Giacobbe reclamò i suoi diritti su Rachele. Si fece il solenne banchetto nuziale ma, al termine, nella camera dello sposo non certo illuminata, fu introdotta velata la primogenita di Làbano, Lia dagli «occhi smorti», forse affetta da strabismo. Sul far del giorno, Giacobbe vista Lia nel suo letto andò su tutte le furie; lo zio lo placò dicendogli che, secondo le usanze, non si poteva maritare la figlia minore senza accasare la

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maggiore. Non restava che avere un po' di pazienza. «Finisci questa settimana nuziale, poi ti darò anche l'altra (Rachele) per il servizio che tu presterai presso di me per altri sette anni». E così fu. Indubbiamente, Làbano ripagò della stessa moneta lo scaltro Giacobbe. La poligamia, poi, era molto diffusa nel Medio Oriente.

I figli di Giacobbe (29,31-30,24) Il Signore benediceva Lia, la sposa trascurata e non amata da

Giacobbe, che partorì quattro figli. I nomi che dava loro esprimevano rammarico e speranza. Il primo lo chiamò Ruben, "ha visto la mia angoscia", il secondo Simeone, "ha ascoltato", il terzo Levi, "si attaccherà (a me il marito)" e il quarto Giuda, "loderò il Signore".

Rachele, la preferita «divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe "Dammi dei figli, se no io muoio». Gli offrì in moglie, come già aveva fatto Sara con Abramo, la serva Bila. La quale concepì un figlio che Rachele, piena d’orgoglio, chiamò Dan, "Dio ha giudicato in mio favore". Il secondo figlio di Bila fu chiamato Neftali, "lotta di Dio o rivincita" (sulla sorella). Lia, messa in un cantuccio nonostante i quattro figli, diede come moglie al marito la sua schiava Zilpa. Essa partorì a Giacobbe due figli Gad, "per fortuna" e Aser, "per mia felicità". Capitò a Lia di offrire erbe di mandragora alla sorella, chiedendole in cambio di avere il marito per quella notte. Ancora una volta divenne feconda. Ebbe il quinto figlio col nome di Issacar, "mercede, ricompensa" poi, addirittura ne generò un sesto, chiamato Zabulon, "dotare". «In seguito partorì una figlia e la chiamò Dina». Finalmente, anche la sterile Rachele «concepì e partorì un figlio»; gli impose il nome di Giuseppe, ossia "aggiungi" (un altro figlio).

Arricchimento di Giacobbe (30,25-43) Allo scadere dei quattordici anni di servizio per avere in

proprietà le mogli, Giacobbe voleva tornare nella sua terra con la famiglia. Làbano era di parere contrario, per non perdere il nipote che gli aveva procurato tanta prosperità. Lo supplicò di rimanere e di richiedere un salario. Lo scaltro Giacobbe fece notare l'efficienza delle sue prestazioni e pose una condizione per rimanere: formarsi un patrimonio a spese del suocero. «Egli vorrà come salario tutte le capre e le pecore che sono ora (e che poi nasceranno) col mantello punteggiato o chiazzato quelle dal mantello bianco rimarranno di Làbano» (Ravasi). L’astuto allevatore allontanò lestamente tutti i capi chiazzati o neri dal gregge di Giacobbe e li affidò ai figli a tre giornate di distanza. Giacobbe, non meno astuto del suocero anzi d’intelligenza superiore, mise rami scortecciati a strisce nei luoghi dell’abbeverata per far nascere, secondo un’antica credenza, bestiame chiazzato. E lo stratagemma funzionò. In tal modo, Giacobbe ricambiò l'inganno subìto da Làbano «e si arricchì oltre misura e possedette greggi in grande quantità, schiave e schiavi, cammelli e asini».

Fuga di Giacobbe (31,1-21) Il cambiamento genetico del mantello del gregge a vantaggio di

Giacobbe, suscitò gelosia e ostilità nel clan di Làbano. Il Signore disse al patriarca «Torna nella terra dei tuoi padri, nella tua famiglia e io sarò con te». Egli, però, volle prima discuterne con le mogli che si mostrarono consenzienti e perfino risentite nei confronti del padre «Non siamo forse tenute in conto di straniere da parte sua, dal momento che ci ha vendute e si è anche mangiato il nostro denaro». Lamentela in certo senso giustificata, perché nell'alta Mesopotamia parte della somma versata dal fidanzato al suocero al momento del matrimonio, passava alla sposa. Non va dimenticato che Giacobbe, come prezzo della dote, aveva solo prestato il suo lavoro.

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L'occasione propizia per la fuga fu colta al tempo della tosatura quando Làbano, che aveva i greggi distanti da quelli di Giacobbe, si assentò. «Così poté andarsene con tutti i suoi averi. Passò il fiume e si diresse verso le montagne di Galaad». Il fiume attraversato è l'Eufrate e i monti di Galaad si trovano nella Transgiordania.

Làbano insegue Giacobbe (31,22-42) Tornato dopo tre giorni, Làbano seppe della sparizione del genero

lo inseguì per una settimana e trovatolo in Galaad, si accampò di fronte a lui. Camminò verso il fuggiasco e si lamentò per l'offesa ricevuta era stato violato il suo diritto di salutare figlie e nipoti e imbandire un festino di congedo. Inoltre, Giacobbe gli aveva rubato i terafim, ossia i piccoli idoli domestici equivalenti ai penati di Roma. Il patriarca, colpito nella sua onorabilità, reagì aspramente non sapendo che Rachele in realtà li aveva sottratti e consentì al suocero di ispezionare il campo minacciando di morte l'autore di tanto crimine. La colpevole Rachele li aveva nascosti sotto il basto del cammello e vi si era sdraiata sopra dicendosi indisposta: cosa che le dava il diritto a non essere disturbata. Risultata vana la perquisizione, toccò ora a Giacobbe sbottare e recriminare i molti torti subiti dal suocero, mentre i suoi servizi erano stati sempre impeccabili. «Se il Dio di mio padre non fosse stato con me, tu ora mi avresti licenziato a mani vuote».

Accordo tra Giacobbe e Làbano (31,43-32,3) Dopo le vicendevoli accuse, bisognava raggiungere un

compromesso. «Vieni, disse Làbano, concludiamo un'alleanza, io e te, e ci sia un testimone tra me e te». Giacobbe eresse una stele e ordinò ai parenti di raccogliere pietre e metterle all'intorno. Attorno a quel mucchio di pietre o "mucchio della testimonianza" (in aramaico Iegar-Saadutà, in ebraico Gal-Ed) si fece un banchetto allo scopo di fissare una frontiera tra gli Aramei e gli Israeliti. Dio sarà vindice (Mispa) di chi oltrepasserà questi confini violando il patto stabilito.

Làbano impose a Giacobbe di non prendersi altre mogli oltre le figlie; poi partì per tornare alle proprie tende. Anche Giacobbe proseguì il suo viaggio verso la terra dei padri, confortato da un incontro di angeli. Quel luogo fu chiamato Macanàim, "accampamento". Presso questo centro della Transgiordania, vicino al fiume Iabbok, si svolgerà la misteriosa vicenda che segnerà una svolta nella vita di Giacobbe.

Giacobbe prepara l'incontro con Esaù (32,4-22) Sebbene fossero passati ormai venti anni, Giacobbe non

credeva che il fratello avesse dimenticato l'offesa ricevuta e che si fosse spento il rancore dal suo cuore. Prese tutte le precauzioni, mentre s’inoltrava in un territorio ostile in atteggiamento umile e scaltro. Inviò dei messaggeri ad ossequiare Esaù, ma questi come risposta reclutò quattrocento uomini per andargli incontro. «Giacobbe si spaventò molto e si sentì angosciato». Ricorse all’astuzia abituale, dividendo in due gruppi i suoi averi e la sua famiglia. «Pensava infatti "Se Esaù raggiunge un accampamento e lo sconfigge, l'altro si salverà».

Soprattutto ripose la sua fiducia nella preghiera, basata «sulla promessa del Signore che non delude e non si smentisce» (Ravasi). Difatti, egli stava tornando nella terra dei padri per ubbidire al suo comando. «Giacobbe rimase in quel luogo a passare la notte». Al mattino, un'idea luminosi gli attraversò la mente divise in tre branchi consistenti il suo bestiame e con i pastori li inviò ad Esaù, intervallati da uno spazio adeguato. Non appena avessero incontrato Esaù, dovevano

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offrirglieli come donativo di Giacobbe. «Pensava infatti "Lo placherò con il dono che mi precede e in seguito mi presenterò a lui».

Giacobbe lotta con Dio (32,23-33) «Durante quella notte egli si alzò», prese mogli e figli e fece loro

guadare lo Iabbok, affluente del fiume Giordano. «Rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora». Resta oscura l’identità del suo avversario: era Dio o un uomo? Qualunque sia l'elemento arcaico soggiacente al racconto, l'evento è stato caricato di senso religioso. Certo, Giacobbe temeva di incontrare il fratello, ed era logico il ricorso ad una preghiera sofferta e prolungata, una specie di “lotta con Dio” per essere da lui benedetto e protetto. Si attaccò tenacemente al misterioso lottatore che non rivelò la sua identità, ma gli cambiò nome da Giacobbe a Israele, «perché hai combattuto con Dio». Con ciò intendeva mutarne il destino.

Con il nuovo nome il popolo eletto diventa Israele che "combatte con Dio" ed è forte. A perenne memoria quel luogo fu denominato Penuèl, ossia «ho

visto Dio faccia a faccia», senza morire. Giacobbe era uscito zoppo da quella lotta per significare che l'impatto col mistero divino lascia sempre il segno. È detto, infine, che gli Ebrei si astengono dal mangiare «il nervo sciatico», ossia l'articolazione del femore.

L'incontro con Esaù (33,1-11) Rassicurato da questa manifestazione del Signore, Giacobbe

s'incamminò verso il fratello che era circondato da armati. Mise in fila mogli e figli e «passò avanti a loro e si prostrò sette volte fino a terra, mentre andava avvicinandosi al fratello». Esaù si attendeva forse una spiegazione e, di fronte a quell'atteggiamento rimase completamente spiazzato. «Gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero». Era scattato in loro ciò che li univa la voce del sangue. Avvenuta la rappacificazione, Giacobbe presentò ad Esaù la propria famiglia, che assunse atteggiamenti conformi a quelli del patriarca. Il quale, quasi costrinse Esaù ad accettare i doni che gli aveva inviati, sfoggiando un cerimoniale tutto orientale.

Giacobbe si separa da Esaù (33,12-20) Esaù propose al fratello di andare con lui. Questi, diffidente e

sagace, con vari pretesti lo convinse a precederlo nel viaggio e rifiutò persino la proposta di una scorta. Non appena Esaù si fu allontanato, prese un'altra direzione e si stabilì a Succot, "capanne", «dove costruì una casa per sé e fece capanne per il gregge». Proseguendo verso il centro della Palestina, raggiunse Sichem e comprò, dal principe locale, il terreno dove si alzavano le sue tende. «Qui eresse un altare e lo chiamò "El, Dio d'Israele"». Il tempio ivi costruito sarà una dei santuari più importanti d'Israele, sia per il soggiorno di Giacobbe, sia per l’alleanza che là Giosuè riconfermò dopo la conquista di Canaan e l’insediamento degli Ebrei provenienti dalla schiavitù egiziana e quelli ivi residenti (Gs 24,1-28).

La strage di Sichem (34,1-31) Capitò che il figlio del capo della città rapisse Dina, figlia di

Giacobbe e la violentasse. Poi se ne innamorò e la chiese in moglie. Il padre del ragazzo andò a parlarne a Giacobbe, che attese il ritorno dei figli dai pascoli. Essi

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«s'indignarono molto, perché quegli aveva commesso un'infamia in Israele così non si doveva fare». Finsero di accettare la proposta di un matrimonio riparatore e di voler stringere un'alleanza tra i due clan. Richiesero però ai Sichemiti di farsi circoncidere per ricevere il segno distintivo degli Ebrei, non potendo essi dare «la sorella ad un uomo non circonciso».

Gli abitanti di Sichem accolsero la clausola e i maschi furono circoncisi. Ma il terzo giorno, quando i dolori dell'operazione li rendevano incapaci al combattimento, «Simone e Levi, i fratelli di Dina, presero ciascuno la propria spada, entrarono indisturbati nella città e uccisero tutti i maschi». La cosa certamente paradossale, forse si riferisce ad un tentativo non riuscito di insediarsi nella regione. Qualunque sia la portata del fatto, Simone e Levi la giustificarono come riparazione dell'onore della sorella «Si tratta forse la nostra sorella come una prostituta». Perfino la reazione di Giacobbe fu molto blanda. Egli non formulò nessuna condanna morale; era solo preoccupato di come farla franca davanti alla reazione della gente del luogo.

Giacobbe a Betel (35,1-15) Ovviamente Giacobbe fu costretto a fuggire dalla terra di

Sichem. Dio intervenne a suo favore infondendo un timor panico sugli indigeni inferociti, i quali desistettero dall'inseguirlo. Prima però il patriarca volle lasciarsi alle spalle ogni residuo d’idolatria. Si fece consegnare da familiari e collaboratori «tutti gli dei degli stranieri che possedevano e i pendenti che avevano agli orecchi, e Giacobbe li sotterrò sotto la quercia presso Sichem».

Poi ordinò di indossare abiti nuovi per tornare a Betel, la terra del primo incontro con Dio e della scala misteriosa. Là il patriarca costruì un altare a chi lo aveva esaudito, protetto e confortato nella sofferenza. «Chiamò quel luogo "El Betel"», ossia Dio Betel o Dio di Betel. In una nuova apparizione, il Signore gli confermò il mutamento del nome in Israele, una numerosa posterità e il possesso della terra e «dopo di te darò la darò alla tua stirpe». Una stele, vale a dire una pietra piantata verticalmente, fu eretta a ricordo di quell'intervento.

Nascita di Beniamino e morte di Isacco (35,16-29) L'amata Rachele stava per avere un secondo figlio,

l'unico che nacque a Giacobbe nella 'terra promessa'. Il parto fu difficile e funesto e la madre ne morì, non senza aver dato prima il nome a questo figlio Ben-Oni, "figlio del mio dolore". Il padre non volle perpetuare la memoria della sua sventura e lo chiamò Beniamino, "figlio della destra o di buon augurio". Rachele fu sepolta presso Betlemme dove, ancor oggi gli Ebrei ne venerano la tomba.

La vita del patriarca continuò tra alti e bassi. Subì perfino l'affronto di Ruben, il figlio maggiore, che si unì alla schiava Bila, moglie secondaria, trasgredendo il diritto dell'inviolabilità dell'harem del capoclan. Venutolo a sapere, egli tacque. Giacobbe riprese a spostarsi verso il sud ed arrivò e si stabilì in Ebron. Là viveva il padre Isacco, che morì all'età di centottant'anni e là fu seppellito dai «suoi figli Esaù e Giacobbe».

I discendenti di Esaù (36,1-37,1) Esaù e i suoi discendenti hanno il loro bel

capitolo nella Bibbia ed è questo. Vi sono incluse tradizioni d’origine israelita ed idumea, senza accordo fra loro. «Si tratta di una storia in tre fasi. Innanzitutto viene descritto il fiorire degli Edomiti, popolo ostile agli Ebrei l'attenzione si sposta

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poi sugli Hurriti, la popolazione della Palestina meridionale conquistata e dominata dagli Edomiti. Alla fine ecco, invece, la dinastia dei re edomiti, i nuovi signori di quelle steppe del sud» (Ravasi).

Esaù, come Giacobbe, era figlio d’Isacco. Da lui ricevette la benedizione, ancorché più limitata, la fede nello stesso Dio dei padri e l'appartenenza carnale alla discendenza d’Abramo. I legami di parentela erano tali da non poter essere dimenticati. Veniamo a sapere che, dopo la sepoltura d’Isacco in Ebron, tra il clan di Giacobbe e quello di Esaù scoppiò una lite a causa dei pascoli. Quest'ultimo raccolse tutti i suoi familiari e i «beni che aveva acquistati nella terra di Canaan e andò in una regione, lontano dal fratello Giacobbe. Così Esaù si stabilì sulle montagne di Seir». «Esaù è Edom», ossia il progenitore degli Edomiti che abitano Seir, come Giacobbe viveva in Canaan.

Il territorio di Seir si estende dal Mar Morto al golfo di Aqaba, sul Mar Rosso. Forse gli Hurriti, che vi abitavano, si fusero con i discendenti d’Esaù, detti Edomiti o Idumei. Ancora una volta, ma questa è l'ultima, la Genesi indugia su lunghe liste genealogiche che riguardano il popolo degli Edomiti, consanguineo ed ostile agli Israeliti.

STORIA DI GIUSEPPE (37,2-50,26)Gli ultimi tredici capitoli della Genesi, meno due, sono dedicati alla vicenda

avventurosa e romanzata di Giuseppe, il figlio prediletto di Giacobbe. Essa mette in luce un disegno divino di salvezza che si attua, nonostante l'agire perverso degli uomini. Tradito dai fratelli, diventerà il liberatore del suo popolo. «Gli studiosi sono convinti che la storia che ora leggeremo sia esistita come una specie di parabola esemplare per illustrare la figura del vero sapiente e poi sia stata applicata a Giuseppe con l'inserzione di molti elementi specifici riguardanti l'Egitto» (Ravasi).

Giuseppe e i suoi fratelli (37,2-11) Di Giuseppe è detto che aveva diciassette anni e pascolava i

greggi con i fratelli. Suo padre lo amava «più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia e gli aveva fatto una tunica con maniche lunghe». I fratelli lo «odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente», sia per la predilezione del padre, sia perché non ne gradivano il comportamento e i sogni.

Sono, infatti, proprio i sogni a mettere a rischio la vita di Giuseppe. Essi, certo, non avevano lo spessore delle apparizioni divine del passato, ma erano pur sempre misteriose premonizioni. Raccontò che davanti al suo covone s’inchinavano quelli dei fratelli e «il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti

a lui», per significare che il padre, la madre (supposta ancora vivente, mentre era morta in 35,19) e gli undici fratelli, si sarebbero inginocchiati davanti a lui. È chiaro che simili dichiarazioni di superiorità erano fonte d’astio e di invidia da parte dei fratelli.

Giuseppe venduto dai fratelli (37,12-36)Giuseppe, per comando del padre, stava raggiungendo i fratelli al pascolo allo

scopo di averne notizie, quando scattò il piano della vendetta. Vistolo da lontano, si dissero «Eccolo! È arrivato il signore dei sogni Orsù, uccidiamolo e gettiamolo

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in una cisterna». Su quanto segue si accavallano e si fondono due tradizioni. Quella elohista fa prelevare Giuseppe dalla cisterna, all'insaputa dei fratelli, da mercanti madianiti di passaggio. Quella jahvista attribuisce a Giuda la proposta di vendere il fratello ad una carovana d’Ismaeliti che si recavano in Egitto. «Così Giuseppe fu condotto in Egitto».

Scomparso o sbarazzatisi di Giuseppe, i fratelli dovevano darne l'annuncio al padre. Presero la tunica di Giuseppe, la chiazzarono del sangue di un capro e la mandarono a Giacobbe con la notizia «Abbiamo trovato questa per favore, verifica se è la tunica di tuo figlio o no». Perfino da questo comportamento cinico, traspare lo spirito di vendetta e il risentimento nei confronti del padre. Sui giorni sereni del patriarca cadde il velo del lutto e dello sconforto. Pianse amaramente il figlio e «non volle essere consolato». Intanto, Giuseppe era arrivato in Egitto e «i Madianiti lo vendettero a Potifar, eunuco del faraone e comandante delle guardie».

Storia di Giuda e di Tamar (38,1-30) Lasciato per ora Giuseppe alla sua sorte, il racconto biblico si

sofferma su un episodio della vita di Giuda, figlio di Giacobbe e del suo rapporto con la nuora Tamar. Questa era andata sposa al primogenito di Giuda, Er, il quale era morto presto per un motivo a noi sconosciuto. Giuda disse al secondogenito Onan di unirsi alla cognata e assicurare «così una posterità a tuo fratello», secondo la legge del levirato (Dt 25,5). Onan, invece, non voleva che il fratello avesse una discendenza e, «ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva il seme per terra, per non dare un discendente al fratello». La cosa era in abominio a Dio che lo colpì di morte improvvisa, condannandone l’egoismo e la violazione della Legge. Il suo comportamento ha dato origine all’onanismo.

Tamar ricorse ad uno stratagemma per avere un figlio addirittura dal suocero. Colse Giuda in un momento di debolezza, dopo la morte della moglie, si travestì da prostituta, si coprì il volto e lo attese vicino alla strada. Come prezzo dell’incontro, chiese "il sigillo, il cordone e il bastone che aveva in mano". Difatti, il sigillo infilato in un cordone e il bastone erano oggetti talmente personali da essere considerati una “carta d'identità”. Non molto dopo, Giuda fu informato che la nuora era incinta ed ordinò di farla bruciare. «Mentre veniva condotta fuori, ella mandò a dire al suocero "Io sono incinta dell'uomo a cui appartengono questi oggetti». Il suocero li riconobbe come suoi. Era stato lui a violare i propri doveri, non avendola data in moglie all'ultimo figlio, Sela. Assolse, perciò, Tamar dalla colpa d’adulterio. Lei, a suo tempo partorì due gemelli; il primo chiamato Peres sarà l'antenato di Davide e, quindi, del Messia.

Giuseppe in casa di Potifar (39,1-20) Sotto l'amministrazione di Giuseppe che n‘era il soprintendente, i beni

di Potifar crescevano e si moltiplicavano. Il padrone ne godeva. La moglie, invece, visto che «Giuseppe era bello di forma e attraente di aspetto», tentò di adescarlo. Il fatto assume valore allegorico: quest’ammaliatrice rappresenta il «simbolo della donna straniera seduttrice, spesso condannata dalla sapienza biblica perché fa traviare l'Ebreo dalla sua fede e dalla sua morale» (Ravasi).

«Un giorno, mentre non c'era alcuno dei domestici, ella lo afferrò per la veste, dicendo "Còricati con me!". Ma egli le lasciò tra le mani la veste, fuggì e se ne andò fuori». Inviperita, la donna respinta si mise a gridare, chiamò i servi e disse che l'Ebreo voleva farle violenza. La stessa cosa ripeté al ritorno del marito, il quale andò su tutte le furie e fece cacciare in prigione il suo amministratore. Il Signore, però, non lo abbandonò. Ben presto, Giuseppe si conquistò la

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benevolenza del direttore della prigione che gli affidò la sorveglianza di tutti i carcerati. Compito che svolse egregiamente e gli sarà di molta utilità.

Giuseppe interpreta i sogni (40,1-22) Non sappiamo perché «il faraone si adirò contro i suoi due

eunuchi», il capo-coppiere e il capo-panettiere. Premesso che qui 'eunuco' ha significato di maggiordomo o uomo di fiducia, il capo-coppiere controllava tutte le bevande del faraone per prevenire ogni tentativo d’avvelenamento, mentre il capo-panettiere preparava per il sovrano ogni cibo fatto con pasta, dal pane ai dolci.

I due indagati e in attesa di giudizio, furono affidati alle cure di Giuseppe. Nel corso della stessa notte fecero entrambi un sogno che, per gli Egiziani, aveva valore di presagio. Giuseppe se li fece raccontare e poi si offrì come interprete. Quello del coppiere significava che, dopo tre giorni, il faraone lo avrebbe reintegrato nelle sue mansioni. Gli raccomandò di ricordarsi di lui, innocente, presso il suo signore. Quello del panettiere faceva presagire una triste fine. In capo a tre giorni sarebbe stato impiccato ed esposto agli uccelli del cielo. Quanto predetto, si avverò a puntino.

I sogni del faraone (41,1-36)A due anni di distanza, anche il faraone fece un sogno ed, essendo considerato

figlio di Dio, i suoi sogni avevano un grandissimo valore. Nel sogno il faraone era condotto sulle rive del Nilo, le cui piene abbondanti e regolari donavano benessere e prosperità a tutto l'Egitto. «Salirono dal Nilo sette vacche, belle di

aspetto e grasse e si misero a pascolare tra i giunchi», ossia tra le piante di papiro. Esse furono divorate da sette vacche magre, uscite dallo stesso Nilo. Il sogno successivo rassomigliava al primo. Questa volta sette spighe piene spuntate «da un unico stelo» furono divorate da sette spighe vuote. Naturalmente, il faraone era ricorso a maghi e indovini, di cui abbondava l'Egitto, ma nessuno aveva trovato una spiegazione plausibile.

Allora il coppiere si ricordò di Giuseppe e ne parlò al faraone che lo fece convocare alla sua presenza e gli espose angosciato i suoi sogni. Giuseppe disse «Non io, ma Dio darà la risposta per la salute del faraone!». Il sogno era duplice, ma il significato era identico. Ed ecco la risposta, semplice e sorprendente «Stanno per venire sette anni in cui ci sarà grande abbondanza in tutta la terra d'Egitto. A questi succederanno sette anni di carestia». Giuseppe, che qui incarna la sapienza biblica, si affrettò ad offrire una soluzione al problema posto da tali avvenimenti. «Il faraone pensi a trovare un uomo intelligente e saggio» per fronteggiare la situazione, istituire dei commissari «per prelevare un quinto sui prodotti della terra d’Egitto» durante l'abbondanza, ammassare le risorse eccedenti in depositi nelle città e ridistribuirli nel periodo della carestia.

Carriera di Giuseppe (41,37-57) Ammirato dalla schietta e sicura saggezza di Giuseppe, il

faraone e la corte furono d'accordo nel promuoverlo all'amministrazione delle derrate d'Egitto, per coordinare un piano di salvezza. Di punto in bianco il carcerato divenne viceré di uno degli Stati più potenti. Si cominciavano a

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scorgere i contorni del progetto di Dio e i racconti del sognatore assumevano consistenza.

L'investitura di Giuseppe a viceré fu quanto mai solenne. «Ecco, disse il faraone, io ti metto a capo di tutta la terra d'Egitto». Poi gli dette il suo anello, ossia il sigillo regale per autenticare i documenti. «Lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d'oro» per conservarvi il sigillo reale. Infine, «lo fece salire sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava Abrech», vale a dire, "attenzione", un invito a rendere omaggio al passaggio dell'importante personaggio. «E il faraone chiamò Giuseppe Zafnat-Panéach e gli diede in moglie Asenat». Il nuovo nome di Giuseppe significa "Dio parla ed egli vive". Gli si offrì in sposa la figlia dell'influente sommo sacerdote di On (Eliopoli), centro del culto al dio sole. L'età del viceré era di trent'anni.

«Quindi Giuseppe si allontanò dal faraone e percorse tutta la terra d'Egitto», per ammassare una grandissima quantità di viveri nei sette anni d’abbondanza in vista della successiva carestia. Intanto a Giuseppe nacquero due figli Manasse, spiegato con «Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno», e Efraim con «Dio mi ha reso fecondo». Quando, cessata la prosperità, la fame cominciò a farsi sentire, il faraone disse agli Egiziani «Andate da Giuseppe fate quello che vi dirà». I depositi furono aperti non soltanto al popolo, ma anche alla gente d’altri paesi che «venivano in Egitto per acquistare grano da Giuseppe».

I figli di Giacobbe vanno in Egitto (42,1-38) Anche i fratelli di Giuseppe furono costretti dalla carestia a

recarsi in Egitto. «Partono solo in dieci perché il vecchio Giacobbe non vuole esporre a pericoli l'altro figlio prediletto, Beniamino, nato dall'amata Rachele, morta proprio durante quel parto (35,16-20)» (Ravasi). «Giuseppe vide i suoi fratelli e li riconobbe, ma fece l'estraneo» e li accolse con molta durezza, come se si trattasse di spie che minacciavano la sicurezza dell'Egitto. Non badando alle loro affermazioni di appartenere ad una famiglia di dodici fratelli, di cui uno era sparito e l'ultimo rimasto presso il padre, li tenne agli arresti domiciliari per tre giorni. Dopodiché, li riammise alla sua presenza dicendo che li lasciava liberi di tornare con il grano, a condizione di condurgli il fratello più piccolo. Uno di loro sarebbe rimasto come ostaggio. Allora si ricordarono del male fatto a Giuseppe e, parlando tra loro si rimproveravano l'atteggiamento crudele avuto verso di lui «Ecco, ora ci viene domandato conto del suo sangue». Giuseppe, che si serviva di un interprete, li capiva perfettamente e, preso da intensa commozione, «andò in disparte e pianse». Poi mise in prigione Simone e rimandò gli altri a casa loro.

Tornando nel loro paese con il grano richiesto, si accorsero con sorpresa che il denaro per l'acquisto era in cima o, secondo la tradizione jahvista, in fondo ai sacchi. Una tale scoperta provocò un timore religioso, poiché erano alle prese con qualcosa di misterioso in cui si celava un messaggio di Dio. Intanto Giacobbe, messo al corrente della volontà di quel signore d'Egitto circa Beniamino, non ne voleva assolutamente sapere. Era stato troppo il dolore per la perdita di Giuseppe e non se la sentiva di rinunciare anche a Beniamino.

Beniamino in Egitto (43,1-34) La carestia perdurava e la fame incombeva sul clan di Giacobbe.

Più volte i suoi figli avevano cercato di convincerlo a lasciare partire Beniamino. Soltanto quando la fame diventò nera, Giuda s’interpose presso il padre «Lascia venire il giovane con me prepariamoci a partire per sopravvivere e non morire, noi, tu e i nostri bambini. Io mi rendo garante per lui dalle mie mani lo reclamerai». Infine, Israele si arrese «Se è così, fate pure». Raccomandò ai figli

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di portare doni a quel potente signore e il doppio del denaro, per restituire quello che avevano ritrovato nei sacchi. Poi, li congedò con una speciale benedizione «Dio l’Onnipotente vi faccia trovare misericordia presso quell'uomo».

L'emozione e la gioia di Giuseppe, nel vedere Beniamino in mezzo ai fratelli, fu tale da ordinare subito un banchetto per loro e di condurli a casa sua. Essi si spaventarono pensarono ad un tranello e si confidarono col maggiordomo parlando del denaro ritrovato nei loro sacchi. Egli li rassicurò, dicendo «State in pace, non temete». Da ciò si arguisce che esisteva una certa complicità tra lui e il governatore ed era informato della vicenda. Rividero e abbracciarono con gioia Simone, il fratello rimasto prigioniero in Egitto. Furono messi a loro agio e ripuliti nell’attesa dell'arrivo del governatore.

Giuseppe si presentò a mezzogiorno. I fratelli gli andarono incontro per offrirgli i doni e prosternarsi davanti a lui. Egli li interpellò, chiedendo «Sta bene il vostro vecchio padre? Vive ancora». Alla risposta affermativa, il viceré aggiunse «È questo il vostro fratello più giovane, di cui mi avete parlato». La commozione lo sopraffece e, per non scoppiare in pianto davanti ai fratelli, uscì in fretta. Ricompostosi, tornò nella sala e mangiò in un tavolo separato dai fratelli. Perché «gli Egiziani non possono prender cibo con gli Ebrei, ciò sarebbe per loro un abominio». Tutti si accorsero che, delle porzioni di cibo che provenivano dalla sua mensa, quella di Beniamino era cinque volte più grande delle altre.

La coppa di Giuseppe nel sacco di Beniamino (44,1-34) Ripartirono l'indomani mattina a pieno carico. Appena usciti

dalla città furono raggiunti dal maggiordomo del viceré che li rimproverò d'aver rubato la coppa d'argento del suo signore, che gli serviva per bere e trarre auspici. Si dichiararono innocenti del misfatto fino a che la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. Dalla disperazione, «essi si stracciarono le vesti» e furono ricondotti dal governatore che decise di trattenere presso di sé l'autore del furto e rimandare gli altri.

Il momento era drammatico. Giuda, consapevole che l'ira di Dio lo stava punendo con i fratelli per qualche misfatto dimenticato, si fece avanti e raccontò la riluttanza del vecchio padre a lasciar partire Beniamino, dopo la perdita dell'altro figlio che era «certo stato sbranato». Tornare senza il giovinetto voleva dire condannare a una morte prematura e dolorosa il vecchio genitore. Giuda non se la sentiva di far morire il padre e di tradire il fratello. Ora i suoi sentimenti erano ben diversi da quelli avuti nei confronti di Giuseppe. E, poiché si era reso garante presso il padre del ritorno di Beniamino, «lascia, disse al governatore, che il tuo servo rimanga al posto del giovinetto come schiavo del mio signore e ch'io non veda il male che colpirebbe mio padre».

Giuseppe si fa riconoscere (45,1-28) L'onda dei sentimenti stava per travolgere il viceré

nell'ascoltare le parole di Giuda. Vedendo il profondo e sofferto imbarazzo dei fratelli, fece uscire tutti gli Egiziani e singhiozzando cominciò a dire «Io sono Giuseppe». Stupore, incredulità e paura grande si resero palpabili nell'atmosfera. Per rassicurarli, il governatore li invitò ad avvicinarsi e ripeté «Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l'Egitto». Da uomo assennato, nutrito alla sorgente sapienziale della Bibbia, aggiunse che tutto ciò faceva parte del piano di Dio «per assicurare a voi la sopravvivenza». Poi, «si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse». Baciò anche gli altri fratelli e si mise a conversare amichevolmente con loro, in segno di piena rappacificazione.

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La carestia sarebbe durata ancora cinque anni. Dovevano, quindi, affrettarsi a tornare in Canaan e condurre in Egitto l'anziano Giacobbe e tutti i familiari. Sarebbe stata loro assegnata la terra di Gosen, regione ad oriente del Delta. Il faraone, venuto a conoscenza della cosa, era d'accordo che i parenti di Giuseppe si trasferissero in Egitto e lasciassero serenamente i loro possedimenti, perché non sarebbe mancato loro nulla. Per facilitare il trasloco «Giuseppe diede loro carri», viveri ed abiti e, nel congedare i fratelli, raccomandò di non litigare «durante il viaggio». La notizia della vita e della fortuna di Giuseppe, fece uscire dall’ombra di morte il vecchio Giacobbe; vide i carri che il figlio gli aveva mandato, gli ritornò la gioia di vivere e la voglia di riabbracciare il suo prediletto. «Voglio andare a vederlo prima di morire»

Giacobbe va in Egitto (46,1-34) Sul punto di lasciare Bersabea, Giacobbe-Israele, secondo la

tradizione elohista, ebbe ancora una visione notturna, l'ultima dell'epoca dei patriarchi. Il “Dio dei padri” gli disse di «non temere di scendere in Egitto, perché laggiù io farò di te una grande nazione». Rassicurato e incoraggiato, Giacobbe con le nuore, i figli e i nipoti salirono sui carri, conducendo con loro servi e armenti e si misero in cammino verso l'Egitto. La redazione sacerdotale inserisce qui uno spaccato sulla famiglia di Giacobbe, per informarci che furono settanta gli Ebrei entrati in quel periodo in Egitto.

All'approssimarsi della frontiera egiziana, Giuda è mandato in avanscoperta ad avvertire Giuseppe dell'arrivo del padre. Il viceré, rivestito delle sue insegne, «fece attaccare il suo carro e salì in Gosen incontro a Israele, suo padre». Un lungo abbraccio e un pianto di gioia sigillò questo ritrovarsi dopo tanto tempo. La felicità d’Israele era al colmo, tanto da esclamare «Posso anche morire, questa volta, dopo aver visto la tua faccia, perché sei ancora vivo». Bisognava ora far accettare questi parenti dal faraone. Giuseppe da buon diplomatico dispose le cose nel modo giusto. Dovevano dichiararsi pastori e chiedere la terra di Gosen ricca di pascoli. L’espressione, «tutti i pastori di greggi sono un abominio per gli Egiziani», mostra il grande disprezzo della gente locale per tale professione.

Gli Ebrei si stabiliscono in Egitto (47,1-12) Venne il giorno dell'incontro ufficiale dei familiari di Giuseppe

con il faraone. Giuseppe presentò cinque dei suoi fratelli ai quali fu chiesto «Qual è il vostro mestiere». Siamo pastori di greggi; data la mancanza di pascoli per la carestia, ti chiediamo il permesso di soggiornare, come forestieri, nel paese di Gosen. L’autorizzazione fu generosamente accordata. Poi fu introdotto alla presenza del faraone il vecchio Giacobbe che, al sentirsi chiedere quanti anni aveva, rispose «Centotrenta di vita errabonda, pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita». Dopo un saluto di benedizione, il patriarca si ritirò ed andò ad abitare con il suo clan nella terra di Gosen. Il nome di Ramses dato qui al territorio è anacronistico. Ramses II, che fu un gran costruttore, regnò molto più tardi (1290-1224 circa a.C.), quasi certamente al tempo della cacciata degli Ebrei dall’Egitto.

Politica agraria di Giuseppe (47,13-31) Tenendo presente che Giuseppe è l'emblema del saggio

d'Israele, egli agisce sempre in modo oculato a vantaggio del faraone. Per sfamare gli Egiziani durante la carestia dapprima fa incetta del loro denaro una volta finito requisisce il loro bestiame ed infine i terreni e gli immobili che possedevano. Forse è un modo per spiegare che, in Egitto, quasi tutte le terre erano beni della corona. «Soltanto i terreni dei sacerdoti egli non acquistò»; essi,

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infatti, avevano un’assegnazione fissa da parte del faraone che consentiva loro di vivere senza vendere i loro beni. Con le derrate per la sopravvivenza, il governatore distribuiva anche le sementi così una quinta parte del raccolto rientrava in possesso del faraone.

Dopo diciassette anni trascorsi serenamente tra figli e nipoti, Giacobbe sentì l'avvicinarsi del trapasso. Mandò a chiamare Giuseppe e gli fece giurare di non lasciare le sue spoglie in Egitto, ma di riportarle in Canaan, nella terra dei padri e di tumularle accanto a loro.

Giacobbe adotta e benedice i due figli di Giuseppe (48,1-21) Sappiamo, probabilmente da un'altra tradizione, che

Giuseppe fu informato della malattia del padre. Corse al suo capezzale insieme ai figli Efraim e Manasse. Allora, Giacobbe si pose a sedere sul letto e disse che quei due figli gli appartenevano, «come Ruben e Simeone». Ciò significava che li riteneva suoi, al pari degli altri figli e che sarebbero stati capostipiti di due tribù in Israele. Benedicendoli, Israele incrociò le braccia e posò la destra sul capo d’Efraim, che era il minore. Giuseppe, contrariato, cercò inutilmente di guidare la mano destra del padre sul capo di Manasse. Il patriarca gli fece capire che sapeva quel che faceva «Il suo fratello minore sarà più grande e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni». La benedizione, oltre alle promesse specifiche, implicava un auspicio di fecondità. Era un modo di protendersi tramite i discendenti verso l'immortalità, essendo la vita ultraterrena nello sheòl un mistero troppo indecifrabile.

Giacobbe, morente, predisse il ritorno degli Israeliti nel paese dei padri. A Giuseppe, suo figlio prediletto, lasciò in eredità «un dorso di monte che io ho conquistato». Il testo biblico, non riferisce alcuna impresa del genere. Aveva soltanto comprato un terreno a Sichem (vedi 33,19). Dopo il ritorno degli Israeliti in Canaan e la conquista della terra santa, quel territorio sarà assegnato ai figli di Giuseppe.

Le benedizioni di Giacobbe (49,1-33) Il capitolo è dedicato alle benedizioni o meglio ai vaticini sul

futuro che Giacobbe, prima di ricongiungersi ai padri, previde per i figli. In loro il patriarca contemplava l'espandersi della posterità e l'avveramento delle promesse di Dio. Tuttavia, l’ubicazione e l'importanza delle varie tribù, così com’è descritta, si riferisce ad un periodo molto posteriore, quello del regno di Davide, quantunque attinga ad elementi e ricordi d’epoca patriarcale. Pure nel Deuteronomio (c. 33), scritto intorno al 622 a.C., Mosè morto secoli prima, benedice le dodici tribù d'Israele.

Ruben perde la primogenitura in castigo del suo incesto. Al tempo dei Giudici (c. 5) la sua tribù è ancora numerosa, ma si riduce a pochi guerrieri nei secoli successivi (Dt 33,6). «Simeone e Levi sono fratelli, strumenti di violenza, io li disperderò in Israele». Si attribuisce loro l’assalto proditorio e brutale contro gli abitanti di Sichem per vendicare la sorella Dina (c. 34); Simeone, infatti, sarà presto assorbito da Giuda. Levi, in qualità di tribù sacerdotale dedita al culto, viveva sparsa in mezzo ad Israele.

La priorità assoluta tra le tribù è riservata a quella di Giuda, che darà origine alla dinastia davidica. Si esalta la forza di Giuda, pari a quella di un leone «La tua mano sarà sulla cervice dei tuoi nemici davanti a te si prostreranno i figli di tuo padre». Nel vaticinio che segue, i Padri della Chiesa da san Girolamo in poi, vi hanno letto l’annuncio del Messia «Non sarà tolto lo scettro da Giuda, finché verrà colui al quale esso appartiene». Infatti, alla nascita di Gesù-Messia, lo

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scettro era passato dalle mani degli Asmonei (134-37 a.C.), discendenti dei Maccabei a quelle di Erode il Grande, l'Idumeo.

La tribù di Zàbulon è presentata come abitante «lungo il lido del mare», a nord vicino alla Fenicia. Issacar, definito «asino robusto», si era insediato nella ricca pianura di Esdrelon impigrito dal benessere accetterà il giogo dei Cananei. La tribù di Dan è paragonata ad una «vipera cornuta sul sentiero» del deserto, forse per l'abitudine di attaccare di sorpresa. Gad assalito dai predoni li ripagherà con la stessa moneta. La tribù di Aser si adagia nella fertile striscia litoranea tra il Carmelo e la Fenicia e quella di Nèftali, stanziata nella Galilea, è definita elegante come una gazzella e colta.

Poi l'attenzione si concentra su Giuseppe e i due figli adottati da Giacobbe, Manasse ed Efraim; Giacobbe fa scendere sopra di loro un profluvio di benedizioni e di favori divini. I redattori sanno molto bene che Efraim è la tribù dominante del regno del nord. Anche la tribù di Beniamino, dipinta come «lupo che sbrana», anticipa l'aspetto militare che essa assumerà in seguito, soprattutto mediante l'esponente di maggior spicco, il re Saul. Finalmente, dopo aver nuovamente ordinato d’essere sepolto «nella caverna che si trova nel campo di Macpela di fronte a Mamre, nella terra di Canaan», Giacobbe morì.

Funerali di Giacobbe (50,1-14) «Giuseppe ordinò ai suoi medici al suo servizio di

imbalsamare suo padre». Sicuramente l'imbalsamazione avvenne alla maniera egiziana e durò quaranta giorni. Finito il lutto, Giuseppe chiese e ottenne dal faraone il benestare per seppellire suo padre nella terra di Canaan, in adempimento alle sue ultime volontà. Dietro al feretro di Giacobbe, in viaggio verso la terra dei padri, vi erano tutti gli adulti del suo clan, i «carri di guerra e la cavalleria», dignitari egiziani e una delegazione ufficiale.

«Le esequie sono celebrate in Transgiordania, alle soglie della terra promessa, nell'Aia di Atad ("l'aia delle spine"). Il rito ora è quello ebraico e comprende solamente sette giorni di lutto e non settanta, come era avvenuto in Egitto» (Ravasi). Poi le spoglie di Giacobbe furono portate dai figli nel terra di Canaan «e lo seppellirono nella caverna del campo di Macpela». Compiuta la triste incombenza, Giuseppe e i suoi fratelli tornarono in Egitto.

Ultimi anni di Giuseppe (50,15-26) Ora che il padre era passato

a miglior vita, i fratelli di Giuseppe furono presi dal panico. Chissà se erano stati davvero perdonati o se la clemenza del governatore era solo frutto di un calcolo, per non rattristare l'anziano genitore Gli mandarono, perciò, a dire «Tuo padre prima di morire ha dato quest'ordine Direte a Giuseppe Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male».

Dopo quanto abbiamo letto in precedenza, stupisce non poco tanta diffidenza. Forse s’intende ripresentare il vero comportamento del saggio biblico, personificato da Giuseppe. Tanta sfiducia lo fece piangere e si rivolse loro, dicendo «Non temete. Tengo forse io il posto di Dio?»; a lui spetta giudicare. E, subito dopo, rammentando l'episodio, mise in risalto l'azione della Provvidenza divina intervenuta a trarre bene dal male.

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Da quel momento, la vita di Giuseppe trascorse serena e tranquilla sino ad arrivare ai «centodieci anni». Vide nascere e crescere i nipoti, ma non dimenticò d’essere forestiero ed ospite nella terra d'Egitto. Prima di morire «fece giurare ai figli d'Israele così "Dio verrà certo a visitarvi e allora voi porterete via di qui le mie ossa», e le sotterrerete accanto agli antenati. Alla sua morte si fece lutto in Egitto e il suo corpo imbalsamato, «fu posto in un sarcofago» nell'attesa della traslazione.

Termina qui la Genesi, il primo libro della Bibbia. Il protagonista e l’ispiratore di esso è Dio, "principio" assoluto di tutte le cose; diversi, invece, furono gli uomini di cui si servì. L’uomo è, infatti, la più nobile delle creature uscite dalle sue mani, ne porta l’immagine e la somiglianza. Sintesi tra materia e spirito, è al vertice del cosmo. Il testo sacro, indagando sulle origini, ha ricercato il senso della vita ed ha esplorato la causa e il significato del malessere umano. Nella culla di un piccolo popolo, che ha origine dal patriarca Abramo, Dio ha deposto un germe di liberazione e di salvezza per tutte le genti. Israele sarà il portatore di questa promessa, le cui fasi di sviluppo occuperanno gli altri libri della Bibbia.

Tradizioni bibliche presenti nella GenesiJahvista (J), Elohista (E) e Sacerdotale (P)

c 1 (P)c 2,1-4a (P);2,4b-fine (J)c 3 (J)c 4 (J)c 5, (J) (eccetto v 28) c 6,5-8 (J); 9-22 (P) c 7,1-5.7-10.12.16b.17.22-23 (J); 6-11.13-16a.18-21.24 (P) c 8,1,2a.3b-5.13a.14-19 (P); 2b-3a.6-12.13b.20-22 (J) c 9,1-17.19-28 (P); 18-19 (J) c 10 (P)c 11 (J)c 12(J)c 13 (J)c 14: non appartiene a nessuna delle tre fontic 15 (J con infiltrazioni di E)c 16 (J con elementi di P) c 17 (P)c 18 (J) (con ritocchi)c 19 (J)c 20 (E) (doppione di 12,10-20) c 21 (E) 1-7 (J.E.P).8-21 doppione di 16,1ss) 22-34 c 22 (E) (con elementi J)c 23 (P) c 24 (J)c 25 (P) (eccetto 1-6.11b.18.21-26a.27-34 J)    c 26 (J) (eccetto 34-35 di P)c 27 (J) (rielaborato; 41-45 P)c 28 (mescola J e P)c 29,1-12. 17. 18. 20. 21a. 22 (P); 13-16. 19. 21b (J)c 30,1-24 (J) (il resto è antico e di difficile interpretazione) c 31 (E) (43-54 mescola J+E) c 32,1-14a (J); 14b-22 (E); 23-33 forse (J)

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c 33 sostanzialmente (J)c 34 (L'attribuzione alle due fonti elohista e jahvista è incerta)c 35 (Raggruppa tradizioni di varie origini)c 36 (documenti d’origine israelita e idumea)c 37 (J)c 38 (J)c 39 (J)c 40 (E)c 41 (E) (dal v 33 mescolata a J) c 42 (E) (con reminiscenze J) c 43 (J)c 44 (J)c 45 (combina E+J) c 46 (armonizza J+E)c 47 (tradizioni combinate J+E+P)c 48 (accosta varie tradizioni)c 49 (nessuna delle tre tradizioni; (vv 29-33, morte di Giacobbe, sono P).c 50,1-11.14 (J); 15-26 (E); 12-13 (P).

BIBLIOGRAFIA

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INDICEIntroduzione alla Bibbia: contenuto, autori, esegesi 1Canone ebraico e cristiano delle Scritture 2Tradizioni della Bibbia, 2Pentateuco

GENESIl. Creazione del mondo e dell'uomo (1,1-3,24)

In principio (1,1-2,4a) 4Secondo racconto della creazione (2,4b-25) 6

2. Peccato originale (3,1-6,4)Tentazione e caduta (3,1-7) 7Il processo (3,8-19) 8La cacciata dall'Eden (3,20-24) 9

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Caino e Abele (4,1-16) 10 Discendenti di Caino e altri fatti prima del diluvio (4,17-6,4)3. Il diluvio (6,5-9,17) Corruzione dell'umanità (6,5-12)   11

Preparativi e diluvio (6,13-7,24) 11La fine del diluvio (8,1-22) 12L'alleanza con Noè (9,1-17) 12

4. Dal diluvio ad Abramo (9,18-11,26)Ebbrezza di Noè e le nazioni della terra (9,18-10,32) 13La torre di Babele (11,1-9) 13Discendenti dì Sem fino ad Abramo (11,10-26) 14

5. Storia di Abramo (12,1-25,18)Vocazione di Abramo (12,1-9) 14Abramo in Egitto (12,10-20) 15Lot e la guerra dei quattro re (13,1-14,16) 15Melchisedech. Promesse ed alleanza (14,17-15,21) Nascita d'Ismaele e circoncisione (16,1-17,27) 17Apparizione a Mamre e distruzione di Sodoma (18,1-19,29) 18Abramo a Gerar e nascita di Isacco (20,1-21,34) 19Sacrificio di Isacco e morte di Sara (22,1-23,20) 20Matrimonio di Isacco e ultimi anni di Abramo (24,1-25,18) 11

6. Storia di Isacco e di Giacobbe (25,19-37,1)Nascita di Esaù e Giacobbe e vicende d'Isacco (25,19-26,35) 22Giacobbe carpisce la primogenitura ad Esaù e fugge a Carran (27,1-28,22)23Lia e Rachele e i figli di Giacobbe (29,1-30,43) 24Fuga di Giacobbe inseguito da Làbano (31,1-32,22) 26

Giacobbe lotta con Dio (32,23-33) Incontro e separazione da Esaù (33,1-20) 27Fatti di Giacobbe e morte d'Isacco (34,1-35-29) 28Discendenti di Esaù (36,1-37,1) 29

7. Storia di Giuseppe (37,2-50,26)Giuseppe venduto dai fratelli è condotto in Egitto (37,2-39,20) 29Giuseppe interpreta i sogni ed è nominato vicerè (40,1-41,57) 30Gli Ebrei si stabiliscono in Egitto (42,1-47,31) 32Giacobbe adotta í due figli di Giuseppe e benedice (48,1-49.33) 35Funerali di Giacobbe e morte di Giuseppe (50,1-26) 36

Tradizioni bibliche nella Genesi 38 Bibliografia, Indice 39

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Page 42: GENESI - Siti Personali | Libero Communitydigilander.libero.it/la_corda/accesso/Bibbia/11. GENESI.doc · Web viewDio ammonisce Caino invidioso della prosperità del fratello. Dio,

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