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Lesley Downer Geisha Storia erotica del Giappone raccontata dalle maestre del piacere Traduzione di Giancarlo Carlotti

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Lesley Downer

GeishaStoria erotica del Giappone

raccontata dalle maestre del piacere

Traduzione diGiancarlo Carlotti

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Titolo originale dell’opera: Geisha© 2000 Lesley Downer

I Edizione Piemme Bestseller, marzo 2011

© 2002 - EDIZIONI PIEMME Spa20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

Anno 2011-2012-2013 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9

Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)

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Introduzione

ATTRAVERSO LO SPECCHIO

Arrivai a Kyoto in un tardo e mite pomeriggio d’iniziomaggio. La locanda in cui avrei alloggiato si trovava in unvicolo troppo angusto perché il taxi potesse entrarvi; cosìfui costretta a trascinare la valigia per un centinaio di me-tri lungo quel budello e poi, oltre il portone d’ingresso,ancora su per due rampe buie e ripide di una scala di le-gno, prima di raggiungere la mia stanza, ricca d’aria e diluce.

Una delle quattro pareti era formata da veneziane dibambù scorrevoli e inclinabili a piacere, che affacciavanosu un disastrato ballatoio di legno e sbattevano al più pic-colo alito di vento. Sopra i tatami rosicchiati dalle tarmetrovavano posto un tavolo sbilenco, un cuscino piatto econsunto e una toletta da casa di bambola che sosteneva inequilibrio precario uno specchio ricoperto da uno scam-polo di antico broccato. In un angolo c’era un attaccapannitraballante con alcuni ganci per appendervi i vestiti.

Uscii sul balcone ad ammirare un panorama di tetti ditegole grige, di pali del telegrafo e di un incredibile grovi-glio di fili. Giù in basso, casette di legno simili a quella incui mi trovavo punteggiavano i lati della strada. Dietro lepersiane di una casa di fronte intravidi due ombre femmi-nili. Il vento mi portava voci, risate e il pling-plong metalli-co dello shamisen, uno strumento simile al banjo. Donne

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scalpicciavano per strada, fermandosi di tanto in tanto perun inchino e un saluto in falsetto.

Quando scese l’oscurità si accesero le bianche lanternerotonde davanti ai portoni; sentii un rumore di zoccoli eun lieve tintinnio di campanelli. Guardai nel vicolo e miapparve uno spettacolo straordinario: una ragazza avvoltain un kimono di colore azzurro e oro bruno, le lunghemaniche ondeggianti, che vacillava camminando su zocco-li assurdamente alti. I capelli luccicanti d’olio, ornati conpiccoli pettini sfavillanti e monili d’argento, il suo visodipinto, un bagliore bianco nella penombra. Decisamenteuna figura di un’altra epoca.

Ero venuta nell’antica Kyoto in cerca di geishe. Capitaledel Giappone per oltre un millennio, la città era tuttora ilcuore culturale dell’arcipelago, ricca di templi, palazzi,giardini e teatri, e soprattutto il luogo in cui questo anticoretaggio si era maggiormente conservato. Qui le pittore-sche strade dei distretti delle geishe, i vecchi quartieri delpiacere, ricordavano più che in altri posti il Giappone illu-strato sulle stampe ottocentesche. Kyoto era la sola città incui vigeva ancora un rigido addestramento delle geishe e incui le loro tradizioni si erano conservate.

Volevo sapere quali donne si celassero in realtà dietro aquelle facce dipinte, conoscere meglio quel loro affasci-nante chiacchiericcio e il loro eterno sorriso enigmatico,convinta che la geisha fosse una dispensatrice di sogni, cheil suo fosse un nebuloso mondo romantico creato per lagioia e il divertimento degli uomini, in cui anche il piùsquallido impiegato poteva sentirsi re. Non avevo nessunaintenzione di cancellare quell’illusione o di profanare ilsacro recinto, però, da donna, mi chiedevo da quale passa-to arrivassero le geishe. Chi erano i protagonisti di un talemodo di vivere nel Giappone moderno? Se per gli uominiera un mondo fantastico, chi erano le donne impegnate acreare questo mondo? Confidavo nella possibilità di diven-

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tare amica delle geishe e di entrare in quel loro mondo suigeneris.

Per un paio di decenni avevo vissuto, discusso, viaggia-to e sognato a occhi aperti in Giappone, usando il prismadel passato per filtrare le mie esperienze in un paese chespesso appariva tanto brutto da inorridire. Mi ero calatanelle sue leggende coinvolgenti, traboccanti di eroi, di esse-ri malvagi e di belle maliarde cantate in una poesia tantoscarna quanto evocativa, nei drammi e nella letteratura,come la leggenda della femmina fatale per antonomasia,Ono no Komachi, la più bella donna del mondo, o quelladi Narihira, il grande amante che faceva strage di cuorifemminili, oppure quella delle cortigiane di Heian che nelX secolo fecero dell’amore l’essenza stessa della vita, da stu-diare, coltivare e perfezionare come una rara forma d’arte.Le geishe erano le eredi di questo passato romantico e iosperavo di verificare che questa tradizione non fosse stataconfinata esclusivamente nel regno dell’immaginazione onei polverosi tomi degli eruditi.

Ma all’alba di un nuovo millenio c’era ancora posto per legeishe nella patria dei Nintendo, dei Sony, dei Nissan e degliHonda? Numerosi articoli su giornali e riviste avevano av-vertito che ormai si trattava di una specie protetta, se non giàcompletamente estinta. Anche se avevo avuto modo di in-contrare qualche geisha nei piccoli paesi di provincia doveavevo abitato durante i miei primi anni in Giappone, avevoraccolto solo indizi deboli e confusi del loro mondo. E seanche fossi riuscita a entrare in confidenza con loro, quelleche avrei conosciuto sarebbero state le “vere” geishe oppureincerte ombre che fingevano di essere reali?

Resta il fatto che per caso avevo preso alloggio non soloin un quartiere di geishe, ma in una casa che fino a pochianni prima era stata la loro abitazione.

Ancor prima di sbarcare a Kyoto, avevo scoperto che ilconcetto stesso di geisha celava qualcosa di stranamente

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inquietante. Sull’aereo che mi portava nell’arcipelago, avevoaccennato a un giapponese che mi sedeva accanto la miaintenzione di effettuare ricerche sulle geishe; subito quelloche mi era sembrato un gentile e raffinato accademico (miaveva detto di essere uno specialista di ergonomia delleautomobili), si lasciò andare a un profluvio di ingiurie.«Fujiyama», aveva ringhiato, quasi sputando questa parolache di solito gli stranieri usano erroneamente per riferirsial monte Fuji e che invece per i Giapponesi rappresentail simbolo della nostra incapacità di capire il loro paese.«Fujiyama, geisha! Stereotipo, pregiudizio!» Non avevorivelato nulla sul perché del mio interessamento verso legeishe, ma la sola idea che una straniera osasse anche sol-tanto pensare di scrivere sull’argomento, lo faceva schiu-mare di rabbia.

Un altro straniero aveva già fatto una cosa simile, ArthurGolden, il cui romanzo Memorie di una geisha aveva ideal-mente trasportato un’intera generazione di lettori occiden-tali nel mondo delle geishe del distretto di Gion, intornoagli anni venti del XX secolo. Il libro di Golden non eraancora stato tradotto in giapponese, ma nel frattempo inoccidente era scoppiata la geishamania. Il mondo dellamoda, ispirandosi all’eroina di Golden, Sayuri, aveva risco-perto il fascino della femminilità. Le collezioni del 1999proponevano abiti avvolgenti in stile kimono che nascon-devano tutto il corpo, alludendo ambiguamente a ciò chenon poteva essere disvelato. Quell’estate Madonna feceun’apparizione ai Grammy Awards indossando un abitostraordinario molto simile a un kimono, con lunghe mani-che abbondanti e un obi di plastica. Sarebbe stato difficileimmaginare qualcosa di più lontano dall’indumento tradi-zionale, eppure a Tokyo non si parlò d’altro.

Il mio compagno di viaggio non era un eccentrico iso-lato. Con mio grande stupore, appena confessavo ai giap-ponesi la mia intenzione di effettuare ricerche sulle geishe

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e sulla loro cultura, assistevo a reazioni sgarbate, in un paesenotoriamente cortese e civile. Questi signori stigmatizzava-no il mio interessamento per un aspetto così banale, volga-re e obsoleto della loro cultura.

Un’insegnante di shamisen, una gentile signora cheviveva ai margini di quel mondo, mi chiese con garbataperplessità come mai ci tenessi tanto a scoprire il “latooscuro e cattivo del Giappone”. E quando mi recavo inlibreria mi era difficile trovare libri sulle geishe. C’eranomolti testi sullo Yoshiwara, lo sfavillante quartiere del pia-cere di un tempo, le cui languide cortigiane sono stateimmortalate nelle eleganti stampe di artisti come UtamaroKitagawa, ma forse solo perché lo Yoshiwara non esistevapiù. Essendo stato ripulito, ormai oggetto di artisti o studiaccademici, non era più minaccioso, non aveva più aggan-ci con il Giappone contemporaneo. Si trovava qualcosaanche sulle “donne di conforto” e sulle schiave del sesso,sulle giapponesi vendute nel Sud-Est asiatico come pro-stitute e sulle donne del Sud-Est asiatico a loro volta ven-dute e costrette a prostituirsi in Giappone. Ecco argo-menti su cui non si poteva tacere, che dovevano essereaffrontati con il giusto sdegno del Duemila. E sulle gei-she? A parte qualche eccellente testo in inglese, poco onulla.

Quando nominavo le geishe ad amici e conoscenti diTokyo, quasi tutti si defilavano affermando di non cono-scerne nessuna. Ma non era vero: qualcuno, infatti, m’invi-tava in disparte, mi faceva sedere e mi spiegava che le geisheerano danzatrici, musiciste, intrattenitrici e conversatriciche occupavano una specifica nicchia nei massimi livellidella società nipponica. Non erano assolutamente prostitu-te, né di alto né di basso bordo. Dopodiché mi suggerivauna qualche geisha che avrebbe potuto stimolare il miointeresse e, dettaglio non trascurabile, lasciava intendereche avrei potuto avvicinarla usando il suo nome.

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Primi giorni a Kyoto

Dormivo sdraiata sul pavimento della piccola cameraquando, in quella mia prima mattina di Kyoto, fui sveglia-ta da strane grida, quasi animalesche. La luce del sole pene-trava attraverso le veneziane, dando risalto a mulinelli dipulviscolo sfavillante. Uscii sul balcone e vidi un bonzomendicante in tonaca nera e sandali, immobile, davanti aun piccolo altare, il volto nascosto sotto un casco di vimini,che teneva tra le mani la ciotola delle elemosine. Di lì apoco si allontanò con passo lento, lanciando un grido ditanto in tanto. La strada prese lentamente ad animarsi. Unadonna in sottoveste scivolò fuori di casa per spolverare l’al-tare e ornarlo con fiori e frutti.

Un gruppo di ragazze in yukata (un semplice kimono dicotone), con acconciature complicate ma con il viso pulitoe struccato, si radunò davanti al tempietto; quindi entròzoccolando in un grande edificio di cemento.

Cercai un posto per fare colazione e lo trovai in una caf-fetteria lungo la strada. All’interno altoparlanti diffondeva-no un jazz orecchiabile. Il padrone, calvo e inquieto, tam-burellava sul banco mentre preparava il caffè con unamoka americana. La moglie, affabile, paffuta e sorridente,imburrava fette di soffice pane tostato. Il locale era affolla-to di donne che prendevano la colazione sfogliando gior-nali e chiacchierando.

Poco dopo, mentre girovagavo nel quartiere, mi persi inun dedalo di vicoli con casette di legno così stipate che lapenombra era trafitta da pochi raggi di sole. Di tanto intanto il rumore di uno scooter irrompeva in un silenziopressoché assoluto. Non mi ero mai trovata in un posto delGiappone così poco sfiorato dal trascorrere del tempo. Misembrava di essere ripiombata in piena era preindustriale.

Le zone destinate alle geishe o hanamachi (città dei fiori)

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erano cinque, tre delle quali si trovavano sulla sponda estdel fiume Kamo, che scorreva ampio e scuro a due minutia piedi dalla mia locanda. Questi tre quartieri, Gion, il piùfamoso ed elegante, Gion Higashi (Gion est) e Miyagawa-cho, confinavano a nord e a sud con due arterie di grandetransito, la Sanjo e la Gojo (Terza e Quinta strada). Il centronevralgico della zona era la Shijo (Quarta strada), occupatain ogni dove dalle botteghe che vendevano tutti i parafer-nali del mondo delle geishe, spille e monili per capelli, pet-tini di tartaruga, ventagli, zoccoli, tessuti per confezionarekimono, pittura bianca per il viso, bastoncini di rossetto alcartamo, olio di camelia, dolcetti di zucchero, riso e fagioli.All’estremità della strada che affacciava sul fiume, si ergeval’imponente teatro kabuki Minami-za, mentre all’altra face-vano bella mostra di sé il massiccio porticato dipinto dirosso, i templi, la pagoda e i vasti prati del santuario di Ya-saka. All’orizzonte si stagliavano le verdi e impenetrabiliColline di levante, le Higashiyama.

Il fiume separava questo piccolo universo dalla città mo-derna, con il suo traffico convulso, i grandi magazzini conl’aria condizionata, i neon abbaglianti e la gente perenne-mente di corsa. Di là dal fiume e di fronte a Gion si trova-va la quarta delle cinque hanamachi, Pontocho, un vicolet-to pittoresco zeppo di ristoranti, sul retro dei quali erapossibile in estate pranzare, bere sakè e godersi una brezzarinfrescante su apposite piattaforme costruite sulle acquedel Kamo. Trascorsero parecchi giorni prima che potessivisitare il quinto e ultimo quartiere, Kamishichiken (lette-ralmente, le sette case al nord), nel settore nord-occidenta-le della città. Si rivelò il più affascinante, un paio di stradi-ne intime e silenziose, con case buie e ricche, che salivanocurvando dolcemente fino alle lanterne di pietra e ai gelsidel santuario di Kitano.

Quella sera avrei dovuto avere il mio primo incontro conuna delle grandi dame del mondo delle geishe. Avevo spie-

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gato al telefono che ero amica di un amico, un importanteuomo d’affari che qui chiamerò signor Suzuki. Le geishenon cercano pubblicità, la temono come una malattia, laloro professione è basata sulla capacità di mantenere i se-greti. Molte di loro sono state amiche degli uomini più po-tenti della nazione, spesso per tutta la vita, di signori cheamavano frequentare le loro case perché certi che le geishesarebbero state mute come pesci, qualunque cosa avesseropotuto ascoltare o vedere. Però ero al corrente che anche inGiappone contavano le conoscenze giuste. Grazie alle miepassate frequentazioni, ero fiduciosa che prima o poi sareiriuscita a penetrare in quel mondo chiuso.

Quell’anima gentile della moglie del locandiere si offrì diaccompagnarmi. Salì sulla sua bicicletta e mi guidò lungo illabirinto di strade, oltre le file di buie casette di legno conle lanterne accese sul davanti, mentre io arrancavo alle suespalle. In fondo a un vicolo, la signora si fermò indicando-mi una porta chiusa, poi si allontanò con discrezione. Mifeci coraggio e spinsi esitante il portone.

Al mio ingresso ebbi su di me tutti gli occhi degli avven-tori. Il barista gridò: «Irasshai! Benvenuta!».

La stanza era ben illuminata, l’arredamento ridotto a unbanco di mescita e ad alcuni divani di pelle sistemati in mododa creare qualche angolo d’intimità. Un’esile figura in kimo-no dall’aspetto imperiale mi salutò, mi offrì un whisky, poitornò a scherzare con un gruppo di vecchi un po’ rumorosi.Mi appollaiai goffamente su uno sgabello del banco e iniziaicol barista una conversazione di circostanza. Finalmente, lapadrona di casa venne a sedersi accanto a me.

«Allora la manda Ken-chan» disse, usando un diminuti-vo affettuoso. «Lo conosco da anni, da quando era bam-bino. Giocava sulle mie ginocchia».

Era difficile immaginare il grintoso uomo d’affari diTokyo che conoscevo mentre rimbalzava sulle ginocchia diqualcuno. La signora doveva essere sulla settantina. Era

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piccola e leggera come una farfalla, il tipo di donna chemigliora con il passare degli anni, un viso delicato, conlineamenti fini e pelle immacolata, senza traccia di rughe.Con il suo modesto kimono indaco dal delicato ricamo e icapelli raccolti in una crocchia perfetta, la padrona di casasi muoveva con grazia e disinvoltura.

«Allora... cosa desidera?» Parlava il dialetto di Kyoto,dagli ineffabili accenti raffinati e leziosi, dove tutto è accen-nato e nulla è detto chiaramente. Essendo appena arrivatada Tokyo, trovavo difficoltà a coglierne ogni sfumatura.

Mi lanciai in una goffa spiegazione. Come già sapeva,ero una scrittrice e speravo di poter pubblicare qualcosache descrivesse il mondo delle geishe, di conoscerne qual-cuna, giovane o all’apice della carriera, eventualmente vive-re come una di loro in una casa di geishe, osservare la lorovita dall’interno. Le dissi che qualora avesse potuto aiutar-mi, le sarei stata eternamente grata.

Non so come, ma vuotai il sacco. Lei rimase seduta insilenzio, guardando fisso davanti a sé.

«Mmh, ma come farà a capire il nostro shikitari?» doman-dò dopo una lunga pausa, storcendo un po’ la bocca.

«Shikitari?» ripetei. Andavo fiera del mio giapponese,ma quel termine mi era completamente nuovo.

«Vede? Non conosce nemmeno la parola.» E sorrise alabbra strette.

Avrei imparato in seguito che molte pratiche e usanzedel mondo delle geishe hanno una propria terminologia,una specie di gergo noto, per così dire, ai soli iniziati eincomprensibile alla maggioranza dei giapponesi. Altreparole che usano regolarmente, come shikitari, sono piut-tosto obsolete anche per orecchie nipponiche. Soltantodopo lunghe ricerche avrei scoperto che shikitari significausanza, modo di fare. In effetti, tra molte altre cose, avreivoluto appunto sapere qualcosa di più su questo shikitari.«Quanto prevede di fermarsi a Kyoto?» aggiunse.

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«Parecchi mesi» risposi innervosita; poi mi affrettai adaggiungere: «Però vivo da anni in Giappone. Sono arrivatapiù di vent’anni fa...».

«Io sono stata a Londra diverse volte» m’interruppe.«Ho conosciuto molti personaggi importanti, aristocratici,musicisti, cantanti... Tuttavia lei direbbe che non conoscougualmente l’Inghilterra, no?»

Azzardai con la maggior educazione possibile che gliinglesi non ragionavano propriamente così. A quel punto lasignora aggiunse, ignorando la mia risposta, che esistevanodiversi tipi di geishe. Alcune, come lei, erano nate a Gion.Lei era di terza generazione, sua madre e sua nonna eranostate geishe. Poi c’erano le geishe (lo disse incurvando lelabbra quasi impercettibilmente) che provenivano da altriluoghi. Pareva volesse insinuare che erano di tutta un’altraspecie. Tra le cinque hanamachi, Gion, Pontocho e Kami-shichiken erano le più antiche, da sempre distretti dellegeishe. Però io avrei dovuto sempre rammentare che GionEst e, peggio ancora, Miyagawa erano posti diversi, di infi-mo livello, quasi innominabili, abitati in passato dalle pro-stitute (pronunciò la parola con disgusto).

«Non vorrei mai vedere Miyagawa-cho accostato nellastessa pagina agli altri posti» affermò con trasporto.

Persino Gion, Pontocho e Kamishichiken erano diversi,con storie e shikitari totalmente differenti. Aveva conosciu-to molti occidentali, scrittori e giornalisti, che erano sbar-cati a Kyoto col mio stesso scopo, concluse. Non avevanocavato un ragno dal buco, tutti avevano rinunciato, comeprima o poi sarebbe successo anche a me.

«Può restare in questa città in eterno, ma non capirà maile sfumature del nostro modo di vivere.»

Bevvi pensierosa un altro sorso di whisky. Non avevomai incontrato una giapponese così risoluta. Nel frattempo,sui divani, i clienti urlavano e sghignazzavano, cravatte al-lentate, volti paonazzi.

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«Mama!» strillò uno di loro. Con il sorriso indulgente diuna madre per il figlio discolo, la mama-san, la mia in-terlocutrice, li raggiunse in silenzio e riempì loro i bicchie-ri, dispensando scherzosi rimproveri. Uno di loro, piutto-sto in disordine, mi si avvicinò per mettere alla prova il suoinglese.

In quel momento la porta si aprì. Un fruscio di seta e dibroccato, uno scalpiccio di zoccoli di legno e un lieve tin-tinnio di minuscoli campanelli, annunciarono la comparsadi una creatura che sembrava una bambola dipinta.

«Okasan, oki-ni!» salutò con voce stridula. «Grazie,madre». Trotterellò in equilibrio precario per la stanza sutrampoli alti almeno dieci centimetri e si fermò annuendo,sorridendo, lanciando risatine e coprendosi la bocca conuna mano.

«Oggi è il suo terzo giorno da maiko» mi spiegò lamama.

Rimasi impietrita, come capita a tutti coloro che per laprima volta si trovano al cospetto di una maiko. (Lette-ralmente maiko significa ballerina, ma può essere tradottocon apprendista geisha.) In seguito, con il passare deltempo, sarei riuscita a individuare i tratti di quei volti difanciulla sepolti sotto lo spesso strato di cerone bianco, main quell’occasione non potei fare a meno di osservare ester-refatta quella straordinaria apparizione. E non ero la sola:per un istante tutti là dentro ammutolirono.

Indossava un sontuoso kimono nero dal bordo ricamatocon un motivo policromo, marrone, bianco e verde, difoglie e steli di bambù intrecciati fra loro. L’abito era sci-volato sulle spalle, scoprendo uno strato di broccato rosso-carminio intorno al collo che interpretai come un secondokimono, ma che in realtà era un sottocolletto separato. Unalarga fascia di seta oro-pallido con ricami floreali, l’obi,l’avvolgeva come un corsetto, da sotto le ascelle giù finoalle anche.

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Ma la cosa più straordinaria era il viso, un puro ovalebianco, con le ali del naso e le orbite colorate di rosa, gliocchi sottolineati con del nero, le sopracciglia dipinte diun tenue marrone e il labbro inferiore trasformato in unasorprendente mezzaluna cremisi. Stranamente, il labbrosuperiore era bianco. Per mettere in risalto ancor di piùl’effetto maschera, non era stata dipinta una sottile strisciadi pelle vicino all’attaccatura dei capelli. L’acconciatura(«I capelli sono suoi, non porta la parrucca» precisò lamama), fissata con la lacca, sembrava un paesaggio di col-line e vallate, adorno di fiori, di monili d’argento, di nastrie piccoli pettini sparsi in un giardino nipponico in minia-tura.

Nel voltarsi disvelò una schiena mozzafiato, dipinta dibianco con tocco delicato. Non sapevo che il kimono siportasse così basso, con quella scollatura posteriore estre-mamente sensuale. Alla base del collo, zona particolarmen-te sexy per i giapponesi, spiccava un triangolo di pelle nondipinta, dall’erotizzante nudità.

Più che una donna era un’opera d’arte ambulante, unateoria di simboli erotici, diversa da un normale essereumano quanto un bonsai può esserlo dal corrispondentealbero in grandezza naturale. Le geishe sono state defini-te icone di femminilità e in questo caso sono da conside-rarsi immagini stilizzate e simboliche, con un significatodi bellezza e sensualità lontano anni luce dai canoni este-tici occidentali.

La maiko è un’attrice truccata per recitare una parte esarebbe assurdo identificarla con il suo ruolo; sarebbe unpo’ come credere che la diva di una soap opera sia real-mente il personaggio che interpreta.

Forse quel trucco risaliva a un’epoca in cui le geisheerano solite aggirarsi nella penombra delle case da tè, e sol-tanto i loro volti truccati splendevano nella semioscurità oalla luce tremolante e fioca delle candele. Un trucco adatto

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a trasformare la donna in una maga incantatrice, capace dicondurre gli uomini in un altro mondo, un mondo disogno. E anche adesso faceva sì che quella bambina, perchéin fondo quel travestimento non celava altro che una timi-da adolescente, esercitasse un potere e un fascino inspiega-bili. Era l’ambasciatrice della bellezza.

La maiko si sedette con difficoltà e con grande fruscio ditessuti sul bordo di un divano; l’enorme obi le impediva diassumere una posizione più comoda. La luce fredda eimpietosa del neon ruppe parzialmente l’incantesimo, met-tendo in evidenza le imperfezioni del cerone bianco spal-mato sul viso della fanciulla. Lanciai un’occhiata alla mama,con la speranza che m’invitasse a unirmi al gruppo, ma leisottolineò il suo diniego con una smorfia eloquente. Cosìascoltai in silenzio e incuriosita.

«Quando sono nati i tuoi genitori?» esordì un tipo ma-gro con i capelli grigi che le sedeva accanto, affascinato dal-la sua presenza.

Lei sorrise, fece un risolino, si coprì la bocca con la mano,poi squittì: «Ventinovesimo Showa», secondo il calendariogiapponese. Il 1944 secondo quello occidentale.

L’uomo gongolò come se la ragazza avesse appena pro-nunciato una brillante arguzia, e disse raggiante: «Showa29, come mio figlio!».

Lei, sorridente, prese una bottiglia di birra dal tavolo egli riempì il bicchiere. Passò poi da un cliente all’altro sem-pre riempiendo i bicchieri, ridacchiando e cantilenando«oki-ni!». Si sarebbe detto che il suo compito fosse soloquello di esistere. Aprire bocca era un optional. Dopodichégli avventori tornarono a chiacchierare tra di loro.

Passò del tempo. Infine la ragazza si alzò e la mama,chiocciando come una gallina con i pulcini, provvide subi-to a sistemarle il kimono e il pesante obi dorato, allineandoperfettamente i due capi d’abbigliamento che scendevanofino ai piedi.

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«Oki-ni! Oki-ni! Okasan, oki-ni!» ripeté la ragazza; poi,tra inchini e risatine, ticchettio di zoccoli e tintinnio di cam-panelli, guadagnò la porta retrocedendo a piccoli passi euscì. Senza di lei la sala appariva più oscura.

La mama-san

Sembrava un inizio promettente. E invece, con il passa-re dei giorni e delle settimane, iniziai a temere che non sareimai andata oltre. Incontravo le geishe, però restavo sempreun’estranea, non sarei mai passata attraverso lo specchio. Epiù la mia curiosità aumentava, più quel microcosmo midiventava indecifrabile.

Gli auspicati contatti si rivelavano vicoli ciechi. A voltequalcuno mi presentava un’ex geisha o una proprietaria dicasa di geishe.

«Oh, vorrei tanto aiutarla» dicevano. «Mi lasci riflettere.Chi conosco che possa farle conoscere delle geishe? La miavicina è un’okami-san, una proprietaria. Forse è disponibi-le. Non è di Gion, viene da fuori città. Però al momento lesue ragazze sono molto impegnate».

E io incalzavo discreta: «E le geishe e le maiko della suacasa? Mi domando se... Sarebbe forse possibile...».

«Troppo impegnate. Le geishe sono impegnate tutto ilgiorno. Seguono le lezioni, si recano alle feste. Non avran-no certo il tempo per parlare con lei. Però mi chiami la set-timana prossima, vedrò cosa posso fare».

Con poche speranze telefonavo la settimana dopo. Larisposta era sempre la stessa.

Tuttavia, ai confini di quel mondo, stavo stringendo ami-cizie. Tutti i giorni facevo colazione in quella caffetteria eormai la materna signora e suo marito jazzofilo si erano abi-tuati alle mie eccentriche usanze di straniera. Invece del

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surrogato della panna mi servivano, sorridendo per quellamia stravaganza, del latte vero per macchiare il caffè, e conbenevolenza mi porgevano fette sottili di pane tostato. Avolte annotavo qualcosa sul diario, altre chiacchieravo coni gestori o con le clienti.

Dopodiché, registratore e taccuino in borsa, mi avvia-vo. Talvolta mi fermavo nel negozio del signor Ishihara, ilparrucchiere. Di solito, al mattino, alcune maiko venivanoda lui per farsi fare l’acconciatura. Io me ne stavo sedutain un angolo e osservavo. Ishihara iniziava da una lunga efolta criniera e, mentre la cliente leggeva una rivista, laarricciava con bigodini di ferro, la pettinava con la paraf-fina, separava e annodava e tirava i capelli, v’infilava unacoda di pelo di yak e piccoli tamponi, poi aggiungeva na-stri e stringhe e spille, fino a ottenere una perfetta ac-conciatura. Più che un parrucchiere era uno scultore dicapelli. Nei momenti di pausa si sedeva a fare due chiac-chiere con me. Sapeva tutto quello che c’era da sapere sugeishe e relative acconciature, sulla storia e sul significatodei vari stili, e aveva addirittura scritto quattro libri sul-l’argomento.

Altre volte andavo a rintanarmi nel negozio di giocattolie oggetti di carta sulla Shijo, l’arteria principale, per ascol-tare il signor Sakai, un allegro settantacinquenne. La suafamiglia possedeva quel posto dal 1862. Mentre rievocavai giorni in cui i risciò passavano sobbalzando e le ragazzeerano tenute in stato di semi-schiavitù, Sakai-san mi mostra-va le foto della sua geisha preferita e i floreali bigliettiniprofumati che lei gli aveva inviato.

Mi calai profondamente nella loro cultura. Letteral-mente la parola gei-sha significa persona delle arti, di talen-to, traducibile anche con artista. Prima di diplomarsi, unamaiko deve dedicare cinque anni allo studio della danza edella musica, e una che si rispetti continua a studiare pertutta la vita, perfezionando sempre più la sua tecnica. Men-

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tre passeggiavo per strada, molte volte sentivo il lamentososuono degli accordi provati e riprovati sullo shamisen.

Poco dopo il mio arrivo, le geishe di Pontocho si cimen-tarono in pubbliche esibizioni di danza. Il piccolo teatro,situato in una viuzza del distretto di Pontocho, era affollatodi donne in kimono scuri, forse proprietarie di case di geis-he, accompagnate dai loro anziani cavalieri, mariti, amici oclienti che fossero. Mentre il pubblico agitava i ventagli, ilcast tutto femminile si esibì in una versione ridotta delChushingura (Il racconto dei quarantasette ronin o samuraisenza padrone), un dramma popolare.

Poco alla volta mi stavo abituando alle melodie e ai ritmidella loro musica, dapprima piuttosto disarmonica per inostri gusti occidentali, mentre lo sguardo diventava piùsensibile, più capace di discernere la qualità e la levità deimovimenti. Pensai che recarmi alle lezioni di musica o didanza per le maiko poteva essere un modo per entrare nelmondo delle geishe. Tuttavia mi occorreva una presenta-zione. Feci un respiro profondo e telefonai alla severissimamama, la ringraziai di cuore per la sua gentilezza e le chie-si il permesso di passare a trovarla.

«Ma certo» rispose, educata quanto glaciale.In Giappone, prima di far visita a qualcuno, è necessario

procurarsi un regalo che dovrà essere rigorosamenteimpacchettato con carta che riveli alla prima occhiata il ne-gozio dove è stato acquistato e riposto in una borsa anch’es-sa rivelatrice. In base al luogo d’acquisto, il destinatario delregalo valuterà il tuo savoir faire e la tua rispettabilità. Per-ciò era di capitale importanza trovare il regalo adatto. Dove-vo portare dolci, oppure, da buona occidentale, un costosovino francese? Tutte le mie guide suggerivano una rinomatapasticceria sulla Shijo. Mi ci recai e acquistai una scatoladei dolci più pregiati, pasticcini di pasta di riso ripieni dimarmellata di fagioli rossi.

Arrivai puntuale all’appunatamento con il mio dono. Il

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bar era immerso nel silenzio, buio e vuoto (a parte il bari-sta che stava fumando una sigaretta appoggiato al banco).«Aspetti un attimo» disse mentre accendeva qualche neone mi offriva da bere. Aveva una faccia rotonda e piatta, lapelle scura, e occhi indagatori, vigili. Di età imprecisata, frai trenta e i cinquant’anni, ma candidato al ruolo dell’eternoragazzo. Tutti gli uomini di quel mondo erano impiegati,“dipendenti”, come avrebbe detto una geisha, al serviziodelle professioniste.

Il barista sembrava informato sul mio conto e sui mieiproblemi.

«Il mondo delle geishe non è del tipo sì/no» mi spiegò,senza riferirsi a nulla in particolare. «Se offre un dolce auna maiko, lei dice solo “oki-ni”, grazie. Non risponde “sì,grazie” o “no, grazie”».

Iniziavo a capire dove volesse andare a parare. Se avessidomandato qualcosa, nessuno mi avrebbe mai detto che eraimpossibile ottenerla, ma nel contempo nessuno mi avreb-be mai aiutata. Si sarebbe sempre espresso con qualcheparola di incoraggiamento, invitandomi a rifarmi viva. E ioavrei potuto telefonare per l’eternità, ma non avrei cavatoun ragno dal buco.

La mama era un classico esempio di quel modo di com-portarsi. Mi avevano riferito che era una delle geishe piùpotenti di Kyoto e che, come sua madre prima di lei, era statafamosa per la sua bellezza. In effetti era ancora straordinaria-mente graziosa. Si diceva che avesse un danna (un clientefisso), in realtà un marito che mandava avanti la baracca.«Stanno insieme da decenni» mi aveva spiegato la moglie dellocandiere. Ancora mi chiedevo da dove le venisse quellatempra d’acciaio. Nei molti anni passati in Giappone avevoconosciuto molte donne, quasi tutte sposate, persone forti,con notevole autostima, eppure felici di avere per amica unastraniera. Non avevo mai incontrato tanto sospetto e tantaintransigenza. Sembrava quasi che donne di tal fatta si fosse-

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ro costruite un loro mondo e che per loro io fossi solo unamosca, una presenza fastidiosa. Non avevano bisogno di me,volevano solo scacciarmi con un gesto della mano.

Ecco finalmente la mama, deliziosa e impettita comesempre. Accettò i miei prelibati dolci degnandoli appena diun’occhiata; poi mi chiese che cosa volessi bere.

«Ocha de mo ii desu, il tè va benissimo» risposi.«Che modo rozzo di parlare! Deve dire: “Ocha o itada-

kimasu, vorrei del tè, per favore”» sbottò lei, incenerendo-mi con lo sguardo.

Mi morsi la lingua e mi scusai a lungo, ringraziandolaper essere stata così gentile da correggermi. Non avevoattenuanti, il fatto che non stessi parlando la mia lingua eraininfluente: le geishe non ammettono il minimo errore.Assunsi un atteggiamento umile e deferente annuendo etenendo il capo chino, attendendo il momento giusto perinoltrare cortesemente la mia richiesta. Le comunicai cheassistere a qualche lezione al Kaburenjo, il luogo delle eser-citazioni di musica e di danza che ospitava aule, un teatro egli uffici del sindacato, il centro nevralgico del distretto,forse avrebbe facilitato le mie ricerche.

«Adesso le insegno qualcosa» mi disse, diventando piùcordiale. «L’ultima volta che ci siamo viste ha chiesto trop-pe cose, voleva conoscere geishe, maiko, vivere in una casa,fare questo, fare quello. Deve imparare a essere paziente.Un passo alla volta».

«Un passo alla volta» fece eco il barista, che sembravaavere più voce in capitolo di quanto avessi supposto.

«Quando incontra una maiko non deve chiedere: “Per-ché sei diventata una maiko? Che studi hai fatto?”. Dovràdire invece educatamente...» parlò con voce da ragazzina«“se non ti dispiace, posso domandare...?”. E solo una cosaalla volta. Lei chiede troppe cose insieme!».

Prese un biglietto da visita, ci scrisse sopra qualche ele-gante ideogramma.

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«Porti questo al signor Kimura agli uffici del sindacato delKaburenjo» aggiunse. «Sentiamo un po’ che cosa gli dirà».

«Be’, credo che potrei presentarmi, dirgli che ho vissutoin Giappone; poi gli farei vedere i miei libri e lo rassicure-rei che me ne starei seduta in silenzio a seguire qualchelezione; eventualmente potrei conoscere una maiko e farcidue chiacchiere, parlare con gli insegnanti...».

«No, no, dica solo poche cose: “Ho scritto questi libri,ce ne sono anche altri ma ho solo questi; se fosse possibilesarebbe veramente meraviglioso seguire una lezione di dan-za...”. Non aggiunga altro. Poi la volta successiva farà un’al-tra richiesta. Capito?».

Ripetei ciò che la signora mi aveva appena detto convoce da bambina, deferente e umile, ringraziando e scusan-domi mille volte. Iniziavo a capire. Nell’ordine gerarchicodel mondo della geisha, io ero l’ultima ruota del carro.Eccomi lì, una donna che cercava di entrare nella comuni-tà ignorando ogni sua regola. Fossi stata un uomo, sarebbestato naturale essere considerato un estraneo. Sarei entratodi diritto nella categoria “cliente”. La geisha si sarebbedimostrata indulgente, avrebbe amoreggiato con me, miavrebbe donato attenzioni e fascino. Invece, in questo uni-verso femminile chiuso e segreto, non c’era spazio per unadonna che non sapeva in che modo comportarsi.

Per farla breve, avevo bisogno di esercitarmi, e questoera il motivo della durezza della mama. Chiunque avessecercato di entrare in quel mondo dal basso, come shikomi,domestica, lo stadio pre-maiko, avrebbe dovuto sopporta-re ben di peggio. Il mio tragitto doveva essere all’incircasimile. Stavo per affrontare l’addestramento di base dellageisha, come sarebbe stato richiesto a una novellina appe-na giunta dalla campagna.

Comunque, anche se forse la signora non sarebbe statad’accordo, mi sembrava d’imparare. Vivere tra le geishe,avere rapporti quotidiani con loro, significava assorbire i

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loro modi di fare. Scoprii che mi atteggiavo in manieradiversa, camminavo a piccoli passi, m’inchinavo, annuivo,sorridevo fino a sentir dolore. Fatto ancor più sconcertante,quando m’intrattenevo con giapponesi estranei alle geishee al loro mondo, dopo un po’ mi rendevo conto che parla-vo con gentilezza esagerata, con accenti striduli, sdolcinati,vellutati: «Oh, sarebbe tanto gentile da parte sua, graziemille!».

Il giorno dopo, agitatissima, mi recai al grande Kabu-renjo di cemento con in borsa il prezioso biglietto da visita.Era un palazzo senza pretese, nonostante ospitasse l’augu-sto sindacato delle geishe. Le mie speranze si rafforzaronoquando scoprii che il signor Kimura era piuttosto giovane,al massimo sulla cinquantina. Portava i capelli cortissimi,occhiali e un completo da burocrate, e mi fece accomodarechiedendomi bruscamente cosa desiderassi. Ripetei il di-scorso preparato con toni quasi da lacchè, volli appariremodesta e per niente pretenziosa.

«Impossibile» rispose. Nonostante tutti i miei sforzi, néla mama né altri potenti si prendevano la briga di essereeducati.

«Chiedo ai piani alti, ma sono certo della loro risposta»aggiunse accigliato; poi mi indicò la porta. «Riprovi la pros-sima settimana, se vuole» concluse, facendomi capire dilasciar perdere. Depressa, tornai nella mia stanza soleggia-ta a leccarmi le ferite e a riflettere sul da farsi.

I pasticcini più buoni di Kyoto

Appena avevo tempo prendevo lezioni di cerimonia del tè.Anni or sono, quando abitavo in un paesino di provincia,avevo studiato la scuola Urasenke di cerimonia del tè; così,giunta a Kyoto, ricominciai, convinta che potesse servirmi

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per conoscere qualcuno e approfondire le mie ricerche. Madopo la prima lezione ricordai anche quanto fosse piacevo-le, tanto che si trasformò in un’abitudine settimanale.

Le lezioni si tenevano in una casa a pochi passi dallalocanda. Sulla porta mi toglievo le scarpe e m’infilavo cal-zini bianchi, poiché è impensabile camminare a piedi nudisui tatami e indossare calzini colorati è segno di volgarità;poi salivo di sopra, facevo scorrere la porta di carta, m’in-chinavo e salutavo l’insegnante e gli altri allievi. L’insegnan-te, un giovane piacevole e ricco di carisma, possedeva, percosì dire, una doppia personalità. Quando teneva la lezioneindossava un hakama (il formale kimono maschile, inami-dato e con le pieghe) e ostentava l’atteggiamento del sensei(maestro), spietato nel dare ordini e nel correggere il mini-mo errore. Nella vita civile era un giovanotto alla moda chelavorava come art director per un rotocalco.

La cerimonia del tè è caratterizzata da movimenti bendeterminati e ritualizzati, eseguiti con animo sereno e rac-colto, e comporta tra l’altro il servire e il consumare cibi ebevande. È a metà strada tra il tai chi e una messa cattoli-ca, ma in scala ridotta e più intima, ed è un modo meravi-glioso per imparare a comportarsi in un ambiente giappo-nese, a camminare su un tatami in kimono, a far scivolarecon sincronismo i piedi, ad aprire e chiudere una portascorrevole con grazia e a inchinarsi e ad alzarsi con elegan-za. Essendo fuori esercizio, ero l’asino della classe e dove-vano ricordarmi persino le cose più elementari. Per miafortuna il maestro era un Urasenke, quindi almeno i detta-gli – tipo quante pieghe avrebbe dovuto avere un tovaglio-lo di seta – non avrei dovuto reimpararli. Un giorno, men-tre mangiavamo una torta di marmellata di fagioli ebevevamo tè verde bollente del colore delle foglie in pri-mavera, la conversazione cadde sui vari tipi di tè. Tra glistudenti c’era la signorina Koyama, la cui famiglia colti-vava, tritava e vendeva tè da generazioni. Nonostante i jeans

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sbiaditi e i due orecchini per lobo, sapeva esattamentecome interpretare le diverse versioni di cerimonia del tè enessuno si vedeva costretto a ricordarle di tenere i gomitilontani dal corpo.

«Per il nome, Ippodo, per la storia, Kamibayashi, per ilgusto, Koyama, così diciamo a Kyoto» ci raccontò il mae-stro, citando i tre negozi più famosi di cerimonia del tèdella città. Poi elencò le quattro pasticcerie più prestigiose.Con mio grande sollievo, c’era anche quella in cui avevoacquistato i pasticcini per la mama.

«Conosci Kanshindo?» mi domandò. «Dovresti andarciin questa stagione. È molto vecchio, ma è lì che le geishecomprano i dolci. È famoso per il suo mizu yokan (una sci-pita gelatina di fagioli rossi che si mangia d’estate). È moltodifficile da scovare, solo quelli di Gion lo conoscono. Se gliporti il mizu yokan di Kanshindo le geishe rimarranno mol-to sorprese e ben impressionate. Ti spiego dove si trova?»

E disegnò una piccola mappa.Dovevo ritornare dalla mama per ringraziarla di avermi

presentato al signor Kimura. Il fatto che fosse stato un insuc-cesso era irrilevante. Le telefonai, fissai l’appuntamento e mimisi alla ricerca della pasticceria. Risalii la Shijo prestandoattenzione ai numerosi vicoli laterali, ma niente ricordava laspiegazione del maestro. Poi notai uno stretto varco tra dueedifici, appena sufficiente per consentire il passaggio di unapersona. Conduceva in un vicolo buio e angusto. Lo percor-si per un breve tratto, finché trovai una bancarella che espo-neva fette di gelatina rosso scuro di fagioli azuki, conservatein una specie di vetrinetta. Ne comprai un paio, le incartaicon carta Kanshindo e le misi in una borsa Kanshindo.

La sera stessa andai dalla mama. Arrivai puntuale cometutte le altre volte, e come tutte le altre volte lei non c’era.Quando infine apparve, le consegnai i pasticcini con uninchino e mormorai dimessa: «Si tratta di un regalo danulla, ma la prego di accettarlo».

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Lei afferrò la piccola borsa con un sorriso radioso.«I pasticcini più buoni di Kyoto! Vedo che sta imparan-

do, poco alla volta» esclamò.Avevo anche imparato a non domandare altro. La rin-

graziai ripetutamente per la sua squisita gentilezza e peravermi insegnato così tante cose, mi scusai per gli erroricommessi e poi chiacchierai del più e del meno per qualcheminuto. Mi congedai soddisfatta del mio comportamento.Non avrei mai immaginato che dei semplici pasticcini po-tessero riscuotere un tale successo.

Da quella sera, ogni volta che facevo visita a qualcuno,prima mi recavo in pellegrinaggio da Kashindo, di cuidivenni una cliente fissa. Le due signore in grembiule chegestivano la bottega iniziarono a scambiare qualche chiac-chiera con me. E quando portavo i dolci di Kashindo allamama, lei se ne usciva con esclamazioni di gioia, oppure ap-provava annuendo, quasi a dirmi: «Ah-ah, vedo che final-mente hai capito come va il mondo». Ero riuscita a trovareuna delle chiavi della fortezza.

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